Un Caso Personale di LadyNorin (/viewuser.php?uid=1179372)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4: ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5: ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6: ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7: ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8: ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9: ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10: ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11: ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12: ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13: ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14: ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15: ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16: ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17: ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18: ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19: ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20: ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21: ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22: ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23: ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24: ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25: ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26: ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27: ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28: ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29: ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30: ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31: ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32: ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33: ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34: ***
Capitolo 35: *** Capitolo 35: ***
Capitolo 36: *** Capitolo 36: ***
Capitolo 37: *** Capitolo 37: ***
Capitolo 38: *** Capitolo 38: ***
Capitolo 39: *** Capitolo 39: ***
Capitolo 40: *** Capitolo 40: Fine. ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1: ***
Capitolo
1:
***
[Revisionato]
John
Watson aveva messo più distanza possibile da Baker Street.
La
decisione che lo aveva spinto a fare i bagagli era molto semplice:
Sherlock Holmes.
Dopo
tutto ciò che era successo, non riusciva più a
sopportare di
restare ancora lì, in quella casa, con quella presenza
costante e
perenne.
Si
era sentito come se avesse ricevuto una pugnalata nella schiena. Come
un tradimento.
Non
riusciva più nemmeno a guardarlo in faccia dopo la morte di
Mary.
E
sì, per un po’ lo aveva anche odiato.
La
parte irrazionale di se stesso ancora si trovava in quello stato, ma
ogni tanto faceva capolino quella razionale, e provava a dargli dei
suggerimenti.
Come
quando gli aveva suggerito, durante le sue elucubrazioni a tarda
notte, che magari, non era stata tutta colpa di Sherlock. Che nessuno
aveva costretto Mary a mettersi in mezzo, e poi lui aveva
già
rischiato la pelle per lei. Lei lo aveva fatto perché voleva
troppo
bene a Sherlock per lasciarlo morire.
Già,
gli voleva troppo bene… Era questo il problema delle persone
che
volevano troppo bene a Sherlock. Che
poi finivano puntualmente coinvolte nelle sue cazzate e ne pagavano
il prezzo.
Certo
lui no, ormai ci aveva fatto l’abitudine, anzi, provava quasi
una
sorta di insano piacere nel mettersi in situazioni di pericolo
mortale. Ma sapeva quello che faceva. Sceglieva per se stesso.
Prima.
Dopo
era diventato un marito, e dopo ancora un padre. Ora doveva scegliere
la cosa migliore per la sua famiglia, e Sherlock Holmes non era tra
queste opzioni.
Tuffò
il cucchiaino di plastica color rosa maialino nella pappa mezza
liquida e poco invitante di Rosie, e lo fece volare come un aeroplano
di carta.
«Ecco
che arriva il volo serale diretto a Londra Gatwick. Chiediamo alla
torre di controllo il permesso di atterrare.»
avvicinò il cucchiaino pieno di pappa alla piccola bocca
della
bambina, che la aprì emettendo dei gridolini di
felicità e battendo
le manine. Almeno lei aveva fame.
Era
stato un periodo difficile per tutti, e ne aveva risentito anche
Rosie. Avere solo pochi mesi non le impediva di sentire la mancanza
della madre.
John
ci provava con tutte le forze a distrarla, ma per almeno un paio di
mesi la piccola era stata stressata e nervosa, piangeva praticamente
sempre. Riusciva a calmarla solo dopo ore passate a cullarla in
braccio, e dopo si addormentava sul suo petto, sfinita. Ovviamente
non ci pensava proprio a spostarla, quindi rimaneva sul divano o sul
letto finché lei non si svegliava, cosa che capitava
puntualmente
dopo quattro ore, e via a ricominciare tutto da capo.
Nemmeno
la notte andava meglio. Alla fine arrivava la mattina e finalmente
crollavano entrambi, sfiniti.
Ultimamente
però era tornata ad avere appetito, la notte dormiva e i
pianti
erano calati drasticamente, segno
che le cose andavano meglio. Sarebbero andate meglio. Dovevano andare
meglio, per entrambi.
Ovviamente
non significava dimenticare Mary, lui le avrebbe sempre parlato della
madre, ne era sicuro. Ma ora dovevano farsi un altra vita, lontani da
chi creava loro solo pericoli e
problemi.
Quindi
no, non se ne pentiva affatto di essersene andato il più
lontano
possibile da lui,
e no, non avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura che in
realtà gli
mancava. Terribilmente. E poi comunque ormai non poteva più
tornare
sui propri passi, non dopo quello che gli aveva detto. E Sherlock
doveva aver recepito bene il messaggio perché non si era
più visto
né sentito. Meglio
così, non aveva tempo di badare anche a ui.
Mentre
John si stava impegnando nell’auto commiserazione, il
cellulare
appoggiato sul tavolo cominciò a vibrare
all’impazzata, tanto che
si mise a girare su se stesso.
Allungò
il collo e vide il nome di chi chiamava “Lestrade”.
D'accordo
forse non aveva smesso del tutto con la vecchia vita. Ogni tanto se
capitava lavora ancora per il detective di Scotland Yard.
Lasciò
il cucchiaino nel piattino abbinato di Rosie, e prese il
telefono.
«Si
Lestrade?»
rispose quasi con tono eccitato. L’idea di uscire di casa per
aiutare in un caso di omicidio in fondo lo rendeva felice. Ok era una
cosa orribile da pensare, però avrebbe dato qualunque cosa
per usare
un attimo il cervello in altro che non fosse cercare di far terminare
i pianti di un bambino.
«Devi
venire al parcheggio coperto che c’è a Marble
Arch. Quello dopo la
fermata della metropolitana.»
«Ah
si ho capito quale.»
«Ti
aspetto. Sbrigati.»
non ebbe nemmeno il tempo di chiedere a Greg chi fosse il morto
perché aveva già chiuso la comunicazione. Sospirò
e si alzò, lasciando che la sedia strisciasse con le gambe
sul
pavimento di vecchio limoneum.
Poi
si chinò e diede un bacio sulla testolina di Rosie. Adorava
il suo
odore. Poteva stare ad annusarla per tutto il tempo quando si
addormentava sul suo petto.
«Va
bene piccolina chiamiamo la baby sitter.»
Rosie
squittì eccitata a quelle parole. A volte John era convinto
che lei
lo capisse benché avesse solo pochi mesi. Assurdo.
Gli
ci volle un po’ prima di partire di casa, e un'altra mezz'ora
per
attraversare la parte di città che lo separava dalla scena
del
crimine.
Il
parcheggio coperto era situato prima rispetto l’uscita della
metro,
il che aveva per fortuna evitato che venisse chiusa dalla
polizia.
Dei
poliziotti con i gilet giallo fluo fermarono il suo taxi e lui scese,
dopo aver lasciato una banconota da venti sterline
all’autista, che
fu ben lieto di tenersi il resto.
Mostrò
il tesserino, e i bravi agenti lo lasciarono passare senza proferire
parola. Era una uggiosa mattina di autunno e piovigginava a tratti.
Il cielo era bianco, ricoperto di nuvole grigie.
Come sempre.
Passò
sotto il nastro giallo che era stato messo per chiudere il viale a
fianco al parcheggio. C’erano altri agenti che controllavano
segni
di tracce; e poco più in là, al coperto,
c’era Greg
Lestrade.
Richiamò
la sua attenzione con un “ehi Greg” e
sollevò una mano
sventolandola. Il detective sollevò lo sguardo dal taccuino
e gli
fece segno di avvicinarsi.
John
non perse tempo.
«Allora
che abbiamo?»
chiese curioso.
Il
corpo della vittima si trovava tra una colonna di cemento, un
parcheggio vuoto e un SUV nel posto dopo. Ora che si era avvicinato a
Greg poteva vederlo bene.
Quello che doveva essere decisamente un uomo adulto, si trovava
riverso a terra, in posizione supina. Ed era un vero casino.
«Beh
ancora non si sa molto, serve l’autopsia lo sai. Ma credo lo
abbiano pestato a morte.»
Il tono di Greg era quasi rassegnato, come se la violenza con cui
aveva a che fare ogni giorno non bastasse per capire che il mondo era
un posto malvagio.
John
si chinò sul povero malcapitato.
Sotto
c’era una grossa chiazza di sangue quasi rappreso, doveva
essere li
da un po’.
Era
girato pancia sotto quindi non poteva vederlo in faccia.
Aveva
i capelli imbrattati di sangue e appiccicati tra loro, si vedeva
almeno una ferita alla testa. Quella che doveva essere una camicia di
un qualche tonalità di azzurro era strappata in
più punti, sotto si
vedevano altri segni, era tutto un casino di lividi, tumefazioni, e
ferite sanguinanti.
Lestrade
gli allungò un paio di guanti in lattice. Gli
infilò e mise una
mano sotto il corpo, per girarlo.
Se
il resto era un casino, la faccia era praticamente
irriconoscibile.
«Qualche
documento?»
Greg
scosse la testa.
«Niente
di niente.»»
«Una
rapina finita male?»
azzardò John.
«Nah
sembra una cosa troppo personale. Come se l’animale che ha
ridotto
così questo poveretto se la sia
presa per qualcosa e abbia
voluto dargli una lezione.»
«Non
saprei, allora perché portargli via i documenti?
Te
lo ricordi il caso di Stubbylee Park?»
«Ma
chi i due ragazzi massacrati al parco dal branco? Nah non mi sembra
questo il motivo. Guarda com’è vestito, ha delle
scarpe che
costano minimo duecento sterline.»
«E
che vuol dire, magari a qualcuno ha dato fastidio proprio per
questo.»
«Io
ti ripeto che è personale.»
John
fece
una smorfia ma continuò ad esaminare la vittima.
Aveva
il lato destro del viso gonfio, l’occhio era nero e aveva
assunto
le dimensioni di una pallina da golf, sul lato del labbro
c’era una
grossa spaccatura che lasciava in vista i denti rossi per il sangue.
Il lato destro era messo un pelo meglio. Il sopracciglio aveva un
taglio profondo e c’erano abrasioni sulla fronte,
probabilmente
dovuti all’urto con l’asfalto. Lo zigomo era di un
insano color
giallo e viola.
Abbassò
con due dita il colletto della camicia, inorridendo. Più
strisce di
diverse tonalità di viola scuro spiccavano sul collo.
«Credo
abbiano tentato di strangolarlo.»
«Scherzi?”
anche il tono di Lestrade era pieno di disgusto per tanta cattiveria.
Si chinò sopra
le spalle di John, per
poter vedere meglio.
«Vedi?»
John toccò quei segni con la punta delle dita.
«Secondo
te quanti anni ha?»
chiese Lestrade.
«Difficile
a dirsi con la faccia ridotta in queste condizioni, ma
direi… Sulla
trentina. Anno più anno meno.»
«Con
che razza di animale schifoso abbiamo a che fare?»
«Non
ne ho idea ma dobbiamo sbrigarci a prenderlo.»
«Lo
hai più sento?»
l’improvviso cambio di discorso del detective lo aveva
lasciato
sorpreso, gli ci volle qualche secondo per capre di cosa stesse
parlando.
«No.»
tagliò corto sperando che la cosa finisse li.
Si
mise in ginocchio, accanto alla vittima. Prese a spostargli le
ciocche completamente appiccicate dal sangue, che si erano attaccate
alla fronte.
Con
una lentezza infinita sollevò l’unica palpebra che
era rimasta
abbastanza libera. Aveva gli occhi iniettati di sangue, e una pupilla
nera che lo stava fissando.
«Cazzo!»
balzò
in piedi talmente velocemente che Lestrade aveva lasciato cadere
tutto quello che aveva in mano e stava per tirare fuori la pistola
dalla
fondina.
«Cosa,
che succede?»
doamndò
Lestrade con tono allarmato.
«Chi
cazzo lo ha controllato?»
Greg
sbatte le palpebre, evidentemente
confuso.
«In
che senso?»
«Chi
ha controllato che fosse effettivamente morto!»
«Cosa?
Che vuol dire effettivamente morto? Non c’era più
polso!»
«E’
ancora vivo!»
John
quasi lo urlò, mentre cercava di capire il da farsi.
La
mascella di Lestrade
sembrò staccarsi e cadere a terra da quanto era sbigottito.
«Che
cazzo vuol dire che è ancora vivo! Merda!»
Il
detective tirò
fuori il cellulare da una delle tasche e compose il numero delle
emergenze, richiedendo
immediatamente un'ambulanza.
John
nel frattempo era tornato ad occuparsi della vittima.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2: ***
Capitolo
2:
***
[Revisionato]
Doveva
assolutamente cercare di liberargli le vie respiratorie.
Gli
aveva slacciato i primi bottoni della camicia, anche se alcuni erano
saltati via in precedenza e l’indumento era pieno di strappi
e
imbevuto di sangue.
«Dannazione qui è tutto pieno di sangue.
Deve essersi anche perforato un polmone.»
Avvicinò l’orecchio
al cuore. Rantolava, sembrava il suono di una schiacciasassi.
Gli
fece un molto breve massaggio cardiaco, il poveretto vomitò
una dose
di sangue, ma almeno iniziò ad emettere rantoli dalla bocca,
con il
petto che si alzava ed abbassava velocemente,
segno che più o meno stava respirando, ma con un polmone in
quelle
condizioni sarebbe durato poco, rischiava
inoltre di soffocarsi con il suo stesso sangue.
John
si passò una mano sul viso e Lestrade tra i capelli.
In quel
momento arrivarono i paramedici. Nemmeno si erano accorti delle
sirene dell’ambulanza.
Caricarono
la vittima riversa a terra,
su una barella e John diede loro tutto il resoconto di quello che era
accaduto e di quello che aveva fatto, spiegandogli che era un
dottore.
I paramedici si allontanarono, salendo
nell’ambulanza.
Fece ritorno da Lestrade.
«Non
ci posso credere. Quindi non abbiamo più un morto.»
L’investigatore
sembrava sconvolto.
«Non è detto che sopravviva. Era ridotto
male.»
Ora c’era una nuova macchia di sangue fresco insieme a
quello rappreso sull’asfalto
del parcheggio.
«Forse
questo è il caso di chiamarlo.»
John imprecò mentalmente.
Sapeva che Lestrade
avesse
ragione.
Avevano
bisogno di lui,
questo caso era troppo brutale perché lasciassero il
colpevole a
piede libero. Ogni minuto che passava qualche innocente rischiava di
fare una brutta fine.
Sospirò.
Non sentiva e non vedeva più Sherlock Holmes da un
anno.
«D’accordo.» prese il telefono, anche
se gli sembrò l’azione più difficile
del mondo, quell’aggeggio
sembrava pesasse dei chili,
e sbloccò lo
schermo.
Non
aveva cancellato il suo numero dalla rubrica, però lo aveva
bloccato, quindi sbloccò il contatto, e premette il tasto di
chiamata.
Diede le spalle a Lestrade, così non poteva vederlo
in faccia e leggere le sue espressioni, o avrebbe capito
tutto.
L’idea di risentire la voce di Sherlock gli
provocò un
brivido lungo la schiena.
Iniziò a squillare dall’altro capo.
Uno squillo. Due squilli. Tre squilli. Strano, di solito al terzo
rispondeva sempre se era per lavoro. Lasciò che andasse a
vuoto e
riattaccò.
Forse aveva visto il suo numero, per questo non gli
rispondeva… Si
voltò verso il
detective.
«Non
mi risponde.»
«Siete messi così male?»
Ignorò la
frecciatina.
«D’accordo lo chiamo io. Ma se divorziate i week
end gli passo con te.
Almeno il fine settimana voglio divertirmi
e lui non è capace.»
John gli rifilò un occhiataccia, a cui
il detective rispose con un sorrisetto. Sapeva di colpire nei punti
giusti. Bastardo.
Fu il turno di Lestrade
di
chiamare Sherlock.
John nemmeno si era accorto di starlo a
fissare, ma era troppo concentrato, cercava di percepire
la voce che avrebbe risposto dall’altro capo. Passarono
alcuni
squilli. Poi finalmente qualcuno rispose. Solo che non era la
voce
che si aspettava.
«Pronto? Sherlock?» chiese Lestrade,
già
stranito
da
quella situazione.
L’a
voce all’altro
capo rispose.
«Ward?
Scusa Ward perché stai rispondendo tu al telefono di
Sherlock? E’
lì con te?»
«Ma chi Sherlock Holmes?»
«No Ward, la
regina!»
Uno strano presentimento scivolò lungo lo stomaco di
John.
«No
capo l’ho trovato nel cassonetto qui di fuori.»
John Watson
non amava particolarmente correre ora che era in
“pensione”, ma a
quelle parole aveva letteralmente volato.
Lestrade urlò
il suo nome, ma si
era già
lanciato all’esterno del viale laterale del parcheggio, dove
i
poliziotti stavano facendo i rilevamenti, e ora lo fissavano come se
avessero appena visto un drago a tre teste.
Non gliene fregava
niente.
Cercò con
lo sguardo, in preda alla disperazione.
Doveva
esserci una spiegazione logica. La buona cara vecchia logica.
Fece
un giro su se stesso. Verso il fondo del viale c’erano alcuni
grossi cassonetti buttati contro il muro. Corse verso di essi,
scansando alcuni poliziotti.
Un ragazzo sulla trentina, con la
divisa e il classico elmetto della polizia, lo stava fissando, in
mano, portato all’orecchio, aveva un telefono. Era quello di
Sherlock. Lo conosceva molto bene, glielo aveva comprato lui dal
momento che quello che aveva prima si era praticamente distrutto.
Deglutì e il nodo che aveva in gola lasciò un
solco.
Strappò
il telefono dalla mano del povero agente, e tremante, se lo
portò
all’orecchio.
«Greg?»
«John sei tu? Ma che diavolo sta
succedendo?»
Avrebbe
tanto voluto
saperlo.
Mollò
quel dannato aggeggio e prese il povero ragazzo che non aveva alcuna
colpa se non fare il suo lavoro, per la giacchetta giallo fluo.
«Dove
lo hai trovato!» urlò. La pioggia cadeva
più fitta rispetto a
prima.
L’agente indicò il cassonetto accanto.
Saltò su
una delle sporgenze e si arrampicò usando tutte le forze. Il
coperchio era ancora sollevato, così gli bastò
sporgersi.
Passò
ogni angolo al setaccio con lo sguardo, finché non
trovò quella che
sembrava stoffa scura arrotolata.
«Tienimi!» urlò a pieni
polmoni e senza aspettare risposta si infilò con
metà del corpo
oltre il bordo del cassonetto. Recuperò quello che gli
interessava e
si lasciò cadere all’indietro, atterrando
sull’asfalto.
Tra
le mani aveva della pesante stoffa di lana scura. La aprì.
Era un
cappotto lungo.
Deglutì, e fu talmente doloroso che gli si
raggrupparono delle lacrime agli angoli degli occhi. No non poteva
essere. Avrebbe riconosciuto quel cappotto ovunque, anche se ora era
sporco e la
stoffa interna aveva alcuni strappi.
«Signore?»
chiese confuso l’agente accanto a lui.
C’erano le cuciture
rosse…
«Abb-a… Credo che forse sappiamo chi è
la vittima.»
Si
stava inzuppando a causa della pioggia ma non sentiva niente, solo il
gelo che si era impadronito di lui. E non per il freddo causato dagli
agenti atmosferici.
No si rifiutava categoricamente di crederci.
Sherlock
aveva
fatto questo giochetto già una volta. Non ci sarebbe cascato
ancora.
Iniziò a provare rabbia. Non poteva essere caduto
così in basso…
E Lasciò cadere tutto, con grande protesta
dell’agente Ward.
Non
pensava a niente, corse semplicemente in direzione delle luci
lampeggianti. L’ambulanza era ancora lì. Corse maggiormente.
Spalancò
gli sportelli anteriori e salì. Altre occhiate.
«Che state
facendo ancora qui!»
I soccorritori lo guardarono
preoccupati.
«Andava
stabilizzato. Lo abbiamo intubato,
ha un polmone collassato, e
gli abbiamo fatto un drenaggio.»
John cacciò il paramedico
seduto dal lato da
dove
era salito e si mise al suo posto. Afferrò la mano di quello
che si
rifiutava credere fosse il suo migliore amico.
«Sherlock?» a
fatica era riuscito a pronunciare quel nome. -Ehi mi senti? Sono io,
John. Dai non fare il difficile lo so che mi senti.
Ascolta, se
capisci quello che dico, perché non mi stringi la
mano?»
Lo
avevano già intubato e messo l’ossigeno, non
sembrava nemmeno ci fosse lui la sotto.
Pregò con tutto se stesso di non avere risposta. Ma quel
tocco
leggero, quelle dita che lo stringevano senza forza. Bastò
a spezzarlo.
«Signore scusi ma dobbiamo andare.»
«Ehi
senti, andrà tutto bene te lo prometto. Sono qui. Adesso
sono
qui.»
Sherlock cercò
di aprire
l’unico occhio che gli era rimasto
‘buono’. C’era
solo una fessura con sotto il nero, e
lo stava fissando da sotto le lunghe ciglia.
Il dottore mise
anche l’altra mano sulla sua e la strinse.
«Andrà tutto
bene.» ripeté, quasi più per
essere di conforto
a se stesso.
Dovettero tirarlo via quasi a forza e farlo
scendere.
Appena i paramedici ebbero richiuso gli sportelli, la
sirena si accese e partirono a tutta velocità.
John tornò nel
vicolo, recuperò il cappotto e il telefono, che
l’agente Ward si
era assicurato di impacchettare con cura, e tornò da
Lestrade.
La
pioggia e l’umidità gli si erano impregnate nelle
ossa. La odiava
la pioggia.
«John?» Greg era ancora in piedi, esattamente dove
l'aveva lasciato prima, e lo fissava confuso.
Gli consegnò i
due pacchetti. Lestrade
aprì quello più grande e tirò fuori il
cappotto.
John non
riusciva nemmeno a parlare.
Il detective si era cambiato i
guanti, quindi girò l’indumento tra le mani,
ispezionandolo.
Ovviamente lo aveva riconosciuto, ma da bravo
investigatore voleva esserne sicuro.
Quindi afferrò il colletto
e lo rivoltò verso l’esterno, al centro
c’era un etichetta di
stoffa, un rettangolino in seta nero, ricamato con una scritta in
filo rosso, quel nome lampeggiava come un'insegna al neon.
«Cazzo…
John che sta succedendo? John guardami.»
Lestrade
afferrò l’amico per le una spalla e lo scosse con
forza,
costringendolo
a guardarlo in
faccia.
«Che
cazzo ci fa qui il cappotto di Sherlock?»
John lo fissò dritto
negli occhi. Lestrade non era certo un uomo stupido. Capì
subito.
«Vieni.»
_______________________________________________________________________________________________________________________________________________
Note d’autrice:
Se siete arrivati fino a qui vi ringrazio per la pazienza dimostrata! Scusate se nel precedente capitolo non ho lasciato note, ma non ricordo più come si usa questo sito e soprattutto non so editare, credo che i codici HTML mi odino, e io di conseguenza odio loro. Cercherò di sistemare meglio anche il primo capitolo.
Questa storia nasce in pieno periodo di auto segregazione dentro casa a causa del voi-sapete-cosa, dal momento che non posso in alcun modo rischiare, ecco il motivo della clausura before it was cool (ovviamente scherzo). Ad ogni modo, era davvero da tanti anni, e per tanti anni intendo almeno più di 10, che non scrivevo nulla.
Ormai era come se avessi perso le speranze oltre che la voglia. Poi causa noia e disperazione, hanno iniziato a tornarmi le idee. Così un bel giorno ho preso il pc, ho aperto il documento di Office, e ho iniziato a scrivere, e in men che non si dica, da 4 righe sono diventati 30 capitoli (non scherzo), e ancora ne mancano prima della fine. Probabilmente sarà scritto male visto che non ho più idea di come si faccia, però ecco volevo provare comunque.
Sto già provando anche a pubblicarla in inglese, che è un impresa dal momento che già faccio fatica a sapere l’italiano, figurarsi un altra lingua, ma con l’aiuto di una beta qualcosa ne sta uscendo. Da qui poi l’idea di creare un nuovo account e tornare a pubblicare su EFP.
A quello che vedo è ancora abbastanza frequentato e ne sono davvero felice! Già solo il primo capitolo ha avuto molte visualizzazioni e delle persone che lo hanno messo tra i seguiti e i preferiti!
Riguardo alla storia, è una specie di WHAT-IF che si colloca dopo il finale della prima puntata della quarta stagione.
Cosa sarebbe successo se John avesse duramente litigato con Sherlock a causa della morte di Mary, e avesse deciso di andarsene? Da qui è partito tutto il resto (anche perché diciamolo, l’ultima puntata non esiste).
Ovviamente se volete farmi sapere la vostra opinione ne sarei estremamente felice!
Ho anche una pagina Facebook con cui potete trovarmi se volete news su questa storia:
https://www.facebook.com/ladynorin/ |
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Capitolo 3 *** Capitolo 3: ***
Capitolo
3:
***
[Revisionato]
Lestrade
dovette trascinare
via John
a forza da quel parcheggio.
Lasciò le prove ad
uno dei suoi
agenti e poi, sempre con il braccio di John ben stretto nella mano,
lo condusse all’auto di servizio. Una vecchia berlina blu
scuro.
Il
detective spinse
l’amico al posto del passeggero e salì in quello
del
guidatore.
Abbassò il
finestrino per poter fissare il
lampeggiante sul tettuccio del
veicolo,
e partì a tutta velocità dal parcheggio a lato
del
marciapiede.
John Watson ancora non aveva
detto una
parola.
«Allora…
Dove ti trovavi tra la tarda notte e stamattina presto?»
A John
gli ci volle un po’ per dare un senso e comprendere il
significato
dietro a quelle parole. No in realtà non le comprendeva
affatto. Si
sentiva la testa ovattata, come se tutto al di fuori continuasse a
girare, ma dentro i suoni arrivavano lontani, e offuscati.
«Come?-
chiese con una faccia che certamente all’esterno doveva
sembrare
quella di uno stupido. -Aspetta… Mi stai accusando di
qualcosa?
Pensi che sia stato io a ridurlo così?»
La
rabbia lo travolse, veloce e accecante.
Come poteva anche solo
pensare ad un'eventualità del genere!
«Ehi,
ehi, calma. Sai che devo fare questo tipo di domande. Comunque no non
penso sia stato tu. Ovviamente.» Lestrade
stava parlando con tutta la calma del mondo, e questa cosa non faceva
altro che farlo imbestialire ancora di più.
«Ti
rendi conto di quello che sta succedendo? E tu perdi tempo a fare
supposizioni del genere su di me! Ti sembro un animale per caso!
Me
ne sono andato per non dovermi più arrabbiare con
lui!» ormai
urlava più che parlare.
«John
ho detto basta. Prendi un bel respiro.»
«No
non lo prendo un bel respiro, non ho voglia di respirare o rilassarmi
o smetterla! Ho già perso mia moglie non voglio perdere
anche
Sherlock, di nuovo!
Se ti fa ridere la cosa sei uno
stronzo
perché io non mi sto affatto divertendo, ho già
passato tutto
questo e non intendo passarlo di nuovo e se credi che possa aver
anche solo mai pensato di fargli del male allora sparami
perché
preferisco crepare che dover sopportare altre domande del
genere!»
Era stato il discorso
più lungo che avesse fatto da
mesi, e si sentiva come se avesse corso una maratona di chilometri.
Aveva il fiatone e gli tremavano le mani dall’agitazione.
Si
riempì i polmoni di aria, per poi rilasciarla.
Ripeté la cosa un
paio di volte.
«Meglio?»
domandò il detective.
John rifilò un
occhiataccia in direzione
del guidatore.
«So
che le cose tra di voi non vanno benissimo, ma in ogni caso prima o
poi qualcuno sarebbe venuto a chiederti spiegazioni. Ad ogni modo,
non puoi essere tu il colpevole. Le tue mani sono troppo
pulite.
Nessuna escoriazione sulle
nocche, niente graffi. Sono
cose che per gente come me e te sarebbero subito saltate
all’occhio.»
John sentì la rabbia
rivoltarglisi nello
stomaco ma mandò giù la bile e si
appoggiò con la schiena contro
al sedile.
«Però
la domanda resta. - riprese Lestrade,
che non voleva saperne di mollare l’argomento. -Chi
è stato? Le
supposizioni che abbiamo fatto non sono del tutto sbagliate. Direi
qualcosa di personale. E si sa,
Sherlock fa molto presto ad
attirarsi l’odio e il fastidio della gente. Non sarebbe la
prima
volta che pesta i piedi alle persone sbagliate.»
«Gli
stai dando la colpa? Adesso se l’è
cercata?» lo interruppe John
bruscamente,
sempre
più infastidito.
«Beh
tu gliel’hai data la colpa. Per tua moglie intendo.»
Colpito
e affondato.
«Quindi
se lo hai fatto tu immagina qualcun altro…. Dobbiamo cercare
le
persone a cui ha dato la caccia negli ultimi mesi.- concluse
Lestrade.
-Tu hai qualche vaga idea?»
L’ex medico militare
scosse la
testa.
«Non
lo sento da più di un anno.» e si sentiva
maledettamente in
colpa.
Lestrade
non aggiunse altro, e la conversazione finì lì.
Il
viaggio sembrò durare ore, invece di alcuni
minuti.
Parcheggiarono
in uno dei parcheggi riservati dell’ospedale.
Essere
comandante detective di Scotland Yard aveva i suoi vantaggi, tipo
quello di trovare sempre parcheggio.
L’ospedale in
questione
si chiamava St Mary, a John venne quasi da ridere, non
nel senso più goliardico.
Se voleva essere un qualche segno del destino, non lo trovava
divertente.
La
struttura ospedaliera non era dei più grandi che avesse
visto, era
disposto su almeno quattro piani, e fatto di mattoni rossi, e
rifinito da mattoni bianchi lungo i bordi. Prima di poter arrivare
allo spazio interno che portava all’entrata principale,
bisognava
attraversare una grande cancellata di ferro battuto, e una
sottospecie di ponte, o arco, con la scritta ‘St. Mary
Hospital’,
impressa a caratteri cubitali.
Entrano
dall’ingresso principale, e seguirono le indicazioni. Nella
sala
d’aspetto si trovavano già alcune persone,
nonostante fosse ancora
mattina abbastanza presto, per lo più erano persone anziane.
Lestrade
si avvicinò alla guardiola. Parlò con uno dei
segretari seduti
davanti ad un computer, che gli fecero passare subito.
I
corridoi erano lunghi e c’erano porte intervallate su
entrambi i
lati.
Non c’erano finestre
e le luci al soffitto erano quasi
fioche.
Si
sentiva un
forte odore di prodotti disinfettanti.
Arrivarono fino alla fine
del corridoio e si fermarono prima di altre porte scorrevoli, dove
c’era una scritta sul vetro opaco ‘sale
operatorie’.
Si
misero ad aspettare. Alla loro destra e sinistra altri corridoi.
Dal
corridoio a destra arrivò un uomo con il camice bianco.
Era
sulla sessantina, portava i capelli corti brizzolati. Aveva
spalle
larghe, mani dalle dita tozze. Una fede all’anulare sinistro.
John
lo etichettò come un uomo ordinario. Indossava pantaloni a
coste
beige e mocassini scuri ortopedici. Doveva essere sposato da parecchi
anni visto quanto era consumata la fede, sicuramente aveva tutti i
figli già adulti, magari in giro per il mondo a lavorare. Si
gli
dava l’idea di uno di quei dottori vecchio stampo, di
chi
fa
lo stesso
mestiere da
trent’anni.
Niente
colpi di testa sul posto di lavoro. Pulito. Ordinato.
Abitudinario.
John
sussultò
quando qualcosa lo colpì delicatamente alla spalla. Era Lestrade
che gli faceva segno di seguirlo. Gli andò dietro, e con
loro anche
il dottore.
Se fuori si sentiva
l’odore dei prodotti
disinfettanti, dentro era anche più forte, ma lui ci era
abituato.
Il
dottore gli si avvicinò.
«Piacere
sono il dottor Lewis.» l’uomo
allungò
la mano, e John la strinse.
«Io
sono John Watson. Cioè il dottor John Watson.” non
sapeva perché
avesse sentito
il bisogno di
fare
quell’ultima puntualizzazione.
«Si
il detective Lestrade mi ha spiegato che era un dottore
dell’esercito
e anche dopo ha continuato come dottore di base. Sa uno dei miei
figli opera sui luoghi di guerra, Afghanistan , Pakistan
ecc...»
«Ah
beh, buon per lui…» si sentiva così
intontito che non riusciva
neanche a formulare pensieri coerenti. Il dottor Lewis parve
accorgersene perché guardò verso
Lestrade
che si limitò a scrollare le spalle. Prima che chiunque
potesse
aggiungere altro, arrivarono dei rumori, suoni
di persone che discutevano ad alta voce fuori dalla zona operatoria.
Sembravano voci concitate, dal tono, stavano litigando. Lestrade fece
per andare a controllare ma in quel preciso momento si spalancarono
le porte scorrevoli in fondo al corridoio e fece il suo ingresso
Mycroft Holmes.
________________________________________________________________________________________________________________
Note d’autrice:
Vi posso assicurare che fosse per me aggiorni pure tutti i giorni, ma non mi pare il caso lol, quindi accontentatevi, che magari due volte a settimana è già più plausibile. :D
Volevo ringraziare le persone che mi hanno lasciato un commento, davvero è sempre bello leggere una recensione! E anche chi mi ha aggiunta tra gli autori preferiti o seguiti! Ma anche a chi legge e basta, con la speranza di intrattenervi ad ogni capitolo, che per me già e tanto. Mi piacciono le storie che iniziano “piano”, diciamo, per poi svilupparsi nel tempo. Trovo che i sentimenti siano molto più credibili in questo modo.
Come sempre se avete voglia fatemi sapere cosa ne pensate! Si accettano scommesse.
Much Love.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4: ***
Capitolo
4:
***
[Revisionato]
«Chi
diamine lo ha chiamato?»
Lestrade
guardò verso John, che ricambiò
l’espressione confusa. John alzò
le spalle in risposta.
Mycroft si avvicinò come se stesse
marciando in una parata militare. Non
prometteva nulla di buono, e si poteva capire bene anche
dall’espressione furiosa sulla sua faccia.
Era vestito di
tutto punto, completo elegante fatto su misura, scarpe nuove tirate a
lucido, un trench blu scuro sopra alla giacca e una sciarpa di fine
lana ricamata, come se fosse appena uscito da una riunione con il
Primo Ministro.
«Voi
due!»
John
si accorse che dietro a Mycroft c’era una donna, doveva avere
quasi
sui quarant’anni, era magrolina, non tanto alta, portava i
capelli
castano scuro perfettamente pettinati all’indietro in una
crocchia
stretta. Indossava un tailleur con gonna lunga fino a sotto il
ginocchio, sempre rigorosamente in colori scuri.
La donna con
cipiglio preoccupato si sistemò gli spessi occhiali che le
stavano
scivolando dal naso appuntito. Sembrava nervosa e desiderosa di
essere ovunque tranne che lì. In realtà non la
invidiava affatto.
Lavorare per Mycroft. Uno dei lavori peggiori del mondo.
Greg si
era avvicinato per parlare al più grande dei fratelli Holmes.
John
non voleva saperne così strisciò lungo il muro in
modo da non
essere a portata.
La faccia di Mycroft passò da infuriata a
pronta ad incenerire chiunque gli fosse
capitato a
tiro. Se
prima era di colorito quasi normale, ora era diventato paonazzo e la
vena della giugulare pulsava pericolosamente,
quasi dovesse esplodere.
«La
colpa è vostra!»
«Senti
Myc – Greg stava provando a rabbonirlo e farlo ragionare,
ma
Mycroft non voleva saperne. -Non pensate che non vi ritenga
responsabili!»
ringhiò tra i denti, per poi rivolgere la sua ira verso
John, che si
appiattì contro il muro, desiderando di scomparire.
«Tu.»
sibilò puntandogli un dito accusatorio contro.
Che
si ricordasse, non aveva mai visto Mycroft così fuori
controllo.
«Sei
stato tu!»
John provò ad aprire bocca per ribattere qualcosa, ma lo
sguardo
omicida di Mycroft lo fece desistere, e la richiuse.
«Tutto
questo è causa tua. Te ne sei andato, dopo averlo insultato
e dopo
avergli dato la colpa per la morte di quella criminale di tua
moglie.»
John
provò odio nei confronti di Mycroft per quelle parole, ma
l’uomo
furioso, gli aveva intimato di tacere.
«Tu
devi tutto a mio fratello, e alla mia famiglia! Se non lo avessi
incontrato la tua vita sarebbe ancora miserabile, e non avresti
nemmeno quella bella bambina a cui tieni tanto.»
lo vide avanzare minaccioso, come un grosso felino feroce che aveva
puntato la gola di un malcapitato cerbiatto.
«Se
mio fratello muore… - in realtà era John quello
che stava
desiderando morire in quel momento. - Ti riterrò
direttamente
colpevole.
E te lo giuro, passerò ogni istante che mi rimane da
vivere, a rendere la tua esistenza un inferno. Ti porterò
via tutto
quello che ami. Non
avrai più niente. Nemmeno
un misero lavoro da netturbino. Finirai a fare compagnia agli amici
barboni e disadattati di Sherlock, e mi assicurerò che
nessuno ti
faccia l’elemosina.»
John
deglutì, ingoiando un grosso sasso.
«Mycroft
mi pare tu stia un po’ esagerando… -
L’ira e il dito minaccioso
di Mycroft puntarono verso Lestrade.
«Posso
far finire la tua sfolgorante carriera in meno di un secondo, mi
basta uno schiocco di dita e puff, addio pensione, addio
distintivo.
Pregate, pregate che non succeda il
peggio.»
Lestrade
a quelle parole raddrizzò la schiena e assunse
quell’espressione
intransigente che gli veniva quando qualcuno dei suoi faceva qualche
cavolata o qualche sospettato proava a fregarlo.
«Non
pensare di poterci minacciare in questo modo Mycroft Holmes!
Non
lavoriamo per te, non siamo i tuoi dannati leccapiedi che puoi
trattare a pesci in faccia! Anche noi siamo preoccupati per Sherlock
cosa credi! E l’unico motivo per cui è ancora vivo
e perché c’era
John!»
John
apprezzò il tentativo di Lestrade
di salvarlo dall’ira di Mycroft, ma in quel momento non era
una
buona idea.
Infatti Mycroft assunse un
espressione
degna di un killer. Non lo aveva mai visto in quello stato,
solitamente era una persona con estremo controllo.
«Non
osare contraddirmi! Posso anche far finire la carriera del luminare
qui! - indicò il povero dottor Lewis che parve sconvolto.
-Rotoleranno delle teste. Questo posso garantirvelo!»
«Mi
perdoni signor Holmes.- fu il dottor Lewis a interrompere la
sfuriata, con tono basso e intimorito. - Capisco quanto lei sia
sconvolto mi creda, faccio questo lavoro da quarant’anni.
Stiamo
facendo di tutto per suo fratello. Ma così non ci aiuta,
inoltre un
clima di terrore e astio può far agitare gli altri paz...»
il povero dottore non ebbe modo di terminare il discorso
perché
Mycroft lo aveva afferrato per il bavero del camice.
«Posso
comprarmi questa topaia e farla demolire se voglio.
Chiamerò
uno dei miei dottori, che di certo non è un incompetente, e
farò
trasferire mio fratello in una clinica privata dove di certo
avrà
tutte le cure migliori.»
«Mi
scusi signor Holmes ma noi siamo competenti e gli stiamo già
dando
tutte le cure migliori; inoltre suo fratello non può essere
in alcun
modo spostato o rischia davvero di non sopravvivere. Quando
l’intervento sarà finito resterà in
coma farmacologico per alcuni
giorni. E’ necessario per far riassorbire gli ematomi,
soprattutto
quelli alla testa, e perché altrimenti non sopporterebbe il
dolore.
E’ tutto chiaro?»
il dottor Lewis si sottrasse dalla presa di Mycroft e con fare
impettito sistemò il camice. Doveva dargliene atto, aveva
coraggio.
Mycroft dal canto suo lanciò a tutti i presenti uno
sguardo intimidatorio e girò i tacchi, uscendo
dall’ospedale
esattamente come ci era entrato.
«Mi
dispiace di solito non è così aggressivo.»
Lestrade
cercò di scusarsi, si
sentiva
in imbarazzo con il povero dottor Lewis.
«Non
importa, sono abituato a parenti che reagiscono male in situazioni
del genere. Non
è colpa di nessuno.»
«Sì
però i parenti dei suoi pazienti di solito non possono
comprarsi il
suo posto di lavoro e demolirlo dopo averla licenziata in
tronco.”
Quello
di Lestrade era più che altro un tentativo di buttarla sul
ridere,
ma il dottor Lewis non sembrava affatto divertito.
«Devo
tornare in sala operatoria, vi consiglio di andare a casa, vi
chiamerò quando ci saranno novità.»
e con una faccia impassibile sparì dietro una delle porte
scorrevoli.
John sospirò.
«Dai
andiamo ti riaccompagno a casa, tanto qui non abbiamo niente da fare
al momento.»
Lestrade gli aveva messo una mano sulla spalla.
«Ma
ci sono le indagini.»
si lamentò John.
«A
quelle penso io. E comunque stiamo raccogliendo ancora tutte le prove
e gli indizi. Ho
mandato i miei agenti ad indagare in giro, quando avrò
abbastanza
elementi metterò i pezzi insieme e ti chiamerò.»
Tutto
sommato non sembrava un piano così malvagio. John
annuì.
«Pensi
che Mycroft sarà un problema?»
aggiunse, seriamente preoccupato.
«Ma
no, sai come si dice, cane che abbaia non morde.
Ti aveva
minacciato anche la prima volta che lo hai incontrato, eppure eccoti
qui.»
«Si
grazie per il piacevole ricordo, ma a quel tempo Sherlock non stava
per morire.»
«E
non lo farà nemmeno ora, così Mycroft si
darà una calmata.
Dai
andiamo.»
Tutto
quel ottimismo non lo aiutava a stare meglio ed essere meno
preoccupato.
Però non poteva far a meno di chiederlo.
«Pensi
che c’è la farà?»
«Figurati,
e chi gli ferma quei due. Ho visto gente morire con meno.-
Altra
pacca sulla spalla. -Tempo un mese e starà meglio di noi.»
Non
ne era così sicuro. Gli tornò alla mente il modo
orribile in cui lo
aveva trovato in quel parcheggio e desiderò non esistere.
Almeno si
sarebbe risparmiato quell’immagine, che sicuramente lo
avrebbe
tormentato fino alla fine dei suoi giorni, come se non fossero
bastate quelle della guerra.
Lestrade
non poteva capire, un po’ lo invidiava.
Uscirono
dall’ospedale.
Era
passata un’intera settimana e John credeva di stare
impazzendo. Non
aveva ricevuto nessuna chiamata dall’ospedale e nemmeno da
Greg. La
notte la passava in bianco.
Passava
al setaccio tutto quello che ricordava della scena del crimine, e di
Sherlock… Già Sherlock. L’ultimo loro
incontro lo tormentava
peggio di trovarsi in un girone infernale. Anzi ne era sicuro, era
già quello l’inferno.
Veniva punito per il modo orribile in
cui aveva tratto il suo migliore amico.
Però
se davvero era la sua punizione perché quello a passarsela
peggio
era Sherlock? Il tormento e il senso di colpa lo stavano consumando.
Aveva lasciato Rosie con la baby-sitter perché se le stava
vicino
lei sentiva tutto il suo nervosismo e non voleva stressarla, era
così
piccola, non meritava di essere già infelice.
Prese il telefono
e chiamò Lestrade.
«Lestrade.»
rispose la voce, dal tono quasi infastidito, all’altro capo.
«Ehi
Greg sono John. Senti… Hai notizie?»
Un
sospiro da parte del suo interlocutore.
«No
John non ho niente, te l’ho detto che ti avrei chiamato
altrimenti,
no?»
«Si,
me
lo avevi detto,
scusa.»
ecco ora si sentiva un perfetto stupido e pure apprensivo.
«No
no non fa niente, anche io sono preoccupato e qui non ne sto tirando
fuori un ragno dal buco.»
John
si sorprese di quelle parole.
«Perché?
Pensavo stessi tenendo tutti sul caso.»
«Si
è così ma non ci sono molti indizi. In quel
dannato parcheggio non
c’è mezza telecamera. Cioè dai siamo
nel ventunesimo secolo,
l’era del grande fratello. E’ assurdo. E i
testimoni? Nessuno ha
visto o sentito niente, tutti a quell’ora erano a dormire a
quanto
pare. Il pub più vicino era già chiuso.
Quindi non abbiamo
niente di niente.- concluse la lunga spiegazione con non troppa
celata frustrazione. -Te lo dico se non trovo al più presto
qualcosa
Mycroft ci appende.»
John
fece una smorfia sentendo quel nome.
«Non
me ne frega niente di Mycroft Holmes. Noi dobbiamo pensare a
Sherlock. Senti è inutile che me ne stia qui a casa con le
mani in
mano, vengo ad aiutarti.»
Decise che fosse la cosa migliore pensare ad altro per un
po’,
anche se l’argomento non si distaccava poi molto da quello di
partenza.
«Non
serve, John te l’ho già detto. Al momento non ho
nulla su cui fare
delle indagini. Capisco la tua smania ma non saprei cosa farti
fare.
Senti ti richiamo domani ok? Dovrebbe sapersi qualcosa
dall’ospedale.»
«D’accordo.»
John
si sentiva frustrato e aveva voglia di piangere dalla rabbia, ma non
poteva farci nulla.
«A
domani.»
Lestrade
chiuse la comunicazione e il dottore/detective restò a
fissare lo
schermo nero per qualche secondo. Poi lasciò il cellulare
sul tavolo
e andò in bagno.
Si fissò allo specchio del mobile sopra il
lavandino, odiandosi.
Anzi no, si disprezzava. Mycroft aveva
ragione. Se fosse rimasto con Sherlock non gli sarebbe successo
nulla, perché lui gli guardava sempre le spalle.
Invece lo
aveva abbandonato. La persona con cui aveva condiviso tutto. Anche
Mary si sarebbe vergognata di lui. Passò le mani sulla
faccia e tra
i capelli.
Poi aprì la doccia e se ne fece una lunga e
fredda.
Almeno così il suo cervello sarebbe rimasto ben
sveglio.
Intanto pensò ancora ed ancora a tutto quello che era
successo.
__________________________________________________________________________________________________________
Note d’autrice:
A grande richiesta lo avete voluto ed eccolo qui in tutto il suo splendore, Mycroft e la sua simpatia :D
Ora ve lo tenete così :D:D
A parte gli scherzi sempre grazie a chi ha commentato tutti i capitoli! Sappiate che vi considero un fan club!
Se poi non ci si mettesse il mio cervello a remarmi contro e passare periodi di auto convincimento sul non essere in grado di scrivere nulla senza che sembri ridicolo sarebbe anche top, ma mi accontento di quello che esce. W l’insicurezza.
No davvero grazie per i feed back non sto scherzando probabilmente avrei già lasciato perdere altrimenti.
Spero vi sia piaciuto anche questo capitolo e non sia stato una noia, vi dico già che il quinto dovrebbe uscire venerdì o sabato dipende quanto casino ho venerdi!
P.s. l'impaginazione la vedete bene? Non ci capisco mai niente con i codici HTML
Much Love. |
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Capitolo 5 *** Capitolo 5: ***
Capitolo
5:
***
[Revisionato]
Aveva
finito da poco la colazione e stava sistemando la cucina quando il
cellulare squillò. Lasciò tutto com’era
e corse a rispondere, sul
display c’era il nome di Lestrade.
«Che
succede c’è qualcosa di nuovo?»
«Dobbiamo
andare all’ospedale oggi pomeriggio, vogliono provare a
risvegliarlo dal coma farmacologico.»
Quasi
si mise a piangere per il sollievo a quelle parole, ma
cacciò giù
tutto.
«Oh,
ma certo ok.»
annuì nonostante
si trovasse
in casa da solo.
«Mando
una macchina a prenderti verso le sedici ok?»
«Sì.»
Lestrade chiuse la chiamata. E John rimase di nuovo da solo con i
propri pensieri.
Aspettare
il lento trascorrere del tempo sembrò un'eternità.
Ci
aveva messo una vita a passare l’ora di pranzo, ovviamente
non
aveva toccato cibo, solo una tazza di tè, chi gli aveva
fatto anche
venire la nausea. Troppa ansia.
Aveva
anche ripulito casa almeno un paio di volte, praticamente ci
si
poteva mangiare sul pavimento da quanto era tirata a lucido.
La
macchina giunse puntuale all’orario stabilito.
Salì
nei sedili posteriori, senza proferire parola, nemmeno un
“buongiorno” in direzione dell’autista,
che tanto non
conosceva.
Anche
il viaggio sembrò eterno.
L’auto
lo lasciò proprio davanti l’ingresso
dell’ospedale.
Si
strinse nel cappotto ed entrò.
Trovò
Lestrade
ad
attenderlo alla reception. Questa volta non entrarono nel reparto
chirurgia, ma presero l’ascensore. Salirono fino al secondo
piano.
Le
porte dell’ascensore si aprirono in un lungo corridoio. Sul
lato destro c’erano
dei finestroni e sotto di essi delle sedie di plastica, mentre
dall’altro lato c’erano delle porte bianche con dei
numeri
scritti a lato.
Camminarono
a passo spedito, Lestrade
davanti, sembrava sapere bene dove dovesse andare.
John
vide in lontananza alcune persone che conosceva bene, anche se ancora
si trovava a qualche metro di distanza, poteva identificarli tutti.
Deglutì. Sempre più a disagio.
Il
detective non gli aveva detto che sarebbero venuti, ma avrebbe dovuto
capirlo
da solo. Era normale fossero lì.
C’era
Mycroft, sempre con quell’aria cupa, come uno dei cattivi di
James
Bond pronto a distruggere il mondo. Era con la sua segretaria, la
stessa dell’ultima volta. Sempre in completo scuro e dritta
come un
palo.
Entrambi
appoggiati contro una delle finestre. Poi seduta a fianco, la signora
Hudson, e Molly.
Molly
stava piangendo a singhiozzi sulla spalla della signora Hudson che
sembrava rimpicciolita, tutta nascosta dentro il suo pesante cappotto
a coste blu sbiadito e giallo senape.
Schiarì
la gola quando fu abbastanza vicino, e il gruppo di teste
scattò
nella sua direzione.
Molly
sembrava volesse ucciderlo, lo sguardo di Mycroft era di muto
disprezzo, l’unica che sembrava contenta di vederlo era la
signora
Hudson, che subito si alzò dalla sedia e andò ad
abbracciarlo più
forte che poteva, singhiozzando sulla sua spalla.
«Va
tutto bene.»
diede qualche colpetto affettuoso sulla schiena dell’anziana
donna.
«Oh
John.»
pigolò lei.
La
aiutò a tornare seduta.
Mycroft
e Molly sempre che lo fissavano truci. Immaginava che se avessero
potuto, si sarebbe ritrovato a morire soffocato solo con la forza del
loro pensiero. Magari potuto no, ma sicuramente ci dovevano
star
provando.
In
realtà a John veniva quasi da ridere, in un altra situazione
gli
avrebbe presi in giro, ma infierire e buttare benzina sul fuoco non
era il caso, soprattutto non in un momento delicato come quello.
Quindi si limitò ad ignorarli.
Passò
almeno un ora prima che il dottor Lewis si presentasse, camice bianco
perfettamente stirato e pulito, lo stetoscopio tirato a lucido,
appoggiato sul collo, e ai piedi delle calzature da sala operatoria.
I capelli brizzolati pettinati senza un capello fuori posto.
Allungò
una mano verso Mycroft, che invece di mostrarsi cortese
rifilò un
occhiataccia al povero dottore, che quasi abbassò la mano,
rimasta
ancora a mezz’aria, per fortuna intervenne Lestrade
e la strinse con forza.
«Allora
dottore?»
chiese
poi.
«Potete
entrare, ma solo chi è strettamente necessario.»
Perfetto,
pensò quasi con fastidio John.
«Io
sto indagando e vorrei assistere se non le dispiace.»
rispose il
detective.
Il
dottor Lewis sembrò pensarci un attimo.
«D’accordo
ma non dovete in alcun modo creargli stress.»
John
guardò quasi automaticamente in direzione di Mycroft, e se
ne pentì
perché lo sguardo del maggiore degli Holmes era cristallino
come uno
specchio. In fondo non poteva biasimarlo così tanto, un
po’ se
l’era cercata andandosene e tagliando i ponti con tutti.
Fece
un lieve sospiro. Poteva solo cercare di non provocarlo in alcun
modo.
Lestrade
gli fece segno di seguirlo. John lo fissò confuso, il dottor
Lewis
era già entrato con Mycroft, ma il detective continuava a
fargli
segno di muoversi, quindi lo seguì.
Entrarono
tutti e tre nella stanza dove avevano sistemato Sherlock dopo il
periodo passato in rianimazione. Con gran disappunto di Molly, per
esserle stato impedito di entrare. La sentì lamentarsi con
la
signora Hudson, mentre quest’ultima cercava invano di farla
ragionare.
Sherlock
Holmes era lì. Steso su quel letto, bianco quasi
più delle lenzuola
su cui era adagiato. Cavi e tubi uscivano da ogni dove, varie
macchine vi erano collegate. Ed era
nell’immobilità più
assoluta.
John
pensò che poteva tranquillamente passare per un cadavere se
non
fosse stato per il petto che si alzava e abbassava lentamente e il
suono della macchina che confermava ad ogni bip che il suo cuore
batteva ancora.
Si
avvicinò, non vedeva nient’altro, se non quel
corpo steso.
La
testa di Sherlock era ricoperta di bendaggi, tenuti insieme da una
retina, i capelli completamente nascosti sotto.
Il
volto era ancora gonfio, le labbra viola e lo spacco sul lato destro
del labbro superiore, tenuto insieme da fili grossolani.
L’occhio
sinistro era stato coperto da un grosso cerotto quadrato, mentre
quello destro era di un colore giallognolo e con profondi segni sotto
la palpebra inferiore.
Gli
zigomi rotti e tagliati erano stati rattoppati con dei piccoli
cerotti da sutura trasparenti.
Tutto
il resto era coperto quindi non poteva quantificare il danno ma
immaginava non fosse messo meglio.
Il
dottor Lewis prese una siringa dal ripiano di un carrello in metallo
che era stato portato nella stanza da un'infermiera. Inserì
l’ago
nel tappo di una grossa boccetta con del liquido trasparente. John
osservava ogni movimento del dottore. Conosceva
tutta la procedura e quello che stava facendo, e un po’ lo
confortava. In fondo era un bravo dottore, al contrario di quello che
dicesse Mycroft.
Il
dottor Lewis richiuse con il cappuccio la siringa e la
appoggiò sul
vassoio.
Poi
fece il giro per controllare le apparecchiature e la flebo, John
dovette spostarsi per lasciarlo parlare.
«Allora?»
chiese Lestrade,
impaziente.
«Abbiamo
sospeso i medicinali per il coma indotto già da stamattina,
dovrebbe
risvegliarsi lentamente. Ci vuole il tempo che ci vuole.»
Sì
John sapeva perfettamente come funzionava tutta la faccenda, ma tutta
quell’attesa era una tortura. Doveva sapere.
Mycroft
dall’altro lato del letto, se ne stava in piedi, accanto a
Lestrade,
più simile ad una statua, pareva non respirasse nemmeno.
Passarono
altri interminabili minuti.
Il
dottor Lewis controllò dall’unica palpebra che
poteva sollevare,
se reagisse agli stimoli esterni. Poi qualcosa si mosse.
Le
dita di Sherlock cercavano di contrarsi ma era ancora troppo debole
ed intontito dai farmaci. La palpebra scoperta si muoveva in qua e in
la.
Il
cuore di John prese a martellargli forte nel petto, così
tanto che
quasi non sentiva i suoi stessi pensieri.
Molto
lentamente quella stessa palpebra si sollevò. Il povero
occhio era
ancora reso scuro dai vasi sanguigni rotti, sembrava non fossero mai
stati di quel limpido azzurro che ricordava.
Sembrava
cercasse qualcosa o qualcuno, fissò prima Mycroft, e poi Lestrade,
ma era come se non gli riconoscesse.
Mycroft
gli prese la mano.
«Sherlock
sono io mi senti?»
chiese con apprensione, ma l’espressione di Sherlock sembrava
terrorizzata. O
meglio, da quell’unico occhio aperto, era quello che
traspariva.
John
poteva vedergli la mascella contrarsi. Sherlock tentò di
togliere la
mano da
quella di suo fratello, ma
non riusciva a muoversi. Dall’occhio rotolo’ una
grossa
goccia.
Mycroft
gli mise una mano sulla spalla.
«Sono
io Mycroft, tuo fratello. Mi riconosci?»
I
muscoli di Sherlock sembrarono lievemente rilassarsi ma era
chiaramente comunque a disagio.
«E’
normale, ha avuto delle brutte ferite alla testa, potrebbe non
riconoscervi, almeno per un po’. Abbiamo fatto diminuire gli
ematomi ma ci vorrà del tempo.»
parlò il dottore.
Sherlock
cercava di muoversi ma senza riuscirci troppo, cercava di vedere ma
sembrava non vedesse nessuno, strizzava l’unico occhio che
era in
grado di usare come se volesse mettere a fuoco quello che lo
circondava.
«Ti
trovi in ospedale Sherlock. Io sono il tuo dottore. Il dottor
Lewis.
E
sei al St Mary di Londra. Capisci quello che ti dico?»
a quelle parole l’occhio era scattato alla ricerca della
persona da
cui proveniva la voce. Così il dottore si mise in un punto
dove
potesse essere visto.
«Sono
qui. Mi vedi?»
Sherlock
provò
nuovamente a muovere le dita.
«Se
capisci quello che dico e riesci a vedermi, per favore fa un cenno
con la testa.»
Sherlock
guardò fisso il dottore, poi annuì appena.
John
voleva toccarlo più di ogni cosa, doveva farlo per
rassicurarsi che
fosse davvero ancora lì, vivo.
Ma non si sarebbe mosso di un centimetro e non avrebbe smesso di
guardarlo.
Sherlock
mosse finalmente il braccio e poi la mano, anche se molto lentamente,
se la portò alla gola, toccando le bende con la punta delle
dita,
poi salì sul mento, e le labbra. La sua espressione
cambiò,
sembrava come se qualcosa lo stesse soffocando, cercava di togliere
il tubo del respiratore. Il dottor Lewis se ne accorse
perché
intervenne subito.
«D’accordo
ora lo leviamo. Dottor Watson può aiutarmi?»
«Ehm,
prego?»
chiese John
stupidamente.
Sherlock
aveva sgranato l’occhio, segno che aveva capito, e
soprattutto
aveva riconosciuto la voce.
«Se
può aiutarmi. Sicuramente se siamo in due sarà
anche meglio, non
crede?»
spiegò il dottor Lewis.
«Ah.
Si, si, senz’altro.»
Ora
tutti i presenti nella stanza lo stavano fissando, e avrebbe voluto
tanto scomparire all’istante. Prese un bel respiro.
Togliere
un tubo in gola ad un paziente non era un passaggio
‘difficile’
in
se,
ma la fase più delicata veniva dopo, perché
bisognava che il
soggetto, che ormai si era abituato a respirare meccanicamente,
tornasse a respirare da solo.
John
cercò di non pensare che si trattava di qualcuno a cui
teneva, ma ma
di trattarlo come
un semplice paziente, uno come un altro.
Lo
avevano dovuto tirare su a sedere di peso e ora che era senza tubi
annaspava senza fiato, come un pesce tirato fuori dall’acqua
e
lasciato sulla banchina a dimenarsi.
Il
dottor Lewis continuava a ripetergli di respirare, dargli indicazioni
su come fare; andarono avanti per qualche minuto così, prima
che
Sherlock
ci
riuscisse, ed era uno strazio da ascoltare.
«Piano,
piano, così. Molto bene. Non c’è fretta.»
il
Dottor Lewis stava massaggiando Sherlock lungo la schiena, dando di
tanto in tanto dei colpi leggeri.
Dopo
alcuni altri minuti il respiro sembrava essersi regolarizzato, anche
se alle orecchie esperte di un dottore, si percepivano i
rantoli ogni volta che ispirava.
«Bisognerà
fargli fare delle terapie di ossigeno in una camera iperbarica. Il
polmone sinistro è collassato e ci vorrà tempo
per farlo tornare a
posto.
Così
come le costole rotte. Gli ematomi alla testa si sono riassorbiti ma
comunque dobbiamo fare attenzione che le sue funzioni cerebrali non
siano compromesse. Noi dobbiamo insistere con la fisioterapia e
ovviamente gli antibiotici.»
«Mio
fratello non resterà in questo ospedale.»
intervenne Mycroft.
«Mi
scusi signor Holmes, ma come le ho già spiegato, suo
fratello non
può essere spostato. E’ troppo debole e anche uno
spiffero
potrebbe farlo peggiorare e provocargli una polmonite, o peggio.
E’
questo che vuole?»
Il
maggiore degli Holmes fissò il dottore, che aveva osato
contraddirlo, ma non rispose ulteriormente.
Tutta
questa situazione era assurda. Sherlock aveva bisogno di un luogo
tranquillo e senza stress, mentre stava succedendo l’esatto
opposto.
«Sherlock.»
Lestrade
si avvicinò e John poté vedere mentre il
poveretto sobbalzava
sentendosi chiamare per nome, pareva un animale in trappola.
«Cosa
ti è successo? Puoi dirmelo?»
ma Sherlock si limitò a fissare
il detective
con l’occhio “sano”.
«Sono
Lestrade, mi riconosci?- Sherlock annuì. -Capisci quello che
ti ho
chiesto?»
Sherlock annuì di nuovo.
«Puoi
dirmi chi ti ha fatto questo?»
silenzio, immobilità. Lo fissava
e basta.
«Andiamo
non guardarmi così, dimmi qualcosa. Ho bisogno di saperlo.»
«E’
meglio se non lo fa parlare.-
Intervenne il dottor Lewis. -Ha tenuto in gola un tubo per tutto
questo tempo, gli dovete dare modo di riprendersi. Anzi direi che per
oggi l’ora delle visite è finita.»
sentenziò.
«Come
finita! Non posso andarmene senza avere risposte! Non può
parlare ma
magari può scrivere!»
si lamentò Lestrade.
«Puoi
chiederglielo domani.»
rispose John al posto del dottor Lewis.
Sentì
la pelle formicolare. La sensazione di qualcuno che ti fissa
intensamente. Ma la ignorò.
Dannazione
Sherlock.
Riuscì
solo a pensare John.
Aveva
così tante cose da dire e da chiedere a Sherlock. Pensieri e
domande
gli
si
susseguivano nella testa. Si sentiva come se avesse un alveare pieno
di api ronzanti.
Lestrade
gli chiese se volesse
un
passaggio, ma scosse la testa.
«No
grazie, prendo la metro. Ho bisogno di camminare.»
«Come
preferisci.»
rispose il detective. Lo salutò con un cenno della testa. John
lo guardò allontanarsi verso l’auto di servizio.
Mycroft
arrivò in quel momento, seguito da Molly e la signora Hudson.
Il
maggiore degli Holmes si comportò come se non esistesse.
John
sospirò. Davanti a lui si fermò una berlina nera
con i vetri
oscurati. L’autista scese a aprì lo sportello
posteriore, dal lato
del marciapiede. Salì prima Mycroft e poi Molly, che gli
riservò lo
stesso freddo trattamento.
La
signora Hudson invece si fermò ad abbracciarlo.
Ricambiò
e aiutò la donna a salire in auto. L’autista
richiuse la portiera
e andò al posto di guida.
Seguì
la berlina con lo sguardo finché non si perse nel traffico.
A
testa bassa si incamminò lungo il marciapiede.
__________________________________________________________________________________________________________
Note d’autrice:
Mycroft e Molly si sono coalizzati e ora sono gli haters di John, anche se Mycroft ha diciamo le sue motivazioni, Molly lo fa più che altro di contrappasso, visto che John ha trattato male Sherlock, deve difendere il suo amore. Comunque non conta al fine della trama ve lo dico così non vi fate teorie su di un personaggio che non ho intenzione di trattare ulteriormente (sono una brutta persona) ma è solo utile per questo momento lol
E’ tornato Sherlock finalmente, beh insomma tornato più o meno, però sono davvero curiosa di capire cosa ne pensate!
Per quanto riguarda gli aggiornamenti, pensavo al martedì e venerdì, oppure mercoledì e sabato. Fatemi sapere cosa preferite.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6: ***
Capitolo
6:
***
[Revisionato]
L’aria
era pungente e il cielo grigio, ma non sembrava dovesse piovere,
almeno non al momento.
Non aveva una meta ben precisa, così
camminò per un po’; poi vide un pub già
aperto e decise di
entrarvi. C’erano solo due uomini all’interno.
Un signore di
mezza età seduto ad uno degli sgabelli al bancone, e un uomo
in
giacca e cravatta seduto ad uno dei tavoli, in fondo al locale.
Si
mise a sedere su uno degli sgabelli, lontano dall’uomo di
mezza
età. Ordinò al barista un Whisky. Lo bevve tutto
e ne ordinò un
altro, e poi un altro.
Non aveva deciso se si sarebbe ubriacato
o meno. In fondo avere la mente annebbiata per qualche ora non gli
dispiaceva, ma d’altro canto il giorno dopo sarebbe dovuto
tornare
in ospedale. Da Sherlock… Buttò giù
qualche altro bicchiere.
Lasciò le banconote sul bancone del bar e uscì.
L’aria
fredda lo aiutò a schiarirsi la mente, giusto per capire
dove si
trovasse, ma decise di prendere un taxi. Non era ubriaco ma
moderatamente brillo, la vista iniziava ad annebbiarsi e i pensieri
ora erano più
incoerenti. Gli piaceva quella sensazione, almeno poteva soffocare i
sensi di colpa per un po’.
Tornato a casa chiese alla
baby-sitter se poteva restare per mettere a letto
la bambina, e andò a stendersi a letto.
La mattina si svegliò
con Rosie che dormiva accanto a lui, non si ricordava nemmeno di
averla presa dalla culla. Dopo un bacio sulla testolina bionda
la lasciò ancora a dormire. Andò in cucina,
lasciando la porta
della camera semi aperta, in caso lei si fosse svegliata l’avrebbe
potuta sentire.
Preparò
il caffè e lo bevve. La botta di caffeina bastò a
fargli passare il
mal di testa causato dall’alcool della sera prima.
Preparò
sua figlia per la giornata e aspettarono che arrivasse la
baby-sitter. Oltre a tutti i sensi di colpa che già aveva,
si
sentiva in colpa ogni volta che la lasciava e che non passava il
tempo con lei.
Uscì
di casa. Fuori c’era già Lestrade ad aspettarlo in
macchina.
Salì
di corsa. Faceva ancora più freddo del giorno precedente.
Nell’auto
c’era il riscaldamento acceso e si stava bene. Come unico
suono la
radio della polizia. Cercò di rilassarsi contro il sedile.
«Allora…-
esordì il detective. Ok pace finita. -Che ne pensi?»
John
alzò le spalle.
«E
no dai il trattamento del silenzio anche tu no. Dì qualcosa.»
«Che
vuoi che ti dica?»
Lestrade
sbuffò.
«Cosa
pensi di quello che è successo ieri.»
John
ci pensò su per un attimo.
«Si
riprenderà. Gli ci vorrà del tempo, ma
è testardo. Starà
benissimo.»
ovviamente si guardò bene dal pronunciare quel nome.
«Non
era a questo che mi riferivo dottore. Intendevo il caso. Secondo te
davvero non se lo ricorda o sta solo facendo finta?»
«Ha
preso delle botte in testa Greg cosa pretendi, che ti faccia un
identikit completo dell’aggressore?»
«Beh
non sarebbe male… Se non lo fa Sherlock chi altri. A volte
penso
che vorrei la sua memoria, ma poi penso anche che il gioco non vale
la candela.»
John
roteò gli occhi.
«Dagli
tempo e ti dirà tutto.»
«E
se quel tizio lo fa con qualcun altro?»
«Non
prendermi in giro Greg, lo sappiamo entrambi che probabilmente
avrà
fatto incazzare qualcuno.»
«Wow.
C’è l’hai ancora così tanto
con lui?»
Merda…
Non intendeva dirlo in quel modo. Non c’è
l’aveva con
lui.
Almeno non come prima. Però non rispose.
«Ho
capito.»
Invece
non aveva capito nulla.
«Per
te sarà difficile vederlo dopo tutto quello che è
successo.»
John
sbuffò, preso dall’esasperazione.
«Stai
cercando di provocarmi o cosa?»
«Sto
cercando di capire.»
«Lascia
perdere.»
tagliò il discorso e si chiuse in se stesso sperando che il
detective di Scotland Yard recepisse il messaggio. Per fortuna non
proseguì con l’argomento e il viaggio fu di nuovo
silenzioso.
Arrivarono
all’ospedale e parcheggiarono in uno dei posti riservati.
Salirono
allo stesso reparto del giorno precedente. Mycroft e gli altri ancora
non erano arrivati e non c’era nemmeno il dottor Lewis.
John
era tentato di entrare ugualmente, voleva vederlo da solo, ma si mise
a sedere nelle poltroncine di plastica lungo il corridoio, insieme a
Lestrade.
Dopo poco arrivò un'infermiera tutta vestita di
bianco, che spingeva un carrellino, entrò nella stanza di
Sherlock.
Uscì dopo una decina di minuti.
«Aspettate
qualcuno?»
chiese la donna ai due uomini.
«Si
il dottor Lewis, per vedere il paziente della 216.”
intervenne
Lestrade.
«Oh,
credo che il dottore abbia avuto un'emergenza in chirurgia, gli ci
vorrà un po’.»
Lestrade
fece una smorfia.
«E
non possiamo entrare lo stesso? Sono della polizia, e lui è
un
dottore.»
indicò John che fece un sorriso tirato
all’infermiera. Lei sembrò
pensarci.
«Veramente
non è consentito…»
«Ma
andiamo, sono un poliziotto, di cosa avete paura? Oltretutto il
paziente è un mio grande amico, praticamente come un
parente.»
Quest’affermazione
diede non poco fastidio a John. Un parente, quando Sherlock nemmeno
si ricordava quale fosse il nome di Lestrade.
«Lei
sa chi c’è sul modulo come referente del paziente
in caso di
emergenza?»
Lo
sguardo di Lestrade si illuminò. Diede una pacca sulla
spalla di
John.
«Certo
che lo so! C’è l’ha proprio davanti!»
John
si morse l’interno delle guance. Effettivamente era il
referente e
il numero di contatto da chiamare in caso di evenienza, ma non era
sicuro di esserlo ancora. Sicuramente Sherlock doveva averlo
cambiato.
«Aspettate
qui due minuti che controllo.»
l’infermiera si allontanò.
«Andiamo!-
Lestrade allargò le braccia per poi lasciarle ricadere. -
Che
diavolo di problema hanno, sono un poliziotto con un distintivo e tu
praticamente convivi con Sherlock! Di cosa hanno paura?»
John
storse la bocca in una smorfia.
«Ero
il suo coinquilino. Ora non più. E loro hanno delle
procedure da
rispettare. In più Mycroft gli avrà minacciati
abbastanza.»
«Che
cavolata.»
rispose Lestrade stizzito.
Dopo alcuni minuti fece ritorno
l’infermiera, a questo giro senza il carrellino.
«Lei
è il dottor John Watson?»
chiese, il dottore in questione annuì.
«Sì
sono io.»
«Allora
potete entrare.»
«Alla
buon ora! Visto, glielo avevo detto o no?»
L’infermiera
abbozzò un sorriso.
«Vi
chiedo scusa non è che non mi fidi, ma ci è stato
ordinato di non
far entrare nessun estraneo.»
John rifilò un'occhiata al detective al suo fianco.
«Si
ma io non sono un estraneo, sono un dannato detective di Scotland
Yard.»
«Mi
dispiace davvero ma sono ordini dall’alto.»
ed entrambi sapevano molto bene da quale “alto”
provenissero.
«Prego.”
L’infermiera
gli accompagnò fino alla porta della stanza e la
aprì.
«Gli
ho appena dato la dose di antibiotici e antidolorifici, quindi
potrebbe star dormendo, o farlo a breve.»
lei poi si assicurò che avessero tutte le indicazioni, e
uscì
chiudendosi la porta alle spalle.
«Ehi
Sherlock. Ti vedo bene oggi.»
Lestrade si fece avanti, avvicinandosi al letto.
Sherlock aprì
l’occhio buono e lo squadrò da capo a piedi, sulla
sua faccia non
c’era alcuna espressione, le sue labbra erano tirate in una
linea
retta.
John rimase dietro.
«Ancora
non riesci a parlare eh? Senti allora perché non lo scrivi,
va bene
qualunque dettaglio.»
Tirò
fuori il taccuino dalla tasca interna della giacca, e una penna
dall’altra tasca, e mise gli oggetti sul letto, accanto alla
mano
di Sherlock, che fissò gli oggetti, senza muovere un muscolo.
«Anche
l’ultima cosa che ricordi.»
L’occhio
di Sherlock si spostò, cercava qualcuno nella stanza,
finché non
trovò John, che non si era ancora mosso.
Lestrasde si voltò
verso John.
«Uhm
d’accordo, quindi l’ultima cosa che ricordi
è John… Al
parcheggio?»
Sherlock
scosse la testa, così impercettibilmente.
«Credo
intenda in ambulanza.»
Rispose John. Sherlock stava ancora li a fissarlo, e John si sentiva
incredibilmente a disagio.
«Ah
giusto l’ambulanza.»
«E
invece prima?- Lestrade aveva intenzione di insistere finché
non
avesse ottenuto una risposta soddisfacente. -Intendo prima
dell’ambulanza… Tipo… La sera prima. Ti
ricordi quello che hai
fatto?»
La
bocca di Sherlock si strinse, le cuciture nere che tenevano insieme
il lato del labbro superiore quasi sparirono.
«Greg
non credo sia il caso di insistere, non mi sembr-»
«Dai
lo so che te lo ricordi. Mi basta poco, per ora posso
accontentarmi.»
A
John non piaceva affatto che Lestrade insistesse in quel modo, quando
era chiaro che a Sherlock dava fastidio. Perché non lo
capiva?
Ma
Sherlock non si mosse.
John allora si decise ad avvicinarsi.
Andò verso il letto, dal lato opposto.
«Mi
dispiace.- disse solo. -Dico davvero, scusami se… sono
sparito
così.»
deglutì.
Doveva essere un semplice discorso di scuse ma gli
sembrava la cosa più difficile che avesse mai fatto nella
vita,
anche più di andare in guerra.
Prese un bel respiro.
E
Sherlock era lì, che lo guardava, anzi lo fissava,
quell’iride
ancora nera e circondata di rosso.
«Va
tutto bene. Io non vado da nessuna parte.»
gli prese la mano, e vide la sua iride diventare lucida.
Sentì le
dita lunghe e magre di Sherlock stringersi sulla sua mano.
In
quel momento entrò il dottor Lewis.
«Mi
dispiace che abbiate dovuto aspettare molto ma ho avuto un
emergenza.»
«Si
lo abbiamo saputo.»
ripose
Lestrade.
«Come
sta andando qui?»
il dottore si avvicinò per controllare Sherlock, che strinse
ancora
di più la mano di John.
«Bene
credo, l’infermiera ha detto di avergli dato antibiotici ed
antidolorifici.»
questa volta fu John a rispondere.
«Molto
bene.»
il dottor Lewis prese la piccola torcia dal taschino e la
puntò
sull’occhio di Sherlock per controllare che rispondesse bene.
«Qui
direi che è tutto a posto, l’ematoma interno si
sta
assorbendo.»
«Quanto
ci vorrà prima che torni ad usare anche l’altro
occhio?»
chiese Lestrade.
«Penso
che già la prossima settimana possiamo togliere la benda. Ha
parlato
oggi?»
«No.»
rispose Lestrade.
«Capisco.»
Il
dottor Lewis controllò la gola e il collo di Sherlock.
«E’
normale?»
«Credo
che sia una sua scelta. Il gonfiore causato dallo strangolamento
è
diminuito e le vie respiratorie sono aperte, le ghiandole si sono
sgonfiate. Se non si sforza può parlare.»
«Che
significa, che si sta rifiutando di proposito di parlare?»
Lestrade non prese bene quell’informazione.
«Altamente
probabile, si.»
“Andiamo
mi prendi in giro!»
la frustrazione del detective era rivolta a Sherlock, che
sobbalzò.
«Ehi
Greg, falla finita.»
rispose John, guardando male l’uomo.
«Ma
lo sai…»
«Non
me ne frega niente Greg, lascialo in pace.»
«Ah
certo adesso ti fa comodo difenderlo, non mi pare fossi dello stesso
avviso fino a poco fa.»
Lo
sguardo di John si accese di rabbia e lo stomaco gli si strinse.
«Sta
zitto.»
ringhiò in direzione del detective.
Il dottor Lewis si schiarì
la gola.
«Se
dovete litigare fatelo fuori.»
«Mi
dispiace.»
rispose John contrito.
«L’ora
delle visite è finito. Tornate oggi pomeriggio se siete
più
calmi.»
«Non
può buttarmi fuori sono della polizia e sto facendo il mio
lavoro.»
«Posso
e come. Avanti andate.»
John
fece per allontanarsi, senza ribattere, ma qualcosa lo stava
trattenendo. O meglio, qualcuno. Abbassò lo sguardo. La mano
di
Sherlock era ancora stretta nella sua. Mise sopra la sua quella che
aveva libera.
«Ti
prometto che tornerò oggi pomeriggio.»
Ora
ci mancava quello sguardo.
«Mi
dispiace.»
lo disse ancora e si liberò dalla sua presa.
Gli sembrava
davvero di abbandonarlo come lo aveva abbandonato un anno fa.
Si
voltò e uscì senza guardarsi indietro, non
aspettò nemmeno che
Lestrade uscisse con lui.
Una volta fuori prese aria a pieni
polmoni.
__________________________________________________________________________________________________________
Note d’autrice:
E questa era la parte facile, ora inizia la parte in salta, sono ancora più curiosa di sapere cosa ne penserete.
Anche perché a visualizzazioni non sta andando male, benché le recensioni scarseggino, ma non si può pretendere tutto dalla vita, quindi mi accontento. Non vergognatevi che non mordo :D
John se la caverà così a buon mercato? Un po' troppo facile... Solo il futuro lo dirà. Come potrà rimediare? per ora gli dice bene che Sherlock sia malconcio e non messo troppo bene. Facile chiedere scusa quando la persona a cui hai fatto un torto non parla.
Al prossimo aggiornamento.
Much Love. |
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Capitolo 7 *** Capitolo 7: ***
Capitolo
7:
***
[Revisionato]
John
fece ritorno in ospedale al pomeriggio, da solo. Aveva preso la
metropolitana e fatto il tratto di strada mancante a piedi. Questo
gli aveva dato tutto il tempo di pensare e pensare; cosa avrebbe
potuto dirgli? Aveva cambiato e ripetuto quel discorso centinaia di
volte.
Salì
al piano, non c’era nessuno, nemmeno l’ombra di
Lestrade, del
dottore o delle infermiere. Perfetto.
Decise
ugualmente di entrare nella stanza di Sherlock, abbassò la
maniglia.
E
trovò Mycroft che discuteva con suo fratello. O meglio,
Mycroft
parlava principalmente da solo.
Il
maggiore degli Holmes si voltò con uno scatto, pronto a
fulminare
con lo sguardo chiunque avesse osato interromperlo.
«Che
cosa ci fai tu qui?» dalla faccia Mycroft non era affatto
contento
di trovarsi lì John.
John
prese un bel respiro ed entrò, richiudendo la porta.
«Sono
venuto a vedere Sherlock…» non aveva intenzione di
fare il dimesso
come tutti i leccapiedi di Mycroft, ma non voleva nemmeno dargli
altre ragioni per litigare.
«Hai
proprio un bel coraggio. Non credi di aver fatto abbastanza?»
Sherlock
afferrò la manica della giacca del fratello maggiore, che
non si era
aspettato quella reazione.
«Non
mi dire che lo hai già perdonato. Figurarsi, sei sempre
stato quello
con il cuore tenero della famiglia, hai preso tutto da mamma. Ma non
ho intenzione di stare ancora a guardare. Non me ne frega un
accidente di quali sono le sue ragioni.- a quanto pareva i fratelli
Holmes avevano imparato a leggersi nel pensiero perché
Sherlock non
doveva nemmeno parlargli per farsi capire. -Sei quasi morto a causa
sua! E chi pensi che avrebbe dovuto dare la notizia a mamma e
papà
se fosse successo il peggio? Sì esatto, io. Ringrazia che
non gli ho
avvisati di quello che è successo, non voglio fargli morire
prima
del tempo.»
John
non poteva crederci. Mycroft aveva tenuto all’oscuro i suoi
stessi
genitori della gravità di quello che era successo ad uno dei
loro
figli.
Razionalmente
aveva senso, lo aveva fatto per non farli soffrire con la notizia che
loro figlio fosse quasi morto e si trovasse in ospedale in pessime
condizioni.
«Tu
non hai detto nulla ai signori Holmes?» non aveva potuto fare
a meno
di porre questa domanda.
«Non
che sia affar tuo.- rispose Mycroft senza nascondere tutto il suo
sdegno. - I nostri genitori ne hanno già passate abbastanza
e non
gli serve altra sofferenza. Mio fratello per fortuna è
ancora vivo e
si riprenderà, certo non grazie a te.» ci tenne a
fare quella
precisazione.
«Ma
faranno delle domande, vorranno vederlo.»
«Ho
detto loro che Sherlock sarà fuori
dall’Inghilterra per un po’,
per risolvere un caso difficile.»
Giusto.
Ovviamente Mycroft aveva previsto ogni dettaglio.
Poi
lo vide avvicinarsi con fare minaccioso.
«Se
ti azzardi a dire anche solo una parola…»
John
resse il suo sguardo.
«Non
dirò proprio un bel niente.»
«Puoi
anche smetterla con questa sceneggiata, lo so che lo fai solo
perché
devi farti vedere così integerrimo davanti agli altri.
Bravo. Hai
fatto il tuo lavoro, hanno visto tutti che ti preoccupi. Puoi
tornartene da dove sei venuto.»
John
sentì la rabbia mandargli a fuoco le vene. Come si azzardava
a
dirgli una cosa del genere?
«Sta
zitto! Non sei nessuno per parlarmi in questo modo, sono qui per
Sherlock!» Mycroft si mise a ridere.
«Ma
chi vuoi prendere in giro. Sei qui solo perché ti senti in
colpa e
devi ripulirti la coscienza. Chi credi che abbia raccolto i pezzi eh?
Chi credi che si sia dovuto assicurare che non ricadesse nei soliti
brutti giri? Di certo non tu, che stavi ad auto commiserarti
chissà
dove.»
Per
John fu come ricevere una pugnalata, ma se la meritava tutta. Poteva
solo ingoiare il rospo.
«Lo
so che ho sbagliato, ne sono consapevole, non ho bisogno di Mycroft
Holmes che mi fa la paternale! Ma sono qui perché sono
preoccupato
per Sherlock e ci tengo a lui. Voglio farmi perdonare da lui. Non da
te!»
Mycroft
lo guardò con ancora più disprezzo.
«Hai
uno strano modo di tenere alle persone. Com’è che
era, ah giusto
‘sei la causa di tutti i miei mali, anzi dei mali di chiunque
ti
incontri.’ O una cosa del genere, sai la mia memoria...
Praticamente ci mancava poco che dessi a mio fratello anche la colpa
di guerre e carestie. Però sai John, tu sei un bel ipocrita.
Ti sei
sempre professato grande amico di Sherlock, e alla prima occasione
hai scaricato tutta la tua frustrazione da uomo fallito su di lui. Se
tratti così tutti quelli che consideri degli affetti, non mi
stupisce affatto di come sia finita.»
John
fece per aprire bocca e ribattere, già sul punto di
esplodere, ma
Mycroft non glielo permise.
«Non
mi importa nulla di quella criminale di tua moglie, e me ne importa
ancora meno di te. L’unica cosa che conta per me è
la mia famiglia
e questo paese, tutto il resto è uno sfondo, un ronzio
fastidioso,
come un insetto che gira intorno alle tue orecchie di notte, mentre
cerchi di dormire.
Se
mio fratello sta male, sto male anche io, e quando sto male
divento... Scontroso. Intrattabile. E chi lo sa quello che
può
succedere.»
Era
chiara la minaccia implicita in quelle parole. John prese un grosso
respiro. Non si sarebbe fatto mettere i piedi in testa da Mycroft
Holmes.
«Lo
sappiamo tutti Mycroft quanto tu sia uno stronzo, anche le persone
con cui lavori ti chiamano così, lo stronzo. Ma forse loro
hanno una
bassa autostima; e si fanno comandare a bacchetta da te senza troppi
problemi, o magari sono solo opportunisti. Ma io non sono uno dei
tuoi collaboratori e non ti leccherò mai il culo per farti
sentire
quello con il potere. Quindi vaffanculo Mycroft e non ti azzardare
mai più a parlare in quel modo della mia famiglia o ti
prendo a
calci, a costo di finire in galera.
E
per quanto riguarda Sherlock, è un uomo adulto e
può decidere da
solo, non ha bisogno della baby-sitter, anche se lo so quanto ti
piaccia mettergli altri che gli stanno dietro.»
Mycroft
lo fissò per un lungo momento, senza dire una parola.
Probabilmente
doveva star elaborando un piano per far sparire John.
Avrebbero
ritrovato il cadavere nel Tamigi.
«Tu
fallo soffrire e non avrai più una vita.» rispose
solo il maggiore
degli Holmes.
John
sospirò.
Forse
aveva vinto il match.
«Si
lo so. Ma non è mia intenzione, e mi dispiace davvero. Anche
per le
cose che ho detto.»
«Vedremo.”
Il
fatto che sembrasse si fosse arreso così facilmente non
voleva dire
nulla. Mycroft non era uno da scontro in campo aperto, ma andava
più
sul sottile, se gli avesse dato le spalle, si sarebbe trovato un
pugnale tra le scapole.
Passarono
un paio di ore con Sherlock, e Mycroft che volle che John
controllasse la cartella clinica perché non si fidava del
dottor
Lewis. John dal canto suo gli spiegò per filo e per segno
tutto
quello che era successo e quello che dicevano i referti medici.
Mycroft concluse che appena Sherlock fosse stato in grado di muoversi
abbastanza, lo avrebbe spedito in una clinica privata.
John
non era d’accordo e a quanto pare dal modo in cui aveva
guardato il
fratello maggiore, nemmeno Sherlock.
«E’
evidente che in questo momento mio fratello non è in grado
di
prendersi cura di se stesso e di prendere decisioni. Quindi lo
farò
io.»
«Ma
non puoi lui è adulto.»
«Pensi
che non possa andare da un giudice e chiederne la tutela?
Conosco
la maggior parte dei giudici di questa città e gioco a golf
con
l’altra metà di loro.»
«Mycroft
tu conosci anche la regina ma non ti da comunque diritto di decidere
sulla vita di tuo fratello.»
«Tu
hai perso ogni diritto quando lo hai abbandonato. Credi che non
sappia che ci sei tu come numero di riferimento per le emergenze e
nel testamento?»
John
deglutì a quelle parole. Aveva scoperto giusto da poco di
essere
ancora tra i principali contatti per le emergenze, ma il testamento
gli mancava…
«E
se credi che ti lascerò fare anche il tutore ti sbagli di
grosso.
Ti
rivolterò contro ogni autorità di questo
paese.»
«Oh
ma taci! Continui a fare minacce a vuoto. Vuoi vendicarti? Fallo!
Picchiami, ma poi chiudiamola qui.»
Si
era veramente seccato di Mycroft e delle sue sparate da prima donna.
«Non
sono un barbaro come te. Non picchio proprio nessuno, e comunque non
ti darei mai questa soddisfazione.»
«Sei
ridicolo.»
Sherlock
nel frattempo si era addormentato, ma iniziò a muoversi nel
sonno.
«Penso
che il miglior modo che ora ha di guarire è a casa sua, non
in un
posto che non conosce, con sbarre e cancelli.»
«Per
chi mi hai preso? Cosa credi che voglia metterlo in prigione? Quel
centro è un castello immerso nel verde. Starà
benissimo li.»
«Certo
lo immagino, hai capito cosa voglio dire. Non lo puoi rinchiudere
solo perché non vuoi prendertene cura.»
A
quelle parole John si trovò la mano di Mycroft gli stringeva
e
torceva il maglione.
«E
chi vuole prendersene cura, tu? Gelerà l’inferno
prima che ti
permetta di toccare di nuovo mio fratello.»
John
diede una forte spinta con entrambe le mani, ma il maggiore degli
Holmes era un uomo alto e tutto d’un pezzo, praticamente non
lo
spostò di un centimetro.
Lentamente
Mycroft aprì la mano e lasciò andare John, che si
fece indietro.
«Sei
completamente pazzo.»
«Proteggo
la mia famiglia. Sherlock è tutto quello che ho.»
«Intendi
come lo hai protetto da Moriarty?» aveva anche lui delle
frecce al
suo arco e intendeva usarle tutte contro Mycroft.
L’uomo
infatti storse le labbra in una smorfia.
«Cosa
vuoi, che ti dica che siamo pari?»
«Non
è una gara Mycroft. Abbiamo fatto tutti degli errori.
Capisco che tu
stia proteggendo tuo fratello, esattamente come io farei con mia
figlia. Ma questi scontri non aiutano nessuno.»
«Tu
vuoi solo essere perdonato, è l’unica cosa che ti
interessa.»
«Il
perdono lo voglio solo da Sherlock, te l’ho già
detto.»
Ed
era vero, aveva bisogno di essere perdonato da lui, anche se non
avrebbe risolto la cosa, ma sarebbe stato un inizio. Un modo per
ricominciare.
«Lo
sai benissimo che Sherlock ti ha già perdonato, non fare
questi
giochetti con me. Hai fatto tutto a posta. E’ facile farlo
sentire
in colpa.»
«Ho
detto quelle cose perché ero arrabbiato e pieno di dolore.
Anche tu
lo avresti fatto.»
«Potevo
anche crederci se ti fosse uscito un ‘ti odio’
detto sul momento,
anche a me è capitato una volta di dirlo ai miei, credo sia
capitato
a chiunque. Ma tu lo hai accusato della morte della madre di tua
figlia, hai detto che lei era senza una madre solo a causa
sua.»
«So
cosa gli ho detto ok! Lo so perfettamente!»
Era
come un coltello che veniva rigirato sempre nella stessa piaga.
Niente poteva cancellare quelle parole.
«Perdono
un accidente.- Mycroft non nascondeva tutto il suo disgusto.
-E’
quello che ti meriti, stare da solo.»
Quando
era troppo…
«E
tu? Tu che diavolo hai fatto eh? C’eri per aiutarlo?
Dov’eri
quando lo hanno massacrato? Fai tanto il fratello protettivo ma non
ti fai mai vedere! Accusi me ma non mi pare che tu sia stato
così
presente nella sua vita in quest’ultimo anno da quello che mi
hanno
detto!»
La
faccia di Mycroft aveva assunto una tonalità di viola.
Prese
il cappotto e lo infilò con gesti secchi.
«Non
finisce qui Watson.»
«Come
ti pare Mycroft, se hai ancora voglia di litigare sai dove
trovarmi.»
Cercò
di nascondere che la cosa lo faceva gongolare un poco.
Mycroft
uscì dalla stanza e quasi sbatté la porta.
Si
effettivamente battere uno degli Holmes non era una cosa che accadeva
spesso, anzi, quasi mai, ma in questa particolare occasione gli aveva
dato più soddisfazione del solito.
Si
avvicinò a Sherlock.
Era
voltato sul fianco sinistro, le mani strette contro al petto.
Sembrava
sofferente, la bocca si muoveva a scatti di tanto in tanto.
Poggiò
una mano sulla sua fronte. Con tutto quello che gli davano era
normale che dormisse così tanto. Era caldo, dalle fasciature
usciva
qualche ricciolo nero.
Lo
accarezzò delicatamente. Sherlock si lamentò nel
sonno.
«Shhh
va tutto bene, sono qui.» sembrò rilassarsi a
quelle parole.
In
quel momento sentì dei rumori fuori dalla porta, che si
aprì
l’attimo dopo.
Entrò
Lestrade, seguito dal dottor Lewis.
«John?-
lo salutò sorpreso il detective. -Che ci fai qui? Ho visto
Mycroft
uscire, sembrava avesse il diavolo alle calcagna. Adesso capisco
perché.»
«Ero
venuto a vedere Sherlock e lui era già qui. Abbiamo
parlato.» alzò
le spalle.
Nel
momento in cui i due erano entrati nella stanza aveva tolto la mano
dalla fronte di Sherlock e si era allontanato.
«Avete
parlato? E sei ancora tutto intero?»
John
roteò gli occhi al soffitto.
«Si
Greg, siamo persone civili.»
Lestrade
lanciò un’occhiata al dottor Lewis che
ricambiò con uno sguardo
dubbioso.
«Se
lo dici tu John, perché per come è Mycroft in
questo periodo userei
altri termini.»
«E’
preoccupato per suo fratello, lo saresti anche tu se foste
parenti.»
«Per
carità no, chi li sopporta questi due, sto bene come figlio
unico.»
John
sospirò. Era inutile spiegare qualcosa a Lestrade, quando ci
si
metteva diventava peggio di un mulo.
«Come
sta?» chiese il dottor Lewis a John.
«Bene
mi sembra. E’ un po’ caldo.»
«Ah
si può essere dovuto agli antibiotici.» il dottor
Lewis prese il
termometro e prese i parametri dalla fronte di Sherlock.
«Uhm…
Ha quasi 38. Vado a prendergli qualcosa per abbassare la
temperatura.»
Il
dottore uscì, lasciandogli da soli.
«Fammi
indovinare, neanche oggi ne caviamo un ragno dal buco.
Dannazione.»
Lestrade non era affatto contento della situazione, ed ogni giorno
che passava senza informazioni diventava sempre più nervoso,
in più
Mycroft che gli stava con il fiato sul collo non aiutava.
«Mi
dispiace ma devi capire che quello che gli è successo
è serio. Per
un po’ non potrai più contare su
Sherlock.»
D’un
tratto Sherlock si svegliò di soprassalto, era bianco quasi
più del
lenzuolo su cui dormiva. Sgranò l’occhio buono e
si sporse oltre
la sponda del letto, vomitando della roba bianca e vischiosa.
«Merda…
Forse è il caso di chiamare qualcuno» Lestrade
prese il filo con il
pulsante delle emergenze.
«No.
È colpa degli antibiotici.»
John
si era messo a massaggiare la schiena di Sherlock con movimenti
circolari, il poveretto annaspava, cercando di riprendere fiato, era
tutto sudato e stava lacrimando, le mani strette al camice,
all’altezza del petto.
«Per
favore Greg bagna qualcosa con dell’acqua fresca.»
«D’accordo.
Sei tu il dottore.»
Il
detective era abbastanza sconcertato ma obbedì.
Andò in bagno e si
sentì armeggiare da dentro.
«Va
tutto bene, non è niente.»
Lestrade
tornò con un asciugamano bagnato alcuni istanti dopo. John
si mise a
passarlo sul volto di Sherlock, stando attento a non toccargli le
ferite.
Lo
aiutò a mettersi seduto con la schiena contro i cuscini, in
modo che
respirasse meglio.
«Meglio
così?»
Sherlock
annuì, dando alcuni colpi di tosse.
Fece
ritorno anche il dottor Lewis.
«Oh-oh
cos’è successo qui? Niente di grave un piccolo
incidente di
percorso vero?» Teneva tra le mani un vassoio di metallo
coperto con
un velo di garza.
Prese
il filo con il pulsante per chiamare un’infermiera. Dopo un
paio di
minuti arrivò una ragazza, vestita tutta di bianco e con il
camice.
«Si
dottore?»
«Per
favore può aiutarmi? E chiami qualcuno per pulire.»
«Subito
dottore.»
L’infermiera
si affiancò al dottor Lewis, che tolse la garza da sopra il
vassoio.
Riempì
per metà una piccola siringa.
«Dopo
ho bisogno che mi prenda dell’antiemetico per vena.»
«Sì
dottore.»
L’infermiera
si affrettò a fare tutto il necessario, con il dottore che
intanto
controllava Sherlock, e si assicurava che non avesse altro fuori
posto.
«Per
ora è tutto a posto, tornerò tra un ora a
controllare che i
medicinali abbiano fatto effetto.»
«Posso
farlo io, in caso servisse qualcosa chiamerò un
infermiera.» si
propose prontamente John.
«Si
d’accordo. Se succede qualcosa mi faccia chiamare.»
Il
dottor Lewis uscì, poco dopo entrò un inserviente
a pulire, e se ne
andò il minuto dopo.
Anche
l’infermiera andò via e lasciò un
contenitore in caso servisse
per altri attacchi di nausea.
«Allora,
che facciamo?» domandò Lestrade.
«Perché
non vai a prendere un giornale e un caffè?»
«Non
mi va il caffè e poi il giornale l’ho
già letto stamattina.»
«Intendevo,
perché non vai a prenderli a me.»
L’occhiata
risentita che gli rifilò Lestrade quasi fece scoppiare a
ridere
John.
«Non
sono la tua maledetta cameriera.»
«Io
non mi posso allontanare, sai no…» John
indicò con un cenno della
testa in direzione di Sherlock.
Lestrade
lo fissò torvo.
«Perché
non te ne vai tu di sotto e io resto qui.» propose quasi come
se la
cosa gli pesasse, ma John aveva capito molto bene le intenzioni
dell’uomo.
«Ho
promesso al dottor Lewis che avrei controllato Sherlock, lo hai
sentito no? Non posso lasciarlo.»
«Se
succede qualcosa chiamo un infermiera, non mi sembra così
difficile.
Non è sul punto di morire. Più o meno.»
«Potrebbe
stare nuovamente male. E il dottor Lewis lo ha affidato a me,
è una
mia responsabilità.»
Testardo
Greg Lestrade.
Il
detective infatti sbuffo seccato.
«E
va bene! Che diavolo vuoi che ti prenda?»
«Il
Telegraph ed un caffè lungo. Grazie.»
Prese
dieci sterline dal portafoglio che teneva nella giacca e
allungò la
banconota a Lesrade, che con fare infastidito quasi gliela
strappò
di mano.
«Prenditi
pure qualcosa se vuoi.»
«Oh
grazie che gentile, non vorrei farti spendere troppo con dieci
sterline, devo anche portarti il resto?»
«Se
puoi, si grazie.»
Lestrade
sgranò gli occhi e lo fulminò con un'occhiataccia.
«Ti
odio.»
«Ti
voglio bene anche io.» ma ormai lo scontroso detective era
già
uscito dalla stanza.
John
sorrise, quando si voltò vide che anche Sherlock stava
sorridendo,
ma appena si accorse di essere guardato cambiò subito
espressione.
Tirò le labbra in una linea sottile, guardando un punto non
precisato davanti a se.
«Ehi,
coma va ora? Ti fa male qualcosa?»
Sherlock
scosse la testa.
«Bene.»
rispose John, posando delicatamente una mano sulla spalla
dell’amico.
______________________________________________________________________________________________________
Note d’autrice:
Ho perso il conto delle volte che ho corretto questo capitolo e ancora ho paura che faccia schifo 👀 se vedete che non rispondo è perché sono scappata a Panama con una nuova identità.
Si sono più o meno capiti i motivi per cui Mycroft si comportava in quel modo, soprattutto nei confronti di John, so che probabilmente qualcuno potrebbe trovare le sue reazioni strane, ma sapete quando le cose si scrivono da sole e i personaggi fanno un po' come gli pare? Ecco.
John ormai è esasperato da tutti e cerca di liberarsi di Greg (come dare torto a John) e fa di tutto per restare da solo con Sherlock ma a quanto pare l'universo gli rema contro.
Io comunque lo lascio qui, con la speranza che abbia un senso, fatemi sapere. Alla prossima (se torno da Panama).
Ho un contatto Instagram se a qualcuno può interessare https://www.instagram.com/lady_norin/
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Capitolo 8 *** Capitolo 8: ***
Capitolo
8:
***
[Revisionato]
Ora
che era rimasto da solo con lui non sapeva più cosa dirgli.
Andò
in fondo alla stanza e prese una sedia, la mise accanto al letto,
nello spazio tra il letto e il muro precisamente. Controllò
che i
liquidi delle flebo scendessero nel modo giusto, sapeva che non
c’è
ne fosse bisogno, ma doveva fare qualcosa, tenersi
occupato.
«Sì…
Immagino che tu non voglia parlare, almeno per un po’.
Però se ti
fa piacere verrò qui ogni giorno.»
Sherlock si
voltò a
guardarlo, e John si maledisse.
Era evidente che
volesse dirgli
qualcosa. Aprì il cassetto del comodino. Per fortuna Lestrade
era stato abbastanza intelligente da lasciare un taccuino e una
penna. Diede
gli
oggetti a
Sherlock, che prese il blocchetto e iniziò a scrivere sulla
prima
pagina. La mano gli tremava e faceva fatica ad usare una calligrafia
comprensibile, si vedeva che si stava sforzando. A John gli si
strinse il cuore, non sopportava vederlo in quello stato.
‘Sono
contento di vederti.’
Il
cuore del dottore sprofondò sotto i piedi.
«Mi
dispiace se non
mi sia
fatto più sentire. E sono contento anch'io di
vederti.»
Sherlock
scrisse di nuovo.
‘Tua
figlia ha più bisogno di quanto ne ho io.’
Ok
questa aveva fatto male, dritta
al petto.
«Va
bene basta.»
Gli
prese il blocchetto e la penna, e il cuore perse un battito quando
sentì il tocco delicato delle mani di Sherlock.
«Non ti
libererai di me così facilmente. Sono qui perché
voglio essere
qui.» Concluse, e dal momento che gli aveva portato via carta
e
penna lo aveva privato della possibilità di ribattere.
D’accordo
probabilmente era una bastardata, ma non poteva sopportare quel
discorso.
Sherlock infatti lo
stava fissando con il suo occhio
buono, e avrebbe tanto voluto che la smettesse. Si ricordò
di quella
cosa scritta da qualche parte nella bibbia ‘gli occhi che
giudicano’, o qualcosa di simile; ecco, quelli erano gli
occhi, o
meglio, l’occhio, che lo stava giudicando. E se lo meritava
tutto.
«Come va
con la nausea? Ti da ancora fastidio?»
Sherlock scosse la testa.
«Ottimo.»
si mise a sedere.
In
quel momento tornò Lestrade.
«Che
state combinando? Avete fatto pace?»
John Watson avrebbe
tanto
voluto strangolare Greg Lestrade.
Non perdeva
l’occasione di
stare zitto, per una buona volta.
Mentre il detective
di
Scotland Yard gli allungava caffè e giornale, il dottore lo
guardò
con disappunto.
«Che
c’è?» domandò Lestrade con
aria da
finto ingenuo.
«Hai
fatto presto.» John non nascose dal tono
che usò, di essere infastidito dal ritorno
dell’uomo.
«Sì
non c’era nessuno al bar dell’ospedale, tra
parentesi il caffè
fa schifo. E poi avevo fretta di tornare, sia mai che a Sherlock
tornasse la voglia di parlare proprio mentre non c’ero.
Speravo che
almeno tu ci riuscissi.»
John
roteò gli occhi al soffitto.
«Ti
ho già spiegato perché non parla e stressarlo non
lo farà parlare
più in fretta.»
«Senti
non è colpa mia se ho un lavoro da
fare! E se chiamassimo uno psicologo?»
«Puoi
chiamare anche
tutti gli psicologi di Londra, ma non cambierà nulla,
parlerà
quando vorrà farlo.»
«E tu che
ne sai?»
«Perché
io ci
vado da anni da uno psicologo. Da quando sono tornato dalla guerra, e
per mesi non gli ho detto una parola.» odiava raccontare i
fatti
propri. Anche se conosceva Lestrade da tantissimo tempo ed avevano
una certa confidenza, non aveva raccontato mai a nessuno certe cose,
o meglio, lo aveva fatto, ma solo con Sherlock, e con Mary…
«Mesi?
Dimmi che scherzi.» ribattè Lestrade.
«Ti
dovrai rassegnare
Greg.»
«Ma puoi
provarci. Senti non è che sono un
insensibile, ok? Lo so che sta male. Ma c’è uno
psicopatico a
piede libero che pesta a sangue la gente nei parcheggi.»
«Lo
so! Che lo sai, ok, ma non è così che funziona.
E’ inutile che
insisti.» John aveva finito con lo sbottare. Odiava le
persone
insistenti e Lestrade era peggio di un Bulldog con un osso.
«Ma
è assurdo! A che mi serve avere l’uomo
più intelligente di tutta
l’Inghilterra!»
«E come
facevi prima che arrivasse lui me lo
spieghi? Come andavate avanti?»
«Beh…
Andavamo avanti… Non
proprio nel migliore dei modi…» Lestrade sembrava
quasi in
imbarazzo a dover ammettere che Sherlock, per le indagini della
polizia, era stato un enorme aiuto.
«Vorrà
dire che dovrai
tornare a fare le cose alla vecchia maniera.»
Lestrade non era
affatto contento di quella prospettiva, ma a John non importava,
purché lasciasse in pace Sherlock.
Il detective
sbuffò.
«Immagino
che dovrò fare così.»
«Anzi
perché
non inizi subito, sicuramente avrai un sacco di lavoro da fare, ed
è
inutile che tu rimanga qui.»
Lestrade non era
affatto un uomo
stupido, benché fosse tremendamente testardo e a volte un
po’
ottuso, ma stava osservando il suo interlocutore come se stesse
sondando un indagato.
«Potresti
aiutarmi tu. Sei stato per anni
dietro alle indagini di Sherlock sicuramente saprai come si
fa.»
«Io
devo restare qui, lo sai.»
“Sì.
Lo so…»- ora era proprio
sospettoso. - «Bene allora… Io vado, vedo di
combinare
qualcosa.»
«Ottimo,
e chiamami, in caso.» John congedò
l’amico senza troppi convenevoli.
Dopo
che Lestrade se ne fu andato, John si rilassò sulla sedia
accanto al
letto di Sherlock. Prese un sorso di caffè e aprì
il
giornale.
«Vediamo
che succede qui.» Poi si ricordò che non
era da solo. Alzò il viso verso Sherlock, che lo stava
ancora
guardando, senza nessuna precisa espressione in volto.
«Vuoi
che lo legga ad alta voce?»
Sherlock ci
pensò su un attimo e
annuì. John iniziò dal titolo della prima pagina;
dopo pochi minuti
Sherlock stava dormendo; la testa appoggiata sul cuscino. Era rivolto
dalla sua parte, quindi poteva vederlo bene in faccia, per quello che
si poteva a causa delle ferite multiple sul suo volto.
Lo zigomo
tenuto insieme da cerotti da sutura era diventato giallognolo, il
labbro superiore sembrava sparire sotto quel grossolano filo nero, il
taglio che lo divideva era quasi scolorito, come se non arrivasse
sangue a sufficienza; l’enorme cerotto che copriva
metà del lato
sinistro del volto, a causa dell’occhio collassato, ci
avrebbe
messo parecchio tempo a tornare al suo posto, il setto nasale era
rattoppato come lo zigomo. Quei segni, le cicatrici, gli sarebbero
rimaste tutte.
Lo
accarezzò sulla fronte, che era umida e calda
a causa della febbre e dello sforzo causato dall’attacco di
nausea
di poco prima.
Non era giusto.
Avevano avuto i loro bei problemi
ma non era così che voleva andassero le cose. Aveva
già perso Mary,
non poteva perdere anche Sherlock. Era stato troppo egoista, in preda
alla rabbia, aveva detto cose orribili e che con il senno di poi non
pensava, così aveva rovinato tutto. Non era nemmeno sicuro
di poter
recuperare il suo rapporto con lui. Sicuramente non per come era
prima.
Era solo uno
stupido e finiva sempre con l’auto
isolarsi dagli altri, non importava quanto provasse ad integrarsi con
il mondo là fuori. Rosie ancora era piccola, ma sarebbe
cresciuta e
avrebbe finito con il rovinare anche lei. Se ne sarebbe andata e non
avrebbe più voluto saperne, e Sherlock si sarebbe ripreso
presto o
tardi, sarebbe tornato a casa sua, e non si sarebbero più
visti. E
tutto perché era stata una sua scelta andarsene,
allontanarlo,
voltargli le spalle.
Sospirò,
guardandolo dormire. Sembrava rilassato. Se non fosse stato per il
suo corpo ferito e rotto, non avrebbe nemmeno pensato a quanto
potesse star soffrendo dopo quello che gli era successo.
Arrivò
sera, non era ancora ora di cena, che tornò anche il dottor
Lewis.
«Allora
come vanno le cose?»
«Direi
bene. Penso
che la febbre per ora sia diminuita.»
Il dottore si
avvicinò a
Sherlock, che ancora stava dormendo, e gli misurò la
temperatura con
l’apposito apparecchio.
«Si ora
è a 36 e 8. Ha dormito tutto
il tempo?» chiese mentre continuava a controllarlo e gli
misurava la
pressione.
«Si
è addormentato dopo che lei se ne è andato,
diciamo, dopo una mezz'ora più o meno.» John non
si perdeva un
movimento del collega.
«E ha
vomitato di nuovo o avuto ancora
la nausea?»
«No, non
ha più avuto vomito e da quello che mi
ha detto nemmeno nausea.»
«Glielo
ha detto?»
«Intendo
dire che gliel’ho chiesto e lui si è limitato a
fare no con la
testa.»
«Ah ecco.
E non ha proprio parlato?»
«No, mi
dispiace.»
«Il suo
amico detective sarà stato contrariato, a
proposito dove è andato?»
«L’ho
convinto a fare altre
ricerche, è inutile che stia qui a tormentarlo, quando
è chiaro che
non parlerà a breve.»
Il dottor Lewis
sospirò.
«Lo sa
Dottor Watson è davvero una fortuna averla qui, a volte i
parenti
sanno essere davvero pressanti, almeno lei da medico capisce come sia
la situazione e di quello di cui ha bisogno il paziente.»
Il
paziente, già… Sherlock era tutto per John,
fuorché un
paziente.
«Intende
dire i parenti terribili come Mycroft
Holmes?»
«Non mi
fraintenda io capisco il suo stato emotivo,
immagino quanto il signor Holmes sarà spaventato in questo
momento,
dopo aver quasi perso suo fratello. Immagino siano molto
legati.»
«Mycroft
Holmes spaventato, questa è bella. No io
userei più il termine paranoico e possessivo. Gli si addice
di più.
E’ preoccupato che suo fratello combini qualcosa, come
già è
capitato in passato, e lui non possa sistemarlo prima che si venga a
sapere in giro. Diciamo che Sherlock è quello impulsivo e
che non
ama particolarmente seguire gli schemi, mentre Mycroft
l’esatto
opposto.»
Il dottor Lewis
sembrava abbastanza sconvolto da
queste informazioni, e John si chiese come doveva essere vista la
famiglia Holmes all’esterno, da chi non gli conosceva
affatto, o
solo dai giornali quando se ne parlava.
«Beh dal
suo
comportamento mi sembra uno molto apprensivo.»
«Il
motivo per
cui vuole mandare Sherlock in una clinica privata e per coprire la
sua aggressione.» concluse John sentendo la rabbia e
l’irritazione
che aumentavano.
«Ma mi
sembra che voglia che il colpevole sia
preso immediatamente visto come insiste con il suo amico
detective.»
«Questo
non lo metto in dubbio, ma non toglie che
gli interessi di più che la notizia non circoli in giro. Mi
faccia
indovinare, le ha fatto firmare un contratto.»
La bocca del
dottor Lewis si spalancò a quelle parole.
«Sì,
un contratto
di non divulgazione. Lo ha fatto firmare a tutto il personale del
piano e ai dirigenti dell’ospedale, se esce anche solo una
parola
sui giornali.»
«Vi fa
saltare?» aggiunse John.
Il dottor
Lewis annuì.
«Che cosa
terribile.»
«Non dico
che nel
suo modo contorto non voglia bene a suo fratello, ma prima deve
assicurarsi di coprire la sua famiglia e se stesso.»
«Capisco.
E’ una fortuna che ci sia lei dottor Watson, non lo
ripeterò mai
abbastanza.»
John
abbozzò un sorriso.
«Sono una
famiglia
complicata ma ormai ci sono abituato, so come ragionano.»
«Da
quello che mi è parso di capire sono persone molto
intelligenti.»
«Oh lei
non sa quanto, è difficile stargli
dietro.»
«Però
lei ci riesce.»
«Gliel’ho
detto,
ormai ci sono abituato, so come ragionano e come agiscono, e sono
come il giorno e la notte.»
«Per
questo preferisce Sherlock a
Mycroft?»
John
tirò un sorriso.
«Sherlock
è più…
Uhm…» era difficile trovare un modo giusto di
descriverlo,
Sherlock era tante cose tutte insieme.
«Comprensivo
e
empatico.» si probabilmente se il suo coinquilino lo avesse
sentito
usare un termine come empatico per descriverlo, si sarebbe messo a
ridere. Però era vero, per quanto lui stesso si definisse
sociopatico, gli interessava davvero aiutare le persone, ed era
quello che faceva nella vita, usava il suo dono per gli altri, e non
unicamente per persone di potere. Ma per gente comune. E questo era
dimostrare empatia.
«Capisco.
Sa io non avevo idea di chi
fosse. Sono state le infermiere a dirmelo e il detective Lestrade mi
ha spiegato a grandi linee quello che era successo affinché
capissi
come fosse arrivato ridotto in queste condizioni.- Il dottor Lewis
guardò Sherlock che ancora dormiva. -Quindi è
stato durante una
delle sue indagini che è stato aggredito.»
«Questo
ancora non
lo sappiamo con precisione, ma probabilmente si.»
«Ci vuole
coraggio.»
«Mi creda
lui ne ha, in effetti la definirei più
stupida voglia di mettersi nei guai.»
«L’esatto
opposto di
un dottore, eh? Mi spieghi, come ci è finito uno come lei,
che se
posso permettermi, mi sembra che siamo simili, entrambi abbiamo
combattuto, abbiamo dovuto prendere decisioni difficili, siamo
razionali e ponderati; possa essere finito con qualcuno di
così
diverso.»
«Mi creda
me lo chiedo spesso anch'io, ma credo
proprio perché avevo bisogno di altro, di fare cose che non
avrei
mai fatto normalmente.»
«Ed
è quello che è
successo?»
«Assolutamente
si.»
«E le
piace?» Il dottor
Lewis sembrava davvero preso dalla discussione. Non doveva essere una
persona che faceva cose solo per il gusto di farlo, fare una
‘follia’, preso dal momento.
«Assolutamente.
Ho trovato il
mio modo di affrontare… I traumi, diciamo.»
«Oh.
Senta le
andrebbe di venire qui per pranzo e cena ad aiutarlo a mangiare?
Dalla prossima settimana ho intenzione di diminuire la nutrizione
artificiale. Ovviamente se le è possibile.»
«Uhm si,
si certo
che va bene.»
«Molto
bene, ottimo. Gli farà bene avere
qualcuno che conosce e di cui si fida, stargli vicino.»
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_______________________________________________________________________________________________________________
Note d’autrice:
Se non perdo lettori dopo questa vi devono fare santi. Tra Greg insopportabile, però c'è da capirlo da una parte, deve fare il suo lavoro. C'è un pazzo a piede libero che va fermato. La faida tra John e Mycroft prosegue, praticamente ora sono a livello guerra fredda. Poi bisognerà vedere come evolverà la questione 👀👀👀
Grazie se siete arrivati alla fine, a chi ha commentato lo scorso capitolo, come sempre spero che non faccia troppo schifo quello che scrivo anche se ovviamente non è privo di difetti, ma cerco di fare quello che posso, sono consapevole di non essere una scrittrice perfetta, e anzi, però cerco di impegnarmi per quello che posso, e sono comunque contenta dei risultati a cui sono arrivata. Varie paranoie a parte.
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Capitolo 9 *** Capitolo 9: ***
Capitolo
9:
***
Questo
capitolo contiene descrizioni di procedure mediche e
l’utilizzo di
aghi.*
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[Revisionato]
Come
chiesto dal dottor Lewis; John tornò il lunedì
per aiutare Sherlock
con i pasti.
Ancora
non era nella sua stanza, a quello che gli avevano detto le
infermiere, lo avevano portato via per delle visite di controllo e
per fare la terapia.
Quindi
restò fuori ad aspettare per almeno un ora. Quando alla fine
lo
portarono su, avevano già iniziato a servire il pranzo.
Entrò.
Sherlock
era nel suo letto e si stava muovendo, sembrava insofferente.
«Come
va?» Domandò John, che non si era accorto della
presenza del dottor
Lewis ancora nella stanza.
«Abbiamo
tolto un po’ di bende come si può vedere. Le
ferite alla testa
sono guarite bene e gli ematomi interni si sono riassorbiti; anche
l’occhio va meglio, ma è meglio che ancora non lo
usi, le luci
intense potrebbero danneggiarlo e qui purtroppo non siamo dotati di
luci soffuse.»
Mentre
parlava stava cambiando una delle flebo, buttando una sacca vuota.
«Tornerò
dopo pranzo a dargli l’antibiotico, è meglio che
inizi a mangiare
qualcosa, anche se liquido, se riesce a tenerlo. Ma deve
abituarsi.»
«Ci
proverò.»
«Grazie
ancora per il suo tempo dottor Watson.»
«Mi
chiami John, e non si preoccupi. E’ il minimo che possa
fare.»
«Lo
sa di solito noi dottori non sopportiamo vedere altri colleghi al
nostro posto. Lei invece credo sia una delle persone più di
aiuto
con cui abbia mai avuto a che fare.»
«Non
esageri adesso. E’ vero quello che dice ma pestarci i piedi a
vicenda non sarebbe affatto utile e al momento l’unica cosa
di cui
mi interessa… -« John si schiarì la
gola. «- E’ aiutare il mio
amico.»
«E’
sicuro che non sta cercando lavoro? Sarei davvero felice di proporla
all’ufficio risorse.»
John
rise.
«La
ringrazio ma no, sto bene così, non potrei mai reggere i
ritmi di un
ospedale.»
«Certo
la capisco benissimo. Si è molto impegnativo effettivamente.
Anche
mia moglie mi sgrida sempre, dice che lavoro troppo e vorrebbe
andassi in pensione, ma io non sono capace a stare fermo.»
«Nemmeno
io. Non amo non lavorare, devo tenermi impegnato con
qualcosa.»
«Ma
sbaglio o lei è anche un detective? Così mi pare
di ricordare.»
«Ah
si, non esattamente detective, ma un consulente
investigativo.»
ovviamente non era proprio così ma era già una
situazione
ingarbugliata, figurarsi andarla a spiegare a qualcuno di totalmente
estraneo al loro mondo.
«Questo
sì è avere un hobby. E
com’è?»
A
John non era piaciuto molto che il dottor Lewis lo definisse
“hobby”.
Aiutare la polizia non aveva niente dell’hobby. Ma aveva
capito che
probabilmente l’uomo lo intendesse come tale
perché per lui essere
medico era l’unica cosa che sapeva e voleva fare nella vita.
«Difficile.
Bisogna usare molto la mente e non è facile vedere certe
situazioni.»
«Un
po’ come fare il dottore.» aggiunse il dottor Lewis.
«Sì,
un po’ come fare il dottore. Con la differenza che possiamo
far
arrestare chi fa del male ad altri.»
«Deve
essere molto appagante.»
«Insomma,
va a giorni. A volte è terribilmente frustrante. Soprattutto
quando
i cattivi riescono a farla franca.»
«Immagino.
Io ad esempio non sopporto gli avvocati. Per loro qualunque occasione
è buona per seppellirti, non puoi commettere sbagli, nemmeno
il più
piccolo.»
«Assolutamente
d’accordo. Riuscirebbero anche a convincere qualcuno che il
cielo è
verde.»
Il
dottor Lewis finì di sistemare il rilevatore cardiaco.
«Ecco
ora è tutto a posto, tra poco passerà qualcuno a
portare il
vassoio, non preoccupatevi, può chiederlo anche per se
dottor
Watson.»
«A
grazie non si preoccupi, non ho fame al momento.»
Il
dottor Lewis uscì, lasciandoli finalmente soli.
John
sistemò la sedia accanto al letto e si mise a sedere.
Sherlock
si stava grattando convulsamente nel punto in cui l’ago con
la
cannula era attaccata a una delle flebo. Anche se era coperto con un
cerotto abbastanza largo era quasi riuscito a sollevare una parte.
«Ehi!
Falla finita!»
Gli
bloccò la mano con cui stava grattando. Sherlock a quel
contatto
sobbalzo e diede uno strattone con il braccio, tirando il filo
collegato all’ago, che si era impigliato, facendo
così strappare
il cerotto e l’ago in questione uscì per una parte
dalla vena.
«Merda...
Guarda qua che casino.»
Sherlock
teneva il polso stretto con l’altra mano contro al petto, si
era
mezzo rannicchiato su se stesso, per quanto potesse riuscirci, e lo
fissava sconvolto.
«Dai
non è successo niente, si sistema tutto, capita.
È solo uscito un
po’ l’ago, basta rimetterlo al suo
posto.» John si era alzato
per cercare di sistemare la faccenda, e aveva allungato una mano per
prendere il polso di Sherlock, che però sembrava non volesse
particolarmente collaborare.
«Avanti
dammi qua, te la sistemo io, non c’è bisogno di
far venire un
infermiera.»
Sherlock
molto titubante aveva allentato la presa e allungato il braccio verso
John.
La
cannula si trovava inserita nella parte sotto del polso,
sollevò il
cerotto e vide che c’era un grosso livido, che era diventato
viola
scuro e con un bel bernoccolo proprio dove era inserito l’ago.
«Che
casino hanno combinato? Cosa sono dei principianti usciti
dall’Università? Ma guarda qua.»
Molto
delicatamente sfilò l’ago e coprì il
foro con un pezzo di carta.
«Meglio?»
Solo
ora aveva alzato gli occhi per guardare Sherlock, sembrava un cervo
in mezzo alla strada, rimasto abbagliato dai fari di una macchina.
«Non
è niente, dico davvero. Oh dai.»
massaggiò delicatamente con il
pollice il punto dove si era formato quel bozzolo.
«Dobbiamo
trovare un altro posto dove metterlo, qui non va più
bene.»
Chiuse
la piccola valvola che faceva scorrere il liquido nella sacca della
flebo alla vena, così che non si perdesse per terra, e
attacco un
pezzo del tubicino con una parte del cerotto al bordo del comodino.
«Fammi
vedere l’altra mano.»
Sherlock
titubante obbedì, John gli sollevò la manica del
camice per
controllare.
«Uhm...»
Visto
i certi precedenti di Sherlock era normale che le vene non fossero
nelle migliori condizioni, e anche se erano ormai anni che non faceva
più uso di droghe, almeno per quello che ne poteva sapere,
dal
momento che non lo aveva più visto per più di un
anno, alcuni degli
effetti collaterali si sarebbero protratti ugualmente nel tempo.
Avere le vene soggette a flebiti era uno di quegli effetti, in
più
la lunga permanenza in ospedale non aveva aiutato dal momento che le
vene erano state usate molteplici volte.
In
quel momento entrò un'infermiera con il carrello.
«Cosa
sta facendo?»
John
era tentato di risponderle “il suo lavoro”, ma
preferì
ignorarla.
«Per
sbaglio si è sfilato l’ago.»
«Per
sbaglio?» Commentò lei già piena di
sospetti, come se un bambino
stesse cercando di fregarla. A John non piaceva per niente
quell’atteggiamento.
«Sì
per sbaglio. Si era impigliato con il filo.»
«E
ora dov’è l’ago?»
Il
dottore fece vedere all’infermiera scettica che lo aveva
sistemato
momentaneamente attaccato al comodino, e quella inorridì.
«Dia
qui, bisognerà fare un altro buco adesso.»
Si
trattenne dal rispondere in modo acido e sarcastico e staccò
l’ago,
allungandolo all’infermiera. Lei tolse il cerotto, e
sbuffò.
«L’ago
va cambiato, si è tutto storto.» Non che ci
volesse molto a
cambiare un dannato ago ma alla signora pareva scocciare in
particolar modo. Forse le dava fastidio che lui fosse lì e
lei non
potesse fare quello che le pareva.
E
lui ora le sarebbe stato con il fiato sul collo.
La
donna prese il braccio di Sherlock dove prima era la flebo, per
inserire quella nuova. Dovette mordersi la lingua per non darle
dell’incapace.
Quando
lei vide il grosso livido cercò un altro punto lungo la
vena, ma a
quanto pareva non c’era nulla di adatto. Controllò
anche la parte
superiore della mano e del polso, ma nulla.
Allora
passò all’altro braccio. Anche lì
sembrava faticasse a trovare
una vena adatta, ma comunque mise il laccio emostatico e
iniziò a
tastare un punto sopra al polso, poi lo sfregò bene con una
garza
imbevuta di alcool e iniziò ad inserire l’ago, che
a quanto pareva
girava a vuoto. Riprovò altre volte, senza risultati.
John
stava davvero perdendo la pazienza, quando si accorse che Sherlock
aveva sbiancato e stava stringendo il lenzuolo con la mano libera, si
vedeva chiaramente che si stava sforzando a non emettere un suono.
Ovviamente, non era da lui lamentarsi.
La
tizia stava riprovando un po’ più su, sempre senza
esito.
John
scattò in piedi.
«Veda
di farla finita!»
«Come
prego?» Questa si era messa a fissarlo sbalordita.
«Dove
è andata a scuola? Questa roba la insegnano al primo anno di
università! Ci sono ragazzini di 15 anni che sanno farsi
l'iniezione
da soli e lei che è un’infermiera diplomata non
riesce a trovare
una dannata vena! Nemmeno stesse cercando l’acqua nel
deserto!
Lasci, faccio io.» fece il giro del letto.
La
donna si era fatta da parte e non aveva ancora detto una parola.
Ancora troppo sconvolta.
«Io-»
fece per parlare lei.
«E
ringrazi che non vado a dirlo al suo superiore! Non ha altri giri o
disastri da fare?»
L’infermiera
si allontanò, o meglio, quasi corse fuori.
«Incompetente,
incapace.» borbottò John appena lei
uscì.
Sherlock
lo stava guardando tra l’ammirato e il preoccupato.
«Che
c’è? Preferisci che sia lei a mettere
l’ago?»
Sherlock
scosse la testa.
«Ah
ecco.»
Per
fortuna l’infermiera aveva lasciato il carrello,
così aveva tutto
l’occorrente a disposizione. Infilò un paio di
guanti in lattice e
prese a tastare le vene. Purtroppo quelle principali non erano
utilizzabili, quindi si concentrò sul dorso della mano,
lì le cose
sembravano diverse, e infatti ne trovò una che forse poteva
andare.
Sfregò
con il disinfettante, dopo di che iniziò lentamente ad
inserire
l’ago. Era talmente concentrato che non stava pensando
nemmeno a
quello che lo circondava, o a chi.
Per
fortuna non ebbe troppa difficoltà, la vena era un
po’ dura, ma
con delicatezza riuscì a posizionare correttamente lo
strumento al
suo interno, bloccò tutto con un cerotto bianco, poi
collegò il
tubo e aprì la valvola, passò il filo dietro i
cuscini in modo che
non desse più fastidio e non rischiasse di nuovo di
strapparsi, poi
cercò la crema da dare sul vecchio foro.
Massaggiò
delicatamente in modo che si assorbisse per bene.
Arrivò
l’inserviente con il vassoio sigillato con il cibo.
«Ecco
qui.-» Lo appoggiò sul comodino. «-Buon
appetito.»
«Grazie.»
Rispose John che si stava levando i guanti, per buttarli
nell’apposito bidone, sotto il carrello. Poi andò
a prendere il
vassoio e tolse la pellicola.
C'erano
del purè e una crema verde che doveva essere un qualche tipo
di
verdura non meglio identificabile, e una confezione di gelatina
rossa.
«Okay.»
Tolse
le posate di plastica e il tovagliolo di carta dall’involucro.
«Ecco,
tieni. Il tuo fantastico pranzo.»
Sherlock
guardava il non troppo invitante pasto, e dalla sua espressione si
capiva che non era troppo intenzionato a mangiare.
«Che
c’è, non devo anche imboccarti vero?»
Sherlock
scosse la testa, inorridito da quella domanda.
«Allora
mangia. Almeno provaci.» cercò di incoraggiarlo
John.
Sherlock
prese la forchetta di plastica e iniziò a tormentare il
purè.
«Senti
lo so che non è gran che come cibo, ma devi iniziare da
qualche
parte no?»
Sherlock
annuì e ne prese una piccola porzione, avvicinò
la forchetta alle
labbra, e quasi come se stesse per assaggiare del veleno, la fece
scivolare in bocca. La sua espressione di disgusto era più
che
eloquente.
Buttò
la forchetta sopra il vassoio e lo allontanò.
«Andiamo
non fare il pretenzioso adesso, lo devi mangiare, almeno un
po’,
non dico tutto.»
Sherlock
scosse la testa.
John
sbuffò e prese la forchetta, prese una bella porzione di
purè.
«Guarda
che lo faccio, sono molto bravo a fare gli aeroplani, Rosie gli
adora, riesco a farle mangiare anche i broccoli.»
Sherlock
lo fissò sconvolto, aveva spalancato la bocca e lo fissava
ad occhi
sgranati.
«Se
ti comporti come un bambino ti tratto come tale.» John si
strinse
nelle spalle.
Sherlock
doveva essersi offeso a morte ma non gli importava particolarmente.
«Decidi
tu.»
Sherlock
per tutta risposta quasi gli strappò la forchetta di mano, e
mangiò.
John
gongolò soddisfatto. Sapeva essere maledettamente
convincente.
«Visto,
non era così difficile.»
Sherlock
lo guardò storto.
«Ah
no non guardarmi così, è per il tuo
bene.»
Il
consulente investigativo si allungò oltre il bordo del letto
e aprì
il cassetto del comodino, prese il blocchetto e la penna e
iniziò a
scrivere.
‘Perché
ti importa?’ la
calligrafia era ancora incerta e la mano tremava.
«Come
sarebbe perché mi importa, che ragionamento
è?»
‘Io
ho distrutto la tua vita, che ti importa del mio bene?
Perché sei
qui?’
Il
cuore di John sprofondò. Era inutile, per quanto cercasse di
aiutarlo, non poteva semplicemente cancellare quello che aveva fatto.
Fare finta come se non fosse mai successo.
‘Vattene.’
«No.»
‘Non
mi serve la tua pietà.’
Quella
osservazione lo fece particolarmente infuriare.
«Non
lo faccio perché provo pietà!»
‘Allora
perché?’
L’unico
occhio con cui Sherlock poteva guardare e capire quello che lo
circondava, ora era diventato lucido.
«Perché…»
in realtà non lo sapeva nemmeno John il perché.
Sensi di colpa per
la gran parte, ma come faceva a spiegarglielo?
«Ti
ho abbandonato.- disse solo. -Tu avevi bisogno di me e io non
c’ero
e sei quasi morto. Per davvero. E non voglio… Non voglio che
succeda di nuovo.»
D’accordo
ormai non poteva essere più sincero di così, ma
non aveva il
coraggio di alzare la testa e guardarlo in faccia, alla fine era un
codardo e i codardi scappano.
Sentì
una mano stringersi sulla sua, e finalmente ebbe il coraggio di
alzare gli occhi. Sherlock aveva solo scritto sul suo blocchetto:
‘mi
dispiace.’
Lo
abbracciò.
«Non
farlo mai più, non posso rischiare di perderti per
davvero.»
Era
egoista? Quasi sicuramente. Ma preferiva mille volte essere egoista
che vivere in un mondo dove Sherlock Holmes era morto per davvero.
Non
poteva lasciarlo andare via, non poteva lasciarlo andare da nessuna
parte.
Lo
stupido era lui e ora doveva rimediare.
«Senti
va bene se non lo vuoi, ma almeno mangia la gelatina, quella dovrebbe
essere buona.»
Sherlock
prese la confezione, levò il coperchio con la linguetta e
assaggiò
la parte di gelatina che era rimasta appiccicata sotto. Sembrava
soddisfatto, così prese il cucchiaino e la mangiò
tutta.
«Visto,
te l'avevo detto. Di solito è la cosa migliore che
c’è in questi
posti. Anche il budino non è male.»
Passò
l’inserviente a portare via tutto.
«Ora
devo andare ma torno più tardi ok?»
Sherlock
annuì.
_____________________________________________________________________________________________________________________
______________________________________________________________________________________________________________________
Note d’autrice:
Allora, siccome lunedì ho l’appuntamento per andare a fare il 5G (spero cogliate la citazione), e non so come starò. Probabilmente morta con la mia ipocondria. Ma dettagli. Per non saltare un aggiornamento, aggiornerò oggi invece di venerdì, e domenica invece di lunedì. Quindi poi appunto, prossima settimana salterà l’aggiornamento del lunedì.
Se sopravvivo ci sentiamo direttamente o mercoledì o venerdì. Poi deciderò.
Grazie e benevenut* a chi mi ha aggiunto tra gli autori seguiti e preferiti.
Inoltre il primo capitolo ha superato le 300 visualizzazioni!
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Capitolo 10 *** Capitolo 10: ***
Capitolo 10:
***
Quando John uscì sulla strada il sole splendeva. Per essere ancora inverno era una bella giornata. Pensò che avrebbe portato Rosie al parco. Con la storia di Sherlock aveva finito per trascurare tutto il resto.
Si prese il resto del tempo per sé e per sua figlia, che si divertì talmente tanto da crollare dalla stanchezza ancora prima che tornassero a casa.
Decise di lasciarla con la babysitter e andare al 221B di Baker Street.
Si, sarebbe tornato a casa. Voleva prendere alcune cose da portare a Sherlock, qualche libro, la sua vestaglia. Lo avrebbe fatto sentire meglio avere qualcosa di casa.
Prese l’autobus, la fermata lasciava poco lontano. Prima però si appostò all’altro lato della strada, per controllare che la signora Hudson fosse fuori o uscisse di casa. Non aveva voglia di incontrarla, non per altro ma sicuramente lo avrebbe sequestrato nel suo appartamento e con la scusa di una tazza di tè gli avrebbe fatto un interrogatorio peggio della polizia. Per fortuna sembrava non fosse ancora rincasata, così attraversò la strada. Prese la chiave dalla tasca e la inserì nella toppa del portone, ovviamente la serratura era ancora la stessa, ed infatti la porta si aprì senza problemi. Le luci dall’appartamento della donna erano tutte spente. Salì la scala ed andò di sopra. Stranamente la porta era chiusa ma non a chiave, la aprì piano, sbirciando all’interno dell’appartamento; ovviamente non c’era nessuno. Entrò e si richiuse la porta alle spalle.
Tutto era esattamente come se lo ricordava. Le tende erano aperte e passava la luce esterna ad illuminare l’ambiente. Le poltrone erano girate come se le ricordava dall’ultima volta. Andò in quella che una volta era la sua camera da letto. Vuota. Ovviamente. Non c’era più niente, e non sembrava nemmeno esserci mai stato John.
Chiuse la porta, e andò verso la camera di Sherlock. In quel momento sentì un rumore provenire dalla cucina, si bloccò. Il cuore prese martellargli nel petto. C’era qualcuno. Forse la signora Hudson era in casa, o forse era Mycroft… Proprio in quel momento uscì una figura, che gli stava puntando qualcosa contro, urlandogli di alzare le mani.
John urlò.
“John???”
John nel frattempo si era seduto su una delle poltrone e stava cercando di calmare il suo cuore, che pareva volesse balzargli fuori dal petto. Prese a fare respiri profondi.
“Dio…”
“Scusa John ma che ci fai qui?- Greg ripose la pistola nella fondina. -Stavo per spararti.”
“Tu sei completamente pazzo, stavi per sparare senza nemmeno sapere chi ci fosse! Poteva essere la signora Hudson!”
“Ma no, è andata fuori città da un'amica, torna stasera. Non hai risposto alla mia domanda, che ci fai qui?”
“Sono venuto a prendere delle cose per Sherlock.”
“Ma davvero?”
“Sì.”
“Del tipo?”
John roteò gli occhi.
“Del tipo dei libri, la sua vestaglia, cose così.”
“Ma che carino…”
A John quelli insinuazione detta con quel tono non erano piaciuti proprio per niente.
“Senti ma che vuoi da me? Sei tu che sei entrato illegalmente nel suo appartamento.”
“Illegalmente? Mi ha dato il permesso la signora Hudson, e poi sto indagando.”
“Stai indagando a casa di Sherlock?”
“Sì! Sai no sto facendo il mio lavoro. Lavoro che non posso fare perché lui non parla. E poi lo hai detto tu di indagare alla vecchia maniera.”
“E cosa stai cercando di preciso?”
“Qualunque cosa. Un diario, un foglio o un agenda, una nota sul computer.”
“E lo hai trovato?”
“Nope. Niente di niente.”
“Magari perché Sherlock fa tutto a mente, sai no, niente agende o roba simile. E’ tutto qui dentro.” John si indicò con un dito la fronte.
“Ah davvero perfetto. Io non ci posso entrare nella sua testa e lui non collabora! Mi devi aiutare!”
“Ma ti sto aiutando.” si alzò dalla poltrona e sistemò il maglione.
“Ah si e come? Passi la metà del tuo tempo con lui!”
“Che c’è sei geloso?”
Greg gli rifilò un occhiataccia.
“Divertente.”
“Lo sai meglio di me, me ne sono andato un anno fa. Non so cosa stesse combinando.”
“Ma tu sai come ragiona. Potrebbe aver lasciato qualcosa da qualche parte.”
“Uhm sì, forse.”
“Eh dai.”
John sospirò.
“Io non ti prometto niente. Di solito se ha qualcosa tiene dei foglietti sparsi in giro.”
Andò verso la scrivania e iniziò a setacciarla. Guardò anche dietro al computer e nei cassetti.
“Qui non c’è nulla.”
“Io vado nella sua stanza.” disse Greg. Ma prima ancora che potesse fare un passo, John lo fermò.
“No! Guardo io li... Tu controlla la libreria ok?”
Non aspettò nemmeno che il detective dicesse qualcosa, semplicemente andò in camera di Sherlock e chiuse la porta dietro di sé.
Era tutto in ordine. Evidentemente la signora Hudson doveva aver rassettato e pulito tutto, perché non c’era neanche la polvere.
Guardò il letto. Le lenzuola erano tirate, senza nemmeno una piega, e profumavano di bucato. Era come se quella stanza aspettasse il ritorno del suo proprietario da un momento all’altro. Cosa che ovviamente non sarebbe accaduta. Almeno non a breve termine.
Andò poi verso l’armadio di Sherlock e spalancò le ante.
I vestiti erano piegati e le giacche appese alle grucce. Tutto stirato e tutto in fila ordinata.
Sospirò, pensando alla signora Hudson che lo doveva aver fatto per tenersi occupata e non pensare a Sherlock in ospedale. Si anche John capiva cosa provasse la donna. Anche lui doveva tenersi occupato per non pensare.
Prese un paio di pigiami, la vestaglia che era appesa dietro la porta. Piegò gli indumenti con cura, e poi uscì.
Si schiarì la gola. Greg stava aprendo e buttando tutti i libri sul pavimento.
“Poi lo sistemi questo casino. La signora Hudson darà di matto se lo vede.”
“Per favore, Sherlock teneva sempre tutto in disordine ma non mi pare che lei se la sia mai presa con lui.”
“A parte che non è vero e che gli diceva sempre di tenere in ordine, ma Sherlock è Sherlock.”
“Già. Allora trovato niente?”
“No. E tu?”
“Niente di niente, neanche uno straccio di indizio, una misera indicazione.”
“Te l’ho detto, lui si ricorda tutto.”
“Si ma io nella sua testa non ci posso entrare!”
“E le telecamere?”
“Stiamo esaminando quelle che erano presenti nei dintorni della zona dell’aggressione, ma al momento non c’è niente. Sempre la solita iella, quegli aggeggi è più le volte che non servono che quelli che sono utili.”
John si avvicinò alla libreria e con una mano, tenendo i vestiti di Sherlock sotto l’altro braccio, iniziò a controllare dei libri.
“Che cos’hai preso?”
“Uhm niente di che, la sua vestaglia, dei pigiami.”
Greg lo guardò con un sopracciglio alzato.
“Che c’è?” sbottò John.
“Metti le mani nella sua biancheria John? Perché io ho degli amici, ma non gli scelgo le mutande.”
“A parte il fatto che non gli ho scelto le mutande. Se un tuo amico stesse male e finisse all’ospedale tu non gli porteresti un cambio pulito?”
“I miei amici hanno moglie e figli che glieli portano.”
“A volte sei proprio ottuso.”
“Ehi! Non c’è bisogno di prendersela tanto. Permaloso eh.”
“Primo, sei tu che stai facendo insinuazioni. Secondo, non c’è niente di male ad aiutare un amico, soprattutto se ci hai vissuto insieme per anni, e se lo faccio io non lo fa nessuno!”
“Sherlock ha un fratello.”
“Ma per favore. Mycroft al limite manderebbe la cameriera/segretaria quello che è, o gli comprerebbe un guardaroba nuovo.”
“Tu invece vuoi farlo di persona.”
“Faccio quello che farebbe una persona che ci tiene!”
“Ma tu te ne sei andato.”
John chiuse gli occhi e prese un bel respiro, espirando dalle narici.
“Lo so. Lo so ok dannazione! Me ne sono andato perché mia moglie è morta quindi scusa tanto se avevo bisogno dei miei spazi! Ma ora sono tornato.”
Greg si limitò ad osservarlo con quell’espressione che assumeva quando aveva a che fare con uno dei suoi sospetti ed era consapevole che gli stesse mentendo ma voleva ugualmente vedere dove fosse disposto ad andare a parare.
“John. Tu lo hai accusato di essere la causa della morte di Mary.”
Era così, alla fine quelle parole che aveva detto in un momento di rabbia e dolore, venivano usate come un pugnale, con cui veniva pugnalato ancora, ancora ed ancora.
Prese su qualche libro, senza neanche controllare il titolo, poi prese la borsa a tracolla che si era portato e ci mise la roba.
“Non è a voi che devo chiedere scusa.” I suoi movimenti erano frenetici e secchi.
“No certo. Ci mancherebbe. Io ti avrei sparato se mi avessi detto quello che tu hai detto a lui.”
Si voltò di scatto verso il detective di Scotland Yard.
Sentiva le lacrime che gli pizzicavano dietro agli occhi, ma non perché avesse voglia di piangere, erano lacrime di rabbia. Sapeva di aver sbagliato e avrebbe pagato quell’errore, probabilmente per il resto della sua vita.
“Forse sarebbe stato meglio.”
Chiuse la borsa con uno scatto, senza voltarsi prese la porta, per poi scendere le scale.
Sapeva che era stato un errore tornare al 221B di Baker Street.
Il viaggio di ritorno fu una lenta e lunga agonia, una sadica tortura. Continuavano a girargli nella testa le immagini di quella donna che sparava a Mary, e Mary, la donna che amava, morirgli tra le braccia, mentre lo implorava di prendersi cura della loro figlia.
E poi di lui... Sherlock. Era lì davanti a loro, senza dire una parola. E lo aveva odiato, lo aveva odiato come non aveva mai odiato nessuno altro in tutta la vita. E poi ricordava parola per parola quello che gli aveva detto. Lo aveva accusato di essere la causa di tutte le sue disgrazie, e lo aveva chiamato bugiardo e assassino. Il bello era che lo aveva visto, nel momento esatto in cui Sherlock era sprofondato nel dolore, ma lui stava soffrendo di più, quindi aveva infierito. Tutte le cose che aveva sentito sul suo conto negli anni, come un fiume di parole che non poteva più interrompere. Sociopatico. E gli aveva augurato di passare il resto dei suoi giorni da solo come un cane, e di morire da solo come un cane.
A quel ricordo gli salì la bile fino alla gola, per fortuna la metropolitana si era appena fermata. Si lanciò fuori, senza guardare contro chi stava andando, ricevendo anche qualche insulto. Ma non poteva fermarsi.
Premette la mano contro la bocca più forte che poté, sentiva il sapore orribile degli acidi che erano arrivato fino alla lingua. La borsa tracolla gli sbatteva contro la coscia. Per fortuna i bagni non erano troppo lontani, prese il primo che trovò e vomitò in uno dei cubicoli. Non c’era nessuno, il che era un altra fortuna.
Andò al lavandino per darsi una pulita, non voleva guardarsi allo specchio, ma era lì, di fronte a lui, quindi alzò lo sguardo.
Aveva una faccia tremenda, come chi non dormiva bene da giorni. Le occhiaie cerchiate di scuro, probabilmente gli era venuta anche qualche ruga in più, lo sguardo spento e i capelli ingrigiti. Represse un brivido e un altro conato di vomito, che cacciò giù a forza.
L’acqua della metro non era potabile e non aveva dietro neanche una bottiglia d’acqua, quindi si sarebbe dovuto tenere quel sapore orribile in bocca fino a casa, e poi non sapeva neanche in che fermata fosse sceso.
Aveva detto a Sherlock che sarebbe morto da solo come un cane ed era quasi morto da solo come un cane, in uno squallido parcheggio... Chiuse gli occhi e strinse più forte che poteva i bordi del lavandino. Gli girava la testa e sentiva le gambe deboli. Voleva urlare, ma sarebbe stato un modo di sfogarsi, e non si meritava di stare meglio.
Come aveva fatto ad essere così crudele. A pensare delle cose tanto orribili di una persona a cui era tanto legato.
La parte razionale della sua mente gli ricordò che forse non si meritava l’affetto di Sherlock dopo tutto quello che gli aveva fatto, e non potè che concordare.
Prese un pezzo di carta dal dispenser e lo bagnò con l’acqua, per poi passarselo sul viso. Per fortuna l’acqua fredda lo aiutò a riprendersi, anche se non troppo. La nausea e il disprezzo per se stesso erano ancora lì.
Uscì dalla metro, aveva bisogno di aria, si sentiva soffocare a stare a metri sotto terra.
Prese le prime scale che trovò che portavano all’uscita. Una volta fuori inspirò a pieni polmoni. Stava sudando talmente tanto che sentiva la schiena bagnata e la camicia che si appiccicava alla pelle, i capelli attaccati alla fronte madida.
Sospirò ed andò a cercare la fermata dell’autobus.
Quando tornò finalmente a casa non aveva la forza di occuparsi di Rosie. Si sentiva come un relitto.
Chi lo conosceva si sarebbe spaventato a vederlo in quello stato.
Chiese alla babysitter se potesse tenere la bambina per quella notte, le promise di pagarla il doppio; lei anche se un po’ riluttante per fortuna accettò. Appena fu solo gettò tutto nella lavatrice e si buttò sotto la doccia. Lasciò che scorresse l’acqua fredda. Il contatto con le gocce che gli colavano lungo il corpo accaldato lo fecero rilassare abbastanza. Appoggiò la fronte contro le piastrelle, e rimase lì per un po’. Più tardi sarebbe dovuto andare da lui ma non ne aveva la forza, solo l’idea di rivederlo…
Ogni fibra del suo essere gli stava gridando di farlo. Non poteva rinunciare ad andare, ma davvero non c’è ne aveva la forza. Chiamò l’ospedale per avvisare che non sarebbe andato quel giorno, problemi con la bambina. Anche usare Rosie come scusa era vile, ma sentiva di non avere scelta.
La parte razionale della sua testa gli diede del codardo, l’altra era semplicemente troppo delusa per rispondere.
Guardò la borsa appoggiata sul divano. Si avvicinò con fare circospetto, come se quella borsa fosse un oggetto pericoloso a cui avvicinarsi con cautela. Sollevò la parte superiore, dentro si vedevano solo i libri. Ne spostò alcuni, ed infilò la mano sotto, quando sentì la stoffa liscia con la punta delle dita, la afferrò e la sfilò da sotto. La vestaglia di Sherlock. In realtà non sapeva nemmeno perché lo stesse facendo. Anzi sì, perché era un folle, un pazzo totale.
Avvicinò l’indumento al petto, e poi si avvicinò con il volto, respirando a pieni polmoni. Ringraziò mentalmente che la signora Hudson non si fosse ricordata di guardare dietro la porta e che non avesse lavato la vestaglia.
Era una fortuna non ci fosse nessuno a guardarlo, era già abbastanza imbarazzante così.
Si morse quasi a sangue l’interno delle guance. Gli era mancato davvero molto, più di quanto pensasse. Non sentire più la sua voce, il suo passo pesante quando si aggirava per la casa perché si annoiava. In realtà ricordò solo in quel momento che la cosa era finita già molto prima, quando era andato a vivere con Mary. Non ci aveva pensato molto all’epoca perché comunque Sherlock era quasi più spesso a casa loro che a casa sua, quindi non sentiva particolarmente la mancanza, ma ora quella consapevolezza lo aveva schiaffeggiato.
Quando se ne era andato da Baker Street aveva fatto di tutto per rimanere da solo, e ora non gli piaceva nemmeno un po’. Alla fine era rimasto lui solo come un cane.
Sì c’era Rosie, ma non poteva comunicare con una bambina di un anno e poco più. E nemmeno Greg contava perché al di là di qualche caso sporadico non lo vedeva fuori dal lavoro.
No non era mai stato molto bravo con le amicizie. Strinse ancora a se la vestaglia.
Per un attimo gli balenò un'idea ancora più folle ma la represse immediatamente, così era anche troppo. Ripiegò la vestaglia con cura, e la mise sopra i libri, insieme ai pigiami, in modo che non si schiacciassero.
Strisciò nel proprio letto, senza quasi più forza, e poco dopo si addormentò.
Un suono fastidioso gli martellava il cervello. Era talmente annebbiato che non capiva nemmeno dove si trovasse, c’era solo aperta campagna, a perdifiato, era immerso nella brughiera di chi sa quale zona. Nebbia, non si vedeva nulla se non il luogo in cui si trovava. Non c’era anima viva, non sapeva come o perché, ma era sicuro fosse così. Si trovava solo con se stesso, nel nulla. Il cielo era grigio. Sembrava tutto fermo, immobile.
Se ne stava lì fermo, senza avere idea di dove fosse o dove andare. Il rumore martellante sembrava volesse perforargli la testa. Un bip incessante.
“John.”
Si voltò con uno scatto, il cuore che batteva a mille.
“Sherlock!”
“John mi dispiace.” la voce era ovattata e lontana, ma sapeva perfettamente fosse la sua perché avrebbe potuto riconoscerla in una folla.
“Sherlock!” Poi la vide, nella nebbia c’era una figura, si frastagliava lunga e nera. L’istinto gli diceva di andargli incontro, e così fece, ma non importava quanto camminasse, la figura era sempre lontano da lui.
“John.”
Poi un'altra voce, questa volta non era di Sherlock, ma la voce di una donna.
“John sono qui.” lei lo chiamava.
Si voltò dalla parte opposta. Un'altra figura che si stagliava nera e in lontananza, coperta dalla nebbia.
“Mi dispiace.” Di nuovo la voce di Sherlock.
“John perché lo hai fatto?”
“Fatto cosa?” Chiese, ma la voce di donna non gli rispose.
“Mi dispiace. È colpa mia”
Ormai girava in torno, ma finiva sempre nello stesso punto.
“Questo è il passato, lascialo andare.- gli parlò dolcemente la voce di donna. -Lasciala andare.”
A quelle parole gli si rizzarono tutti i peli.
“Lasciala andare? Chi devo lasciare andare???”
“Lo sai.” rispose la donna
“Non merito il tuo perdono.” Dietro di lui la voce di Sherlock era sempre più in lontananza.
“No che non lo so!”
“Lasciala andare.” La seconda figura e la voce di donna sparirono.
John fece per girarsi e andare verso la prima figura, quella da dove proveniva la voce di Sherlock, ma anche quella era sparita.
“No! Ehi dove siete!” Era completamente solo, in una landa desolata e coperta da nebbia. Sentiva freddo.
Spalancò gli occhi. In qualche modo si era ritrovato seduto, nel suo letto. Il cuore che martellava furioso nel petto e nella gola e il sangue che scorreva come un fiume in piena, nelle orecchie.
Era rimasto senza fiato e stava respirando come un pesce fuor d’acqua.
Il bip incessante aveva ripreso a perforargli il cranio.
La vista era appannata e non riusciva a vedere nemmeno davanti al proprio naso. Pian piano i contorni dell’armadio iniziarono a prendere forma.
Anche il suo udito sembrò stabilizzarsi, perché finalmente riconobbe il suono del cellulare. Si lanciò sul comodino, e prese l’apparecchio.
Non era una chiamata ma la sveglia.
Non si ricordava nemmeno quando l’aveva impostata, ma era una fortuna perché erano le undici e lui doveva andare all’ospedale.
“Merda!”
Balzò giù dal letto e si infilò quasi dentro l’armadio. Per fortuna aveva già fatto la doccia la sera prima, anche se aveva sudato con il sogno, o meglio, con l’incubo, ma si sarebbe dato una sistemata veloce prima di uscire.
Infilò le prime cose che gli capitarono a tiro, un paio di pantaloni beige, una camicia con il maglione a collo a V.
Mise calzini e scarpe ed era pronto, avrebbe preso qualcosa per fare colazione mentre andava alla metro.
Poi si ricordò di Rosie.
Chiamò la babysitter, che non sembrava molto contenta di averla dovuta tenere tutto quel tempo fuori programma. John provò a convincerla a tenerla un altro po’, ma lei per tutta risposta gli disse che non era una governante e che comunque doveva studiare; John rassegnato le aveva promesso che sarebbe andato a prendere la bambina da lì a poco. A quanto pare non aveva altra scelta che portare con sé Rosie all’ospedale. Odiava quell’idea, ma non poteva assolutamente permettersi di dare ancora buca a Sherlock, sicuramente stava già pensando di essere stato abbandonato, di nuovo.
Finalmente uscì di casa.
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Note d’autrice:
E finalmente siamo giunti al capitolo 10. John per un attimo torna a casa, anche se ha uno “scontro” con Greg, che magari potrebbe sembrare un po’ duro, ma provate a vederla dal suo punto di vista, lui si trova messo in mezzo a tutto questo casino, da una parte quei due che hanno litigato e non si sono visti per un anno, dall’altra deve comunque indagare, e non gli sta andando molto bene al momento. In più vuole vedere le reazioni di John, quindi un po’ lo punzecchia per farlo svegliare.
Quindi insomma non è che si sia impazzito tutto d’un tratto.
Grazie a chi mi ha aggiunta tra i preferiti/seguiti!
Ero indecisa se allungarlo questo capitolo, so che è corto, ma poi non mi piaceva dividere il prossimo, quindi mi dispiace, ma ho preferito tenerlo come l’ho concepito.
Ci si legge al prossimo capitolo!
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Capitolo 11 *** Capitolo 11: ***
Capitolo 11:
***
AVVISO:
Ho avuto dei problemi tecnici con questi due capitolo e mi sono accorta che mancavano delle parti, ho quindi aggiunto un lungo pezzo che vi consiglio di recuperare al capitolo 10, nella parte finale.
Scusate ancora per il disagio.
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Girare la città con una bambina piccola non era affatto facile. Aveva Rosie nel marsupio per bambini, agganciata al sicuro contro al suo petto, la borsa con le sue cose da un lato, e la borsa con le cose di Sherlock dall’altro. Si sentiva caricato come un mulo. In più, Rosie odiava la metropolitana. Troppo chiuso e troppo caos. Quindi almeno per quella volta, si rassegnò a chiamare un taxi.
Entrò nell’edificio, tolse il berretto dalla testolina di Rosie, che sembrò gradire, odiava essere costretta sotto coltri di vestiti pesanti, e poi sembrava molto interessata da quel posto nuovo e da tutto il viavai. Presero l’ascensore.
Non c’era nessuno così entrò nella stanza di Sherlock, che quando li vide spalancò l’occhio buono, come se fosse sorpreso di vederlo lì.
“Ehi, come stai? Scusa per ieri.”
Sherlock scosse la testa. John si avvicinò al letto.
Sherlock si allungò sul comodino, aprì il cassetto, tirò fuori un piccolo quaderno e una penna.
“Ah che fine ha fatto il taccuino di Lestrade?”
John era sorpreso di vederlo sostituito con dell’altro, pensò se nel tempo che non era andato a trovare Sherlock in ospedale, non fosse venuto qualcuno degli altri.
‘Me lo ha dato il dottor Lewis.’ scrisse Sherlock con calligrafia incerta.
“Oh. E’ stato molto cortese da parte sua.” in effetti John si trovò molto colpito da quel gesto. L’uomo non era di certo obbligato a farlo.
“E’ passato qualcun altro?”
Sherlock si mise a fissare John, e scosse la testa. Così John apprese che probabilmente era rimasto da solo per tutto il tempo. Si sentì sprofondare nella vergogna, si sarebbe potuto sforzare di più per andarlo a trovare.
“Mi dispiace davvero per ieri. Ma non ho potuto farne a meno. Scusa ancora, non succederà più.”
Sherlock riprese a scrivere.
‘Devi pensare a lei, non a me.’
“Non cominciare Sherlock.”
‘E’ tua figlia, è giusto che tu stia con lei, non con me.’
“No, io sono qui perché voglio essere qui, e non ti libererai di me, qualunque cosa tu dica.”
’E se ti dicessi che non ti voglio vedere? Che non ti voglio qui?’
John poté chiaramente sentire il cuore incrinarsi nel petto.
“E’-è quello che vuoi?” gli aveva leggermente tremato la voce alla fine, anche se aveva cercato di non far trasparire le proprie emozioni.
Sherlock lo guardò intensamente.
‘No, certo che no. Ma non importa quello che voglio io. Cosa le dirai?’
“Come?” davvero, non ci stava capendo più niente.
‘A tua figlia, su quello che è successo.’
John si sentiva girare la testa.
“Perché ne stiamo parlando? Non voglio parlarne.”
‘Dovrai farlo prima o poi.’
“No che non devo.”
‘Vuoi mentirle?’
John si sentiva preso in una morsa di esasperazione e disperazione. Uno dei dei motivi per cui si era auto isolato, era proprio quello di non farsi mai domande del genere, e non avere nessuno che gliele facesse, e ovviamente ora si ritrovava a dover affrontare una delle sue più grandi paure.
“Non ho detto che voglio mentirle. Le dirò quello che è successo, o vero che una pazza ha sparato a sua madre, quando sarà abbastanza grande per capirlo.”
‘Una pazza ha sparato a sua madre, a causa mia.’
“Ma non è vero!”
‘Vorrà sapere i dettagli.’
“Non serve che sappia i dettagli.”
‘Crescerà e inizierà a fare domande, potrebbe andare in giro a chiedere.’
“E a chi??? Sono in pochi a sapere come sono andate le cose, e a meno che tuo fratello o Lestrade non facciano la spia, non vedo in che altro modo potrebbe scoprirlo.”
‘Potrei dirglielo io.’
“Non osare. Non sei così crudele.”
‘Sono crudele perché è giusto che sappia la verità su sua madre?’
“Ok. Vedila così, se glielo dici soffrirà moltissimo, mentre se ci limiteremo a dirle che una pazza ha sparato a sua madre, come ti ho detto, soffrirà solo per un po’, ma poi le passerà.”
‘Ma sarebbe una mezza verità.’
“E perché?”
‘Puoi fare solo due cose John. Puoi dirle la verità o mentirle. Non puoi dire una cosa, anche se vera a metà o in parte.’
“Non voglio mentirle! E non è una cosa vera a metà o in parte! Una pazza ha sparato a sua madre. È così che è andata!”
Sherlock scosse la testa.
‘Dillo ad alta voce. Di com’è andata! Di perché lei si è messa in mezzo!’
“Che importanza ha! Si è messa in mezzo per salvarti!”
‘Sì, quindi è morta a causa mia. Comunque la metti questi sono i fatti. Io sono la causa della morte di sua madre. Della persona che l’ha messa al mondo. Lei non ha più una madre perché si è dovuta sacrificare per qualcuno... che non valeva tanto disturbo.’
Ricevere una pugnalata al petto probabilmente avrebbe fatto meno male di quelle parole.
Mandò giù il nodo in gola.
“Vorrei solo che le cose tornassero come prima.” strinse Rosie al petto.
‘Non possono tornare come prima. Non si può aggiustare questa volta.’
“Non me ne vado se è quello che pensi!”
Sherlock sorrise ma era un sorriso amaro. La cicatrice rossa che spiccava più del colore delle sue labbra si tirò verso l’alto.
‘Perché devi essere sempre così testardo?’
“Questa è bella! Da che pulpito!”
‘Va a casa John. Pensa a lei. Un ospedale non è un posto per un bambino. Io non ho bisogno di te, ho già mio fratello.’
L’orgoglio ferito era difficile da farselo passare.
“Ma chi ti crede! Tu non ci vuoi stare con tuo fratello, sempre che ti ci faccia andare a casa quando starai meglio, e non puoi stare da solo.”
‘Ci sono stato per gran parte della mia vita da solo. Ci sono abituato.’
“Ma io sono qui adesso! Ho sbagliato tutto nell’ultimo anno, ho fatto degli errori enormi. Ma giuro che finché avrò vita cercherò di rimediare.”
‘Non sei tu a dover rimediare.’
“Sì invece. E lo farò. Te lo prometto.”
Sherlock guardò John dritto negli occhi, e John sentì il cuore sprofondare sotto i piedi. Era durato solo solo un attimo quello sguardo, ma era bastato.
‘Non hai risposto alla mia domanda.’
“Che cosa?”
‘Cosa le dirai?’
John si passò una mano sul viso.
“Ha solo un anno, non possiamo pensarci, che ne so, tra quindici anni?”
Sherlock fece un piccolo sorriso.
‘Vuoi dirglielo in piena tempesta adolescenziale? Ottima idea.’
John fece una smorfia.
“Non mi ci far pensare. Allora quando ne avrà venticinque. O trenta. O magari ecco, ancora meglio, quando sarò in punto di morte.”
‘Vuoi dirglielo in punto di morte? Chi è quello crudele ora.’
John sbuffò più forte, e Rosie si voltò di scatto per capire cosa fosse stato quello strano suono.
“Scusa amore. Facciamo che non glielo dico proprio, mai.”
‘Quindi, di nuovo, vuoi mentirle.’
“No. Voglio non dirglielo. Non può essere una bugia se non dico una parola.” provò a parlare più lentamente, anche perché gli stavano saltando i nervi.
‘Lei ti farà delle domande. Vorrà delle risposte. Vorrà sapere di sua madre.’
“Se è per questo sua madre era anche una spia e un'assassina su commissione. Che facciamo gli diciamo pure questo?”
Fu il turno di Sherlock di fare una smorfia.
‘No.’ convenne.
“Visto. Quindi non c’è bisogno che sappia tutto.”
‘Ma lei vorrà comunque sapere la storia di sua madre.’
“Santo cielo Sherlock sei impossibile.”
Quando si voltò Sherlock lo stava di nuovo fissando, con una strana espressione.
“Che c’è?”
Scosse la testa.
“Perché non mi parli e basta?”
‘Ti sto parlando.’
“Intendo perché non mi parli con la tua voce.”
Abbassò ancora di più la testa, così poteva vedere solo i ricci neri.
Pensò che gli erano mancati. In realtà gli era mancato tutto Sherlock.
Sherlock si strinse nelle spalle.
‘Non mi va.’
“Prima o poi dovrai farlo.”
‘Magari no. Stanno tutti meglio se non parlo.’
Eccola la. Un altra pugnalata.
Sherlock nemmeno si rendeva conto di farlo, anzi, nella sua testa era la causa di tutto quindi si era autoconvinto di essere un problema.
“Con me puoi farlo. Io la voglio sentire la tua voce.” un brivido scese lungo la schiena di John. Si la voleva sentire davvero la sua voce. Non avrebbe mai ammesso a nessuno, nemmeno sotto tortura, che ogni tanto lo aveva chiamato, solo per sentire la sua voce registrata nella segreteria.
Sherlock alzò le spalle.
‘Non ci riesco.’
John gli mise una mano sulla spalla. Ma fu una pessima idea. Perché quando Sherlock alzò la testa e sollevò gli occhi su di lui, tutto quello che riusciva a vedere era, che ora erano tornati più azzurri rispetto a prima.
Certo l’occhio sinistro era ancora pesto e gonfio e striato di rosso, ma l’azzurro c’era.
John si sentì morire.
“Scusa... io... io la smetto, se ti da fastidio.” Fece per togliere la mano, ma venne bloccato da quella di Sherlock, che ora era sopra la sua.
Il cuore prese a martellargli nel petto, se lo sentiva fino alla gola. Con il polpastrello del pollice gli accarezzò il dorso della mano, e Sherlock strinse le dita sulle sue. Non ebbe tempo per realizzare e dare una spiegazione a quello che stava succedendo, perché la bambina gli stava scivolando dal braccio e dovette interrompere il contatto per usare entrambe le mani.
“Inizi a pesare signorina.” Rosie dimenò le braccia e le gambe, così la mise a sedere sul letto.
Sembrava soddisfatta di trovarsi in un posto comodo. Libera di muoversi. E poi aveva nuove cose che attiravano la sua attenzione. Come ad esempio il saturimetro al dito di Sherlock. Lampeggiava anche di rosso. Era praticamente un fiore che attirava in ape. Una piccola ape dispettosa.
“No amore non si può giocare con quello. Guarda il cagnolino.” Provò a distrarla con il peluche ma niente, così Sherlock passò l’apparecchio al dito dell’altra mano e la nascose in modo che Rosie non potesse vederlo.
“Grazie.” Sherlock gli sorrise.
La bambina all’inizio sembrò contrariata ma trovò subito qualcos’altro di interessante, così iniziò ad armeggiare con il braccialetto dell’ospedale al polso di Sherlock.
John sospirò.
“Scusa.”
Sherlock gli sorrise, lasciando che lei potesse giocare con lui.
Rimasero lì per alcune ore, poi arrivò il momento di portare la bambina a casa.
“Va bene è ora di andare a fare la nanna piccola volpe furba.”
_______________________________________________________________________________________________________________
Note d’autrice:
Sorry for the late, avrei dovuto pubblicare venerdì, ma purtroppo mi sono accorta che mancava un intera parte del capitolo 11, non so perché, forse l'ho cancellata per sbaglio, non ricordo nemmeno come, però ho dovuto riscriverla da 0, perché non ricordavo più quello che avevo scritto in precedenza. L'ho quasi modificato del tutto, e ho aggiunto una parte al capitolo 10, che vi consiglio di andare a recuperare per avere le idee più chiare.
Scusate ancora per questo disagio assolutamente non programmato. Aspetto con ansia un vostro parere su questi due capitoli.
Inoltre non so se lunedì riuscirò a pubblicare, dipende come starò nei prossimi giorni, altrimenti ci leggiamo direttamente venerdì.
Much Love.
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Capitolo 12 *** Capitolo 12: ***
Capitolo 12:
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Si rigirò nel letto tutta la notte, con le parole di Sherlock che gli risuonavano nella mente, ancora e ancora. Si girò sul fianco sinistro, ma gli occhi erano più spalancati che mai. Ogni volta che qualcosa lo tormentava, ecco che ricominciava l’insonnia. Gli era successo con la guerra, e tutto il periodo seguente, gli era successo dopo la morte di Mary.
Il problema è, che era riuscito a trovare un equilibrio dopo che si era trasferito a Baker Street, e aveva iniziato ad indagare con Sherlock. Quella era stata una valvola di sfogo, aveva imparato ad incanalare le sue emozioni, a concentrarsi su altro e lasciare andare i suoi traumi. Ma adesso non sapeva più come fare. Ci aveva impiegato mesi a riprendere un decente ritmo del sonno dopo quello che era successo con sua moglie. Ora ci si metteva anche questo. Non sapeva come affrontarlo. Come doveva fare per farsi perdonare? Come poteva riavvolgere il tempo e cancellare le parole che aveva detto? Ormai il danno era stato fatto. Lo aveva ferito e probabilmente ci sarebbero voluti anni per ricucire le sue insicurezze. Sempre che ci fosse riuscito, Sherlock era molto testardo, e se ora si sentiva in colpa, nessuno lo avrebbe mai convinto del contrario. Nessuno lo poteva convincere mai di nulla, se si metteva in testa qualcosa, era così e basta.
Si maledisse. Lui e la sua dannata rabbia incontrollata. Sbuffò e calciò le coperte, per rotolare fuori dal letto. Era inutile restare lì.
Andò nella stanza di Rosie, senza accendere la luce si avvicinò al suo lettino. Dormiva beata. Dopo quella giornata movimentata era crollata ancora prima di arrivare a casa. Avrebbe dormito tutta la notte. Per fortuna.
Pensò quanto fosse bella. Le guance tonde, i capelli biondissimi e ribelli. Sembrava un angioletto beato.
La baciò sulla fronte e uscì.
Andò in cucina a prepararsi un bel caffè, in quel momento alzò lo sguardo sull’orologio e vide che erano le 5 del mattino. Sospirò. Passò le seguenti tre ore a ripulire e riordinare tutta la casa. Non che fosse così grande, erano solo una sessantina di metri quadri, ma bastarono a tenerlo occupato. Quando si fecero le otto ormai non c’era più nulla da lucidare e Rosie si era svegliata. Così poté dedicarsi a lei. Le fece un bel bagnetto e la vestì bene, poi fu il turno della colazione. Una banana schiacciata con due biscotti nel latte. Lei sembrava soddisfatta quindi lo era anche lui. Alle nove arrivò la babysitter. Lasciò la piccola con lei e uscì.
Sinceramente non sapeva cosa fare. Greg non si era fatto sentire e per l’ospedale era presto. Così gli venne in mente di passare dalla signora Hudson, era da un po’ che non la vedeva e sembrava l’unica che non lo voleva morto, per cui sì, avrebbe potuto farci un salto.
Per fortuna la donna era a casa.
Bussò al 221B. Quando la signora Hudson aprì e lo vide, si illuminò.
“John!” Lo strinse in un abbraccio.
Le era mancata.
“Buongiorno signora Hudson.”
“Oh mio caro ragazzo non posso credere che tu sia davvero qui!” lo stritolò tra le esili braccia. Si era dimenticato di quanta forza avessero gli abbracci della signora Hudson.
“Mi era mancata anche lei signora Hudson.” lo disse praticamente con il viso premuto contro al petto della donna. Il profumo di rose che usava arrivava fino al cervello, solo che lei non sembrava proprio intenzionata a lasciarlo.
“Possiamo entrare signora Hudson?”
“Oh ma sì sì certo.” Finalmente lo lascio andare, così ne approfittò per prendere fiato.
Entrarono nel piccolo appartamento al piano terra, ovviamente non potè non lanciare uno sguardo al piano superiore. Una fitta gli strinse il cuore.
Andò a sedersi al tavolo in cucina.
“Lo vuoi un tè John? O preferisci il caffè? Anzi no, ti faccio tutti e due.”
“Ho già fatto colazione grazie.”
Ma lei stava già armeggiando con pentole varie e la macchinetta del caffè. John sospirò. Non era cambiato proprio niente.
“Ho sperato così tanto che passassi a trovarmi.”
Dopo i sensi di colpa per aver abbandonato Sherlock mancavano quelli per aver abbandonato la signora Hudson. Perfetto.
“Si... mi scusi. Ma sono stato impegnato, sa la bambina...” era proprio un codardo. Avrebbero dovuto congedarlo con disonore dall’esercito, altro che dargli una medaglia.
“Ma certo non te ne faccio assolutamente una colpa, avevi già i tuoi grossi problemi. Come sta quella piccolina? Non la vedo da così tanto.”
“Una meraviglia. È cresciuta. Tempo qualche anno e sarà più alta di me.”
La donna a quelle parole scoppiò in una risata.
“Mi erano mancate le tue battute John.”
“Senta signora Hudson... ma... che mi dice degli altri? Mycroft viene mai qui? E Molly?”
“Per carità no, Mycroft non si fa mai vedere, non lo vedevo da più di un anno, prima del... beh insomma lo sai. Molly invece è una così brava ragazza. Ci tiene a farmi compagnia e passa spesso. A volte resta anche a cena e io le preparo il pranzo per il lavoro.”
In fondo un po’ era sollevato che la ragazza facesse compagnia alla signora Hudson. Era una persona che aveva bisogno di parlare con qualcuno, non era fatta per la solitudine.
“Mi fa piacere. Non sembra che io le piaccio molto.”
Nel frattempo una tazza di tè con il suo piattino coordinato e un piccolo cucchiaio di argento erano comparsi davanti a lui. Aggiunse un goccio di latte e prese un piccolo sorso.
“Ma no che sciocchezza. È solo sconvolta per Sherlock. Tu lo sai quanto ci tiene a lui.”
Si... tenerci non era esattamente il termine che avrebbe usato. Tutti lo sapevano che era cotta di lui. Tutti tranne Sherlock ovviamente, che sarà anche stata la persona più intelligente che avesse mai conosciuto, ma certe cose semplici e basilari a volte proprio non le vedeva. O non sapeva riconoscerle, o faceva finta di non vederle.
“Sì certo lo so.- Prese un altro sorso. -E’ che dalle occhiate che mi lancia, proprio non si direbbe sia quello il motivo.”
“Beh ecco... forse un po’ conte c’è l’ha...” eccolo lì, lo sguardo da colpevole.
“Che cosa mi deve dire signora Hudson? Che cosa sa che io non so?” usò lo sguardo più serio di cui fosse capace, anche se gli veniva da ridere.
Lei abbassò lo sguardo, era decisamente da colpevole.
“Lei potrebbe aver detto delle cose che non posso ripetere... nei tuoi confronti... Ti ritiene responsabile per quello che gli è successo. Dice che... che tu ti sei comportato male nei tuoi confronti e che tua moglie... oh santo cielo non è affatto bello che lei lo pensi, credimi gliel’ho detto, quella povera donna è... e non è giusto pensare certe cose dei morti.” Si portò una mano alla bocca alla parola morti.
“Scusa.- Pigolò. -non volevo dirlo.”
“Non fa niente signora Hudson. Va bene se dice la parola con la m.” Appoggiò la tazzina sul piattino.
“Mi creda non mi interessa quello che pensa Molly Hopper di me, di mia moglie, della mia famiglia. Ero solo curioso.”
“Io non credo che tu abbia detto quelle cose con cattiveria. Si dicono tante cose quando si è arrabbiati. Cose che non si pensano. Non penseresti mai delle cose così crudeli su Sherlock. Tu gli vuoi bene.”
Si commosse. La signora Hudson era la persona più buona che conoscesse. Sempre una buona parola per tutti, non pensava mai male di nessuno.
“Però l’ho detto. E me ne sono andato.”
“Dovevi affrontare il tuo lutto. Hai una bambina piccola. Anche se non ho figli posso solo immaginare quanto sia impegnativo fare il padre da solo.”
“Si è impegnativo.” convenne.
La signora Hudson gli mise vicino un'altra tazzina, questa volta con il caffè. E poi quattro diversi tipi di biscotti e metà di una crostata alle more.
“Tornerai qui?” Quella domanda a bruciapelo, quasi dal nulla, lo bloccò.
Non sapeva cosa rispondere, ma la donna si aspettava una risposta.
“Uhm non credo sia il caso con una bambina di un anno.”
“Ma qui c’è posto. Sai pensavo di andarmene nel sud della Francia, in una città con il mare. Giuro che questa umidità sarà la mia morte.”
“L’Inghilterra senza la signora Hudson non sarebbe più la stessa.”
“Che esagerato che sei.”
“Dico sul serio, come faremmo tutti senza di lei?” L’idea che fosse disposta a lasciare la sua amata casa pur di farlo restare lì era in ennesima pugnalata al petto, solo che questa volta il pugnale era incandescente. Non poteva permetterle un gesto tanto caritatevole per un uomo che non meritava tanta gentilezza e cortesia.
La donna si avvicinò e lo abbracciò.
“Ci manchi così tanto.” singhiozzò. Avrebbe voluto chiederle a chi si riferisse con quel ‘ci’ ma aveva paura della risposta. Come sempre, era un codardo che scappava.
“Ma mi dica una cosa. Lei sa cosa combinava Sherlock?”
La signora Hudson si staccò dall’abbraccio, tirando su con il naso, e si ricompose subito. Lisciò le pieghe della gonna con le mani.
“Mi ha fatto la stessa domanda il commissario Lestrade. Ma non so proprio niente di quel che combinava Sherlock. Ultimamente era sempre schivo, se ne andava quando io non c’ero e tornava praticamente all’alba, lo so perché lo sentivo salire le scale. Ma non so altro. Una volta gliel’ho chiesto, mi ha risposto che indagava.”
Le rotelle di John giravano, nel tentativo di cogliere qualche indizio nascosto, ma non è che ci fosse chissà che da capire.
“Indagava? Su cosa?”
“Ah non lo so. Qui non viene più nessuno. Non so come si trovasse dei clienti.”
Deglutì. Che cosa aveva combinato Sherlock in tutto il tempo che era rimasto qui da solo? Aveva un brutto presentimento, che si fosse infilato in qualche casino con della brutta gente. Forse Lestrade aveva ragione, aveva provocato la persona sbagliata. Ma a quest’ora qualcuno sarebbe andato a cercarlo... a meno che... non desse per scontato che fosse morto. Sherlock al momento era al sicuro solo perché la persona che lo aveva massacrato in quel modo era certo che la sua vittima era morta e sepolta.
“Oh John ma chi potrebbe mai fare una cosa tanto crudele? Solo un animale.”
“Immagino di sì. Non mi so spiegare quale possa essere il motivo di una reazione del genere.”
“Se solo Sherlock dicesse chi è stato. Ma pare non se lo ricordi.- La donna sospirò affranta. - Vorrei così tanto poterlo aiutare.”
“Anche io signora Hudson.”
Guardò l’orologio.
“D’accordo, è ora che vada all’ospedale.”
Ormai erano le dieci e voleva arrivare per quando fosse passato il carrello con il pranzo.
La signora Hudson lo abbraccio per l’ennesima volta, baciandogli le guance.
“Dagli un bacio da parte mia.” A quelle parole sentì le guance scottare.
“Ehm... si. Lo farò.”
“E per favore torna a trovarmi.”
“Glielo prometto signora Hudson, tornerò.”
“Vorrei così tanto poter vedere quella piccolina. Le preparerò una bella torta. Le mangia le torte?”
“Sì le mangia. Non si preoccupi, la porterò.” Infilò cappotto, guanti e berretto e prese la porta.
“A presto signora Hudson.”
“A presto John.”
Arrivò all’ospedale che ormai erano le undici passate. Entrò nella stanza di Sherlock.
“Ehi, ma stai camminando.”
Nella stanza c’erano altre due persone, un uomo e una donna, abbastanza giovani. Avevano dei camici diversi da quelli di dottori e infermieri. L’uomo era sulla trentina, aveva capelli scuri e con ricci molto folti, doveva essere originario del basso Medio Oriente, la donna invece sembrava originaria dell’India, lei aveva qualche anno di meno. Aveva i capelli neri legati dietro la testa, un viso piccolo e con la mascella delineata e gli occhi neri.
“Buongiorno signore, abbiamo quasi finito.”
“Non vi preoccupate, aspetto fuori.”
“Non c’è problema può restare se vuole.” Era stato l’uomo a parlare.
“Mi chiamo Amid. Lei invece è Kamala.”
“Piacere signore. È un parente?” La ragazza aveva una voce dolce e gentile e sorrideva timidamente.
“Ehm... sì, sì, viviamo insieme.” come gli fosse venuta una frase del genere ancora doveva capirlo. Si diede mentalmente dell’idiota. Ora tutti lo stavano fissando ad occhi sgranati. Si pure Sherlock, e aveva una strana espressione in viso.
John abbozzò un sorriso imbarazzato. Ormai il danno era fatto sarebbe stato stupido prolungarsi in spiegazioni.
“Bene. Noi siamo dell’assistenza, aiutiamo i pazienti con la fisioterapia. Il dottor Lewis ci ha chiamati.” Aggiunse l’uomo di nome Amid.
“Ah fantastico, si ha fatto bene.”
“Sì non fa bene restare troppo a letto, poi si atrofizzano gli arti.”
“Quindi va meglio?”
“Come scusi?”
“Se il dottor Lewis ha detto che può alzarsi vuol dire che sta meglio.”
“Ah, diciamo di sì. Le costole si sono rimarginate bene, se fa movimenti lenti e non troppo impegnativi non ci sono problemi.”
“Bene è davvero fantastico.” John era davvero entusiasta, almeno una buona notizia.
“Vuoi provare ad andare da tuo compagno?”
John per qualche strano motivo sentì le guance calde. Perché non correggeva l’uomo? Ma anche solo l’idea di dire qualcosa lo imbarazzava a morte. Maledizione a lui.
Schiarì la gola. Sherlock aveva addosso alcune delle cose che probabilmente gli aveva fornito l’ospedale, dei pantaloni grigio chiaro e una maglia uguale a maniche corte, calzini; sopra aveva messo la vestaglia che gli aveva portato il giorno precedente.
L’andatura era molto barcollante, ma cercava di tenersi dritto, avanzando un passo alla volta.
John si avvicinò di un paio di passi.
“No, resti pure lì.”
John rimase fermo sul posto a breve distanza. Sentiva le guance bruciare per l’imbarazzo e non riusciva a guardare davanti a se.
Piano piano, passo incerto dopo passo incerto, Sherlock gli si avvicinò, finché non si sentì stringere per spalle. Trattenne il fiato e alzò la testa.
Sentì i pensieri essergli risucchiati. Sherlock era lì, davanti a lui, e pochi centimetri di distanza, e gli si stava aggrappato alle spalle. Poteva sentire quelle dita lunghe e magre che gli affondavano nelle ossa, ma non era fastidioso. Nemmeno si ricordava più quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che ce lo aveva avuto così vicino, non era più abituato, e non era più abituato a guardare dentro ai suoi occhi azzurri; non c’è la faceva a sostenere quello sguardo.
Si riteneva pur sempre un codardo.
“Bravo. Ci sei riuscito.” sentiva l’emozione tradirgli la voce.
Ovviamente non poteva aspettarsi una risposta da Sherlock, e nemmeno riusciva a guardarlo, quindi non gli restava che immaginarlo.
“Ok per oggi basta così, dai torna a letto.” Amid aveva fatto il giro e si era avvicinato per accompagnare insieme alla ragazza, Sherlock a letto.
“Vedrai che in poco tempo tornerai a camminare, devi solo dare il tempo ai tuoi muscoli di riattivarsi.”
Lo sistemarono, ricollegando i vari cavi.
“E’ stato un piacere signore, noi torneremo domattina, se vuole può venire tranquillamente.” fu sempre il ragazzo a parlare.
“Sì, sì senz’altro, volentieri. Allora ci vediamo domani.”
I due ragazzi uscirono dalla stanza.
John si avvicinò.
“Stai migliorando tantissimo, vedrai che tornerai a casa presto.” Sherlock annuì, poi prese il blocchetto e la penna dal cassetto del comodino.
‘Posso chiederti un favore?’
John era sorpreso da quella domanda ma rispose senza neanche pensarci.
“Certamente, qualunque cosa.”
‘Potrei avere un altro quaderno o un agenda per poter scrivere? E altre penne… Ma solo se non devi fare un giro solo per questo.’
“Ma sì assolutamente non è un problema, te li porto domani.”
Poi però sembrò che Sherlock ci pensasse un attimo, e scrisse di nuovo.
‘No lascia stare, non ho soldi e non posso chiederli a Mycroft.’
“Figurati per così poco, lascia perdere Mycroft, ti porto tutto domani. Ti serve altro?”
Sherlock scosse la testa.
‘Non fa niente. Non serve.’
John sospirò.
“Senti stavo pensando, so che non c’è spazio per tutti a casa della signora Hudson, ma potrei cercare qualcosa vicino. Così non dovrai più stare da solo.”
In quel momenti Sherlock si voltò a guardarlo e John preferì non aver mai esposto quel pensiero. Solo ora si era reso conto che sì, i suoi occhi erano tornati del solito limpido azzurro, ma c’era un rossore diverso da quello causato dai vasi sanguigni rotti.
Quelli erano occhi di qualcuno che aveva pianto. Sentì un nodo alla gola. Non aveva il coraggio di chiederglielo.
Certo che c’era qualcosa che non andava. Tutto andava male. Tremendamente male. E poi anche ammesso che gli avesse risposto, era terrorizzato dal sapere le motivazioni.
‘Te l’ho detto, non pensare a me.’
E come diavolo faceva a non pensare a lui quando non faceva altro che essere nella sua testa? Anche quando sognava, sognava lui!
“Io ci penso e come a te Sherlock! - a quelle parole Sherlock aveva sobbalzato. Magari non avrebbe dovuto dirglielo con tanta enfasi. - Cioè, abbiamo già affrontato questo discorso. Se pensi di non potermi perdonare per le cose che ti ho detto ok, lo capisco. Ma non farò due volte lo stesso errore. Io non ti abbandono.” Prese un bel respiro. Sherlock non gli rispose, allungò solo una mano, e la prese senza doverci pensare, e la strinse.
________________________________________________________________________________________________________________
Note d’autrice:
E siamo al capitolo 12, per fortuna oggi sto meglio rispetto a ieri e sono riuscita a sistemare tutto il capitolo per la pubblicazione.
Dopo la fatica di settimana scorsa per sistemare i capitoli 10 e 11, almeno questo non ha richiesto nessuna modifica o grossa correzione.
Qui iniziano a succedere cose su cose. Finalmente John va a trovare la signora Hudson e si scoprono cose in più… Indizi su quello che più o meno combinava Sherlock, Sherlock che ancora non ne vuol sapere di parlare.
Mi dispiace che le recensioni stiano diminuendo di parecchio, nei primi capitoli erano molte di più, ed è un vero peccato, mi dispiace davvero vedere le cose scendere invece di salire. Io speravo soprattutto con il progredire della storia, perché magari i primi capitoli potevano essere meno interessanti.
Ci tengo comunque a ringraziare le persone che hanno inserito la storia tra le preferite e le seguite.
Se volete sono sia su instagram che su facebook:
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Capitolo 13 *** Capitolo 13: ***
Capitolo
13:
***
La
settimana proseguì in modo abbastanza tranquillo. Sherlock
migliorava lentamente ma di giorno in giorno. John si recava
all’ospedale la mattina e poi il pomeriggio, e a volte
restava per
dargli il pranzo.
Aveva anche mantenuto la promessa di andare a
trovare la signora Hudson.
La donna aveva persino insistito a
tenere la bambina. Lui aveva provato a dissuaderla, in fondo era una
donna di una certa età e una bambina così piccola
poteva essere
molto impegnativa, ma lei non voleva sentire ragioni. In più
ogni
venerdì erano a cena da lei. Così quella mattina
del fine
settimana, prima di andare all’ospedale, aveva lasciato Rosie
con
la signora Hudson.
Quando
arrivò davanti la porta della stanza di Sherlock, si sentiva
una
voce da dentro, avvicinò l’orecchio, riconoscendo
una voce anche
troppo familiare. Mycroft. Prese un bel respiro ed espirò.
Giusto
quello che ci mancava, e in più sembrava stesse facendo una
ramanzina o qualcosa del genere, a Sherlock. Il sangue gli
affluì
direttamente al cervello dalla rabbia. Entrò senza nemmeno
bussare.
Subito entrambi si girarono nella sua direzione.
“Parli del
diavolo.- Mycroft lo guardò con occhi di fuoco. Ecco il
secondo
round. -Tu!” Di nuovo quel maledetto dito puntato contro.
Glielo
avrebbe staccato un giorno o l’altro.
“Quale parte di sta
alla larga da mio fratello non ti è chiara?”
John roteò gli
occhi al cielo.
“Pensavo avessimo chiarito questa parte.”
“Non
dovresti nemmeno aprirla quella boccaccia, cosa gli hai detto eh?
Cosa gli metti in testa??? Non hai già fatto abbastanza
danni!”
John
non aveva idea di cosa stesse parlando, in realtà iniziava a
pensare
che il maggiore degli Holmes fosse impazzito, avrebbe spiegato molte
cose.
“Cosa?” riuscì solo a chiedere, confuso.
“Fai
il finto stupido con me John? Quindi non gli hai detto che tornerai a
vivere con lui?”
John sentì il sangue ribollire nelle vene.
Quella non era la verità e sicuramente stava per cadere in
una
trappola, ma non c’è la faceva a stare zitto.
“Non gli ho
detto questo! Ho detto che avrei trovato una casa vicino e che non lo
avrei più lasciato da solo!”
Mycroft lo guardò con
sdegno.
“Ah ecco. Quindi lo ammetti, ammetti che questo è
colpa tua.”
A quelle parole Sherlock afferrò il braccio di
Mycroft e gli diede uno strattone.
“No non sto zitto! Se pensi
che ti lascerò ancora nelle mani di questo bastardo hai
proprio
sbagliato!
Non starò a guardare mentre finisce di rovinarti!
Ora sei una mia responsabilità!”
Sherlock sembrava volesse
rispondergli, ma non poteva farlo.
“Ma guardati, sei ridicolo,
nemmeno parli.”
“Falla finita Mycroft! Dici che lo fai per
il suo bene e non fai che dargli contro!”
“Tu taci, non hai
alcun diritto di replica in questa faccenda! Alla fine del mese lo
farò trasferire in una clinica. Fine della storia.”
John
sentì le guance avvampare dalla rabbia.
“Non puoi! Ha diritto
di decidere per se stesso!”
Mycroft non si scompose, il suo
volto era impassibile.
“Vallo a dire al giudice. Ti ho detto
che questa storia non sarebbe finita qui, no?”
John sgranò
gli occhi per la sorpresa.
“Quale giudice?”
“Qualche
giorno fa ho chiamato un mio vecchio amico che lavora all’Old
Bailey, non è stato difficile avere i documenti per la sua
tutela.”
“Stai scherzando spero! È un uomo
adulto!”
“Diciamo che il suo passato travagliato ha aiutato
molto il giudice nella decisione.”
“Sei un figlio di...
-
“No no, occhio a quello che dici, non è carino
insultare
mia madre dopo che è sempre stata così gentile
con te.”
John
si morse la lingua, non valeva la pena insultare la signora Holmes,
che di certo non poteva sapere quanto fosse orribile il suo
primogenito.
Mycroft si abbottonò il cappotto ed infilò i
guanti.
“Ora devo andare.- sorpassò John, che ancora non
sapeva come replicare. -Buona giornata.”
Se avesse potuto
farlo, John lo avrebbe fatto fuori molto volentieri.
Appena
sentì la porta richiudersi alle sue spalle riempì
i polmoni con un
grosso respiro, chiuse gli occhi e prese a massaggiarsi
l’attaccatura
del naso.
Quando riaprì gli occhi si ritrovò davanti
Sherlock
che piangeva. Le sue guance erano bagnate così come la
maglietta che
indossava. Alla fine la diga aveva ceduto. Non lo aveva mai visto
lasciarsi andare così. Teneva sempre tutto dentro, forse per
via
dello stare da solo per anni, il fidarsi poco degli altri.
Corse
accanto a lui.
“Ehi, dai non piangere, vediamo che la
sistemiamo questa situazione. Una soluzione la troviamo.”
Sherlock
gli si buttò praticamente addosso, lo strinse con le braccia
e
affondò con il viso contro al suo stomaco, sentiva la stoffa
della
camicia che indossava che si stava inzuppando di lacrime.
Piangeva
a singhiozzi talmente forti da farlo tremare visibilmente.
“Va
tutto bene.”
Prese a massaggiarlo con il palmo aperto sulla
schiena.
Vedeva solo quell’ammasso di ricci neri e
nient’altro.
“No...”
Sobbalzò. Non era stato lui a
parlare. Solo in quel momento si rese conto.
“Non va tutto
bene...”
Non lo sentiva parlare da talmente tanto tempo che
non gli sembrava più nemmeno la stessa voce, e una volta
avrebbe
potuto riconoscerla tra una folla di gente. Ma ora era così
bassa e
roca, da essere quasi incomprensibile.
“Non c’è niente che
va bene...”
Si sentì stringere con le dita la stoffa della
camicia, come se si stesse aggrappando per non precipitare.
“Io
non ti lascio, te l’ho promesso.”
Sherlock scosse la
testa.
“Non puoi impedirglielo... aiutami... non... non ci
voglio andare... non voglio andare via...” le ultime parole
gli si
strozzarono in gola. Lo sentì tossire un paio di volte.
“Dai
adesso calmati, per favore.”
“Aiutami ad andarmene...” Si
era infilato proprio in un bel guaio, come avrebbe dovuto fare?
“E
dove vorresti andare? Stai male, hai bisogno di riposo e
riabilitazione.”
“No! Non voglio stare da nessun’altra
parte!”
“Sarà solo per un po’, finché
non tornerai in
forma come prima, poi tornerai a casa tua. Magari ci vorrà
qualche
mese ma...” non ebbe tempo di finire la frase, Sherlock si
era
staccato e lo stava fissando dritto negli occhi, ancora aggrappato;
gli occhi gonfi e rossi, la bocca digrignata in una smorfia
disperata.
“No! Possibile che tu non capisca! Non mi farà mai
tornare a casa! Se entro lì dentro non potrò
più uscire!”
“Senti,
so che a tuo fratello piace fare lo stronzo, ma credo che sia
preoccupato per te...” ancora non riuscì a finire
la
frase.
Sherlock gli diede uno strattone, si aggrappò alla
sponda per non barcollare.
“Quel posto non serve per la
riabilitazione! Ci mettono la gente problematica!” quasi lo
disse
ringhiando dalla rabbia.
John deglutì.
“Problematica in
che senso?”
“Quelli come me. Quelli che considerano
pericolosi per gli altri, o per se stessi... - tornò ad
abbracciarlo. - Farò qualsiasi cosa, te lo giuro, ma non
farmi
andare lì.”
Il cervello di John correva veloce, mentre
cercava di assimilare quelle informazioni. ‘Quelli che
considerano
pericolosi per se stessi.’ Quella frase in particolare
continuava a
risuonargli nella scatola cranica. Ok magari Sherlock non era
esattamente l’emblema della normalità, e aveva
avuto i suoi bei
problemi in passato, ma mai, nemmeno tra un milione di anni, lo
avrebbe considerato pericoloso per se stesso. Era semplicemente con i
suoi guai. Come tutti.
“Va bene.”
Sentendo John dire
quelle parole Sherlock alzò la testa.
“Cosa va bene?”
“Ti
aiuterò. Non trovo giusto che qualcun altro decida per te.
Troverò
un modo, ancora non so quale, devi darmi il tempo di organizzare. Per
fortuna ci vuole ancora un po’ prima della fine del
mese.”
Sherlock
scosse la testa.
“Non... non entrare nei miei casini. Hai già
fatto abbastanza. Non è giusto che... che pretenda delle
cose da te.
Non devi farlo.”
Non sopportava questi cambi di idea, non era
mai stato così, era sempre deciso sulle cose da fare.
“No. Ho
detto che ti aiuto e lo faccio. Non ho alcuna intenzione di
permettere a tuo fratello di farti sparire chissà dove e per
chissà
quanto tempo.”
Sherlock cercò di asciugarsi le guance con il
dorso delle mani, ma era troppo zuppo per riuscirci in modo
decente.
“Aspetta.”
John andò in bagno a recuperare un
po’ di carta e lo asciugò come si deve.
Ovviamente aveva
ancora gli occhi gonfi e arrossati e respirava con la bocca
dischiusa. La cicatrice che gli tagliava in due il labbro superiore
sulla parte destra, si era rimarginato ed era rimasta una cicatrice,
con la pelle ancora viva, che si era leggermente gonfiata.
“Però
devi stare tranquillo. Ti fidi di me?”
Sherlock lo guardò
annuendo.
“Sai ho visto la signora Hudson di recente, ha detto
che gli manchi.”
Sherlock ora aveva smesso con il pianto, e
sembrava assorto in chissà quali pensieri, non era sicuro
che avesse
capito quello che gli aveva detto, stava per ripetere la domanda, ma
l’amico lo precedette.
“Gli manca tutta la confusione che
faccio sempre, i clienti che vanno e vengono e il violino a tutte le
ore?”
John sospirò rassegnato.
“Non lo ha specificato,
ma immagino di si. E’ molto preoccupata.” Ancora
Sherlock non lo
guardava in faccia.
“Un altra persona a cui sto facendo
dannare l’anima. Dovrei dare retta a mio fratello.”
Questo
era troppo persino per John.
“Ora basta!”
Sherlock
trasalì, e un po’ gli dispiacque, ma non aveva
intenzione di
lasciare perdere.
“Ti stai auto commiserando Sherlock? Da
quando fai così eh?”
Finalmente alzò la testa e lo guardò
negli occhi.
“Non mi sto auto commiserando.”
“Invece
si, te ne stai sdraiato lì a lamentarti e basta.”
Sherlock
sembrò arrabbiarsi per quell’affermazione.
“E che altro
dovrei fare! Avete deciso di salvarmi invece di lasciarmi in quel
parcheggio, a quest’ora sareste tutti a casa vostra
tranquilli!”
John perse la pazienza a quelle parole, come
poteva anche solo pensarla una cosa del genere! Davvero credeva che
sarebbero stati tutti meglio senza di lui?
“Sei proprio uno
stupido! Dai degli stupidi agli altri ma tu sei il primo ad esserlo!
- non voleva arrabbiarsi così con lui, ma ormai era
impossibile
fermarsi. Sperava solo di non dire altro che potesse peggiorare la
situazione. -Pensi davvero che tutti noi saremmo stati meglio con la
tua morte! Io, tuo fratello, la signora Hudson, non te ne frega
niente di noi? Posso capire che tu c’è
l’abbia con me, ma gli
altri che c’entrano! Non meritano un briciolo di
considerazione?”
Era rosso dalla rabbia, e Sherlock lo stava
fissando sconvolto.
“E non guardarmi così! Cosa pensavi che
facessi che ti dessi ragione!”
Ma l’altro non rispose,
preferendo ammutolirsi e tornare nel suo silenzio selettivo.
“E
rispondi per la miseria! Di qualcosa!”
Ma quelle suppliche non
sortirono alcun effetto. Semplicemente non poteva ottenere nessuna
risposta da lui.
_______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________
_______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
Beh
che dire, eccoci qui.
Ora si che sono curiosa di sapere le
impressioni, finalmente Sherlock è tornato a parlare,
più o meno,
forse più meno che più(?).
E niente tutti continuando ad
infierire su di lui, e John è l’unico che lo salva
da questa
situazione. Mycroft fa l’infame (non odiatemi per questo
pliz), so
che probabilmente molti non c'è lo vedono a comportarsi
così ma per
i fini della trama ho cercato di farlo più fedele allo scopo
a cui
mi serviva e non è stato affatto semplice.
Che avrà in mente
ora John? 👀
Volevo
ringraziare i miei adorabili lettori che si sono fatti sentire ❤️
Non
mi aspettavo tanto affetto, evidentemente lamentarsi serve lol, e io
che mi vergognavo perché mi sembrava di elemosinare.
Davvero
grazie, grazie, grazie grazie. Ora la smetto.
Se
volete sono sia su Instagram che su Facebook:
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Capitolo 14 *** Capitolo 14: ***
Capitolo
14
***
_______________________________________________________________________________________________________
Questo
capitolo contiene scene con procedure mediche dettagliate.
________________________________________________________________
John
era intenzionato a mantenere la parola che aveva dato. Non avrebbe
abbandonato Sherlock
di
nuovo. Non aveva intenzione di vederlo andare via, e tornare
chissà
quando, forse un anno, forse di più. No, non lo avrebbe mai
permesso. Certo il
piano che aveva in mente
non era esattamente la cosa più facile del mondo, ma se
aveva
imparato qualcosa con le
sue avventure da detective, era il
far perdere le proprie tracce.
Non
era così sicuro che Mycroft gli avesse messo qualcuno alle
costole,
o
lo stesse rintracciando in qualche modo, ma
era meglio non rischiare. Così cercava di farli sembrare dei
normali
giri di routine.
Però
purtroppo
voleva anche
dire riuscire a vedere meno Sherlock. Riusciva ad andare solo un paio
d’ore la sera, e non gli piaceva. Sherlock
era
tornato nel suo mutismo
selettivo,
quasi non lo guardava in faccia, e
questo gli stava dando
l’impressione di qualcuno che si era arreso.
Forse
Sherlock poteva
essersi anche
arreso, ma lui no.
Doveva
fare tutto prima che scadesse il tempo.
John
aveva il terrore che Mycroft non mantenesse la parola, che un giorno
si sarebbe presentato in ospedale, e non avrebbe trovato Sherlock.
Così
quella sera, quando entrò nella sua stanza, e vide il letto
vuoto,
sentì il cuore impazzirgli nel petto, il panico travolgero.
Era già
pronto ad andare a cercarlo anche in capo al mondo, se fosse stato
necessario, poi però per fortuna si rese conto di alcuni
particolari.
Si
avvicinò al letto. Le coperte erano state
tirate giù
e
messe da una parte. Il lenzuolo che copriva il materasso era ancora
caldo e spiegazzato, quindi non era stato lasciato da troppo
tempo.
E poi i macchinari erano ancora accesi, c’era lo schermo con
il
rilevamento cardiaco che segnava ancora come se fosse stato collegato
al paziente, anche se la
parte che andava inserita al dito, ora si trovava abbandonata sul
letto.
Il
tubo che portava i liquidi della flebo era a terra e stava
gocciolando sul pavimento.
D’accordo
voleva dire che non doveva essere molto lontano, e se seguiva la
logica, così come gli era stato insegnato, doveva cercare
nei posti
più probabili.
“Sherlock?”
Dove
poteva andare un uomo ferito che aveva passato tutto quel tempo fermo
a letto?
Andò
verso il bagno.
“Sherlock
sei qui?”
Sentì
dei rumori provenire dall’interno, così spalancò
la porta
senza nemmeno bussare. La
prima cosa che vide fu il rosso in contrasto del bianco del
lavandino, gli ci volle un attimo per capire che quello
era sangue. Quando alzò gli occhi, Sherlock era in piedi,
per quanto
fosse piccolo il bagno, occupava tutto un
angolo.
Nella
mano sinistra
stringeva un pezzo di vetro, altri pezzi erano sparsi in giro, e il
sangue stava colando copioso a terra. Lo
stava fissando come un animale che attraversando la strada era stato
sorpreso dai fari abbaglianti di un auto in corsa proveniente dalla
direzione opposta.
“Che
hai fatto!” Corse da lui e gli prese il braccio, Sherlock
sobbalzò
a quel contatto. Sentì che aveva la mano bagnata e non
sapeva
perché, così quando tolse la mano per
controllare, scoprì che era
macchiata di sangue, così come la manica della vestaglia,
sul
braccio di Sherlock svettava un taglio, che andava
dall’inizio del
polso a qualche centimetro più sotto, non era molto lunga,
forse
cinque o sei centimetri, ma la cosa più importante era che
per
fortuna non fosse molto profonda. Lo guardò negli occhi.
“Sei
completamente diventato matto!- sibilò tra i denti, furioso.
-Che ti
prende!” Ma non ebbe risposta. Non che se lo aspettasse.
Come
era successo giorni prima, Sherlock gli si aggrappò come se
cercasse
di non precipitare, si ritrovò con la testa contro la sua
spalla.
“Dai
non è successo niente, ora lo sistemiamo.- cercò
di abbracciarlo
come meglio poteva. -Va tutto bene. Sta tranquillo.”
Prese
la carta dal dispencer e la usò per tamponare la ferita.
“Tieni
premuto qui.” Fece pressione e
la carta si impregno velocemente.
Riaccompagno
Sherlock a letto.
“Ora
ti metti giù e stai buono. Devo andare a prendere il
necessario per
ricucirti. Continua a tenere premuto ok? Torno
subito.”
Sherlock
annuì, quando
John fu sicuro che non rischiava di trovarselo morto dissanguato, si
allontanò.
Il
corridoio era tranquillo, non c’era nessuno nei paraggi.
Più in
fondo si trovava la sala degli infermieri, così si diresse
li.
La
porta della sala era aperta e c’erano almeno tre infermieri
dentro,
due donne e un uomo.
Si
fermò sulla soglia, loro erano indaffarati a compilare dei
fogli e
sistemare in giro, così dovette schiarirsi la gola per farsi
notare,
tutti e tre alzarono la testa nella sua direzione.
“Buonasera,
mi dispiace disturbarvi.”
“Ha
bisogno?” Chiese una delle donne, doveva essere sulla
quarantina,
aveva i capelli chiari e la carnagione leggermente olivastra, come
tutti gli altri era vestita di bianco.
“Si,
sono qui per un mio amico che è ricoverato
qui,
ha avuto un piccolo incidente e devo medicarlo. Cioè posso
farlo io,
sono un dottore.”
“Lei
è un dottore?” Chiese l’uomo, era il
più giovane e aveva
capelli neri e corti. In viso piccolo e naso aquilino.
“Sì,
il dottor Lewis mi conosce, ah si è un suo paziente, potete
chiedere
a lui se non mi credete.”
I
tre si guardarono.
“Come
si chiama?” Chiese sempre il ragazzo.
“Il
paziente?”
“No
intendo lei.”
“Ah
si, scusi.
Dottor John Watson. Piacere.” Si sentiva terribilmente
stupido,
forse perché quei tre lo stavano fissando
come se lo fosse.
“Scusi
se glielo chiedo, ma crede di esserne in grado?” Questa volta
era
stata la donna a parlare.
“Beh
ho passato qualche anno nell’esercito e ho abbastanza anni di
esperienza, quindi direi che so mettere un cerotto, si.”
“Oh
lei è stato nell’esercito? Anche il dottor
Lewis.”
“Si
lo so, ne abbiamo parlato.”
La
terza donna, quella che ancora non aveva parlato, si alzò
dalla
scrivania su cui stava scrivendo su alcuni fogli, e andò a
parlare
all’orecchio della donna più anziana, che si mise
a fissarlo in
modo intenso. Imbarazzante.
“Ah
quindi è stato lui.” Disse la donna a quella che
gli si era
avvicinata. L’altra annuì e le
bisbigliò di
nuovo all’orecchio.
La maggiore ridacchiò.
“Beh
in effetti non ha tutti i torti, Hannah è un incapace, lo
dico
sempre.”
Hannah?
E adesso chi diavolo era questa Hannah? Poi gli venne
un’illuminazione. L’infermiera che aveva
rimproverato tempo a
dietro perché non riusciva a trovare una vena e stava
facendo un
casino.
John
si schiarì la gola per far presente alle due che era
lì davanti e
le stava sentendo.
“Ci
scusi. Quindi lei è la stessa persona che ha ripreso
Hannah.”
“Non
ho idea di chi sia questa Hannah, ma si, ho... diciamo, ripreso...
Qualcuno.”
La
donna più
giovane
ridacchiò e tornò alla scrivania.
“Si
quella è un incapace.” rispose
la più vecchia.
Lo
aveva intuito...
“Si
è lamentata lo sa.” Era stata l’altra
a parlare.
“Ha
detto che un uomo le aveva impedito di fare il suo lavoro con un
paziente e aveva preso il suo posto. All’inizio pensavo che
se lo
fosse inventato, ma ora capisco tutto.”
John
si schiarì nuovamente la gola. Non ne andava particolarmente
fiero.
“Si,
mi dispiace.”
“No
non si preoccupi, abbiamo cercato di insegnarle il modo corretto di
fare il lavoro,
ma non vuole capire.” Rispose l’infermiera
più anziana.
“Venga
con me.” la
donna gli
si avvicinò.
“Mi
chiamo Susan.” Allungò la mano verso John, che la
strinse subito.
“John.”
La donna gli sorrise e uscirono sul corridoio. Girò a
sinistra,
c’era una porta chiusa a chiave con una targa con scritto
‘privato’.
Usò il tesserino che aveva attaccato
al camice,
lo
appoggiò
alla serratura elettronica, ed
inserì un codice, ci
fu un suono
di
qualcosa che scattava. L’infermiera si rimise il badge a
posto ed
entrarono.
Lo
stanzino era abbastanza grande, e c’erano
vari scaffali di metallo, riempiti
con presidi medici.
Contenitori
di varie forme e colori.
“Quanto
è grave la ferita?”
“Ma
no, è
solo
un taglio, basterà un filo sottile.”
La
donna sollevò un sopracciglio.
“I
punti
per un taglietto?”
“È
un po’ lungo,
i cerotti da
sutura non
bastano.”
Lo
stava fissando
con non troppa convinzione, ma non protestò o fece altre
domande e
raccolse il necessario. Disinfettante, filo, ago, forbici, cerotti di
media grandezza, una benda e altre cose.
“Altro
dottore?”
“No
va bene così.” Le sorrise.
“Dovrò
segnare questa roba, la metto a mio nome ma il dottor Lewis
farà
domande.”
“Ah...
si certo immagino, e lei lo mandi da me, gli spiegherò
tutto io.”
“Come
vuole lei. Poi lasci pure tutto lì, ci penseranno gli
inservienti a
mettere a posto.”
“Grazie.”
“Si
figuri.”
John
uscì dalla stanza e si incamminò lungo il
corridoio, mentre la
donna richiudeva la porta.
Tornò
da Sherlock più velocemente che poteva.
Cercò
di entrare senza rovesciare tutto.
“Sono
qui!”
Appoggiò
le cose sul letto. Mise i guanti in lattice.
La
carta con cui stava tamponando il taglio si era quasi del tutto
inzuppata.
Sistemò
il telo e la bacinella di metallo, poi prese il flacone di
disinfettante. Lo aprì, il colore era come quello del rame
ossidato,
e l’odore arrivava forte e pungente. Pian piano
staccò la carta
che si era appiccicata alla pelle.
Versò
il liquido su della garza e la passò sulla ferita, si era
tagliato
anche la mano, quindi si assicurò di pulire anche quei tagli.
“Scusa.
Brucia un po’.”
Quelle
sulla mano erano abbastanza leggere, ma quella sul polso era
più
profonda. Non troppo per fortuna. Il bordo era frastagliato, per
fortuna non si era impegnato abbastanza ad usare quel vetro.
“Che
ti è saltato in mente me lo dici?- Lo guardò
fisso negli occhi.
-Rispondimi. Lo voglio sapere.”
Sherlock
deglutì, senza guardarlo in faccia.
“Non...
lo so...”
“Non
lo sai? Cazzate.”
Cambiò
i guanti e aprì il rotolo con il filo, era abbastanza
sottile e
bianco. Ne tagliò un pezzo, non c’è ne
voleva troppo per fortuna.
Poi aprì la confezione sigillata con l’ago. Era
curvo e non troppo
grosso.
“Ho
visto il vetro…” si
strinse nelle spalle.
“Hai
visto il vetro e hai pensato di aprirti le vene?” Uno dei due
doveva dirlo e visto che Sherlock non ne aveva l’intenzione,
lo
aveva fatto lui.
“No!”
“Allora
cosa!”
“Non
lo so! Farmi... - ma non fini la frase, lo vide stringere le labbra,
come se dovesse trattenere qualcosa.
“Fare
cosa Sherlock?”
Sherlock
scosse la testa.
“Cosa?
Te lo continuerò a chiedere finché non me lo dirai.”
Sherlock
chiuse gli occhi.
“Male...”
quelle parole erano uscite con un filo di voce.
John
rimase in assoluto silenzio.
“Devi
promettermi che non lo farai mai più.- Era più
che serio.
-Promettilo.”
“Te
lo prometto.”
Rimasero
in silenzio mentre lo ricuciva, l’ago che attraversava la
carne e
la pinza che riuniva il filo per chiudere il taglio.
Quando
ebbe finito passò un altro po’ di disinfettante e
chiuse con un
po’ di garza e una benda, anche per coprire i tagli sulla
mano.
Ricollegò
la flebo e il macchinario per i parametri.
Sistemò
tutto e andò a pulire in bagno.
“Ora
devo tornare a casa e prima andare a prendere Rosie. Per favore vedi
di non fare più un lavoro del genere.” si
rivestì per uscire.
Sherlock
annuì.
“Guardami.
- aspettò che l’altro
lo guardasse. - non farlo mai più.”
Annuì
nuovamente.
“No.
Voglio sentirtelo dire.”
“Ti
ho promesso che non lo farò mai più.”
“Bene.”
Sistemò la giacca e la richiuse bene, arrotolando
la sciarpa intorno al collo.
“Domani
devo fare dei giri, non posso venire. - sospirò.
Gli andò vicino e gli prese la mano sana. -Ti ho promesso
che ti
avrei
aiutato
e ti sto aiutando. Ma tu devi avere pazienza e fidarti.”
“Io
mi fido.”
“Si.
Lo spero.”
“Ci
vediamo presto va bene?”
Sherlock
annuì.
Gli
mise un braccio intorno alle spalle e lo baciò tra i capelli.
“Andrà
tutto bene.”
Uscì.
_______________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
Pronta
a ricevere sassi. Me li merito. 😃
Come
sempre aspetto impressioni a riguardo.
Al
prossimo capitolo, che già anticipo, ci sarà un
plot twist (ovvero
colpo di scena).
Se
volete sono sia su Instagram che su
Facebook:
https://www.instagram.com/lady_norin/https://www.facebook.com/ladynorin/
Aggiornamenti:
Venerdì
23/04 capitolo 15 ore: 15/16
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Capitolo 15 *** Capitolo 15: ***
Capitolo
15:
***
Il fatidico giorno si avvicinava sempre più in fretta.
Quando
sembrava che ci fosse più tempo, ecco che si ritrovava a non
averne
più.
Il
cuore di John era sempre in agitazione, la notte non dormiva, la
trascorreva a rigirarsi nel letto, ad arrovellarsi il cervello.
Sarebbe potuta andare storta qualsiasi cosa. Aveva ripassato tutto il
piano nei minimi dettagli più e più volte.
Certo
non era facile, in una grande città come quella, con un uomo
che
controllava ogni cosa come il grande fratello, non lasciare tracce,
ma forse proprio il dare per scontato che Mycroft pensasse di
conoscerlo così bene, poteva giocare a suo vantaggio. La
presunzione
era sempre stata uno dei più grandi difetti del maggiore di
casa
Holmes.
E
fregarlo sarebbe stato uno dei suoi più grandi piaceri della
vita.
Doveva funzionare.
Quella
giornata iniziò ancora prima che sorgesse il sole. Aveva
già
preparato alcune cose il giorno precedente, aveva impacchettato tutto
quello che non gli sarebbe servito. Fatto una lunga doccia calda, ma
non gli era servita a sciogliergli i nervi, anzi, più il
tempo
trascorreva e più si sentiva rigido ed in ansia.
Preparò
la colazione e poi svegliò Rosie, che sembrava molto
contrariata da
quella levataccia.
“Lo
so perdonami, ti prometto che poi torni a nanna.” la
baciò su una
guancia, lei era tutta corrucciata e imbronciata quindi
preferì non
insistere troppo con le coccole. Fece mangiare la bambina, le mise
vestiti puliti, e poi aspettarono la babysitter; non poteva
pretendere che arrivasse alle sei di mattina.
Dopo
che si fu assicurato che Rosie fosse a posto uscì di casa.
Se
da appena sveglio le ore parevano correre, ora sembrava che il tempo
andasse a rallentatore. Finì di fare gli ultimi giri che
arrivò
l’ora di pranzo, ma non mangiò nulla. Aveva lo
stomaco chiuso e la
nausea.
Si
presentò in ospedale come al solito, solo che era... in un
modo
leggermente diverso.
Passò
tranquillamente davanti alla guardiola dell’ingresso,
c’era gente
ed il personale era tutto impegnato. Sali ai piani superiori, ed
entrò nella stanza di Sherlock, che sgranò gli
occhi per la
sorpresa, quando lo vide.
“Che...
che stai facendo?” La sua espressione sconvolta avrebbe quasi
voluto incorniciarla.
“Dai,
c’è ne andiamo no?”
“Andiamo?
Dove?”
“Vedrai.
Intanto usciamo di qui.
Avanti
siediti.- Spinse la sedia a rotelle a fianco al letto. -Sbrigati non
abbiamo tutto il giorno.”
Sherlock
lo guardava con dubbio e sospetto.
“Che
c’è? Non ti fidi?”
“N-no
non è che non mi fido…” ma dal tono di
voce sembrava proprio uno
che non si fidava.
Sherlock
rimase a fissare la sedia a rotelle per qualche secondo ma poi
scostò
le coperte. John lo aiutò ad alzarsi e sedersi.
Poté sentire che
l’altro tremava.
“Va
tutto bene?”
Sherlock
annuì.
“Come
hai fatto l’altra volta a staccare il monitor senza che se ne
siano
accorti di la?”
“Non
è difficile…”
Immaginava
che per Sherlock fregare una semplice macchina fatta di cavi e
circuiti non fosse molto complicato, e infatti fu proprio
così.
Tempo
un minuto e l’aggeggio suonava da solo, senza nessuno
attaccato.
“Non
voglio sapere come ci sei riuscito.”
Tirò
fuori un cappotto di pesante lana nera e glielo fece mettere.
“E
questo da dove viene?”
“Te
l’ho comprato. Chiudilo.”
Poi
gli mise sopra le gambe una vecchia coperta di lana, e una sciarpa
larga attorno al collo.
“Che
cosa stai facendo?” chiese Sherlock confuso.
“Devi
stare al caldo.” Gli infilò sulla testa un
berretto, e poi gli
passò un paio di guanti.
“John…”
dal tono di voce sembrava sempre più dubbioso.
“Che
c’è?”
“Sicuro
che sia necessario?”
“Sì.”
rispose John, secco.
Ma
l’altro non sembrava affatto convinto della spiegazione.
“Perché
sembro un vecchio?”
“Ti
stai lamentando Sherlock?”
“No…”
Si
assicurò che fosse coperto per bene, e andarono verso la
porta,
abbassò lentamente la maniglia, e guardò che nel
corridoio non ci
fosse nessuno. Quando fu sicuro che non ci fossero altre persone
nelle vicinanze, allungò il collo per guardare meglio.
Sembrava
tutto tranquillo. Gli infermieri avevano appena fatto il cambio turno
quindi per almeno una decina di muniti sarebbero stati impegnati.
Guardò a sinistra, e il corridoio era sempre vuoto.
Sgattaiolò
fuori, spingendo la sedia a rotelle. Arrivato davanti le porte degli
ascensori premette il pulsante di chiamata. Purtroppo evidentemente
doveva trovarsi ad un altro piano perché ci mise un
po’ a salire.
John nel frattempo continuava a guardarsi attorno con apprensione.
Ancora non si vedeva nessuno.
“Andiamo
stupido ascensore…” In quel momento le porte si
aprirono. Senza
aspettare un secondo spinse la sedia a rotelle ed entrarono. Premette
il pulsante per il piano terra.
Mise
una mano sulla spalla di Sherlock, che sussultò a quel
contatto.
“Stai
bene?” gli chiese.
“Io
si… e tu?”
“Starò
bene quando saremo fuori da qui.”
“Sei
sicuro di volerlo fare? Non voglio tu finisca nei guai a causa
mia.”
John
sbuffò.
“Non
sono stupido Sherlock, lo so quello che sto facendo.”
“Non
ho mai pensato che tu sia stupido.”
Proprio
in quel momento le porte dell’ascensore si aprirono.
John
uscì fuori, sempre dopo aver controllato che non ci fosse
nessuno in
giro, solo che invece di andare verso l’ingresso principale,
prese
la strada per la zona del pronto soccorso.
“John,
l’uscita è di là…”
“Lo
so. Ma non usciremo dall’ingresso principale.”
“Se
ne sei convinto…”
“Te
l’ho detto, ti devi fidare.”
Si
diresse a testa bassa verso il pronto soccorso. Prese il tesserino e
lo passò sul lettore digitale, compose il codice. Le porte
scorrevoli si aprirono.
Li
c’erano diversi operatori, infermieri e dottori, ma per
fortuna il
suo ‘travestimento’ e il fatto che avesse aspettato
il cambio
turno in modo di non rischiare di incontrare nessuno che potesse
riconoscerlo, stavano funzionando alla grande. Finalmente vide in
lontananza l’uscita della zona ambulanze. Affrettò
il passo.
“Dottore?”
la voce di quella che doveva essere una ragazza piuttosto giovane lo
obbligò a fermarsi. Rimase congelato sul posto.
“Sì?”
Rispose senza nemmeno voltarsi.
“Scusi
dottore ma avrei bisogno di lei, dobbiamo fare uno pneumo ad un
paziente che arriva tra due minuti in codice rosso, si è
forato un
polmone in un incidente.”
“Ehm
sì, sì. Arrivo subito, ma prima devo accompagnare
ad un'ambulanza
questo paziente. Deve essere trasferito.”
“Certo.
Grazie dottore.”
Quando
sentì i passi sempre più in lontananza, quasi si
lanciò fuori.
Aveva il cuore che batteva a mille, poteva sentirlo sbattere contro
la cassa toracica, il cervello ronzava, e i suoni gli arrivavano
ovattati.
“John?”
Solo quando si sentì scuotere delicatamente per un gomito si
riprese
abbastanza da tornare a ragionare lucidamente. Abbassò la
testa e
trovò gli occhi di Sherlock, che lo fissavano con
preoccupazione.
“John
mi senti?”
“Sì
certo che ti sento.” Finalmente riprese a respirare
regolarmente.
Scese
una rampa e aggirò un paio di ambulanze parcheggiate
lì davanti.
“Stai
bene? Sei diventato bianco.”
“Una
favola. C’è la siamo scampata.”
Finalmente
vide i cancelli, come immaginava erano aperti, anche perché
sarebbe
arrivata un'ambulanza di lì a poco, quindi si
affrettò. In un
minuto furono sulla strada. Quasi gli veniva da piangere per la
gioia.
“Ricordami
perché lo stiamo facendo.” il tono malfidato di
Sherlock lo
irritava abbastanza.
“Per
non dare nell’occhio.”
“Non
era meglio prendere l’ingresso principale?”
“E’
pieno di telecamere all’ingresso principale, mentre qui
possiamo
mischiarci con il personale. Ora è più
chiaro?”
Sherlock
annuì.
Percorse
il marciapiede per diversi metri, per poi infilarsi in uno dei
vicoli.
Poco
più in là c’era una vecchia utilitaria
parcheggiata nel fondo.
“Perché
siamo qui? Di chi è questa macchina?” Ora anche
Sherlock sembrava
in ansia.
“E’
nostra.”
“Noi
abbiamo una macchina? - Quel noi gli fece quasi prendere un colpo. -
Da quando tu guidi?”
“Da
questa settimana.”
Sherlock
non rispose.
John
lo accompagnò dal lato del passeggero e aprì lo
sportello.
“D’accordo,
sali.”
Sherlock
si voltò a guardarlo. John lo prese sotto un braccio per
alzarlo.
Una
volta al suo posto lo coprì per bene. Caricò la
sedia a rotelle tra
il sedile anteriore e quello del guidatore. Levò il camice
con il
badge falso, che aveva indossato per passare in ospedale, e lo
gettò
nella macchina.
Salì
al posto di guida e mise in moto. Uscì dal vialetto.
“John?”
“Sì
Sherlock.”
“Perché
la tua macchina è piena di roba?”
John
sospirò.
“Perché
c’è ne stiamo andando.”
“E
dove stiamo andando? Credevo stessimo a casa tua.” Sembrava
un
bambino nella fase dei “perché”
“Certo
a casa mia, il primo posto dove verrebbero a cercarci.”
“E
quindi cosa intendi fare?”
John
prese un grosso respiro.
“Lo
vedrai.”
Per
fortuna Sherlock non disse più nulla.
Guidò
fino a casa, e parcheggiò poco più in
là del portone di casa.
“Tu
resta fermo qui e non ti muovere per nessuna ragione hai capito?-
Sherlock
lo fissò e annuì. -Tieni la macchina chiusa.
Torno subito, ci metto
poco.”
Scese
in fretta e chiuse lo sportello con un colpo secco. Corse dentro
casa. La tv era accesa e c’era la babysitter che stava
riordinando.
“Oh
buonasera dottor Watson, non immaginavo tornasse così
presto. Ho già
messo la bambina a letto.”
Dannazione,
sperava che fosse ancora sveglia.
“Perfetto.
Grazie Lizzie.”
“Si
figuri dottor Watson.”
La
ragazza aveva solo vent’anni ma era stata raccomandata da
un'agenzia ed era molto brava nel suo lavoro, e poi Rosie la adorava.
“Senti
Lizzie, per un po’ non ci saremo. Andiamo fuori... Una
vacanza
diciamo. Quindi ti do un anticipo e ti pago le ore che ancora non ti
ho pagato.”
“Ma
no non si preoccupi, può darmele anche quando
torna.”
“No
no, fidati, meglio se ti pago ora.”
Prese
il portafoglio dalla tasca e le pagò quanto doveva
più una grossa
mancia. La ragazza all’inizio non voleva accettare, ma poi
sotto
sua insistenza prese tutti i soldi e se ne andò
ringraziandolo. Non
poteva sapere che non avrebbe più lavorato per lui.
Andò
nella cameretta di Rosie, che stava dormendo beata nel suo lettino,
inconsapevole di tutto quello che stava accadendo. Si sentiva un
po’
in colpa a stravolgerle ancora la vita, ma non poteva fare
altrimenti. Prese dal comodino dei vestiti pesanti e la
vestì mentre
ancora dormiva. Poi le mise la giacca e il berretto, con i guanti,
allora vide che iniziava a svegliarsi.
La
mise nel marsupio, in modo che stesse comoda appoggiata contro al suo
petto, e come ultima cosa recuperò due borsoni sportivi da
sotto il
letto.
Uscì
dalla camera e diede un ultimo sguardo all’appartamento.
Era
proprio piccolo. Un bi-locale di appena una sessantina di metri
quadri. A confronto il 221B di Baker Street era un attico.
E
poi quel posto era lontano, mentre l’appartamento che
divideva con
Sherlock si trovava in pieno centro. Perché se ne era
andato? Perché
era uno stupido ecco perché... non sarebbe successo nulla se
fosse
rimasto lì. Lui e il suo maledetto orgoglio.
Si
ricordò di Sherlock in macchina e corse fuori. Una volta
arrivato
scaricò i due borsoni sui sedili dietro e sganciò
Rosie per
sistemarla sul seggiolino.
“Ehi
tutto bene?”
Sherlock
annuì senza rispondere. Si era tolto guanti e berretto e
aveva
srotolato la sciarpa.
John
copri bene la figlia, che nel frattempo si era svegliata e si stava
lamentando.
“Lo
so, lo so, mi dispiace averti svegliata, adesso torna a dormire
però.” Le diede un bacio sulla testolina e chiuse
lo sportello.
Salì al posto del guidatore.
“Perché
ti sei spogliato?”
“Avevo
caldo con tutta questa roba.”
Effettivamente
le sue guance erano rosse e gli occhi lucidi e stava sudando. I ricci
neri tutti scompigliati, erano anche cresciuti in quel periodo di
ospedale.
Gli
mise una mano sulla fronte.
“Uhm...
sei un po’ caldo.”
“Lo
so, te l’ho detto che ho caldo.”
John
non era molto convinto fosse quello il motivo, ma al momento poteva
fare poco.
“Devi
stare coperto. Anche se hai caldo.”
“Devo
per forza tenere anche il berretto e i guanti?”
Ci
pensò un attimo prima di rispondergli.
“No,
quelli puoi anche non tenerli.”
Sherlock
allora prese la sciarpa e se la avvolse bene.
John
mise in moto ed uscì dal parcheggio.
“Chi
era quella ragazza che è uscita da casa tua?”
Quindi
lo aveva tenuto d’occhio per vedere dove entrava...
Giustamente.
“Era
la babysitter di Rosie.”
“Era...
carina...” si sarebbe voltato a guardarlo se non fosse stato
impegnato a guardare. Cosa voleva dire con ciò?
“Ha
vent’anni Sherlock. E poi perché ti
interessa?”
Quando
non ricevette risposta si dovette per forza voltare. Ma Sherlock
stava guardando fuori dal finestrino e non poteva vederlo in volto.
“È
un viaggio lungo, meglio se dormi.”
Di
nuovo nessuna risposta. Va bene...
Non
gli sembrava di aver detto nulla di offensivo.
Controllò
la bambina con lo specchietto. Si era già addormentata.
L’effetto
della macchina...
____________________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
Ve
lo avevo detto che c’era il colpo di scena. John è
riuscito a
fregare mr Governo controllo tutto ma poi mi faccio scappare la gente
da sotto al naso. Credeva di essere più furbo e intelligente
e
invece, alla fine John ha passato anni ad essere istruito da
Sherlock, qualcosa l’ha imparata. Questi due che fanno la
fuga chi
sa per dove e per fare cosa…
Spero
che questo cambio vi piaccia lo stesso, anche se è
così
inaspettato. (almeno lo spero)
Fatemi
sapere ❤️
Se
volete sono sia su Instagram che su
Facebook:
https://www.instagram.com/lady_norin/https://www.facebook.com/ladynorin/
Visto
che ha avuto tanto successo l’inserimento della
programmazione,
cercherò di metterla per tutti i capitoli.
Aggiornamenti:
Capitolo
16
Lunedì
26 aprile ore: 15-16
|
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Capitolo 16 *** Capitolo 16: ***
Capitolo
16:
***
Dopo
un po’ che non sentiva Sherlock, lo controllò. Si
era addormentato. Era piegato su un lato e con la
testa appoggiata contro il vetro
dello sportello.
Con
una mano prese il berretto e cercò di sistemarlo in modo che
avesse
qualcosa di morbido nel mezzo.
Il
suo volto era ancora arrossato e la pelle lucida. Le labbra erano
dischiuse e respirava in modo profondo.
Gli
sistemò qualche riccio che si era appiccicato sulla fronte.
Una
volta che fossero arrivati a destinazione doveva assolutamente dare
un'occhiata ai suoi parametri, solo che la strada era ancora lunga.
Sherlock
ad un tratto si svegliò di soprassalto.
Anche
John sobbalzò per lo spavento.
“Ehi,
che c’è che succede?” il tono di John
era preoccupato, e
dall’aspetto Sherlock sembrava stare anche peggio.
“Per
favore... puoi fermarti.” gli tremava la voce, e tremava lui.
“Che
succede?” insisté John.
“John
ti prego!”
Cercò
di frenare in modo non troppo brusco per non svegliare la piccola e
si fermò a bordo della strada.
Sherlock
spalancò lo sportello e si sporse fuori, per vomitare.
“Ah,
merda...” John si infilò tra i sedili per cercare
in uno dei
borsoni e prese una borraccia.
“Ecco,
bevi.- la porse a Sherlock, che la prese, anche se titubante. -Bevi a
piccoli sorsi.” ne prese un sorso e sputò per
terra, e tossì.
Tremava sempre più forte.
Dallo
sportello aperto arrivava il freddo pungente della notte,
l’unica
cosa illuminata era dovuta alla luce interna dell’auto e dai
fari.
“Avanti
chiudi se no entra tutto il freddo.” Sherlock si
sistemò contro il
sedile e chiuse la portiera.
Avrebbe
voluto accendere il riscaldamento ma faceva troppo rumore e Rosie si
sarebbe svegliata.
“Dove...
dove siamo?” riusciva a parlare a fatica.
“Ah...
sulla strada verso il Galles.” rispose John.
“Cosa?
Perché stiamo andando lì?”
“Perché
è il posto dove stiamo andando.”
“Forse
dovremmo tornare indietro...”
“No
non dobbiamo.”
“Non
devi avere paura. Sono sicuro di quello che faccio. Starai meglio, te
lo prometto.”
Pensava
di averlo rassicurato almeno un po’ ma invece Sherlock pareva
un
animale ferito.
“Sarei
dovuto rimanere zitto. Era meglio quando non parlavo.”
“Ma
che dici.”
“A
quest’ora sarei dove dovrei essere e tu a casa tua.”
“Basta
smettila.”
“Non
ti dovevo coinvolgere. Non sto mai zitto. Ha ragione mio fratello,
sono un pericolo.” Ormai sembrava delirasse, e il problema
era che
non sapeva come fermarlo.
“Lasciami
qui.”
“Sei
completamente impazzito?”
Sherlock
si coprì il volto con entrambe le mani, ma tremava talmente
forte
che non riusciva a capire se stesse anche singhiozzando.
Lo
massaggiò sulla parte alta della schiena.
“Senti...
Ho dietro qualcosa per dormire. Lo vuoi?”
“N-non
posso prendere certe pastiglie...”
“Ah,
giusto.
D’accordo.
Fermo qui.”
Levò
la cintura e scese dalla macchina, lasciando lo sportello appoggiato
in modo che non entrasse il freddo.
“John?”
Ma
ormai era già fuori dall’abitacolo per poter
sentire la voce di
Sherlock che lo chiamava.
Fece
il giro e aprì il portabagagli.
L’aria,
una volta uscito all’aperto, arrivava gelida, pungente come
mille
piccoli spilli, e il vento soffiava forte. Faceva davvero freddo per
essere quasi primavera. Cercò tra il cumulo di roba che
aveva
incastrato nel retro, cercando di fare il più velocemente
possibile.
Trovò
lo scatolone con le coperte. Per fortuna lo aveva messo sopra,
così
poté recuperarne un paio. Chiuse il porta bagagli.
Aprì
lo sportello del passeggero e stese la coperta in modo che Sherlock
fosse coperto dai piedi al collo.
“Meglio?”
Ma
l’altro non rispose, continuava solo a fissarlo come un
animale
terrorizzato.
“Adesso
ti passa. Non ti preoccupare.”
Probabilmente
per lui quella giornata era stata troppo stressante e il suo fisico
debilitato dal troppo tempo in ospedale ne stava risentendo.
“Vedrai
che con una bella dormita e la colazione domattina, ti riprenderai
subito.”
Sherlock
annuì, continuando a tremare.
John
richiuse le sportello e tornò al posto di guida. Dopo aver
controllato su una cartina se fossero nella direzione giusta, mise in
moto e ripresero il lungo viaggio.
Non
poteva permettersi di fermarsi troppo, prima di tutto perché
era
notte fonda e trovare un hotel a quell’ora era fuori
discussione, e
poi sarebbe stato un casino sistemare Sherlock e la bambina.
Ovviamente nemmeno dormire in macchina era un'idea da prendere in
considerazione. Quindi l’unica soluzione era guidare tutta la
notte, fino a che non fossero arrivati nel posto che aveva scelto.
Era già alla seconda lattina di bibita energetica, almeno
così
poteva stare sicuro che non si sarebbe addormentato alla guida.
Oltretutto doveva aggiungere i tre caffè bevuti durante la
giornata.
Probabilmente aveva in circolo più caffeina che globuli
rossi.
La
strada diventava sempre più deserta, anche vista
l’ora, ma ormai
aveva passato i centri abitati da un po’. Era buio pesto.
Probabilmente stavano attraversando una zona rurale. In quella parte
d’Inghilterra c’era tutta brughiera e piccoli
villaggi.
All’interno
dell’abitacolo regnava il silenzio assoluto, scandito solo
dai vari
respiri delle persone presenti, e gli scricchiolii e rumori dovuti
dal veicolo in movimento.
In
realtà non aiutava affatto a restare svegli.
Lanciò un'occhiata
alla sua sinistra. Anche Sherlock era sveglio e sembrava non aver
intenzione di riaddormentarsi, ma almeno aveva smesso di tremare.
“Vuoi
parlare di qualcosa?” Gli chiese ad un certo punto John,
stufo di
tutto quel silenzio. L’amico voltò appena la testa
nella sua
direzione.
“Di
cosa?” la voce era bassa e roca.
“Non
lo so, di qualsiasi cosa.”
Sherlock
si strinse nelle spalle.
“Va
bene ho capito. Faccio io le domande.
Che
cos’hai fatto nel tempo che non ci siamo visti?”
La
faccia di Sherlock diventò impassibile anche se poteva
vedere la
mandibola stringersi.
“Ho
detto qualcosa che no va?”
Lo
vide deglutire più volte, come se stesse tentando di
ingoiare
qualcosa che gli ostruiva la gola.
“No...
n-niente... niente di che.” Balbettò a fatica.
“Niente?”
chiese dubbioso John. Era impossibile che fosse stato senza fare
niente per più di un anno. Sherlock Holmes odiava stare con
le mani
in mano.
“Il
solito.”
“Niente
o il solito?”
L’altro
sembrava innervosirsi di più ad ogni risposta, ma ora che
gli aveva
fatto venire il dubbio non riusciva a mollare la presa.
“Quello
che ho sempre fatto.”
“Hai
indagato da solo?”
Uno
strano presentimento gli solleticò il cervello.
“Si
e quindi? Cosa credevi che facessi prima di incontrarti?”
Quella
risposta così piccata non gli era piaciuta proprio per
nulla. Perché
era diventato aggressivo?
“Scusa
se chiedo.”
“Da
quando ti interessa sapere quello che ho fatto quando tu non
c’eri?”
D’accordo.
“Mi
prendi in giro? Ti ho trovato quasi morto in un parcheggio!”
“Non
c’era bisogno di girarci intorno facendo finta che ti
fregasse
qualcosa di quello che ho fatto, se il tuo unico interesse è
sapere
quello che mi è successo in quel parcheggio! Do la stessa
risposta
che continuo a dare a Lestrade, non me lo ricordo!”
“Shhh,
ti dispiace abbassare la voce?”
Si
voltò a controllare che Rosie stesse ancora dormendo. La
bambina si
agitò un attimo nel seggiolino, ma per fortuna si
rilassò
all’istante, sempre addormentata.
Quando
tornò a guardare Sherlock, si era voltato verso il
finestrino e
quindi non poteva più guardarlo in faccia.
“Va
bene allora ti dico io quello che ho fatto. In realtà niente
di che.
Mi sono occupato di Rosie. Ho visto una terapista, brava. E ho
lavorato.-
Silenzio
assoluto. -In realtà dovresti vedere come fanno le donne.
Pensavo
che con Rosie nessuna si sarebbe più avvicinata, invece
sembra quasi
che sia diventato un faro. - Ridacchiò. - Non che la cosa mi
interessi ovviamente, però è interessante come
dinamica.”
“Puoi
smetterla!” Sherlock lo aveva quasi urlato, tanto che John
sobbalzò
della sorpresa.
“Che
ti prende?” Chiese quasi offeso di essere stato apostrofato
in quel
modo. Come un ragazzino che veniva rimproverato
dall’insegnante
perché stava facendo troppo baccano.
Ma
Sherlock non risposte, tornò a guardare fuori dal finestrino.
“Mi
vuoi dire che hai? Non vuoi parlare di quello che hai fatto, non vuoi
che parli io, cosa vuoi?”
“Non
ho voglia.” Rispose l’altro con la voce incrinata.
“Non
hai voglia di che?” Insisté John.
“Di
niente.”
John
non replicò.
Per
fortuna Rosie non si era svegliata con tutto quel trambusto,
iniziò
a pensare che a quel punto nemmeno le cannonate lo avrebbero fatto.
Il
viaggio proseguì esattamente come era stato prima,
nell’assoluto
buio e silenzio.
A
torno non c’erano nemmeno i lampioni e tutto quello che
poteva
vedere era illuminato dai fari della macchina. Quindi per evitare
incidenti di sorta stava andando particolarmente piano. Di quel passo
ci avrebbero messo dieci ore ad arrivare. In realtà non
aveva idea a
che punto fossero arrivati.
Si
fermò al lato della strada e prese la cartina dal vano
portaoggetti.
Sherlock
sentendosi toccato trasalì e si voltò con uno
scatto.
Ma
John lo ignorò, troppo occupato a cercare dove,
più o meno fossero
finiti. Come unica luce stava usando quella sul tettuccio.
“Che
cos’è?” Chiese poi Sherlock.
“Hm?”
“Questa
busta.”
John
si voltò a guardarlo. Sherlock teneva tra le mani una busta
gialla.
“Ah,
i documenti.” Tornò a concentrarsi sulla cartina.
“Quali
documenti?”
“Quelli
che ci serviranno.”
Sherlock
aprì la busta e dentro c’erano delle carte di
identità e altri
fogli. Gli osservò con attenzione.
“Hai
fatto fare dei documenti falsi?”
“Già.”
“Come?
Quando?”
“Dopo
che mi hai detto che te ne volevi andare. Ho chiesto aiuto ai tuoi
amici poco raccomandabili.” Non si girò a
guardarlo.
“Sei
andato da solo a cercarli?” Chiese quasi sconvolto Sherlock.
“Già.
In realtà è stato abbastanza facile, si
ricordavano che gli avevo
già incontrarti quando eravamo insieme. La parte difficile
è stata
rifare la laurea. Mi ha aiutato il tuo amico... uhm
com’è che si
chiama. Emil, Emmett...”
“Elliot?”
Azzardò Sherlock avendo intuito di chi stesse cercando di
ricordarsi
il nome.
“Ah,
si lui! Quel ragazzino è in gamba, è riuscito ad
entrare nel sito
della mia vecchia università. Almeno non dovrò
cambiare lavoro.”
“Sei
andato lì da solo...”
“Perché
lo dici con quel tono? So badare a me stesso, e poi è solo
un
ragazzo, che mai potrà fare.”
“Avresti
potuto rischiare!”
“Sono
amici tuoi no?”
“Ma
io li conosco...”
“Si
e sono sempre ben felici di aiutarti.”
Sherlock
era sconvolto da quell’informazione. Riguardò i
documenti.
“John
Doyle?” Chiese quasi divertito.
“Si
non volevo niente di complicato. Almeno me lo dovrei
ricordare.”
“Carino.”
“Spiegami
solo una cosa John, perché diavolo mi hai dato questo
cognome sei
impazzito per caso?”
John
riusciva quasi a stento a trattenere le risate, si tappò la
bocca
con una mano.
“Scusa...
mi sono immaginato la tua faccia, non c’è
l’ho fatta.”
“Non
è una bella cosa!”
“Ne
è valsa la pena.”
“Sei
una persona molto crudele.”
“Ma
smettila, ti stai lamentando solo perché ho usato il tuo
nome.”
“Ma
a me non fa ridere!” Si lamentò Sherlock.
“Mi
dispiace, ma te lo dovrai tenere così.”
Sghignazzò John, molto
soddisfatto del suo brillante piano.
Sherlock
gli lanciò un'occhiataccia ma questo non faceva che farlo
ridere di
più.
“E
dai non fare quel muso lungo.”
“Certo
tu ti sei scelto il cognome che ti pareva...
Ci
siamo persi?” Chiese poi cambiando argomento.
“No,
no, sto solo cercando il punto più o meno dove potremmo
essere
arrivati.”
“Dai
fammi vedere.” Si fece passare da John la cartina.
“Da
quante ore stiamo viaggiando?”
“Più
o meno sette.”
“Questa
è la strada?” Seguì con il dito il
segno rosso di pennarello che
partiva da Londra.
“Si
esatto. È abbastanza dritta come strada.”
“Allora...
si non siamo molto lontani se quello è il punto di
arrivo.”
Sulla
mappa c’era un piccolo nome cerchiato alla fine della lunga
linea
rossa.
“Si
dobbiamo andare lì.”
Dentro
al cerchio c’era scritto un nome.
“Perché
qui?”
“Non
c’è un motivo in particolare. Se vuoi sparire cosa
c’è di
meglio di un piccolo paesino? Oltretutto è vicino al confine
con la
Scozia, e con un nome in un altra lingua.”
“Sì,
è una scelta intelligente.”
“Perché
lo dici come se la cosa ti stupisse?”
Sherlock
si voltò a guardarlo con un lieve sorriso. John non
poté fare a
meno di fissargli le labbra, la cicatrice sul lato destro del labbro
superiore si era increspata, quasi contorta su se stessa, il lato
superiore risultava leggermente più sollevato rispetto al
resto,
come una specie di strano sorriso sghembo. Ma era bello. Era sempre
stato bello. Però quando Sherlock si accorse dove lo stava
fissando
lasciò morire il sorriso e abbassò subito la
testa.
Avrebbe
voluto dirgli che non doveva avere paura e vergognarsi, ma era troppo
codardo per farlo.
“Più
o meno siamo qui.” Gli fece vedere con il dito il punto.
Mancheranno un paio d’ore, forse tre.”
John
sospirò.
“In
marcia allora, sperando che Rosie dorma ancora per un
po’.”
“Non
è strano che dorma così tanto?”
Domandò Sherlock un po’
scettico.
“No
perché ho detto alla babysitter di farle fare qualunque tipo
di
attività stancante, compreso nuoto. Si lo so sono un padre
orribile
non dirlo.”
“Non
ho idea di come si alleva un bambino, ma penso che scaricare le
energie vada bene.”
“Si
diciamo così.”
Mise
in moto e ripartirono.
________________________________________________________________________
________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
Il
viaggio continua, Sherlock ha qualche problemino, anche di umore
traballante, e il nostro povero John si deve destreggiare tra figlia
e coinquilino messo male. Lo dovrebbero fare santo.
Lo
dico qui così non vi fate alte aspettative, Mycroft
salutatelo che
per un po’ non ci sarà 😅
(e
fu così che perse tutti i lettori)
Insomma
loro sono scappati e via, senza guardarsi indietro, ora hanno anche
dei nomi falsi, sono dei fuggitivi dal governo. 😁
A
proposito dei nomi falsi, spero non vogliate tirarmi le pietre, ho
poca fantasia abbiate pazienza, e no quello scelto per Sherlock non
lo saprete mai.
E
niente come sempre aspetto opinioni, sperando sempre che la storia
sia comprensibile, i hope, ogni
tanto mi vengono i dubbi esistenziali.
Se
volete sono sia su Instagram che su
Facebook:
https://www.instagram.com/lady_norin /
https://www.facebook.com/ladynorin/
Aggiornamenti:
Capitolo
17
Venerdì
30
aprile ore: 15-16
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Capitolo 17 *** Capitolo 17: ***
Capitolo
17:
***
Il viaggio sembrava
molto più rilassato, Sherlock non ne voleva
sapere di dormire e continuava a guardare il paesaggio esterno, ma
andava bene. Adesso si vedevano i profili delle colline, le fronde
degli alberi mossi dal vento, e tutto aveva un colore grigio/blu,
velato di nebbia.
Però
l’alba ancora tardava, probabilmente per la luce del giorno
ci
sarebbe voluta ancora qualche ora.
Ormai
avevano lasciato l’aperta campagna, intorno a loro
c’era solo
verde e alberi e sporadicamente qualche casa, ma più
avanzavano e
più le case aumentavano, fino a diventare un vero centro
abitato.
Gli
edifici poi cambiavano conformazione, passando da residenziali ad
altro tipo, ma era ancora troppo buio per distinguerli. Probabilmente
dovevano essere vicini alla meta. Per fortuna il centro era un
po’
più illuminato, i lampioni erano ancora funzionanti,
così John capì
che doveva andare ancora più avanti. Una volta passati per
la chiesa
e per la piazza centrali, e dopo aver superato altri edifici e case e
un piccolo ponte, trovò esattamente il posto che stava
cercando.
Era
una stortura vecchia, fatta di mattoni, situata sul lato sinistro
della strada. Svoltò in quella direzione.
“Che
cos’è?” Chiese Sherlock dubbioso.
“Il
posto dove staremo per un po’.”
Entrarono
in un grande parcheggio sul retro dell’edificio, era
ricoperto di
ghiaia che scricchiolava sotto le ruote della macchina.
Parcheggiò
davanti ad un mezzo muro di cinta, formato da grossi massi incastrati
uno sopra l’altro, con gli spazi tra di essi, riempiti di
terra,
che aveva germogliato producendo fiori ed erbacce.
“Non
ti muovere, torno subito.” John spense il motore e scese
dalla
macchina.
“Dove
vai?” Chiese Sherlock preoccupato.
“Torno
subito.” Richiuse la portiera.
Il
vento gelido lo travolse, sferzandogli il viso con la forza di mille
lame. Faceva ancora più freddo che a Londra. Arrivava
crudele ed
inesorabile spinto dalla forza del mare, si poteva anche sentire il
riverbero delle onde che ruggivano dalla rabbia, in lontananza. Si
coprì bene, chiudendo il giubbotto fin sotto al naso, e
corse fino
alla porta sul retro dell’edificio. Era pitturata di bianco e
il
legno si era un po’ guastato sui lati. Suonò il
piccolo campanello
a fianco.
Attese
un po’, ma non arrivava nessuno, così
suonò nuovamente, doveva
esserci per forza qualcuno. Dopo alcuni interminabili minuti,
finalmente sentì dei passi pesanti in avvicinamento da
dietro la
porta, i passi si fermarono e si udì qualcuno che armeggiava
con
qualcosa di metallico nella serratura, dopo poco la porta si
aprì.
Sulla
soglia c’era una donna, non era molto alta, era sulla
cinquantina,
aveva capelli rossi e ricci portati a fungo, legati sulla testa, un
viso tondo e gentile spruzzato di lentiggini, ed era vestita con un
maglione color panna, dei vecchi jeans logori e stivali in gomma
lunghi fino al polpaccio.
“Buongiorno
signore.” Parlò la donna. Aveva un tono basso e
profondo e un
forte accento tipico di quella zona.
“Buongiorno,
mi dispiace essere arrivato a quest’ora. Ma ho prenotato una
stanza. Per telefono si ricorda? Mi chiamo John W...- prima che
potesse commettere una qualche sciocchezza si ricordò in
tempo che
quello non era più il suo nome. Così dopo un
attimo di esitazione e
un’occhiata stranita della sua interlocutrice, riprese. -
John
Doyle.” Sorrise.
La
Donna si illuminò a quelle parole.
“Ma
si certo! Ha chiesto una camera. Si certo certo entri pure.”
Proseguì lei cortese e molto disponibile.
“Guardi
ho mia figlia in macchina, vorrei portare tutto nella mia stanza
subito, se fosse possibile.”
Lei
sembrò preoccuparsi.
“Oh
santo cielo ma si assolutamente!
Possiamo fare il check-in una volta che si sarà sistemato.
Vado a
prenderle la chiave, faccio subito. Davvero mi dispiace.”
“Non
si preoccupi, la aspetto qui.”
“Ma
la prego aspetti pure qui nel corridoio invece di stare fuori al
gelo. Sa qui può fare davvero molto freddo in questa
stagione. Molto
di più che nell’entroterra.”
“Immagino,
si.” John raccolse l’invito e si fermò
oltre la porta.
Effettivamente dentro c’era un bel tepore. Nonostante i muri
grezzi, il calore era ben conservato.
La
donna era sparita e ritornò dopo alcuni minuti.
“Ecco
qui, come da lei richiesto una stanza al piano terra. Sa
avevamo tutto occupato ma abbiamo fatto a cambio con una coppia di
giovani, loro di certo non hanno problemi a fare le scale.”
Ridacchiò lei. John le sorrise.
“Mi
dispiace averle creato tanto disturbo.”
“Assolutamente
no,
se possiamo fare qualcosa per accontentare i clienti lo facciamo
volentieri, anzi non esiti a chiedere.” Mise nella mano di
John una
chiave di metallo con attaccato un portachiavi di legno scuro e
pesante con scritto un numero ‘6’ in rilievo.
“La
vostra stanza è la numero 9, in fondo al corridoio, sulla
destra.”
John si rese conto di aver letto il numero al contrario.
“Ah
certo, si, grazie.”
“Posso
aiutarla in qualcosa? Davvero non si faccia problemi a
chiedere.”
“No
al momento credo di essere a posto.”
“Sicuro?
Ha bisogno con la bambina mentre porta dentro i bagagli? Ho 5 figli
posso occuparmene senza problemi.”
“Ma
no non si disturbi ci mancherebbe.”
“Non
è affatto un disturbo.”
“Dice
davvero?”
“Assolutamente,
figuri, non sarebbe il primo che lascia qui i bambini per qualche ora
mentre se ne va in giro a fare qualche escursione o al mare.”
La
donna diede ad intendere che era una pratica comune che gli avventori
della pensione cercassero qualcuno che badasse alla loro
prole
mentre gli
adulti
andavano a divertirsi.
“Beh
ora sta dormendo, ma se potesse controllarla solo per un
momento...”
“Lo
faccio più che volentieri.”
In
fondo era disperato e aveva bisogno solo di aiuto per un breve
momento.
“D’accordo.
Torno subito.” Corse via.
Tornò
alla macchina e aprì lo sportello anteriore.
Rosie
stava ancora dormendo beata nel suo seggiolino. La coprì per
bene,
tirando su la coperta in pile, e dopo aver armeggiato il più
velocemente possibile, lo sganciò dal sedile.
“Che
stai facendo?”
Domandò
Sherlock che si era voltato, facendo un mezzo giro su se stesso.
“Torno
subito.”
John
si lamentò nel tirare su tutto quel peso. Era ingombrante e
doveva
anche stare attento a non sbatterlo troppo in giro.
Corse
all’interno della pensione.
“Ecco
qui. Davvero cercherò di fare il più in
fretta
possibile.”
La
donna si chinò a controllare Rosie, che si stava muovendo e
lamentando.
“Oh
ma è un amore, dia qui e faccia con calma. Alla piccolina
penserò
volentieri.”
“Grazie
mille.” Quasi si inchinò davanti a tanta cortesia.
“A
proposito mi chiamo Elizabeth.
- La donna allungò la mano, e John la strinse. - Ma
la prego mi chiami solo Beth.
Sono
praticamente sempre qui, sa questa è una pensione a
conduzione
familiare. Questo
posto è della mia famiglia da secoli. Può
chiedere di me
tranquillamente per tutto, una cartina, sapere dove si trova un
determinato posto. Anche se in realtà
c’è la signora McKennel per
questo,
lei
sa praticamente
tutto. I suoi antenati hanno co-fondato questa
città.”
“Davvero,
ancora grazie.”
“Ha
intenzione di stare qui a lungo?”
“In
realtà vorrei restare a viverci. Almeno per qualche
mese.”
“Oh.”
La donna sembrò davvero molto sorpresa da quella notizia.
“Beh
allora deve assolutamente parlare con la signora McKennel. Qui non si
muove niente se non lo decide lei, è praticante il sindaco.
Ma se la
prende in simpatia può avere qualche
possibilità.”
“Ah,
addirittura? Pensavo che fosse una libera scelta decidere dove
vivere...” Non mancò di usare una piccola nota di
acidità nel
dirlo.
“Come
le ho già detto, il nostro paesino è molto piccolo
e antico,
e c’è una commissione adibita a preservarne
l’immagine. Vogliono
solo essere sicuri che non arrivino
persone che potrebbero creare caos.
Però
l’ultima volta che è venuto ad abitare qui
qualcuno, erano
una coppia proveniente
dalla Francia.
Ora vivono qui da dieci anni. Se avrà i requisiti necessari
sono
sicura che accetteranno la sua richiesta.”
“Mi
sembra un po’ troppo complicato. Ma al momento ho solo
bisogno di
un posto dove stare momentaneamente. Poi ci
penserò.”
“Assolutamente.
- Annuì lei. - Vuole che le mandi qualcuno per i
bagagli?”
“No
grazie. Ci
penso da solo.”
John uscì.
Aprì
lo sportello dal lato di Sherlock e una forte folata di vento
riempì
l’abitacolo.
“Dai
andiamo prima che tu prenda troppo freddo.
Ti
tiro fuori la sedia.”
“Non
importa, posso camminare.”
“Preferirei
di no.”
“Davvero,
posso farlo fino a lì.” Scostò la
coperta nel tentativo di
liberarsi.
“Aspetta,
fermo!”
Ma
stava già scendendo. Si aggrappò allo sportello.
“Riesco
a camminare.”
John
non gli credeva molto, così si mise sotto il suo braccio.
“Posso
farcela da solo.”
“Smettila.
Non ti lascio andare da solo. E stai rischiando di prenderti una
polmonite.”
“Grazie
per l’incoraggiamento.”
Camminarono
lentamente fino alla porta sul retro. Il freddo che tagliava il viso
e si insinuava nelle ossa ad ogni passo.
Una
volta vicini, Sherlock si aggrappò ai lati della porta, e
John
dovette praticamente spingerlo per aiutarlo a salire
quell’unico
gradino. Una volta dentro l’altro si appoggiò con
la schiena al
muro, cercando di recuperare fiato.
La
padrona della pensione non c’era e nemmeno Rosie con il suo
seggiolino.
“Te
l’avevo detto di non affaticarti. Perché devi
sempre essere così
testardo?”
“Voglio
solo renderti le cose meno difficili.” Faceva anche fatica a
parlare.
“Non
farlo.”
Cercò
di avvolgerlo tra le braccia per aiutarlo, ma a quel tocco lo spinse
via, indietreggio lungo al muro tanto da rischiare di cadere.
Dovette
afferrarlo per il braccio.
“Ehi,
ti ho fatto male?”
“N-no...
non è niente, cammino da solo.”
Balbettò qualcosa di
incomprensibile e si allontanò, tenendosi con il fianco
contro alla
parete.
Non
riusciva a capire perché si comportasse così.
Forse ancora credeva
di non meritarsi il suo aiuto. Doveva fargli passare questa paura.
Lo
seguì per assicurarsi che non svenisse da un momento
all’altro
lungo il corridoio. La loro stanza era una di quelle in fondo, quindi
anche lontana rispetto l’entrata sul retro.
Le
porte erano tutte bianche e con i numeri in rilievo di metallo
colorato d’oro. A terra c’era una vecchia moquette
blu ormai
sbiadito.
“Che-numero...”
chiese Sherlock, senza fiato, solo
per essere arrivato fino a lì.
“La
numero nove. Dai lascia apro io.” Si portò avanti,
prese la chiave
dalla tasca della giacca e la infilò nella toppa,
abbassò la
maniglia e la porta si aprì con
una spinta,
facendo una lieve resistenza a causa della moquette. Per fortuna
dentro la stanza il pavimento era fatto con assi di legno scuro.
C’era
un letto matrimoniale al centro, la struttura bianca sempre
in legno,
anche le lenzuola erano bianche, con ricami e sopra erano state messe
delle coperte di lana. C’erano
i
comodini, con sopra le lampade, un armadio a due ante sulla parete di
destra, e il comò davanti al letto, a ridosso del muro.
Sulla
sinistra c’era un altra porta. Andò ad aprirla,
era quella che
portava
al bagno. Non era molto grande, c’era una vasca con doccia,
il wc,
e un lavandino con una specchiera. Non c’erano finestre.
Tornò
nella stanza, accanto al letto, sul lato destro, era stata sistemata
la culla. Si era scordato di averla richiesta, però era un
bene.
Le
uniche finestre presenti erano ai lati del letto.
“È...
uhm... carino.” Commentò dubbioso che quello forse
il termine
adatto.
“Un...
po’... piccolo... forse.” Aggiunse Sherlock, che
era andato a
stendersi sul letto, sopra le coperte. Nel tentativo di riprendere
fiato. Ovviante aveva scelto il lato destro, che era quello
più
vicino da raggiungere.
“Ma...
ho una domanda...”
John
si avvicinò.
“Ah
si?”
“È
un letto solo...”
Il
cervello di John a quella semplice osservazione ebbe un mezzo corto
circuito. Nemmeno ci aveva pensato. O meglio, ci aveva pensato quando
aveva chiesto la stanza, ma visto che non c’erano altre
alternative
se lo era fatto andare bene. Ora invece si trovava lì, con
il suo
migliore amico, ora non si sapeva bene cosa fosse visto tutto quello
che era successo nell’ultimo anno e mezzo, e doveva dormirci
insieme.
Si
accorse che Sherlock lo stava fissando e le guance gli divennero
rosso fuoco. Si maledisse perché sicuramente
l’altro doveva
essersene accorto, però l’espressione con cui lo
stava guardando
era impassibile.
“Ehm...
si non ci sono altre stanze a questo piano e poi devo controllarti
quindi...” si strinse nelle spalle.
“Nemmeno
due letti da dividere?”
“Nope.”
Scosse la testa.
“Quindi...
quindi mi stai dicendo... che abbiamo solo questo letto.”
John
annuì.
“Perché
è un problema?”
“No
no! Cioè non per me...”
Non
sapeva bene cosa intendesse Sherlock con quel ‘non per
me’, ma
aveva l’impressione che se glielo avesse chiesto, non avrebbe
avuto
una risposta. O almeno, non una sincera.
“Ottimo.
Vado a prendere un po’ di cose, tu stai
buono qui, e prendi dei bei respiri.”
Sherlock
annuì.
John
uscì dalla stanza il più velocemente possibile,
prima che la cosa
diventare ancora più imbarazzante.
Tornò
alla macchina per prendere alcuni bagagli, e l’attrezzatura
medica
che si era portato da Londra. Aveva cercato di recuperare le cose
più
necessarie e alcuni farmaci, che sperava bastassero, visto che in
quel posto non aveva idea di dove potersi rifornire.
Quando
entrò nella camera, trovò Sherlock che ancora
cercava di respirare
normalmente, senza riuscirci perché non riusciva a calmare
la tosse
convulsiva.
“Ora
ti do qualcosa, spero che basti.” Sollevò una
borsa nera e la
appoggiò sul letto.
“Dannazione...
devo prendere l’altro contenitore...”
“Contenitore?”
“Si
quello con dentro le medicine.”
“Quanta
roba hai portato?”
“Quella
che serve.
Torno
subito.”
Sparì
nuovamente. Gli ci volle un po’ per trovare il contenitore
frigo
perché lo aveva messo sul fondo e quindi aveva dovuto tirare
tutto
fuori e rimettere poi tutto nella macchina.
Era
un frigo termico non troppo grande riempito di sacchetti di ghiaccio,
non poteva permettersi di rischiare di rovinare le sacche di flebo
contenute all’interno.
Portò
tutto nella loro stanza.
“Devo
sentire quella tosse.” Aprì la borsa nera e
cercò lo stetoscopio.
“Hai
intenzione di aprire uno studio medico anche qui?”
“No,
solo di cercare di non farti morire di polmonite. Levati quella
roba.”
Ma
Sherlock non sembrava molto convinto di quello che gli aveva
ordinato.
“Ti
devi togliere il cappotto.” Ribadì John.
Vide
Sherlock cercare di mettersi seduto con la schiena contro la testiera
del letto, e di sfilare un braccio dalla manica, ma stava avendo
qualche difficoltà di movimento, così decise di
aiutarlo.
“Dai
ti aiuto io.” afferrò
il bordo del cappotto dalla parte del bavero, ma appena fece per
tirare, Sherlock scattò.
“No!”
Diede uno strattone, in modo che mollasse la presa.
“Non
mi serve... non mi serve qualcuno che mi aiuti a cambiarmi, so farlo
da quando sono piccolo.”
Dovette
quasi contorcersi solo per far uscire il braccio dalla manica.
John
lo guardò sbigottito. Pensò che probabilmente era
solo colpa sua se
Sherlock non sopportava nemmeno la sua presenza. Dopo le cose
terribili che gli aveva detto, come poteva pretendere di avere con
lui lo stesso rapporto che aveva prima? Aveva rovinato ogni cosa, e
in più quello che gli era successo in quel parcheggio
probabilmente
non lo stava aiutando. Aveva bisogno di aiuto, e gli avrebbe dato
tutto quello di cui aveva bisogno.
“Lo
vado ad appendere nell’armadio d’accordo? Prendo il
cappotto.”
Lo tirò di lato, in modo da non avvicinarsi troppo e non
toccarlo,
visto che era una cosa che l’altro non gradiva.
Andò
all’armadio e lo appese ad una delle grucce.
“Senti,
ora devo toccarti per forza visto che devo sentire come
respiri.”
Sherlock
era diventato ancora più bianco del solito, ma non disse
nulla. Con
le mani che tremavano, cercò di sbottonare i primi bottoni
del
pigiama.
Inforcò
lo stetoscopio alle orecchie e appoggiò la parte metallica
piatta
sul petto di Sherlock, che al contatto del metallo gelido
sobbalzò.
“Scusa!
- prese a sfregare il disco metallico sulla manica del maglione nel
tentativo di riscaldarlo un poco. - scusa, scusa!”
“Non…
non è niente.” rispose Sherlock.
John
allora tornò ad appoggiare l’oggetto sul suo petto.
“Fa
dei bei respiri.”
Sherlock
provò ad eseguire quella semplice azione ma ogni volta
sfociava in
una forte tosse.
“Uhm…
Non è molto buona. Girati.”
“Cosa?”
chiese confuso l’altro.
“Girati che mi serve la tua
schiena.”
Lo
guardò come un animale terrorizzato.
“Che
c’è? Perché mi stai guardando
così?”
“No…
Niente…” si voltò lentamente da un
lato. John dovette alzargli
la camicia del pigiama. La sua pelle era così bianca che ne
restò
abbagliato. A causa del lungo tempo in ospedale era dimagrito tanto
che gli si vedevano le costole. Appoggiò lo stetoscopio.
“Prendi
dei bei respiri.” Ascoltò con attenzione spostando
l’oggetto per
sentire nei punti giusti. C’erano dei rantoli ad ogni respiro.
“Penso
che sia bronchite. Non è grave come una polmonite, posso
curarla con
un antibiotico. A patto che non peggiori, in quel caso saremmo nei
guai.”
Si
sfilò lo stetoscopio e lo appese al collo. Ammirando
quel bianco perfetto finché ne ebbe la
possibilità. Lo aiutò a
rivestirsi e a coprirsi bene.
“Devi
mangiare qualcosa e riposare.”
“Non
ho fame.”
“Non
era una richiesta, anche perché devi prendere le medicine.
Vado
a parlare con la signora della pensione. Ti serve qualcosa?”
“Del
tipo?”
“Non
lo so, devi andare in bagno, o qualunque altra cosa.”
“No,
non mi serve niente.”
“D’accordo.”
John
uscì dalla stanza.
_______________________________________________________________________________________________________
_______________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
I
nostri eroi dopo un lungo viaggio sono arrivati alla loro meta.
Ovviamente non sono finiti i problemi, anzi, però ora
potrebbe
succedere letteralmente qualunque cosa…
Ci
tengo a precisare che questo posto me lo sono inventato di sana
pianta, ho preso ispirazione solo per il paesaggio e la conformazione
da posti realmente esistenti. I personaggi sono tutti nuovi (ma non
saranno invasivi, anche perché la storia non è su
di loro ma su
Sherlock e John.) Spero che vi piaccia questa nuova location 😄
P.s.
tranquilli la signora della pensione non ha rapito Rosie, le sta solo
facendo da babysitter momentanea.
Purtroppo
mi sono accorta in questi giorni che devo essermi persa per strada
dei pezzi, avevo scritto una scena con Sherlock, john, Rosie e il
buon dottor Lewis, quando erano ancora in ospedale, e niente, non ho
la più pallida idea di che fine abbia fatto 😅
😅
😅 mi dispiace
davvero molto anche
perché interagivano con la bambina (e io non so scrivere di
bambini
quindi mi ci ero davvero impegnata),
ma pazienza, ormai è andata così 😭
Un
ringraziamento speciale alle persone che mi hanno aggiunto questa
storia tra le seguite.
Se
volete sono sia su Instagram che su
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18
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Capitolo 18 *** Capitolo 18: ***
Capitolo
18:
***
Era
arrivato nella hall della pensione, che però non era proprio
una
hall quanto più un grande salotto con tappeti e divani, e le
pareti
e il pavimento in pietra, da una parte c’era un grande camino
acceso, e poche persone sedute attorno che chiacchieravano.
“Stavo
cercando proprio lei.” John si avvicinò alla
signora della
pensione, che sembrava indaffarata e stava correndo da una parte
all’altra.
“Oh
non si preoccupi, mi dia del tu, e mi chiami Beth.” rispose
lei
affabile.
“Si,
giusto. Allora insisto che mi chiami John.- sorrise alla donna che
ricambiò il sorriso a sua volta. -Vedo che sono arrivate
delle
persone.”
“Si
sono qui per il pranzo. A tal proposito, mi creda sono davvero
dispiaciuta, ma sa questo è un orario di punta…
Capisce, non posso
stare dietro anche alla piccola.”
“Assolutamente,
anzi, in effetti è ora che le dia da mangiare. Ah a
proposito,
potrei avere un vassoio da portare in camera?”
“Desidera
mangiare nella sua stanza?”
“Sì
sarebbe meglio.”
“Ma
certamente. Allora vado a dare l’ordine alla cucina, ancora
mancano
un po’ di minuti a mezzogiorno, la chiamo in stanza quando
è tutto
pronto.”
“Magnifico.”
“La
bambina è nel mio ufficio con una delle mie
figlie.”
“Vado
subito.”
Salutò
la donna con un cenno del capo e si allontanò.
C’era
uno spazio ampio con il bancone della reception e dietro le spalle
del ragazzo che in quel momento si stava intrattenendo con una coppia
di una certa età, c’era una parete in legno
composta da caselle,
con le chiavi delle stanze, e altre cose.
Si
avvicinò al giovane. Schiarì la gola per farsi
notare. Il ragazzo
era davvero molto giovane, con i capelli castano-rossicci, la pelle
chiara e una spruzzata di lentiggini su tutto il viso.
“Buongiorno
signore.” una volta finito con la coppia si rivolse a John,
che era
rimasto pazientemente ad aspettare.
“Buongiorno,
mi chiamo John Doyle ehm… La padrona della pensione ha mia
figlia
nel suo ufficio.” Si sentiva terribilmente stupido a dire una
cosa
del genere, quale padre lascia sua figlia nell’ufficio con
degli
sconosciuti?
Il
ragazzo si illuminò.
“Ah
ma sì certo! Guardi può andare oltre quella porta
e girare a
sinistra, lì c’è l’ufficio di
mia madre.”
“E’
sicuro che vuole che entri?”
“Ha
detto mia madre di farla passare, quindi non c’è
nessun problema.”
“D’accordo.”
“Mi
chiamo Steven signore.”
“D’accordo,
grazie Steven.”
“Di
nulla.” il ragazzo tornò a parlare ai due anziani
che pareva
avessero un sacco di domande da porgli.
Quindi
era proprio vero, gestivano tutto in famiglia.
Spinse
il pannello divisorio per passare da dietro il bancone, e poi si
trovò davanti una porta con scritto
‘privato’. Una volta entrato
c’era un piccolo corridoio che andava in entrambi i lati.
Girò a
sinistra come gli era stato detto, e sentì la voce di Rosie,
o
meglio, i lamenti e i balbettii sconclusionati di una bambina di un
anno, che avevano la voce di sua figlia.
Bussò.
“Avanti.”
Una voce giovanile gli rispose da dentro la stanza.
Sulla
porta c’era una targa con scritto semplicemente ‘ufficio’
Abbassò
la maniglia ed entrò.
“Lei
deve essere il signor Doyle.” Una ragazza di appena
vent’anni dai
capelli rosso fuoco, lunghi e lisci, stava tenendo in braccio Rosie,
che appena vide il padre cominciò a dimenarsi ed agitare le
manine.
John corse subito da lei e la prese in braccio.
“Sono
qui, sono qui.”
“All’inizio
ha dormito, ma poi si è svegliata e credo sia un
po’ confusa, si è
ritrovata in un posto nuovo con gente sconosciuta, e lei non
c’era.”
Perfetto.
Era davvero un padre orribile.
“Grazie,
davvero non so quanto ringraziarvi.”
“Non
si deve preoccupare, se possiamo siamo a completa disposizione.
Io
mi chiamo Kirsty. Beth è mia madre.”
“Si
me lo ha detto. Scusami la domanda, ma in quanti siete a lavorare in
questa pensione?”
“Oh
si siamo tutti qui, cinque figli, più mia madre e mio
padre.”
“Wow
siete numerosi.”
La
ragazza ridacchiò. Già, senza contare i mariti e
le mogli delle mie
sorelle e dei miei fratelli più grandi, e i loro figli. Per
questo
per noi non è un problema tenere un bambino in
più o in meno.”
“Capisco,
ma non voglio approfittare della vostra gentilezza.”
“Non
si deve preoccupare, davvero lo facciamo volentieri. Anzi, se le
servisse una babysitter per la piccolina, sarei più che
felice di
farlo.”
“Scusa
ma non lavori già qui?”
“Si
assolutamente, ma mi servono i soldi per
l’università, quindi sa,
più lavori riesco a fare meglio è.”
“Capisco.
Allora ti terrò in considerazione.”
“Grazie
signore, sarebbe davvero fantastico.”
“Vuole
che le prenda da mangiare per la piccola?”
“Tua
madre ha detto che avrebbe chiesto alla cucina.”
“Ah
si ma quello è per gli adulti, abbiamo anche le cose per i
bambini.
Venga, l'accompagno in sala da pranzo. Abbiamo già messo il
seggiolone al tavolo.”
“Va
bene, grazie.” La ragazza gli fece strada e uscirono
dall’ufficio,
che lei si assicurò di chiudere a chiave.
“Se
deve cambiarla abbiamo un bagno apposta con il fasciatoio, ma ci
abbiamo già pensato noi.”
“Mio
dio scherzi?”
“No.
- lei si voltò a guardarlo. - abbiamo sbagliato?
E’ una cosa che
le da fastidio?” Sembrava sinceramente preoccupata e
dispiaciuta.
“No,
no! Anzi sono molto stupito. Davvero, avete fatto anche più
del
necessario.”
“Glielo
abbiamo detto, non è un problema occuparci dei
più piccoli.
Arrivarono
in una grande sala, era riempita da tavoli rotondi di varie
dimensioni, perfettamente apparecchiati, con tovaglie bianche e
centrotavola rustici.
Da
un lato della parete sinistra, appena entrati, si trovava un lungo
tavolo con le più svariate pietanze, ceste di pane, e
bottiglie.
“E’
davvero bello.”
“Grazie.”
la ragazza lo disse con una voce squillante.
“Ovviamente
può prendere quello che vuole e quanto vuole dal
buffet.”
“Grazie
ma ho chiesto di mangiare in camera.”
“Se
vuole prendere dell’altro non faccia complimenti.”
Fu
condotto ad un tavolo sul fondo della stanza, era uno di quelli
più
piccoli e con due sole sedie, una delle quali era stata levata per
poter agganciare il seggiolone per far mangiare la bambina.
“Ecco
qui. Allora cosa vuole?”
Spiegò
alla ragazza il necessario, e lei sparì nelle cucine.
Non
ci volle molto prima che tornasse con una scodella di manzo frullato,
una tazza per bambini piccoli con acqua fresca e un'altra ciotola
più
piccola di frullato di verdure e una di frutta.
“Guarda
Rosie, oggi pranziamo come la regina.”
Anche
la ragazza rise a quelle parole.
“Le
serve altro signor Doyle?”
“No
assolutamente, è tutto perfetto. E per favore dammi del tu e
chiamami John.” Le sorrise e lei ricambiò il
sorrise, si
allontanò, così padre e figlia rimasero soli.
Diede
da mangiare alla piccola, che divorò tutto con
voracità.
“Avevi
fame eh?” La prese in braccio e lei si appoggiò
con la testolina
sulla sua spalla. Dopo poco si riaddormentò.
“Va
bene, andiamo a vedere Sherlock. Dobbiamo dare da mangiare anche a
lui.”
Si
alzò e lasciò il tavolo. Kirsty era sparita.
Senza
aspettare che lo chiamassero, per non svegliare la bambina,
andò a
recuperare il pranzo ordinato.
Quando
entrò in stanza, Sherlock era girato verso il lato della
della
porta, aveva le mani unite sotto il viso, appoggiato sul cuscino, e
stava dormendo profondamente. Non voleva svegliarlo, così
mise Rosie
nel lettino e la coprì bene.
Lasciò
il vassoio con le pietanze coperte sul comò. Lo avrebbero
mangiato
dopo. Così ne approfittò per infilarsi a letto e
riposare almeno
per un po’.
Quando
John si svegliò dal ‘riposino’, ormai
erano le tre del
pomeriggio.
Si
stiracchiò, e rimase qualche minuto a fissare il soffitto.
La stanza
era avvolta nel silenzio assoluto, rotto solo dal respiro pesante e
affannato di Sherlock.
“Sherlock?”
lo chiamò, ma l’altro non rispose.
Si
voltò verso il suo lato e gli mise una mano sul braccio.
“Sherlock?”
ma niente.
Si
mise seduto e si sporse per controllare l’amico. Il viso era
arrossato, le labbra dischiuse e il respiro che usciva pesante.
Gli
mise una mano sulla fronte. Era caldo, anzi scottava.
“Merda…”
Scese
velocemente dal letto e corse al borsone con le sue cose da dottore,
cercò al suo interno finché non trovò
il termometro.
Misurò
a Sherlock la temperatura. Ed erano pessime notizie.
“Dannazione…”
“Sherlock?”
Lo scosse per una spalla, ma non si svegliava.
“Sherlock?
Dai svegliati.” provò ancora a muoverlo,
più forte.
Dalle
sue labbra dischiuse uscì un mugolio.
“Ehi.
Mi senti?”
“John…
Mi sento… Ho la nausea.”
“Lo
so, ti è venuta la febbre alta.”
“Ora
ti faccio una flebo.”
“Per
favore… No.”
“Ne
hai bisogno.”
Aprì
il contenitore frigo, dove erano conservate diverse sacche di flebo.
Ne prese una, dal liquido trasparente.
Poi
prese alcuni sacchetti sigillati, uno con il tubo della flebo e uno
con il deflussore. Lo inserì nella parte bassa della sacca.
“Ah
questo è un bel guaio…”
Non
aveva nulla a cui appenderla, così iniziò a
guardarsi attorno. Poi
gli venne un idea. Andò verso l’armadio e prese
una gruccia. Poi
prese la lampada da terra e la staccò dalla presa,
avvicinandola al
letto. Infilò il buco apposito della parte alta della sacca
all'uncino della gruccia e poi la appese ad una delle braccia della
lampada.
Si
mise seduto sul letto, e abbassò il colletto della camicia
del
pigiama di Sherlock. Attaccato alla vena principale del suo collo,
c’era ancora il catetere venoso nella giugulare. Lo aveva
fermato
con dei cerotti, che cercò di scollare dalla pelle di
Sherlock senza
fargli troppo male. Liberò il connettore e
collegò il tubo e aprì
tutte le valvole. Le gocce iniziarono a cadere nel diffusore una alla
volta.
Lo
massaggiò lungo il braccio. Sherlock tremava nonostante
fosse
bollente.
“Devo
farti calare quella febbre. Questo non basta.”
tornò al
contenitore frigo e prese alcune scatole di medicine.
“Per
fortuna che sono previdente, e per fortuna che esistono gli
antibiotici e il paracetamolo.” aprì una scatola
alla volta e
versò qualche pillola sulla mano.
“Avanti
prendi.” Sherlock lo guardò con non troppa
convinzione, aveva gli
occhi lucidi e striati di rosso e le guance arrossate dalla febbre.
“Sono
pastiglie non è mica veleno.”
“Non
ne sarei così sicuro…”
replicò.
“Dai
avanti.”
Sherlock
le prese dalla mano di John e le mise in bocca tutte insieme.
“Ti
prendo l’acqua.”
“Non
importa.”
“Devi
bere.”
Tornò
con il bicchiere che c’era in bagno pieno quasi fino
all’orlo e
lo obbligò a berla tutta, a piccoli sorsi ovviamente.
“Ora
prova a dormire un po’. Controllo io che non peggiori la
situazione.”
Sherlock
annuì e si rannicchiò su se stesso, infilando le
mani sotto al
cuscino.
Dopo
poco stava già dormendo profondamente, anche se poteva
sentirlo
rantolare tra un respiro e l’altro. Ok forse dargli una
pastiglia
per dormire non era stato un bel comportamento, soprattutto senza
dirglielo. Ma Sherlock aveva bisogno di riposo e molto sonno, e
avrebbe fatto qualunque cosa per farlo stare meglio.
Con
tutti e due che dormivano, ne approfittò per pranzare
finalmente; si
mangiò tutto il cibo di entrambi, compreso il pane, tanto
Sherlock
in ogni caso non poteva mangiarlo.
Poi
sistemò le cose nella stanza. Doveva tenersi occupato.
Organizzò
tutto quello che poteva servirgli e ogni mezz’ora controllava
la
temperatura al suo ‘paziente’.
Due
ore dopo Rosie si svegliò con un gran pianto e dovette
correre
perché rischiava di svegliare Sherlock.
Purtroppo
non poteva portarla fuori, faceva troppo freddo, così
girarono per
l’albergo,, facendo avanti ed indietro alla stanza. Ma almeno
così
ebbe modo di conoscere bene quel luogo.
Non
era enorme, ma comunque una struttura su tre piani, poi c’era
un
piccolo ascensore di cui non si era accorto, tra la reception e il
corridoio che portava alla sala da pranzo/colazione.
Dall’altra
parte invece c’era addirittura un pub, e aveva scoperto
essere
aperto il venerdì e la domenica sera fino all’una
di notte.
Avrebbe
dovuto mettere i tappi alle orecchie a Rosie o non avrebbe mai
dormito sentendo frastuono.
Scoprì
anche che il terzo piano era di proprietà della famiglia e
che
quindi loro vivevano lì. La bambina aveva anche scoperto con
grande
gioia, che c’era un grosso gattone bianco e rosso, con cui
giocare
e da coccolare.
Rimasero
lì almeno un'ora prima che riuscisse a portarla via.
Doveva
trovarle qualcosa da farle fare o avrebbe finito con l’essere
nervosa e troppo iperattiva, e allora sarebbe stato un bel guaio.
Chiese
della carta e delle matite, al nuovo receptionist, che era cambiato
rispetto a quello della mattina, era sempre uno dei figli, questa
volta uno maggiore, e si chiamava Willy. Chiacchierarono per un
po’,
Willy gli raccontò alcuni fatti riguardo la cittadina. Posti
in cui
andare, dove si trovava il supermercato o il panettiere.
Apprezzò
molto.
Si
congedò e fece ritorno in stanza. Sherlock ancora dormiva,
esattamente nello stesso modo in cui lo aveva lasciato. Mise Rosie
nel lettino e andò a misurargli la temperatura. Segnava
38,5, ancora
alta, ma almeno non come prima.
Rosie
si mise a saltare nel suo lettino, le mani che tenevano strette il
bordo delle sbarre di legno.
“Ora
arrivo e ci mettiamo a disegnare ok?” lei saltellò
ed emise dei
versi che volevano sembrare un tentativo di dire qualcosa.
La
tirò su e sistemò i fogli sul comò,
con vicino le matite. Prese
l’unica sedia della stanza e ci mise in piedi la bambina.
“Dai
disegna qualcosa.”
Per
fortuna distrarre una bambina di un anno era più o meno facile.
Il tempo
passò velocemente tra disegni e giochi. Arrivati a sera le
diede da
mangiare, poi ne approfittò per farle un bel bagno caldo.
Pochi
minuti e crollò addormentata, così la mise nella
culla e
ricontrollò Sherlock. La febbre scendeva molto lentamente,
non
poteva fare altro che andare a dormire anche lui e sperare che il
giorno seguente andasse meglio.
_______________________________________________________________________________________________________
_______________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
Mi
dispiace davvero se non ho pubblicato all’orario stabilito ma
oggi
è stato davvero un delirio, sembrava che tutti mi remassero
contro e
non ho avuto un ora libera per revisionare e pubblicare il capitolo
fino ad ora.
Comunque
eccoci qui.
Giuro
che rispondo anche alle recensioni, sono rimasta indietro pure con
quelle.
Sherlock
in questo capitolo si vede poco diciamo, ma ci sono più John
e
figlioletta, che secondo me poverini meritano il loro spazio.
Premetto
che non ho mai scritto di bambini in vita mia, e non ci ho mai avuto
a che fare visto che non mi appassionano particolarmente…
Quindi
spero davvero che sia una cosa carina e soprattutto non strana. Se
vedete che è strana sapete perché. Inoltre
Sherlock a salute pare
peggiorare, altro che migliorare… E John deve fare tutto e
nel
frattempo non impazzire.
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Capitolo
19
Venerdì
7 maggio ore: 18-19
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Capitolo 19 *** Capitolo 19: ***
Capitolo
19:
***
Sherlock
aveva dormito per tutta la notte. La febbre era scesa solo di un paio
di gradi, in più lui continuava a respirare con affanno.
John
si premurò di cambiargli la sacca della flebo, ma doveva
anche
fargli prendere le medicine, quindi fu costretto a svegliarlo.
“Sherlock?”
lo mosse per un braccio.
“Sherlock
dai svegliati.” lo scosse un po’ più
forte. L’altro si mosse
leggermente, lamentandosi.
“Dai
svegliati.” lo accarezzò sulla fronte calda e
madida, e tra i
capelli.
“John?”
la voce di Sherlock era flebile e roca.
“Sono
qui. Devi prendere le medicine.”
“Mi
fa male.” si lamentò con un filo di voce.
“Mi
dispiace. Vedrai che se prendi le tue medicine poi passa.”
Sherlock
aprì piano gli occhi. Erano arrossati e le iridi
più scure del
normale. Cercò di aiutarlo a mettersi seduto. Gli
sistemò anche i
cuscini dietro la schiena.
Sherlock
si mise a tossire forte.
“Ok
ora prendi queste.” gli mise sul palmo della mano alcune
pillole.
Sherlock
le mandò giù tutte e poi John gli fece bere un
bicchiere d’acqua.
“Dovresti
mangiare qualcosa.”
“Non
ho fame. Ho… ho la nausea.”
“Lo
capisco ma non mangi niente da… Oddio,
dall’ospedale.”
“Non
c’è la faccio.”
John
sospirò.
“D’accordo
ma domani ne riparliamo.”
“C-che
ore sono?”
“Le
otto.”
“Sono
già le otto di sera?”
“Di
mattina.”
“Oh.
E Rosie?”
“Sta
dormendo. Lei è a posto. Sono riuscito a farle fare un
po’ di
attività ieri.”
Vuoi
leggere qualcosa? Magari riesco a trovare qualche libro.”
“No
grazie. Non importa.”
“Allora…
Vuoi disegnare?”
“Come?”
chiese confuso Sherlock.
“Si,
qui abbiamo tutto: fogli, matite, colori.”
Sherlock
finalmente capì a cosa si stesse riferendo John e sorrise.
Era un
sorriso appena accennato, ma gli riempì il cuore vederlo
così. Lo
rendeva sempre felice vederlo sorridere, soprattutto se era per
merito suo.
“Grazie
ma lo sai che il disegno non è il mio forte.”
“Tranquillo
non lo dico a nessuno che lo hai fatto tu, al massimo lo spaccio come
uno dei disegni di Rosie.”
Rise,
ma si piegò in due a tossire.
“Ehi
ehi, piano. Prendi un bel respiro.”
“Mi-mi
fa male…” si teneva le costole.
“E’
colpa della tosse e della febbre. Mi dispiace non poterti dare un
po’
di morfina.”
“Non
importa. Non è colpa tua. Posso sopportare il
dolore.”
Si
ricordò che effettivamente Sherlock era abituato al dolore.
Con la
vita sregolata che aveva avuto prima che lo conoscesse, e tutto
quello che era successo dopo. E per quanto cercasse di fare la
persona coraggiosa e che non provava sentimenti, era sicuro che a
lungo andare tutti i casi a cui erano andati dietro, avevano finito
con il consumarlo a livello psicologico. E poi tutto quello che era
successo nell’ultimo anno, e per finire
l’aggressione nel
parcheggio.
Sherlock
era la persona più forte che avesse mai conosciuto, ma non
era
indistruttibile.
“Lo
sai che non devi essere così con me.”
“Così
come?” chiese il
detective
con una leggera nota di timore.
“Ti
trattieni. Trattieni i tuoi sentimenti, e hai paura. Anche io ho
paura.”
“Tu
hai paura?” ora sembrava preoccupato.
“Sì.
Cioè, ne ho avuta. Quando ti ho trovato in quel parcheggio,
e ho
capito che eri tu. E’ stato il secondo giorno più
brutto della mia
vita.”
Sherlock
non disse nulla. Rimase in silenzio, a guardarsi le mani posate sul
grembo.
“Mi
dispiace.”
“Ehi,
non è di certo colpa tua.”
“E
come fai a saperlo?”
Quella
domanda lasciò John basito.
“In
che senso? Che vuol dire?”
“Che
ne sai che non sono finito in una rissa? Magari l’ho
provocata io.”
Ok
ora era sconvolto.
“E’
così?” non poteva crederci nemmeno per un secondo.
Sherlock
si limitò ad un'alzata di spalle.
“Sherlock.”
“Non
lo so. Non me lo ricordo.” rispose secco.
John
prese un gran respiro, per cercare di calmarsi.
“Sei
proprio sicuro di non ricordarti proprio nulla? Perché a me
non
sembra.
Qual
è l’ultima cosa che ricordi?”
“Queste
domande me le ha già fatte Lestrade.”
“Io
non sono Greg.”
“No
infatti.”
“Ehi,
non c’è bisogno di essere così
acidi.”
“Era
un complimento.”
“Stai
sviando le mie domande.”
“Le
tue domande?”
“Sherlock!”
Sherlock
sobbalzò.
“Tutto
bene?”
“Sono
stanco.”
“Hai
dormito per delle ore, puoi stare sveglio dieci minuti.”
Per
tutta risposta Sherlock riprese a tossire.
John
sospirò.
“Senti
dovresti fare un bagno.”
Sherlock
alzò la testa, e lo guardò, quasi sconvolto.
“Che
c’è, che ho detto di così sconvolgente?
In ospedale ti lavavano
no?”
“S-sì
certo.- lo vide deglutire a vuoto, segno di nervosismo. -Se…
Se
proprio devo… Va bene.”
John
si alzò.
“Vado
a preparare la vasca.”
A
Sherlock poteva anche non piacere l’idea ma così
era.
Andò
in bagno.
“Vedrai
che ti farà bene.”
“Se
lo dici tu.”
John
si era premurato di staccargli la flebo e coprire ago e cannula con
un quadrato di garza e dei cerotti, per fare in modo che non si
bagnassero.
Aiutò
Sherlock ad alzarsi. Barcollava più di prima, quindi doveva
tenerlo
stretto per le braccia.
“Mi
gira la testa.”
“Lo
so. Ti tengo io.”
Un
passo alla volta arrivarono fino al bagno.
“Faccio
da solo.”
Prima
che John potesse rendersene conto, Sherlock si era già
sfilato dalla
sua presa, ma ovviamente non era stata una buona idea.
“Ehi!”
lo afferrò per un braccio, spingendolo contro il bordo della
vasca,
fino a farcelo sedere.
“Sei
impazzito per caso? Ti ho detto che ti aiuto.”
“No!
Non serve!”
John
lo fissò cercando di capire il motivo del suo comportamento,
ma
preferì non infierire.
“Puoi
uscire.”
“Non
credo sia il caso.”
Anche
perché Sherlock si stava aggrappando al bordo della vasca
con
entrambe le mani, così forte che le nocche gli erano
diventate
bianche.
“Non
riesci nemmeno a stare seduto.”
“Allora
torno a letto.”
John
sbuffò dalle narici, chiaramente infastidito da quella lotta
perenne. Perché doveva essere sempre testardo come un mulo?
“No,
tu ti infili in quella vasca. Con le buone o con le cattive.”
Sherlock
si mise a fissarlo.
“E
quali sarebbero le cattive?”
“Non
ti conviene.”
“Mi
fai minacce a vuoto? Non è molto onorevole.”
“E
chi lo dice che sono a vuoto?”
“Tu,
visto che sei ancora qui a parlare.”
D’accordo
la conversazione stava diventando strana oltre che tremendamente
irritante.
John
sospirò.
“Ho
capito, ma se ti sento cadere, ti butto in quella vasca anche da
svenuto.”
Sherlock
sembrò rabbuiarsi tutto ad un tratto, abbassò la
testa, in modo che
i riccioli neri coprissero il suo volto, così John
poté notare che
gli stava anche ricrescendo la barba.
Però
non riusciva a capire questi repentini cambi di umore a cosa fossero
dovuti. Cioè ovviamente all’aggressione, almeno in
parte, ma non
doveva essere solo quello. Ci doveva essere altro, che era sicuro,
non gli volesse dire. Con quella tattica del ‘non me lo
ricordo’,
stava nascondendo qualcosa.
“Allora
lascio la porta socchiusa, se hai bisogno io sono qua dietro.”
Sherlock
semplicemente annuì, senza nemmeno guardarlo.
“Senti
appena esci copriti subito bene e chiamami.
Gli
lasciò l’accappatoio appoggiato vicino.
Quindi
non gli rimase che lasciarlo fare da solo.
Camminava
avanti ed indietro per la stanza ormai da più di dieci
minuti, e
ogni volta puntando la porta del bagno.
L’unico
suono che sentiva, oltre i suoi stessi passi, era il respiro profondo
di Rosie addormentata nella culla.
Quando
ritenne che fosse passato abbastanza tempo, si avvicinò alla
porta
con il pugno alzato e fece per bussare, ma sentì un rumore
provenire
da dentro il bagno, e così la spalancò.
“Oh
scusa scusa!”
Ancora
prima di rendersene conto si era voltato con uno scatto.
“Non
ho visto nulla. Ma ho sentito un rumore e pensavo ti fosse successo
qualcosa.” ormai sproloquiava, rosso in faccia
dall’imbarazzo.
Dal
momento che non aveva il coraggio di muovere
un muscolo,
rimase fermo immobile, come un palo nel
punto esatto in cui si trovava, però poteva capire quello
che più o
meno stava succedendo, dai
rumori provenienti
alle sue spalle. Poi sentì qualcuno vicino, e il suo
profumo...
“Ho
fatto.” la voce di Sherlock gli arrivò alle
orecchie bassa e
morbida come una carezza fatta con un guanto di velluto.
Chiuse
gli occhi e represse un brivido.
“Ti
aiuto aspetta.”
“Non
serve, c’è la faccio.” se lo
sentì passare accanto ma non aveva
il coraggio di guardarlo, quindi si limitò a fissare
l’armadio
nella parete opposta.
“Ti
ho preparato il pigiama pulito sul letto.”
“Uhm,
mi hai preso i visti?” chiese con un tono di sorpresa
Sherlock.
“Certo.
Ovviamente.”
“Stai
facendo anche troppo.” non lo aveva detto come un rimprovero
ma più
come se si sentisse dispiaciuto. Ancora credeva di essere un peso, ma
non era affatto vero.
“Oh
senti non serve che ti dispiaci. Fanno le stesse identiche cose anche
in ospedale cosa credi.” ok forse poteva dirlo in un altro
modo,
senza sembrare come uno che faceva una cosa come un'altra, tanto
perché doveva.
“Ma
tu sei un dottore non un assistente. E nemmeno un cameriere.”
John
sbuffò.
“L’ultima
volta che sono stato male mi hai fatto tu da assistente.”
“E’
stato più di due anni fa e ti eri solo preso un influenza.
Non ho
fatto chissà che, oltretutto c’era la signora
Hudson che aiutava.”
“Senti,
che ti piaccia o meno sei un mio paziente e ho intenzione di fare il
mio lavoro e farti guarire. Rassegnati.”
Non
ebbe nessuna risposta in merito.
Udì
rumori di stoffa.
“E
con tua figlia? Anche lei ha bisogno delle tue cure.”
Di
nuovo con quell’argomento, gli sembrava di avergliene
già parlato.
“Mia
figlia ha tutto quello che gli serve.”
“E
come, se tu devi stare dietro a me.”
Fu
talmente istintivo che nemmeno ci aveva pensato che Sherlock si stava
cambiando, ma per fortuna quando si girò aveva
già il pigiama
addosso. Rimase sorpreso che avesse fatto così in fretta.
Stava
anche accuratamente piegando l’accappatoio usato.
Aveva
tutti i ricci scompigliati, ma erano asciutti.
“Non
ti sei lavato i capelli.” chiese quasi
con disappunto.
“No.
Non avrei modo di asciugarli.”
“Ma
c’è il l'asciugacapelli nel-” venne
interrotto prima che potesse
concludere la frase.
“Avrei
svegliato la bambina.”
Spalancò
la bocca dallo stupore. Non ci aveva nemmeno pensato.
D’accordo
forse doveva fare più attenzione.
“Domani.
Se vuoi aiutarmi.”
Okay
Sherlock gli aveva appena proposto di lavagli i capelli.
John
annuì senza riuscire a dire una parola.
“Quindi
come intendi fare con la bambina.” riprese il discorso
lasciato
senza risposta, in precedenza.
“Ha
solo un anno non sarà un problema per lei
ambientarsi.”
“Intendevo,
tu come hai intenzione di fare con lei, se devi badare a me.”
“Ma
non è per sempre. Solo finché non sarai
guarito.”
Sherlock
lo guardò con uno strano sorriso, triste.
“Io
ormai sono irrecuperabile. Ma lei ha tutta una vita davanti,
potrà
fare qualunque cosa vorrà. Magari vorrà fare come
te da grande.”
John
fece una smorfia.
“E
questo cosa c’entra.”
“Siamo
in un paesino disperso nella campagna John. Non
c’è praticamente
nulla. Nemmeno un liceo decente.”
“Stai
davvero pensando a mia figlia di un anno, a quando ne avrà
venti?”
“Perché
tu non ci pensi?”
Questa
domanda un po’ lo punse sul vivo.
“Certo
che ci penso! E non mi sembra tutto questo gran dramma vivere in un
piccolo paese. Allora chiunque vive in posti sperduti non dovrebbe
avere figli da allevare.”
“Non
era quello che intendevo.”
“E
cosa intendevi?”
“Vuoi
mettere un posto del genere con una città come Londra. Avevi
una
casa li. Potevi mandarla nella scuole migliori. E non… E non
è
giusto che debba rinunciare ad un opportunità che non a
tutti
capita, a causa mia.”
John
strinse forte la mascella, sentendo la rabbia strisciargli nelle
viscere.
Ancora
una volta Sherlock gli stava dicendo di sentirsi un peso, e non
sapeva come fargli cambiare idea, e questa cosa lo faceva impazzire.
“Non
sta perdendo niente a causa tua. Tra vent’anni Londra
sarà dov’è
sempre stata.”
“Ma
sarà un estranea che viene da un piccolo paese, lo sai
quanto può
farti sentire perso un ambiente così diverso.”
“Oh
la fai sembrare come se venisse dal deserto. Vorrà dire che
la
porteremo in vacanza in città così si abitua.
Contento?”
Sherlock
fissò John così intensamente da far sentire
quest’ultimo a
disagio.
“E
hai intenzione di continuare con questa follia dei nomi falsi per
sempre?”
“Ma
come faccio a sapere come saranno le cose tra qualche mese o tra
vent’anni! E poi non sarà sempre così.
Non ci nasconderemo per
sempre. E’ solo per un po’, continuo a ripeterlo,
non capisco
perché non mi credi.”
“E’
solo per un po’… Per un po’ quanto: un
anno, due, dieci?”
“Ma
io che ne so! Finché non sarai tornato come prima!”
Sherlock
scoppiò in una risata e quella reazione lo fece sobbalzare
dalla
sorpresa.
“Non
c’è niente da far tornare come prima. Senti, non
voglio che tu
debba fare la mia stessa vita. Io posso rimanere anche qui. Ma tu
devi tornare a casa.”
“Sei
diventato completamente matto? Cosa vuol dire non
c’è niente da
far tornare come prima? E non esiste che ti abbandoni qui!”
“Vuol
dire quello che ho detto. Non ho più intenzione di fare
qualunque
cosa facessi prima. Mai.”
La
mandibola di John parve quasi staccarsi e cadere a terra.
“Cioè…
Cioè… Non sarai più… Niente
più casi?”
“Niente
più casi, niente più consulenze per la polizia.
In effetti niente
più polizia e basta. Niente più supposizioni, o
leggere gli altri.”
“Cosa?
Ma perché!” sembrava quasi l’avesse
presa peggio lui di
Sherlock. E probabilmente era vero.
“Ti
devo rispondere? Penso tu lo sappia già.”
“No!
Non ti azzardare a farlo a causa mia!”
“E
perché? Questa cosa crea solo problemi.”
“Ma
non è vero! E tutte le persone che hai aiutato!”
Sherlock
si mise di nuovo a ridere. Ovviamente non era una vera risata, ma un
suono più finto, quasi isterico.
“Quali
persone ho aiutato? Ho sempre e solo aiutato me stesso, fregandomene
delle conseguenze.”
“Queste
non sono parole tue.”
“E
che importa? E’ la verità.”
“La
verità secondo chi! I criminali?”
“C’è
la polizia per i criminali.”
“Ma
non dire cazzate, hai sempre detto che erano degli incapaci e che non
avrebbero vinto nemmeno una caccia al tesoro organizzata da dei
bambini.”
“Non
importa quello che dicevo.”
“Senti,
ti ho già detto che se il motivo è mia
m-”
“Perché
credi sia finito in quel parcheggio?”
Lo
stupore di John cresceva sempre di più.
“Ma…
Che domanda è.”
“Rispondi.
Avanti, fa una deduzione.”
John
chiuse la bocca con uno scatto e deglutì a fatica.
“Ahm…
Io… Non lo so non mi sono mai fermato a pensarci.”
“Bugiardo.”
Lo
sguardo di John si assottigliò a quelle parole. Come si
permetteva a
dargli del bugiardo?
“Ci
hai pensato e come. ‘Avrà provocato la persona
sbagliata.’”
John
avrebbe tanto voluto saper giocare a poker, magari a
quest’ora
avrebbe anche imparato a fare una faccia da poker.
Sherlock
sorrise.
“Già.
Scommetto che è la stessa cosa che avrà pensato
Lestrade.- Sherlock
si strinse nelle spalle. -Magari
è vero.”
“C-cosa
è vero?”
“Che
ho provocato qualcuno. Allora dimmelo John. Come sono andate le cose
in quel parcheggio.”
John
chiuse gli occhi e prese un profondo respiro. Perché lo
stava
torturando in quel modo? Come se fosse stato facile vederlo in quello
stato. Avrebbe avuto stampata nella mente l’immagine di come
era
ridotto, fino alla fine dei suoi giorni.
“Deve…
Deve trattarsi di una persona sola. Credo. Sai,
per
via di come era la scena, non credo ci fossero altri presenti.
E…
Qualcuno che ti ha preso di mira. Non lo so il motivo. Sembrava una
cosa... Uhm…
Personale.”
Spalancò
gli occhi, e si ritrovò ad annegare in quelle azzurre di
Sherlock e
John desiderò non averli mai riaperti gli occhi.
“Dimmi
che non è nessuno che conosciamo.”
Sherlock
per fortuna scosse la testa.
John
esalò un sospiro di sollievo.
Almeno
non doveva ammazzare una persona che potessero ricollegare a loro in
qualche modo.
“Quindi
vedi, come sempre ho ragione.”
“Se
non ti ricordi chi è stato come fai ad essere sicuro di aver
ragione?”
“Lo
so e basta.”
“Ah
bella risposta.”
Ne
era certo, sapeva di più di quel ‘non
ricordo’.
“Sono
stanco.”
Scostò
le coperte e ci si infilò sotto, restando rannicchiato sul
fianco
destro. John andò a sistemargli la flebo. Gli
misurò la
temperatura, era calata ancora, ora era a 38.
“Puoi
darmi il sonnifero se vuoi.”
John
ormai non si chiedeva nemmeno più come facesse a sapere che
gli
avesse dato una pillola per dormire la sera prima.
Gli
passò la pastiglia in questione, con un bicchiere
d’acqua.
Sherlock prese entrambi e finì l’acqua.
“Buonanotte
John.”
“Notte
Sherlock.”
_______________________________________________________________________________________________________
_______________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
Sono
una bruttissima persona e non ho rispettato l’orario oggi. Ho
avuto
un po’ di giri come al solito e ne ho approfittato appena ho
avuto
tempo, mille volte perdono, non mi piace non rispettare gli orari.
Questo
capitolo devo dire piace molto anche a me, certo ci saranno altre
discussioni del genere (molte altre ve lo dico), alla fine questi due
ci girano sempre in tondo sulle questioni che non risolvono tra di
loro. Sherlock che va avanti praticamente solo per enigmi, il
cervello si John che fuma perché vorrebbe risposte che non
può
avere. E chi lo sa cos’è successo davvero?
Comunque
sono sicura che John ha meno difficoltà a stare dietro a sua
figlia
di un anno che a Sherlock, e fa anche meno capricci
😅
Prometto
che Luendì cercherò di rispettare gli orari.
Se
volete sono sia su Instagram che su
Facebook:
https://www.instagram.com/lady_norin/
https://www.facebook.com/ladynorin/
Aggiornamenti:
Capitolo
20
Lunedì
10
maggio ore: 15-16
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Capitolo 20 *** Capitolo 20: ***
Capitolo
20:
***
La
mattina seguente John si svegliò molto presto.
Recuperò Rosie dal
suo sonno profondo, la vestì e la lasciò con
Kirsty.
Aveva
un giro importante da dover fare, e prevedeva l’andare fino
in
centro. Aveva lasciato Sherlock ancora addormentato; avrebbe dormito
per qualche altra ora, ma per sicurezza gli aveva lasciato un
biglietto sul comodino, ma sperava di tornare prima che si
svegliasse.
Poi
finalmente uscì e prese la macchina.
Il
centro cittadino non era troppo lontano dalla pensione, giusto un
paio di chilometri, forse tre al massimo. Era molto ben tenuto e si
vedeva che erano stati fatti lavori di restauro. Era di pianta larga
e quadrata. Al centro il pavimento era di grandi piastrelle bianche e
con una fontana, attorniata da diverse statue. Poi c’erano
panchine, e tutto a torno edifici, composti da case, e i negozi, che
si trovavano al piano terra. In giro non c’era nessuno, ma
stava
cercando un edificio in particolare, e ne approfittò per
parcheggiare di fronte. Proprio in quel momento, dallo specchietto
retrovisore dell’auto, vide avvicinarsi un altra macchina. La
macchina appena arrivata parcheggiò a qualche metro, dietro
a quella
di John.
La
seconda vettura era una macchina a due porte, vecchia, ma tenuta alla
perfezione.
John
scese non appena vide che anche la persona che la guidava stava
scendendo.
“Signora
McKennell?” La donna sobbalzò dalla paura e chiuse
la portiera con
un colpo secco.
“Scusi!
Non volevo spaventarla. Sono John Doyle.” La signora lo
squadrò da
capo a piedi, con un'espressione non troppo felice inizialmente, ma
che cambiò subito non appena le ebbe detto il nome.
“Ah
ma certo. E’ uno dei clienti di Beth. Mi ha detto che voleva
parlarmi.”
Non
fu così sorpreso che lei sapesse già tutto. Ogni
volta che Beth gli
aveva parlato della signora McKennell gli aveva dato l’idea
che si
trattasse di qualcuno che doveva essere sempre coinvolto negli affari
riguardanti la cittadina.
La
signora McKennell era una signora sui settant’anni, bassa di
statura, con i capelli castano scuri cotonati. Un viso minuto, naso
piccolo e a patata, occhi piccoli e castani. Aveva una collana di
perle al collo, un maglione color lavanda con bottoni color oro, una
gonna lunga fino sotto al ginocchio, di spessa lana nera. Ai piedi
aveva un paio di scarpe di pelle con un tacco quadrato alto cinque
centimetri, e al braccio destro teneva una borsa in tinta con le
scarpe.
Era
vestita di tutto punto, mani curate, un bracciale d’oro al
polso
destro e un braccialetto elegante al polso sinistro, niente fede al
dito, quindi probabilmente era una vedova.
Si
capiva da subito che fosse una donna forte, e che era lei a dettare
legge in città.
“Mi
ha anche detto che lei sarebbe interessato a restare qui.- mentre lo
diceva infilò la chiave nella serratura e la fece scattare
per
chiudere la portiera. -Vede, questo è un paese piccolo. E al
momento
non abbiamo case in vendita.”
Senza
fermarsi si avviò con passo spedito verso
l’edificio al di là del
marciapiede.
“Le
uniche che abbiamo sono case in affitto, e sono solo per
l’alta
stagione. Sa, per i turisti.”
John
dovette affrettare il passo per starle dietro perché lei non
si era
nemmeno voltata ad assicurarsi che lui la seguisse mentre parlava.
Il
tono di voce era squillante, ma si capiva che si sforzava a tenerlo
moderato, per non risultare sconveniente nel modo di parlare.
“Deve
avere qualcosa. Anche piccola.” aggiunse John cercando di non
sembrare troppo disperato.
“Mi
dispiace.”
“Sa
io vengo da Londra, ho fatto un lungo viaggio. Il
mio…” non finì
la frase perché non sapeva che termine usare. Non ne aveva
la più
pallida idea.
Ma
la signora McKennell si era finalmente fermata, e ora lo guardava con
espressione accigliata.
“Si?
Il suo?”
“Il
mio... Compagno.- Ok tanto valeva che lo dicesse e basa, lei non
poteva sapere com’era davvero la storia. -Si insomma il mio
compagno è molto malato.”
“Oh…
Lei ha… Sa Beth mi ha aveva detto che avesse una figlia io
non
avevo capito. Lei non me lo ha detto. Dovrò
rimproverarla.”
“No,
no! Non è colpa di Beth. Non le ho detto nulla.
Sa… Non tutti
reagiscono bene…” Si sentiva orribile a mentire in
quel modo.
“Caro
ragazzo, ma ci mancherebbe. Qui accogliamo tutti. Non deve avere
paura. Santo cielo… Mi dispiace davvero così
tanto. Poverini. E
avete anche una bambina. Siete così bravi.”
“Ahm,
si grazie signora McKennell.” cercava di nascondere
l’imbarazzo
come meglio poteva.
“Mi
si spezza il cuore a non poter aiutare una famiglia di giovani, ma
come ho detto, qui abbiamo solo case per le vacanze.”
“Ci
sarà qualcosa, qualunque cosa. Se è per i soldi,
faccio il dottore,
quindi sono affidabile.”
La
signora si aprì in un espressione sorpresa.
“Ma
perché non lo ha detto subito!”
“Come?”
“Che
è un dottore! Venga, entriamo.”
Lei
salì i gradini dell’edificio. In cima
c’era un antico edificio a
tre piani, in pietra rossa e bianco. Sempre la donna spinse una parte
di una grande porta in legno massiccio.
Dentro
l’ambiente era ampio, con il pavimento in marmo rigato di
verde.
Una
grande scalinata a chiocciola al centro, con il corrimano di legno
scuro intagliato in stile vittoriano.
Voltarono
a sinistra. C’erano diversi uffici. Ogni porta con la propria
targa.
Ancora
non c’era nessuno. Andarono in uno degli uffici in fondo.
La
stanza era ampia, con soffitti alti, le finestre davano sulla piazza
della città, c’erano diverse scrivanie con
computer e scaffali
pieni di faldoni.
La
donna andò ad una delle scrivanie.
“Prego.”
fece segno a John di accomodarsi su una delle poltrone oltre la
scrivania.
John
si andò a sedere di fronte alla donna.
“Quindi
è un dottore ha detto. Di che tipo?”
John
le spiegò ogni cosa, e la donna sembrava sempre
più entusiasta.
Aveva
acceso il computer e si era messa a fare delle ricerche. John era
certo su di lui. Ringraziò Elliot per avergli falsificato la
laurea
e il curriculum.
“Sa
il nostro dottore deve andare in pensione, non è
più molto giovane,
e cura tutta la città, non che siano chissà
quanti i pazienti.”
“Interessante.
Ma senza offesa, questo cosa c’entra?”
“Lei
potrebbe restare qui, se accettasse di essere il nostro nuovo
dottore.”
“Non
ha appena detto che avete solo case in affitto per la stagione
turistica?”
“Si
esatto, ma in questo caso potrei dargliene una per un periodo
fisso.”
“Oh.”
“Se
lei è interessato, ovviamente.”
“Ovviamente.
Beh
si in effetti sono molto interessato. E questa casa come
sarebbe?”
“Ne
abbiamo alcune tra cui scegliere. Ovviamente qualcosa di adatto ad
una famiglia di tre persone.”
John
ci pensò per un attimo.
“Vorrei
qualcosa di… Tranquillo. Qui c’è la
spiaggia no?”
“Addirittura
una casa sulla spiaggia.”
John
annuì. Se doveva lavorare li tanto valeva che si concedesse
qualche
contrattazione.
Ora
fu il turno della signora McKennell di pensarci su.
“Ma
certo!- esordì entusiasta. -Forse ho proprio quello che
cerca. Però
è molto isolato, anche in estate la diamo via poco. La gente
solitamente preferisce avere tutto a portata di mano.”
“Isolato
va bene.”
La
donna si alzò e recuperò la borsa da sopra la
scrivania.
“Le
interessa vederla?”
John
si stupì, le cose stavano andando molto velocemente.
“Ora?”
“A
meno che non abbia altro da fare.”
“No,
no! Ora va bene.” anche lui si alzò, e
seguì la donna nel
tragitto inverso.
Tornarono
alle macchine.
“La
porto io.”
John
era già alla macchina, quindi andò verso quella
della signora e
salì al lato passeggero.
Lei
mise in moto. La piccola automobile aveva un bel motore, che
rombò
appena si accese.
Uscirono
dal parcheggio, e dalla piazza della città, poi uscirono dal
piccolo
paese. Andarono sempre dritti, finché non raggiunsero la
strada che
costeggiava il mare.
Il
mare era scuro e tormentato. Le onde si scagliavano violente contro
la spiaggia.
Proseguirono
per alcuni chilometri. Dopo qualche altro chilometro la scogliera
iniziava ad abbassarsi, ora era meno a strapiombo, e le rocce erano
più arrotondate e modellate dall’acqua e dal vento.
In
lontananza finalmente si intravedeva una struttura decisamente
costruita da esseri umani.
La
signora McKennell parcheggiò in un piazzale di erba e terra
che
sovrastava la scogliera sottostante. Scesero dall’auto. La
vista
era davvero mozzafiato. Oceano a perdita d’occhio, il blu
profondo,
il bianco formato dalla spuma delle onde e l’azzurro del
cielo.
Se
quella era la premessa, non era niente male.
“Prego,
venga.” la voce della donna lo richiamò dalla
contemplazione di
quel paesaggio. Stava già immaginando come sarebbe stato
svegliarsi
li.
Quando
si voltò, lei stava scendendo verso il basso, si
avvicinò e vide
che c’era un piccolo sentiero. Era fatto di sabbia, terra e
sassi.
Lo discese, cercando di non scivolare o avrebbe fatto un bel volo.
Per fortuna non era un tragitto molto lungo. Più sotto
c’era uno
spiazzo, abbastanza largo in realtà, e ci era collocata una
casa di
pietra grezza.
“Beh,
visto che ha una bambina così piccola forse sarebbe il caso
che
faccia qualche modifica, non so, potrebbe far mettere un recinto qui
intorno.”
“Si
penso sia un’ottima idea.” rispose John annuendo.
Effettivamente
poteva essere molto pericoloso per un bambino, ma bastava prendere
alcuni accorgimenti, in fondo lo spazio c’era e poteva essere
sfruttato al meglio.
La
signora McKennell infilò una chiave di metallo un
po’ arrugginito,
nella toppa. La porta era di legno e verniciata di verde. La casa
aveva una pianta rettangolare. La parte posteriore dava sulle rocce,
mentre la parte anteriore era vista mare.
C’erano
delle finestre, sempre verniciate di verde, e chiuse con gli scuri.
Entrarono,
e la donna accese tutte le luci. A John gli ci volle un po’
prima
di abituarsi, non era molto illuminata.
“Vediamo
di migliorare la vista.” lei uscì, e John la
sentì armeggiare con
qualcosa. Poco dopo arrivò della luce
dall’esterno, poiché gli
scuri erano stati aperti.
C’era
un piccolo ingresso, con dei ganci e alcune mensole e una panca dove
sedersi per poter levare le scarpe. Sulla sinistra si trovava subito
la cucina ad angolo. Il lavello si trovava sotto la piccola finestra
che dava sul mare. Mentre la finestra a lato dava sul sentiero e la
scogliera. Un muro divisorio basso separava la cucina dal salotto. Il
divano era situati contro al muretto basso, e alla parete opposta un
cametto abbastanza grande di pietra. C’era una poltrona, un
tavolino da caffè in legno. A fianco del salotto, un piccolo
corridoio, dove sul fondo c’era una porta con la
metà superiore di
vetro, e sulla destra, nel sottoscala, un'altra porta.
“Ah
lì dentro c’è un piccolo bagno con la
lavatrice e una dispensa.-
la donna fece eco ai pensieri di John. -Venga, andiamo al piano di
sopra.”
Salirono
la rampa che portava al secondo piano.
C’era
un corridoio abbastanza ampio, con una porta sulla sinistra, e altre
tre dalla parte opposta.
“Di
qua c’è il bagno grande.- aprì la porta
sulla sinistra. -Ha tutto
il necessario, sia vasca che doccia. Mentre da questa parte
c’è la
stanza padronale.” la signora McKennell aprì la
porta dalla parte
opposta.
La
stanza era effettivamente abbastanza grande. C’erano due
finestre,
una sul lato nord e una sopra al letto, in direzione scogliera.
Il
pavimento era di assi in legno scuro, così come la mobilia.
C’era
un lunga cassettiera di fronte, mentre a lato un armadio antico a due
ante. Il letto era a due piazze, ampio, alto, e con la struttura di
legno massiccio. Anche quello doveva essere un pezzo antico.
“Ovviamente
può arredare come vuole, ma gradirei che non buttasse i
mobili già
presenti. Sa sono pezzi originali. Questa casa ha un centinaio di
anni ma è stata disabitata per parecchio, poi durante la
seconda
guerra mondiale è stata usata per permettere alla famiglia
che la
possedeva, di allontanarsi il più possibile dai
bombardamenti. Negli
anni è stata sistemata, e gli impianti sono tutti a posto.
Venga a
vedere il resto.”
Passarono
alla porta successiva. La stanza era più piccola, ed era
vuota.
“Questa
di solito la usiamo per bambini o ragazzi. Visto che lei ha una
bambina piccola può sistemarla secondo la sua
esigenza.”
“Direi
che sarebbe perfetto.” convenne John.
“Qui
non abbiamo negozi di arredamento. Abbiamo un falegname e un
tuttofare, anche una ferramenta abbastanza rifornita. Ma per il
resto, deve ordinarlo. So che può sembrare una scocciatura
vivere in
un posto così, senza tutte le comodità di una
grande città, ma se
la tranquillità è quello che
cerca…”
“Direi
di sì, per il resto posso arrangiarmi. Non è un
problema.”
“Ottimo.”
Proseguirono
e arrivarono alla terza stanza. Una finestra dava sulla strada,
mentre l’altra sul fianco della casa. Aveva solo un letto
matrimoniale spoglio e un armadio semplice.
“Questa
può usarla come studio, metterci una scrivania.
Però glielo dico,
non abbiamo una linea telefonica, quindi niente internet, e i
cellulari prendono molto poco.”
“Si
non è così indispensabile avere un
computer.”
“Ah
non me lo dica, detesto quegli aggeggi, ma ovviamente sono necessari
per il lavoro, e ho dovuto farmi insegnare. Ma giurerei che quei cosi
mi odiano.”
“Può
capitare. Con il mio lavoro sono indispensabili, ma quando mi trovavo
nel campo di battaglia bisognava fare con quello che c’era,
quindi
diciamo che ho imparato ad adattarmi.”
“Lei
è davvero un uomo coraggioso.”
“Che
sciocchezze. Ho fatto quello che dovevo.”
“No
dico davvero. I giovani di oggi non ci pensano proprio ad impegnarsi
su qualcosa e portarlo avanti anche se falliscono. A proposito, come
mai ha scelto proprio la nostra modesta cittadina?”
John
deglutì, sentendosi terribilmente a disagio. Come glielo
spiegava
che era stata una scelta del tutto casuale e fatta unicamente per
poter sparire?
“Beh
avevo bisogno di un posto tranquillo come ben sa, possibilmente con
la spiaggia, qui ci sono sia spiaggia che campagna. E’ poco
abitato, e siamo quasi in Scozia. Era perfetto.” in fondo non
era
del tutto una bugia.
La
signora McKennell lo guardava con ammirazione, come qualcuno che
avesse appena preso un biglietto della lotteria, e scoperto di aver
vinto.
Lo
trovava esagerato.
“E
noi abbiamo avuto la fortuna di trovare un uomo fantastico e che
guarda il caso fa il medico. E comunque no, non ci credo affatto al
caso, lei era proprio quello di cui avevamo bisogno, questa
è quella
che chiamo provvidenza divina.”
“Lei
esagera con i complimenti signora McKennell.”
“Affatto.
Insomma non che il nostro buon Amos, si lui è il nostro
attuale
dottore, non sia bravo. Ma ormai ha più di
settant’anni, e ha
metodi come dire… Antiquati. Lei invece porterà
una ventata di
aria fresca, ed è anche stato nell’esercito. Chi
sa quante cose ha
visto.”
Si
di cose John Watson ne aveva visto parecchie, chissà come
l’avrebbe
presa la donna se le avesse raccontato anche della parentesi da
consulente per la polizia.
“Sì
ne ho viste molte in effetti.” affatto belle avrebbe voluto
aggiungere.
“Allora
le piace la casa? E’ ancora convinto a restare?”
“Sì.
Si mi piace e si voglio restare. - annuì. - voglio restare
qui, e
prendere questa casa se lei me lo permette, ovviamente.”
La
donna lo guardò con un sorriso.
“E
accetta anche il lavoro?”
“Accetto.”
Il
sorriso le si aprì a trentadue denti, ci mancava solo che si
mettesse a saltellare, ma era troppo composta per reagire in modo
così disdicevole.
“Ottimo!
Sono così felice! Ovviamente ci rivedremo per parlare di
tutto in
modo più approfondito, immagino che prima di trasferirsi qui
vorrà
sistemare le sue cose. Posso anche mandarle qualcuno che la aiuti a
dare una pulita. Ah e può iscrivere sua figlia al nostro
asilo dopo
che avrà firmato per la residenza.”
“Ahm,
sì, quando vuole.”
“Facciamo
lunedì alle 8 in punto, allo stesso ufficio di prima. Per i
documenti ci vorrà un po’ di più, ma
cercherò di far velocizzare
le cose. Oh e poi dovrò parlare con Amos. Scommetto che si
sentirà
sollevato. Anzi dopo passo a trovarlo, gli renderà il fine
settimana
migliore.”
“Si
grazie signora McKennell.”
“Venga
che la riaccompagno.”
La
donna si assicurò di richiudere tutto, e partirono in
direzione
della città.
“Allora…
Così il suo compagno è molto malato. Spero non
sia nulla di grave.
Cioè intendo, niente che non si possa curare con delle cure
adeguate.”
John
era così assorto nei suoi pensieri, e a fissare il paesaggio
che
scorreva al di fuori del finestrino, che quasi non si era accorto che
qualcuno gli stesse parlando.
“Come?
Oh no, ha avuto un brutto incidente.”
“Santo
cielo! Povero caro che cosa orribile. Capisco perché ora
vogliate
solo tranquillità. E le vostre famiglie? Insomma loro
accettano che
voi…”
Non
vedeva cosa c'entrasse quel discorso, ma per quello che aveva letto
di quella donna, era una persona a cui piaceva tenere tutto sotto
controllo, tutto doveva essere ordinato e sicuro. Niente cose troppo
stravaganti o pericolose, gente poco raccomandabile. Si prendeva cura
di tutta la comunità. Conosceva tutti per nome.
“Non
abbiamo una famiglia.” immaginò che la signora
McKennell si
sarebbe iniziata a fare delle domande, erano piombati li, senza
conoscere nessuno, senza un reale motivo, tre perfetti estranei che
provenivano dalla città, e nessuno che andava a trovarli,
niente
amici o parenti.
“Mi
dispiace terribilmente.”
“Non
si preoccupi.”
“E
i vostri amici?” era brava doveva ammetterlo. Spacciava delle
domande fintamente disinteressate e contemporaneamente stava facendo
un interrogatorio.
“Ci
scriveranno delle lettere. Non ne abbiamo molti comunque. Di amici
intendo. Io sono tornato dall’esercito da poco, e non amo
molto
socializzare. Sto bene solo con loro due.” almeno
così era sicuro
di averle tagliato ogni possibile domanda su parenti e simili.
“E
il suo compagno?” ovviamente non poteva essere finita li.
“Anche
lui è come me. Ha avuto una vita difficile.”
“Capisco.
Si immagino ci sia chi preferisce la solitudine. Non siete i soli
qui. Anche se io cerco di coinvolgere tutti.”
Non
ne dubitava.
“Come
si chiama? Ho chiesto perché nemmeno Beth lo sa.”
John
sorrise.
“Si
chiama Sherlock.”
“Che
nome bizzarro. Non ho mai sentito nessuno chiamarsi
così.”
“Nemmeno
io mi creda. Ed è unico come il suo nome.”
“Si
capisce sa.”
Voltò
la testa per guardarla.
“Che
cosa?”
“Che
lo ama. Da come ne parla.”
Dovette
fare un enorme sforzo per non mostrare nessuna emozione
perché in
realtà era sul punto di scoppiare a ridere.
Come
le era venuto in mente di dire una cosa del genere? Ok che stava
mentendo, ma non era così bravo a recitare. Aveva
decisamente
passato troppo tempo dietro ad assassini ed omicidi, e ora aveva
imparato a mentire come loro.
Si
schiarì la gola.
“Ho
detto qualcosa che non va?” chiese lei, ma nella voce non
c’era
tono di dispiacere per aver detto qualcosa di sbagliato, quanto
più
di curiosità.
“No,
no. Insomma… Ha ragione.- annuì. -Assolutamente
ragione.” Era
certo che ora in tutta la città ogni abitante avrebbe saputo
che lui
e Sherlock stavano insieme e che si amavano… Secondo la
signora
McKennell.
Perfetto.
Si
passò una mano sul viso. Per fortuna la donna era
concentrata alla
guida o avrebbe visto la sua disperazione.
Come
lo avrebbe spiegato a Sherlock? Una volta guarito se ne sarebbe
andato in giro e avrebbe potuto trovare qualcuno a fare domande del
genere, soprattutto se gli abitanti erano impiccioni come la signora
McKennell.
“Da
quanto state insieme?” ecco che aveva ripreso con le domande.
“Da…
Qualche anno. Quattro o cinque.”
“Quattro
o cinque?”
“Non
è che siamo proprio sempre stati insieme… Ci
è voluto un po’
perché lo capissi…”
“Che
capisse cosa?”
Che
cosa diavolo avrebbe dovuto risponderle? Non poteva usare la parola
amore perché sarebbe stata una menzogna troppo grossa
persino per
lui. Che gli voleva bene? No avrebbe destato sospetti.
“Che
mi piaceva… In quel senso.”
“Oooooh.
Quindi prima non lo sapeva. - concluse lei. - e non ha mai avuto
altri prima di lui?”
Nemmeno
a Lestrade aveva dovuto fare un resoconto di tutte le sue ex.
“No.”
“Credo
di non capire.”
“In
che senso non capisce?”
“Se
non ha mai avuto nessun altro prima di lui…”
“Intendo
uomini.”
Era
davvero ridicolo.
“Temo
di essere ancora più confusa di prima. Mi dispiace. Non
capisco
molto queste cose.”
Prese
un grosso respiro e lo rilasciò lentamente.
“Ho
avuto delle donne.” parlò lentamente.
“Ma
voi due…”
“Sherlock
è stato una cosa a parte.”
“Oh.”
Da
quel oh si capiva che in realtà non aveva afferrato il senso
di
quelle parole.
“E
la bambina?”
Merda.
“Ho
avuto una compagna per un po’…”
“Ma
ha detto che siete stati insieme per degli anni.”
“Sì,
ma non sempre come coppia.”
“Uhm,
io non capisco la gente di città.”
Avrebbe
voluto sapere cosa c'entrasse quello. Ma sinceramente non ne aveva
alcuna voglia.
“Qui
siamo persone semplici, sono stata sposata con mio marito per
più di
cinquant’anni.”
“E’
stata?” Era perfetto, avrebbe sfruttato quel discorso per un
cambio
di argomento, era sicuro che una volta dato il via, lei avrebbe
iniziato a parlare della sua vita.
“Si,
purtroppo mio marito è morto un paio di anni fa,
infarto.”
“Mi
dispiace moltissimo.”
“E’
stato tutto molto veloce. Era a casa e da un momento
all’altro…
Per terra. Per fortuna ero lì. Amos è arrivato
subito, ma non c’è
stato niente da fare. E’ morto sul colpo. Ma soffriva di
cardiopatia, aveva anche un pacemaker.”
“Immagino
che per lei sarà stato un brutto periodo.”
“Sì
lo è stato, ma per fortuna qui ci sono delle persone
meravigliose,
che mi sono state vicine.”
“Se
non sono indiscreto, ha figli?”
“Si
assolutamente. Solo due purtroppo. Ne avrei voluti di più,
come
Beth, ma così è stato.- si strinse nelle spalle.
-E ho tre
meravigliosi nipoti. Passano qui tutte le vacanze e le feste. Il
più
piccolo ha sei anni. Visto che rimarrà a lungo con noi,
glieli farò
conoscere.”
“Non
vedo l’ora.” cercò di sembrare il
più entusiasta possibile, per
fortuna erano arrivati così non dovette continuare con il
racconto
della vita della signora McKennell.
Parcheggiarono
allo stesso posto, davanti all’edificio. Ora
c’erano più
macchine e gente che girava per la pazzia.
Scese.
“La
ringrazio.”
“E’
stato un piacere fare la sua conoscenza. E porti i miei auguri di
guarigione al suo compagno.”
“Lo
farò.”
Si
incamminò a passo spedito alla propria macchina. La donna lo
stava
salutando con la mano, così ricambiò, e si
infilò subito al posto
di guida, mise in moto e partì. Doveva assolutamente tornare
alla
pensione e controllare le condizioni di Sherlock, lo aveva lasciato
da solo.
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Note
d’autrice:
Eccomi
qui, e siamo arrivati al capitolo 20, cioè più o
meno a metà. Ho
cercato di mettere tutto in questo capitolo, infatti è molto
più
lungo rispetto al solito, perché avevo il terrore che poi
non
interessasse, visto che nemmeno appare Sherlock, però non
potevo
nemmeno accorciarlo perché io e la mia mania di descrivere,
volevo
dare un minimo di presentazione su questa piccola città dove
ora
andranno a vivere i nostri, e non si sa fino a quando, quindi mi
sembrava carino dare un idea di chi ci abita e di come funzionano le
cose, alla fine non è Londra.
Ovviamente
sono tutti personaggi inventati di sana pianta.
E
ovviamente aspetto opinioni su John che ha mentito
spudoratamente…
sopratutto su certe cose… eheh
Ho
sempre il dubbio di girarci troppo in torno ma dall’altra
parte non
riesco a pensarla diversamente da come l’ho concepita questa
storia, quindi devo solo sperare di non annoiare a morte i lettori.
Se
volete sono sia su Instagram che su
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Aggiornamenti:
Capitolo
21
Venerdì
14 maggio
ore: 15-16
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Capitolo 21 *** Capitolo 21: ***
Capitolo
21:
***
Sherlock?”
Quando John entrò in camera Sherlock stava ancora dormendo
nella
stessa posizione in cui lo aveva lasciato; rannicchiato su un fianco
e con le mani sotto il lato del viso appoggiato sul cuscino.
Si
avvicinò subito, ancora prima di levare giacca e scarpe, per
misurargli la temperatura. Almeno ora era calata a 37. Sempre meglio
di quello che aveva prima.
Chiuse
tutto nell’armadio e tornò da lui.
“Sherlock?
Dai svegliati è tardi.” gli appoggiò
una mano sulla spalla, e lo
mosse piano.
Lo
vide spalancare gli occhi e trasalire, scattò seduto, ma
evidentemente il movimento troppo repentino non dovette essere un
ottima idea, perché si piegò in due, tossendo
come se fosse sul
punto di vomitare.
“Ehi,
ehi, calma. Sono io.- lo massaggiò lungo al braccio. -Dai
guardami.”
Sherlock
alzò finalmente la testa. Aveva gli occhi spalancati, la
bocca
semiaperta, e respirava con affanno.
“Piano.
Respira. Ci sono io qui.” continuò con il
massaggio lungo il
braccio, nel tentativo di tranquillizzarlo.
La
fronte si era imperlata di sudore.
“Che
è successo?”
“N-niente…”
benché stesse sudando, era freddo come il ghiaccio, e
tremava.
“Ti
sei svegliato quando non c’ero?”
Sherlock
alzò lo sguardo e strizzò gli occhi, come a
cercare di mettere
meglio a fuoco.
“No…
no io ho sempre dormito. Che ore sono?”
“Le
undici.”
“Ho
dormito troppo.”
“No,
va bene. Devi recuperare energie. Ti è scesa la
febbre.”
“E’
da due mesi che non faccio altro che stare a letto e dormire.”
“Lo
so che non ci sei abituato, ma guarire richiede tempo e
riposto.”
gli sorrise, nella speranza di infondergli un po’ di fiducia,
ma
l’espressione di Sherlock rimase apatica.
“Andrà
meglio.” aggiunse John.
“Andrà
meglio… - Sherlock ripeté le stesse parole. -
Quando? Quando andrà
meglio John? Perché tutto va sempre peggio. E’
sempre andato tutto
peggio nella mia vita.”
“Ora
non ti sembra di esagerare con
l’autocommiserazione?”
“Mi
starei autocommiserando secondo te? Avresti dovuto conoscermi
all’epoca, quando ancora non ci eravamo mai incontrati! Ti
assicuro
che avresti concluso che per uno come me non c’era
speranza!”
“Non
lo avrei mai fatto.”
“E
perché? Ero un tossico! Mi facevo praticamente di qualunque
cosa,
non avevo regole, e Mycroft doveva correre per tutta la
città e
raccattare i pezzi! Imporre agli altri il silenzio...”
Lo
strattonò per il braccio. Non voleva fargli male, ma non
sopportava
più quel discorso.
“Vedi
di smetterla! Non ti sopporto quando fai così! Facciamo
tutti delle
cazzate nella vita, chi più, chi meno, magari alcuni
esagerano.
Prendi
mia sorella. Non ci parlo da dieci anni. E credi che non abbia
provato ad aiutarla? Ma lei non vuole farsi aiutare, e io non posso
obbligarla. Tu non sei come lei. Ne sei uscito, e hai fatto di tutto
per starne fuori. E ok hai i tuoi problemi, e sei strano e non
convenzionale ma non vuol dire essere sbagliati!
Vuoi
un altro esempio? Prendi me. Sono la persona più noiosa del
mondo.
Ho
avuto tutte le fasi: non mi sono mai drogato, beh a parte qualche
fumata al liceo ma tutto li, non sono un ubriacone cronico, non fumo
quattro pacchi di sigarette al giorno, o più. Ho fatto
medicina più
per avere qualcosa con cui potermi allontanare da casa, anche se alla
fine è una cosa che mi piace e che amo fare. Ho anche avuto
la
brillante idea di entrare nell’esercito.
Tu
e Rosie siete tutta la mia famiglia. Le cose più
entusiasmanti nella
mia vita le ho fatte tutte con te. Se non ti avessi conosciuto
probabilmente a quest’ora sarei depresso e solo come un cane.
Quindi lascia perdere le cazzate da vita borghese, perché te
lo
posso assicurare, non avresti retto mezza giornata.”
Sherlock
affondò con il viso contro la spalla di John, e John si
sentì
avvolgere tra le braccia e stringere. Si ritrovò con il naso
infilato tra i suoi
ricci.
“Dai
va tutto bene.” lo massaggiò con una mano lungo la
schiena,
Sherlock non si mosse. Poteva sentire il suo respiro caldo contro la
clavicola e il lato del collo. Non stava facendo nulla, nessun
pianto. Dopo svariati minuti sciolse l’abbraccio e
sollevò la
testa, tornò seduto, con la schiena appoggiata contro i
cuscini.
“Credo…
Credo di aver fame.” lo disse a bassa voce e occhi puntati
sulle
mani che teneva appoggiate in grembo.
“Vado
a cercare qualcosa da mangiare e a recuperare Rosie. Posso lasciarti
cinque minuti?”
Finalmente
Sherlock sollevò lo sguardo.
“Dove
vuoi che vada?”
John
si strinse nelle spalle.
“Era
per dire.” si alzò dal letto.
“Torno
subito.” uscì dalla stanza.
“Vuoi
aprire tu la porta? D’accordo.” abbassò
la maniglia appena Rosie
fu distratta da tutta la concentrazione che stava mettendo per
spingerla ad aprirsi, così fu molto soddisfatta quando
effettivamente quella si aprì.
“Ah
ma che brava! Ormai non ti servo più, riesci a fare tutto da
sola,
sei diventata grande.” aspettò che entrasse, anche
se aveva ancora
la camminata traballante, ormai riusciva a fare un discreto tragitto
senza cadere.
Spinse
il carrello, glielo avevano prestato per metterci tutte le vivande
per pranzare in camera.
Richiuse
la porta.
“Non
sapevo sapesse già camminare.”
“Si,
da un po’. In realtà a sei mesi già
riusciva a tirarsi su da
sola, quindi alla fine ci ha messo molto. A quanto pare è
precoce.”
Sherlock
guardò John e sorrise.
In
tanto lei era arrivata al letto e stava cercando di arrampicarsi per
salire.
“Ti
aiuto.” Sherlock stava cercando di sollevarla.
“No,
no fermo!”
Si
bloccò mezzo piegato in avanti, l’espressione
spaventata di chi
pensava di aver appena fatto qualcosa di terribile.
“Scusa
io…”
“Non
devi fare sforzi.” arrivò John a tirare su la
bambina e la mise
sul letto.
“Guarda
che non sono messo così male.”
“Beh
io preferisco non rischiare.
Fa
compagnia a Sherlock intanto che preparo.” Rosie
sembrò contenta
della proposta e cominciò a ispezionare il suo nuovo amico
mettendogli le mani in faccia.
“Ti
sei divertita stamattina?” chiese lui. Lei gli fece un gran
sorriso
e emise dei versi concitati.
“Lo
devo prendere come un si? Scusa ma non capisco i bambini.”
“Da
quello che so va molto d’accordo con la sua nuova
babysitter.”
“Hai
detto che è una delle figlie della proprietaria.”
“Si,
Kirsty. Qui dentro fanno tutto in famiglia.”
“E’
gentile da parte sua offrirsi per farti da babysitter.”
“Si
direi di si. E poi le servono soldi per andare
all’università,
vorrebbe frequentare a Glasgow. Quindi mi fa piacere aiutare per
quello che posso, e così posso occuparmi di tutto il resto.
Appena
saremo sistemati la iscriverò all’asilo.”
“Appena
ci saremo sistemati?”
“Si
certo, cosa pensavi, che saremmo rimasti in questa pensione in
eterno?”
“No
io… Credevo che saremmo… Saremmo tornati a
casa.”
John
si voltò a guardare Sherlock. Rosie nel frattempo si era
arrampicata
sul suo petto e stava giocando con i suoi capelli. Era una scena
molto buffa.
“Perché
lo hai pensato?”
“Perché
hai detto che era solo per un po’, e quando sarei
guarito…”
“Ma
tu non sei guarito.”
“No
ma non sto nemmeno così male. Non mi serve
l’ospedale.”
“Se
ti riporto indietro tuo fratello ti metterà in quel
posto...”
“Magari
no. Se vede che posso stare a casa e occuparmi di me stesso da
solo.”
“Ma
tu non puoi occuparti di te stesso da solo.”
“Puoi
venire tu ogni tanto.”
John
chiuse gli occhi e prese un bel respiro.
“Abbiamo
già fatto questo discorso. Non sarà una cosa
breve. Non staremo qui
per sempre, ma non torneremo in città domani, o alla fine di
questa
settimana, o di questo mese.”
“Non
c’è proprio modo che riesca a farti cambiare idea
non è
vero?”
“Non
vedo perché dovresti.”
Sherlock
sospirò.
“Allora
abbiamo una casa.”
“Sì.
Stamattina quando sono uscito sono andato a parlare con la signora
McKennell. A quanto pare sapeva già chi fossi e che fossimo
arrivati
alla pensione di Beth, lei gli ha detto tutto. Quella donna, la
signora McKennell intendo, penso sia la padrona in questa
città. Si
insomma del tipo che gestisce tutto e sa tutto di tutti.
All’inizio
non era molto ben disposta perché siamo dei
‘forestieri’, ma
appena ha scoperto che faccio il dottore, ha cambiato atteggiamento.
Mi ha anche offerto un lavoro.”
“Ti
ha offerto un lavoro?” chiese sorpreso Sherlock, che lo stava
ascoltando con molta attenzione benché la bambina
probabilmente gli
stesse strappando via i capelli.
“Si
ha detto che il loro attuale dottore vuole andare in pensione.
Così
in cambio mi ha offerto una casa.”
“Oh.”
“Già.”
“Quindi
accetterai?”
“Le
ho già detto di si.”
“Cosa?”
“Perché
aspettare. E poi quella casa ci serve.”
“Ma
tu hai già un lavoro, a Londra…”
John
si strinse nelle spalle.
“Ora
ne ho uno qui.”
“Quindi
l’hai vista… La casa…”
“Sì,
è sul mare. Molto tranquillo. Una specie di vecchio
cottage.”
“Sembra
bello.”
“Lo
è.
Dai
ora basta parlare, è ora di pranzare.”
Prese
il vassoio.
Cercò
di liberare le dita di Rosie, o meglio, i capelli di Sherlock, dalle
dita di Rosie.
“Scusa.
Guarda che non sei obbligato.”
“No
va bene.”
John
aveva l’impressione che Sherlock si sarebbe lasciato fare
qualunque
cosa senza fiatare.
Ovviamente
Rosie protestò per essere stata strappata dal suo nuovo
divertentissimo gioco.
“Avanti
pestifera è ora della pappa anche per te.” anche
se continuava a
dimenarsi nel vano tentativo di liberarsi dalla presa del padre, John
la mise seduta sul letto. La coprì con un asciugamano, per
non farle
sporcare in giro e i vestiti, poi le si era seduto accanto, con il
piatto in mano.
“Ecco
qui, tieni.” le porse la forchetta.
Come
prima portata c’era un po’ di pasta al formaggio.
Ne prese una
forchettata e gliela avvicinò alla bocca, per fortuna non si
lamentava mai del cibo offerto.
Sherlock
si era incantato a guardarli e ancora non aveva toccato il suo
piatto.
“Non
mangi?” chiese John servendo un'altra forchettata di pasta
alla
bambina.
“Che
cosa, l’invitante brodo, che è solo brodo?
Entusiasmante.”
“Che
cosa vorresti, una bistecca?”
“Magari,
in effetti si, non mi dispiacerebbe.”
“Temo
dovrai accontentarti.”
“Sono
stato in un convento di frati una volta, mangiavano molto
meglio.”
“I
frati avevano passato due mesi in ospedale?”
Non
rispose.
Però
iniziò a mangiare il brodo, ma ormai lo conosceva
così bene, che
benché sulla sua faccia non ci fosse nessuna espressione in
particolare, sapeva quanto lo stesse disgustando mangiarlo.
Sospirò
e fece finire la pasta a Rosie; ovviamente essendo una bambina non
mangiava chissà quali grandi porzioni. Per secondo
c’era un
piccolo pezzo di pollo con il purè. A Sherlock era toccato
un pezzo
di pollo più grande, ovviamente scondito, e spinaci.
“Un
miglioramento.”
“Lei
si lamenta di meno lo sai vero?”
Sherlock
si voltò a guardare il dottore.
“Mi
stai dando del bambino?”
“Non
lo farei mai. Vuoi che ti tagli la carne? Però scordati che
ti
imbocchi, sei grande per quello.” Dovette mordersi
l’interno
delle guance per non scoppiare a ridere, per la faccia indignata di
Sherlock.
“Sei
proprio…”
“Cosa?
Dai continua.”
Semplicemente
non continuò e anzi, alla fine ripulì il piatto,
senza una
lamentela. Doveva dire che si sentiva particolarmente soddisfatto.
Alla fine era riuscito a far mangiare tutto ad entrambi, e senza
troppi drammi.
Rimise
tutto a posto sul carrello, e lo lasciò fuori la porta,
così gli
avevano detto di fare.
“Tu
non mangi?”
“Mangio
dopo, mi sono fatto tenere da parte qualcosa.”
Sherlock
si limitò a fissarlo.
“Dai
dillo.”
“Cosa
dovrei dire?”
“Quello
che stai pensando.”
“Non
sto pensando a niente.”
Rosie nel frattempo era rotolata giù
dal cuscino, e stava giocherellando con la mano del
detective.
“Cazzate.”
“Prego?”
“Ho
detto che è una cazzata. Guarda che lo capisco quando quelle
rotelle
lì dentro stanno girando.” si indicò la
testa.
“Non
è niente che tu non sappia già.”
Sbuffò
per la frustrazione, anche Rosie si mise a guardare il padre,
incuriosita da quel suono.
“Che
altro vuoi che ti dica?” aggiunse Sherlock.
“Niente,
proprio niente, è questo il punto. Ti devi
convincere.”
“Non
puoi obbligarmi a farmelo andare bene.”
“Ma
per l’amor di Dio! Tu per me lo avresti fatto!”
“E’
diverso.”
“Diverso?
Perché mai? Anzi no non rispondere, non voglio sapere quello
che ti
dice la testa. Non torno indietro.”
“Lo
so, me lo hai già detto. Sei testardo e non posso
convincerti del
contrario, ma posso provarci.”
“Ah
io sono testardo! Se io sono testardo tu allora cosa sei? Non
rispondere.”
“Quindi
sarà questa la tua vita, badare a me e a lei.”
“Sì.”
rispose secco John. Non doveva pensarci per sapere quello che doveva
fare, perché lo aveva deciso già da tempo.
“Una
bella prospettiva.”
“Oh
ma per favore. Voi Holmes siete bravi con i drammi. La stai facendo
sembrare una delle tragedie di Shakespeare.”
“O
forse sei tu che non ti rendi conto. Forse la guerra ha annullato il
tuo modo di percepire le situazioni. Ha annullato il tuo istinto
riflessivo e ti ha fatto diventare impulsivo. Prendi una decisione, e
non importa quello che succede.”
“Non
ti dico quello che sto pensando, ma ci puoi arrivare da
solo.”
Sherlock
lo guardò e annuì.
“Avanti,
è l’ora di prendere le medicine. E tu signorina
vai nel tuo
lettino.”
La
bambina aveva trovato la cintura della vestaglia di Sherlock e ne
stava mordicchiando un pezzo.
“No
ehi, questo non si mangia.” Sherlock provò a
togliergliela
delicatamente dalle mani, ma Rosie non voleva saperne di mollare la
presa.
Arrivò
John a prenderla in braccio, lei si lamentò ed
iniziò a
piangere.
“No,
no, ora si dorme, dai fa la brava.” prese a dondolarla e a
camminare in giro per la stanza. Si avvicinò alla culla e
prese il
cagnolino di pezza con cui dormiva la piccola.
“Guarda
Sparky, anche lui vuole dormire.” sventolò
l’animale di peluche
davanti al nasino della bambina e lei allungò le manine per
prenderlo.
“Vuoi
andare a fare la nanna con Sparky?” lei se lo strinse contro.
Quello era il segnale. La mise nella sua culla, una canzone e qualche
carezza e si addormentò dopo cinque minuti. Rimase a
guardarla
dormire, e sorrise. Vedere sua figlia così beata era una
cosa di cui
non si sarebbe mai stancato.
Sentendosi
osservato alzò la testa, e si trovò ad annegare
in due pozze
azzurre. Ogni tanto si dimenticava che non era solo. Erano
così
limpidi che per un momento credette davvero di poter leggere quello
che c’era nella sua testa, ma era qualcosa che lo spaventava,
così
distolse lo sguardo per primo, da bravo codardo.
Prese
le scatole dal comodino e allungò una manciata di pillole a
Sherlock, che le prese dalla sua mano. A quel contatto dovette
reprimere un brivido, cercò di sembrare il più
impassibile
possibile.
Una
volta che Sherlock ebbe preso le sue medicine e bevuto
l’acqua gli
sistemò i cuscini.
“Va
bene così?” Sherlock annuì. Poi
bastò che aspettasse che si
addormentasse profondamente, e poté finalmente andare
a
pranzare.
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Note
d’autrice:
Buon
venerdì a tutti. Ecco questo è un bel capitolo
introspettivo. Uno
dei tanti, anche perché questi due ne hanno di cose da
dirsi. Come
già ho scritto precedentemente non sono minimamente brava
con i
bambini, non ne so praticamente nulla se non le cose che ho visto in
tv, non ne ho mai scritto, nemmeno per sbaglio, quindi se la cosa
sembra strana sapete perché.
Ho
diciamo una specie di annuncio, da fare, cioè in
realtà non è
proprio un annuncio ma giusto a titolo informativo. Sto lavorando ad
un altra storia, ovviamente sempre sui nostri due beniamini testoni.
Per ora è solo più o meno abbozzata, ne ho
scritto giusto 5 pagine
e non so dove andrà a parare, però intanto ne
parlo perché mi
piacerebbe pubblicarla in un futuro. E’ un po’
particolare e non
ne ho mai viste di simili in giro. Poi magari sicuramente
c’è ne
saranno ma non è un tema così usato. Piccolo
spoiler: è una cosa
di cui si parla nella prima puntata della prima stagione…
Spero
davvero di riuscire a tirarci fuori qualcosa, magari per questo
autunno intanto che la continuo.
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Capitolo
22
Lunedì
17 maggio
ore: 15-16
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Capitolo 22 *** Capitolo 22: ***
Capitolo
22:
***
Il
weekend proseguì in modo abbastanza tranquillo. Sherlock
prendeva le
sue medicine e la febbre era calata, anche se la tosse sembrava non
volesse saperne di diminuire.
John
nel frattempo si era fatto dare da Beth tutte le informazioni
necessarie per trovare quello che gli serviva per la casa, e anche il
nome di un tuttofare e di una donna delle pulizie. Il lunedì
poi
avrebbe fatto il resto, e contava di potercisi trasferire
già a
partire dalla settimana seguente.
Ormai
era nel mondo dei sogni, in realtà era talmente sfinito che
Morfeo
lo aveva accolto non appena la guancia aveva toccato il cuscino,
quindi il suono che il suo cervello stava registrando non era una
gran preoccupazione al momento. Però il suo subconscio non
gli stava
dando pace e anzi, gli stava urlando di svegliarsi, perché
c’era
qualcosa che non andava, cercò di zittirlo, ma niente,
questo
insisteva; gli ricordò che aveva una bambina piccola che
richiedeva
le sue attenzioni. Sgranò gli occhi di colpo e
scattò seduto. Ci
mise qualche istante per rimettere tutti i pezzi al loro posto, e per
capire che non era la bambina che stava piangendo disperata, quanto
più Sherlock che tossiva in modo quasi convulso.
“Oh,
ehi!” Scese subito dal letto, ma nemmeno il tempo di fare il
giro
che l’altro si era piegato in due e sembrava sul punto di
vomitare.
Afferrò
il cestino e lo posizionò in modo che l’altro ci
potesse vomitare
dentro, cosa che effettivamente accadde.
Si
mise seduto accanto a lui, massaggiandolo sulla schiena.
Una
volta finito Sherlock cercava di riprendere fiato.
“Come
ti senti?”
Tossì
alcune volte.
“Non…
Non passa.”
“Si
non mi piace quel rantolo, non è affatto diminuito, speravo
di sì…”
“Perché?”
chiese Sherlock prendendo un grosso respiro e dando dei colpi di
tosse.
“Aspetta.”
il dottore si alzò per andare a prendere la borsa dentro
l’armadio,
tirò fuori lo stetoscopio.
Sherlock
ormai aveva imparato e iniziò a sbottonare la parte
superiore del
pigiama, continuando a tossire praticamente ad ogni respiro.
John
tornò a sedersi accanto a lui sul letto, sfregò
il cilindro piatto
su una manica per stemperare un po’ il metallo gelido, e poi
la
appoggiò al centro del petto.
Ascoltò
attentamente e accuratamente, anche dalla schiena. Dopo svariati
minuti sfilò lo strumento dalle orecchie e lo mise attorno
al collo,
poi si passò entrambe le mani sul viso,
c’è le sfregò, e le
passò come ultimo passaggio, tra i capelli.
“Che
c’è che non va? Hai una faccia… Non
può andare peggio di
prima.”- Sherlock cercava di buttarla sullo scherzo, ma
vedendo che
il suo amico dottore non reagiva come si era aspettato,
lasciò
morire il sorriso. -”Invece può andare peggio di
così?”
“Devo
farti dei raggi, non posso fare una diagnosi se non sono
sicuro.”
“Ma
ti sarai fatto un'idea.”
“Spero
proprio di smentirla.”
“Perché?”
insistette Sherlock.
“Perché
potrebbe esserci del liquido nel polmone. Ci avevo pensato
già
quando avevo detto che era bronchite, ma non sembrava così
grave,
speravo passasse con gli antibiotici, ma non è
successo.”
“E…
Cosa comporta?”
“Comporta
che se ti faccio i raggi e viene fuori che c’è
liquido nel tuo
polmone, va tolto.”
“E
come?”
“Con
un drenaggio. Lo avevi anche quando eri in ospedale.”
“Intendi
quel tubo sul fianco?”
“Sì
quello.”
“Non
era troppo fastidioso.”
“No
non hai capito, il tubo non è un problema in se, il problema
è
l’inserimento. Quando te lo hanno messo la prima volta eri in
anestesia totale e non ti sei accorto di nulla.”
“E
perché, invece come va fatto?”
“Con
un anestesia locale.”
“Oh…”
“Dannazione!”
“Quindi…
Come intendi fare?”
“Senti
è inutile discuterne. Domani vedrò di cercare il
dottore di questa
città, da quello che so ha una clinica e anche alcune
apparecchiature alla casa di riposo. Quando avrò una
diagnosi certa
al centro per centro poi vedremo come fare.”
“Mi
dispiace. Ti dai tanto danno per una cosa che non dipende da
te.”
Si
voltò di scatto.
“Senti
mi pareva di averti detto che non volevo più sentirti
parlare in
questo modo!”
“Scusa.”
“E
basta anche con scusa e mi dispiace.”
“Allora
cosa vuoi che dica?”
“Basta
che non siano scuse e autocommiserazione.”
“D’accordo.”
“Bene.”
“Provo
a darti qualcosa per calmare la tosse così magari riesci a
dormire.”
Andò
a prendere il necessario, per fortuna che aveva previsto di portarsi
dietro qualcosa di un po’ più forte per la tosse.
Sistemò
i cuscini in modo che Sherlock stesse dritto con la schiena.
“Mi
dispiace ma temo dovrai dormire seduto.”
“Ho
dormito anche sull’asfalto, non è un problema
dormire seduto.”
“Non
ho dubbi.”
Dopo
aver ripulito tutto tornò a letto.
“Devi
svegliarmi se qualcosa non va.”
Spense
la luce.
Era
appena sorto il sole e già si stava preparando per uscire.
La
temperatura fuori era così gelida che tutta
l’acqua causata
dall’umidità si era ghiacciata, e una patina
bianca era calata
sulla città. Aveva preparato Rosie per stare con la
babysitter, e
stava vestendo Sherlock con le cose più pesanti che aveva
trovato.
Inoltre Beth gli aveva anche prestato uno scialle di lana grezza
fatto a mano, era così grande che ci fece due giri.
“Non
ti sembra di esagerare?” Ovviamente Sherlock non era troppo
contento di essere stato imprigionato sotto tutti quegli strati, ma
si doveva accontentare.
“No.
Hai idea del freddo che fa fuori? Non ho intenzione di
rischiare.”
Tirò
su il lembo dello scialle in modo che coprisse la faccia lasciando
liberi solo gli occhi, sentendo un grugnito soffocato.
Lo
spinse fuori e si assicurò di chiudere a chiave la porta,
poi
passarono lungo il breve corridoio. Per fortuna la proprietaria gli
aveva lasciato la chiave della porta sul retro, così sarebbe
potuto
andare e tornare come meglio credeva. Non era affatto facile
destreggiarsi per dei corridoi stretti spingendo una sedia a rotelle,
la moquette non faceva che rendere la cosa ancora più
difficile, e
inoltre arrivati alla porta c’era pure un basso scalino.
Aveva
parcheggiato la macchina subito davanti l’ingresso,
così bastò
far alzare Sherlock e metterlo seduto al posto del passeggero.
Richiuse la portiera e fece il giro.
Benché
avesse sudato per tutto quello sforzo, il gelo gli si stava
impregnando nelle ossa. Corse all’interno
dell’abitacolo e chiuse
subito la portiera, mise in moto, aveva lasciato il motore acceso con
il riscaldamento acceso.
“Freddo
dannato, mi fa quasi rimpiangere il deserto...”
Dovevano
arrivare fino alla casa di riposo, che era una struttura privata
situata in una zona fuori dalla città e lontana dal mare,
immersa
nella brughiera.
Ci
volle quasi più di un ora per arrivarci. La strada era
deserta.
Dopo
una lunga strada di ghiaia in mezzo i campi, giunsero davanti ad una
grande cancellata chiusa, tutta l’area era circondata da
delle
mura, e non si vedeva nulla di quello che c’era al di
là. John
dovette scendere e andare al citofono.
Sherlock
dall’interno della macchina poteva solo vedere il dottore che
si
muoveva sul posto a causa del freddo e leggere alcuni pezzi di frasi
dal movimento delle labbra. Stava spiegando a chiunque avesse
risposto il motivo della loro presenza lì. In
realtà non era troppo
convinto gli avrebbero dato retta, ma lo vide tornare indietro a
passo spedito. John si infilò in macchina, chiudendo la
portiera con
un colpo secco.
“Ti
hanno detto di no?” chiese Sherlock ma prima di avere
risposta il
cancello si aprì.
“Perché
pensavi avessero detto di no?”
“Non
lo so… Non ti conoscono.”
“Gli
ho spiegato la situazione e gli ho detto che la signora McKennell ne
era a conoscenza.”
“Ma
non è vero.”
“Tecnicamente
sì, sa che sei molto malato.”
“Hai
usato una mezza verità.”
“Me
lo hai insegnato tu.”
“Già.”
Attraversarono
un lungo viale attorniato da alberi, fino ad arrivare nello spiazzo
di una struttura in pieno stile d’epoca di inizio secolo,
disposta
su tre piani. Aveva un grande cortile e un giardino enorme tutto
intorno.
John
parcheggiò a lato.
“Resta
qui.” scese ma lasciò il motore acceso.
C’era una grande
scalinata aperta su due lati, e poi un portico con colonne bianche e
un grande portone d’ingresso.
Passarono
almeno dieci minuti prima che John facesse ritorno, accompagnato da
un paio di infermieri, a cui indicò loro l’auto.
Una volta
caricato Sherlock sulla sedia a rotelle fecero un giro diverso,
passando da una porta di sicurezza direttamente dal piano terra.
Dentro
la struttura era lineare e pulita, e molto moderna, al contrario
dell’esterno. Lunghi e larghi corridoi, pavimento in marmo e
vetrate ampie, poi c’erano piante e panchine e diversi pezzi
di
arredamento, proprio come se fosse una grande casa.
“Bel
posto per passare la vecchiaia.”
“Vuoi
che ti lasci qui?”
“Quando
sarò vecchio? Magari.”
“E’
troppo costoso per noi.”
“Per
noi?”
“Perché
vuoi starci solo tu? E io che faccio vado all’ospizio dei
poveri?
Bello, grazie del pensiero.”
Ma
Sherlock non rispose.
Dopo
un discreto giro della struttura, arrivarono all’ala medica,
che
era in tutto e per tutto un ospedale, ma di alto livello. Delle
grandi porte di vetro opaco la dividevano dal resto degli spazi
comuni, superate esse si trovavano uno studio medico, una farmacia, e
vari laboratori.
“Non
credevo che potesse esserci una struttura del genere in un posto come
questo.”
“E
perché?”
“Perché
è molto all’avanguardia e si trova in un buco di
paesino.”
“Evidentemente
hanno più possibilità economiche, viene gente
anche da fuori,
inoltre ho scoperto che c’è anche un centro
benessere.”
Arrivarono
in una sala d’aspetto, dagli altoparlanti usciva musica
rilassante,
e tutto intorno c’erano comode sedie con
l’imbottitura in stoffa,
dei tavolini bassi e un tavolo normale con dispensatori di acqua e
tea caldi e alcune cose da mangiare.
“Vi
serve qualcosa?” - chiese uno degli infermieri. -
“il dottore
arriverà tra un po’, vuole avvisare lei?”
“Si,
si vorrei farlo se posso.”
“Ma
certo, venga.”
“Ehm…”
John guardò Sherlock e l’infermiere colse subito
il messaggio.
“Certo
non si preoccupi, c’è il mio collega, rimane lui
per il suo… Mi
scusi potrebbe dirmi com’è la situazione con
precisione?”
L’infermiere
era giovane, sulla trentina, ma molto professionale e discreto.
“Ah
sì è il mio… Ehm… Il mio
paziente.”
“Il
suo paziente?” chiese dubbioso l’infermiere.
“Sì.
Veniamo da fuori e la signora McKennell ci ha consigliato di
contattare il vostro dottore, ma ho saputo che lavora anche qui,
quindi…” John alzò le spalle.
“Ma
si certo, la signora McKennell. Allora prego.”
L’infermiere
accompagnò John in una stanza, che era un ufficio con un
paio di
scrivanie e grandi schedari alti fino al soffitto. Tutta la mobilia
era di colore bianco, le forme lineari, tutto era asettico.
Lo
fecero accomodare in una delle poltrone e gli appoggiarono davanti un
telefono a filo, poi l’infermiere che lo stava aiutando,
prese un
agenda da uno dei cassetti della scrivania.
“Abbiamo
un numero apposito per contattare il dottore.”
passò l’agenda a
John che compose il numero. Dopo alcuni squilli, all’altro
capo
rispose la voce di un uomo.
John
si presentò, ma come già sospettava,
l’altro dottore era a
conoscenza di chi fosse. Almeno gli risparmiava di dover perdere
tempo nelle presentazioni. Spiegò quello di cui aveva
bisogno, il
suo interlocutore sembrava interessato alla faccenda, chiese di poter
parlare con l’infermiere lì accanto; i due
parlarono per alcuni
minuti, e poi si chiuse la chiamata.
“Ha
detto che lei sarà il suo sostituto quando andrà
in pensione.”
“Ah…
Sì, tecnicamente è quella
l’idea.”
“Ha
anche detto che dobbiamo darle tutto quello che chiede. Lui arriva
tra un ora, se potesse aspettarlo gliene sarebbe grato.”
“Non
c’è problema.”
Lasciò
l’ufficio per fare ritorno alla sala d’aspetto, ma
Sherlock non
c’era più.
“Un
momento, dov’è andato?”
“Non
lo so mi dispiace.”
“Non
può di certo andarsene in giro da solo!” in
realtà conoscendolo
poteva e come. L’infermiere, che aveva scoperto dal
cartellino
attaccato alla divisa, si chiamasse Carl; prese il cerca persone
dalla cintura e mandò un codice a qualcuno. Tempo un minuto
e gli
raggiunse l’altro infermiere che era stato con loro in
precedenza.
“Dov’è
il paziente del dottore?” indicò John, che era
già in
apprensione.
“L’ho
sistemato in una delle stanze vuote.”
Sospirò
internamente per il sollievo, per fortuna non se ne era andato
chissà
dove e non rischiava di doverlo cercare per tutta la struttura.
In
un ala si trovavano alcune stanze che erano in tutto e per tutto come
quelle di un ospedale, ma nuove e moderne. In ognuna di esse
c’erano
sei letti, ed erano tutti vuoti, tranne uno.
Entrarono,
la porta era aperta.
“Sei
qui.” John lo disse con il sollievo nella voce.
“Dove
avevi paura che fossi andato?”
“Per
quanto ne sapevo potevi essere andato ovunque, non ti ho più
visto.”
“Scusi
se la interrompo, ma ho visto che il suo paziente ha una centrale,
vuole che gli facciamo una flebo di fisiologica?”
“No
no, grazie, per ora è a posto così.”
“Vi
lascio soli allora, se avete bisogno c’è il
pulsante.” entrambi
gli infermieri si dileguarono e chiusero la porta.
Accanto
al letto c’era una poltroncina con schienale e braccioli,
così si
ci si accomodò.
“Appena
mi vedono cercano di iniettarmi qualcosa, mi ricorda i vecchi
tempi.”
Sherlock guardò John sorridendo, ma ad un occhiataccia
dell’amico
smise subito.
“Scusa.
Brutta battuta.”
“Abbastanza.
Almeno sei comodo?”
“Sono
tornato al punto di partenza, non direi.”
“E’
solo per una visita.”
“Sappiamo
tutti e due come andrà a finire.”
“Non
è detto.”
“Stanotte
non mi sembravi così positivo.”
“E
ti ho anche detto che finché non avrò le lastre
non c’è niente
di certo.”
“Dai
John non sono stupido, l’ho capito da solo che qualcosa non
andava.
Conosco il mio corpo non credi?”
Sì
lo credeva.
“Ridimmi
cosa comporta nelle peggiori delle ipotesi.”
“Perché
invece non parliamo di altro?”
“Sono
un tuo paziente no? Non credi che abbia il diritto di
saperlo?”
Lo
odiava quando qualcosa che diceva, poi Sherlock la usava per
ritorcerglisi contro.
Fece
una smorfia.
“Se
proprio ci tieni.”
“In
effetti si.”
“Anche
se trovo stupido fare ipotesi basate sul nulla.”
“Ma
questa non è basata sul nulla. Dai dimmelo.”
“Ok,
ok. Se è quello che penso potrebbe essere, o vero che il tuo
polmone
sinistro ha accumulato liquidi, e serve il famoso drenaggio, che va
fatto in anestesia locale. Qui sono ben forniti, forse non
sarà così
tremendo.
Dovrai
tenerlo per qualche giorno, finché non ci saranno
più liquidi, poi
servirà un altro ciclo di antibiotici, ma dopo dovresti
essere a
posto. Certo togliere il tubo è il meno.”
Vide
Sherlock pensarci su.
“Quindi
deve passare anche attraverso le costole.”
“Già.
Ma solitamente se il paziente non è sotto intervento, si fa
in
anestesia locale. Non è particolarmente doloroso se fa
effetto.”
“Ma
a me potrebbe non fare effetto. Senti fa quello che devi. Non
è
colpa tua, me la sono cercata.”
Dio
odiava sentirglielo dire.
“Ma
non è sicuro.”
Sherlock
mise una mano su quella di John, che sobbalzò a quel
contatto
inaspettato, probabilmente il detective pensando che non fosse stata
una cosa gradita, la ritrasse subito.
“Menti
solo a te stesso.”
“Potresti
essere anche un po’ più ottimista.”
Sherlock a quelle parole
ridacchiò, e un punto dietro la testa del dottore
formicolò.
Bussarono
alla porta, ed entrò un uomo anziano e basso di statura, con
il
camice lungo.
“Buongiorno,
scusate tanto per l’attesa.” allungò la
mano in direzione di
John.
“Sono
Amos, lei deve essere John.”
“Esattamente.”
“Bene,
bene.”
“La
signora McKennell ci ha risparmiato tutti i preamboli.”
“Si
lei è fatta così. Però in certe
occasioni è molto utile.”
“Assolutamente.”
convenne John.
“Così
lei ha un paziente che ha bisogno di alcune visite
specifiche?”
“Che
cosa le ha detto la signora McKennell a riguardo?”
Amos
sembrava vagamente a disagio, si mise a fianco di John.
“Mi
ha raccontato che è il suo… Compagno, e ha avuto
un brutto
incidente.”
John
evitò accuratamente l’occhiata di Sherlock.
“E’
informato alla perfezione.”
Amos
si avvicinò a Sherlock.
“Molto
piacere.” allungò la mano, e Sherlock gliela
strinse.
“Può
chiamarmi Amos.”
“Sherlock.”
“Sherlock,
si. E’ un nome facile da ricordare.”
Sherlock
tirò un sorriso. Il dottore tornò a parlare
direttamente al
collega.
“Sto
facendo preparare il macchinario. Vuole fargli fare qualche altra
analisi?”
“Le
solite di routine se possibile.”
“Certamente.”
l’uomo più anziano premette il pulsante, che si
accese,
lampeggiando con una luce rossa.
“Gli
infermieri arrivano subito. Venga, parliamo.”
invitò John ad
uscire. Seguì l’uomo, anche se titubante, non
voleva lasciare
Sherlock solo, quando si voltò verso di lui, lo stava
guardando con
un piccolo sorriso di incoraggiamento.
________________________________________________________________________________________________________________________________________________________
__________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
Per
fare una grande citazione: potrebbe essere peggio di così?
Potrebbe
piovere!
E
quando sembra che le cose vadano meglio, taaaaac, la fregatura. Sono
una bruttissima persona ne sono consapevole, non hanno pace questi
due poveri infausti disgraziati, peggio di Renzo e Lucia, Romeo e
Giulietta, il mondo complotta contro di loro. Ok basta così.
Che
altro potrà mai succedere?
Per
un attimo accantoniamo l’aggressione e concentriamoci sui
problemi
di salute, che al momento sono i più importanti. Questo
poverino
merita tutte le cure migliori del mondo e di riprendersi al meglio,
ora ha anche due dottori e un intera struttura privata, e che fa
parte del pacchetto “sfruttiamo John come dottore”,
pure
l’attuale dottore è tutto felice e contento di
avere il sostituto
già bello che pronto.
Sono
un po’ sfruttatori in questo posto effettivamente, ma se vuoi
mangiare devi lavorare.
Va
bene la finisco di blaterare, ci si legge venerdì!
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Capitolo
23
Venerdì
21 maggio
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Capitolo 23 *** Capitolo 23: ***
Capitolo
23:
***
Il
dottore aveva fatto fare il giro a John e nel frattempo gli stava
spiegando varie cose, e stava dando suggerimenti su come agire,
suggerimenti con cui John si trovava assolutamente d’accordo.
La
struttura era davvero immensa. Oltre all’ala medica
c’era un
reparto per le terapie e le visite specialistiche. Raggi, TAC, e
tutto il resto. I macchinari erano moderni e perfettamente
aggiornati.
La
stanza dei raggi era praticamente vuota, solo il grande macchinario
occupava lo spazio al centro, e sul lato sinistro c’era una
parte
adibita a sala di controllo, con una grande vetrata, ricordava quasi
quella di una sala interrogatori, ma chi era fuori poteva vedere
dentro anche se i vetri erano scuri.
Entrarono
i due infermieri spingendo il letto con Sherlock; gli avevano fatto
indossare il camice. Lo portarono fino sotto al macchinario e
bloccarono il letto.
“Possiamo
fare altro dottore?” si rivolsero a John.
“No,
no.”
In
quel momento arrivò anche l’altro dottore.
“Allora
cominciamo?”
“Finisco
di prepararlo e arrivo.”
Il
dottore più anziano andò a chiudersi
nell’altra stanza.
“Ti
hanno dato un camice.” Sherlock aveva aspettato che
rimanessero
soli per fargli quella domanda.
“Anche
a te.”
“Si
ma non avevano la mia taglia.”
Effettivamente
la stoffa tirava, soprattutto sulle spalle e sul petto.
“Effettivamente
non penso ci saranno molti anziani con la tua taglia.” gli
mise una
mano sul braccio, la pelle era calda, dovette reprimere un brivido.
Sherlock
gli sorrise e John ne rimase abbagliato.
“Qualcosa
non va?”
John
si riscosse.
“No,
pensavo.”
Sentì
qualcosa tirarlo e quando abbassò la testa, vide dita lunghe
e magre
che giocherellavano con uno dei bottoni del camice. Deglutì,
trovando la bocca improvvisamente impastata.
“Ti
dona. Non credo di averti mai visto con il camice da dottore
addosso.” Sherlock gli stava sorridendo in modo strano, ma
non
riusciva a levare gli occhi dalla cicatrice che gli tagliava il
labbro in due. La parte stupida del suo cervello si chiese come
sarebbe stato toccarla, ma guardò subito da un altra parte,
sapendo
che Sherlock si sarebbe sentito a disagio se avesse continuato a
fissarlo su quel punto.
“Non
ti sei perso niente di particolare.”
“Non
ti sminuire così, sei bravo come dottore ed è
giusto che lo porti
con fierezza. Al contrario di altra gente.”
“Ti
stai riferendo a qualcuno in particolare?”
“No,
era per dire. Questo paese ha carenza di bravi dottori. Almeno sono
stato fortunato. Ho trovato il migliore.”
Sarebbe
scoppiato a ridergli in faccia per quell’uscita, ma si
trattenne e
ingoiò tutto, e nel frattempo Sherlock continuava a
toccargli il
camice, come se ci trovasse qualcosa di particolarmente interessante.
Che stava succedendo?
Gli
prese delicatamente la mano, per staccarla, e le dita si strinsero
sulla sua.
“Stai
cercando di adularmi?”
“Ti
serve?”
“Non
rispondere con un'altra domanda, è fastidioso.”
“Lo
so, è proprio per questo che lo faccio.” dal tono
sembrava
affabile, come un gatto che voleva giocare.
“E’
così che ti diverti?”
“Ad
infastidirti? E’ il mio passatempo preferito. E anche
l’unico che
posso fare.”
“Sono
sicuro che qui abbiano dei mazzi di carte se
ti nannoi.”
A
quelle parole Sherlock si mise a ridere. Ok doveva farglielo fare
più
spesso.
“Bisogna
essere in due per giocare a carte.”
“Allora
gli scacchi.”
“Gli
scacchi in solitaria. Entusiasmante.”
Sbuffò.
“Ci
gioco io a scacchi con te.”
“Sai
come si fa?”
“No,
imparerò.”
“Sai
che ti batterei in cinque minuti, facciamo anche due. Di solito ci
giocavo con Mycroft.”
“Ah
questo facevi quando andavi a casa sua.”
“Cosa
pensavi che facessimo, che discutessimo del lavoro da spia di mio
fratello?”
“Che
ne so, vi scannate sempre.”
“E
poi tu sei troppo facile da leggere.”
“Come?”
“Sei
facile da leggere, non sai mentire, capirei le tue mosse nel momento
in cui le pensi.”
John
alzò le braccia al cielo per lasciarle ricadere.
“Mi
arrendo. E’ impossibile fare qualcosa con voi
Holmes.”
“Così
presto dottor Soldato? Non è onorevole.”
“Come
mi hai chiamato?”
“Dottor
Doyle?” una voce arrivò alle spalle di John, che
si voltò con uno
scatto, dietro, in piedi, con un quadrato di metallo tra le mani,
c’era l’altro dottore.
“Ah,
le serve qualcosa?”
“Il
macchinario è pronto.”
“Arrivo
subito. Quello è per me?” indicò
l’oggetto tra le mani del suo
collega.
“Ah
si, la lastra, eccola qui.” allungò il quadrato di
metallo a John,
che lo prese.
L’altro
dottore tornò nella stanza di controllo e chiuse la porta.
John
tornò a guardare Sherlock.
“Dai
stenditi bene.” lasciò che si sistemasse e mise la
coperta in modo
che fosse al livello dei fianchi, poi sistemò il cuscino
dietro la
sua testa, e abbassò lo schienale del letto premendo sulla
pulsantiera a fianco.
“Tieni
questo.” gli mise la lastra sul petto e gliela fece tenere
nel modo
giusto.
“Non
ti devi muovere.”
“Lo
so.”
“Dico
davvero.”
“Guarda
che ho capito.”
“E
devi trattenere il fiato quando te lo dico.”
“Sì,
so anche questo.”
“E
non muovere la lastra per nessuna ragione o dovremmo rifare tutto da
capo.”
Sherlock
sbuffò esasperato.
“Sei
comodo?”
“No.”
“Bene.”
John
si allontanò per chiudersi nella sala di controllo.
Il
macchinario poteva essere posizionato nel modo giusto da li, e
spostato in modo che fosse nella prospettiva corretta, poi si accese
una luce e un suono ad intermittenza, segno che stava funzionando.
“Ok,
trattieni il fiato.”
Sherlock
eseguì l’ordine ma quel semplice sforzo gli
scatenò una tosse
quasi convulsiva, obbligandolo a piegarsi di lato.
John
corse fuori.
“Ehi
Ehi, respira.”
Corse
subito da lui e lo prese per le spalle, per farlo sollevare e mettere
seduto.
“Fa
dei bei respiri.”
Ma
la tosse continuava, così forte che lo faceva annaspare.
Arrivò
anche l’altro dottore.
“Posso
fare qualcosa?”
“Qualcosa
per calmare la tosse.”
“Subito.”
“Niente
morfina e roba simile.”
Il
dottore si era fermato con la mano sulla maniglia e stava guardando
John accigliato.
“Glielo
spiego dopo.”
L’uomo
uscì velocemente.
“Avanti
tu, respira.”
Sherlock
non riusciva neanche a rispondergli.
“So
che puoi farcela.”- Iniziò anche lui a prendere
dei grossi
respiri. -“Vedi, così.”
Sherlock
iniziò a seguirlo con il respiro, così facendo
almeno dopo poco
aveva smesso di annaspare. Tremava per lo sforzo.
“Bravo.-
John prese a massaggiarlo sulla schiena. -Bravo
così.”
Lasciò
che gli si appoggiasse contro la spalla. Lo accarezzò con le
dita
tra i capelli, gli solleticavano il viso e al tatto erano morbidi.
Per fortuna era servito a calmarlo, ora tossiva meno e respirava,
anche se in modo pesante, più normalmente.
“Mi
dispiace.”
“Per
cosa?” rispose Sherlock con voce tremolante e roca.
“Ti
ho fatto scatenare un attacco.”
“Come…
Come se fosse colpa tua.” respirava come qualcuno con una
grave
asma. Non c’era niente di buono.
“Non
era mia intenzione farti stare male.”
“Non
è una cosa che puoi controllare.”
La
porta si aprì e fecero ritorno i due infermieri,
trascinandosi
dietro un carrello di metallo.
Sherlock
si staccò subito.
John
allungò le mani per prendere il carrello e preparare una
siringa con
un medicinale che calmasse quella tosse.
“La
lastra e li.”
Indicò
il quadrato di metallo che era finito a lato del letto. Venne
recuperato subito.
“Torniamo
subito con il responso, ci vorranno una decina di minuti.”
convennero i due infermieri.
“Vuole
che se ne occupi uno di noi per la medicina?” chiese uno
degli
infermieri.
“No,
faccio io.” rispose secco John.
I
due si guardarono ma tornarono dentro la stanza di controllo, con
l’altro dottore, che nel frattempo era tornato.
John
prese il flacone del medicinale e tirò su qualche millimetro
di
farmaco e fece in modo di eliminare ogni bolla che si era formata con
il liquido nella siringa. Poi prese il lembo di cerotto che era stato
usato per fermare uno dei connettori per le flebo. Aprì la
valvola e
inserì l’ago nella parte finale, lasciando che il
liquido
arrivasse direttamente nella vena centrale. Almeno così il
medicinale avrebbe agito molto più in fretta. Richiuse la
valvola e
mise a posto il cerotto.
“Ora
andrà meglio.”
Tirò
su la coperta e sbloccò i freni del letto.
“Hai
visto cosa c’è che non va?”
“Dopo
controllo.”
Uscirono
nel corridoio per far ritorno alla camera.
Sherlock
allungò il braccio dietro di sé, e con la mano
cercò John.
Passarono
alcune infermiere, che guardavano la scena attonite, John
ricambiò
con un sorriso di circostanza.
“Ti
da fastidio?”
“Cosa?”
poteva vedere solo i ricci neri e la mano sul braccio.
“Che
ti stia toccando davanti a tutti.”
“Non
me ne frega niente degli altri.”
Sentì
la mano stringerlo, bisognosa di contatto. In realtà era un
sollievo
essere toccato da lui, sperò che non smettesse.
Tornarono
nella stanza.
“Quindi
dobbiamo solo aspettare.” esordì Sherlock, John
andò a sedersi
nella poltrona accanto al letto.
“Come
va la tosse?”
“Un
po’ meglio.”
“Bene.”
“Sei
comodo? Ti serve qualcosa?”
“Sì,
andarmene da qui.”
“Dai
sii serio.”
“No
non mi serve niente. Ci vuole ancora molto per avere le
lastre?”
“Poco
vedrai.”
“Dovremmo
giocare con quelle carte.”
“Ancora
con la storia delle carte?”
“Sì,
per passare il tempo.”
“Perché
le carte?”
“Siamo
in una casa di riposo, ci saranno sicuramente le carte.”
“Ah,
certo. Siamo già arrivati alle carte. E comunque tu sai
contare.”
“Che
vuol dire?”
“Che
sai contare le carte.”
“Mi
stai dando del baro?”
“Esattamente.”
“Grazie
per la fiducia.”
“Prego.
Quindi io non sono all’altezza.”
“Come
prego?” Sherlock sembrava molto spaventato da quella domanda.
“Di
giocare a scacchi con te.” John poté vederlo
rilassarsi ora che
sapeva che l’argomento era frivolo. Un po’ lo fece
sorridere.
“Non
è quello che intendevo.”
“No,
no ho capito. Non posso competere con Mycroft, mi sembra
ovvio.”
“Ma
non è quello che volevo dire, solo serve pratica.”
“Non
ti farei mai perdere tempo.”
“Te
la sei presa troppo.”
“Non
me la sono presa. Troveremo dell’altro da fare. Tipo che ne
so,
Monopoly.”
“Monopoly?”
“Si
hai presente, parco della Vittoria, gli hotel da comprare.”
ma
Sherlock lo stava guardando con espressione confusa.
“Che
c’è? Ti prego non dirmi che non hai mai giocato a
Monopoli.”
“Mi
spiace.”
“Che
infanzia hai avuto Sherlock.”
“Non
lo so, facevo altro.”
“Magari
è qualcosa in cui sono più bravo di te.”
“Vuoi
giocare con me per vedere se sei più bravo in un gioco di
società?”
“Tu
ti vanti sempre quando riesci a fare qualcosa meglio degli
altri.”
“Se
credi che ti farà sentire meglio…”
“Non
fare l’accondiscendente.”
“Non
sto facendo nulla.”
“Si,
questo è fare l’accondiscendente. Fai finta che
non ti importi.”
“Ma
m'importa! E poi perché stiamo litigando per
questo?”
“Non
stiamo litigando.”
“Oh,
e dai John.”
“Sarebbe
da stupidi litigare per una cosa del genere.”
Sherlock
sospirò rassegnato.
“Dottor
Doyle?”
Entrambi
si voltarono verso la porta, dove c’era
l’infermiere di nome
Carl.
“Sono
pronte le lastre.”
“Arrivo
subito.” - John si alzò. - “Faccio
presto.” appoggiò una mano
sulla spalla di Sherlock.
“E
chi si muove.”
“Resto
io qui se per lei va bene.” Carl si offrì di
restare.
“Ah
si grazie, sarebbe fantastico.”
“Non
C’è problema dottore.”
“Guarda
che posso restare da solo per qualche minuto.” Ovviamente le
lamentele di Sherlock non sortirono alcun effetto.
John
quindi uscì e lasciò Sherlock con
l’infermiere.
John
raggiunse l’ufficio da dove aveva chiamato il dottore del
paese.
“Eccola
dottore.”
Amos
stava in piedi dietro alla grande scrivania. Gli fece vedere una
busta gialla.
John
la prese e tirò fuori gli spessi fogli scuri.
Dietro,
appesa alla parete, c’era la lavagna luminosa. Le
attaccò in cima,
e si mise ad osservarle con attenzione. Anche se non c’era
chissà
cosa da osservare, la diagnosi era molto chiara.
“Merda…”
L’altro
dottore si schiarì la gola.
“Scusi
non intendevo offenderla.”
“Non
si preoccupi.”
John
si passò una mano sulla faccia.
“Quindi
alla fine aveva ragione lei.”
“Si
beh, odio avere ragione.”
“Cosa
intende fare?”
“Che
altro c’è da fare? Devo inserirgli un
drenaggio.”
“Ed
è la prima volta che lo fa?”
“Assolutamente
no.”
“Ah
no perché la vedo molto in apprensione.”
“Non
posso fargliela in anestesia.”
“Prego?”
“Non
posso inserire quel dannato drenaggio a Sherlock in
anestesia!”
Il
dottore aveva sobbalzato al repentino atteggiamento aggressivo di
John.
“Mi-mi
dispiace.- John prese un grosso respiro nel tentativo di calmare i
nervi. -Scusi ancora. Ma ne ha già passate tante.”
“Posso
solo immaginare. Ha detto che ha avuto un grave incidente.”
“Si,
lui… lui ci è quasi morto.”
“E’
orribile. Mi dispiace davvero tanto. Farò qualunque cosa per
aiutarla, deve solo chiedere.”
“E’
molto gentile.”
“Si
figuri.”
“Siete
tutti molto gentili anche se non ci conoscete. Siamo appena arrivati
qui, dei perfetti estranei.”
“Beh
volete trasferirvi, quindi entrerete a far parte della vita di questa
città. E chiunque ne fa parte è come uno di
famiglia. E poi lei ci
sta già aiutando.”
“Immagino
che tutte queste cose ve le avrà dette la signora
McKennell.”
“Si,
in gran parte. Ma non deve aver paura di lei, o pensare che si
immischi. Fa sempre parte del suo gestire la
comunità.”
“Perché
non è il sindaco?”
“Lei
preferisce stare dietro ai riflettori.”
“Capisco.”
“Se
la prende in simpatia può avere e chiedere praticamente
qualunque
cosa.”
“Io
cerco solo un posto tranquillo per noi tre. Ora voglio solo pensare a
farlo guarire. E’ l’unica cosa di cui mi
importa.”
“Certo,
certo. Come vuole procedere?”
“Prepari
tutto il necessario.”
“Subito.”
“E
mi servono tutti gli anestetici locali che avete.”
Amos
lo guardò quasi sconvolto da quella richiesta,
così John si
affrettò a spiegare.
“Devo
vedere quale è il più efficace e meno
dannoso.”
Il
secondo dottore esalò un sospiro di sollievo.
“Sì.
Glieli faccio avere immediatamente. Può cambiarsi negli
spogliatoi
che usano gli infermieri, le farò avere
l’occorrente, e può
lavarsi le mani nel bagno, ci sono i disinfettanti.”
“Grazie.”
Il
dottore più anziano fece un cenno con la testa, e
uscì dalla
stanza, lasciando John da solo, con i propri pensieri.
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__________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
Purtroppo
John ci aveva azzeccato con la diagnosi, non c’è
mai pace per il
povero Sherlock, però ne ho approfittato per metterci una
bella
scenetta di interazione tra questi due. Lasciamo stare John che
è
sempre molto confuso dalla sua stessa esistenza, però spero
che da
qui si capisca che è quasi attaccato in modo morboso a
Sherlock,
tanto che per lui staccarsi dal detective diventa quasi una
sofferenza. E Sherlock da parte sua è un po’ come
se flirtasse
senza nemmeno rendersene conto. Quindi insomma alla fine della fiera
sono sempre i soliti due testoni però molto più
vicini rispetto a
quanto non siano mai stati, e questa cosa non può fare altro
che
avvicinarli di più.
Ripeto
spero che tutto questo sia passato leggendo, e come al solito non
vedo l’ora di leggere commenti a riguardo!
Un
bacione e a lunedì, auguro a tutti di passare un felice fine
settimana.
Sono
sia su Instagram che su
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Capitolo
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Capitolo 24 *** Capitolo 24: ***
Capitolo
24:
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*Questo
capitolo contiene descrizioni di pratiche mediche e
l’utilizzo di
aghi
_________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Si
era preso del tempo durante la preparazione. Mille pensieri gli
attraversavano la mente. Era la prima volta che gli capitava di
essere così coinvolto con quello che, a tutti gli effetti,
era un
suo paziente, e avrebbe dovuto trattarlo come tale, essere
assolutamente distaccato. Ma chi voleva prendere in giro, quello non
era un qualunque paziente, quello era Sherlock. Potevano succedere
brutte cose in quello stato emotivo. Okay, non doveva effettuare un
intervento a cuore aperto, o nulla di troppo difficile, ma restava
comunque un passaggio delicato.
Forse,
anzi, chiunque con un po’ di giudizio, sarebbe giunto alla
conclusione che avrebbe dovuto lasciare fare tutto al suo
più che
preparato e di certo non coinvolto collega. Si sarebbe dovuto sedere
nella sala d’aspetto, e con calma e pazienza avrebbe dovuto
aspettare che qualcuno lo andasse ad avvisare dell’avvenuta
procedura con successo.
Ma
lui non era mai stato una persona con giudizio, anzi, lui era
impulsivo. Stupidamente impulsivo. E solo l’idea di qualcun
altro
che toccava Sherlock…
Si,
doveva farlo lui, e soltanto lui. Punto. Sarebbe stata una sofferenza
sia per se stesso che per Sherlock, ma non c’era altro
rimedio.
Spinse
la porta con la schiena.
Ad
aspettarlo c’era sempre l’infermiere Carl, che lo
accompagnò in
stanza.
Amos,
il dottore più anziano, stava preparando il tutto, prendendo
il
necessario da un grande carrello fornito di ogni cosa.
“Siamo
pronti?” chiese l’altro dottore, John rispose con
un cenno della
testa.
Sherlock
alzò la testa per guardare John e gli fece un piccolo
sorriso, John
si sentì sprofondare. L’idea di fargli male lo
distruggeva
internamente. L’unica cosa che riusciva a convincerlo a
farlo, era
che lo faceva per il suo bene, perché le conseguenze
sarebbero
potute essere molto peggio.
Si
mise a sedere sullo sgabello e prese i guanti.
“Stai
bene?” Sherlock annuì.
“Ti
devi abbassare il camice.”
Il
detective sollevò la schiena dal cuscino, ma prontamente
l’infermiere gli si avvicinò e iniziò a
slacciare i lacci che
tenevano chiusi i lembi di stoffa, poi fece scivolare le maniche
lungo le braccia.
John
dovette costringersi a guardare un punto non meglio precisato.
Si
schiarì la gola.
“Hm…
Si, alza il braccio per favore, mettilo sopra la testa.”
Avvicinò
le dita alle costole del fianco sinistro, la pelle era così
tirata
che poteva sentire i bordi sporgere, premette leggermente per capire
dove si trovassero gli spazi, e contò fino ad arrivare allo
spazio
esatto, poi continuò a tastare in cerca del punto esatto,
doveva
essere preciso al millimetro, non poteva permettersi sbagli. Quando
fu certo di aver trovato la zona esatta, prese il pennarello da sopra
il vassoio già preparato dal collega, e lasciò un
segno sulla
pelle. Così non avrebbe dovuto cercare di nuovo. Poi
eseguì le
altre procedure, disinfettare l’area, usare il telo con il
foro che
lasciasse scoperta la parte su cui intervenire.
Prese
la siringa già riempita con l’anestetico locale,
l’ago era di
media lunghezza e sottile; cercò di sollevare quanta
più pelle
possibile, quando inserì l’ago, Sherlock
sobbalzò talmente forte
che quasi rischiò di scivolargli la mano.
“Sta
fermo!” ringhiò tra i denti, ma poi si rese conto,
probabilmente
essendo dimagrito così tanto doveva aver provato ancora
più dolore
del normale.
Alzò
gli occhi per guardarlo, con la mano stava stringendo il bordo del
letto, il petto gli si alzava e abbassava velocemente, come con
affanno, era anche diventato più bianco di quanto non fosse
già.
“Respira
piano per favore.” cercò di dirlo più
gentilmente che poteva.
Sherlock
nemmeno lo guardava, si limitava guardare nel vuoto, dritto davanti a
se, un braccio sopra la testa, e l’altro lungo il corpo.
John
non insistette e tornò a concentrarsi sulla siringa che
aveva in
mano, e spinse tutto il liquido ad entrare nella pelle, poi lo
massaggiò in modo che si distribuisse più in
fretta.
Lasciò
la siringa e aprì il palmo della mano
all’insù.
“Bisturi
per favore.” Prontamente Amos gli mise lo strumento in mano.
Prima
di utilizzarlo, si assicurò che il medicinale avesse fatto
effetto,
prese due lembi di pelle e gli strinse tra le dita, tirando.
“Ti
fa male?” Sherlock senza muoversi dalla sua posizione scosse
lentamente la testa.
“Sherlock
guardami.” gli afferrò la parte inferiore del
mento e lo costrinse
a girarsi, i suoi occhi erano come vetro.
“Per
favore, mi devi rispondere, ti fa male? E’ importante. Non
posso
procedere se non lo so.” Sherlock lo fissò negli
occhi e scosse
nuovamente la testa. La bocca tirata in una linea non si mosse di un
centimetro.
John
sospirò. Doveva accontentarsi di quella risposta. Sperando
che non
avesse deciso di tornare in uno stato di mutismo selettivo.
Prese
un grosso respiro ed avvicinò la lama alla pelle.
Una
procedura medica del genere non era particolarmente complicata per
chi sapeva farla bene, bisognava solo stare particolarmente attenti a
prendere la posizione giusta, i polmoni erano organi molto delicati,
ma tutto sommato era una cosa veloce e con brevi passaggi. Certo se
il paziente era addormentato era pure meglio, ma a volte bisognava
farlo su pazienti svegli, come in questo caso. Poteva sembrare al
limite della tortura, ma se l’anestetico faceva effetto, si
sentiva
assolutamente nulla.
Almeno
così doveva essere in pratica, in teoria John non lo aveva
mai
provato su se stesso, quindi non aveva idea di quello che si potesse
effettivamente ‘sentire’.
Quindi
aveva inciso la pelle e la carne, pregando con tutto se stesso che
non fosse troppo doloroso. E poi tutto il resto, allargare lo spazio,
usare le pinze e infilare il tubo, ricucirlo e poi fermare il tutto
con abbondanti garze sterili e imbevute di disinfettante e fermare
tutto con grandi cerotti, il tutto era durato giusto una decina di
minuti.
“Dottore
lei ha fatto tutto in modo perfetto. Affascinante.”
John
si voltò verso Amos, che aveva parlato, pieno di
ammirazione, anche
i due infermieri erano rimasti dietro e avevano osservato
l’opera
con estrema attenzione.
“Un
esagerazione.”
“No
dico davvero.”
“Beh…
Grazie.”
Ricevette
una pacca sulla spalla.
“Posso
portare via tutto? L’aspiratore è già
in funzione e va a pieno
regime. Più tardi verremo a ricontrollare.”
parlò l’altro
infermiere.
“A
si si, potete andare, se non vi dispiace, vorrei restare
qui…”
sottolineò con il tono di voce, che era inteso che volesse
restare
da solo con il suo paziente; subito gli altri si dileguarono,
portando via tutti gli attrezzi utilizzati.
“Dottor
Doyle io ho finito il mio turno qui alla casa di riposo, e oggi sono
a lavorare nel mio studio in città, ma se ha bisogno ha il
numero
del mio cerca persone.”
“Grazie
dottore. Grazie per la sua disponibilità.”
“Sciocchezze,
sono solo contento che un dottore bravo e giovane come lei
prenderà
il mio posto.”
Vide
che Amos si era messo a fissare con aria abbastanza perplessa
qualcosa dietro di lui, così si voltò a guardare
in quella
direzione, solo allora si rese conto.
“Vi
lascio.” il dottore sparì alla velocità
della luce, chiudendosi
la porta alle spalle, ma John ormai non sentiva più niente.
“Ehi?”
Appoggiò
una mano sulla spalla di Sherlock. Tremava così forte che
sobbalzava
a intermittenza, poi si rese conto. Allungò la mano e
appoggiò le
dita sulle guance, erano completamente bagnate.
“Sherlock
dai parlami. Guardami.” ormai gli stava venendo il panico,
era un
dottore e non aveva idea di che cosa fare, era un dottore e non aveva
idea di quello che stava succedendo al suo amico… No, il suo
compagno, tanto era così che lo chiamava ultimamente davanti
agli
altri.
Posò
la mano sulla sua testa, i ricci erano morbidi, le dita affondavano
da sole tra di esse, poteva sentire in alcuni punti i solchi lasciati
dalle cicatrici, erano ancora spessi e ruvidi.
Delicatamente
gli fece girare la testa. Non poteva sopportare di guardarlo tutto
quel dolore e terrore. Appoggiò la fronte contro la sua.
“Per
favore non fare così, andrà tutto bene, te
l’ho promesso. Te lo
ricordi?” Ma Sherlock non si muoveva e non parlava, dei suoni
strozzati uscirono dalla sua bocca. Lasciò che si
appoggiasse contro
la sua spalla. Lo avvolse tra le braccia. La stoffa gli si
impregnò
velocemente delle lacrime e i singhiozzi ormai risuonavano per tutta
la stanza. Era certo che se non fossero stati loro due da soli,
Sherlock avrebbe preferito morire che fare una cosa del genere
davanti a qualcuno.
Si
teneva aggrappato come se stesse per sprofondare da un momento
all’altro, ed era sicuro che era quello che provava in quel
momento.
“Ehi?
Lo so che mi senti. Non puoi crollare hai capito? Non puoi farlo,
perché se tu crolli, se decidi che non vuoi più
combattere, io poi
non ho più nessun motivo per andare avanti, e allora poi
diventa un
bel problema. Perché dovrei rinunciare a tutto. E non
voglio. Non la
voglio questa vita lo capisci? Dovrei farmene una tutta nuova, ma
l’ultima volta che ne ho iniziata una nuova e stato con te, e
non
ho alcuna intenzione di immaginarmi come sarà senza. Anzi lo
so come
sarà perché è quello che ho fatto
nell’ultimo anno ed è stato
orrendo.” Era la cosa più egoista che potesse
dire, ma se
l’egoismo serviva per non far cadere nel baratro Sherlock, lo
avrebbe usato tutto. Avrebbe giocato sporco. Era bravo in quello
quando si impegnava.
Ma
Sherlock si limitava solo a muoversi a scatti e singhiozzare.
Dubitava riuscisse a parlare in quello stato, probabilmente nemmeno
stava capendo una parola. Quindi lasciò semplicemente che
finisse da
solo. Pregando solo che non finisse nel baratro di oscurità
da dove
era difficile tornare indietro.
Probabilmente
rimasero così un eternità, forse delle ore, non
sapeva dirlo con
precisione; non osava muoversi troppo, aveva il terrore di peggiorare
il danno.
Però
si rese conto che effettivamente la situazione sembrava essersi
calmata, Sherlock non stava più singhiozzando ne tremando,
semplicemente restava aggrappato, le dita che gli artigliavano la
schiena.
Rimasero
così ancora per un tempo interminabile. Finché
non restò
semplicemente appoggiato contro la sua spalla.
Così
si azzardò a muoversi piano e sciogliere
quell’abbraccio, cercò
di spingerlo verso i cuscini, e sembrò funzionare
perché l’altro
si lasciò accompagnare senza alcuna protesta.
Una
volta sicuro che stesse comodo si allontanò da lui. Di nuovo
si
trovò a guardare dentro gli occhi più azzurri che
avesse mai visto
nella propria vita. Quello era un posto dove annegare e morire, ma
ora erano semplicemente appannati e rossi a causa del pianto, anche
le labbra erano diventate rosse, c’erano anche dei tagli,
delle
ferite, come se il labbro inferiore fosse stato preso a morsi.
Gli
passò le maniche sul volto completamente bagnato da lacrime
e
sudore.
Sherlock
si limitava semplicemente a fissarlo, ma ormai ci era abituato.
Prese
il bicchiere di vetro sul comodino e la caraffa e lo riempì,
poi
lasciò che bevesse, ogni tanto tossiva a causa della gola,
probabilmente graffiata dal singhiozzare così forte e per
tanto
tempo.
“Ora
va meglio?” ma Sherlock non rispose. John sospirò.
“Hai
deciso di tornare al mutismo selettivo?”
Sherlock
scosse la testa.
“Per
fortuna perché non gli posso sopportare quei bigliettini un
altra
volta.”
Rude
ma necessario.
Vide
una mano di Sherlock avvicinarsi molto lentamente alla sua. La
strinse, e Sherlock scivolò nuovamente appoggiato contro la
sua
spalla.
Niente
lacrime questa volta.
“Ti…
Ti ha fatto male?”
Sherlock
annuì piano.
John
trattenne il fiato, chiuse gli occhi e si maledisse.
Cercò
con le labbra la sua fronte.
“John?”
la voce di Sherlock era bassa e roca, faticava a parlare in modo
chiaro.
“Hm?”
“John?”
“Ti
sto ascoltando Sherlock, cosa c’è?”
“La
cosa che hai detto prima… - aspettò che
continuasse il discorso
senza rispondere. - Hai detto che non puoi ricominciare tutto da capo
da solo… Ma tu non sei da solo.”
Sospirò.
“Invece
si. Se tu non decidi di non combattere più non potrei mai
fare
questa cosa senza di te.”
“Ma
potresti tornare a casa…”
“Dove
nel mio minuscolo appartamento a Londra? A fare lo scapolo con una
bambina di un anno? No grazie.”
“Troverai
qualcuno.”
“Ah
si le donne fanno la fila alla porta con un uomo con già una
figlia
che non va nemmeno in prima elementare e che ha appena perso una
moglie.”
“Avevi
detto che adoravano gli uomini scapoli con figli…”
“Era
un modo di dire, flirtare non vuol dire stare con qualcuno.
E
in più al momento non mi interessa trovarmi un altra
donna.”
“Quindi
che hai intenzione di fare, badare a me e a Rosie.”
“Si
al momento e quella l’intenzione.”
“E
dopo?”
“Dopo?”
“Sì
dopo, quando sarò… Guarito… e Rosie
sarà cresciuta e non si sa
se resteremo ancora in questa città o no.”
“Non
vuoi tornare a casa Sherlock?”
“No…
Non al momento…”
“Allora
siamo in due. E quando sarà il momento lo
capiremo.”
“Ma
quindi cosa facciamo?”
Sospirò.
Con tutte quelle domande pareva di parlare con un bambino che
continua a chiedere ‘perché’.
“Sherlock
qualcosa la facciamo, ti preoccupi troppo. Io ho un lavoro, e tu
troverai qualcosa. Magari possiamo lasciare che passi
l’estate e
poi vedere di decidere.”
“Sì,
mi piacerebbe passare l’estate qui.”
“Allora
siamo d’accordo.”
“Quindi
abbiamo una casa.”
“Sì,
la vedrai appena non avrai più problemi con il polmone,
vedrai ci
vorrà qualche giorno.”
Sherlock
annuì e i capelli morbidi lo solleticarono sotto la mascella.
Era
una bella sensazione.
“Devi
andare da lei.” si era spostato e messo con la schiena contro
i
cuscini, era una brutta sensazione, si sentiva come se ora gli
mancasse qualcosa.
“Da
lei?” chiese stupidamente.
“Da
tua figlia.”
“Ah.
No resto qui.”
“No
devi andare. Non ho bisogno di te adesso, e tu devi stare con
lei.”
“Sherlock…”
“No,
è tardi.”
Lo
detestava quando faceva così e cercava in tutti i modi di
allontanarlo.
“Non
ti lascio qui da solo.”
“John,
sono in una struttura medica con due infermieri che mi stanno con il
fiato sul collo. Credimi, non sono da solo.”
“Ma…”
“Vai
per favore. Starò benissimo.”
“Sono
il tuo dottore.” si lamentò.
“Non
mi serve il dottore adesso.”
John
controllò l’orologio al polso, effettivamente era
tardi e voleva
dare il pranzo a Rosie, ma non voleva lasciare Sherlock.
“Ti
prego.” certo se veniva supplicato in questo modo.
Passò
stancamente una mano sul viso.
“Sto
bene.” insisté Sherlock.
John
annuì.
“D’accordo’”
Sherlock
lo stava accarezzando lungo il braccio, e non poteva fare a meno di
osservare quei movimenti.
“Starò
bene.”
Si
alzò dalla sedia accanto al letto e sbottonò il
camice e lo sfilò.
Sherlock lo fissava con estrema attenzione.
John
arrotolò il camice e poi premette il pulsante per chiamare
un
infermiere.
Dopo
un paio di minuti arrivò Carl.
“Ha
bisogno dottore?”
“No,
solo, devo andare via. E voglio essere sicuro che lo
controllerete.”
“Ma
certo, è in buone mani. Può stare
tranquillo.”
John
annuì.
“Se
c’è bisogno dovete chiamarmi subito.”
Si
voltò e diede un bacio sulla fronte a Sherlock, che
sembrò quasi
rimanere abbagliato.
Quando
si voltò anche l’infermiere lo stava guardando con
espressione
confusa.
Schiarì
la gola.
“Allora…
Allora vado…” si allontanò a testa
bassa, non aveva il coraggio
di voltarsi e guardare Sherlock.
“Oh
dimenticavo, non ho un telefono quindi dovete chiamare alla pensione
di Beth.”
“Non
si preoccupi dottore.”
“Ciao
Sherlock.”
Uscì.
________________________________________________________________________________________________________________________________________________________
__________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
Chiedo
umilmente perdono per non aver aggiornato oggi pomeriggio, ma non
c’è
l’ho proprio fatto, ero totalmente stanca mentalmente. Questi
ultimi tre giorni sono stati un delirio. Ho aperto il capitolo per
correggerlo tipo venti volte e non riuscito ad andare oltre due
righe, alla fine ho dovuto lasciar perdere. Per fortuna ora ci sono
riuscita. Mi dispiace davvero non aver rispettato i tempi.
Questo
è un capitolo molto intenso come sempre a farne le spese
è
Sherlock, ma prometto che ora andrà meglio per lui, John se
ne
prenderà cura.
Ci
si legge venerdì!
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Capitolo
25
Venerdì
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maggio
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Capitolo 25 *** Capitolo 25: ***
Capitolo
25:
***
Poter
passare l’intera giornata da solo con Rosie non succedeva da
un po’
di tempo. Quell’ultimo periodo era stato così
caotico e frenetico,
e ancora non sapeva come regolarsi. Doversi occupare di due persone
che dipendevano quasi totalmente da lui, era uno dei lavori
più
difficili che avesse mai fatto, ma non ne avrebbe fatto a meno per
nessun motivo al mondo. Aveva solo paura che sua figlia potesse
cresce da un giorno all’altro, e disprezzarlo per non averla
considerata abbastanza. Così una volta recuperata dalle
braccia di
Kirsty decise che l’avrebbe portata a fare una passeggiata,
anche
se faceva ancora freddo. Avevano entrambi bisogno di una boccata di
aria, e di vedere cose diverse. Assolutamente.
La
vestì per bene, con diversi strati di stoffa e in fine una
bella
giacca imbottita che la faceva tanto sembrare l’omino della
pubblicità degli pneumatici. Per fortuna la famiglia di Beth
era
sempre super disponibile e non ebbe alcuna difficoltà a
farsi
prestare un passeggino. Non se ne era portato dietro uno
perché lo
spazio in auto serviva alle cose più necessarie.
Dopo
averle infilato berretto e cappuccio, fatto un paio di giri di
sciarpa e i messi i guanti, la spinse fuori dal portone principale.
Non
aveva mai usato quella parte della struttura, dal momento che passava
sempre dal retro.
La
porta era massiccia in legno e con del vetro spesso e scuro al
centro, e dava su di un portico con colonne di legno massiccio e il
pavimento in piastrelle grezze. Ad entrambi i lati grandi vasi pieni
di fiori.
Spinse
il passeggino, e Rosie sembrava particolarmente eccitata per quella
novità, benché il freddo pungente.
L’area
era davvero molto bella, c’era tanto verde, una specie di
bosco, e
si sentiva anche dell’acqua scorrere, segno che doveva
esserci un
ruscello, o qualcosa di simile, da qualche parte.
Decise
di uscire dal cancello principale, dopo aver attraversato il
parcheggio, che faceva tutto il giro della struttura.
La
strada andava da entrambe le parti, così si
guardò attorno, per
decidere quale direzione prendere. Poi gli venne un idea.
Il
luogo era molto simile ad un villaggio di campagna. C’erano
muretti
che circondavano case e giardini con molto spazio a disposizione. Il
marciapiede era ampio e la strada larga, ma tutto era perfettamente
asfaltato. E poi ovunque si voltasse c’era verde.
Dopo
svariati metri, la strada finiva con un incrocio, tirò
dritto. Ora
era leggermente in pendenza, segno che stavano scendendo.
Più
in fondo si trovavano dei piccoli negozi e botteghe, c’era
anche il
panificio, che era ancora aperto. Decise di entrare e prendere
qualcosa da mangiare, il pane era fresco, e anche le altre cose. Non
è che fosse particolarmente fornito, ma quello che
c’era era più
che sufficiente.
Tornò
sui suoi passi, il sacchetto appeso al manubrio del passeggino, che
oscillava avanti e indietro, ogni tanto Rosie emetteva dei suoni e
dei gorgoglii, o delle frasi sconclusionate, segno che il giro le
stava piacendo.
Andarono
ancora più avanti. Non aveva la più pallida idea
di che ore
fossero, aveva deciso di lasciare l’orologio in albergo e
godersi
la passeggiata e il tempo con sua figlia.
Di
tanto in tanto passava qualche macchina, ma era tutto piuttosto
tranquillo, e non c’era nessuno in giro. Evidentemente faceva
troppo freddo, o erano ancora a casa per il post pranzo.
Poi
in lontananza lo vide, il colore azzurro del cielo, si scontrava con
il blu-grigio del mare.
Accelerò
il passo. Si sentiva già il suono delle onde, e
l’odore di
salsedine arrivava pungente alle narici.
Attraversò
la strada principale, che costeggiava la spiaggia.
C’era
una spaziosa pista ciclabile, il marciapiede era ancora più
ampio, e
delle scale arrivavano direttamente alla sabbia.
“Guarda
Rosie, il mare!”
Poi
si ricordò che effettivamente lei il mare non lo aveva mai
visto.
Andò
a slegarla dal passeggino. Era così eccitata e felice che si
dimenava come un pesce.
“Si
ora andiamo a vedere.”
Era
difficile tenerla in braccio, ma scese la breve scalinata.
Si
avvicinò il più possibile alle onde, che
s'infrangevano furiose
sulla battigia, stando bene attento a non andare in un punto dove
potesse bagnarsi.
“Guarda,
hai visto?”
Rosie
si dimenò nel tentativo di scendere, così la mise
giù, sulla
sabbia.
Lei
era così sconvolta da quella novità che
andò seduta, tra le manine
prese una manciata di granelli.
Anche
John si mise a sedere vicino a lei.
“Anche
a Sherlock piacerebbe essere qui. La prossima volta
c’è lo
portiamo. Che dici?”
Rosie
emise un gorgoglio, ma non era sicuro fosse una risposta,
perché era
troppo concentrata a giocare con la sabbia.
Restarono
lì per un po’. Finché non divenne
troppo freddo.
“Hai
fame? Andiamo a mangiare un po’ di pappa?”
Si
alzò e prese la bambina in braccio, che iniziò a
lamentarsi per
essere stata portata via da quel gioco così divertente.
“Torniamo
un altro giorno, te lo prometto.”
Tornarono
sul marciapiede, ovviamente in giro non c’era un anima e poi
era un
posto così tranquillo che nemmeno per un minuto temeva
qualcuno gli
avrebbe potuto portare via qualcosa.
Rimise
Rosie nel passeggino, legandola con la cintura, perché aveva
la
faccia di una che avrebbe tentato una fuga alla prima distrazione, e
si mise seduto sul muretto che divideva la strada dalla spiaggia.
Dovette
levare le scarpe a causa della sabbia e fece lo stesso con quelle di
Rosie.
Pranzarono
sempre seduti li. Un po’ di pane, formaggio morbido, un
po’ di
pollo affettato e un pomodoro. Ok non era stato chissà quale
pranzo
luculliano, ma bastava a recuperare le energie.
Si
assicurò di riordinare e pulire tutto perfettamente, e
riprese il
viaggio, o meglio, la camminata.
Questa
volta fecero un altro giro, andando più avanti, superando
delle
scogliere, la strada si trasformava in superstrada e proseguiva a
perdita d’occhio.
Ricordò
quel pezzo di strada perché era quello che aveva fatto con
la
signora McKennell quando era stato accompagnato a vedere la casa.
Ovviamente era troppo lontano per arrivarci a piedi, così
girò per
tornare su.
In
quella parte della città c’era molta campagna,
recinti e prati, e
ogni tanto con il vento si sentiva anche il suono di qualche animale
tipo mucca o pecora.
Tornarono
alla pensione che era già tardo pomeriggio.
“Allora
è stata bella la perlustrazione?” Beth si
avvicinò ma John la
zittì con un dito sulla bocca, e indicò il
passeggino. Rosie che
dormiva beata.
“Oh
scusa.” la donna parlò a bassa voce.
John
le si avvicinò per farsi sentire meglio.
“Si
tutto bene grazie. E’ veramente un posto
incantevole.”
“Grazie,
si i turisti adorano questa città, e soprattutto il mare,
nei
periodi estivi si riempie.”
“In
realtà non vedo l’ora che sia estate, Rosie adora
già la spiaggia
e voglio insegnarle a nuotare.”
“Ma
è magnifico! Ops.” la donna si portò
una mano alla bocca, ma per
fortuna la bambina non si svegliava nemmeno con le cannonate.
“Meglio
se la piccolina va a letto. Ti devo mandare Kirsty per una
mano?”
“No
grazie, oggi passiamo una giornata padre figlia.”
Beth
gli sorrise.
“Sei
davvero un bravo padre.”
“Oh,
ora non esagerare.”
“Non
sto esagerando.” gli diede una carezza sulla spalla come una
madre
amorevole con il proprio figlio.
John
le sorrise e si allontanò con il passeggino.
La
mattina la sveglia suonò all’alba
Si
preparò il più in fretta possibile,
svegliò Rosie, che ovviamente
protestò per essere stata disturbata così presto,
la vestì, e le
fece fare colazione. Voleva passare più tempo possibile con
lei,
prima di lasciarla a Kirsty.
Poi
prese la macchina e praticamente corse alla casa di riposo. Per
fortuna si era fatto fare tutti i permessi necessari così
non
dovette perdere tempo.
Passò
dallo stesso percorso fatto la volta precedente e andò
nell’ala
medica.
“Sherlock???”
spalancò la porta della stanza.
C’erano
i due infermieri che lo stavano lavando e sistemando.
I
tre si voltarono a guardarlo, stupiti.
“Scusate.”
John quasi si inchinò, faccia rossa dall’imbarazzo.
“Buongiorno
dottor Doyle.” fu Carl a salutare per primo.
“Ritorno
dopo.”
“Non
si preoccupi, abbiamo finito.”
I
due infermieri uscirono e si richiusero la porta alle spalle.
“Ti
vedo bene…” esordì John avvicinandosi
al letto.
“Hai
fatto presto. Pensavo saresti arrivato più tardi.”
Sherlock parve
quasi dispiaciuto, e a John diede fastidio quel atteggiamento.
“Perché?”
“Perché
pensavo avresti passato più tempo con tua figlia e per te
stesso.”
John
sbuffò dalle narici.
“Finiscila
Sherlock.”
“Perché?”
Ancora
con la storia dei ‘perché’, poteva
giurarlo, gli odiava, e solo
l’idea di passare quella fase anche con Rosie lo faceva
diventare
pazzo.
“Ho
passato tutto il tempo necessario con mia figlia, e con me
stesso.”
“Potevi
passarne un altro po’.”
Era
sul punto di mettergli le mani al collo e strangolarlo, ma decise di
prendere un bel respiro e contare fino a dieci.”
“E
io stupido che pensavo saresti stato contento di vedermi.” lo
aveva
detto come una battuta ma lo pensava per davvero.
“Ma
io sono felice di vederti.”
“Hai
uno strano modo di dimostrarlo.”
“E’
solo che…”
“E’
solo che, cosa?”
Sherlock
era seduto con la schiena appoggiata contro i cuscini e stava
tormentando con le dita, il lembo di lenzuolo che gli arrivava al
ventre.
“Non…
Non voglio essere egoista, passi già tutto il tempo con me,
a farmi
da dottore, infermiere, e qualunque altra cosa…”
A
Dio perché doveva fare così.
“Quante
volte devo ripetertelo che per me non è un peso?”
Sherlock
si voltò di scatto a guardarlo, e quasi ci rimase male a
causa
dell’intensità di quelle occhiata.
“Ma
lo è per me. Perché ti ho già chiesto
troppo, e tu continui… A
darmi tutto.”
“E
che altro ti aspetti che faccia? Sei il mio migliore amico. Sei la
persona a cui tengo di più. Ok la seconda persona a cui
tengo di
più, ma comunque non c’è ne sono altre
dopo.”
Ma
Sherlock non sembrava affatto contento di quella risposta.
“Non
è vero, ne hai altre.”
“Del
tipo?”
“Lestrade.
Lui è un tuo amico, di sicuro più di quanto lui
lo sia con me. La
signora Hudson.”
“Oh
Sherlock non è la stessa cosa.”
“Se
tu avessi trovato Lestrade mezzo morto in quel parcheggio…
Ora non
saresti qui.”
“Sherlock
per favore non puoi seriamente paragonarti a Lestrade, e non capisco
nemmeno perché ne stiamo parlando.
Si
può sapere che hai fatto ieri tutto il giorno, per essere
così
stamattina?”
Sherlock
si limitò a stringersi nelle spalle.
“Ho
pensato.”
Ecco,
era proprio quello il problema, quando Sherlock pensava, soprattutto
se pensava troppo, non poteva uscirne niente di buono, a meno che non
stessero indagando.
“Non
dovresti farlo.”
“Non
dovrei pensare?”
“Esattamente.”
“Cioè
dovrei abbassarmi l’intelligenza al livello di
Lestrade?”
“Finiscila.-
gli diede un piccolo colpetto sulla spalla. -Dovresti
ringraziarlo.”
“Per
cosa, essersi convinto che fossi morto?”
Okay
non è che avesse proprio tutti i torti.
“Guarda
che lo ero anche io.”
“Tu
ti sei fidato di quello che ti ha detto lui.”
D’accordo,
come faceva a saperlo?
“Sherlock…”
“Si?”
“Tu…
Tu ci sentivi? Quando eri nel parcheggio…”
In
quel momento sembrò quasi che si rendesse conto di aver
fatto uno
sbaglio, la sua faccia iniziò a tirarsi, e la mandibola a
stringersi.
“No.
Non mi ricordo niente. Me lo hanno detto.”
“Te
lo hanno detto? Chi?”
“Non
lo so, immagino Lestrade.”
Immagino…
Poteva anche essere plausibile che gli avesse raccontato come fossero
andate le cose. Probabilmente era stato un tentativo di rinfrescargli
la memoria.
“Che
cosa c’è nel sacchetto?”
Quel
repentino cambio di argomento lasciò John per un secondo
confuso,
poi capì quello a cui si riferisse Sherlock.
Sollevò il sacchetto
di plastica in questione e lo appoggiò sul vassoio sopra al
letto.
“Guardaci.”
Sherlock
guardò prima John, incuriosito, poi infilò una
mano all’interno
del sacchetto, e tirò fuori una scatola di media dimensione
con una
grande scritta ‘Monopoly’.
Si mise a ridere.
Era
da così tanto che non lo sentiva ridere in quel modo, che
senza
nemmeno accorgersene si era messo a sorridere come un idiota.
“Mi
prendi in giro? Il Monopoly?”
“Sì
grande campione, voglio vedere se sei davvero bravo in tutto, come
dici.”
“Ma
è un gioco per bambini, quanto mai vuoi che sia
difficile?”
“Disse
quello che a momenti non sa dove si trova
l’Australia.”
“So
benissimo dove si trova l’Australia!”
“Ah
si, e la Tasmania?”
Vide
chiaramente gli occhi di Sherlock riempirsi di terrore e la sua
espressione nel tentativo di cercare in fretta una risposta, che
ovviamente non sapeva.
Si
trattenne dal mettersi a ridergli in faccia, non sembrava carino
infierire sulle sue lacune, oltretutto volutamente cercate, dal
momento che Sherlock riteneva superfluo qualunque cosa non avesse a
che fare con metodi scientifici o di indagine.
“Dai
grande genio che non sa la geografia, apri la scatola e sistema le
pedine, almeno quello sai farlo, voglio sperare.”
Sherlock
lo guardò storto, ma trovò
quell’espressione estremamente buffa.
Intanto
che Sherlock sistemava il gioco da tavolo, controllò la
pompa del
drenaggio; aveva raccolto un po’ di liquidi, almeno questo
era
positivo. Il resto dei parametri sembrava essere a posto. La flebo
che gli avevano fatto durante la notte, a detta di Sherlock, era
stata sostituita prima dell’arrivo di John. Quindi tutto era
perfettamente come doveva essere.
Si
lasciò ricadere sulla poltrona accanto al letto.
Sherlock
aveva già finito di sistemare il tabellone del Monopoly.
“Pronto
a perdere dottore?”
Se
pensava di punzecchiarlo in quel modo sbagliava di grosso.
“Ti
servirà il navigatore per trovare Parco della
Vittoria.”
“Questa
era molto cattiva.”
“Ho
imparato dal migliore.”
Sherlock
a quelle parole gli sorrise, ovviamente John non poté fare a
meno di
sorridergli di rimando.
_______________________________________________________________________________________________
__________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
Capitolo
abbastanza introspettivo, sopratutto nella prima parte, in cui John e
Rosie passano del tempo insieme, mi pareva bello dedicare del tempo
anche a padre e figlia, anche lei merita un po’ di
attenzioni, così
ne ho approfittato anche per presentare la piccola cittadina dove
hanno decido di stabilirsi. Davvero non vedo l’ora che
arrivino i
capitoli con quei tre che vivono insieme!
Nella
seconda parte invece torna Sherlock, sembra stare già un
pochino
meglio. Per fortuna alla Casa di riposo lo trattano al meglio, anche
perché poi John chi lo sente. Mi è sembrata molto
carina questa
scena tra loro due, mentre giocano insieme, oltretutto ritorna fuori
il discorso di quello che è successo al
parcheggio…
Nel
prossimo capitolo riprenderò da qui e dico già
che ne ho
approfittato per infilarci un paio di cosette…
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Capitolo
26
Martedì
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Capitolo 26 *** Capitolo 26: ***
Capitolo
26:
***
Erano
nel bel mezzo di un intensissima sessione di Monopoly, che durava da
almeno mezz’ora.
“Allora,
me lo dici cosa hai fatto ieri o è un segreto di stato?
E
non dire ‘ho pensato’ o ti faccio ingoiare le
pedine.”
Sherlock
fece una smorfia con la bocca.
“In
realtà ho fatto qualcosa, non che ci fosse altro di meglio
da fare.”
“Vai
sono tutto orecchi.”
“Hai
presente quei due infermieri? Carl, e quell’altro di cui non
ricorderò mai il nome perché non mi
interessa?”
“Giuro
Sherlock, a volte il tuo tatto mi commuove.”
Sherlock
gli sorrise, per la terza volta in quella giornata, e John non poteva
che esserne più grato.
“Comunque,
ora so tutta la loro vita. Non che la cosa fosse di mio interesse, ma
se la gente parla in mia presenza, anche se fa finta che io non ci
sia, la ascolto.-
Era
così vero. Sherlock aveva quasi la capacità di
diventare
invisibile, il che era quasi assurdo visto la sua imponenza, ma per
qualche assurda ragione, la gente tendeva ad ignorarlo, e a parlare
liberamente, e Sherlock dal canto suo era molto bravo ad ascoltare
anche conversazioni in cui non lo riguardavano.
-Ad
ogni modo, hanno una tresca.”
John
a momenti rischiò di strozzarsi con la saliva andata di
traverso.
“C-cosa?”
doveva per forza aver capito male.
“Sono
imparentati. Uno dei due ha sposato la sorella dell’altro,
non da
tanto, credo un anno o due, ma ha una tresca con un altra donna che
lavora qui.”
“Aspetta,
e hanno litigato davanti a te? Però mi sembravano tranquilli
prima…”
“John
come sempre tu non ascolti e non fai attenzione. Quello con la tresca
scriveva in continuazione messaggi e sorrideva davanti al cellulare,
quando l’altro non c’era.”
“Ah.
E da lì hai capito che aveva una tresca.”
“Ovviamente.”
Certo
ovviamente, doveva essere stata facile la deduzione per lui.
Era
grato che Sherlock avesse trovato qualcosa con cui distrarsi, per
quanto impicciarsi delle tresche altrui fosse un passatempo
discutibile, almeno lo avevano distratto per un po’, e
sembrava
essere anche meno sofferente rispetto al giorno precedente. La
procedura medica che aveva subito doveva essere stata davvero
dolorosa per farlo crollare in quel modo. Aveva pregato che quella
fosse stata l’ultima, anche perché non credeva che
Sherlock
potesse sopportare altro.
“E
il cognato non lo sa.”
“Assolutamente
no. Però è interessante vedere fino a che punto
una persona può
arrivare a mentire ad un'altra persona a cui dice di tenere.”
Okay…
Ora era sicuro, c’è l’aveva con lui.
“Sherlock
devi dirmi qualcosa?”
Sherlock
si voltò a guardare John.
“Qualcosa?
Che cosa ti dovrei dire?”
“Dai,
tutta questa storia era per farmi capire che non ti fidi di me.-
La
cosa lo feriva molto. -Pensi che in qualche modo ti stia
ingannando.”
“No!
Sei pazzo? Come ti viene in mente di pensarlo! Pensi che ti avrei
seguito in questo modo se non mi fidassi di te?”
John
non riusciva a capire.
“Allora
perché quel discorso? Perché quel
‘è interessante vedere fino a
che punto una persona può arrivare a mentire ad un'altra
persona a
cui dice di tenere’.”
“Non-non
era riferito a te!”
“Ah
no?- ci credeva molto poco. -E a chi?”
Lo
vide stringere le labbra e strizzare le palpebre, come se qualcosa
gli desse fastidio agli occhi.
“A
me stesso.” lo disse sussurrando.
La
bocca di John si spalancò.
“Perché!”
La
porta si aprì e entrò il dottor Amos.
John
imprecò. Proprio un tempismo perfetto.
Il
povero anziano dottore si bloccò sulla soglia.
“Ho…
Ho interrotto qualcosa?” l’espressione costernata
dell’uomo
fece sentire John terribilmente in imbarazzo per quella parola appena
detta.
“No!
No assolutamente!”
Si
alzò subito.
“Mi
dispiace, sono davvero dispiaciuto.” il povero dottore
sembrava
così dispiaciuto di dare l’idea di voler scappare
a nascondersi.
“”Non
stavamo facendo assolutamente nulla di importante, vede.”
John
indicò il Monopoli, e sentì il vecchio medico
rilassarsi
leggermente.
“Capisco,
mi dispiace avervi distratti.”
John
sospirò.
“Volevo
solo assicurarmi che Sherlock fosse a posto.”
“E’
davvero gentile. Comunque si, mi sembra che vada un po’
meglio.
Glielo
faccio vedere.- accompagnò il collega dove si trovavano i
macchinari. -C’è già del liquido. Se
continua così, tra qualche
giorno avrà raccolto tutto.”
“Vedo,
vedo. E’ davvero magnifico, sono contento.
E
tu Sherlock come ti senti?”
Sherlock
si irrigidì un po’.
“Meglio.
Grazie. Siete molto efficienti qui.” rispondeva praticamente
a
monosillabi e senza mostrare nessuna emozione.
“Certo
la nostra è una casa di riposo molto rinomata
nonché una casa di
cura, e ci teniamo ad essere i migliori. E se hai bisogno di
qualunque cosa, o preoccupazioni, non esitare a chiedere.”
Sherlock
annuì. Il dottore sorrise, ancora in imbarazzo.
“Allora
se non avete bisogno di me, vado ad occuparmi dei miei
pazienti.”
Diede
delle piccole pacche sulla spalla di John e uscì.
Una
volta chiusa la porta John si schiarì la gola.
“Allora…
Pronto a perdere miseramente Holmes?”
Sherlock
tornò a sorridere.
“Ti
piacerebbe Watson.”
Passare
la mattinata con Sherlock e il pomeriggio con Rosie, non era male
come routine, soprattutto perché Sherlock sembrava stare
decisamente
meglio, a livello fisico. La tosse era calata, le analisi andavano
piuttosto bene, visto tutto sommato quello che aveva passato. Dagli
ultimi RX anche il polmone sembrava si stesse riprendendo bene, e il
liquido era diminuito.
Il
drenaggio poteva essere tolto tra qualche giorno. Cercava di fare
stare in piedi Sherlock per quello che era possibile, così
anche
l’attività motoria non sarebbe regredita. Il
detective doveva
poter usare le gambe, e doveva riprendere peso. Quindi anche la dieta
era importante.
Il
peggio ormai era passato.
John
era sicuro che presto Sherlock sarebbe stato in grado di tornare a
fare le cose da solo, e avrebbe potuto portarlo alla casa sulla
spiaggia. Aveva passato le ultime giornate ad andare a sistemarla,
pulire, aggiustare quello che non andava; persino la signora
McKennell era andata ad aiutarlo con la sistemazione, e per i lavori
che non riusciva a fare, aveva chiamato una sottospecie di tuttofare.
Sarebbero
stati bene, persino a Rosie sembrava piacere quel posto. Ovviamente
aveva messo tutto in sicurezza, a prova di bambino, e recintato
l’esterno.
Così
quella mattina, si sentiva particolarmente ottimista.
Quando
entrò nella stanza c’era sempre uno degli
infermieri che stava
sistemando Sherlock, cambiando le flebo di fisiologica e vitamine.
“Buongiorno
Carl.” salutò prima l’infermiere.
“Buongiorno
dottore. La vedo bene stamattina.”
“Oh
lo spero.”
Persino
Carl gli sorrise.
“E
spero che Sherlock non vi abbia fatto impazzire come al
solito.”
Sherlock
gli rifilò un occhiataccia.
“Assolutamente
no, se fossero tutti così i nostri pazienti.”
“Sicuro
di quello che dici?”
Carl
annuì.
“Non
si lamenta mai.”
Sì,
Sherlock difficilmente faceva uscire fuori quello che provava. Alcune
cose aveva anche provato a chiedergliele, ma come risposta ne
otteneva sempre un ‘sto bene’, o ‘va
tutto bene’.
Forse
un giorno si sarebbe aperto abbastanza da confidarsi con John, su
quello che lo tormentava, perché c’era qualcosa
che lo tormentava.
Un ombra nera che gli aleggiava intorno. Non era sicuro cosa fosse,
forse si sentiva ancora in colpa per la morte di Mary… Aveva
provato in tutti i modi a rassicurarlo, non c’è
l’aveva più con
lui; in realtà non c’è
l’aveva mai avuta con lui, era
semplicemente troppo arrabbiato in quel periodo, e aveva finito con
lo sfogarsi su Sherlock, e se ne sarebbe pentito fino alla fine dei
suoi giorni.
Ma
quell’alone di auto colpevolizzazione, era sempre nei suoi
occhi.
Un
giorno forse, con il tempo, sarebbe riuscito a fargliela andare via.
“Ha
ricevuto le lastre fatte ieri sera?” chiese Carl.
“Le
ho viste proprio prima di venire qui.”
Ora
Sherlock lo guardava tra il preoccupato, il confuso e il rassegnato.
Evidentemente non si aspettava buone notizie. Beh, sbagliava.
“Vanno
molto bene, anzi, penso proprio che prima del fine settimana si
potrà
togliere il drenaggio.”
Ora
sembrava quasi scioccato dalla notizia. Però ne era felice,
aveva
bisogno di qualche buona notizia.
“Mi
fa molto piacere dottore, e cosa farà dopo?” Carl
sembrava
sinceramente interessato.
“Visto
che è tutto a posto non c’è
più motivo di tenerlo qui, lo porto
a casa.”
L’infermiere
sembrava contento della risposta e Sherlock ancora incredulo.
“Vi
lascio a parlarne.” Carl uscì dalla stanza e si
richiuse la porta
alle spalle.
“Era
vero quello che hai detto?” a Sherlock era servito qualche
momento
per parlare.
“Pensi
che ti prenderei in giro sulla tua salute?”
“Ovviamente
no, però…”
John
sospirò.
“Però?”
“Mi
sembra così assurdo.”
“Ti
sembra assurdo essere guarito?”
Sherlock
annuì.
“Non
credevo avrei più lasciato un ospedale.”
“Prima
o poi sarebbe dovuto accadere.”
“Non
lo so, non mi sembrava così scontato uscirne.”
Andò
a sedersi accanto a lui sul letto, e Sherlock si spostò per
fargli
spazio.
“Lo
so che è stato un periodo molto lungo e molto brutto, ma ti
avevo
promesso che le cose sarebbero andate meglio. Vedrai, insieme
sistemeremo tutto.”
Gli
avvolse un braccio intorno alle spalle e lasciò che si
appoggiasse
con la testa contro al suo petto, Sherlock ovviamente non se lo fece
ripetere.
“Casa?”
parlò dopo qualche minuto di silenzio.
“Quella
sulla spiaggia. La sto sistemando, anche a Rosie piace.”
Annuì
e i ricci neri lo solleticarono sotto al mento.
“Quindi
vivremo davvero qui.”
“Sì
Sherlock.”
“E
tu lavorerai qui.”
“Quando
ci saremo sistemati per bene, si.”
“Secondo
te cosa dovrei fare?”
“In
che senso?”
“Dovrò
lavorare anche io…”
Giusto.
In effetti non ci aveva proprio pensato. Era convinto che si sarebbe
occupato di lui negli anni a venire.
“Giusto.
Uhm… Cosa vorresti fare?” badò bene a
non nominare la carriera
da detective visto che l’ultima volta era stato molto chiaro
a
riguardo, ma sperava che presto gli tornasse la passione.
“Io
non so fare niente…” lo sentì mormorare.
“Che
dici. Tu sai fare un sacco di cose.”
“Elencamele.”
John
sospirò.
“Sei
bravo con le cose scientifiche.”
“Non
ci lavori in un negozio con le nozioni scientifiche.”
“Autopsie?
Sei bravo con quello.”
“Non
sono un coroner. E niente cadaveri o cose che hanno a che fare con
cadaveri.”
John
sospirò per l’ennesima volta.
“Commesso?”
Sentì
Sherlock ridere contro il suo petto.
“Intendi
dire far fallire il negozio?”
“Oh
Sherlock.”
“Te
l’ho detto, non so fare niente.”
“Ma
non è vero! Uh! Potresti insegnare!”
Sherlock
tolse la testa.
“Dovrei
insegnare secondo te?”
“Sei
bravo in quello, a me hai insegnato un sacco di cose.”
“Tu
sei un uomo adulto e mediamente intelligente.”
“Grazie.”
“Non
credo di essere in grado di interagire con dei bambini, gli
terrorizzerei, e nessun genitore mi vorrebbe intorno ai suoi
figli.”
John
si passò una mano sul viso.
“Questa
è una cazzata. Rosie ti adora ad esempio.”
“Ha
solo un anno John, non capisce.”
“Non
c’entra niente, ti posso assicurare che se non gli piace
qualcuno
lo esprime molto bene.”
“Non
mi prenderebbe comunque nessuno.”
“Potresti
fare l’insegnante privato. Non è troppo
impegnativo e puoi
sceglierti i clienti.”
“Forse…”
Pensò
un ‘basta ci rinuncio.’ Quando faceva
così era impossibile
ragionarci.
“Hai
portato un altro sacchetto.”
Lo
aveva totalmente dimenticato.
“A
che si gioca oggi?- ovviamente Sherlock ormai aveva imparato, il
sacchetto era il segnale per un nuovo gioco da tavolo, dopo il
Monopoly ovviamente.
Sciolse
l’abbraccio e si piegò per prendere la scatola da
dentro il
sacchetto, la mise sulle gambe di Sherlock, che si mise a ridere.
-Vuoi giocare a Scarabeo contro di me?”
“Si
sapientone voglio giocare a Scarabeo contro di te.”
“Non
ti è bastato perdere a Monopoly.” lo stava
provocando.
“Perdere?
Chi è che avrebbe perso? Hai la memoria corta Holmes?
Perché io mi
ricordo un 2-2, e a casa mia si chiama pareggio.”
“Hai
pareggiato solo per la fortuna del principiante Watson, ero io in
vantaggio.”
“Si
e ti ho fregato con l’ultimo giro.”
“Visto,
lo ammetti anche tu che avrei vinto io.”
“Pure
Rosie ti avrebbe battuto.”
“E
hai deciso di portare un gioco in cui ti batterò
sicuramente?
Audace.”
John
a quelle parole gonfiò il petto.
“Pensi
di saperne più di me?”
“Sì,
come sempre.”
Sbruffone
presuntuoso.
“Ti
ricordo che sono un dottore, conosco parole di cui tu nemmeno sai
l’esistenza.”
Se
voleva la guerra…
“Io
so il latino.”
“Anche
io.”
“Bene.”
“Potremmo
renderlo più interessante.”
Le
labbra di Sherlock si dischiusero e comparve un'espressione di
stupore.
“Più
interessante?”
“Facciamo
una scommessa.- proseguì John. - Se vinco io, oltre a
potermi
vantare, farai quello che ti dico senza lamentarti.”
Sherlock
roteò gli occhi.
“Tutto
qui? E se vinco io?”
“Non
ti sei appena vantato di vincere sempre?”
“E
dai, così non è leale.”
“Ok,
ok. Che cosa vorresti?”
Sherlock
ci pensò un attimo.
“Posso
dirtelo quando vinco.” e sorrise affabile.
John
parcheggiò l’auto a lato della strada, poco
più sotto c’era il
sentiero che scendeva per la scogliera e che arrivava alla spiaggia.
“Allora,
sei pronto?” guardò alla sua sinistra. Lo sguardo
di Sherlock era
puntato sul mare. La giornata era limpida e le onde si infrangevano
ringhiando, contro il bagnasciuga, la schiuma provocata dal movimento
svolazzava in giro, come neve.
Il
detective annuì.
John
scese dalla macchina e fece il giro per andare a prendere Sherlock.
“Ti
aiuto.” Lo prese da sotto il braccio.
“Guarda
che so stare in piedi da solo.”
“Lo
so, ma dobbiamo scendere.”
Arrivarono
a bordo strada. Da lì partiva la stradina di ciottoli e
terra,
circondata di grossi massi che andavano giù a strapiombo.
Intorno
John aveva messo dei paletti con una grossa corda, in modo da poterla
usare come corrimano, così da rende la discesa
più sicura.
“Tieniti
stretto.”
Aspettò
che l’altro afferrasse la corda, e andarono giù.
La
casa si trovava poco più sotto, con il secondo piano a
livello della
strada, e l’entrata che dava sul mare.
Arrivarono
fino allo spiazzo, e aprì il cancelletto in legno. Aveva
fatto
mettere un recinto con cancello in modo che Rosie potesse andare
fuori senza il rischio di cadere di sotto. Ci aveva messo anche una
bella altalena e due panchine contro il lato della casa,a ridosso del
muro in pietra.
“Sembra
bella… Da fuori.”
“Sì,
lo è anche dentro, dai vieni.”
“Posso
camminare da solo ora…”
John
si accorse che lo stava tenendo stretto contro il fianco.
Lasciò
subito la presa.
“Scusa.”
lo disse con un certo imbarazzo e le guance accaldate. Colpa del sole
certamente.
Sherlock
andò verso l’entrata. La porta era stata
ritinteggiata di un bel
verde brillante, così come i contorni delle finestre.
Afferrò
la maniglia in ferro e la abbassò, il legno
cigolò, quasi come un
lamento, quando venne spinto.
“Per
questo non ho potuto farci molto, sai l’umidità
del mare. Anche se
ho cambiato tutti i cardini.”
C’era
un unico scalino prima di poter entrare. Le finestre erano tutte
aperte e passava una bella luce da esse, anche l’odore del
mare
aveva inondato la casa.
John
lo trovava molto gradevole e rilassante.
All’ingresso
c’era una parete con dei ganci per giacche e cappotti e una
seduta
dove togliere le scarpe. Lo aiutò a svestirsi.
“Vedi,
qui c’è la cucina, e quelle sono le scale che
portano alla zona
notte.”
Sulla
sinistra c'erano i banconi in legno con il ripiano in marmo e le loro
pensiline. Il lavandino si trovava sotto una delle finestre vista
mare.
Il
tavolo era stato sistemato sempre nella zona cucina, sembrava nuovo,
con quattro sedie ed un seggiolino.
La
scala si trovava davanti all’ingresso.
“Sembra
molto… Grazioso.”
Sherlock
si stava guardando attorno, ispezionando i vari spazi.
Arrivarono
al salotto, subito dietro la cucina, diviso da un basso muretto,
c’era il divano sistemato contro di esso, e di fronte ad esso
il
camino di pietra. Sulla parete di sinistra, sotto la finestra del
salotto, una poltrona di legno con la seduta e lo schienale di
stoffa. Un tavolino basso si trovava davanti al divano, e sotto un
tappeto tondo di lana a pelo lungo.
Sherlock
andò a sedersi sul divano.
“Che
cosa c’è lì?”
indicò la parete del sottoscala, dove si trovava
una porta dello stesso colore delle assi di legno scuro che lo
rivestivano.
“Una
specie di sgabuzzino. Allora? Pareri?” John sembrava eccitato
e
allo stesso tempo spaventato all’idea che a Sherlock potesse
non
piacere, o comunque trovarcisi male.
“No
sembra… Sembra bella, molto accogliente. Ho sempre
desiderato una
casa al mare, o in campagna.”
“Lo
so.- John andò a sederglisi vicino. -Vuoi vedere di
sopra?”
“Possiamo
andare dopo?” Sherlock appoggiò la testa sulla
spalla del dottore.
“Certo,
tutto quello che vuoi.”
“Dov’è
Rosie?”
“Con
la signora McKennell, la porta qui dopo.”
“L’hai
lasciata con quella donna?” Sherlock pareva sorpreso e un
po’
preoccupato dal tono di voce.
“Sì,
è una brava donna, mi ha aiutato a risistemare questo posto,
sa
quello che deve fare, e poi te l’ho detto, gestisce tutto lei
in
questo paesino.”
“Uhm…
Si, sono sicuro che tu capisca da solo di chi fidarti.” non
sembrava molto dal modo in cui lo aveva detto.
“Vedrai
quando verrà qui.”
“Non
lo so…”
“Non
lo sai?”
“Non
so se ho voglia di incontrare gente…”
John
rimase in silenzio per qualche secondo.
“Non
sei costretto se non vuoi.”
“Posso
non incontrarla?”
“Certo.
Non ti devi preoccupare se non te la senti.”
“Mi
mette a disagio conoscere altre persone.”
Gli
diede un bacio tra i capelli.
“Vuoi
una coperta? Hai freddo?”
“Hm…
Un po’ si, ma non voglio che tu te ne vada.”
“Allora
non me ne vado.”
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Note
d’autrice:
Chiedo
scusa se ieri ho saltato il giorno dell’aggiornamento, ma
sapevo
che sarei tornata tardi e non avrei mai fatto in tempo. Quindi ho
preferito rimandare direttamente. In compenso ho allungato un
po’
il capitolo. Avrei potuto farlo con il precedente, ma fa nulla, avrei
dovuto pensarci prima lol.
Finalmente
la casa sulla spiaggia! Sono estremamente felice di questa parte in
poi, ne succederanno delle belle. Ora sono loro tre da soli, basta
ospedali e tutto il resto.
E
manca la rivelazione di quello che è successo.
Arriverà prima di
quello che pensate… (piccolo spoiler :D)
Come
sempre aspetto pareri e congetture.
Ci
si legge alla prossima.
Sono
sia su Instagram che su
Facebook:
https://www.instagram.com/lady_norin/
https://www.facebook.com/ladynorin/
Aggiornamenti:
Capitolo
27
Venerdì
4
Giugno Ore: 15-16
|
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Capitolo 27 *** Capitolo 27: ***
Capitolo
27:
***
Salirono
al piano superiore, John aveva già messo a letto Rosie. Era
crollata
presto, dopo che aveva passato l’intera giornata a giocare, e
il
pomeriggio a scorrazzare
per casa, per lei c’era tutto un mondo nuovo da scoprire.
“Allora,
qual è la mia stanza?”
Sherlock
respirava con il fiato un po’ corto, tenendosi contro il muro
rivestito di pannelli di legno.
“La
tua stanza?”
“Devo
dormire sul pavimento?”
John
non ci aveva nemmeno pensato, si era abituato a dividere il letto
alla pensione. Arrossì.
“Ah
no ovviamente no. Scusa ma mi sono dimenticato di
prepararlo…”
“Non
importa, se mi dai le coperte…”
“No,
lascia stare. Faccio io. Tu va pure in bagno, ti ho messo il
pigiama.”
“Grazie.
Ehm… Dove devo andare?”
“Si,
giusto scusa. Vieni.”
La
porta era subito sulla sinistra, la aprì. Il bagno dentro
era
abbastanza grande, c’era una vasca che poteva essere
utilizzata
anche come doccia. Il lavandino era normale e con il ripiano che
prendeva tutta la parete, fino alla vasca, poi c’era lo
specchio e
un mobile nell’angolo, dietro la porta.
Dalla
parte opposta il servizio e un altro armadietto.
“Ti
serve aiuto per qualcosa?”
“No
non mi serve nulla.”
John
gli fece un timido sorriso e richiuse la porta.
Prese
tutto il necessario dal proprio armadio e andò a preparare
quello di
Sherlock. Non che ci fosse chi sa che nella stanza del detective.
John ci aveva messo un letto matrimoniale e un comò.
Un
po’ gli dispiaceva non averlo più accanto, ormai
si era abituato,
ma non poteva certo pretendere che passassero la vita a dormire
insieme. Era parecchio ridicolo come pensiero, anche prima avevano
delle stanze separate, e poi ci aveva dormito solo perché
non
c’erano altre stanze e perché doveva poterlo
controllare.
Quando
Sherlock tornò dal bagno, trovò John che gli
stava sistemando un
secondo strato di coperte.
“Non
ti sembra esagerato?”
“Devi
stare al caldo.”
Sherlock
si avvicinò per aiutarlo con la coperta.
“Hai
intenzione di continuare a fare il mio dottore?”
“Ma
io sono il tuo dottore.”
Sherlock
ridacchiò.
“Che
c’è ti fa ridere?”
“Tecnicamente
è ancora il dottor Lewis il mio dottore.”
John
si ricordò in quel momento del povero collega di Londra, che
gli
aveva dato così tanta fiducia.
“Oddio…
Spero che abbia ancora il suo lavoro.”
“Sono
sparito sotto la sua tutela, mio fratello lo avrà fatto
arrestare
come minimo.”
“Spero
di no!”
“Immagino
che non lo sapremo mai.”
“Mi
dispiace per lui… Si era fidato.”
“E
tu lo hai fregato.- concluse Sherlock. -Te lo avevo detto di lasciare
perdere.”
John
assunse uno sguardo duro.
“No.
Mi hai chiesto di aiutarti.”
“Stavo
delirando.”
“Ma
per favore.”
“Non
si da retta ai matti, dovresti saperlo.”
Ora
aveva voglia di prenderlo a schiaffi.
“Vai
a letto per favore.”
“Stai
cambiando argomento?”
“Ti
sto mandando a letto.”
“Guarda
che non sono tua figlia non puoi mandarmi a letto.”
“No
infatti lei a letto ci è già andata da un pezzo,
tu sei peggio.”
“Allora
non trattarmi come un bambino.”
“Ti
tratto da bambino se ti comporti come tale. Vuoi che ti legga una
favola per addormentarti?”
Ricevere
l’occhiataccia di Sherlock, ne valeva la pena.
“Buonanotte
John.” scostò le coperte con movimenti secchi, e
si infilò sotto.
“Vuoi
che te le rimbocchi?”
“Va
al diavolo!”
Sghignazzò
e spense la luce.
“Notte
Sherlock.”
Ma
non ricevette risposta.
La
mattina John si era svegliato un po’ più tardi,
tutti nella casa
dormivano ancora, ma andò a svegliare Rosie e la
portò di sotto,
poi si mise a preparare la colazione, voleva festeggiare la prima
notte nella nuova casa e preparare un bel pasto abbondante. Fece i
pancake per Rosie, che gli adorava, e altre cose salate tipo le uova,
per sé e per Sherlock. Era nel bel mezzo della cottura del
bacon,
quando sentì le scale scricchiolare, si voltò
verso di esse.
“Ehi,
dormito bene?”
Sherlock
se ne stava in piedi, sull’ultimo gradino.
“Ah…
Si.”
Scese
e andò al tavolo in cucina.
“Ti
aiuto.”
“Non
serve, dai siediti.”
“Ma
hai cucinato per un esercito?”
La
piccola tavola della cucina era piena di piatti e caraffe, tra
té,
caffè e latte.
“Volevo
inaugurare per bene la casa.”
“Ehi
ciao.” Sherlock andò a salutare Rosie con un bacio
sulla
testolina, lei allungò subito le manine nella sua direzione.
“Sì
è da un po’ che non ci vediamo, ti trovo
bene.”
“Dalle
la tazza che c’è lì per favore. Quella
con il beccuccio.”
“Intendi
questa a fiori con il tappo fuxia?”
“Proprio
quella.”
La
prese e la avvicinò alle mani della bambina, che la
afferrò subito
per i manici, iniziando a scuoterla con forza.
“No
no, devi bere, non scuoterla come una maracas.”
“Ehm
si, sta attento che non butti tutto in giro per favore.”
“Ci
sto provando…” ma ogni volta che si avvicinava un
po’ troppo
rischiava di prendersi la tazza in faccia.
“Distraila.”
“C-come
dovrei fare a distrarla?”
“Con
qualunque cosa.”
Sherlock
si guardò in giro in preda alla disperazione, per fortuna
gettato
sul tavolo, tra il resto dei piatti, c’era un pupazzetto. Lo
prese,
non capiva bene che esemplare dovesse riprodurre, ma si
accontentò.
“Guarda
qui Rosie. Guarda questa cosa, qualunque cosa sia.”
Glielo
sventolò davanti, e parve funzionare perché lei
mollò la tazza,
che cadde sul vassoio del seggiolone, e afferrò il nuovo
giocattolo.
Sherlock
sospirò.
“Come
fai a farla mangiare?”
“Te
l’ho detto, distraendola.”
“Ma
adesso si sta mangiando questa… cosa…”
“E
tu dalle la tazza.”
Con
espressione poco convinta avvicinò la tazza alla bocca della
bambina, che incredibilmente iniziò a tirare per bere,
quindi
afferrato il meccanismo inclinò abbastanza
l’oggetto in modo che
scendesse il liquido.
“Sta
bevendo!”
“Bene
ma cerca di non farla bere troppo in fretta o starà
male.”
A
quelle parole gli prese il panico.
“Non…
Non credo che dovrei farlo io.”
Per
fortuna arrivò John in soccorso.
“Stai
andando alla grande.”
Inclinò
la tazza in modo che fosse posizionata nel modo giusto e il liquido
uscisse nella giusta quantità.
“Vedi,
è semplice. Sbagliando si impara.- diede una pacca sulla
spalla a
Sherlock, che sobbalzò a quel contatto. -Scusa.”
“Non
voglio farle male.”
“Non
le fai male.- Ma lui continuava a sembrare terrorizzato. -Dai mangia.
C’è qualunque cosa tu voglia.”
John
si mise seduto su una delle sedie della tavola, Sherlock era seduto
al lato opposto, quindi poteva vederlo bene. Solo allora si accorse
dei segni scuri che segnavano le occhiaie.
“Ti
servono energie.”
Gli
riempì il piatto.
“Non
ho molta fame.”
“Ordini
del dottore.”
Sherlock
guardò il piatto con poca convinzione.
“Vedi
che se mangi poi lo fa anche lei. Prova.”
Sherlock
ora era ancora meno convinto ma prese una bella forchettata.
“Uh.”
“Che
c’è?”
“E’-è
buono. Non ero più abituato a piatti normali, con del
sapore.”
finì con il mangiare tutto quello che c’era nel
piatto. John si
sentiva molto soddisfatto del risultato.
“Penso
tu abbia davvero fatto da mangiare per un esercito.” Sherlock
si
era buttato sul divano e stava guardando Rosie giocare sul tappeto
del salotto, il tavolino era stato spostato.
“Sei
ancora pieno da stamattina?”
“Quello
era un brunch non una colazione. Credo di non esserci più
abituato.”
“Si,
forse ho un po’ esagerato, spero che tu non ti senta
male.”
“Per
ora sto alla grande, solo non credo mi alzerò da qui molto
presto.”
“Dillo
se ti serve qualcosa”
“Ti
aiuto a sistemare.”
“No,
guarda lei per favore.”
“D’accordo.”
Rosie
era tutta occupata a tirare fuori ogni giocattolo dalle varie scatole
e disseminarlo in giro.
Prese
i cubi e gli sparse in un angolo, le bambole erano state disposte una
a fianco all’altra, ora era il turno del servizio da
té. Prese una
tazzina, ma invece di andarla a mettere con la teiera la
portò a
Sherlock, iniziò a sventolare il giocattolo.
“Ah,
sì è molto bello.”
“Lo
devi prendere.” la voce di John arrivò dalla
cucina, mentre stava
asciugando un piatto con uno strofinaccio.
“Oh..”
Sherlock allungò una mano e la bambina mise la piccola tazza
sul suo
palmo.
“Grazie.
Mi stai offrendo il té?- finse di bere. -E’
davvero buono, ci
voleva proprio.”
Rosie
sembrò soddisfatta e tornò dagli scatoloni.
Dopo
un po’ prese una specie di valigetta di plastica con i manici
fatti
di perline.
“Che
cos’hai trovato?” chiese Sherlock. La bambina gli
si avvicinò,
alzando la valigetta, il detective la prese e la aprì, Rosie
ci
infilò subito le manine. Tirò fuori un piccolo
stetoscopio,
ovviamente era tutto di plastica e di diverse tonalità di
rosa, e
altri colori accesi.
“Capisco,
l’ha comprato tuo padre non è vero?”
Rosie
si aggrappò ai pantaloni di Sherlock, tirandoli nel
tentativo di
salire.
“Aspetta.”
Sherlock la tirò su di peso e la sistemò accanto,
ma lei si
arrampicò sulle sue gambe.
“Che
hai intenzione di fare?”
Rosie
che ovviamente non parlava, non solo perché era una bambina
di poco
più di un anno, aveva anche la bocca occupata dal ciuccio.
Lo lasciò
cadere, lasciando che penzolasse con la catenina appuntata al
maglioncino, e mise in bocca il secondo ciuccio, che teneva
nell’altra mano.
Sherlock
continuava ad osservarla, non riuscendo a capire il perché
di quelle
azioni.
Ora
che aveva entrambe le mani libere era tutto molto più
facile; prese
lo stetoscopio e mise la parte rigida come se fosse una collana, poi
prese la parte c’era un tubicino di plastica morbida e poi
alla
fine una altro pezzo di plastica tonda e rigida. Prese
quell’ultima
parte e la appoggiò al centro del petto di Sherlock.
“Credo
che qui tu faccia un po’ fatica a sentire qualcosa, aspetta.-
delicatamente spostò il tondo di plastica nel punto esatto,
sopra al
cuore. -Visto?” Rosie si agitò tutta eccitata, poi
tornò a
cercare nella valigetta, tirò fuori una specie di termometro.
Le
sopracciglia di Sherlock si unirono in un'espressione corrucciata,
trovandosi con il pezzo di plastica in bocca. Mugolò
qualcosa, non
aveva esattamente un buon sapore.
“Sherlock?”
la voce di John gli arrivò da dietro le spalle.
“Hm?”
“Guarda
che non devi per forza fargli da cavia.”
Come
risposta alzò le spalle. La bambina si riprese il termometro
finto
per controllarlo. Intanto che era distratta, Sherlock ne
approfittò
per pulire la bocca con il dorso della mano.
“Dico
davvero, non devi farlo per forza.”
“Non
lo sto facendo per forza.”
“Ma
non sei tenuto… Cioè intendo che non ti devi
sentire tenuto a
farlo per farmi un favore.”
Sherlock
girò la testa di lato, dal momento che John era in cucina,
dal
divano non riusciva a vederlo.
“Davvero
pensi questo? Lei non c’entra nulla con noi due…
Con la nostra
situazione.”
“No
è solo che ti conosco.”
“Non
serve che ti preoccupi, non è un fastidio né un
dovere.”
“Lo
so ma dicevi sempre che i bambini non ti piacciono.”
“E’
diverso.”
“Perché?”
“Perché
è figlia tua.”
La
risposta lo lasciò un po’ spiazzato.
“Questo
cosa c’entra? Potrebbe essere figlia di chiunque
altro.”
“No.
Tu non cresceresti mai una specie di scimmia urlatrice.”
Ok
forse era un'opinione un po’ forte, ma lo conosceva troppo
bene per
non capire a cosa si riferisse. Non sopportava chiunque si
comportasse in modo maleducato e senza giudizio, e spesso e
volentieri alcuni genitori non si preoccupavano di nulla, tanto meno
del comportamento dei propri figli.
“D’accordo
ma non ti fare maltrattare. Se esagera fermala. Capito?”
Sherlock
annuì.
Nel
frattempo Rosie aveva sparso il contenuto della valigetta li intorno.
“Posso
aiutarti? Cosa stai cercando? Sono bravo a trovare le cose,
sai?”
ma appena provò a muoversi ricevette una piccola mano
sventolante
davanti alla faccia, e dei mugolii simili ad un lamento arrabbiato.
“Scusa,
scusa, non mi muovo.”
Nel
frattempo la piccola gli aveva preso un braccio e cercava di tirargli
su la manica.
“Che
cosa devi fare con il mio braccio?” tirò su la
manica, ma sulla
pelle c’erano ancora i lividi degli aghi causati dal lungo
periodo
in ospedale e alla casa di riposo.
Poi
Rosie prese una piccola siringa giocattolo, per una finta iniezione.
“Ehi
grazie, adesso si che mi sento meglio.”
Lei
sembrava davvero soddisfatta del risultato e gli si
accoccolò contro
al petto, Sherlock rimase interdetto, senza muovere un muscolo, si
era messa a giocherellare con la sua mano.
John,
che era arrivato da dietro il divano e aveva visto la scena, si
schiarì la voce. Sherlock sobbalzò.
“Oh
scusa.”
“N-no
non ti avevi sentito.”
“Mi
sa che per qualcuno è l’ora di un
sonnellino.”
“Non
ho sonno.”
John
rise.
“Non
tu.”
“Ah.”
John
fece il giro, si piegò in avanti in modo di poter parlare
con la
figlia.
“Andiamo
a fare la nanna?”
Rosie
si era tutto appallottolata e usava il braccio di Sherlock come
cuscino.
“Su
andiamo.”
La
prese in braccio, lei protestò un po’ ma poi si
accoccolò contro
la spalla del padre.
“La
porto su, torno subito.”
“Metto
io a posto qui.”
“Non
serve, non voglio che ti affatichi.”
“Devo
solo mettere via dei giocattoli, non pulire casa.”
John
sospirò.
“D’accordo,
ma fa attenzione.”
Sherlock
sospirò esasperato.
“Sì
mamma.”
“Ehi!”
Ridacchiò.
“Hai
iniziato tu. E comunque lei è molto più brava di
te come
dottoressa.”
“Ah
si eh? Allora la prossima volta fatti curare da lei.”
Sherlock
sorrise, la cicatrice sul labbro si contrasse.
“E’
quello che ho appena fatto.”
“Bella
famiglia, complottate contro di me vedo.”
“Magari
vogliamo farti fuori.”
“Ah
si è così? Vuoi fare fuori
papà?” mentre lo diceva alla figlia
la faceva dondolare, ma lei ormai era quasi addormentata, le diede un
bacio tra i capelli.
“Da
la buona notte a Sherlock.” le mosse la manina e
salì le scale.
Quando
una ventina di minuti dopo tornò di sotto, era
già tutto in ordine.
“Hai
già sistemato tutto.”
Sherlock
era piegato a raccattare le bambole da terra, quando si
rialzò si
piegò gemendo dal dolore, tenendosi un punto sul fianco.
“Ehi,
ehi!” John subito corse da lui.
“Non
è niente, penso di aver fatto un movimento
sbagliato.”
“Fammi
vedere!” il dottore aveva già un tono apprensivo.
“John
non è niente, solo… Il fianco.”
Ma
John non voleva sentire ragioni e gli sollevò la maglietta.
Non
c’erano segni visibili, ma quando toccò un punto
sopra le costole,
Sherlock sobbalzò.
“Mi
dispiace. Deve essere una delle costole. Forse si è
contratto
qualcosa.”
“Non…
Non si sono rotte di nuovo vero?”
“No,
no, ma devi metterti seduto e non fare troppi movimenti.”
Sherlock
sembrava abbattuto, ma fece come gli era stato detto.
“Oggi
pomeriggio vediamo di fare una bella passeggiata.”
“Hai
appena detto che non mi devo muovere.”
“Ho
detto che non devi fare troppi movimenti, non che devi poltrire tutto
il giorno.”
“Sei
tu che dai gli ordini. Io eseguo.”
“Come
no.”
“Perché
non lo faccio sempre?”
“Mi
prendi in giro Sherlock? Sei la persona meno propensa ad eseguire
degli ordini che abbia mai conosciuto in vita mia.”
“Esagerato.”
“Dimmi
una volta che lo hai fatto.”
“L’ho
appena fatto.”
“Da
quando ci conosciamo.”
Sherlock
lo guardò con uno sguardo da cerbiatto.
“Appunto.”
John
andò a sedersi sul divano, accanto a Sherlock, che gli si
appoggiò
con la testa sulla spalla, sfregò la guancia tra i suoi
ricci neri,
erano così soffici, non poté fare a meno di
sospirare. In fondo
poteva abituarsi a quella vita. Certo era un po’ stupido fare
previsioni dopo non appena due giorni, ma vivere solo con Sherlock e
Rosie non gli dispiaceva così tanto.
_______________________________________________________________________________________________
__________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
I
nostri testoni preferiti sono finalmente soli, nella casa al mare.
Ormai non hanno più scuse, prima o poi dovranno tirare fuori
tutto,
sentimenti repressi e tutto il resto. Però per ora si godono
tranquillità e un po’ di vita di
famiglia…
E
io ora devo trovare il modo di usare Rosie (usare che brutta parola),
ma spero non sia troppo strano, ci tengo a ribadire che con i bambini
sono negata ed è la prima volta che gli utilizzo in una
storia.
Meglio di così non so fare.
E
come sempre aspetto pareri <3
Sono
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Capitolo
28
Lunedì
7 giugno
Ore: 15-16
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Capitolo 28 *** Capitolo 28: ***
Capitolo
28:
***
Il
pomeriggio Kirsty era venuta a prendere Rosie, così per John
da
poterne approfittare e far fare un po’ di fisioterapia a
Sherlock.
Erano
scesi giù alla spiaggia.
“C’è
la fai?”
Sherlock
annuì ma sembrava uno che aveva appena finito la maratona di
New
York.
“Dai
respira. Prendi un bel respiro, e poi rilascia
l’aria.” l’altro
eseguì quello che gli era stato detto.
Cercò
di fargli muovere spalle a braccia, e la schiena, ma si vedeva che
quei gesti gli creavano sofferenza, a causa di tutto quello che aveva
passato, e i mesi fermo in ospedale. Per quanto avessero cercato di
non renderlo completamente atrofizzato.
“Vedrai
che il tuo corpo tornerà come prima, ma devi
impegnarti.”
Sherlock
annuì.
“Dì
qualcosa.”
“Non
tornerò mai come prima John.”
“Adesso
fai il drammatico. Non dico che sarà facile.”
“John…”
“Che
c’è vuoi lasciar perdere tutto? E’
questo che vuoi? Arrenderti e
basta?”
“No
ma…”
“Allora
avanti, al lavoro.”
Sherlock
lo guardò rattristato ma riprese i suoi esercizi.
Doveva
aiutarlo in qualche modo, non sapeva ancora come. Se Sherlock per
primo non decideva di aprirsi, non poteva costringerlo, ma era ovvio
che ci fosse qualcosa che non andava, qualcosa che non gli aveva
detto, e non sapeva come tirarglielo fuori. Non poteva forzarlo o non
gli avrebbe mai detto più nulla, doveva trovare qualcosa su
cui fare
leva. Per qualche motivo, ne era convinto, Sherlock non si fidava,
Sherlock non si fidava, e non poteva nemmeno biasimarlo. Dopo quello
che gli aveva fatto, aveva già distrutto la sua fiducia, e
poteva
dare la colpa solo a se stesso. Ma ormai il danno era fatto e non si
poteva tornare indietro. Poteva solo cercare di rimediare, per quello
che poteva.
Passarono
un paio d’ore sulla spiaggia, a fare il resto degli esercizi.
Rosie
era già crollata dal sonno, giusto il tempo di cenare, e
l’aveva
messa subito a letto.
In
quella casa non c’erano televisione né computer,
ma John per
fortuna aveva portato dietro un po’ di libri. Sherlock ne
stava già
leggendo uno.
Andò
a sedersi dall’altro lato del divano, con un libro che aveva
preso
a caso da uno degli scatoloni.
Nella
casa c’era assoluto silenzio, solo i loro respiri come rumore
di
sottofondo, ogni tanto interrotto da una pagina girata.
Nel
camino la legna scoppiettava e scricchiolava, rendendo
l’ambiente
caldo e confortevole.
“Hai
freddo? Vuoi un'altra coperta?” chiese John dopo un
po’, senza
nemmeno alzare gli occhi dalla pagina del libro. In realtà
non lo
stava nemmeno davvero leggendo, tanto che ancora non aveva capito il
senso della trama, gli serviva solo come scusa, per lanciare occhiate
di sottecchi alla presenza alla sua sinistra.
Sherlock
sembrava così assorto. Poteva vedere il lato del suo volto,
quei
lineamenti perfetti, che sembravano sempre in tensione, la bocca
tirata in una linea. Quell’ombra che gli aleggiava intorno.
Avrebbe
dato qualunque cosa per leggergli nel pensiero e scoprire cosa lo
tormentasse tanto.
“No
grazie, sto bene così.” rispose Sherlock con tono
asciutto.
Nemmeno lui aveva sollevato gli occhi dal libro.
In
realtà John non aveva idea di come attaccare bottone con lui.
Insomma
avevano vissuto insieme per anni, e non sapeva più come
parlargli.
Beh d’altro canto non c’erano così tanti
argomenti di cui
potessero parlare. Il passato era bandito, quello che era successo in
quel parcheggio ancora di più, non avevano più
indagini da svolgere
insieme. Solo in quel momento John giunse ad una terribile
conclusione: non avevano nulla in comune.
Il
terrore lo assalì. Come avevano fatto ad andare
così d’accordo
per tutti quegli anni? Dal momento in cui lo aveva conosciuto non era
più riuscito a stargli alla larga. C’era qualcosa
in Sherlock che
lo attirava come un ape al miele. Ma il problema che non aveva
più
la vaga idea di cosa fosse. Un tempo credeva che fosse per la sua
intelligenza, la sua abilità nel risolvere casi quasi
impossibili e
per il modo che aveva di leggere le persone. Lo trovava tremendamente
affascinante.
Ma
ora? Ora Sherlock era una persona totalmente diversa, lo aveva detto
lui stesso. Non sarebbe più stato il vecchio Sherlock.
Quindi che
cosa aveva in comune con questo Sherlock?
L’ansia
gli serpeggiò giù per lo stomaco. Non conosceva
questa persona. E
pure poteva giurarlo, il vecchio Sherlock era ancora lì. Ma
il modo
in cui ora aveva bisogno delle sue attenzioni e delle sue cure.
Questo Sherlock non poteva sopravvivere da solo.
“Qualcosa
non va?”
John
si destò da quei pensieri oscuri e si trovò ad
annegare in due
iridi azzurre.
Sperò
che il suo volto non mostrasse i suoi pensieri.
“No.
Assolutamente.”
Sherlock
lo guardò in modo strano per un attimo, ma tornò
al suo libro.
John
deglutì, la gola era secca come se avesse ingoiato della
sabbia.
Posò
il libro e si alzò.
“Vuoi
dell’acqua?”
“No,
grazie.”
“Dovresti
bere…”
Sherlock
sospirò.
“D’accordo.”
John
cercò di mantenere una postura normale, anche se ogni
muscolo era
rigido e teso. Andò in cucina e prese due bicchieri, gli
riempì di
acqua fresca direttamente dal rubinetto, e tornò sul divano,
allungò
uno dei due bicchieri a Sherlock, che lo prese e bevve un sorso. Non
poteva fare a meno di fissargli le labbra, il modo in cui toccavano
il vetro, in cui la cicatrice strofinava contro quella superficie
liscia e fredda.
Una
parte sul retro del cervello di John formicolò.
“Ho
qualcosa che non va?”
“Come?”
chiese John totalmente confuso.
“Mi
stai guardando in modo strano.”
“Uh,
ehm, no no.- stava balbettando. La doveva smettere di sembrare
così
stupido. -Mi ero incantato, scusa.”
“Sicuro
che non devi dirmi niente?”
“Cosa
dovrei dirti?”
“Se
non lo sai tu John… -Sherlock chiuse il libro. -Credo che
andrò a
letto.”
“Davvero
non c’è niente che non va, non te ne
andare.”
“Lo
so, ma sono stanco. Scusa.”
Quando
Sherlock gli passò accanto lo sfiorò, e il
profumo lo colpì alle
narici forte come uno schiaffo in faccia, tanto da lasciarlo
abbagliato. A momenti non sentì nemmeno il
‘buonanotte’, che gli
diede Sherlock prima di salire le scale.
“Aspetta!”
John quasi lo urlò, l’altro si
immobilizzò all’istante.
“Ti
vengo ad aiutare a fare il letto.”
“John
non mi serve, so farmi il letto da quando ho 5 anni.”
“Oh.
Ma sì certo.- tornò ad appoggiarsi con la schiena
contro i cuscini
del divano. -Buonanotte allora.”
Sherlock
riprese a salire le scale.
Quella
casa era quasi tutta in legno; poteva sentire le assi che
scricchiolavano ad ogni passo, la porta che veniva aperta e richiusa.
Sospirò,
ma ormai non riusciva più a leggere una parola, nulla aveva
senso.
Richiuse il libro con uno scatto e lo buttò sul tavolino,
poi si
alzò, e dopo aver spento il camino e le luci,
andò al piano
superiore.
Sherlock
aveva chiuso la porta. Rimase un attimo in piedi, a domandarsi sul da
farsi, poi decise di avvicinarsi. Cercò di fare il
più piano
possibile, ma quel dannato pavimento non aiutava. Mise una mano sulla
maniglia, e lentamente la abbassò, con un cigolio
aprì molto
lentamente la porta, la stanza era completamente al buio, quindi
cercò di non aprirla troppo, giusto per fare in modo che
passasse
solo un fascio di luce dal corridoio.
“Sherlock?”
lo chiamò sottovoce, ma non ricevette alcuna risposta.
Possibile
che stesse già dormendo?
Aguzzò
le orecchie. Effettivamente ora che si stava concentrando sui suoni,
poteva sentire il respiro pesante di Sherlock, ogni tanto ancora
frammentato da qualche rantolo. Quindi si, stava decisamente
dormendo.
Lasciò
la porta così, in modo che non fosse del tutto chiusa, e
andò in
bagno a sistemarsi e cambiarsi, poi spense tutte le luci e
andò in
camera, si assicurò che anche la sua porta rimanesse semi
aperta,
doveva assolutamente essere in grado di sentire Rosie in caso si
fosse svegliata, e Sherlock.
Una
volta sotto le coperte il sonno lo raggiunse quasi subito, per
fortuna quella non era una di quelle notte in cui si tormentava.
Non
si trovava esattamente in un sonno profondo, in realtà era
come se
il suo cervello avesse una lucetta ad intermittenza ancora accesa,
mentre il resto era tutto spento. La lucetta stava registrando
qualcosa, ma il resto non lo capiva.
Che
segnale doveva essere? La lucetta per qualche ragione continuava a
ripetergli che c’era un'emergenza. Pensò che fosse
assurdo,
emergenza di cosa? Non erano in guerra. La lucetta gli ripeteva di
svegliarsi, qualcosa non andava.
Continuava
con un ‘svegliati, svegliati, svegliati’, ma in
realtà non ne
aveva proprio voglia, anzi, era nel mondo dei sogni e voleva
restarci. Poi fu come ricevere una scarica elettrica.
Saltò
praticamente a sedere sul letto, il cuore martellava furioso.
C’era
qualcosa che non andava. Sentì dei rumori in lontananza,
erano quasi
ovattati. Le orecchie gli ronzavano perché ancora non era
del tutto
sveglio e il cervello doveva abituarsi; quello stesso cervello che
gli urlò un ‘ROSIE’.
Balzò
giù dal letto come se stesse suonando la carica del mattino
nel
campo dell’esercito. Rischiò quasi di cadere a
causa delle
coperte, cercò di liberarsi e corse nel corridoio, non aveva
acceso
nemmeno la luce, ma una volta arrivato a metà si accorse che
non
c’era alcun suono proveniente dalla cameretta della bambina.
Rimase
immobile, interdetto.
Che
cosa c’era che non andava? Poi un suono soffocato.
Finalmente
se ne rese conto.
Spalancò
la porta della stanza dove dormiva Sherlock, e accese la luce.
Trovò
Sherlock piegato in due, e stava vomitando, ma sembrava stesse avendo
qualche difficoltà, come se dovesse uscire qualcosa di
grosso dalla
gola.
Corse
da lui.
“Dio,
Sherlock!”
Sherlock
sputò non po’ di saliva e tossì in modo
quasi convulsivo.
Merda
non di nuovo. Pensò John che non poteva trattarsi di nuovo
dei
polmoni.
Sherlock
stava tremando e ansimava. John lo prese stretto tra le braccia.
“Ehi,
ehi. Sono qui.”
Non
poteva aiutarlo se prima non si calmava. Respirava come qualcuno con
un attacco d’asma.
“Guardami
Sherlock.” gli prese il volto con le mani, ma il modo in cui
era
ridotto fu terribile da vedere. Sembrava terrorizzato a morte.
Lo
fece appoggiare contro la sua spalla.
“Va
tutto bene, devi fare dei bei respiri ok? Segui me.”
Riempì
i polmoni d’aria, e la rilasciò più
lentamente, dalle labbra
dischiuse.
Sherlock
gli si era aggrappato addosso, le dita gli stavano artigliando la
spalla e la schiena.
“Sherlock,
devi ascoltarmi.” usò un tono deciso ma non rude,
per poi ripetere
l’operazione di respirazione.
Sherlock
sembrò provarci, ma il respiro che ne uscì fu un
rantolo strozzato.
John
ripeté l’esercizio, e anche Sherlock,
andò un po’ meglio
rispetto a prima.
Così
il dottore rifece l’esercizio alcune volte.
Non
sapeva di preciso quanti minuti fossero passati ma ora Sherlock
sembrava respirare un po’ meglio, ancora tremava, ma almeno
non
stava più ansimando.
Lo
massaggiò con ampi movimenti lungo la schiena. Poteva ancora
sentire
le costole e la spina dorsale che sporgevano da sotto la pelle.
Fece
spostare Sherlock dalla sua spalla, lo sguardo era ancora
terrorizzato.
“Devo
andare giù a prendere la mia valigetta, ti lascio un
momento, ok? Tu
sta buono seduto qui.”
Sherlock
lo strinse con braccia.
“Ci
metto un secondo giuro.”
Sherlock
lo fissava con il terrore negli occhi. Era uno strazio.
John
sospirò.
“D’accordo
non mi muovo, resto qui. Perché non mi dici
cos’è successo?”
Sherlock
voltò la testa e fissò un punto non ben precisato.
“Dai
dimmi qualcosa.”
Sherlock
scosse la testa, tutto il suo viso si era accartocciato in una specie
di smorfia di disagio e dolore.
“Sherlock?”
lo accarezzò sulla fronte, scostandogli qualche ricciolo.
Aveva la
fronte sudata. A quel contatto Sherlock trasalì.
“Va
tutto bene, sono solo io. Ti da fastidio se ti tocco?”
Sherlock
scosse la testa. Così continuò. Spostò
uno dei riccioli dietro
l’orecchio. Toccarlo in quel modo gli diede un brivido che
scese
dritto al ventre, e più in basso, però Sherlock
sembrava si fosse
calmato, anche se ogni tanto tossiva.
Lo
accarezzò lungo la spalla e lungo il braccio.
“Un
po’ meglio ora?”
Sherlock
annuì.
“Posso
lasciarti un attimo?”
Annuì
ancora. John si alzò.
Cercò
di fare il più velocemente possibile; recuperò la
valigetta medica
e poi prese degli stracci. Quando tornò, Sherlock era steso
sul
fianco, rivolto verso la porta, si era rannicchiato su se stesso e
stava stringendo un cuscino.
“Visto,
ho fatto presto no?” John si chiuse la porta alle spalle, poi
buttò
gli stracci per terra.
“Non
volevo.” Sherlock lo disse con un lieve sussurro.
“Cosa?”
John aveva appoggiato la valigetta sul letto e stava cercando lo
stetoscopio.
“Vomitare…”
“Scherzi
vero? Non mi stai chiedendo scusa per aver vomitato spero.”
Ma
Sherlock non rispose.
John
si voltò a guardarlo. Sherlock aveva il volto seminascosto
contro il
cuscino quindi non poteva capire la sua espressione.
“Sherlock
no. Io non ti posso fare anche da psicologo. Ho bisogno che mi aiuti
un po’ anche tu. Se vuoi parlare, sfogarti, lo sai che sono
qui. Ma
se ti chiudi dentro a delle mura, io non posso tirarti fuori. Ti
prego.”
“Mi
sono svegliato così. Mi veniva da vomitare e da tossire,
e… Non lo
so, sentivo tutto stringere.”
“Tutto?”
Annuì.
“Il
petto, la gola, lo stomaco. Non… Non ho ancora liquidi nei
polmoni
vero?”
“Ora
controlliamo. C’è la fai a metterti
seduto?”
Lentamente
sciolse l’abbraccio dal cuscino, e fece leva sulle braccia.
“Ti
devi sbottonare il pigiama.”
Sherlock
aveva ancora il panico negli occhi.
“Mi
dispiace, so che non vuoi, ma se no come ti controllo?”
Sherlock
allora lentamente iniziò dai bottoni in basso, ma le mani
gli
tremavano talmente tanto che non riusciva nemmeno a far passare i
bottoni nelle asole.
Così
John prese il suo posto e finì di sbottonargli la camicia.
Sistemò
correttamente lo stetoscopio alle orecchie e poi sfregò il
disco in
metallo su una manica per scaldarlo un po’.
“Per
favore cerca di respirare regolarmente.”
Posò
la parte di metallo sul lato sinistro del petto. Ascoltò
molto
attentamente, per alcuni lunghi minuti. Passò
dall’altro lato. E
sulla schiena.
“Va
bene.- levò lo stetoscopio e lo ripose nella valigetta. -Sta
tranquillo i polmoni stanno bene, non hai liquidi.”
“Allora
cosa c’è che non va?” la voce di
Sherlock era quasi tremante
come le sue mani.
“Niente,
forse è stato solo un attacco di panico. Vuoi delle
gocce?”
Sherlock
scosse la testa.
“Senti…
Credo sia il caso se resto qui con te.”
“In-in
che senso?”
“Che
se stai male di nuovo almeno sono già qui.”
“Intendi…
Dormire nello stesso letto?”
“Sì.
Lo abbiamo già fatto anche alla pensione, non è
niente di strano.
Ti da fastidio?”
Sherlock
sgranò gli occhi a quella domanda.
“No!
Cioè se sei sicuro che sia la cosa giusta, anche tu hai
bisogno di
dormire, non voglio tenerti sveglio tutta la notte.”
“Ma
no.”
“Se
ne sei sicuro.”
“Sono
sicuro. Dai andiamo a letto.”
Spostò
la valigetta e la mise giù dal letto, poi fece il giro e
scostò le
coperte.
“Per
favore, se stai di nuovo male me lo devi dire. Vuoi qualcosa per la
nausea?”
Sherlock
scosse la testa. John si infilò a letto.
“Notte
allora.”
“Notte.”
Spense
la luce.
La
luce che proveniva dalla finestra colpì gli occhi di John.
Era
riuscito a riaddormentare abbastanza bene dopo le vicissitudini di
quella notte, ma il sole in faccia lo infastidiva. Quando si trovava
nel deserto a combattere, dormivano spesso e volentieri accampati, e
li sole sorgeva presto, le temperature si alzavano quasi subito, ed
era una cosa che odiava, perché voleva sempre dire che era
iniziata
un'altra atroce giornata sul campo di battaglia.
Strizzò
le palpebre, e sbadigliò, stiracchiandosi come un gatto.
Solo in
quel momento si ricordò che qualcuno dormiva con lui. Rimase
immobile, cercando di respirare lentamente.
Aveva
completamente scordato di essere nel letto con Sherlock, e durante la
notte doveva essersi avvicinato, perché ora lo aveva
praticamente
attaccato alla schiena. Poteva sentire il respiro caldo del
detective, che gli solleticava la nuca.
Il
corpo di John formicolò. Aveva paura di muovere anche solo
un
muscolo.
Sherlock
emanava calore e lo aveva tutto addosso.
Mosse
lentamente una mano, nemmeno più di tanto, ma appena lo
toccò
ritrasse immediatamente la mano, e rimase fermo immobile, senza
nemmeno respirare.
Aspettò
qualche secondo, l’altro non si era mosso ne aveva detto
nulla, il
respiro era sempre uguale, profondo e regolare. Doveva essere proprio
addormentato. Così trovò il coraggio, e molto
lentamente si voltò
dall’altro lato, ritrovandosi faccia a faccia con lui.
Era
così vicino che quasi poteva sfiorargli il viso con il
proprio.
Tutto il respiro che gli si infrangeva contro. Però sembrava
sereno.
Teneva una mano sotto la guancia, e l’altra infilata insieme
con
mezzo braccio, sotto al cuscino.
Sembrava
così pacifico e tranquillo, e dannatamente bello, come uno
di quegli
angeli usciti da un dipinto rinascimentale.
Aveva
voglia di toccarlo più di ogni altra cosa, ma la paura che
si
svegliasse era troppa. Così rimase a crogiolarsi in quel
calore. Se
si fosse avvicinato anche solo di un centimetro in più, gli
sarebbe
stato praticamente addosso.
Non
era un idea così malvagia. Si chiese se qualcuno fosse mai
stato
così vicino a Sherlock, ma ne dubitava. In realtà
una parte di se
stesso lo sperava, gli dava incredibilmente fastidio che qualcun
altro avesse toccato tutto quello. Lui era la persona più
vicino che
avesse Sherlock, quello a cui raccontava tutto, insomma più
o meno
tutto, almeno per come era di carattere, era già tanto si
fosse
aperto in quel modo negli anni. Nessuno lo conosceva quanto lo
conosceva John, nemmeno Mycroft.
Si
perse ad ammirare quel viso. Poteva contargli le rughe una ad una,
non che ne avesse così tante. Le labbra erano leggermente
dischiuse.
La cicatrice ancora ben visibile. Probabilmente sarebbe sempre
rimasta così. Quel taglio netto a deturpare altrimenti
troppa
perfezione. Il resto delle cicatrici ormai erano diventate bianche e
si stavano restringendo, ma quella era lì, vistosa su tutto
il
resto. A dividere il bianco della pelle e il rosso delle labbra. A
tenere unita la carne strappata con tanta violenza.
Alla
fine non poté farne a meno, allungò la mano.
C’erano dei riccioli
neri sparsi sulla fronte, ne prese uno tra le dita, era così
soffice, liscio come seta. Quell’uomo era diventata la sua
dannazione eterna dal momento in cui lo aveva incontrato. Per quanto
ci avesse provato, non poteva stargli lontano. Non poteva nemmeno
odiarlo per il semplice fatto che esistesse, e ci aveva provato, ma
era stato meno credibile di un ladro colto sul fatto che accampava
scuse per non finire in prigione.
Tirò
delicatamente quel ricciolo, il cuore gli martellava nel petto. Se
Sherlock si fosse svegliato in quel momento, sarebbe stata la fine.
Ma a lui piaceva il rischio, e per fortuna l’altro dormiva
profondamente.
Poteva
rischiare di più… Smise di tormentargli i ricci e
scese
appoggiando la mano sulla spalla. Era pronto a scattare in caso di
necessità, ma Sherlock non si mosse, così la fece
scorrere lungo il
braccio. A quel tocco Sherlock si mosse leggermente, mugolando
qualcosa di incomprensibile, John si bloccò
all’istante,
praticamente congelato, non respirava nemmeno più dalla
paura, per
fortuna Sherlock non si svegliò e continuò a
respirare regolarmente
e in modo profondo.
Così
lo prese come un invito a proseguire. Scese fino al fianco. Poi
sentì
dei rumori da fuori la stanza.
Scattò
seduto. Per fortuna perché in quel momento aprì
gli occhi anche
Sherlock.
“Che
succede?- chiese con la bocca impastata dal sonno.
“Non
è niente, continua a dormire.” John aveva
già scostato le coperte
e messo i piedi fuori dal letto. -Deve essersi svegliata.” si
alzò
ed andò ad infilare la vestaglia.
“Ti
serve un aiuto?”
“Sì,
che resti a letto. E fa freddo. Dormi.”
“John…”
“Niente
John.”
Sherlock
sospirò e si tirò le coperte fin sopra le
orecchie, lasciando solo
i ricci sparsi sul cuscino.
John
rimase un attimo a rimpiangere di non poter essere rimasto a letto
ancora un altro po’, ed uscì dalla stanza.
_______________________________________________________________________________________________
__________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
Questa
è la calma prima della tempesta se così si
può dire. E io sto nel
panico. Davvero con il prossimo capitolo mi gioco praticamente tutto.
Yeeeeee.
Quindi
cerco di non pensarci troppo. Intanto godetevi questo.
Insomma
John che combini? Qui qualcuno allunga un po’ le mani.
C’è da
dire che ci sarebbe da capire come abbia resistito tutti quegli anni
senza allungare su quel popò di roba che si ritrovava
davanti ogni
giorno. No ok la smetto.
Povero
Sherlock, sempre qualcosa che lo tormenta… Ma ci
penserà John,
ormai anche lui ha capito che deve tirargli fuori tutto, e sappiamo
tutti quanto è testardo, quindi in un modo o in una altro ci
riuscirà. Vai John siamo tutti con te!
Bene
io vado a farmi prendere dall’ansia, mi raccomando segnatevi
la
prossima data. Big aggiornamento venerdì.
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Capitolo
29
Venerdì
11
giugno Ore: 15-16
|
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Capitolo 29 *** Capitolo 29: ***
Note
d’autrice:
In
questa occasione speciale ho deciso di fare un piccolo cambiamento,
ed inserire le note sopra. Questo perché prima che vi
apprestiate a
leggere questo capitolo, ci tenevo a precisare alcune cose.
Come
già avevo detto nel capitolo
precedente,
questo è il capitolo della rivelazione. Finalmente si
saprà cosa è
successo a Sherlock.
E’
stato bello vedere, come in quasi 30 capitoli, ogni uno si sia fatto
le proprie idee. Ovviamente spero di non deludere nessuno.
Mi
scuso anticipatamente per non aver messo gli avvisi. Spero che
nessuno se la prenda per questo, ma ho deciso di non farlo per dei
motivi semplici. Ho deciso di mantenere l’avviso di
descrizione
grafica di violenza perché era quella che considero
più importante
e
anche quella che viene usata in modo più descrittivo.
Questo perché quello che succede a Sherlock nel primo
capitolo, è
da dove parte tutto. John che ritorna dopo che non si parlavano e
vedevano da un anno, tutti i sensi di colpa che entrambi hanno,
ecc…
Ma qui si aggiunge un tassello in più… Quindi
sarebbe stato un enorme spoiler di tutta la storia, e non avrebbe
avuto senso. Secondo,
perché comunque, non è descritto in modo
esplicito. Insomma lo si
capisce, ma senza troppi dettagli. Per questo ci tenevo ad essere chiara e corretta.
Detto
ciò vi lascio in pace a leggere. Come sempre se vorrete
lasciare
commenti non mordo.
E
speriamo bene perché sono davvero con l’ansia a
mille (in realtà avevo il capitolo pronto da un ora, c'era solo da cliccare su aggiungi ma me la sto facendo sotto ahah).
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Capitolo
29:
***
Quando
John entrò nella cameretta, Rosie era in piedi nel lettino e
saltellava aggrappata alle sbarre.
“Ti
sei svegliata presto stamattina eh? Bel tempismo.”
La
tirò su dalla culla e se la appoggiò contro ad
una spalla.
“Andiamo
a prepararci.” Recuperò una tutina dalla
cassettiera e le diede
una bella pulita, cambiò il pannolino e le infilò
la tutina a pezzo
unico in morbida spugna bianca.
“Ecco
qui.” mentre lo diceva tirò su la bambina dal
fasciatoio per
prenderla in braccio.
“Hai
fame? Andiamo a fare la pappa?”
Rosie
agitò le manine emettendo dei versi concitati.
“Sembri
un coniglietto.” le diede un bacio sulla guancia.
Scese
al piano inferiore e dopo aver sistemato la bambina nel seggiolone e
averle dato dei giochi con cui distrarsi, preparò la
colazione.
John
mise il piatto riempito delle cose che aveva preparato per il pranzo,
davanti a Sherlock.
“Devi
mangiare, lo sai.”
“Non
ho molta fame.”
Sherlock
si era seduto al solito posto del tavolo da pranzo, ma sembrava
più
a disagio del solito, come se fosse seduto su delle spine.
“Ti
verrà quando mangerai qualcosa.”
“John…”
“No.”
“Ma
non sai neanche cosa voglio chiederti.”
“Che
non vuoi mangiare, e la risposta è no. Ho preparato tutto
quello che
ti piace.”
“Non
c’era bisogno.”
“Stai
iniziando a fare i capricci?”
“Non
trattarmi come fossi tua figlia!” nel momento in cui Sherlock
si
accorse di aver usato un tono troppo aggressivo, quasi si
accartocciò
su se stesso.
John
si schiarì la gola e andò a sedersi al proprio
posto.
“Non
è successo niente, mangia.”
Allora
Sherlock prese la forchetta e prese su un po’ di cibo.
Anche
Rosie aveva il suo piattino e la sua forchetta di plastica, anche se
preferiva decisamente usare le mani.
John
sospirò. Era una scena piuttosto bizzarra. Però
era bello avere
pace.
La
mattina la passò a giocare con sua figlia e inseguirla
mentre lei
cercava di infilarsi in ogni buco della casa. Sherlock se ne stava
semplicemente seduto sul divano, a cercare di continuare a leggere il
libro della sera precedente, e a ridere di quella scena bizzarra.
“Forse
dovresti metterle un GPS.” propose scherzosamente mentre
Rosie
gattonava sotto il tavolino, nonostante John lo avesse messo insieme
a degli scatoloni,
come barriera per tenerla sul tappeto del salotto. Lei aveva trovato
il modo di infilarsi in mezzo e stava andando dritta verso le scale.
“Non
è divertente.”
“Almeno
la troveresti.”
“Sherlock…”
Sherlock
gli sorrise.
Okay,
forse per quel sorriso poteva farlo continuare a divertirsi a
prenderli in giro.
“Hai
sentito cosa ha detto? Vuoi fargli avere ragione?” prese
Rosie in
braccio ma lei iniziò a piangere e dimenarsi.
“Ehi,
niente capricci, devi stare sul tappeto.” la rimise al punto
di
partenza, ma lei pareva non gradire troppo.
“Rosie…”
alzò un dito di avvertimento, ma la
bambina per
tutta risposta guardò il padre con aria di sfida e gli
lanciò
colpendolo dritto in faccia un cubo, che per fortuna era di silicone
morbido, quindi non gli fece male.
Sherlock
scoppiò a ridere.
Anche
Rosie si voltò incuriosita da quel suono improvviso.
“Sherlock…”
“Scusa…
Ma ti ha preso in pieno. Ha una bella mira.” ancora stava
ridendo
mentre parlava, con il libro davanti la faccia, come se si
vergognasse a farsi vedere mentre rideva.
“Sherlock,
smettila non fa ridere.”
“Invece
si… La tua faccia…”
Il
moro detective si accorse del modo in cui lo stava guardando John.
“Che-c’è?
Non è colpa mia se non ti fai rispettare.”
“Ritira
quello che hai detto.”
“No.
Perché dovrei ritirare la verità?”
“Ah
si eh?” John attraversò lo spazio che gli
divideva, anche se
Sherlock aveva sgranato gli occhi dalla sorpresa, non poteva sfuggire
ad un attacco di solletico.
“No!
Basta questo non è leale!”
“Senti
chi parla.”
“Io
ho solo detto la verità, non è colpa mia se non
ti sta bene!”
“La
verità secondo il tuo punto di vista! Ritiralo!”
nel frattempo che
continuava con quell’attacco, lo aveva bloccato contro al
divano in
modo che non potesse sfuggirgli. Piccolo trucco imparato stando
nell’esercito, come mettere alle strette qualcuno. Ovviamente
non
includeva il solletico.
“Va
bene!”
“Va
bene?” insisté John.
“Si,
si! Sei un padre fantastico ed infallibile!- a quelle parole John si
fermò. -Contento?”
“Hm,
non posso lamentarmi.”
Sherlock
era rimasto mezzo steso ed ansimava.
Lo
sguardo corrucciato di Sherlock lo fece sorridere.
“Un
giorno mi vendicherò.”
“Sì
che paura, mi guarderò le spalle.”
“Non
sottovalutarmi Watson.”
“Per
favore, il mio cane avrebbe un aria più minacciosa di te.
Cioè, se
ne avessi uno.”
“Ho
perso ogni credibilità.” Sherlock disse quella
frase fissando il
soffitto.
“Ma
no, stavo scherzando.”
“E
perché? Hai solo esposto un dato di fatto.”
John
espirò dalle narici.
Sherlock
proseguì con il discorso continuando a guardare verso
l’alto.
“Una
volta sapevo fare molte cose. Mi sapevo difendere bene… Ma
ora
non...” ma prima di terminare la frase, si interruppe.
“Ma
dopo quello non?” lo spronò il dottore.
“Niente.”
“Andiamo,
di che stavi parlando?” John era sicuro che ci fosse qualcosa
che
continuava a non rivelargli. Ogni tanto sembrava essere sul punto di
dire qualcosa, ma puntualmente non lo faceva.
“Di
assolutamente nulla di rilevante.” Sherlock si
tirò su, mettendosi
a sedere. Passò la mano per ravvivare i ricci, che avevano
erano
tutti arruffati. E gli davano un'aria molto interessante...
John
invidiò quella mano. Lui non l’avrebbe mai provata
quella
sensazione.
Sospirò,
rassegnato.
“Non
intendevo insultare il tuo ruolo di padre. Non dovrei nemmeno aprire
bocca a riguardo. Scusa.”
“No,
ehi. Stavamo solo scherzando.”
Sherlock
si alzò.
“Dove
vai?” John non poté fare a meno di chiederlo con
apprensione.
“A
sistemarmi la stanza.”
“Non
serve, dormi con me ricordi?”
“Ah,
giusto.” Sherlock sembrò quasi dispiaciuto.
“Allora
vado a spostare le mie cose.” gli passò accanto e
andò a dare una
carezza sulla testa di Rosie, che sembrava si fosse divertita molto
per quella scena, e stava saltellando sul posto, agitando un paio di
giocattoli.
Il
dottore non poté far altro che stare a guardare mentre
Sherlock
saliva le scale, rigorosamente a testa bassa..
Doveva
trovare il modo di farlo liberare da quel peso, qualunque fosse. Non
poteva più aspettare che fosse lui a parlargliene. Sherlock
era la
persona più testarda che avesse mai conosciuto, si sarebbe
portato
quel segreto nella tomba, e non poteva permetterlo.
Doveva
trovare un modo per fare leva e aprire la diga.
Dov’è
Rosie? Sherlock era tornato al piano di sotto dopo più di
mezz’ora.
“E’
venuta a prenderla Kirsty.
“Non
ho sentito.”
“Ah
gliel’ho solo consegnata alla porta.”
“Come
un pacco? Scusa, non sono fatti miei.”
“Che
hai si può sapere? E guai a te se mi rispondi
niente.”
“Perché
l’hai mandata con Kirsty? Noi siamo qui.”
“Adesso
facciamo un po’ di esercizi. Non hai risposto alla mia
domanda.”
“Ero
solo sorpreso.”
“Ora
lo sai. Dai vieni qui.”
Sherlock
rimase fermo sulle scale, titubante, ma poi lentamente si
avvicinò a
John.
Lo
fece mettere di fronte a se.
“Dobbiamo
farlo per forza?”
“Perché
oggi sei così acido?”
“Non
è vero, non sono acido.”
“Si
lo sei, e scontroso.”
“John…”
“Cosa?
Puoi dirmi tutto.”
“Non
devo dirti niente.”
“Sherlock…
Prima o poi dovrai farlo.”
“Cosa
dovrò fare?”
“Dirmi
quello che ti tormenta.”
“Non
ho nulla che mi tormenta.”
“Oh
ma per favore! C’è l’hai e come! - ormai
non poteva più
fermarsi, era esploso a causa della frustrazione che si era
accumulata. Poteva solo sperare che Sherlock non si chiudesse del
tutto dentro le mura che si era costruito. -Sono stato zitto per
tutto questo tempo perché volevo darti il tuo tempo. E ti ho
dato
tutto il tempo del mondo, limitandomi a preoccuparmi in silenzio. Ma
tu hai bisogno di tirare fuori tutto!”
“No!”
“Perché
no? Non ti fidi di me?”
“Io
mi fido.”
“Non
mi pare proprio.”
“Non
c’è niente che debba dire, non voglio dirlo! Non
posso!”
Sherlock sembrava nel panico.
“Certo
che puoi!”
“Smettila.”
“Che
cosa volevi dirmi?”
“Che
cosa volevo dirti quando?”
“Alla
casa di riposo, quando mi hai detto che era interessante vedere fino
a che punto una persona poteva arrivare a mentire ad un'altra persona
a cui dice di tenere.”
John
poté vedere il volto di Sherlock diventare completamente
bianco,
sembrava che il sangue si fosse prosciugato.
“N-no…
No… Niente.”
“Ehi.”
John provò ad avvicinarglisi ma Sherlock si ritrasse,
arretrando.
“Va
tutto bene, ti prego.” lentamente provò ad
allungare una mano, e
prendere quella di Sherlock. Stava tremando.
“Avanti,
lasciati andare.”
Sherlock
scosse la testa. Si stava martoriando il labbro inferiore con i
denti.
“Guarda
che non ti lascio andare.”
John
non si sarebbe arreso così facilmente, era per il bene di
Sherlock,
ne aveva bisogno. Ne avevano bisogno tutti e due per ricominciare.
Gli
strinse la mano, e provò a toccarlo, ma Sherlock si ritrasse
con uno
strattone, senza che John riuscisse a fare in tempo a fermarlo, lo
vide correre via, verso la porta e fuori di casa.
“Sherlock!”
il terrore lo travolse. Gli corse dietro.
John
fece giusto in tempo ad arrivare sul pianerottolo, per vedere
Sherlock scendere lungo il sentiero della scogliera, diretto alla
spiaggia, ma la cosa peggiore era che stava puntando dritto verso il
mare.
“No!
Fermo!” il cuore gli perse dei battiti, e il terrore
aumentò. Andò
immediatamente all’inseguimento, cercando di non ammazzarsi
rotolando di sotto.
“Sherlock!”
urlò il suo nome a pieni polmoni, ma il vento che spirava
dal mare
era forte e faceva perdere le parole nell’aria.
Per
fortuna Sherlock si fermò proprio poco prima che la sabbia
foose
bagnata dalle onde. John vide l’uomo cadere in ginocchio e
tenersi
la testa tra le mani.
Quando
finalmente riuscì a raggiungerlo, aveva il fiatone, come se
avesse
corso i cento metri alle Olimpiadi.
“Dio
Sherlock, tu mi farai morire di infarto un giorno o
l’altro.”
John si era piegato in due e teneva le mani sulle ginocchia.
“Perché
continui a starmi dietro!” Sherlock urlò quelle
parole a pieni
polmoni.
“Ancora?”
ormai era stanco di sentirgli dire quelle cose, non sapeva
più in
che altro modo spiegarglielo.
“Sì
ancora! E ancora, e ancora! Finché non ti entrerà
in quella
maledetta testa che ti ritrovi che ti sto solo causando problemi! Che
altro devo fare per farti andare via!”
John
sentì la gola che si chiudeva. Perché se ne era
già andato e il
danno che aveva fatto era irreparabile…
“Sono
un maledetto bugiardo lo vuoi capire o no! Non ho fatto che mentire e
prenderti in giro! E tu te ne stai ancora lì! A guardarmi
con
quell’aria imbambolata!”
John
mandò giù il rospo per quelle parole. La diga
stava per cedere e se
avesse ribattuto o si fosse dimostrato contrariato Sherlock non
avrebbe più detto una parola, e allora non lo avrebbe
più
recuperato.
“Di
qualcosa!”
Ma
John non disse niente, rimase in piedi, fermo, immobile, a fissare il
detective.
Sherlock
si prese nuovamente la testa tra le mani.
“Dio
John… Ti odio… Ti odio… Dovevi
lasciarmi lì…”
John
cacciò indietro la sensazione di lacrime che sentiva
salirgli agli
occhi. Si mise seduto sulla sabbia, accanto a Sherlock. Rimase in
assoluto silenzio.
“Non…
Non so da dove cominciare.”
“Prova
dall’inizio.”
Sherlock
finalmente riemerse da quella posizione, nascosto da se stesso, e
guardò John dritto in faccia. John per un attimo
desiderò essere
morto al posto suo.
“Sicuro?”
gli occhi dell’altro che lo imploravano di non obbligarlo a
continuare per quella strada. Ma il dottore era convinto che quella
fosse l’unica soluzione, doveva fargli affrontare le sue
paure.
Annuì.
Sherlock
si sfregò il volto con le mani.
“D’accordo.-
rimase un attimo in silenzio. Probabilmente doveva cercare un modo di
iniziare, trovare le parole giuste. -Dopo che te ne sei
andato… Non
sapevo cosa fare, non sapevo come… Reagire. Avevo fatto una
cosa
orribile e tu mi odiavi, e non potevo fare niente per
rimediare.”
John
si odiò così tanto per quelle parole. Aveva
ragione Mycroft, lo
aveva distrutto. Aveva distrutto Sherlock. E il bello era che nemmeno
gli era importato di preoccuparsene, di domandarsi se fosse giusto o
sbagliato dargli la colpa. Perché tanto era lì,
quindi perché no,
perché non sfogarsi su di lui.
Veniva
considerato da tutti una brava persona, un bravo dottore.
Così
premuroso con i pazienti. Invece era un mostro. E l’unico
motivo
per cui aveva aiutato Sherlock era per ripulirsi la coscienza. Si
sentiva disgustato da se stesso.
“Mio
fratello mi teneva d’occhio, e comunque non avevo intenzione
di
ricascarci, non mi meritavo di avere la mente annebbiata.” la
voce
di Sherlock lo fece ritornare alla realtà.Ovunque tentasse
di
rifugiarsi non poteva nascondersi dall’orrore che aveva
causato.
“Così
lavoravo più che potevo. Prendevo ogni caso mi capitasse,
anche una
donna di 95 anni che aveva perso il gatto. Non importava,
dovevo…
Dovevo fare qualcosa. Non pensare. Poi una sera sono andato a vedere
tra i miei vecchi giri se si diceva qualcosa. Non potevo andare a
chiedere lavoro a Lestrade, lui stava già con te, potevo
rischiare
di incontrarti. -Sherlock scosse la testa. -Quindi sono andato da
loro.”
“Intendi
dai tuoi amici senza tetto?” non sapeva come fosse riuscito a
parlare, sentiva la morte dentro di se, tutto era diventato freddo.
Sherlock
annuì.
“Mi
hanno detto che fuori città c’era una
comunità di ragazzi senza
casa.
Avevano
delle baracche vicino ai piloni di un ponte. Sono andato li.
All’inizio non ne volevano sapere di collaborare, ovviamente
non si
fidavano, e mi evitavano. Poi però hanno capito che
conoscevo quel
giro. Allora hanno iniziato a parlare. I ragazzi sapevano di un uomo
che girava in città. Alcuni di loro ci avevano avuto a che
fare
perché… Quando avevano bisogno di
denaro… Si vendevano. Loro
avevano bisogno di soldi per vivere e poi non sarebbero mai andati
alla polizia, quindi lui ne approfittava. Però
c’era questo
ragazzino… L’ho incontrato John, aveva solo
quindici anni. Era
senza una famiglia ed era scappato da un orfanotrofio. Ma lui non si
vendeva, cercava di fare piccoli lavori in nero quando ne aveva
l’occasione, o andava in qualche rifugio, ogni tanto
accompagnava
qualche amico. Quel tizio però non accettava no come
risposta. Così
una sera lo ha aggredito. Gli ho promesso che lo avrei fatto
arrestare. Dovevo farlo, non potevo permettere che ci andasse di
mezzo qualcun altro.
Me
lo sono fatto descrivere, e mi sono fatto dire che zone frequentasse.
E loro me lo hanno detto, mi hanno detto tutto. Così ho
iniziato a
frequentare anche io quelle zone. Ho girato ogni dannato pub, ogni
fine settimana, per mesi. Ma niente. Non c’era traccia di
quell’uomo. Ho iniziato a credere che forse non era del
posto,
probabilmente nemmeno di Londra, forse nemmeno
dell’Inghilterra.
Probabilmente
lo avevo perso e non avrei potuto mantenere la mia promessa…
Non…
Non mantengo mai le mie promesse.- si era dovuto fermare dal racconto
per poter riprendere fiato. -Però non volevo mollare,
arrendermi.
Poi
una sera, l’ho visto. Io l’ho visto. L’ho
riconosciuto subito.
Avevo la sua faccia stampata nella mia testa. Era in uno di quei pub,
seduto da solo al bancone, in un angolo. Dovevo trovare il modo di
avvicinarmi a lui, ma io non sono capace, non ho idea di come si
faccia con le interazioni umane, lo sai…”
John
represse un brivido, aveva come l’impressione di sapere come
sarebbe andato avanti il racconto, che sarebbe potuto solo andare
peggiorando, e non era così sicuro di volerlo sentire ora
che aveva
capito.
“Ho
guardato quello che stava bevendo e ne ho presi due, così mi
sono
avvicinato, gli ho messo il bicchiere davanti. Lui mi ha squadrato da
capo a piedi. Dio volevo sparargli. Avrei dovuto farlo.
Mi
ha detto… La prima cosa che mi ha detto, è
stata…” lo vide
chiudere gli occhi.
“Ero
troppo… Vecchio… Per i suoi gusti. Volevo
vomitare. Ma non lo
avrei lasciato uscire da quel posto, se non per andare in prigione a
vita. Mi sono seduto nel posto accanto, e gli ho detto che mi sentivo
solo. Allora ha iniziato a parlarmi. In fondo, secondo lui non ero
così male. Non che me ne importasse qualcosa di quello che
aveva da
dire, ma dovevo lasciarlo parlare. Doveva fidarsi di me. O comunque
pensare che mi importasse di lui. Era uno egocentrico, quindi non era
troppo difficile da raggirare. Non me le ricordo nemmeno le cose che
ha detto, credo… Fosse la storia della sua vita.- fece una
smorfia.
-Disgustoso. Penso saremo stati li almeno un ora, poi mi sono
stufato. Gli ho chiesto se potevamo andarcene in un altro posto a
parlare. Il Pub ancora era pieno ma ormai era tardi, quindi avrebbe
chiuso di li a poco. Lui mi ha guardato… In modo strano, ma
ho
preferito ignorarlo. Mi sentivo… Non lo so stordito, volevo
solo
uscire. Ho lasciato delle banconote, non so nemmeno quante. Mi sono
alzato. Sentivo le gambe cedermi.” d’un colpo si
interruppe,
strinse le labbra quasi a farle scomparire.
Il
cervello di John stava lavorando talmente in fretta che non ci stava
dietro, cercava di arrivare a delle conclusioni che non capiva.
“Sherlock?”
lo terrorizzava anche solo aprire bocca ed emettere una sillaba.
“Siamo
usciti. Fuori non c’era praticamente nessuno.- aveva ripreso
il
discorso come se non si fosse mai interrotto. Ne parlava come se
stesse descrivendo un trattato scientifico. Niente giri di parole,
ragionamenti. Solo i fatti. Concisi e crudi fatti. -Siamo andati fino
a quel maledetto parcheggio al coperto. Ora credo di avere anche
capito il perché.
Lui
voleva… Ho cercato di colpirlo, ma quel tizio era grosso, le
sue
mani erano praticamente il doppio della mia faccia. Mi ha messo una
mano sul collo, mi sono aggrappato al suo braccio ma sembrava non
sentisse nulla.
Ha
detto… Che non amava quando qualcuno prometteva qualcosa, si
tirasse indietro. Mi ha preso il braccio e lo ha girato dietro alla
schiena. Non riuscivo più neanche a respirare, sentivo le
ossa
scricchiolare, se lo avesse tirato ancora lo avrebbe spezzato,
credevo mi sarebbe uscita la spalla dal resto.
Così… Mi sono...
Arreso.”
John
sentiva le orecchie fischiargli, un suono acuto e doloroso, che gli
rimbalzava nel cervello.
“John…”
Non
si era accorto di aver quasi smesso di respirare. Si era concentrato
su qualcosa di non meglio precisato all’orizzonte, ed era
stato
così immobile che gli facevano male tutti i muscoli del
corpo.
Quando ebbe finalmente il coraggio di spostare lo sguardo su di lui,
su Sherlock, che stava singhiozzando senza aver nemmeno versato una
lacrima.
“Ti
prego… Non costringermi a dirlo…”
John
deglutì, scosse la testa.
“Non
mi sono mosso, non ho fatto proprio niente, ho lasciato… Ho
lasciato che facesse quello che voleva. Mi sono sentito così
stupido. Come avevo fatto a farmi fregare in quel modo. Ci sarei
dovuto arrivare da solo. Non so perché l’ho fatto,
io... Non lo
so… Davvero non lo so. Gli ho lasciato… Non so
nemmeno per quanto
tempo… Almeno avevo un posto dove andare. Dove non provare
niente.
Per una volta il mio stupido cervello è servito a
qualcosa.”
John
si schiarì la gola, gli sembrava di star per soffocare.
“Ma
se lui… Cioè se tu.. Se tu gli hai dato quello
che voleva…
Perché ti ha quasi ammazzato.”
Sherlock
gli sorrise. Quel sorriso stonava con tutto il resto.
“Perché
sono uno stupido.”
“Come?”
non che avesse pensieri più intelligenti da formulare al
momento.
“Dopo…
Stavo cercando di ricompormi e ho messo una mano nel cappotto, mi
sono accorto che per sbaglio mi ero portato dietro i biglietti da
visita. E’ uno stupido errore da principianti, ma mi sono
caduti
fuori dalla tasca. Lui se ne è accorto. Prima che riuscissi
a
raccoglierli tutti, ne ha preso uno. Così ha
visto… Lo ha letto e
ha capito. Ho visto la sua faccia cambiare. Ero convinto che ci sarei
morto in quel parcheggio. Ne ero sicuro. Il resto lo sai, non te lo
devo raccontare, lo hai visto.
Invece
poi… Poi, c’eri tu. Non capivo perché.
Tu mi odiavi e te ne eri
andato e io dovevo essere per forza morto. Cercavo un pensiero
logico, ma ormai non c’era più niente. Era tutto
così buio e
terrificante. Alla fine la cosa di cui avevo più paura,
rimanere da
solo con me stesso, era successa. Ma me l’ero cercata. Ti ho
fatto
andare via, ti ho causato tutto quel dolore. Me lo meritavo.
Era
solo la giusta punizione. Però io sono un bugiardo e non
mantengo
mai le mie promesse, e nel momento in cui ti ho rivisto volevo solo
che rimanessi con me, che restassi un altro po’, ma tu te ne
andavi
di nuovo e allora tornavo a dirmi che era giusto così, non
meritavo
niente.”
Ne
aveva così tanto di sentirgli quelle parole, di sentirlo
colpevolizzarsi per cose di cui non aveva nessuna colpa.
Con
delle semplici parole dette mentre era preso dalla rabbia aveva
innescato delle conseguenze inimmaginabili, e la cosa peggiore era
che Sherlock si fosse auto convinto di essere il problema. Doveva
farlo smettere. Doveva fargli capire che non era lui il problema. Gli
aveva chiesto scusa in tutti i modi in cui poteva farlo. Aveva
cercato di farsi perdonare aiutandolo a stare meglio, ma non era
stato abbastanza, perché il danno che gli aveva fatto era
troppo
profondo per essere riparato. Non si sarebbe riparato un bel niente.
Niente sarebbe tornato più come prima.
Quindi…
Si disse, perché in fondo non provare l’ultimo
disperato
tentativo. Dare retta alla sua parte irrazionale, e stare
semplicemente a vedere che succedeva. Peggio di così non
poteva
andare.
Prese
il volto di Sherlock tra le mani. Sherlock si era bloccato e aveva
smesso di parlare, lo stava fissando ad occhi sgranati, senza capire
quello che stesse succedendo.
Il
sapore della sua bocca era la cosa più inebriante che avesse
mai
provato nella vita. Più di bere dieci shottini tutti di
fila. Più
di bere il vino o lo champagne più pregiato e costoso al
mondo. Non
c’era nulla che si potesse paragonare. Poteva solo godersi
quel
sapore fino alla fine, e tenerlo impresso nella mente fino alla fine
dei suoi giorni.
Le
labbra erano come velluto e seta. Centinaia di volte se le era
immaginate, aveva provato a sforzare la mente, a darsi un idea di
come sarebbe stato provarle e toccarle. La cicatrice era ruvida, ma
amava anche quella.
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Capitolo
30
Lunedì
14 giugno
Ore: 15-16
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Capitolo 30 *** Capitolo 30: ***
Capitolo
30:
***
Lentamente,
si staccò da quel bacio, e da quelle labbra. In
realtà ogni fibra
del suo corpo si stava lamentando, ne voleva ancora, ma lo scopo era
stato raggiunto, era riuscito a togliere la parola a Sherlock.
Già
il fatto che l’altro non avesse reagito, era sufficiente per
fargli
capire che probabilmente non avesse ancora superato lo shock, e che
prima o poi gli avrebbe tirato un bel pugno. Era quello che John si
aspettava, ma stranamente non arrivò nulla, anzi, Sherlock
lo stava
continuando a fissare ad occhi sgranati, e espressione sconvolta.
“Perdonami.
Io… Ho fatto una cazzata.”
Ma
si ritrovò con Sherlock che gli afferrava la camicia e
labbra contro
labbra. Era un po’ rude e grezzo ma al momento non aveva
assolutamente tempo di pensare, doveva occuparsi di altro.
Si
aggrappò alle spalle di Sherlock nel tentativo di non
cadere. Il
cervello gli formicolava, e il formicolio scendeva lungo la colonna
vertebrale. L’intestino si stava arrotolando su se stesso,
sembrava
volesse scendere ancora più in basso. Tutto voleva andare in
basso.
Era come se ci fosse in atto un incendiato.
Le
labbra gli bruciavano ed erano indolenzite, come quando non ti muovi
per tanto tempo e ricominci a fare attività fisica. Il primo
bacio
era stata una cosa completamente improvvisata.
Non
si era aspettato quella reazione, non si era aspettato che
rispondesse in quel modo, e soprattutto non si era aspettato di venir
baciato così.
Quasi
non riusciva a stargli dietro. Non credeva nemmeno che Sherlock ne
fosse capace, che avesse tanta foga e bisogno. Sembrava un disperato
che rischiava di perdere la sua unica occasione.
Le
sopracciglia di John quasi si unirono, sollevandosi verso
l’alto.
Per fortuna nessuno lo stava guardando in quel momento,
perché
probabilmente doveva avere un'espressione ridicola, si sentiva
ridicolo.
Che
stava succedendo? Aveva dato il via a qualcosa che non poteva
più
fermare. E ora come lo avrebbe giustificato? ‘Mi sono
sbagliato?’,
‘l’ho fatto solo perché tu eri disperato
e io dovevo fare
qualcosa per farti smettere?’. No era fuori discussione,
avrebbe
solo finito con il disintegrare quel briciolo di barlume che era
rimasto in Sherlock. Forse avrebbe fatto finta di niente? Beh magari
quella era l’unica più plausibile…
La
vocina irrazionale nella sua testa gli diede dell’idiota, e
di non
azzardarsi a rifiutare qualunque cosa Sherlock avrebbe deciso di
dargli, e per una volta anche quella razionale concordò.
In
realtà non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso.
Sentiva i
muscoli della mascella che gli tiravano e le labbra gli facevano
male, in più il vento aveva iniziato a spirare ancora
più forte dal
mare.
Dovette
costringersi ad ordinare ai suoi muscoli di muoversi.
Prese
il volto di Sherlock con entrambe le mani, e lo staccò da se
a
forza. Non che avesse voluto farlo, ma doveva riprendere fiato.
Sherlock
lo stava fissando ad occhi sgranati, le iridi limpide come due
specchi d’acqua, le labbra erano rosse e dalla bocca
dischiusa.
Respirava con il fiato corto.
John
mandò giù un bel sasso, sentiva la lingua come
punta da spilli.
Dovette
schiarirsi la gola un paio di volte perché non riusciva a
ricordarsi
come si facesse a parlare.
“Va-stai
bene?”
Sherlock
ancora lo fissava in quel modo, ma annuì lentamente.
John
si alzò, un po’ traballante, sentiva le gambe
molli. Schiarì
nuovamente la gola e allungò le mani verso Sherlock.
“Dai
andiamo dentro, inizia a far freddo.”
Sherlock
rimase per un momento a guardare le mani di John, ma poi le
afferrò
e si sollevò in piedi. Si avviarono verso la casa, Sherlock
era
andato più avanti, e stava tenendo la testa bassa. Salirono
su per
il sentiero della scogliera, e poi entrarono. John richiuse la porta
alle spalle. Sherlock stava andando dritto verso le scale, senza aver
ancora detto una parola. Lo afferrò per un polso, e quando
l’altro
si bloccò per voltarsi, unì le labbra alle sue.
Con
una mano toccò la sua guancia. La pelle era così
calda. Si sporse
in avanti, e Sherlock indietreggiò, John si rese conto che
stava
perdendo quel bacio, e non lo poteva permettere. Lo afferrò
per la
maglietta. Non poteva permettersi di perderlo, non lo avrebbe
lasciato mai più.
Sherlock
inclinò la testa da un lato, lo spinse con le mani contro il
petto.
Doveva
stare attento che entrambi non inciampassero, finché non
fossero
arrivati alla meta che si era prefissato, e che per fortuna non era
troppo lontano.
Con
una mano continuò a tenerlo stretto e contemporaneamente a
spingerlo
all’indietro, mentre l’altra la allungò
in avanti, nel tentativo
di cercare di evitare superfici che potevano rischiare di essere
urtate. Quando trovò lo schienale del divano, sapeva di
essere
arrivato nel punto giusto, dovette costringersi a separarsi da lui,
usando ogni briciolo di barlume che gli era rimasto.
“Siediti.”
Sherlock
lo fissò abbagliato, le labbra rosse e gonfie e lucide.
“Per
favore…” John faticava a guardarlo, quella vista
gli faceva male
agli occhi; troppa perfezione tutta insieme.
Sherlock
si mise a sedere, dalla sua espressione si capiva che non aveva idea
di cosa aspettarsi. John gli si sedette vicino, lo accarezzò
lungo
le braccia.
“Stai
bene?” il dottore cercò di usare il tono
più rassicurante
possibile.
Sherlock
annuì.
“Dobbiamo
parlare.”
Ora
l’espressione di Sherlock sembrava decisamente confusa.
“Di
cosa?” chiese il detective, con un tono quasi infastidito.
“Di
quello che è appena successo. Intendo… Le cose
che mi hai
detto.”d’accordo, ora non sembrava infastidito, lo
era
decisamente.
“No,
non dobbiamo.” rispose solo, con tono secco.
“Ma…”
“Non
voglio riparlarne, non voglio ricordarmelo, voglio dimenticarlo e
basta. Quindi se vuoi smetterla di chiedermelo sarebbe
fantastico.”
“Non
credo che sia così che funziona.”
“E
perché non deve essere così? Te l’ho
detto no? Ora lo sai. Fine.
Per
favore John… Possiamo non parlarne, almeno per
oggi?”
D’accordo…
Se glielo chiedeva con quell’espressione da cucciolo
bastonato, non
aveva proprio la forza di ribattere.
Prima
che riuscisse a concludere qualunque pensiero, o dire altro,
evidentemente Sherlock lo aveva preso come un invito ad
avvicinarglisi, aveva posato le labbra su quelle del dottore, che
riuscì solo a pensare quanto fossero morbide, come il
velluto.
John
aspettò che l’altro dischiudesse la bocca, e lo
baciò, molto
lentamente questa volta. Voleva impregnarsi di quel sapore. Voleva
marchiarsi a fuoco nel cervello quella sensazione.
Poi
gli venne alla mente che c’era una cosa che voleva fare.
L’aveva
sognata più e più volte. Salì con le
mani lungo le braccia, e poi
sulle spalle, lo sfiorò sul collo, gli accarezzò
il viso, e infine
insinuò le dita tra quei ricci, che così a lungo
aveva agognato.
Erano anche più morbidi e soffici di quello che si era
sempre
immaginato. Ne tirò qualcuno tra le dita con quanta
più delicatezza
poteva, avere le mani immerse lì dentro era come toccare una
nuvola.
Poi
gli balenò per la testa un altra idea, totalmente folle, una
di
quelle idee per cui eri già sicuro che ti saresti messo nei
guai, ma
ormai erano lì, a baciarsi da chissà quanto, in
quella assoluta
pazzia, quindi tanto valeva tentare.
Si
staccò da quelle labbra piene e dolci come un frutto
d’estate, e
scese giù, lungo il mento, poi il bordo della mascella. Era
tutto
così spigoloso, e perfetto. Non avrebbe mai ripetuto
abbastanza
quanto fosse perfetto.
Andò
giù, lungo il collo.
Il
lato sinistro era ancora massacrato a causa degli aghi tenuti per
così tanto tempo. Non voleva fargli male, così si
limitò a qualche
piccolo bacio, dato il più delicatamente possibile. Si
spostò lungo
la gola, succhiando la pelle. Non ci aveva nemmeno pensato
più di
tanto, semplicemente lo aveva leccato fino a sotto il mento. Una
scarica elettrica lo attraversò, arrivando dritta al
cervello.
Sherlock
aveva automaticamente reclinato la testa all’indietro, e
emesso un
profondo gemito di gola, che nessuno dei due si era aspettato.
Si
fissarono intensamente negli occhi, entrambi spaventati da quelle
reazioni inconsapevoli. John era convinto di stare annegando
lì
dentro, dentro quelle iridi, quei due specchi d’acqua
cristallina
con cui nessun lago o oceano avrebbe mai potuto competere. Ma era
già
espresso tutto lì. Sherlock voleva che continuassero, e chi
era lui
per rifiutarglielo?
John
gli diede un bacio sulle labbra, e continuò, fece lo stesso
percorso
fatto in precedenza, fino ad arrivare lungo la curva che si crea tra
spalla e collo, nel lato opposto, dove non c’erano ferite e
lividi.
La pelle era molto più morbida, quasi molle, liscia come la
seta,
calda. Prese quei morbidi lembi di pelle tra i denti e
iniziò a
succhiare e tirare. Il sapore era la cosa migliore di tutto quello
che avesse mai assaggiato in tutta la vita, niente gli si avvicinava
lontanamente. Tutto quello che sentiva era il suo odore penetrargli
le narici, credeva sarebbe impazzito. Si sentiva sovraccarico di
informazioni, sensazioni, sapori, odori, di tutto.
Diede
un leggero strattone con i denti. Ormai il cervello gli aveva smesso
di funzionare da un pezzo, seguiva solo l’istinto primordiale
di un
animale cacciatore che azzannava la preda e non poteva lasciarsela
scappare, o sarebbe morto di fame.
Lasciò
la presa con i denti e proseguì solo con la bocca, fece
pressione
con le labbra e con la lingua. In realtà avrebbe assaggiato
volentieri anche tutto il resto, ma per ora si doveva accontentare.
Era già tanto che fosse riuscito ad arrivare a quel punto
senza
prendersi una testata in fronte.
Strinse
di più con le labbra, premendo contemporaneamente con la
lingua.
Sherlock
a quel contatto sussultò, si fece più indietro,
toccandosi con le
dita il punto in cui John aveva tenuto le labbra fino a quel momento.
“Oddio.
Scusa mi dispiace, davvero io…” John riusciva solo
a balbettare.
Sherlock
continuava a fissarlo in modo intenso, senza dire una parola,
continuava a sfiorare il punto dove John gli aveva lasciato un
livido.
“Mi.
Dispiace così tanto.” John sentì il
terrore invaderlo. Perché
non diceva niente?
Sherlock
si alzò e andò verso il piccolo corridoio che
separava salotto e
scala. La scala sotto era chiusa e c’era un piccolo
sottoscala, con
una porta che spariva, confondendosi con la parete fatta di assi di
legno. Aprì la porta, appeso sulla parte interna
c’era uno
specchio.
John
corse accanto a Sherlock.
“Scusa,
davvero… Prometto che andrà via presto.”
“Che
cos’è?”
“Cosa?”
Era rimasto sbigottito da quella domanda, si aspettava una sfuriata o
qualcosa del genere, uno schiaffo.
“Perché?”
Insisté Sherlock, John non riusciva a capire il senso di
quelle
domande.
“Non…
Credo di non capire.”
“Che
cosa mi hai fatto?” Sherlock aveva un espressione confusa,
come se
non capisse cosa dovesse provare a riguardo.
“Ahm…”
John sentì che improvvisamente le guance avevano iniziato a
scottare.
“Sì…
Beh ecco…- Si vergognava da morire. -E’
un… Cioè, una cosa…
Che si fa prevalentemente da adolescenti, sai no, gli ormoni
impazziti e tutta quella roba.”
Si
domandò cosa avesse fatto in una vita precedente di
così terribile,
da dover ora trovarsi a spiegare ad un uomo adulto il significato di
succhiotto.
Sherlock
si voltò a guardarlo, in faccia l’espressione del
dubbio, le
sopracciglia si erano avvicinate pericolosamente l’una
all’altra,
formando un groviglio di piccole rughe al centro. Ovviamente.
“E’
un modo per… Dire che stai con qualcuno, tipo un
segno…”
Sentì
una goccia di sudore rotolare lungo la schiena.
“Come
un marchio?”
“No,
no! Cioè tecnicamente si, ma no… Nel senso che
non l’ho fatto
per questo.” Che diavolo stava dicendo? Certo che lo aveva
fatto
per quello.
“E
per cosa lo hai fatto allora?” il tono di Sherlock non
sembrava
arrabbiato od impaurito, anzi, pareva incuriosito da tutta la
questione.
Ah
perfetto.
“Perché…
Non lo so.”
“Non
lo sai? Lo fai spesso?”
“Che?
No! Te l’ho detto è una cosa che si fa da
ragazzini.”
“Allora
perché a me lo hai fatto?”
Avrebbe
dato qualsiasi cosa perché qualcuno entrasse ora da quella
porta e
lo salvasse, ma purtroppo vivevano da soli in una casa isolata dal
resto del mondo.
Ottima
idea Watson, in una vita di brillanti idee.
“Perché…”
“Volevi
lasciarmi un segno?”
John
sentì come un peso scendere dal cervello fino
giù, nella gola, poi
nello stomaco e nella pancia, e poi ancora più
giù, fino ai piedi.
Si
ritrovò con il volto di Sherlock a praticamente un soffio
dal
proprio.
“Sono
tuo.”
Cosa
aveva detto?
“Appartengo
già a te. Dal momento in cui ti ho visto. Puoi fare
qualunque cosa
tu voglia, con me.”
Il
cervello di John non stava più funzionando nella maniera
corretta,
provava a lanciargli qualche stimolo, ma niente. Probabilmente era
andato in tilt, si era rotto, come un qualsiasi computer.
Rimase
fermo immobile, guardando dritto davanti a se, ma non vedeva nulla.
“John?”
Una voce morbida e profonda gli arrivò alle orecchie, un
tocco
delicato lo stava tenendo sul braccio, proprio sopra il gomito.
“John
va tutto bene?”
Si
scrollò quella sensazione di annebbiamento.
“Dio
Sherlock tu sarai la causa della mia morte.”
“Non…
Vuoi?”
“Ti
sembra una cosa da dire! Come dovrei reagire…
Cioè tu te ne esci
con frasi del genere, e io…” a quel punto era
stato Sherlock a
costringerlo a tacere, perché si era ritrovato con la sua
lingua in
bocca, e stretto per entrambe le braccia.
Ah
si si sarebbe stato decisamente la causa della sua morte.
Si
ritrovò spinto contro la parete. Non si tornava
più indietro da
quello, ormai la diga era crollata. Era crollata e stava straripando
acqua ovunque, distruggendo qualunque cosa lungo il suo cammino. Le
cose non sarebbero decisamente mai più tornate come prima.
Era
impossibile. Dal secondo in cui, un anno prima, si era tolto ogni
freno e aveva deciso di lasciar andare la lingua, ci aveva tirato una
bomba su quella diga, e il buco non aveva fatto che allargarsi, fino
a disintegrarsi.
C’era
quel detto, uccide più la penna della spada. E le parole
hanno un
peso.
Ma
ormai era in quella situazione e poteva fare solo una cosa.
Sollevò
le mani, lasciate semplicemente abbandonate, le braccia lasciate a
peso morto lungo i fianchi. E le portò sui fianchi di
Sherlock.
Strinse con le dita, per poterne saggiare la consistenza. Erano un
po’ più magri di quello che si immaginava, ma era
normale, doveva
recuperare tutto quello che aveva perso stando in ospedale.
Sherlock
a quel contatto mugolò qualcosa e gli si spinse contro,
arrivando ad
appoggiarsi con il proprio corpo con quello del dottore.
Per
un attimo John pensò di come dire… Ispezionare
ben altre parti, ma
non lo fece. Non poteva esagerare. Per ora si stavano semplicemente
limitando ad una conoscenza fatta di baci, che per quanto fossero
così passionali da fargli girare la testa, non voleva
sporcare con
altro.
Non
aveva finito di formulare quel pensiero che all’improvviso
sentì
la mancanza di calore, e di quel bacio. Si guardò intorno
spaesato.
Sherlock era indietreggiato, e lo stava fissando ad occhi spalancati,
nel volto un'espressione di puro terrore.
John
capiva cosa fosse successo, non gli sembrava di aver fatto nulla, non
si era mosso di un centimetro, quindi perché stava reagendo
in quel
modo?
“Ehi.”
provò a fare un passo avanti ma Sherlock
indietreggiò, finché non
cadde seduto sul divano.
“Che
c’è, che è successo, ti prego dimmi che
ho fatto.” ma lo vide
rannicchiarsi su se stesso, le ginocchia sotto al mento e la testa
contro le gambe, mentre si infilava le mani tra i capelli.
“Ti
prego parlami, dimmi cosa ti ho fatto.”
“Non
tu!” Sherlock aveva urlato quelle parole, per poi tornare
nella
medesima posizione di prima.
“Non
io? Non io cosa?” ora si sentiva ancora più
confuso di prima. Si
mise seduto sul tavolino basso del salotto, in modo da essergli
più
vicino, ma aveva paura a toccarlo.
Sherlock
sembrava in preda ad un attacco di panico e ora gli stava salendo
l’ansia anche a lui perché non aveva idea di come
aiutarlo.
Non
era mai stato bravo con questi stati emozionali, non sapeva
risolverli nemmeno a lui, quando dopo la guerra, gli capitavano
spesso.
Ma
Sherlock si limitava a starsene rannicchiato su se stesso, i
singhiozzi talmente forti da causargli tremiti.
Lasciò
semplicemente che si sfogasse un po’, finché non
fosse più calmo
era inutile continuare a fargli domande.
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__________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
Sono
in ritardo con la pubblicazione da fare schifo, ma fa un caldo da
morire e io non riesco neanche a pensare con il caldo. Non avevo
nemmeno la forza di muovermi, figuriamoci di prendere il pc, aprirlo,
correggere tutto il capitolo e pubblicarlo. (sono una brutta persona
ne sono consapevole)
Per
fortuna il capitolo 29 è passato, e ora sono un
po’ meno in ansia,
non che non ne abbia più, ho sempre qualche motivo per avere
l’ansia. In realtà ora ho l’ansia al
contrario, cioè di aver
esagerato con l’intraprendenza di questi due (vi prego non
menatemi)
Ci
tengo davvero di cuore a ringraziare i miei lettori per i bellissimi
commenti e le recensioni, davvero mi hanno reso super contenta
<3
Comunque
da quando ho iniziato la stesura di questa fanfiction era
letteralmente da anni che non scrivevo di cose un po’
più intime
tipo baci ecc… In realtà una volta scrivevo roba
molto più spinta
di così, ma non credo di avere più
l’età. Però voglio provarci,
quindi magari in futuro molto futuro potrebbe succedere.
Bene
come sempre la smetto di blaterare a vuoto, ci si legge alla
prossima!
Sono
sia su Instagram che su
Facebook:
https://www.instagram.com/lady_norin/
https://www.facebook.com/ladynorin/
Aggiornamenti:
Capitolo
31
Venerdì
18
giugno
Ore: 15-16
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Capitolo 31 *** Capitolo 31: ***
Capitolo
31:
***
Passarono
degli interminabili minuti. John non aveva toccato o parlato a
Sherlock. Ora sembrava un po’ più tranquillo, o
meglio, erano
diminuiti i singhiozzi più forti.
“Mi
vuoi raccontare cosa c’è che non va?”
cercò di usare un tono
rassicurante e comprensivo.
“Non
lo controllo…” rispose Sherlock, riuscendo a
stento a pronunciare
quelle semplici parole.
Non
voleva costringerlo a parlarne più del dovuto, si capiva che
faticava, ma non stava capendo il significato di quello che voleva
dirgli.
“In…
In quel parcheggio, quando… Non potevo controllare
più niente, del
resto… Avevo solo la mia mente, mi era rimasta solo quella.
Era
l’unica cosa che potevo gestire come volevo e non poteva
portarmela
via, ma il resto… Io non controllavo niente del resto. E
anche
adesso…. Non controllo il resto...”
John
aggrottò la fronte, non era sicuro di aver compreso quel
discorso.
Forse una parte di sé si era messa a fare supposizioni su
cosa
significasse ciò, a volte odiava aver imparato a dedurre.
Rimase in
silenzio per un po’.
“Sherlock
tu hai mai… Avevi mai… Prima.”
pregò che Sherlock arrivasse
alla conclusione da solo perché non poteva essere
più specifico di
così. Non c’è la faceva nemmeno a
pensarlo.
Sherlock
gli sorrise, il sorriso più triste che avesse mai visto.
“No.
Mai.”
John
chiuse gli occhi e prese dei bei respiri. Quando riaprì gli
occhi si
ritrovò il volto circondato dalle mani di Sherlock, i loro
nasi si
sfioravano per quanto erano vicini. Il dottore deglutì.
“Vorrei
dimenticarlo. Vorrei poterlo cancellare per sempre dalla mia testa.
Privare l’unico posto che mi è rimasto, di quello.
Avere almeno
una cosa che mi appartiene. Puoi aiutarmi?”
John
deglutì di nuovo. Quella giornata stava prendendo una piega
sempre
più assurda.
Sherlock
posò le labbra su quelle di John, solo per lasciarle a
sfiorarsi.
Come una carezza delicata. Poi John sentì freddo. Sherlock
si era
alzato.
“Lascia
stare. Fai conto che non abbia detto nulla.” ma prima che il
detective si allontanasse, il dottore lo afferrò per un
braccio.
“Ehi!
No non faccio finta che tu non abbia detto nulla. Che cosa voleva
dire?”
“Niente
John, ti ho detto di lasciar stare.”
“No
ora tu me lo dici!”
“Perché
devi sempre essere così testardo?”
“Ah
io sarei testardo? Da che pulpito!”
Sherlock
gli sorrise amaramente.
“Sono
sicuro che la tua mente brillante ci sia già
arrivata.”
Rimase
sbigottito, il braccio di Sherlock ancora stretto nella mano.
No
che non ci era arrivato! Però, riflettendoci un
attimo…
Rimuginando sul significato dietro a quelle parole.
Spalancò
la bocca come a voler dire qualcosa, ma cosa c’era da dire?
“Non
importa, non ho alcun diritto di chiedere una cosa del
genere.”
“Sì!
Sì diamine! C’è
l’hai!”
“Ma
tu non vuoi me…”
“Prova,
magari la risposta ti stupirà!”
“Tu…
Vuoi?”
“Per
la miseria si!”
Ok
forse stavano andando un po’ troppo veloci, ma tanto ormai
viveva
già nell’assurdo, quindi un assurdità
in più o in meno non
cambiava.
“Ma
tu non lo hai mai…”
“Non
ti preoccupare di quello, è un mio problema. E poi non lo
definirei
nemmeno problema. Ti ho giurato che avrei fatto tutto per aiutarti
no? Bene. E’ quello che intendo fare. E se serve per stare
meglio,
ci sto.”
Ora
era Sherlock quello che non sapeva cosa dire. Per la prima volta
nella vita aveva fatto ammutolire Sherlock Holmes.
“Però
tu ti devi fidare di me.”
“Ma
io mi fido.”
“Voglio
dire, che non possiamo fare nulla se non impari a… Fidarti
di me
quando siamo insieme. Ti devi lasciare andare, non cercare di
controllare cose che non puoi controllare. So che per te è
difficile.” John si ritrovò nuovamente zittito con
un bacio. Forse
gli aveva dato un brutto vizio, perché se ora, ogni volta
che
discutevano, Sherlock provava a chiudere il discorso in quel
modo…
Lasciò
perdere ogni tipo di ragionamento logico, e si spostarono sul divano.
Quella
fu una lunga, estenuante, ed intensa sessione di bacio. Ogni tanto
spostava le mani, ovviamente mai andando oltre le braccia, lo toccava
sul viso, infilava le dita tra i ricci, o lasciava una mano
semplicemente appoggiata sul collo. Mentre era in quella posizione,
con la mano sulla gola, provò ad infilare il pollice sotto
il bordo
della maglietta, giusto per sfiorare più pelle.
Sherlock
mugolò nella sua bocca, poi John sentì una mano
sulla propria, e
l’altra mentre afferrava quella che aveva lasciato libera, ed
essere appoggiata a fianco all’altra. Si ritrovò
con le mani
spinte verso il basso. Non poteva fare altro che starsene
lì, a
guardare con aria imbambolata. Ora le mani erano sul petto del
detective. John e sentì il cuore andargli in gola, poteva
sentire
chiaramente i battiti accelerati, e ora che era riuscito a fermare le
rotelle fumanti del cervello, anche i battiti del cuore di Sherlock.
John
strizzò un paio di volte le palpebre. Non poteva smettere di
fissare
le loro mani unite in quel modo. Era la cosa più semplice e
al tempo
stesso più intima che avesse mai avuto con qualcuno,
più di tutti i
baci che si erano dati per tutto quel tempo.
Sherlock
si chinò in avanti e posò le labbra su quelle di
John, che era ben
contento di venire distratto in quel modo. Ora il cuore di Sherlock
aveva accelerato, ma giusto il tempo per il dottore di rendersene
conto, che subito le sue mani venivano spostate ancora più
in basso.
A
John girava la testa. Per fortuna le mani si fermarono sul ventre.
Era completamente piatto e teso.
Poi
Sherlock lasciò la presa e usò le mani per
circondare il volto di
John, e approfondire il bacio.
Fu
il turno di John di mugolare.
Sentì
Sherlock sorridergli contro le labbra.
Ormai
John lo sapeva, gli aveva dato il potere, il permesso di rigirarlo in
qualunque modo volesse, e Sherlock lo sapeva, lo aveva capito, era
uno che le cose le apprendeva subito. Poteva essere totalmente
inesperto sull’argomento, ma imparava in fretta. In pratica
John
era consapevole di essersi fregato con le proprie stesse mani.
Fece
scivolare le mani sui fianchi di Sherlock, che fu ben felice di quel
contatto perché aumentò
l’intensità del bacio.
Alla
fine smisero solo quando non avevano più la forza. Le labbra
bruciavano, la mascella tirava e scricchiolava a causa di quel
movimento continuo.
Sherlock
si era appoggiato con la fronte sulla spalla di John e stava
ridacchiando.
“T-tutto
bene?” balbettò il dottore massaggiandosi la
mandibola.
Sherlock
annuì, ancora appoggiato contro la spalla.
“Di
questo passo… Possiamo recuperare tutti questi anni persi,
in una
settimana.”
Come
prospettiva non era male. Interi pomeriggi a baciarsi.
“Penso
che l’ultima volta che mi ha fatto male la mascella per
baciare
qualcuno. Sia successo quando andavo alle scuole medie ed avevo
appena iniziato.”
“A
me mai.”
John
si irrigidì completamente.
“Non…
Non avevi mai baciato nessuno?” il terrore nella voce, e
anche
Sherlock se ne accorse, perché si sollevò da
quella posizione per
guardarlo.
“Si.
Ma non così.”
John
sospirò di sollievo.
“Perché,
non avresti voluto essere il primo?”
Il
dottore si maledisse, perché non se ne era stato zitto una
buona
volta.
“Sì,
no, cioè. E’ complicato, è una bella
responsabilità essere la
prima cosa di qualcuno.”
“Non
ho un grande metro di paragone, di cosa hai paura?”
“Non
è questo. Però deve essere una cosa fatta bene,
con qualcuno che
desideri.”
“E
il tuo è stato fatto bene?”
“Uhm…
Più o meno. Poi si impara anche con il tempo.”
Annuì.
“Allora
avrai molto tempo per insegnarmi.” Sherlock gli sorrise, e
John si
sentì morire. Lo abbracciò più forte
che poteva.
“Lo
riprendiamo l’argomento vero?”
Rise.
“Sì
Sherlock, lo riprendiamo l’argomento. Ma magari prima
facciamo una
pausa, non sento più la mascella. E tra poco Kirsty riporta
Rosie.”
Sherlock
continuava a sorridergli. Sembrava quasi che non gli avesse appena
rivelato la tragedia che gli era accaduta alcuni mesi prima.
“Ehi,
riguardo a quello che ti è successo…”
“No!
Va bene così, ora tu lo sai. Non voglio più
parlarne. Ti prego.
Aiutami solo a dimenticarlo.”
John
lo fissò intensamente, ma poi sospirò.
“Se
pensi che ti faccia sentire meglio, ma se vedo che non ti
aiuta...”
“Mi
aiuta. Tu sei l’unica persona di cui mi importa.”
“Va
bene. Ho capito.”
Sherlock
gli diede un ultimo bacio e si alzò, prese le scale per
salire di
sopra.
John
rimase fermo, con lo sguardo perso nel vuoto.
Cosa
aveva fatto? Come ne sarebbe uscito? Si sentiva impazzire.
Sherlock
aveva delle aspettative su di lui, e lui gli aveva promesso che
l'avrebbe aiutato a qualunque costo. Ma quello… Quello forse
era
troppo. Eppure, c’era una parte di se stesso che lo voleva,
lo
desiderava, e lo bramava.
Chiuse
gli occhi per un momento, e si alzò.
Doveva
sistemare tutto prima del ritorno di Rosie.
I
commensali seduti alla tavola della cucina stavano cenando in
assoluto silenzio, gli occhi puntati ognuno sul proprio piatto, non
si erano più parlati per il resto della giornata. Eccetto la
piccola
di casa, che se ne stava nel suo seggiolone a buttare metà
della
pappa in giro e l’altra metà spalmata sulla
propria faccia. Però
sembrava molto soddisfatta della cosa.
“Dai
Rosie.- John lo disse ormai rassegnato, passandosi stancamente una
mano sul viso. -Adesso sei tutta da lavare, di nuovo.”
Rosie
agitò le manine, emettendo gridolini acuti.
“Non
sei stanca? Eh? Andiamo a fare la nanna?”
Ma
la bambina si stava divertendo ad usare la pappa verde come una
tavolozza per dipingere il vassoio con le dita.
“No,
no!” John cercò di bloccarla prendendole le
piccole mani, ma lei
era furba e scivolosa a causa del cibo di cui era ricoperta,
così
riuscì facilmente a sfuggire alla presa, prese una manciata
di
quella pietanza verdognola e gettarla dritta in faccia a suo padre.
John
rimase congelato sul posto, cercando di capire quello che era appena
accaduto, di realizzare che sua figlia gli avesse appena tirato di
proposito del cibo addosso; finché un suono strozzato non lo
distrasse, sollevò lo sguardo su Rosie, ma lei se la stava
godendo,
pienamente felice del suo gesto.
Poi
si voltò verso Sherlock, le sue labbra erano stranamente
sparite,
strette all’interno della bocca, ma comunque bastavano gli
occhi,
stava cercando di trattenersi dallo scoppiare a ridere.
“Ti
fa ridere?” chiese il dottore, con tono mortalmente serio.
“Cosa?”
Sherlock ancora che si sforzava di sembrare indifferente.
“Ti
fa ridere?” ripeté nuovamente John.
“No.”
“Perché
a me sembra proprio che tu stia ridendo.”
“Non
lo farei mai!”
“Ah
no?” prese un po’ del cibo rimasto nel piattino.
“No!
John no!”
La
tirò dritta in direzione del detective, ovviamente
colpendolo in
pieno.
“Così
impari.”
Rosie
saltellava seduta sul posto, agitando braccia e gambe ed emettendo
gridolini acuti.
Sherlock
si ripulì il volto con il dorso della mano.
“Sei
crudele.”
“Oh
mi si spezza il cuore.”
Sherlock
gli rifilò un occhiataccia, ma John lo guardò con
un sorriso
soddisfatto.
Il
detective aveva ancora un po’ di cibo sulla mano
così lo portò
alle labbra per assaggiarlo.
“E’
disgustoso! Che roba dovrebbe essere? Come puoi pretendere che lei
voglia mangiarlo?”
John
roteò gli occhi.
“Sei
viziato.”
“Avere
buon gusto non è essere viziati.”
“Invece
si, lo sei. Sono semplici verdure frullate.” nel frattempo
stava
cercando di dare una sommaria pulizia a viso e mani della bambina.
“Sanno
di tutto fuor che di verdure.”
“Non
voglio nemmeno sapere che vita hai fatto da bambino.”
“Mia
madre ci preparava tutto fatto in casa. Ed è molto brava in
cucina.”
“Anche
quello è un piatto fatto in casa. Ma se credi di saper fare
di
meglio.”
“Saper
fare di meglio?”
“Sì.
Visto che sei convinto di saper fare tutto meglio, domani le prepari
tu il pranzo.”
“Ma
io non ho detto-”
“Ah
no no. Ora è compito tuo. Vediamo cosa sai fare.”
Sherlock
dall’espressione che aveva all’inizio, ora sembrava
quasi
spaventato, ma il dottore sapeva che aveva un istinto da competizione
che poteva scattare con una semplice provocazione, che era
esattamente quello a cui stava puntando. Doveva riuscire a farlo
lasciarsi andare, anche se sapeva quanto sarebbe stato difficile, non
aveva intenzione di mollare la presa.
“Se
ne sei convinto.”
“Sarebbe
fantastico, si.”
“Faccio
io i piatti, tu sei vuoi puoi occuparti di lei.”
John
gli sorrise. Prese Rosie, che ancora si stava agitando, dal
seggiolone. Prima di salire le scale si fermò a dare un
bacio sullo
zigomo di Sherlock.
“Vuoi
dare anche tu un bacio a Sherlock?” Rosie, tra le braccia del
padre, si sporse in avanti, per posare un bacio sulla guancia di
Sherlock.
Sherlock
arrossì, e John non poté fare a meno di sorridere.
“Faccio
presto. Ci vediamo su?”
Sherlock
annuì.
“Sistemo
qui e arrivo.”
John
prese le scale per andare a lavare la bambina.
_______________________________________________________________________________________________
__________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
Volevo
fare un piccolo annuncio che poi rifarò più
avanti. Ormai si sta
per concludere anche il mese di giugno; e così
già da un po’ sto
rimuginando su alcune questioni. Per me i mesi estivi sono i
più
difficili. Soffro terribilmente il caldo, non riesco nemmeno a
pensare appena le temperature si alzano più del dovuto.
Davvero è
proprio una tortura fisica, inoltre ho la pressione bassa, e spesso e
volentieri faccio anche fatica a stare in piedi. Anche per
controllare e correggere un capitolo di nemmeno dieci pagine mi ci
vuole più di un ora. Quindi sono giunta alla conclusione
che,
pubblicherò ancora la prossima settimana e poi mi
prenderò una
pausa estiva. Tranquilli che non vi abbandono. Ne
approfitterò per
fare le cose con più calma, sistemare e finire le ultime
cose di
questa storia, e magari sistemare anche altri progetti che ho in
mente per questo inverno, così a settembre
ritornerò a pieno ritmo
con la pubblicazione.
Vi
prego quindi, non abbandonatemi, giuro che non è un addio.
Vi lascio
in pace solo per questi due mesi, e poi non è detto che non
pubblichi una volta o du
Ma
comunque ne riparliamo alla fine della prossima settimana. Poi come
sempre ho il link a tutti i miei social qua sotto.
Sono
sia su Instagram che su
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Aggiornamenti:
Capitolo
32
Lunedì
21 giugno
Ore: 15-16
|
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Capitolo 32 *** Capitolo 32: ***
Capitolo
32:
***
Dopo
aver tirato a lucido la bambina e vestita con un pigiamino intero
pulito, la portò a letto. Gli ci volle un po’
prima di riuscire a
farla addormentare. Quando uscì dalla stanza della bambina,
tutte le
luci del piano inferiore erano spente, ed era rimasta accesa solo
quella del corridoio. Andò a vedere nella camera in fondo,
che era
la sua camera, e che ora divideva con Sherlock. La porta era
socchiusa, quindi la aprì, la luce era spenta.
“Ehi
Sherlock?”
“Sono
qui.” una voce sommessa arrivò da poca distanza.
“Oh
scusa, non volevo svegliarti.”
“Non
mi hai svegliato. Non stavo dormendo.” da quelle parole aveva
lasciato intendere che lo stesse aspettando.
John
accese la luce, poi andò a prendere il pigiama per cambiarsi
e si
infilò a letto. Sherlock era girato sul fianco sinistro,
rannicchiato su se stesso.
“Stai
bene?” domandò John, che non riusciva a scacciare
del tutto quella
sensazione di apprensione.
Sherlock
annuì. John si mise disteso, tirandosi le lenzuola fino al
petto, e
si girò in modo da essere di fronte al detective. Trovandosi
immerso
nei suoi occhi, che erano molto lontani dall’essere
addormentati.
Ora
era John a sentirsi arrossire. Sherlock gli si avvicinò.
“Posso
stare qui?” chiese quasi intimorito, anche John si
avvicinò.
“Direi
di sì.”
Sherlock
sorrise.
John
aveva una voglia terribile di toccarlo, ma aveva paura. Nonostante
tutto quello che avevano fatto in quella lunga giornata, ancora non
sapeva come comportarsi, come reagire, e tanto meno quello che
avrebbe dovuto provare.
“Che
c’è?” chiese Sherlock.
“No
niente, niente.”
“Mi
sembri pensieroso.” allungò una mano, e con le
dita lo toccò tra
le sopracciglia. John chiuse gli occhi.
“No,
è che vorrei…- Deglutì.
-Toccarti.”
“Allora
fallo.” il tono della voce di Sherlock era basso e morbido
come una
carezza e John credeva di impazzire, deglutì ancora, il
cuore aveva
avuto un impennata.
Lentamente
fece strisciare la mano, fino al fianco di Sherlock. Ma non aveva
idea di cosa fare. O meglio, le aveva ma aveva paura di metterle in
atto.
“Dimmi…
Dimmi se non vuoi che ti tocchi più o… Ti da
fastidio in alcuni
punti.”
“Te
l’ho detto, puoi fare quello che vuoi con me.”
“Sherlock…
Così non mi aiuti. E poi io voglio essere sicuro di non
crearti
altri problemi.”
Prima
ancora che potesse finire il discorso, si ritrovò la bocca
occupata
da quella di Sherlock.
Gli
portò le mani dietro la schiena e lo strinse a se.
Andarono
avanti così per un po’, lo baciava, poi baciava
qualunque punto
riuscisse a raggiungere. Sentiva il suo corpo contro il proprio.
Nonostante gli effetti della convalescenza era come abbracciare una
statua. Liscia, dura e perfetta.
Portò
una mano più in basso, sollevò la stoffa della
camicia e la infilò
sotto, la pelle calda gli fece andare il sangue al cervello. Sherlock
a quel contatto sobbalzò.
“Scusa.
Io… Ora la tolgo.”
“No!
No, lasciala.”
“Sei
a disagio.” lo sentiva chiaramente, il suo corpo era teso e
stava
lievemente tremando.
“Non
sono a disagio. Solo non… Mi ha mai toccato
nessuno.”
John
con l’altra mano lo accarezzò sul viso.
“Non
voglio che tu ti senta come l’altra volta.”
“Lo
so ma io voglio che tu mi tocchi. Voglio solo te, e le tue
mani…”
Lo
baciò delicatamente sulle labbra. Tolse la mano da sotto la
camicia
del pigiama, e iniziò a sbottonarla, bottone per bottone. Ad
ogni
lembo di pelle che veniva scoperto, lo baciava, partendo dalla gola.
Ormai
era arrivato al centro del petto e stava scendendo. Sherlock gemette.
Andò
ancora più giù.
Poi
decise di usare solo la punta della lingua e tornare indietro
lasciando una scia di baci.
Sherlock
emise un lungo suono con la gola, ricadendo steso con la schiena sul
materasso. John succhiò la pelle sul collo.
“As-petta.”
Rotolò
a sua volta sulla schiena, respirando con il fiato corto,
voltò la
testa per poter guardare Sherlock. Stava tremando.
“Ehi.”
Allungò
una mano per poterlo accarezzare sul viso.
“Dimmi
che stai bene.”
Sherlock
prese la mano di John e iniziò a baciarla.
“Sto
bene. Almeno credo. Non… Non so bene come devo
sentirmi.”
“Non
c’è un modo giusto o sbagliato.”
“Lo
so. Una parte di me lo vuole tantissimo, ma l’altra
parte… Sono…
E’ terrorizzata.”
John
si sistemò sul fianco destro in modo da poterlo guardare
meglio.
Aveva ancora la mano nella sua.
“So
che non posso capire tutto quello che ti è successo, quanto
sia
stato orribile, e quanto sia difficile per te lasciarti andare.
Credimi lo è anche per me. E’ una cosa totalmente
nuova. Però
voglio che tu capisca che puoi fidarti di me e che voglio solo fare
qualunque cosa per farti stare meglio.”
“E
tu?”
“Come?”
“Tu
cosa vuoi.”
“Credo
di non capire.”
“Non
hai mai avuto un altro uomo, perché ora dovrebbe essere
diverso?”
“Ah
stiamo parlando di questo.”
“Sì,
direi di si.”
“Non
è che non abbia mai… Cioè, non in
senso, diciamo, ‘Biblico’.
Però all’università è
capitato… Sai le feste, l’alcool.”
“In
realtà no, non lo so. Non ho mai partecipato a festini
universitari.”
“Ovviamente.”
“Ma
non risponde comunque alla mia domanda.”
“Oh
Sherlock, perché tu sei tu.”
“Che
risposta dovrebbe essere?”
John
prese un grosso respiro.
“Non
ho mai avuto con nessuno quello che ho con te. Mai.
Tu
sei… Speciale per me. Provo cose per te che non ho mai
sentito con
nessun altro. Non so nemmeno come spiegarlo, ma è
così. E per me è
importante che tu ti senta completamente sicuro di questo. So che
dopo tutto quello che è successo in questo ultimo anno,
probabilmente non mi merito nemmeno a pieno la tua fiducia-”
John
si ritrovò nuovamente con le labbra di Sherlock sulle
proprie.
Sherlock
aveva ancora la camicia del pigiama sbottonata, quindi sentiva tutto
il suo petto nudo addosso, diviso solo dalla maglietta che stava
usando come pigiama.
Gli
spostò un lato della camicia, lasciandogli esposta una
spalla. Si
staccò da lui per baciargli la spalla, scese lungo il
braccio.
Sherlock
gemette.
“Vuoi
che mi fermi?”
Sherlock
tornò a baciarlo, e scese con la mano. John
sobbalzò per quel
movimento. Scese ancora più giù, fino ad
appoggiargli la mano tra
le gambe.
“Questo
è per me?” Sherlock sussurrò
all’orecchio di John, che spalancò
gli occhi, sentendosi stringere con la mano.
“Ti
faccio questo effetto?” continuò Sherlock sempre
al suo orecchio.
“Ah…
Si. S-si.”
“Quindi
ti piaccio.”
“Certo
che mi piaci. Perché non dovresti piacermi? Mi piaci
sì.” ormai
John sentiva il cervello che iniziava a liquefarsi, le risposte
incoerenti.
Sherlock
gli sorrise, e John aveva solo voglia di toccarlo. Lo toccò
sul
viso.
“Ti
piace?”
“Come?”
“Se
ti tocco, ti piace?”
John
riuscì solo ad annuire. Così Sherlock
cominciò con brevi movimenti
dall’altro verso il basso.
“Buon
Dio. Sherlock…” gli si aggrappò alla
schiena.
“Che
c’è non lo sto facendo bene?”
Questa
volta fu il turno di John di tappargli la bocca con un bacio.
Forse
non era così male come metodo, ogni volta che avessero
discusso
l’avrebbe usata come tecnica di distrazione.
Una
sensazione di calore iniziò a diffondersi dal basso, e
saliva a
spirale, diventando sempre più intensa, la sentiva fino alla
stomaco. Si sentiva sul punto di esplodere.
Gli
afferrò la mano.
“No
fermo.”
Sherlock
lo guardò con espressione confusa.
“Cosa,
perché. Non… Non ti piace?”
“E’
proprio questo il problema.”
“Non
capisco. Ho sbagliato qualcosa?”
“No
tu non centri nulla. Io… Non credo di poter riuscire a
trattenermi,
dopo… Capisci?- lo accarezzò lungo la guancia.
-Sei fantastico e
non voglio esagerare.”
“Perché
non me lo hai detto, non ti avrei provocato.” dal modo in cui
lo
aveva detto sembrava disperato.
“Ehi,
sta tranquillo, va tutto bene. E’ stato bellissimo.
E… Mi piace
se mi provochi.”
“Ti
piace?- ora sembrava sorpreso. -Cioè ti piace se ti provoco
senza
arrivare a nulla? Sei un po' masochista.”
John
scoppiò a ridere.
“E
lo scopri ora?”
“No
in effetti no.”
John
lo baciò lievemente sulle labbra e lasciò che si
appoggiasse con la
testa sulla sua spalla.
“Quindi
ti è piaciuto?”
“Ti
posso assicurare che te ne saresti accorto a breve.”
“Oh.”
Adorava
tenere le dita infilate nei suoi ricci e passarle con una lenta
carezza. Poco dopo sentì il respiro lieve e regolare di
Sherlock,
segno che doveva essersi addormentato. Lo baciò tra i ricci,
e cercò
di trovare il modo di prendere sonno, per quanto potesse riuscirci.
Quando
si svegliò la mattina, Sherlock era ancora addormentato
addosso a
lui. La testa sul suo petto. Rimase a contemplarlo per dei lunghi
minuti, finché non sentì dei rumori. Si
voltò verso la porta.
“Rosie!
Che ci fai qui.” cercò di uscire dal letto senza
svegliare
Sherlock, che mugolò qualcosa mentre lo spostava da se. Si
assicurò
di averlo coperto per bene.
Rosie
intanto cercava di arrampicarsi sul letto.
“No,
no. Ferma tu.” recuperò la vestaglia
dall’armadio e la figlia
prima che riuscisse nella scalata.
Lei
biascicò qualche parola confusa.
“Vedi
che sta facendo la nanna? Quella che dovresti fare anche tu.”
le
posò un dito sul petto.
Sherlock
sollevò una palpebra.
“Ehi.”
“Non
ti volevo svegliare.”
“No,
va bene. Che combinate?”
“Qualcuno
qui si è svegliato un po’ presto.”
Sherlock
rotolò sulla schiena e si stiracchiò. Allora John
andò a sedersi
sul letto, Rosie sgusciò dalle braccia del per gattonare sul
materasso, andò a sedersi accanto a Sherlock.
“Buongiorno.
Che programmi hai per questa mattina?- Rosie agitò le manine
emettendo dei versi. -Tutto chiaro.”
John
non poté fare a meno di sorridere.
“Senti,
posso lasciartela un attimo? Mentre vado a farmi una doccia.”
“Sì
certo.”
“Sicuro?”
“Lo
hai sentito? Tutto quel dubbio?” Sherlock lo disse rivolto a
Rosie.
“Non
sono dubbioso!”
“Sì
che lo sei, sei dubbioso perché credi che non riuscirei a
badare a
tua figlia per dieci minuti mentre ti fai la doccia a due passi di
distanza.” però non sembrava offeso o altro mentre
lo diceva,
anzi, pareva piuttosto divertito.
“Ma
no, è solo che non lo hai mai fatto…”
Sherlock
tirò le labbra in un mezzo sorriso.
“Hai
ragione. Non sono bravo con i bambini.”
“No!
Non era quello che intendevo! Tu piaci a Rosie, lei ti adora.”
Sherlock
questa volta curvò leggermente le labbra
all’insù.
“E
poi da qualche parte dovrai cominciare no?”
Sherlock
fissò John aggrottando le sopracciglia.
“Devo
cominciare?”
“Certo.
Se vuoi ovviamente. Non è tua figlia non posso costringerti
ad
occupartene.”
“Non
dire sciocchezze John, lei è tua certo che voglio occuparmi
di lei.”
“Okay…
Allora, direi che possiamo cominciare da qui. Dopo la verrà
a
prendere Kristy, in più, l’ho iscritta
all’asilo. Comincerà a
inizio del mese.”
“L’hai
iscritta all’asilo?- Sherlock sembrava sorpreso. -Non me lo
hai
detto. Cioè non che siano affari miei quello che decidi di
fare con
tua figlia.”
John
sospirò. Per quanto stesse tentando di farlo sentire
apprezzato e
desiderato, c’era sempre quella parte di lui che si sentiva
fuori
posto o non all’altezza.
“Sì,
c’è ne uno solo in città. La signora
McKennell mi ha assicurato
che è molto valido e le maestre sono ottime anche con i
bambini più
piccoli. E poi farà bene a Rosie stare con altri
bambini.”
“Ma
sì certo. Hai ragione. Deve interagire con gli
altri.”
John
era sicuro che Sherlock non capisse a pieno la storia di interagire
con gli alti. Da quello che sapeva, Sherlock aveva passato gran parte
della sua infanzia a casa, con l’unica compagnia della madre
e di
Mycroft. Il padre spesso era fuori per lavoro.
Quando
fu più cresciuto gli presero un insegnante e poi un collegio
privato. Gli dispiaceva per lui. Doveva essersi sentito molto solo.
“Allora
io vado.”
Sherlock
annuì. John gli lanciò un ultima occhiata e
uscì.
Si
dovette fare una lunga doccia fredda. Ancora era rimasto eccitato
dagli eventi della sera precedente. Doveva sfogarsi. Quindi
appoggiò
la fronte contro le piastrelle fredde della vasca/doccia, e
lasciò
andare la fantasia, ovviamente il suo pensiero principale era
Sherlock, solo che ora non si sentiva poi così tanto in
colpa, come
invece era sempre stato da quando lo conosceva.
Quando
tornò in camera, di Sherlock e Rosie non c’era
traccia. Si
affacciò sul corridoio.
“Sherlock?”
Poi
sentì dei rumori provenienti dal piano inferiore. Si
affrettò a
cambiarsi, e con l’asciugamano che stava usando per
frizionare i
capelli ancora bagnati, scese di sotto.
Sherlock
stava preparando la colazione. Aveva sistemato Rosie, già
vestita e
pronta per la giornata, nel suo seggiolone.
“Ci
ho messo così tanto?”
Sherlock
era intento ai fornelli e si voltò a guardare John, gli
sorrise.
“Ero
quasi tentato di venire a chiederti se non avessi bisogno di una
mano.”
John
quasi si strozzò con la propria salvia. Sherlock sorrise
maggiormente, doveva essere un sorriso innocente ma i suoi occhi
tradivano le reali intenzioni. Era un'espressione furba, come quella
di una volpe acquattata nell’erba che ha puntato un pollaio,
e sta
cercando il modo migliore di entrarvi.
“Come
ti salta in mente?” John era ancora sconvolto da quelle
parole, ma
Sherlock si limitò a stringersi nelle spalle. Credeva di
riuscire a
passare per innocente ma era tutto fuor che quello.
“Abbiamo
lasciato un discorso a metà mi pare.”
“Si…
Dobbiamo parlare di quello a proposito.”
“Del
fatto che non hai voluto che continuassi?” Sherlock prese i
piatti
già riempiti e ne mise uno sotto il naso di John, che si era
andato
a sedere a tavola.
“Si.
Insomma forse stiamo correndo un po’ troppo.”
“Perché?”
Ecco,
era tornato con quei ‘perché’.
“Perché
te l’ho detto, poi non credo che sarei riuscito a
trattenermi.
Avrei voluto di più, ma non è il momento. Non
posso farlo. Tu non
sei pronto.”
“E
tu?”
John
alzò la testa per guardarlo negli occhi, ma come
puntualmente
accadeva, ne rimase abbagliato.
“Che
vuol dire?”
“John
tu non sei mai stato con un…”
“Uomo?”
concluse John al posto di Sherlock. Sherlock annuì.
“Nemmeno
tu.”
“Stiamo
parlando di te non di me. E non ho mai avuto nessuno perché
non mi
interessava.”
“Senti
non so che vuoi sentirti dire. Sì è vero ma tu
sei tu.”
“Continui
a dirlo ma non ha senso.”
“Che
nessuno mi ha mai fatto l’effetto che mi fai tu. Nemmeno una
donna.
Tu mi annebbi.”
“Ti
annebbio?”
“Sì.
Non riesco ad essere razionale quando si tratta di te. Ed è
sempre
stato così, non solo ora. Anzi, credo che da
dopo… ‘l’incidente’,
nel parcheggio, la cosa sia andata peggiorando.”
“Che
cosa vuol dire?” Sherlock sembrava sinceramente confuso.
“Vuol
dire che provo cose contrastanti quando sono con te. Che non riesco a
capire. Non sei l’unico che non è capace con certi
sentimenti.
Anche io faccio fatica a provare affetto verso gli altri. Solo che
quello che provo per te non è solo affetto.” si
teneva dentro
quelle cose da così tanti anni, che ormai si era convinto se
le
sarebbe portate nella tomba. Invece ora, in meno di due giorni, era
arrivato ad avere rapporti molto intimi con Sherlock. E aveva
l’intenzione di andare oltre. Lo voleva. Lo desiderava. Lo
sognava
di notte e di giorno. Non c’è la faceva
più.
“Quindi
io ti attiro… Intendo a livello…
Fisico.”
“La
prova di ieri sera non ti è bastata?”
“Da
quanto?”
Ora
era il turno di John di essere confuso, più di quanto non lo
fosse
già, ovviamente.
“Da
quanto cosa?”
“Da
quanto ti attiro a livello fisico.”
John
sentì le guance in fiamme, e pregò con tutto se
stesso di un darlo
a vedere anche fuori, ma Sherlock lo stava fissando in modo strano.
“Ma
non lo so.”
“Non
lo sai?”
“No!”
“Sicuro?”
“E
tu da quanto?”
“Come?”
John
pensò un ‘fregato’, era riuscito a
prendere il detective in
contropiede.
“Da
quanto tempo ti attiro fisicamente eh?”
“Che
c’entra.”
“Centra.”
“No…”
“Sherlock.”
“No!
E’ diverso.”
Sembrava
nel panico, non era quella la reazione che voleva scatenare.
“Come
è diverso?”
“Si!
Tu lo sai! Io non provo… Certe cose.”
“Che
sciocchezze, sei un uomo anche tu, come tutti. Avrai delle
preferenze.”
“No!
Non ne ho!” ora aveva iniziato a respirare con affanno.
“Ehi,
va tutto bene.- Anche Rosie aveva iniziato ad agitarsi. -Stiamo solo
parlando.”
“No…”
John
aveva allungato una mano per toccarlo, ma Sherlock si era allontanato
con uno scatto.
“Non
c’è niente che devo dire.” prese le
scale a passo spedito.
“Ehi!
Sherlock!”
John
era rimasto sconvolto da quella reazione ma Rosie aveva iniziato a
piangere e ora doveva preoccuparsi di lei, non poteva correre dietro
a Sherlock.
Finalmente
dopo averci messo quasi mezz'ora solo per calmare la bambina, era
riuscita a darla a Kirsty. Per fortuna la ragazza sapeva come
distrarla.
Sherlock
era sparito, probabilmente si era andato a chiudere in camera, e non
si era più visto.
John
allora salì di sopra e andò a bussare alla porta
della camera che
ora condividevano.
“Sherlock?”
Ma
da dentro nessuna risposta. Così bussò nuovamente.
“Sherlock?”
Niente.
Abbassò la maniglia e aprì piano la porta. Dentro
c’era silenzio
assoluto, sbirciò nella camera.
Trovò
Sherlock tutto rannicchiato su se stesso, era girato verso
l’armadio,
e stava sul bordo del lato dove di solito dormiva John.
John
entrò e andò a sederglisi vicino.
“Che
ti è successo? Di cosa hai paura.” lo
accarezzò lungo il fianco,
ma da Sherlock nessuna risposta.
“Dai
dimmelo, non tenerti tutto dentro.”
“Per
me è diverso…” il tono di Sherlock era
basso e lieve.
“Che
cosa è diverso?”
“Non
provo attrazione come gli altri. E’ più una cosa
mentale.”
“Ne
sono consapevole, ma dovrai avere… Degli istinti. Magari non
dico
sempre, ma ogni tanto.”
“Non
con le donne…” era stato talmente flebile che John
quasi pensava
di esserselo immaginato di aver sentito quelle parole.
“Non
con- Ma credevo che con Irene… Insomma mi parevi molto
preso.”
“Te
l’ho detto io provo attrazione mentale.”
“Giusto,
scusa. Quindi era solo quello.”
“Si.
E tu eri geloso.”
“Affatto.”
Sherlock
voltò appena la testa, e fissò John con un occhio
solo, poi tornò
con metà del volto premuto sul cuscino.
“Se
ti fa sentire meglio esserne convinto.”
John
si schiarì la gola.
“Ero
preoccupato.”
“Per
cosa eri preoccupato?”
“Per
te.”
Questa
volta Sherlock si voltò totalmente a guardarlo.
“Per
me?”
“Sì.
Cercava di abbindolarti. Insomma, era palese che ti volesse
attirare.”
“E
a te dava fastidio.”
“No,
mi dava fastidio che si approfittasse della tua voglia di aiutarla.
Non hai risposto alla mia domanda.” riprese John piccato.
“Ti
ho risposto.”
“Oh
Sherlock sei impossibile. Quello lo avevo già capito da
anni.”
“Cosa?
Che le donne non fossero di mio interesse?”
“Già!”
“Però
credevi che con Irene…”
“Perché
non ero proprio convinto fosse totalmente… In un senso. Non
so se
mi spiego.”
“E
non ti da fastidio?”
“Perché
dovrebbe darmi fastidio?”
“Perché
tu mi piaci. E non intendo solo che provo attrazione a livello
intellettuale.”
Quel
discorso era stato come il lancio di una bomba atomica.
Non
perché lo avesse sconvolto l’idea di piacere a
Sherlock, anzi di
quello ne era estremamente felice. Ma mai nella vita avrebbe creduto
di sentire uscire parole del genere dalla sua bocca. Probabilmente
anche Sherlock si sarebbe portato quelle verità nella tomba,
se non
fosse mai successo nulla di quello che era accaduto loro
nell’ultimo
anno. La cosa fece particolarmente male a John.
“Non
avrei mai dovuto dirtelo.”
Il
dottore si risvegliò da quella specie di catatonia.
“No,
io sono felice che tu me lo abbia detto!”
“Sei
sconvolto.”
“Certo
che sono sconvolto è una cosa grossa! Cosa aspettavi che
facessi,
che ti rispondessi: ‘ah si grazie’? Da quanto. E
voglio una
risposta.”
Sherlock
rimase in silenzio per un momento interminabile.
“Dal
momento in cui ti ho conosciuto. Insomma non da subito. Te
l’ho
detto, prima provo attrazione a livello mentale. Però non ci
è
voluto troppo prima che capissi che… C’era
qualcosa di strano. Ed
è stato orribile. Avrei preferito non sentire
nulla.”
A
John era andato il cuore in mille pezzi. Pensare a tutti quegli anni
e dopo tutto quello che era successo loro, si fosse tenuto tutto
dentro, e lo avesse spinto in fondo, sempre più infondo, era
orribile. Si sentiva orribile per non essersene mai accorto prima.
Ora capiva tutto. Il bacio che gli aveva dato sulla spiaggia, dopo il
terribile racconto di quello che gli era accaduto, aveva scoperchiato
il vaso e non poteva più richiuderlo.
Praticamente
si buttò sulle sue labbra, in preda alla disperazione
totale. Non lo
avrebbe abbandonato mai. Mai più. Sarebbe morto con lui se
fosse
stato necessario. Doveva fargli capire quanto fosse importante.
_______________________________________________________________________________________________
__________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
Eccoci
qui. Questo è l’ultimo capitolo prima delle
“vacanze”, come
avevo già scritto nel capitolo 31. Ovviamente non
è già tutto
finito e la storia riprenderà regolarmente più
avanti. Anzi, potrà
capitare che aggiorni anche nel corso dell’estate, ma dal
momento
che non so quali giorni o quanti aggiornamenti ci saranno, visto che
sarò appunto in vacanza e non posso fare previsioni a lungo
termine
per questi due mesi. Continuo a sottolineare che questo non
è
assolutamente un abbandono e che la storia ha la sua conclusione.
P.s.
sto anche cercando una beta a cui possa interessare aiutarmi con la
grammatica (ormai immagino lo abbiate capito da tempo che non
è
esattamente il mio forte). Se qualcuno fosse interessato mi contatti
pure.
Un
abbraccio a tutti i miei amati lettori, ci sentiamo presto <3
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Capitolo
33 Coming Soon
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Capitolo 33 *** Capitolo 33: ***
Capitolo
33:
***
“La
regina Victoria gradisce il suo tè?”
La
bambina saltellò sulla sedia.
“Si!
Ha detto che ne vuole ancora.” afferrò la teiera
di porcellana,
compagna di un set da tè con fantasia floreale e bordi in
oro, e
fece il giro del piccolo tavolino rotondo.
“Piano
Rosie, non rovesciare tutto in giro.”
“No
non rovescio nulla.” la bambina diligentemente
sollevò la teiera
sopra la tazzina, sistemata davanti alla bambola di pezza, e
versò
il liquido caldo, senza far andare fuori nemmeno una goccia. Poi
appoggiò la teiera sul centrino ricamato, e prese la ciotola
con i
cubetti di zucchero, con l’apposita pinza, ne
lasciò cadere uno
nella tazzina, e con il cucchiaino girò il tutto.
“Brava,
sei diventata la maestra del tè.”
La
bambina trotterellò seduta al proprio posto.
“Anche
alla regina Elisabetta piace?”
“Sì!-
esclamò entusiasta sorseggiando il suo tè. -E a
te piace?”
“Come
sempre. E lo zucchero va bene?”
“Sì
tesoro è perfetto.”
Il
gusto preferito di Rosie era il tè con bacche selvatiche e
mirtillo.
Per essere ancora così piccola aveva le idee molto chiare su
quello
che le piacesse o meno.
Come
ad esempio, detestava il rosa troppo acceso, preferiva
tonalità più
tenui, vicino al lilla o al viola. Ci aveva fatto fare
l’intera
cameretta così. E amava tutte le sue bambole, a cui aveva
dato ad
ognuna nomi di regine o principesse realmente esistite. Nulla di
fantasia. Aveva con sé ancora il cane di pezza Sparky, che
aveva da
quando era nata. Amava gatti e cavalli; in realtà amava
tutti gli
animali, ma quelli soprattutto erano i suoi preferiti. Ovviamente
sapeva già leggere e scrivere. I suoi preferiti erano i
racconti di
fiabe con castelli, di avventura, e di mistero.
John
spesso e volentieri si domandava come avesse fatto a sviluppare una
passione del genere, ma qualche dubbio lo aveva.
“Ma
lasciamo il tè anche per quando torna
papà?”
“No
tesoro, sarà tardi quando torna. Lo sai che è al
lavoro.”
“Si
perde sempre il tè.” Rosie a quelle parole mise il
broncio.
“Lo
facciamo questo fine settimana. Anzi sai cosa, ci facciamo un bel
pic-nic sulla spiaggia.”
Gli
occhi di Rosie si illuminarono come piccole stelle.
“Davvero?”
“Ovviamente.
E verranno anche la regina Elisabetta e la regina Vittoria?”
“Si!”
La
bambina andò a fiondarsi tra le braccia dell’uomo,
che rise,
accarezzandola sulla testa.
“Quando
torna a casa glielo diciamo. Sei contenta?”
“Tantissimo!”
Le
diede un bacio tra i biondi capelli.
“Dai
vai a finire il tuo tè che poi mettiamo a posto.”
Rosie
si staccò dall’abbraccio e tornò sulla
propria sedia.
Avevano
quasi finito con quel loro, che ormai da qualche tempo, era diventato
un rituale pomeridiano, quando un insolito suono attirò
l’attenzione
dell’uomo. Era un suono lontano, ma lui aveva buon orecchio e
si
era accorto subito che c’era qualcosa fuori posto, che non
centrava
nulla con il rumore delle onde o con il vento che spirava forte, un
suono meccanico, che non sentiva da anni.
Alzò
la testa e guardò fuori dalla piccola finestra del salotto,
quella
che dava sul sentiero che scendeva lungo la scogliera.
Strinse
le labbra.
“Che
c’è?” Rosie era molto incuriosita da
quell’insolito
cambiamento.
Le
fece segno di tacere e la bambina subito si ammutolì.
Il
suono sembrava provenire da dietro la casa. Era come un rombo
ovattato.
Passarono
alcuni istanti.
“Rosie
vieni.” l’uomo si alzò dalla piccola
sedia.
“Che
succede?”
Prese
la bambina per la mano e la accompagnò fino alle scale, poi
si piegò
sulle ginocchia per poterla guardare negli occhi.
“Ora
tu vai in camera tua, chiudi la porta, e ci resti finché non
ti
vengo a chiamare. Capito?”
“Ma…”
“Per
favore Rosie fa come ti ho detto. Resta in camera tua.”
“Che
succede.” dal tono più acuto che aveva assunto si
capiva che era
spaventata.
“Niente
tesoro mio. Non c’è niente che non va.
Però voglio che tu stia
nella tua cameretta. Solo per poco te lo prometto.”
La
bambina si appese con le sottili braccia al collo del l’uomo,
che
la strinse a se.
“Su
vai. Vedrai che non succederà niente.”
Sciolse
l’abbraccio, e lei salì svelta le scale.
In
quel momento bussarono alla porta dell’ingresso.
L’uomo
tornò in piedi e si sistemò meglio
l’angolo della camicia che si
era sollevato, ma non osò muoversi finché non
sentì la porta al
piano superiore chiudersi.
La
persona dall’altra parte bussò ancora,
più forte questa volta.
“E
dai Sherlock apri, lo so che ci sei!”
Quella
voce la conosceva fin troppo bene. Chiuse per un attimo gli occhi, e
quando gli riaprì, aprì la porta.
“Ah
eccoti, finalmente. Da quanto tempo eh?”
Greg
Lestrade se ne stava in piedi sulla soglia di quella che Sherlock
Holmes considerava ormai da anni, casa.
“Non
mi dire che dopo tutti questi anni ancora non parli.” lo
incalzò
il detective.
Sherlock
assunse un'espressione scocciata.
“Che
cosa ci fai qui Lestrade?”
Il
detective spalancò le braccia.
“Miracolo!
Ha ritrovato la voce!”
“Hai
finito?”
“Tu
sei sempre molto simpatico vedo. E’ questo il modo di
salutare un
vecchio amico?”
Sherlock
fece una smorfia.
“Noi
non siamo amici, non lo siamo mai stati.”
“Cavolo
se sei acido. Mangiato limoni a colazione stamattina? Non mi fai
nemmeno entrare per offrirmi un caffè?”
“No.
Vattene.”
Lestrade
sbuffò.
“Andiamo,
lo sai che non posso.”
“Che
cosa vuoi da me?”
Ma
in quel momento arrivò da dietro le spalle del detective,
qualcun
altro.
Sherlock
spalancò la bocca, in un'espressione scioccata.
“Mi
sei mancato fratellino, non vieni a darmi un abbraccio?”
Sherlock
strinse le labbra e il suo viso si deformò.
“Perché
siete qui! Andatevene da casa mia!”
“Non
essere sciocco. Non andiamo da nessuna parte senza di te.”
“Come
avete fatto a…”
“A
trovarti? Di certo non grazie al grande detective qui.”
Mycroft
puntò il pollice verso Lestrade, che si indignò
particolarmente.
“Ehi!
Possibile che voi Homes dobbiate essere sempre così
offensivi?”
Ma
Mycroft semplicemente ignorò il pover uomo, ed
entrò dentro casa,
scansando il fratello minore.
“Non
vi ho dato il permesso di entrare!”
“Dov’è
il caro John?”
Sherlock
irrigidì ogni parte del corpo. Nascose le mani dietro la
schiena, e
senza farsi vedere lasciò scivolare l’anello dal
dito, per
nasconderlo nella tasca dei pantaloni.
“Non
so di cosa stai parlando.”
“Ah-ah,
divertente fratellino.”
“Smettila
di chiamarmi così.”
“Non
dovrei chiamarti fratello?”
“No.”
il tono di Sherlock era mortalmente serio, e anche lo sguardo.
“Quanto
sei crudele.”
“Non
è crudele. Andatevene.”
“Credimi
tu non vuoi che c’è ne andiamo.”
“Ah
no? E perché mai? Siete a casa mia, e vi considero degli
intrusi.”
“Tecnicamente...-
si intromise Lestrade. -E’ casa di John. O meglio, di John
Doyle.”
Sherlock
non poté fare a meno di esprimere sorpresa.
“Come…”
“Lo
so? So fare il mio lavoro.”
“Ma
per favore. E’ solo grazie a me se li abbiamo
trovati.”
“Tu
non puoi mai darmi un po’ di merito per qualcosa
vero?”
“Avete
finito? Ve ne andate?”
Lestrade
prese a fare il giro della cucina. Infilò una mano nel
lavandino e
tirò fuori due calici di vino usati e lasciati lì
dalla sera
precedente.
“Ti
sei dato all’alcolismo o non ti piace più
pulire?”
“Non
sono affari tuoi.”
Il
detective sbuffò e andò verso il salotto.
Sherlock prontamente si
avvicinò in quella direzione.
“Stavi
dando un party?”
“Non
sono affari tuoi.”
“Ma
la smetti? Si può sapere che ti prende? Non ci vediamo da
anni e mi
tratti così?”
“Parla
per te.”
“Senti
io vorrei fare le cose con le buone.”
“Con
le buone? Cos’è, una minaccia?”
“Vedila
così fratellino.- si intromise Mycroft. -”John ora
è nella sua
bella clinica in città se non sbaglio. Fuori ci sono gli
uomini di
Lestrade in un'auto di pattuglia, in borghese. Pensa se dovessero
entrare ora, con tutti i suoi pazienti in sala di attesa, oppure, se
fai il bravo e collabori, aspettiamo che abbia finito e
sembrerà
soltanto che se ne sta andando con degli amici.”
Lo
sguardo di Sherlock si riempì d’odio.
“Sei
proprio un bastardo.”
“Piano
con gli insulti. Che ti piaccia o meno siamo sempre fratelli, e tu
devi fare la cosa giusta. Basta nascondersi. Devi tornare a
casa.”
“Io
sto bene qui, questa è casa mia, e non puoi costringermi a
fare
proprio niente.”
Greg
fece un passo in avanti.
“Tecnicamente…
Può. Può accusare John di rapimento.”
Sherlock
a quelle parole scoppiò a ridere.
“Rapimento?
Che c’è a Scotland Yard avete proprio voglia di
farvi ridere
dietro? Come si dovrebbe rapire un uomo adulto che se ne è
andato di
sua spontanea volontà?”
“Se
te ne sei andato davvero di tua spontanea volontà
perché il caro
John ha dovuto falsificare dei documenti e svignarsela come avrebbe
fatto un criminale?”
Lo
sguardo di Sherlock si accese dalla rabbia.
“A
causa tua e lo sai benissimo!”
“Perché
mi sono preoccupato per te e per la tua salute? Sono proprio
cattivo.”
“Si
lo sei. Tu non hai voluto ascoltarmi. Vuoi prendere decisioni al mio
posto, cose che riguardano me stesso, perché non puoi
controllarmi,
e tu odi non controllare ogni cosa.”
Mycroft
avanzò con fare minaccioso e puntando un dito contro il
petto del
fratello minore.
“Io
mi sono sempre preoccupato per te. Chi ti è venuto a
recuperare ogni
volta che cadevi nel baratro? Chi ti ha tirato fuori ogni volta che
finivi nei bassifondi perché eri troppo strafatto? Io! Non
Lestrade,
non John. Io! E tu hai preso e te ne sei andato, fregandotene delle
conseguenze, che è esattamente quello che fai sempre! Te ne
freghi
degli altri.”
Sherlock
sentì gli angoli degli occhi bagnarsi ma non avrebbe versato
una
sola lacrima, nemmeno se erano per la rabbia, o per la frustrazione.
“Sei
solo geloso perché preferisco lui a te. Tu sei sempre stato
geloso
di quello che avevo o di chi mi dava un minimo di attenzioni.”
“E
chi Sherlock ti ha mai dato attenzioni?”
Sherlock
strinse forte i pugni per evitare di picchiare il proprio stesso
fratello.
Greg
si mise in mezzo.
“Va
bene, basta. Non riuscite a fare una conversazione civile voi due.-
spinse Mycroft per farlo allontanare. Poi si rivolse al maggiore
degli Holmes. -Non dovevamo convincerlo a seguirci con le
buone?”
“Le
buone con lui non hanno mai funzionato.”
Lestrade
sollevò le braccia per poi farle ricadere lungo i fianchi.
“Che
ho fatto di male nelle mie vite precedenti per meritare voi due.
“Sherlock,
quello che tuo fratello sta cercando di dirti, in modo pacato e
gentile se ne fosse in grado; è che dovresti tornare a casa.
Intendo
a Londra. Capisco perché tu abbia sentito il bisogno di
fuggire,
dico davvero, credimi. Ma è ora di prendersi le proprie
responsabilità, anche se è difficile.”
“O
magari dovresti fare il tuo lavoro.”
“Ma
io non posso farlo se tu non collabori! Sei l’unico testimone
che
ho, non ho altro. Per favore.” il detective sperò
che le suppliche
potessero bastare. In tutto quel tempo il caso era rimasto freddo, e
la cosa non lo faceva dormire la notte. In più aveva dovuto
usare
tutte le risorse per cercare i due scomparsi. L’unica cosa
positiva
era che nemmeno il grande Mr. Governo in quegli anni era riuscito a
non trovare nulla, almeno questo in un certo senso lo consolava.
“Mi
dispiace Lestrade…”
“Verrai
via con noi che ti piaccia o meno, te lo abbiamo detto. Non hai
scelta. O tutti sapranno che il tuo amico John è un
truffatore. E’
questo che vuoi?”
Sherlock
fece per aprire la bocca e ribattere ma un rumore proveniente alle
spalle lo fece girare di scatto. Ormai conosceva quella casa meglio
delle sue tasche, sapeva distinguere ogni scricchiolio delle assi di
legno, i vari suoni provocati dal vento che spirava dal mare o dalla
campagna. E quello era stato il preciso scricchiolio di qualcuno che
aveva appoggiato i piedi sull’ultimo gradino della scala che
portava al piano superiore, dove si trovavano le stanze da letto.
“Ehi.-
si piegò sulle ginocchia. -Non ti avevo detto di stare in
camera tua
e non uscire finché non venivo a chiamarti?”
La
bambina, che ora si stava dondolando avanti e indietro sui propri
piedi, aveva uno sguardo preoccupato, gli gettò le braccia
al collo.
“Va
tutto bene, sto solo discutendo con dei vecchi amici… Ma ora
se ne
vanno.” la abbracciò e lei lo strinse
più forte che poteva.
“Rosie?
Sei davvero tu? Mio dio ma quanto sei cresciuta!”
Lestrade
si era avvicinato per vedere meglio la bambina, ma lei vedendo degli
estranei si era riparata dietro a Sherlock.
“Sta
tranquilla conosco tuo padre da prima che tu nascessi sai? Mi chiamo
Greg. Sei diventata davvero grande, wow.”
Rosie
stava sbirciando da dietro la gamba di Sherlock.
“Ti
ha lasciato a fare la babysitter?” Mycroft non sembrava
affatto
felice della scena.
“Sta
zitto.” Sherlock sibilò quelle parole tra i denti
“Hai
fatto proprio un bel miglioramento, ti sta usando per i suoi comodi.
Immagino che gli convenga così, mentre lui sta fuori tutto
il
giorno, avere qualcuno che bada a sua figlia.”
“Ti
ho detto di chiudere quella maledetta bocca. Non sai proprio
niente.”
“Mycroft,
smettila un po’. E’ solo una bambina.”
anche Lestrade sembrava
risentito.
“Non
importa, non cambia nulla. Tu verrai con noi. Lestrade, chiama i tuoi
colleghi.”
Sherlock
a quelle parole fece un passo in avanti.
“No!”
Rosie sempre ben nascosta dietro alle sue gambe.
“Non
ci lasci scelta.”
“Verrò
con voi ma lasciatelo stare!”
“Bene
allora. Se hai deciso di essere collaborativo. Metti il cappotto.
C’è
ne andiamo da qui.”
Lestrade
si avvicinò al fianco di Mycroft e iniziò a
parlargli all’orecchio.
“E
dovrebbe essere un mio problema?” il maggiore degli Holmes
sembrava
molto infastidito da qualunque cosa il detective gli stesse dicendo.
“Va
bene, va bene, ho capito. Ma io non faccio il babysitter.- diede
un'ultima occhiata al fratello minore. -Datevi una mossa.”
prese la
porta e uscì.
Lestrade
sospirò.
“Mi
dispiace, che sia andata così intendo.”
“Non
è vero. Come avete fatto a trovarci?”
“Ahm…”
Lestrade prese un foglio piegato dalla tasca
dell’impermeabile e lo
allungò a Sherlock.
Sherlock
aprì il foglio diviso in quattro parti. C’era un
disegno di Rosie,
erano disegnati tutti e tre e sullo sfondo c’era la loro
casa.
Aggrottò le sopracciglia.
“Come
fai ad averlo?”
“A
scuola è arrivata una nuova maestra no? Lavorava a Londra
come
insegnante privata per una famiglia, il padre di questa famiglia
lavora per l’ufficio di Mycroft. Credo che lei abbia sentito
il tuo
nome, quando è venuta qui ha visto il disegno, e ha capito.
Sì
insomma, le è bastato fare due più due, non
è che esistano così
tanti Sherlock. Così ha chiamato il suo vecchio capo, e lui
ha
chiamato tuo fratello. Abbiamo controllato i nomi che ci ha dato, o
meglio, quello di John, visto che non potevamo basarci solo sul tuo
nome, e così abbiamo scoperto che questa casa è
con il suo nome
falso, e abbiamo anche scoperto che lavorava allo studio medico in
città e alla Casa di Riposo.”
Sherlock
deglutì.
“Ah...”
Si
sentiva così tremendamente stupido per essersi lasciato
fregare da
un dettaglio tanto insiginificante. Come aveva fatto a non pensarci?
Per uno stupido nome poi. Aveva dato per scontanto che nessuno che
potesse conoscerlo sarebbe mai arrivato fino a li. E nonostante non
avesse scritto il suo nome su nessun documento ufficile, nemmeno
sull’accquisto della casa, era bastato così poco
per rovinare
tutto. Come sempre. Poteva incolpare solo se stesso e la propria
stupidità e presunzione.
“Dai,
tuo fratello ci sta aspettando.”
“Ci
sono davvero quegli agenti davanti alla clinica dove lavora
John?”
“Si.
Lo sono andati a prendere, ma aspetteranno che abbia finito il
turno.”
Sherlock
annuì.
“Vieni
tesoro.” prese Rosie in braccio.
“Dove
andiamo?”
“Facciamo
un bel viaggio.”
“Ma
papà?”
“Lui
ci raggiunge quando ha finito il lavoro.”
“Ma
dove andiamo?”
Sherlock
la baciò sulla tempia.
“In
un bel posto, vedrai ti piacerà.”
“E
piacerà anche a papà?”
“Certo.
Sono sicuro di sì.”
“Okay.
Sei arrabbiato?”
“Perché
dovrei essere arrabbiato?”
“Perché
non sono rimasta nella mia stanza. E per il
disegno…”
“Non
potrei mai arrabbiarmi con te. Non hai fatto niente di sbagliato te
lo assicuro.”
La
sistemò sulla panca all’ingresso, in modo da
poterle infilare le
scarpe.
“Io..
Vi aspetto qua fuori.” Lestrade prese la porta.
Dopo
un paio di minuti Sherlock uscì con la bambina in braccio,
Gred era
rimasto ad aspettarli sul piccolo spiazzo davanti lo casa.
“Che
c’è avevi paura che scappassimo?”
“Visto
i precedenti.”
Sherlock
fece un piccolo sorriso.
“Guarda
che potresti anche gongolare un po’ meno.”
“E
perdere l’occasione per farvi sentire degli stupidi?
Perché mai.”
“Vedo
che non sei cambiato affatto.”
“Non
sai niente di me.”
“Dici?”
“Non
sapevi niente nemmeno prima se è per questo.”
“Hai
finito di insultarmi?”
“Se
ti da così fastidio lasciami qui.”
“Bel
tentativo.”
Salirono
per il sentiero e arrivarono a bordo strada.
“Allora?
Dov’è la macchina?”
“Niente
macchina.” Greg attraversò la strada e si
incamminò tra l’erba
alta. Sherlock lo fissò con espressione poco convinta,
restando
fermo sul ciglio.
“Dai
muoviti!” urlò il detective di Scotland Yard.
Sherlock
dal canto suo, se avesse potuto, sarebbe fuggito, ma non poteva fare
altro che rassegnarsi a quella situazione. Prese un bel respiro, e
attraversò la strada. Solo in quel momento si accorse che in
lontananza si intravedeva un elicottero, il suono delle eliche e del
motore ora arrivava più forte.
“Che
cos’è?” Rosie sembrava un misto tra
l’intimorito e il curioso.
“Un
elicottero tesoro…”
“Oh,
bello!”
Sherlock
allungò il passo per raggiungere Lestrade.
“Lestrade
non mi sembra il caso. Credevo ci fosse un auto.”
“Mi
dispiace, ci sarebbe voluto troppo tempo con una macchina.”
“Ma
è solo una bambina.”
“Mi
dispiace.” Greg era davvero dispiaciuto per quella
situazione, ma
anche lui non poteva fare altrimenti.
“Voglio
andare!” Rosie dal canto suo sembrava entusiasta di provare
questa
nuova esperienza, molto più di quanto non lo fossero gli
adulti.
Sherlock
sospirò e salì a bordo. Si mise sul sedile
accanto a quello del
fratello e al suo fianco sistemò la bambina, assicurandosi
che fosse
ben legata con ogni presidio di sicurezza. Greg aveva richiuso il
portellone e si stava allontanando, facendo il percorso verso la
casa.
Uno
dei piloti allungò un paio di cuffie, contro il rumore.
Sherlock
ne mise un paio a coprire le orecchie di Rosie, sempre più
entusiasta, per lei era come andare sulle montagne russe al luna
park, o al parco divertimenti.
Quando
i piloti dell’elicottero furono sicuri che tutti fossero
protetti e
con le cinture ben agganciate, finalmente si sollevarono in volo.
Sherlock
strinse Rosie contro al fianco, ma lei era troppo impegnata a
guardare fuori il paesaggio che si allontanava sempre di più.
Rosie
non aveva mai preso un aereo nella sua ancora breve vita. Avevano
fatto dei viaggi per brevi vacanze, soprattutto lungo la costa
scozzese, ma erano sempre andati in auto.
Amava
sempre provare o scoprire cose nuove ed era tremendamente curiosa,
tanto che almeno un paio di volte si era cacciata in ‘piccoli
guai’, niente di pericoloso ma era bastato a far venire i
capelli
bianchi sia a John che a Sherlock.
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__________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
TA
DAN
A
sorpresa il capitolo 33- In realtà avrei aggiornato
già settimana
scorsa ma sono senza connessione e ne ho approfittato oggi che sto
riuscendo ad usare il 4G del cellulare collegato al pc. Non tiratemi
le pietre, so che ho buttato un altra bomba diciamo, da capitolo che
non ti aspetti (ops). Non do troppi dettagli, ovviamente, altrimenti
dove sta il divertimento.
Per
quanto riguarda la questione, John e Sherlock che si sono fatti
beccare, spero che la questione sia abbastanza chiara ma in caso
faccio uno spiegone se qualcuno dovesse avere qualche dubbio.
Bene,
non mi dilungo troppo, in realtà spero non mi abbiate
abbandonato,
so che è trascorso un sacco di tempo dall’ultimo
aggiornamento.
Qui
procede tutto bene, sto cercando di finire un paio di cose e
continuarne delle altre, spero di riuscire a pubblicarne qualcuna in
inverno, come avevo già detto.
P.s.
sto
anche cercando una beta a cui possa interessare aiutarmi con la
grammatica (ormai immagino lo abbiate capito da tempo che non
è
esattamente il mio forte). Se qualcuno fosse interessato mi contatti
pure.
Ringrazio
di cuore tutte le persone che hanno aggiunto questa storia tra le
preferite e le seguite
<3
Sono
sia su Instagram che su Facebook per
news e
quant’altro:
https://www.instagram.com/lady_norin/
https://www.facebook.com/ladynorin/
Aggiornamenti:
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Capitolo
34 Coming Soon
|
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Capitolo 34 *** Capitolo 34: ***
Capitolo
34:
***
Il
viaggio in elicottero, fu molto più breve. Per arrivare a
Londra ci
sarebbero volute almeno dalle sei alle otto ore con un automobile.
Quindi almeno in quel senso Sherlock era grato che quella tortura
fosse durata così brevemente.
Quando
atterrarono il sole stava già tramontando, e si trovavano in
un
posto che il detective non riusciva a riconoscere.
Una
volta che l’elicottero si posò a terra, e le pale
delle eliche
rallentarono il ritmo, sganciò la cintura, e poi fece lo
stesso con
quella di Rosie, le tolse anche le cuffie.
“Stai
bene?”
Lei
annuì.
“E’
stato divertente!”
“A
si? Non è esattamente il termine che avrei usato.”
“A
te non è piaciuto?”
“Uhm,
ecco, io sono un po’ cresciuto per divertirmi.”
Rosie
rise. Il suo tono gioioso e squillante bastò a farlo
sorridere.
Sherlock
scese per primo, ed allungò le braccia. Rosie si era subito
tuffata
tra di esse, aggrappandosi con una mano alla spalla dell’uomo.
“Dove
siamo?” chiese
Rosie incuriosita. Sherlock scostò
delle ciocche di biondi capelli che le erano finite davanti al volto.
“Non
lo so tesoro.”
“Non
lo sai?- Mycroft era sopraggiunto alle spalle di Sherlock e si era
messo al fianco del fratello minore. -Che vergogna, non riconosci
nemmeno più casa tua.”
Il
volto di Sherlock a quelle parole si era contratto. La mascella
stretta, e gli occhi sgranati.
Rosie
vedendo Sherlock in quello stato, si era subito preoccupata.
Accarezzò l’uomo sulla guancia, si
avvicinò al suo orecchio
sussurrandogli qualcosa.
“Credevo
dovessimo andare a Londra…” Sherlock lo
sibilò tra i denti.
“Il
tuo affetto verso i nostri genitori mi sorprende Sherlock. Sei
sparito per anni, dovresti solo ringraziare che ti abbia portato qui.
Non hai la minima idea dei salti mortali che ho dovuto fare per
convincerli
del
perché tu fossi sparito.”
“Oh
sono sicuro che ti sarai inventato della grandi storie.”
Mycroft
raddrizzò la schiena, assumendo un'aria imponente,
solitamente lo
faceva quando doveva terrorizzare qualcuno, e funzionava sempre.
Tranne con Sherlock, ovviamente.
“Stammi
a sentire piccolo ingrato, non hai la più pallida idea di
quello che
è stato qui. Ho dovuto consolare mamma che era perennemente
disperata per la tua assenza. Mi sono dovuto inventare una missione
segreta in un paese lontano. Ho perfino fatto scrivere ad
un falsario delle lettere. Quindi tu ora entri e ti comporti da bravo
figlio a cui mancano mamma e papà, chiaro?”
La
mascella di Sherlock si strinse ancora di più.
Portò
una mano sull’orecchio di Rosie e la spinse delicatamente con
il
lato della testa contro la spalla.
“Sei
un bastardo.”
“Buh-hu.
Aspetta che me ne importi qualcosa. Non te ne frega proprio niente
degli altri, ti importa solo ed esclusivamente di te stesso. Sei
andato a spassartela con John, lasciando tutti nei liquami fino alle
ginocchia.”
Sherlock
afferrò Mycroft per il bavero del cappotto.
“Io.
Non. Me. La. Sono. Spassata.” il tono era duro e pieno di
rabbia.
“Ah
no? E io mi chiedo, cosa avete fatto tutto questo tempo così
isolati
e
soli soletti?
Hm?”
Le
guance di Sherlock avvamparono, e Mycroft si concesse un piccolo
ghigno di vittoria.
“Non
sono affari tuoi!” Sherlock
sorpassò il fratello, andando in verso casa Holmes.
La
casa era esattamente come se la ricordava. Negli anni in cui era
stato via non era cambiato nulla. I mattoni rossi erano sempre al
loro esatto posto, anche il giardino era esattamente come lo aveva
visto l’ultima volta.
Tutto
intorno campagna aperta. Di tanto in tanto si sentiva il suono di
qualche insetto, che ancora non aveva intenzione di andarsene in
letargo.
Era
stato bello crescere in quel posto.
Pensò
che in fondo era felice che anche Rosie potesse crescere in una bella
casa come quella in cui erano ora.
Sherlock
amava la casa sulla scogliera. Non l’avrebbe lasciata per
nessuna
ragione al mondo. Niente e nessuno lo avrebbe convinto o costretto a
tornare a Londra, o alla vita che aveva prima. Mai.
Le
luci dentro casa Holmes erano tutte accese e si capiva che gli
abitanti al suo interno fossero ancora ben svegli.
Sherlock
poteva già percepire il calore che si trovava
all’interno, stando
sulla soglia di casa.
“Che
posto è?” Rosie glielo aveva sussurrato
all’orecchio.
“E’
un bel posto vedrai, io sono cresciuto qui.”
Trovò
molto buffa l’espressione di stupore sul volto della bambina.
“Davvero?
Pensavo fossi cresciuto con papà.”
Sherlock
a quelle parole scoppiò in una sonora risata. Diede un bacio
sulla
tempia a Rosie.
“Avrei
tanto voluto, ma purtroppo sono cresciuto con questo qui.”
Si
voltò ad indicare Mycroft, che nel frattempo gli aveva
raggiunti ed
era rimasto un passo indietro.
Ora
l’espressione di Rosie era ancora più stupita, e
molto confusa.
“Ti
prometto che ti spiegherò tutto, presto, ok?”
Lei
annuì. In quel momento si aprì la porta, senza
che nessuno avesse
bussato.
Difronte
a loro comparse una donna, con gli occhi incredibilmente azzurri e i
capelli bianchi raccolti dietro la testa, senza nemmeno un capello
fuori posto. Era vestita in modo molto semplice, con una camicetta
bianca e dei pantaloni di stoffa, blu.
“Sherlock!”
la donna quasi urlò dalla sorpresa, e in un secondo Sherlock
si
ritrovò stritolato in una morsa e riempito di baci ovunque
sul viso.
“No…
Mad…” ma per quanto cercasse di svicolare e
allontanarsi, era
intrappolato, stretto in quell’abbraccio materno.
“Madre…”
“Il
mio bambino!” la donna sembrava non ci sentisse nemmeno,
continuava
a lasciare baci a stampo sul viso del figlio.
La
signora Holmes prese il volto del figlio tra le mani, in modo da
poterlo guardare meglio.
“Santo
cielo sei ancora più bello dell’ultima volta che
ti ho visto! E
sei anche ringiovanito!”
Sherlock
sentì le guance scottare.
“Non
mi sembra il caso di esagerare…”
“Ma
quale esagerare! Sono solo fatti!”
La
signora Holmes stritolò il figlio nell’ennesimo
abbraccio.
“Possiamo
entrare madre, o dobbiamo stare qua fuori tutta la notte?”
La
voce piccata di Mycroft interruppe l’idillio di
quell’incontro
famigliare.
“Oh
Mycroft, sei sempre il solito geloso! Forza entrate.”
Il
primo ad entrare in casa Holmes, fu proprio Sherlock.
“E
comunque, io non sono geloso.” il tono lamentoso del maggiore
dei
fratelli Holmes lasciava intendere tutto il contrario, ma la donna
gli diede un piccolo buffetto sulla spalla.
“Sei
stato qui anche domenica, mentre mio figlio non lo vedo da
anni.”
lamentò la signora Holmes.
“Sono
anche io tuo figlio.”
“Cara,
smettila di bisticciare con Mycroft.” per fortuna
c’era sempre il
signor Holmes a fare da paciere. Purtroppo, per sua grande sfortuna,
a detta dell’uomo, i suoi due preziosi figli, avevano preso
tutto
il carattere della madre.
Il
signor Holmes infatti preferiva stare fuori da qualsiasi questione o
litigio; amava la sua amata poltrona più di ogni altra cosa,
ovviamente veniva solo dopo moglie e figli, anche se spesso e
volentieri ne dubitavano. Ma comunque, niente lo avrebbe fatto
desistere dal passarci le ore; rilassato a leggere giornali vari o
qualche grosso libro, sorseggiando tè, o un bicchiere di
Brandy la
sera.
“Ciao
papà.” Sherlock salutò quasi
timidamente il genitore, che solo
per un momento staccò gli occhi dal tomo che stava leggendo.
“Ciao
figlio. Ti trovo bene. Tu stai bene?”
“Si,
alla grande.” annuì semplicemente.
Anche
il genitore si limitò ad annuire.
“Ne
sono molto felice. Ci sei mancato.”
“Anche
voi.”
“Soprattutto
a tua madre.”
“Si,
me lo ha fatto notare.”
“Scusami
e tu chi sei?” Era
stata la signora Holmes a parlare, e presi dalla confusione di quella
domanda,
padre e figliorivolsero
lo sguardo verso la donna, senza capire con chi stesse parlando.
Sherlock
capì un attimo dopo, perché lo sguardo di lei era
rivolto verso il
basso.
Rosie
si era nascosta dietro le gambe del detective.
“Ah…
Lei è Rosie.”
“Rosie?”
chiese la signora Holmes con tono sorpreso ed incuriosito.
“La
figlia… La figlia di John….”
Sul
volto della donna si dipinse un espressione quasi di sollievo, e a
Sherlock la cosa fece male.
“Ma
certo! Santo cielo ma guarda quanto sei grande! Lo sai, quando ti ho
visto eri ancora dentro la pancia della tua mam-”
Sherlock
diede un forte colpo di tosse, e rifilò un occhiataccia alla
propria
madre, che per fortuna, da donna sveglia ed intelligente
qual’era,
capì subito.
“Eri
molto, molto piccola. Ma come sta John?”
Questa
volta la domanda fu rivolta direttamente al figlio.
“Bene.”
“Sono
così contenta, dopo tutto quello che ha passato.”
“Già,
poverino.” il tono di Mycroft nel dire quella frase era stato
spruzzato con una punta di acidità, e mal celata ironia.
Anche
la signora Holmes rifilò un occhiataccia al figlio maggiore.
“Su
toglietevi i cappotti e mettetevi comodi.”
Sherlock
obbedì e si sfilò il lungo cappotto nero, per poi
chinarsi ad
aiutare la bambina.
“Santo
cielo!”
Persino
Sherlock sobbalzò sentendo il tono così sconvolto
della madre.
“Perché
siete in pigiama!”
Sherlock
si mise in piedi, tenendo sul braccio il proprio cappotto e quello di
Rosie.
“Chiedilo
al tuo primogenito.”
La
signora Holmes si rivolse con sguardo di fuoco verso Mycroft.
“Mycroft
Holmes! Hai una valida scusa per questo? Perché mio
figlio
è uscito di casa in pigiama! E poi non ti vergogni, anche
una
bambina piccola! Non ti ho cresciuto così!”
“Madre…”
“Silenzio!
Non ti ho dato diritto di replicare!”
Mycroft
diventò rosso in faccia dalladalla frustrazione, ma
ovviamente non
osò ribattere. Nessuno contraddiceva la signora Holmes.
“Il
mio povero bambino.” la signora Holmes tornò a
stritolare di
abbracci Sherlock, che proprio non ne poteva più di tutto
quel
contatto non richiesto.
“Hai
preso freddo?”
“No,
avevo il cappotto…”
“E
tu tesoro? Senti freddo? Vuoi una coperta?”
Sherlock
sentì Rosie al suo fianco che ridacchiava.
“Lo
vuoi un bel biscotto?” la signora Holmes allungò
la mano, ma Rosie
prima alzò la testa e guardò Sherlock, lui le
accennò un sì con
la testa, così la bambina prese la mano della donna.
“Sei
davvero una brava bambina. Dai ora andiamo di là in cucina
così ti
do il biscotto.” le due si allontanarono.
Sherlock
andò a sedersi su di una delle poltrone.
Rosie
tornò un minuto dopo trotterellando felice, tenendo tra le
mani un
grande biscotto tondo con grosse gocce di cioccolato.
Si
avvicinò alle gambe di Sherlock, e si mise seduta a terra,
sul
tappeto. Sherlock le accarezzò dolcemente i capelli.
La
signora Holmes ovviamente non si perse nulla di quella toccante
scena, e dentro la sua testa stava già frullando qualcosa.
“Cosa
fa di bello John?
Come mai non è con voi?” l’aveva fatta
come una normalissima domanda disinteressata, ma in realtà
era
interessata e come.
“Sta
lavorando. Lui lavora in una clinica.”
“Ah
quindi ha continuato con il lavoro da dottore. Ne sono molto felice.
E’ uno dei migliori che abbia mai conosciuto. Ci sono di
quegli
incompetenti in giro, se solo fossero tutti come John, potremmo avere
tutti le cure migliori.”
“Immagino
che sia così…”
“E
tu invece cosa fai?”
Sherlock
avrebbe dovuto aspettarsi una domanda del genere, invece era arrivato
impreparato, non pensando minimamente che tutti glielo avrebbero
chiesto prima o poi.
“Io…
Niente di che…”
“Te
l’ho detto madre, non ti posso dire quello che ha fatto
Sherlock in
questi anni.” per fortuna Mycroft aveva deciso di venire in
soccorso del fratello, anche se lo aveva fatto solo per portare
avanti la farsa che si era inventato.
“Oh
tu e i tuoi segreti da spia. Ora hai coinvolto anche una famiglia
intera!”
“Non
è così…”
“E
com’è?”
“Non
posso dirtelo.”
Più
Mycroft insisteva sul riserbo, e più la signora Holmes si
infuriava
perché voleva sapere, ma per loro fortuna non poteva farci
nulla, si
sarebbe dovuta mettere il cuore in pace.
“E
comunque John ha liberamente scelto di seguire Sherlock.”
“E’
davvero molto eroico da parte sua, sono sicura che seguirebbe
Sherlock ovunque.”
Il
diretto interessato si schiarì la gola.
“Non
parlate di me come se non ci fossi.”
“Scusa
tesoro hai perfettamente ragione. Però merito di sapere
quello che
avete fatto in questi anni di lontananza.” la donna sapeva
come
colpire basso perché aveva assunto quell’aria
imbronciata, che
sapeva perfettamente funzionare per ottenere qualunque cosa volesse,
dal signor Holmes.
“Madre…
Vale lo stesso discorso di prima. Non può dirti nulla. E ad
ogni
modo, ha fatto quello che fa sempre. Ovvero il suo lavoro.”
Per
una volta Sherlock dovette ringraziare il fratello maggiore per
essersi messo in mezzo.
“Bene
allora visto che ci sono dei segreti in questa famiglia,
andrò a
vedere di combinare qualcosa di produttivo.”
“Madre…”
“No,
va bene così.” la donna, a testa alta se ne
andò, sparendo nel
corridoio che portava all’altro lato della casa.
Sherlock
rimase fermo immobile al suo posto, fissando il vuoto per qualche
istante.
Anche
Mycroft stava fissando Sherlock con intensità, probabilmente
aveva
già capito che nella testa del fratello più
piccolo dovesse esserci
un dilemma interiore, decisioni difficili dovevano essere prese.
Sherlock
si alzò dalla poltrona con uno scatto.
“Tesoro
io devo andare un attimo di là, riesci a stare sola per
qualche
minuto?”
Rosie
era ancora tutta intenta ad assaporare il suo biscotto con scaglie di
cioccolato, quindi non diede particolare attenzione a quelle parole,
si limitò ad annuire.
“Allora
io… Io sono di là…” Sherlock
a sua volta sparì, alla ricerca
della madre, che non era finita chissà dove, solo nella
stanza
adibita a lavanderia, e stava nervosamente caricando una lavatrice.
“Mamma…”
La
signora Holmes si voltò con uno scatto. Probabilmente era da
quando
Mycroft e Sherlock erano bambini, che non si sentiva chiamare
semplicemente ‘mamma’; quindi la cosa doveva essere
seria.
Sherlock
se ne stava fermo sulla soglia.
“Sì
Sherlock cosa c’è?”
“Ti…
Ti posso parlare?”
La
Signora Holmes lasciò andare una camicia nel cestello aperto
della
lavatrice.
“Ma
certo che puoi.”
“Non
sei arrabbiata vero?”
Lei
parve pensarci su un attimo.
“No,
solo un po’ infastidita, sai che detesto i segreti.- disse,
sorridendo dolcemente. -Che cosa c’è? Cosa ti
preoccupa? Lo vedo
che hai qualcosa che non va. L’ho capito dal momento in cui
sei
entrato da quella porta. Sei diverso.”
Se
Sherlock era bravo dedurre, e Mycroft ad usare i suoi talenti mentali
per lo spionaggio, nessuno poteva battere la signora Holmes, che,
probabilmente, era davvero la persona più intelligente del
mondo.
Sherlock
entrò nella piccola stanza e chiuse la porta.
“Io…”
ma chiuse gli occhi e deglutì. Sentiva il nervosismo
stringergli la
gola. Non aveva idea di come fare un discorso del genere.
“Che
succede? Ch’è c’è che ti
affligge così tanto?”
“Io…
Non voglio deluderti.” Sherlock non aveva nemmeno il coraggio
di
sollevare lo sguardo dal pavimento.
“Deludermi?
Non potresti deludermi nemmeno se
ti ci mettessi di impegno.”
“Non
ne sono così sicuro.”
“Si
può sapere di cosa stai parlando?- ora il tono della signora
Holmes
era davvero apprensivo. -Non credo ci possa essere nulla di terribile
che tu possa fare. Anche perché le cose più
terribili non le
faresti mai.”
“Ho
ucciso.”
“Lo
hai fatto per difesa.”
Messo
alle strette e senza più alcuna scusa per rimandare
l’inevitabile,
Sherlock prese un bel respiro, infilò la mano nella tasca
anteriore
dei pantaloni, poi allungò il pugno chiuso verso la propria
madre,
che fissava quella scena, senza capire cosa stesse accadendo.
Il
detective aprì la mano, girata con il palmo
all’insù. Su di esso
vi era posato un anello. Era di metallo, dai bordi larghi, una fascia
al centro nera e con un sottile contorno di platino.
Poi
prese l’anello, e se lo mise all’anulare della mano
sinistra.
L’espressione
sul volto della signora Holmes si trasformò in totale
sbigottimento.
_______________________________________________________________________________________________
__________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
Finalmente
sono a casa, ho di nuovo il wi fi, quindi non devo più
piangere in
aramaico antico. Mi sono giusto presa una settimana in più
che avevo
un casino di camera da sistemare. Vabbè questi dettagli non
sono
rilevanti. Questo per dire che posso tornare ad aggiornare. Yeeee.
Poi
ci tengo a scusarmi se ho saltato a rispondere a qualche recensione.
Sempre causa connessione che faceva letteralmente schifo.
Già è
tanto che sia riuscita a mettere i capitoli 32 e 33.
Un
grazie anche a chi ha aggiunto la storia ai preferiti e seguiti,
nell’ultimo periodo.
Per
quanto riguarda questo capitolo, spero non sia troppo strambo.
D’altronde i genitori di Sherlock e Mycroft si vedono
pochissimo,
quindi prendetela per improvvisazione. Ho inventato cercando di
tenere alcune caratteristiche di base che mi ricordavo. Non odiatemi
per questo.
Tranquilli
che John arriva.
Il
nuovo progetto a cui sto lavorando, che sta proseguendo molto bene,
dovrebbe arrivare tra ottobre e novembre. Poi vi darò
maggiori
informazioni più avanti.
Sono
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Martedì
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Capitolo 35 *** Capitolo 35: ***
Capitolo
35:
***
“Dai
di qualcosa.” in realtà Sherlock era letteralmente
terrorizzato
dal sentire quello che aveva da dire la sua famiglia, e che ancora la
rivelazione non era completa.
“Tu…
Tu… Ti sei sposato?”
Annuì
semplicemente.
“Sì
io… Due anni fa… Solo che… Non
è come credi.”
“In
che senso non è come credo?”
“Non…
Non mi sono sposato come credi tu.”
“Questo
cosa vorrebbe dire? Non sto capendo, e sai che non amo non capire le
cose.”
“Si
no lo so. Perché… Io ci ho messo davvero tanto a
capirlo. E in
realtà ero convinto che potessi fare finta di nulla. In
fondo sono
sempre stato bene da solo. Solo che poi… Solo che poi
è arrivato…”
strinse forte gli occhi come se dovesse bloccare quelle parole.
“Solo
che poi è arrivato? Chi è arrivato?”
“Io…
Io mi sono sposato con… John.” lo disse talmente
piano che sperò
con tutto se stesso la madre non avesse sentito.
Eccole
lì, quelle parole, nero su bianco. Ora non poteva
più tirarsi
indietro o nascondersi. Avrebbe quasi voluto che sua madre non lo
avesse sentito.
“Aspetta
come? In che senso ti sei sposato con John?” ovviamente aveva
sentito tutto perfettamente.
Sherlock
annuì. Non aveva davvero il coraggio di guardarla.
“Oh
bambino mio e ci hai messo tutto questo tempo per dirmelo.”
Sherlock
a quelle parole sollevò la testa con uno scatto, restando a
bocca
aperta.
“Che
cosa vuol dire?”
“Sono
tua madre signorino, ti ho fatto io, pensi che non me ne sia mai
accorta?”
“Ma
io…”
“Andiamo
smettila. Volevo solo che tu ti sentissi felice con te stesso,
indipendentemente da qualunque altra cosa. Ad un certo punto ho anche
pensato di essermi sbagliata, perché tu sei così
tanto riservato,
che giuro a volte faccio fatica a leggerti. Ma sono tua madre e per
la miseria solo uno stupido non capirebbe certe cose del proprio
figlio. Poi quando è arrivato John ne ero assolutamente
certa.”
“Di
cosa eri certa?”
“Ma
che tu lo amassi! Mi sembra ovvio. Il modo in cui lo guardavi, in cui
gli stavi intorno. Oh sono così felice.- la signora Holmes
strinse
tra le braccia il proprio figlio. -Sono così
felice.”
“Quindi
a te sta bene.” Sherlock era davvero sconvolto dalle parole
della
madre. Anni di negazione, convinto che nessuno lo avrebbe mai
accettato per quello che era, con tutte le sue stranezze e i suoi
problemi. Invece ora sembrava tutto così facile. Era stato
come se
quell’ancora che aveva legata al collo da anni e anni, fosse
improvvisamente caduta.
“Ti
voglio bene e ti amerò sempre bambino mio.”
“Non
sono un bambino mamma.”
La
signora Holmes rise. La sua era una risata cristallina e anche un
po’
commossa. Prese il volto del figlio tra le mani, e lo guardò
dritto
negli occhi.
“Per
me sarai sempre il mio bambino. Anche quando sarò vecchia
decrepita.”
“Mamma…”
“Su,
su. Invecchiamo tutti prima o poi. Ma dimmi come sta John? Sono
sicura che gli dona la vita da sposato, insomma gli donava anche
prim… Beh ecco sta bene da sposato. E con te ancora di
più.”
Sherlock
diventò rosso in faccia a quelle parole.
“Mamma…”
“E
su, sei l’unico figlio sposato che ho. Mi ci devo abituare.
Ormai
con tuo fratello maggiore ci ho perso le speranze.” la
signora
Holmes dall’espressione che fece sembrò avesse
appena avuto in
illuminazione divina.”
“Mamma?”
“Ma
questo vuol dire che io sono nonna! Ho una nipote!”
scoppiò in un
pianto.
“Mamma
che hai?”
“Sono
nonna… Ti prego dimmi che è
così.”
“Si
immagino sia così.”
“Oh…”
quasi sembrò il piccolo lamento di un uccellino.
“Posso
andare ad abbracciarla?”
“Penso
di si, cioè puoi fare quello che vuoi.”
Sherlock
era abbagliato e confuso da questa situazione, non aveva la
più
pallida idea di come avrebbe dovuto reagire. Non sapeva mai come
comportarsi con le emozioni umane. Doveva essere felice? Mettersi a
piangere?
Aveva
pensato e ripensato migliaia di volte, a come sarebbe stato se avesse
dato una delusione ai suoi genitori. Ed era stato convinto, che
questa rivelazione, sarebbe stata una di queste. Mentre invece, sua
madre, stava piangendo dalla gioia.
“No
forse è meglio di no… E se lei non mi volesse?
Credi che
accetterebbe di avermi come nonna?”
Sherlock
era molto confuso da quelle domande. Non ci aveva mai pensato. Non
erano mai state una sua preoccupazione, ma forse avrebbe dovuto. Solo
che era talmente abituato che fossero solo loro tre.
“Io
credo proprio di sì.”
La
signora Holmes ormai sembrava volersi mettersi a saltellare. Cosa che
ovviamente non avrebbe fatto, dal momento che restava comunque una
donna composta e che sapeva controllare pienamente i propri
sentimenti.
“Ma
solo se tu vuoi e sei d’accordo. Anche perché lo
dovrebbero sapere
anche tuo padre e tuo fratello.”
A
Sherlock venne il panico. Ripetere di nuovo quell’esperienza,
rifare da capo quella rivelazione, aspettarsi la reazione degli
altri…
“Però
se posso dirtelo tesoro, credo che tuo fratello lo sappia
già. Lui
osserva tutto e ci tiene a te, anche se ha uno strano modo di
dimostrarlo.”
La
signora Holmes mise le mani sulle spalle del figlio minore.
“In
questa famiglia non ci sono stupidi, ma questa è la tua
vita, e
spetta a te decidere se tutti devono saperlo, o meno. Qualunque
sarà
la tua scelta, io la rispetterò, e se mi dirai di non dire
nulla,
non dirò nulla.” si allungò per dare un
bacio sulla guancia del
figlio.
“Ti
voglio bene Sherlock.”
Sherlock
senza neanche starci a pensare strinse la madre in un abbraccio.
Probabilmente
non era mai successo che la abbracciasse così spontaneamente
da
quando era bambino.
“No,
io, voglio che lo sappiano tutti.”
La
signora Holmes lo stava amorevolmente accarezzando, passando le dita
tra i soffici ricci neri, e sorrise.
“D’accordo.
Allora andiamo di là.”
Una
volta tornati in salotto, il signor Holmes stava discutendo con
Mycroft di politica. Sherlock corse subito da Rosie e la prese in
braccio.
“Non
avevo detto niente politica in questa casa?” la signora
Holmes si
era messa a braccia incrociate e sguardo severo, rivolti a figlio
maggiore e consorte.
“Non
stavamo discutendo di politica.”
“Stai
parlando con me Mycroft, non con uno di quegli sciocchi con cui
lavori.”
Mycroft
si ammutolì all’istante.
Sherlock
quasi gongolò.
“Che
cos’è quell’anello?”
Tutti
si voltarono contemporaneamente verso il signor Holmes, che aveva
posto quella domanda.
“Di
che anello stai parlando caro?” domandò la signora
Holmes, non
capendo se il marito non fosse d’un tratto impazzito e si
immaginasse le cose.
“Quell’anello.”
l’uomo indicò in direzione di Sherlock, che
desiderò con tutto il
cuore che la terra si aprisse sotto i propri piedi, e di sprofondare
fino al centro della terra.
Ora
anche Mycroft lo stava fissando intensamente, ma senza mostrare
alcuna emozione sul volto.
“Ah…
Sì è un anello.”
“Lo
vedo che è un anello. Per questo ti ho chiesto,
cos’è
quell’anello.”
“E’
semplicemente un anello.”
La
signora Holmes lanciò un'occhiata al figlio minore, che la
ignorò
prontamente.
“Dici?”
“Che
altro dovrebbe essere?”
“E’
sull’anulare sinistro, ed ha l’aspetto di una fede.
Ti sei
sposato Sherlock?”
Sherlock
rimase in assoluto silenzio, senza muovere un muscolo, ed incapace di
dire una parola.
“Sherlock?”
insisté l’uomo.
“Sì…
E’ una fede.”
Il
signor Holmes piegò in due il giornale e lo
appoggiò sul tavolino
basso di fronte alle poltrone del salotto.
“Ti
sei sposato?”
Sherlock
annuì.
“Come?
Quando? Con chi?”
“Caro,
ti rendi conto che sembra un interrogatorio della polizia. Non
è un
criminale, smettila con tutte queste domande.”
“Sto
solo chiedendo. Nostro figlio si è sposato senza dire nulla.
E poi
perché sei così tranquilla?”
“Come
sarebbe perché sono così tranquilla?”
“Dovresti
dare di matto.”
“Mi
stai dando della pazza?”
“No
ho solo detto…”
“Bada
bene a quello che dici caro, o le prossime venti cene dovrai
preparartele da te.”
Il
signor Holmes prese un bel respiro.
“Tu
lo sapevi?” rivolse la domanda direttamente a Mycroft. Che di
nuovo
non mostrò alcuna emozione.
“A
bene quindi sono sempre l’ultimo a sapere le cose.”
“Quanto
sei melodrammatico.”
“Io
sono melodrammatico? Scusa tanto se voglio sapere cosa combinano i
nostri figli!”
“John!”
Sherlock quasi lo urlò, anche se non era sua intenzione, ma
non
sopportava sentire i genitori discutere.
Il
signor Holmes sobbalzò dalla sorpresa. Fissò il
figlio ad occhi
sgranati.
“Prego?”
Mycroft
Holmes era un uomo dai molti talenti, come il resto dei membri della
famiglia Holmes d’altronde. Era dotato di grande intelletto,
quasi
maggiore rispetto a quello della madre e del fratello minore, che
erano comunque due cervelli enormi. Ma era una persona pigra di
natura, e preferiva sfruttare le sue capacità in altri modi,
come ad
esempio lo spionaggio. Era inoltre molto bravo ad ascoltare senza che
gli altri badassero a lui quando erano nella stessa stanza. Quindi,
aveva capito certe cose sul conto di suo fratello, molto prima che
Sherlock stesso ci arrivasse. Una di queste era il rapporto con un
certo dottor Watson. Rapporto che non aveva mai particolarmente visto
di buon occhio. Non perché avesse problemi riguardo a quello
che
Sherlock trovava attraente, ma solo ed esclusivamente perché
non
avrebbe potuto sopportare di vederlo con il cuore spezzato, cosa che
già era successa. Due volte per essere precisi. Ovviamente
non
avrebbe espresso le sue preoccupazioni a nessuno, se le sarebbe
portato con sé nella tomba piuttosto.
Quindi
no, Mycroft Holmes non era affatto sorpreso che suo fratello minore
si fosse sposato con John.
Esalò
un lieve sospiro, quasi impercettibile, e si rilassò con la
schiena
contro lo schienale della poltrona.
Sherlock
stava balbettando qualcosa di incomprensibile.
“Si
questa è una fede, si mi sono sposato. Con John.
Tre anni fa.”
Ora
c’era un silenzio assoluto.
La
signora Holmes andò a mettere un braccio attorno alle spalle
del
figlio e lo baciò su una guancia. E con una mano
massaggiargli
l’altro braccio.
Il
signor Holmes rimase in silenzio per qualche secondo.
“Ah.
Beh avrei gradito l’invito.” il signor Holmes
riprese il giornale
dal tavolino e tornò a rilassarsi contro la sua poltrona.
“Non…
Non potevo.”
“E
tu ci sei andato?” il signor Holmes guardò
Mycroft, che lentamente
scosse la testa.
“Capisco.”
“Possiamo
sempre fare un'altra cerimonia.” suggerì la
signora Holmes, già
eccitata alla sola idea.
“Cara
tu impazzisci quando devi organizzare qualche festa.”
La
signora Holmes assunse uno sguardo truce, tutto indirizzato al
marito.
“Allora
lo ammetti, mi consideri pazza.”
“No.
Ho detto solo che impazzisci quando devi organizzare qualcosa, tutto
qui.”
“E
di grazia, cosa cambia?”
“Tutto.
Tesoro mio. Tu sei il ritratto della salute mentale, ma vuoi la
perfezione, e se non è tutto assolutamente come vuoi tu,
diventa una
tragedia greca.”
“Puoi
anche disturbarti a non muoverti dalla tua dannata poltrona stanotte.
Tesoro
vuoi venire con me in cucina ad aiutarmi?” allungò
le braccia
verso Rosie, la bambina guardò Sherlock un po’
dubbiosa.
“Vuoi
andare con lei?”
La
bambina annuì piano. Dalle braccia di Sherlock
scivolò in quelle
della signora Holmes.
“Oh
ma guardala, è così bella. Puoi chiamarmi nonna
se vuoi, lo sai?”
Rosie
sgranò gli occhi e guardò Sherlock.
“Davvero?”
chiese timidamente la piccola.
“Assolutamente
si! Ti farebbe piacere?”
“Non
ho mai avuto una nonna.”
“E
io non ho mai avuto una nipotina.”
“Oh
ma senti, sei così bella e intelligente. Proprio come tuo
padre.
Voglio dire, come i tuoi padri.- intanto che le due parlavano,
sparirono in cucina.
Sherlock
andò a sedersi sulla poltrona libera.
Mycroft
fissava il fratello minore con un'espressione non troppo felice in
volto.
Sherlock
lo guardò senza nascondere troppo il disprezzo che provava.
“Che
c’è? Che cosa ti da fastidio?”
“Non
fanno parte della famiglia. Stai solo illudendo mamma. Non hanno
alcun legame con noi.”
Sherlock
strinse i pugni, cercando di mantenere la calma e non finire con il
picchiare il suo stesso fratello.
“Sei
solo un povero disperato. Solo come un cane ed infelice, che vorrebbe
che fossero infelici anche gli altri.”
“Attento
a come parli.”
“Altrimenti?”
“Basta
voi due, non fatemi venire lì.” il signor Holmes
non aveva nemmeno
staccato gli occhi dal giornale.
“E
tu che hai da dire?” questa volta Mycroft si era rivolto al
padre,
che però non si era degnato di lanciare nemmeno un'occhiata
al
figlio maggiore.
“Se
tua madre e tuo fratello sono felici, lo sono anche io.”
“Ma
è assurdo!”
“Perché?
Come credi che si formi una famiglia?”
Mycroft
strinse le labbra, non poteva rivelare tutto quello che c’era
dietro.
“L’importante
è amarsi e volersi bene. Il resto sono solo
stupidaggini.” voltò
la pagina del giornale.
Sherlock
sorrise, più che soddisfatto della risposta del genitore.
Lestrade
era rimasto in città ad aspettare che John finisse il suo
lavoro
allo studio medico. Si assicurò che fosse tutto chiuso, e di
vederlo
uscire dall’edificio, prima di scendere dall’auto
di servizio,
che era stata parcheggiata a bordo strada del lato opposto. Non aveva
alcun segno riconoscibile della polizia.
Il
detective richiuse la portiera e attraversò. Era tutto
tranquillo,
non c’erano nemmeno persone il giro.
John
aveva infilato la chiave nella toppa, per chiuderla, non si era
nemmeno accorto che qualcuno gli era sopraggiunto alle spalle. E
perché avrebbe dovuto, era tranquillo e convinto che nessuno
che lo
potesse conoscere dal suo passato, lo stesse tenendo d’occhio
da
tutto il giorno.
“John
Watson.” sentendosi chiamare con il proprio nome di origine,
John
sobbalzò, e il mazzo di chiavi che teneva in mano, cadde a
terra,
sull’asfalto del marciapiedi. Il dottore fece un mezzo giro
su se
stesso.
“Che
ci fai tu qui?”
_______________________________________________________________________________________________
__________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
Un
ringraziamento alle persone che hanno aggiunto questa storia tra le
preferite e le seguite
Sono
sia su Instagram che su Facebook per news e quant’altro:
https://www.instagram.com/lady_norin/
https://www.facebook.com/ladynorin/
Aggiornamenti:
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Martedì
21
Ore: 15/16
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Capitolo 36 *** Capitolo 36: ***
Capitolo
36:
***
Lestrade
era rimasto in città ad aspettare che John finisse il suo
lavoro
allo studio medico. Si assicurò che fosse tutto chiuso, e di
vederlo
uscire dall’edificio, prima di scendere dall’auto
di servizio,
che era stata parcheggiata a bordo strada del lato opposto. Non aveva
alcun segno riconoscibile della polizia.
Il
detective richiuse la portiera e attraversò. Era tutto
tranquillo,
non c’erano nemmeno persone il giro.
John
aveva infilato la chiave nella toppa, per chiuderla, e non si era
nemmeno accorto che qualcuno gli stava sopraggiungendo alle spalle.
E
perché avrebbe dovuto, era tranquillo e convinto che nessuno
che lo
potesse conoscere dal suo passato, lo stesse tenendo d’occhio
da
tutto il giorno.
“John
Watson.” sentendosi chiamare con il proprio nome di origine,
John
sobbalzò, e il mazzo di chiavi che teneva in mano, cadde a
terra,
sull’asfalto del marciapiedi. Il dottore fece un mezzo giro
su se
stesso.
“Che
ci fai tu qui?”
Quando
arrivarono alla dimora in campagna degli Holmes, ormai aveva fatto
buio. Ci avevano messo meno di cinque ore ad arrivare, grazie alle
sirene spiegate sul tettuccio dell’auto di Lestrade.
John
si era seduto al posto del passeggero. Stava con la schiena dritta e
rigida, lo sguardo fisso davanti a se.
Aveva
chiesto solo della bambina e di Sherlock, e Lestrade gli aveva
risposto che stavano bene e gli avrebbe trovati se fosse andato con
lui senza protestare, così si era rassegnato.
Non
che avesse chissà che da chiedere al suo vecchio amico
detective di
Scotland Yard. O meglio, di cose da dirsi ne avevano e come, dopo il
modo in cui aveva portato via Sherlock ed erano spariti, ma
immaginava che l’amico in quel momento fosse troppo infuriato
per
poterci parlare in modo, appunto, amichevole.
Quindi
il lungo viaggio si svolse in totale silenzio, con solo il suono
acuto della sirena e il motore che rombava a causa della forte
velocità, a fare da colonna sonora a quel viaggio
imbarazzante.
La
famiglia Holmes era solita cenare alle diciannove in punto, quindi
tutta la tavola era stata preparata alla perfezione.
“Sei
davvero un aiutante formidabile.” si complimentò
la padrona di
casa, con la nipote appena acquisita.
Rosie
nel frattempo era salita in piedi su di una sedia per sistemare un
bicchiere, e aveva ridacchiato per quel complimento.
“Di
sicuro più di questi tre nullafacenti.”
“Ti
sento.” aveva risposto il signor Holmes, molto contrariato da
quell’affermazione poco lusinghiera.
“Invece
di sentirmi, perché non ti alzi da quella poltrona e non mi
aiuti?”
questo aveva dato il via ad un battibecco. Uno dei tanti.
Ormai
i due fratelli ne erano ampiamente abituati. Sherlock si
alzò dalla
poltrona per andare dalla bambina. La abbracciò forte.
“Stai
bene?” si sentiva tremendamente in ansia a causa di tutta
questa
situazione. Stava succedendo tutto così in fretta, e lei era
così
piccola. Era terrorizzato che potesse avere qualche specie di trauma
dovuto a tutto quel trambusto. Essere portata via da casa in quel
modo, sapere di avere una famiglia allargata. Erano sempre e solo
stati loro tre e la casa sulla spiaggia.
Rosie
ridacchiò.
“E’
bello qui! Ma nonno e nonna stanno litigando.”
Sherlock
la accarezzò sulla testa bionda.
“No
stanno solo discutendo. E’ il loro modo di fare. Non sono
arrabbiati.”
“Ohhh.
Gli adulti sono proprio strani.”
Questa
volta fu Sherlock a ridere.
“Vuoi
scendere?”
La
bambina annuì, così la strinse tra le braccia.
Lei gli si aggrappò
al collo. Proprio in quel momento qualcuno bussò con alcuni
colpi
secchi, al portone di casa.
“Vado
io! Sia mai che qualcuno qui non si sforzi
troppo…” la signora
Holmes si allontanò borbottando , e il signor Holmes
roteò gli
occhi al soffitto, portandosi il giornale fino a coprirli del tutto
la faccia.
“Greg
Lestrade! Sei davvero tu!”
“Buona
sera signora Holmes. E’ da un po’ che non ci si
vede.”
“Si
e di chi è la colpa? Mi pare di averti invitato a pranzo la
domenica, più di una volta.”
“Ha
ragione signora Holmes, sono un pessimo uomo. Ma sa sono sempre
così
impegnato con il lavoro, gli omicidi non conoscono orari. Se solo gli
assassini si prendessero un fine settimana libero ogni tanto.”
La
signora Holmes rise e invitò ad entrare il detective, che
aveva
tolto il berretto e lo stava scrollando sull’uscio. Il suo
impermeabile era imperlato di gocce luccicanti, segno che doveva aver
iniziato a piovere.
“John!”
Sherlock
aveva letteralmente sobbalzato. Il cuore aveva preso a martellare
furioso nel petto non appena aveva visto sbucare dall’ombra
quella
più che familiare chioma di capelli biondi. Si sentiva
così
confuso. Come avrebbe dovuto reagire? Una parte di se moriva dalla
smania di andargli incontro e baciarlo, anche lì davanti a
tutti, ma
la parte razionale assolutamente glielo stava vietando. Guai se si
fosse azzardato a fare solo un passo. Erano già stati
abbastanza al
centro dell’attenzione, ed era stato già
abbastanza difficile
dover fare tutte quelle rivelazioni. Così si
limitò a reprimere
tutto e tenere i piedi ben saldi, immobili, piantati
nell’esatto
punto in cui si trovava.
“Papà!”
Rosie prese a dimenarsi come un pesce appena tirato fuori
dall’acqua,
quindi fu costretto a metterla a terra. La bambina subito corse tra
le braccia di John, che la strinse a se cullandola dolcemente.
“Mi
sei mancata. Stai bene?”
“Oh
John non sai quanto sono contenta di vederti.” Rosie non ebbe
modo
di rispondere perché la signora Holmes era sopraggiunta e
stava
abbracciando entrambi.
“Anche
io signora Holmes, sono contento di vederla.”
“Quale
signora Holmes! Chiamami mamma, come fanno questi due testoni. Sempre
che tu voglia ovviamente.”
John
parve visibilmente confuso, non riusciva a capire cosa stesse
accadendo.
Pensare
che quella mattina si era svegliato sicuro che sarebbe stata una
giornata come un'altra, che a fine lavoro se ne sarebbe tornato a
casa dalla sua famiglia e avrebbe passato la serata a… Beh
l’unico
termine che gli veniva in mente era, ‘gingillarsi’,
con Sherlock.
Invece alla chiusura dello studio medico si era trovato davanti Greg,
che senza alcuna spiegazione lo aveva praticamente sequestrato, e a
quanto pareva portato a casa degli Holmes, dove aveva già
trovato
sua figlia, che non aveva la più pallida idea di come fosse
arrivata
lì prima di lui.
Cercò
Sherlock con lo sguardo, ma trovò solo la solita espressione
di
cipiglio di Mycroft, che lo fissava come se fosse il suo nemico
giurato. Cosa che probabilmente nella testa di Mycroft Holmes, era.
L’uomo
seduto sulla poltrona accanto invece, non aveva tolto
l’attenzione
dal giornale che stava leggendo, e che lo copriva per quasi
metà del
corpo, ne dedusse che doveva essere il signor Holmes. Però
di Holmes
ne mancava uno, il più importante. Iniziò a
prendergli il panico,
dov’era Sherlock?
“Voi
due avete un sacco di cose da spiegare.” la voce della
signora
Holmes lo distrasse da quel turbamento interiore.
“Come
scusi?”
“Mi
devi dare del tu, ora siamo di famiglia no?”
John
sgranò gli occhi.
“In-in
che senso?”
“Sherlock
ci ha detto tutto.” lo disse con un grande sorriso.
Quindi
Sherlock era lì. Prese a girarsi da una parte
all’altra.
“Ciao
John.” quel tono basso e vellutato lo conosceva fin troppo
bene,
esalò un sospiro di sollievo, come se avesse nuotato
sott’acqua
fino a quel momento e fosse riuscito a tornare in superficie a
respirare.
“Ah
sei qui. Ma mi spieghi che sta succedendo.”
“Non
chiederlo a me.” nel dirlo indicò Mycroft, che
fissò John con un
occhiata sostenuta.
“Si,
ora si spiega tutto… Quindi ci ha trovati. Come?”
“Te
lo spiego dopo.”
John
capì che era meglio non insistere.”
“Venite,
siete arrivati giusto in tempo per la cena. La mia nuova
efficientissima aiutante mi ha dato una mano, non è vero
tesoro?”
“Si!”
La
signora Holmes praticamente prese Rosie dalle braccia di John, senza
troppi complimenti.
“Vieni
tesoro andiamo a prendere i piatti da aggiungere per il tuo
papà e
il suo amico.”
“Ma
veramente noi dovremmo andare…”
La
donna si voltò verso Greg, che aveva osato contestare il suo
invito
a cena, ma a quanto parve bastò quello sguardo intransigente
perché
il detective si arrese immediatamente.
Si
sfilò il soprabito ed andò ad appenderlo insieme
agli altri,
all’ingresso.
“Tu
stai bene?” chiese John a Sherlock, senza nascondere un tono
preoccupato.
Sherlock
mise una mano sul braccio del suo dottore, in un gesto affettuoso.
“Potrei stare meglio, ma non mi lamento. Almeno ora sei
qui.”
“Già.
Ero preoccupato a morte per voi due.”
John
non riusciva proprio a stare più del dovuto lontano a
Sherlock e
Rosie, e tutte quelle ore passate senza sapere cosa fosse successo
loro, lo avevano fatto impazzire.
“Voi
due, cosa state complottando? Non starete progettando un'altra fuga
spero, perché non vi toglierò più gli
occhi di dosso.” disse
Greg, masticando un pezzo di pane con spalmato sopra qualcosa.
“Per
favore, intendi come l’ultima volta? Perché
potremmo prendere
quella porta e tu non potresti fare proprio nulla per
fermarci.”
“Sei
diventato molto più simpatico di prima, lo sai
Sherlock?”
“L’unico
motivo per cui sei qui Greg, è perché ti ho
coinvolto io.” si era
aggiunto anche Mycroft alla conversazione.
“Certo,
ti servivano le mie risorse.”
“Ma
quali risorse. Hai presente con chi stai parlando?”
“Purtroppo
si.”
“Avanti
voi quattro, a tavola!”
Ovviamente
la signora Holmes aveva interrotto la conversazione, e a meno che non
avessero voluto incappare nelle sue ire, era meglio fare come gli era
stato detto, così si unirono alla tavola. Stavano un
po’ stretti e
Rosie era stata sistemata accanto alla signora Holmes, con grande
disappunto di John, ma non aveva potuto farci nulla.
“Mi
spieghi perché tua madre ha sequestrato Rosie?” lo
disse
all’orecchio di Sherlock, cercando di parlare il
più piano
possibile.
“Uhm…”
“Ho
capito, me lo dici dopo.” concluse John, strappando un pezzo
di
pane con un gesto di stizza.
La
cena passò in serenità, parlando del
più e del meno. Tutti i
commensali avevano i loro argomenti da evitare. Niente riferimenti al
perché John e Sherlock fossero spariti per quasi tre anni, o
al
motivo del perché lo avessero fatto. Ne tanto meno a quello
che gli
aveva resi una coppia ufficiale.
Finita
la cena tutti erano andati a fare altro, la signora Holmes si era
messa a lavare i piatti, con l’aiuto di Rosie, che era stata
sistemata in piedi su di una delle sedie della tavola da pranzo.
John, Sherlock e Mycroft si erano messi a parlare fitto in un angolo,
e il signor Holmes al solito, seduto sulla sua poltrona, solo che
questa volta stava leggendo un grosso tomo scritto in cirillico,
mentre sorseggiava mezzo bicchiere di Whiskey.
“Sentite,
lo so che mi state nascondendo qualcosa.”
Lestrade,
sentendosi escluso dal gruppo, si era intromesso nella conversazione
decisamente privata dei tre.
“Non
hai niente di meglio da fare Greg?” lo aveva bacchettato, il
più
grande dei fratelli Holmes.
“Voglio
sapere cosa state tramando e non ho intenzione di lasciar
perdere.”
Mycroft
sbuffò spazientito.
“Tu
non centri niente con questa conversazione, sono cose di
famiglia.”
“Mi
devo essere perso la notizia, da quando John sarebbe un
Holmes?”
Mycroft
guardò verso Sherlock, che pareva disperato.
“E
tu sei il detective più perspicace di tutta Scotland Yard,
mi
domando come abbia fatto l’Inghilterra a non
affondare.”
John
sembrava particolarmente interdetto, e Sherlock troppo nel panico per
essere di un qualunque aiuto.
Il
volto di Mycroft si trasformò in una maschera di marmo.
“Io
non devo insegnarti a fare il tuo dannato lavoro, non sono
Sherlock.”
“Oh
ma per favore! Litigate come una vecchia coppia di sposi!”
John
aveva sbottato, e Sherlock in tutta risposta si era messo a
ridacchiare, visto la faccia del fratello maggiore, che aveva
sbiancato, e quella di Lastrade lasciava ben trasparire tutta la sua
voglia di scomparire in quel momento.
“Vado
a vedere Rosie.” il dottore colse l’occasione per
defilarsi.
“Sherlock
prendi il cappotto, la strada per tornare a Londra è
lunga.”
“Ma
Rosie…”
“Ci
sta pensando John mi pare.”
“Io
non mi muovo senza di loro.”
“Non
fare il bambino.”
“No!
E tu vedi di finirla di sminuirlo! Non vado da nessuna parte senza
John e Rosie.” Sherlock stava cercando di buttare
giù tutto il
disagio che provava in quel momento. Era stato strappato da casa sua,
da John, ed era stato costretto a rivelare cose che non voleva. Era
ritornato in modo brutale a quella vita che aveva abbandonato. Quelli
con John e Rosie alla casa sulla scogliera, erano stati gli anni
migliori di tutta la sua vita, e ora gli era stato strappato tutto, e
volevano costringerlo a rivangare il passato, che con tanta fatica
aveva chiuso in un cassetto, per poi liberarsi della chiave.
Mycroft
si limitò a fissarlo, senza aggiungere altro.
“Raccatta
le tue cose Lestrade, c’è ne andiamo.”
“Come
ve ne andate.” era sopraggiunta la signora Holmes, dopo aver
finito
di sistemare la cucina.
“Si,
dobbiamo tornare in città.”
“Ma
come, ormai è tardi, restate qui almeno per
stanotte.”
“Non
è possibile madre, e poi non ci stiamo tutti.”
“Ma
si che ci state, il posto lo troviamo.”
“Non
penso, e ho delle cose da fare. Lavoro. Lo sai.”
“Oh.
Sempre e solo lavoro tu.”
John
era arrivato tenendo Rosie in braccio, che era impegnata a
raccontargli per filo e per segno quello che aveva fatto insieme alla
signora Holmes.
“Vado
a scaldare la macchina. Signora Holmes” Lestrade aveva
salutato la
donna con un baciamano. Lei aveva ridacchiato e dato un buffetto
affettuoso sulla spalla del detective.
“Sei
sempre la solita vecchia volpe Greg Lestrade.”
Lui
aveva sorriso molto soddisfatto di quel complimento, ed era uscito di
casa dopo aver recuperato cappello ed impermeabile. Un vecchio trench
beige, lungo fino a sotto il ginocchio.
“Papà
dove andiamo ora?” chiese la bambina a John.
“Credo
tua madre abbia ragione, dobbiamo restare, almeno per la
notte.”
“Bel
tentativo Watson.”
“Mycroft!
Non ti ho allevato per essere così insensibile.”
ora la signora
Holmes era tornata con quel solito sguardo severo, e che non lasciava
adito a repliche di alcun genere.
“Veramente
madre… Questa volta devo insistere.”
Mycroft
Holmes doveva sempre avere l’ultima parola, di avere ragione,
e che
gli altri facessero quello che lui diceva loro, ma non aveva fatto i
conti con sua madre.
“Non
osare replicare! Sul serio signorino questo tuo atteggiamento mi sta
facendo perdere la pazienza, non costringermi a buttarti fuori di
casa, perché lo farò, e lo sai molto
bene.” sventolò un dito
indice davanti agli occhi del figlio primogenito.
“Che
cosa pretendi che faccia madre? E’ lavoro! Devono venire con
me.”
“Puoi
benissimo dire al tuo lavoro che io ti ho detto che il benessere
della mia adorata nipotina viene prima di qualsiasi cosa e non me ne
fregherebbe niente nemmeno se venisse a protestare la regina in
persona!”
“Madre!”
“E
finiscila di lamentarti!”
“Signora
Holmes…” di nuovo fu John, che si sentiva in
dovere di fare tra
paciere tra gli animi focosi degli Holmes. Non tanto perché
gli
fregasse qualcosa di Mycroft, ma si preoccupava che sua figlia non
assistesse a certe scene.
“Si
tesoro?”
“Lei
è davvero gentile.”
“Lei?
Perché mi stai dando del lei? Cosa sono
l’impiegata delle poste?
Devi darmi del tu.” la signora Holmes non riusciva a
nascondere
tutta la sua gioia.
“Ehm…
Si, grazie.”
“Non
cambia comunque la questione.” Mycroft era molto stizzito da
tutta
la situazione.
La
signora Holmes stava sul serio per perdere la pazienza, le guance le
si erano tutte imporporate. Poi sembrò illuminarsi, come i
classici
cartoni, quando qualcuno aveva un'idea e gli si illuminava la
lampadina sopra la testa.
“E
se Rosie restasse qui? Che ne dici tesoro, ti andrebbe?” lo
disse
parlando direttamente alla bambina.
“Si!”
“Davvero?
Ti piacerebbe?”
“Si
voglio restare qui!” dal tono di voce Rosie sembrava davvero
eccitata all’idea, ma John non ne era poi così
convinto. Non
l’aveva mai lasciata dormire da altre parti, nemmeno dagli
amichetti dell’asilo. Infatti non poté fare a meno
di nascondere
preoccupazione, e il viso di Sherlock non era da meno, apprensione
allo stato puro.
“Non…
Non credo sia il caso.”
La
signora Holmes rivolse le sue attenzioni al figlio minore.
“E
perché mai? Un momento, ho capito. Ansia da
separazione.” lo disse
quasi con una nota di soddisfazione. D’altronde sapeva capire
le
persone molto bene, figurarsi i suoi stessi figli, quando per
chiunque altro erano un enigma irrisolvibile. A lei bastava un
occhiata per capire cosa passasse per le loro teste. E Mycroft era
molto più difficile da leggere di Sherlock, non che Sherlock
fosse
una passeggiata.
“Starà
benissimo qui, dormirà nella tua vecchia stanza.”
“Papà
ha una stanza?”
La
signora Holmes parve illuminarsi ancora di più a quelle
parole,
sembrava quasi riflettere di luce propria e si era aperta in
un'espressione di sorpresa.
“Ma
certo amore mio la vuoi vedere?” quasi la strappò
dalle braccia di
John.
“E’
da tantissimi anni che non ci dorme, ma non ho cambiato nulla. La
pulisco soltanto.”
In
effetti John era molto incuriosito. Aveva una vaga memoria della
stanza che Sherlock usava da bambino. Quindi non poté fare a
meno di
seguire le due.
Sherlock
ovviamente si unì al gruppo.
“Oh
ma per favore.” Mycroft ovviamente non poteva esimersi dal
lamentarsi ed esternare la sua disapprovazione.
“Sai
che il tuo papà era appassionato di modellini e soldatini di
piombo?”
“Davvero?”
“Si.”
“Bello!”
La
signora Holmes ridacchiò.
“Si,
ne ha una bella collezione. Soprattutto soldatini. Ha avuto sempre
una certa preferenza per quelli.”
“Ma
davvero, hai sempre avuto preferenza per i soldatini?” John
sottolineò quel commento, e Sherlock cambiò
diverse tonalità di
rosso.
John
si complimentò con se stesso per essere riuscito a farlo
imbarazzare.
“Sono
solo soldatini di guerre storiche.” ci tenne a puntualizzare
Sherlock, non appena fu riuscito a scacciare tutto
l’imbarazzo per
quella situazione.
“Sempre
soldati sono. E io che pensavo avessi un debole per i
dottori.”
Questa
volta anche le orecchie di Sherlock divennero rosse.
Il
dottore pensò che doveva farlo più spesso
perché era impagabile
vederlo in quello stato.
La
stanza di Sherlock non era particolarmente enorme. C’era un
letto
singolo contro il muro, e mobili in legno. Il materasso era stato
coperto con un copriletto di lana, e il resto era perfettamente
esposto. Libri, modellini, e i famosi soldatini. Tutti perfettamente
ordinati. Anche se si vedeva il trascorrere del tempo. I colori non
erano più sgargianti come una volta, e avevano assunto
quella patina
di vecchiaia inevitabile.
Rosie,
che era tremendamente curiosa per natura, non poté fare a
meno di
correre ad ispezionare tutte quelle cose, che per lei erano nuove.
“Ti
piace tesoro?”
“Non
è come la mia. Ho tante cose appese.”
“Davvero?
E cosa ti piace?”
“Il
verde!”
“Il
verde? Insolito colore.”
“Il
verde è bello.”
Si
il colore preferito di Rosie era il verde, anche se ne aveva molti
altri, come ad esempio il lilla e tutte le sue sfumature, il viola, e
anche l’azzurro, ma decisamente non il rosa. Quando era
cresciuta
abbastanza, e avevano dovuto adattare la stanza ad una bambina di due
anni con le idee molto chiare, il rosa era stato assolutamente
bandito.
“Sei
così perspicace.” la signora Holmes lo disse con
una certa
fierezza, passando una mano sui capelli della bambina, che nel
frattempo aveva tirato fuori alcune cose da delle scatole in basso.
“Rosie,
no, non mettere in disordine.”
La
bambina parve molto dispiaciuta da quel rimprovero.
“No
può fare quello che vuole, è tutto suo
ora.”
John
si voltò quasi sconvolto verso Sherlock.
“Ma…
Sei sicuro?”
“Certo
che lo sono.”
Anche
Rosie parve estremamente felice della notizia e corse ad abbracciare
le gambe di Sherlock.
“Grazie!”
“P-prego…
Figurati.”
Ancora
dopo anni il detective non era abituato a certe genuine dimostrazioni
di affetto e gratitudine.
“Però
non devi fare troppo disordine e non rompere nulla, capito?”
aggiunse John serio.
“No
che non rompo niente!”
“Allora
sei sicura di voler restare a dormire qui?”
“Sì
papà!”
John
si inginocchiò per permettere alla figlia di abbracciarlo,
che corse
subito a stringergli le braccia al collo.
“Ti
voglio bene, mi mancherai tantissimo.”
“Anche
tu papà! Ma starò bene con la nonna.”
John
la strinse più forte a se.
In
fondo era molto felice che avesse trovato una famiglia che la
accogliesse a braccia aperte, quella che lui non aveva mai avuto. La
sua famiglia disfunzionale e assolutamente inadeguata.
Lei
avrebbe avuto una vita migliore. Dei, a quanto pare, nonni
affettuosi, e magari forse, anche qualche zio e zia acquisito. E poi
c’erano loro due. I suoi genitori. Che l’avrebbero
amata sempre,
per sempre. Ed era sicuro nella maniera più assoluta che
anche
Sherlock provasse gli stessi sentimenti. Nonostante si ritenesse una
persona senza empatia, l’aveva amata dal primo momento. Il
rapporto
che ora avevano quei due era indissolubile, e John ne rimaneva spesso
e volentieri stupito, particolarmente legato da veri sentimenti di
padre/figlia, nonostante non avessero lo stesso sangue.
Ma
d’altronde il sangue conta davvero poco quando si tratta di
famiglia.
Anche
Sherlock ovviamente si inginocchiò per poter abbracciare
Rosie, la
strinse tra le braccia.
“Ti
voglio bene.”
“Anche
io!”
Il
detective, a malincuore sciolse l’abbraccio e
tornò in piedi.
“Se
c’è qualunque cosa che non va, ci devi chiamare. A
qualunque ora.”
“Senti
ragazzino, ho cresciuto due figli mentre finivo
l’università e
lavoravo, con chi pensi di star parlando? Starà benissimo e
ci
divertiremo, vero principessa?”
“Si!”
Rosie alzò le braccia, entusiasta di tutta quella faccenda.
Per lei
ovviamente era tutta un avventura, una scoperta dopo l’altra,
tutte
quelle novità e ancora la giornata non era nemmeno finita.
“Allora
noi possiamo andare.”
John
salutò Rosie un'ultima volta e fece per allontanarsi lungo
il
corridoio, ma poi si voltò quando sentì che
mancava una presenza al
suo fianco.
Sherlock
era rimasto indietro, e si era fermato. Testa bassa e occhi puntati a
terra.
“Sherlock?”
“Non
posso…” lo disse così piano che John
pensò di esserselo
immaginato.
“Come?”
“Non…
Voglio farlo.”
Ovviamente
gli era bastato sentire quelle semplici parole per capire. Corse
subito da lui.
“Ehi
ehi. Che succede.”
“Non
voglio fare quello che mio fratello e Lestrade si aspettano. Quel
capitolo è chiuso. Voglio tornare a casa nostra.”
John
lo abbracciò.
“Mi
dispiace. Vorrei davvero poter far qualcosa, ma temo non abbiamo
scelta.”
“Si
invece, c’è l’abbiamo. Scappiamo come
abbiamo già fatto.”
“Sherlock…
Non si può scappare per sempre.”
“E
chi lo dice? Non parlerò comunque! E non possono
costringermi!”
A
John sembrava di essere tornato indietro di tre anni, tutta la fatica
che aveva fatto per fargli tirare fuori quello che era successo a
Sherlock il quel parcheggio.
“Ma
tu devi. Devi toglierti questo peso.”
“Me
lo sono già tolto! Quando l’ho detto a te. Se lo
confesso poi
tutti sapranno quello che è successo, lo saprà
tutta la dannata
città! Ci sarà un dannato processo pubblico!
Anche i miei genitori…
si coprì il volto con le mani. -Non posso… Non
c’è la faccio.”
John
lo strinse ancora di più.
“Io
sono qui con te. Lo sarò sempre, qualunque cosa accada, e
anche
Rosie. E sono sicuro anche la tua famiglia.”
“No…-
lo disse come una specie di lamento, un miagolio strozzato. -Non
voglio che lo sappiano. Ti prego aiutami.”
Gli
si spezzava il cuore vederlo in quello stato e non poter fare
assolutamente nulla per aiutarlo.
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Note
d’autrice:
Sono
una persona molto brutta e cattiva, che mette le date e poi non le
rispetta. Chiedo venia per aver saltato settimana scorsa, ma ho avuto
un po’ da fare e martedì non ero a casa, quindi ho
preferito
direttamente aspettare il martedì dopo.
Però,
per farmi perdonare, ho messo delle cosette nuove. Come ben ve ne
sarete accorti, c’è un banner per la storia! Se
state pensando che
è brutto come poche cose pensate bene perché
l’ho fatto da io.
Una volta sapevo fare roba molto più bella ma
sarà da tipo 10 anni
che non tocco un programma di grafica, vi dovete accontentare.
La
seconda sorpresa per farmi perdonare è questa!
E giustamente, “e che cavolo è?”
Bene,
vi avevo detto che stavo lavorano a qualcosa… che
uscirà più
avanti… Ecco.
Però
tengo la bocca cucita su cosa sarà.
Ringraziamenti:
ringrazio i nuovi arrivati e
chi ha deciso di inserire questa storia tra le seguite e le
preferite.
Sono
sia su Instagram che su Facebook per news e quant’altro:
https://www.instagram.com/lady_norin/
https://www.facebook.com/ladynorin/
Aggiornamenti:
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Martedì
05
Ore: 15/16
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Capitolo 37 *** Capitolo 37: ***
Capitolo
37:
***
Ormai
erano in viaggio da un po’. Ci voleva del tempo per arrivare
dalla
residenza in campagna degli Holmes, al centro di Londra.
La
notte era calata e le luci saettavano fuori dai finestrini
dell’auto
in corsa.
All’interno
dell’abitacolo c’era assoluto silenzio. Lestrade
guidava e
Mycroft si era seduto sul posto del passeggero. L’unico
rumore che
faceva da sottofondo era la voce gracchiante della radio della
polizia, tenuta a volume basso, e la pioggia che picchiettava contro
i finestrini.
Sherlock
e John erano entrambi seduti sui sedili posteriori: Sherlock da un
lato e John dall’altro. Sherlock aveva passato
l’intero viaggio a
guardare fuori dal finestrino, nonostante il buio. John poteva
chiaramente distinguere i tratti del volto del suo compagno, che
erano contratti e tesi come corde di violino. Alla fine era stato
costretto a seguire Mycroft, e dio solo sapeva quello che gli
aspettava.
A
John era venuto mal di stomaco dall’ansia, causata anche
dalla
separazione da Rosie. Nonostante sapesse che la bambina comunque
stava bene ed era felice a casa dei signori Holmes, che ora erano
ufficialmente i suoi nonni, non riusciva a non provare ansia da
separazione.
Non
poté fare a meno di pensare che sarebbe stato meglio non
cenare.
Ora
l’unica cosa che voleva era toccare Sherlock.
Lasciò scivolare la
mano lungo il sedile, quella di Sherlock era lì, poco
lontana,
lasciata appoggiata, quando John finalmente riuscì a
toccarla,
Sherlock la ritrasse immediatamente. Per il dottore fu come ricevere
un pugno allo stomaco. Ma aveva recepito il messaggio. Così
si
ritrasse in se stesso, e cercò di tirare su il colletto del
giaccone
che indossava, all’improvviso sentiva fredo.
Mano
a mano che il viaggio proseguiva, John riusciva a riconoscere sempre
più luoghi della città. Ora erano molto
più vicini a Baker Street.
In quegli anni non era cambiato assolutamente nulla. Un po’
lo
tranquillizzava. I cambiamenti non gli piacevano molto, e quella
situazione era già abbastanza stressante.
L’ora
doveva essere tarda perché non c’era
particolarmente traffico, e
per Londra era strano il non esserci traffico. Quindi doveva essere
un qualche orario dopo le undici di sera.
Greg
fermò la macchina proprio davanti al 221B.
Era
da così tanto che John non vedeva quella portone. Un
po’ si sentì
confortato. Ma quando si voltò, scoprì che
Sherlock era già sceso
e si era richiuso la portiera dell’auto alle spalle.
Il
dottore sospirò e scese a sua volta. Piovigginava.
Si
diede una stiracchiata. Non ne poteva davvero più dei viaggi
in
auto.
Greg
nel frattempo si era avvicinato al portone e lo aveva aperto, poi si
era fatto da parte per far passare gli altri.
Per
primo entrò Mycroft, seguito da Sherlock, e da John, per
ultimo
entrò Lestrade, e si assicurò che la porta fosse
ben chiusa.
“La
signora Hudson è già a letto a
quest’ora. Ma prima l’ho
chiamata e le ho chiesto di preparare l’appartamento,
sembrava sul
punto di mettersi a piangere.” Lestrade lo disse parlando a
bassa
voce.
“A
piangere?” John si era sconvolto a quell’ultima
affermazione.
“Si.
Per voi due credo. Non si aspettava di rivedervi.”
Ora
John si sentiva tremendamente in colpa. In fondo la signora Holmes ci
aveva sempre tenuto a loro due, e lo aveva sempre dimostrato, mentre
loro, per tutta gratitudine, se ne erano andati, senza lasciare
traccia.
“Mi
dispiace.” disse solo John.
“Devi
dirlo a lei, non a me.”
Colpito
e affondato. John non potè fare a meno di pensare a quanta
ragione
avesse Lestrade. Si sarebbe dovuto far perdonare dalla signora
Hudson.
Salirono
su per le scale.
Le
luci dell’appartamento erano state lasciate accese, e tutto
era
perfettamente preparato, e l’ambiente riscaldato.
I
sensi di colpa di John aumentarono. La signora Hudson si doveva
essere impegnata al massimo per fargli trovare tutto nel migliore dei
modi.
Sherlock
in tutto ciò era andato verso quella che una volta era la
stanza che
usava.
John
si ricordò dell’ultima volta in cui ci era stato,
quando Sherlock
era ancora in ospedale in pessime condizioni. Mandò
giù un grosso
nodo in gola.
Lestrade
andò a buttarsi sul divano, solo allora John si accorse che
era
stato preparato con una coperta e due cuscini.
“Stai…
Stai scherzando vero?”
“Prego?”
Greg
si stava togliendo l’impermeabile e la giacca ed aveva
lasciato
quello che aveva nelle tasche, sul tavolino.
“Non
hai intenzione di stare qui a dormire.” John era ancora
più
sconvolto ora.
“Certo
che c’è l’ho.”
“Non
hai una casa tua!”
“Si.”
“E
allora perché non ci vai?”
“Perché
dovrei lasciare voi due qui da soli, e sappiamo
com’è finita
l’ultima volta.”
John
si sentì montare dalla rabbia.
“Non
ci provare!”
“Non
ci provare?”
“Non
ci serve la dannata baby-sitter e non abbiamo intenzione di
scappare!”
“Scusa
ma visto i precedenti non ho intenzione di rischiare.” era
stato
Mycroft a parlare. John avrebbe voluto tanto mollargli un pugno una
volta per tutte.
“Tu.-
gli puntò contro un dito indice. -La devi smettere di
metterti in
mezzo e cercare
di controllare le nostre vite! Non puoi costringerci a fare un bel
niente!”
“Basta!-
era stato Sherlock a fermare la discussione, non
aveva più detto una parola da casa degli Holmes. -Non mi
interessa
chi rimane o se ne va! Ci vediamo domattina.”
entrò nella propria
stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Ormai
i nervi di John erano saltati, quindi non gli rimase che seguire
l’esempio, prese le scale per
la propria camera da letto. Trovò
la stanza ordinata e il letto pronto. Chiuse la porta e ci si
buttò
di faccia, a peso morto, urlando nel cuscino tutta la frustrazione.
Voleva solo Sherlock in quel momento, ma era Sherlock a non volere
lui, ed era proprio quella la botta peggiore.
La
mattina seguente John si risvegliò quasi di soprassalto. Non
aveva
idea di che ora fosse, quindi praticamente volò
giù dal letto.
Indossava ancora i vestiti del giorno precedente, che ormai erano
tutti stropicciati. Ma il problema era che non aveva cambi.
Andò
a guardarsi allo specchio di una delle ante dell’armadio.
La
sera precedente doveva essersi addormentato ad un certo punto, nello
stesso modo in cui si era buttato sul letto.
Aveva
i capelli sconvolti, e la faccia pallida, solcata da rughe dovute
dalle
preoccupazioni. Gli occhi erano arrossati, ed aveva un alone scuro
sotto le occhiaie. Ci sarebbe voluto un miracolo a sistemare quello
sfacelo.
Scese
al piano inferiore. Gli altri erano già svegli. Qualcuno
stava
armeggiando in cucina, e proprio in quel momento uscì
Sherlock.
Almeno lui aveva un aspetto decisamente migliore. Stava indossando un
completo elegante, nero, sotto una camicia bianca. Anche i capelli
erano sistemati alla perfezione. Però a John era bastata un
occhiata. Anche se il suo compagno di vita all’esterno poteva
sembrare perfetto, non lo era. Il suo volto era così pallido
che
avrebbe potuto fare tranquillamente concorrenza con il bianco di un
muro. Le pupille erano terribilmente rosse. Sapeva cosa voleva dire.
Avrebbe
dato qualunque cosa per poterlo almeno confortare, ma non poteva fare
nulla. Se non starsene lì impalato.
Anche
Sherlock guardò John, e il dottore si sentì quasi
come un comune
mortale che veniva valutato da una divinità.
Prima
che potesse aprire bocca e dire alcunché, da dietro le
spalle di
Sherlock, sbucò Mycroft.
“Hai
un aspetto orribile. Spero tu non abbia intenzione di venire
così al
commissariato.”
John
chiuse gli occhi e prese un bel respiro. Tirare un pugno a Mycroft di
sicuro sarebbe stato un bel modo di sfogarsi, ma non poteva farci
niente, quindi si limitò a stringere i pugni fino a sentire
ogni
singolo tendine che si tirava e contraeva.
“Vado
in bagno.” lo disse a denti stretti, e diede le spalle ai
due,
chiudendosi dentro.
Cercò
di sistemarsi come meglio poté. Mycroft a quanto pareva
aveva
portato alcune cose, beni di prima necessità, tra cui
spazzolini.
Strano che avesse pensato anche a lui visto quanto corresse poco buon
sangue.
Quando
finalmente uscì, si trovò dei vestiti
perfettamente piegati
davanti.
“Ehi.
E questi da dove vengono.” guardò confuso
Sherlock, che gli stava
porgendo il malloppo di panni.
“Mycroft.”
“Oh.”
“Le
scarpe sono accanto al divano.” tagliò corto
Sherlock.
“Sherlock…”
Il
consulente si limitò a consegnare gli indumenti e si
allontanò.
Quando
John uscì dal bagno, dopo essersi cambiato, trovò
anche Lestrade.
“Buongiorno.”
Anche
il detective di Scotland Yard era vestito in modo un po’
più
elegante, ed aveva anche la cravatta, il trench beige che gli copriva
la giacca e i pantaloni, fino al sotto il ginocchio.
“Allora
andiamo.”
Lui
e Sherlock andarono con Lestrade, mentre Mycroft partì con
la
propria auto privata.
La
stanza degli interrogatori era asettica e spoglia di qualunque
arredamento. Pensare che l’avevano vista così
tante volte, e ora
ci si ritrovavano lì seduti, su quelle sedie di metallo
gelido, e
l’altrettanto gelido tavolo.
Dopo
qualche minuto di attesa, Lestrade entrò dalla porta. Si era
tolto
trench e giacca elegante e anche la cravatta, ed aveva arrotolato le
maniche della camicia, fino a sopra il gomito.
“Va
bene, vediamo di tirare fuori qualcosa.” il detective mise
delle
cartelline gialle sul tavolo e si mise a sedere.
“Sherlock,
io non voglio forzarti a fare nulla, lo sai, ma ho le mani legate.
Sei l’unico che può aiutarmi.”
Sherlock
a quelle parole si limitò ad annuire.
“Raccontami
solo com’è andata in quel parcheggio. Dammi un
nome.”
John
da sotto il tavolo prese le mani che Sherlock si stava tormentando.
Per fortuna questa volta l’altro non rifiutò il
contatto.
Quasi
rassegnato al suo destino, Sherlock iniziò a raccontare
tutto
dall’inizio. Per poi passare alle parti che aveva raccontato
anche
a John. Al dottore si strinse la gola. Come una diga che impediva
all’acqua di andare dall’altra parte.
Era
tutto diverso da quando erano state raccontate a lui. Non il
racconto, ma essere testimoni di quelle parole in modo indiretto.
Pensava,
da quel giorno sulla spiaggia, di essere riuscito a razionalizzare
tutto, invece non aveva razionalizzato un bel niente.
Sherlock
si era come chiuso in se stesso. Anche fisicamente oltre che
mentalmente.
Più
proseguiva con il racconto, più si accartocciava su se
stesso. Le
spalle in avanti, la schiena curvata.
John
pensò che probabilmente era il modo in cui Sherlock si stava
sentendo in quel momento. Come una carta usata, da buttare.
Il
dottore avrebbe dato qualunque cosa per poter cancellare quello che
era successo al suo compagno.
La
testa bassa. Si vedevano solo una cascata di ricci neri.
Dopo
la fine del terribile racconto un gelo assoluto era calato
all’interno della stanza degli interrogatori.
Nessuno
osava parlare per primo. Lestrade se ne stava immobile, seduto al
proprio posto, fissando il vuoto già da un po’.
“Sherlock?”
Lestrade cercava l’attenzione del consulente, senza ottenere
nulla.
“Dai
Sherlock, mi serve il tuo aiuto.”
“A
che serve?” Sherlock finalmente aveva trovato le parole per
rispondere, anche se lo aveva detto con un filo di voce.
“A
che serve? A che serve cosa?”
“Ora
che ti ho raccontato tutta la storia, a cosa ti è
servita?”
“Scherzi?
Mi serve a mettere un bastardo criminale dietro le sbarre e buttare
la chiave!”
Sherlock
finalmente alzò la testa, e guardò Lestrade negli
occhi. Sul volto
il sorriso più amaro che il vecchio detective gli avesse mai
visto.
“Non
è così che funziona.”
“E
come funziona?”
“Andiamo
Lestrade, non fare l’ingenuo. Tutti credono quasi raramente
alle
vittime. Figurarsi ad uno come me.”
“Ma
tu lavori per la polizia. Chi è più attendibile
di qualcuno che
lavora per la polizia?”
“Oh
Lestrade sembri nato ieri. Sono praticamente considerato un pazzo da
chiunque. C’è chi dice che ho problemi di
personalità, vogliamo
parlare dei miei precedenti con le droghe? Un carcerato che accusa il
suo compagno di cella, viene preso più in considerazione.
L’avvocato
di quel tizio ci andrà a nozze. Non che ci voglia poi molto.
Si
inventeranno che ho aggredito il suo cliente per un qualche motivo, e
lui si è semplicemente difeso.”
Lestrade
aggrottò la fronte.
“Sherlock,
quell’uomo ti ha…” prima che potesse
terminare la frase,
Sherlock lo interruppe.
“No.
E’ la sua parola contro la mia. E fino a prova contraria
l’ho
agganciato io in quel bar. Oltre al fatto che non ci sono prove di
alcun tipo che abbia… E comunque sono sicuro che
negherà. Non
vuole che si sappia in giro che ha certi vizi.”
“E
i ragazzi che ha pagato? Ha aggredito anche alcuni di loro, si
potrebbe dimostrare che ha un indole violenta e
prevaricatrice.”
“Intendi
dei disagiati, spesso e volentieri coinvolti con il traffico e
consumo di droga. O certo, parleranno sicuramente.
Magari
se fossi morto, forse prima o poi con il dna lo avresti beccato e
fatto condannare per omicidio involontario.”
“Sherlock!”
John aveva dato una gomitata al fianco del compagno, che
però lo
aveva ignorato.
Sherlock
sapeva quanto John odiasse sentirgli dire certe cose, ma non poteva
farci nulla, erano i fatti.
“Io
non posso lasciarlo a piede libero lo capisci? Certo che lo capisci,
lavori per noi per la miseria.”
“Lavoravo.-
ci tenne a puntualizzare Sherlock. -Hai insistito per avere la mia
storia. Una inutile storia da portare ad un processo che
sarà una
farsa, e dove l’unico che ci rimetterà
sarò io, perché di certo
il colpevole non subirà alcuna conseguenza.”
Lestrade
si passò stancamente una mano sul viso.
“Verrà
fuori qualcosa, qualche altra vittima.”
“Non
ci sperare troppo.”
“Ma
io devo. Non ho scelta.”
“Lo
so.”
“Mi
dispiace.”
“Non
è colpa tua.”
Lestrade
guardò John, che sembrava in piena apprensione e sofferenza.
Quei
due si comportavano in modo decisamente strano. Insomma, più
strano
del solito, da quando gli conosceva, e già si comportavano
in modo
strano all’epoca, ma così era peggiorata la
situazione.
Per
qualche assurda associazione mentale, John gli dava l’idea di
essere mamma orsa con il suo cucciolo, pronta a staccare la testa a
chiunque si fosse azzardato ad avvicinarglisi troppo. In
realtà
provava pena per il povero stolto che avesse provato a farlo. Anzi,
nel momento in cui avesse arrestato l’uomo che aveva fatto
del male
a Sherlock, si sarebbe dovuto assicurare di tenere a distanza John, o
rischiava di finire male, e sinceramente non ci teneva a dover
mettere in prigione per omicidio, un suo amico.
“Però
io comunque ho bisogno di quel nome.- Lestrade prese un respiro. -Ti
prometto, che farò tutto quello che posso, e che
è in mio potere,
per non coinvolgerti più del dovuto, anche a costo di dover
mettere
questa confessione, secretata.”
Sherlock
parve pensarci su per un lungo attimo, poi annuì.
“D’accordo.
Ti darò quel nome.”
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Note
d’autrice:
Sono
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Capitolo 38 *** Capitolo 38: ***
AVVISO:
Questo
capitolo contiene una parte scurrile o che potrebbe risultare
offensiva.
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L’uomo
se ne stava seduto con le mani posate sul tavolo. Teneva le dita
incrociate, e sembrava impaziente, anzi, sembrava avesse una certa
insofferenza.
Lestrade
provò un senso di disgusto e rabbia.
Certo
era soddisfatto che l’uomo che aveva cercato per tre anni,
fosse
seduto su quella sedia, nella stanza degli interrogatori. Con le
manette ai polsi, e agganciato al tavolo. Incatenato. Come
l’animale
che era.
Ormai
lo stava facendo aspettare da ore.
Dopo
che i suoi uomini lo avevano preso in consegna dalla polizia di
Bruxelles, gli erano stati letti i suoi diritti ed era stato
trasportato fino a Scotland Yard, e messo dove si trovava ora. E da
lì non era stato spostato più.
Ancora
l’uomo non sapeva le accuse specifiche. Sapeva solo di essere
stato
arrestato nel suo paese di origine, il Belgio, di aver fatto un
giorno ed una notte in una cella, e poi di essere stato caricato su
un aereo diretto a Londra. La polizia belga si era semplicemente
limitata a notificargli dei capi d’accusa di violazione della
legge
inglese, senza andare troppo nello specifico.
Lestrade
aveva lavorato duramente per raccogliere tutte le prove.
Anche
se doversi basare solo ed unicamente su quello che Sherlock gli aveva
rilevato non era stato affatto semplice. In definitiva, non aveva
altri testimoni. E l’unico che aveva, si rifiutava
categoricamente
di collaborare. E dubitava fortemente avrebbe parlato in un
tribunale, davanti al giudice, agli avvocati, e a chiunque altro
potesse ascoltarlo. Non che lo biasimasse per questo. Anzi, venire a
sapere quello che gli era accaduto, era stato come ricevere un pugno
dritto allo stomaco.
La
polizia faceva sempre dei corsi di aggiornamento su come trattare le
vittime di violenza, ma ogni volta, niente e nessuno avrebbe mai
potuto preparare una mente umana a certi racconti raccapriccianti.
Quindi no, non voleva che la cosa durasse troppo a lungo, per
nessuno.
Raccolse
il fascicolo giallo, con all’interno tutte le foto e i
documenti
sul caso, ed uscì dalla saletta con il vetro specchiato, per
entrare
in quella dell’interrogatorio.
Voleva
farlo da solo. C’era solo un'altra persona che avrebbe
assistito,
al di là del vetro. Mycroft aveva insistito
perché la cosa
rimanesse riservata il più possibile, si era anche
assicurato che
nessuna voce circolasse all’interno del distretto.
Persino
Greg sapeva quanto potessero essere pettegoli i poliziotti, e non
osava immaginare cosa sarebbe potuto succedere, se si fosse saputo
che era coinvolto niente di meno che Sherlock Holmes.
Buttò
il plico di fogli sul tavolo di metallo. Il tonfo risuonò
nella
stanza vuota, e l’uomo che aveva di fronte, il criminale,
anzi no,
la bestia, alzò finalmente lo sguardo sulla faccia del
detective.
Era
un uomo alto e robusto, con il collo grosso, i capelli neri ispidi e
corti, una faccia tonda. Pareva quasi un carlino. Un principio di
barba nera gli circondava il mento e la mascella.
Represse
un brivido. Il disgusto era salito fino alla bocca dello stomaco. Non
osava nemmeno immaginare che un essere del genere potesse mettere le
sue luride mani su qualcuno. Figurarsi su un suo amico, una persona
che conosceva da anni.
Avesse
potuto avrebbe estratto la pistola dalla fondina e gli avrebbe
sparato. Un colpo solo. Dritto in mezzo agli occhi. Ma non era
l’epoca del Far West e non poteva permettersi comportamenti
sbagliati. Gli avvocati di quel bastardo si sarebbero attaccati a
qualunque cosa per farlo scagionare.
Lestrade
afferrò la sedia dallo schienale, e la trascinò
per spostarla. Poi
ci si mise seduto, e si riavvicinò al tavolo di metallo.
“Allora
si può sapere perché diavolo sono qui da una
vita? Mi avete
trattato peggio di un terrorista!”
L’uomo
sembrava decisamente contrariato da tutta la storia. Quando parlava
pareva un cinghiale che grugniva.
Il
detective prese un grosso respiro, e represse l’immagine
della
pistola che sparava. Aprì con uno scatto il fascicolo, e
lesse il
primo foglio. Non ne aveva bisogno. Conosceva tutti quei fogli a
memoria. Ma doveva fare un po’ di scena.
“Il
suo nome è: Julien Limbari? Nato a Mons, in Belgio. Il 9
febbraio
1973? E’ corretto?” Lestrade cercava di utilizzare
il tono più
neutro e monocorde di cui fosse capace, ma per quanto si sforzasse,
non poteva nascondere quella leggera nota di astio. Non poteva farci
proprio nulla. Per quanto cercasse di modulare il tono e
l’atteggiamento per non indisporre l’indiziato, che
però
continuava ad avere un atteggiamento ostile, questo non faceva che
aumentare il fastidio e l’astio del detective.
“Seh…”
“Come
prego?” aveva capito benissimo, ma non poteva accettare
quella
specie di grugnito, come risposta in un interrogatorio ufficiale.
“Ho
detto si! Sono io.”
“Bene.
Signor Limbari, lei sa perché è qui?”
“Secondo
lei lo so? Mi avete fatto prelevare fuori da lavoro, e tra parentesi
non credo nemmeno sia legale la notte che mi sono fatto dietro le
sbarre.”
“Signor
Limbari, quello che intendo è, se i miei colleghi di
Bruxelles, le
hanno detto per quale motivo sarebbe stato trasportato qui in
Inghilterra.”
“Senta,
che cavolo ne so. Hanno detto che ho violato la legge inglese.
Sfruttamento della prostituzione credo. Beh è una stronzata.
Io non
ho pagato nessuna puttana.”
“Signor
Limbari, abbiamo le prove che lei abbia pagato per avere in
cambio…
Favori sessuali.”
“Le
prove? E che prove! Dove, voglio vederle queste dannate prove! E poi
da quando si arresta qualcuno per questo!”
“Ovviamente,
non posso dirle le prove di cui disponiamo, ma le basti sapere che
non sarebbe qui se non le avessimo.”
“E
io invece credo sia mio diritto sapere quello che state combinando!
Per cosa tutto questo mistero?”
“Oltre
alle accuse di sfruttamento della prostituzione, pendono a suo carico
delle accuse di stupro.”
Lestrade
lesse attentamente le varie espressioni dell’uomo. Se in
principio
sembrava scocciato, ora era passato ad irritazione, per poi arrivare
all’ansia, e dopo quell’ultima rivelazione, beh,
l’uomo era
scoppiato a ridere.
“Cosa?
E’ uno scherzo vero? Prima mi accusate di una cosa che
è
impossibile abbia fatto, e poi vi siete inventati addirittura uno
stupro?”
“Non
abbiamo inventato niente. E non si tratta di uno stupro
solo.”
Lestrade rifilò un'occhiata carica di avversione
all’uomo. Ormai
non serviva a nulla fingere accondiscendenza. Così gli
chiese a
bruciapelo dove si trovasse la data della notte in cui era stato
aggredito Sherlock, ovviamente senza specificare nulla. Doveva sapere
che scusa si sarebbe inventato il signor Limbari.
L’uomo
lo fissò sconcertato, preso totalmente in contropiede.
“E
io cosa ne so! E’ successo tipo tre anni fa!”
Fregato.
“Glielo
dico io dove si trovava.” estrasse un foglio dal fascicolo e
lo
mise sotto il naso dell’uomo.
“Era
proprio qui, a Londra. E ci è rimasto per tre giorni. Un
weekend.
Aveva un trasporto della merce che la sua ditta fa di sovente
arrivare qui in Inghilterra.”
“Ah.
Beh si sarà vero. Non è mica la prima volta che
lo faccio.”
“Oh
assolutamente, ne sono consapevole. In realtà, in un anno,
lei viene
nel nostro paese per questioni lavorative, almeno una ventina di
volte.”
“Si.
E quindi? Continuo a non capire.”
“Non
capisce? La sera in questione lei è stato in un locale.
Abbiamo le
prove perché lei è stato visto in questo locale.
Ha parlato con una
persona. Un uomo. Che la mattina dopo è stato ritrovato in
un
parcheggio coperto, a breve distanza dal pub dove lei è
stato
visto.”
“Tutto
qui? Voi mi avete fatto arrestare davanti a dove lavoro, mi avete
trattato come un criminale della peggior specie, e fatto arrivare
fino a qui, per questo?”
“Le
sembra poco?”
Il
volto dell’uomo si tinse di rosso.
“Io
lo sapevo che voi inglesi fosse stupidi oltre che inetti!”
Lestrade
represse un improvviso istinto omicida. Prese una foto. Ne aveva
messa solo una. Fatta il primo giorno in cui aveva visto Sherlock.
Non voleva che quel tizio potesse anche solo lontanamente intuire che
in realtà Sherlock era ancora vivo e vegeto e lo avesse
apertamente
accusato.
Gli
sbatté la foto davanti.
In
quell’immagine Sherlock era in un letto d’ospedale,
con la faccia
talmente piena di lividi e gonfia, da renderlo praticamente
irriconoscibile.
L’uomo
la guardò con attenzione. E Lestrade lo sapeva, ne era
sicuro, quel
tizio lo aveva riconosciuto.
“E
dovrei sapere chi è?”
“Direi
di si. Lei è l’ultima persona che è
stata vista insieme a lui,
quella sera.”
“Uhm…
Vedo un sacco di persone quando giro per locali.”
“Lo
ha portato in quel parcheggio.”
“Stai
mica insinuando che sono un finocchio?”
“Non
lo sto insinuando.”
“Ah
ecco.”
“Sei
uno stupratore e un assassino.”
L’uomo
fece uno scatto in avanti, ma era incatenato al tavolo, e non
riuscì
nemmeno a sollevarsi dalla sedia.
Greg
sorrise, pienamente soddisfatto di quella reazione.
“Voglio
un avvocato.” proferì solo il bastardo, fissando
il detective
negli occhi. Lestrade poteva leggere solo malvagità la
dentro. Il
peggio che la razza umana ha da offrire.
“Se
confessi sarà più facile per tutti.”
“Sei
sordo sbirro del cazzo? Ho detto che voglio un avvocato!”
Lestrade
iniziò a raccattare tutto, infilare i fogli rimasti nel
raccoglitore
del fascicolo, e si alzò.
“Bene.
Un avvocato arriverà quanto prima.”
Uscì
dalla stanza senza aspettare la replica dell’uomo. Una volta
fuori,
nel piccolo corridoio, appena si fu voltato, si ritrovò
davanti
Mycroft.
Il
detective sobbalzò dallo spavento.
“Che
diavolo… Mycroft che ci fai qui, hai seguito tutto
l’interrogatorio?”
“Se
quella scena pietosa la chiami interrogatorio, si, l’ho
seguito.”
Il
detective sospirò. Ormai si era rassegnato agli insulti di
Mycroft.
“Ora
tocca a me.”
“Come
prego? Tocca a te cosa?”
Il
maggiore degli Holmes spostò Lestrade, e aprì la
porta della sala
degli interrogatori.
Greg
restò interdetto, a fissare la porta chiusa. Forse sarebbe
stato il
caso che intervenisse e fermasse Mycroft Holmes, ma una vocina nella
testa gli disse di aspettare e vedere che succedeva. Greg diede
ragione a quella vocina ed andò nello stanzino, dietro al
vetro. Era
arrivato giusto in tempo a quanto pareva.
Mycroft
si levò il cappotto e lo piegò accuratamente,
adagiandolo sullo
schienale della sedia.
“Tu
non sei uno sbirro. Hai l’aria da avvocato, hanno fatto in
fretta a
chiamare.”
“Non
sono un avvocato.”
“Ah
no? Allora con te non ci parlo.”
Mycroft
sorrise.
“Infatti
non devi parlare, non voglio sentire i tuoi grugniti da sus.”
“Prego?”
“Devi
stare in silenzio e ascoltare. Sempre che tu ne sia in grado.
Mycroft
prese a sbottonare la giacca del completo, per poi sfilarla.
Ripiegò
con cura anche quell’indumento, e lo posò sopra al
cappotto. Poi
prese la sedia e iniziò a trascinarla nella stanza.
Arrivò
all’angolo di sinistra, dal lato della porta, e la
sistemò con lo
schienale contro il muro. Sbottonò le maniche, e le
arrotolò fino
sopra al gomito, prima una e poi l’altra. In fine
salì sulla sedia
che aveva sistemato a ridosso del muro. Allungò una mano
dietro ad
una delle telecamere. Strappò con forza il cavo che la
teneva
collegata. Con un balzo saltò giù dalla sedia.
L'uomo
ammanettato al tavolo, osservò tutta la scena con aria
inebetita.
Mycroft
riprese la sedia e la trascinò nuovamente, questa volta
all’angolo
opposto.
Ci
salì sopra, e rifece lo stesso gesto.
Nella
stanza oltre il vetro, nel frattempo, erano sparite le immagini dagli
schermi collegati alle suddette videocamere.
Lestrade
si sentiva sempre più sconcertato.
Mycroft
riportò la sedia al suo posto.
“Lo
sai cos’è l’Habeas Corpus?”
“Un
che? Non parlo lo spagnolo.”
“E’
latino. Stupido bifolco. E’ quella cosa che sancisce il
principio
che tutela e l’inviolabilità di chi è
arrestato o sotto
processo.”
“Ah.
Ecco allora visto che parliamo dei miei diritti, voglio il mio
avvocato.”
“Sai
questo diritto nel nostro apparato giuridico esiste da molto, molto
tempo. Ma in alcune occasioni, se la necessità lo richiede,
può
essere sospeso. Lo ha fatto Lincoln durante la guerra di secessione.
Lo abbiamo fatto noi durante l’epoca della pirateria. In
poche
parole, se vieni preso, puoi essere impiccato senza un
processo.”
L’uomo
si mise a guardare Mycroft, sempre più confuso.
“Io
di sovente non apprezzo che il nostro prezioso sistema giuridico
venga infranto, La democrazia è un sacrosanto diritto che
con fatica
il popolo si è guadagnato. Ma vedi, ci sono alcuni casi,
troppo
gravi per essere ignorati, in cui la democrazia deve essere messa da
parte.”
“Si
può sapere che diavolo vuoi e chi diavolo sei!”
Mycroft
prese una foto da una delle tasche del cappotto, e la lasciò
sul
tavolo, davanti all’uomo. La sua faccia da carlino quasi si
contrasse.
“Mi
prendete per il culo? Ancora con questa storia ? Non so chi
sia!”
“E’
mio fratello.” il tono di Mycroft era del tutto lapidario.
“Aaa.
Ecco ora ho capito. Pensate di potermi incastrare. Volete guadagnarci
qualcosa. Ma non penso proprio che questa storia in un tribunale sia
attendibile. Chiederò aiuto al mio paese, e sarete costretti
a
lasciarmi andare.”
“Tribunale,
e chi ha parlato di tribunali.”
“Lo
sbirro prima…”
“Lascia
perdere. Non ci sono polizia, giudici o avvocati, che ti possono
salvare.
L’uomo
aggrottò la fronte.
“Te
l’ho spiegato prima, ma ora proverò con parole
semplici, in modo
che anche un ignorante bifolco come te possa arrivarci.
Non
avrai nessun avvocato, non ci sarà nessun giudice che si
farà
abbindolare da tanti bei giri di parole. E in ogni caso non
succederebbe mai, perché vedi, io conosco ogni avvocato di
questa
città.
Tu
ti sei preso mio fratello, e io ora mi prenderò la tua
miserabile
inutile vita. Di pure addio alla tua famiglia, al tuo lavoro.
Sparirai e basta. Come se non fossi mai esistito. Nessuno
sentirà la
tua mancanza.”
“Sei
pazzo! Non lo puoi fare!”
Mycroft
sorrise.
“In
realtà, sì, posso. Io sono la legge e la
giustizia per te.”
Lestrade
dall’altra parte del vetro, era rimasto assolutamente
immobile,
aveva quasi paura a respirare. Conosceva Mycroft, sapeva quanto
quelle parole fossero veritiere. Mycroft Holmes non minacciava mai a
caso. Avrebbe fatto esattamente quello che aveva detto, e nessuno lo
avrebbe fermato.
“Ehi!
Io voglio il mio avvocato! Hai capito pazzo bastardo!” ora
l’uomo
si era messo a sbraitare, ma Mycroft lo stava totalmente ignorando.
Si era alzato, e aveva srotolato le maniche della camicia, poi aveva
indossato la giacca del completo, ed infine aveva preso il cappotto.
Recuperò la foto dal tavolo, e se la rimise in una tasca.
“Parlo
con te! Farò causa a questo fottuto posto! Voglio
l’ambasciata del
mio paese!”
Mycroft
si voltò un'ultima volta verso l’uomo.
“Vedi.
A nessuno importa nulla di te. Ora sai come ci si sente a finire
nell’oblio.
Buona
giornata.” lo salutò con un cenno del capo, e se
ne andò, uscì
da quella stanza senza più guardarsi indietro.
Lestrade
uscì dalla saletta.
“Che
cosa pensi di fare, sei pazzo?”
“Faccio
quello che va fatto.”
“Ma
non puoi far semplicemente sparire qualcuno!”
“Tu
dici? Se solo provassi a sforzare la tua vecchia mente da detective,
capiresti quante cose posso fare.
Lascialo
li, verranno a prenderlo presto.” Mycroft indossò
il cappotto, e
si allontanò.
Lestrade
capì quanto la situazione fosse seria e reale. Ormai era
stato
deciso il destino dell’aggressore di Sherlock, e
sinceramente, non
ne era dispiaciuto affatto.
Note
d’autrice:
Sus*
starebbe a significare il nome del maiale in latino.
Finalmente
sono venute fuori un po’ di cose, e si sa chi sia il famoso
tizio
dell’aggressione. Spero di aver reso giustizia a Sherlock.
Non lo
so, non è stato un capitolo facile da scrivere e mi sono
scervellata
tantissimo per trovare la soluzione migliore. Alla fine sono giunta
alla conclusione che Mycroft si sarebbe messo in mezzo. In fondo lo
ha fatto con Moriarty (pace all’anima sua), perché
non avrebbe
dovuto farlo in un caso del genere, e poi su un mr nessuno come il
caro signor Limbari. Oltretutto ha realizzato un po’ le
minacce che
aveva fatto in origine a John, anche se li non voleva farlo proprio
sparire quanto più rovinargli la vita, ma non cambia molto.
Se
Mycroft minaccia qualcosa è perché piò
farlo, non sono minacce
tanto per parlare… E niente, spero vi soddisfi il capitolo,
ho un
po’ di ansia sinceramente (e quando mai).
I
prossimi saranno gli ultimissimi capitoli, credo che arriveranno fino
al 40, quindi ne mancano solo due alla fine. La cosa mi rende molto
triste.
Va
bene la smetto di parlare, ovviamente a chi vuole lasciare una
recensione, giuro che non mordo!
Alla
prossima!
Sono
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Capitolo 39 *** Capitolo 39: ***
Capitolo
39:
***
Qualcuno
bussò al 221B. La signora Hudson andò ad aprire,
e si trovò
davanti Mycroft Holmes, che entrò nel piccolo atrio, senza
troppe
cerimonie.
“Mi
perdoni se non mi trattengo in convenevoli, ma vado di fretta. Devo
parlare urgentemente con mio fratello.” disse solo lapidario
alla
donna, ancora prima che questa, gli avesse detto alcunché.
“Oh
non si sono mossi dall’appartamento.”
“Bene.”
detto ciò, prese le scale. Bussò alla porta
dell’appartamento,
andò John ad aprirgli.
“Mycroft?”
“Buonasera.”
senza aspettare un invito, entrò, e si tolse cappotto e
sciarpa,
appendendo poi gli indumenti all'appendiabiti dell’ingresso.
John
una volta chiusa la porta, gli si parò davanti.
“E’
successo qualcosa?”
“Devo
parlare con mio fratello.”
Sherlock
era rimasto seduto su una delle poltrone del salotto, in pigiama e
con la vestaglia, e un aria cupa.
Mycroft
gli si avvicinò, e Sherlock alzò la testa.
“Dobbiamo
parlare.”
“Ho
sentito. Parla.”
“In
privato.”
“Non
c’è nessun altro a parte noi.”
“Senza
di lui.” Mycroft indicò John. Sherlock
diventò ancora più cupo.
“Non
incominciare. Lui non se ne va da nessuna parte. O te ne vai
tu.”
“Dovremmo
fare questa scena ogni volta?”
“Solo
se la cominci.”
“Posso
parlare da solo con mio fratello?”
“Quello
che ascolto io lo ascolta anche lui.”
“E’
una cosa che riguarda te.”
“Senti,
lo so che lo fai solo per irritare me e perché ti diverte
provocarmi.”
“Non
è affatto per questo motivo.”
“John
fa parte della famiglia, vedi di fartene una ragione. O non abbiamo
più altro da dirci.”
Mycroft
non era affatto felice di quella discussione, ma dovette ingoiare il
rospo.
“E
va bene! Sono appena tornato dal commissariato. Ho assistito
all’interrogatorio da parte di Lestrade, all’uomo
che ti ha
aggredito.”
“E?
Cosa ha detto? Cosa ha intenzione di fare Lestrade?” fu John
a fare
la domanda, in piena apprensione.
Mycroft
senza nemmeno voltarsi a guardare il dottore, rispose.
“E
nulla. Lestrade non farà proprio nulla. Non sarà
più un problema,
per nessuno.”
Ora
sia John che Sherlock erano nella confusione più totale.
“Che
cosa significa?” era stato sempre John a porre la domanda.
“Significa
che ho risolto il problema.”
“Lo
hai risolto?”
Mycroft
era stufo delle domande stupide di Watson, ecco perché
voleva
parlare da solo con suo fratello.
“Sì.
Ho risolto.”
“E
come?”
“Tu
che dici?”
“Hai…
Hai fatto qualcosa?” finalmente Sherlock si decise a parlare.
“E’
sparito. Non potrà farti più nulla. Non ci
sarà nessun processo.
“Io…
Non capisco. Non può… E’ finita
così?”
“Cosa
preferivi, il processo?”
“No.
No! Solo…”
“Ti
dispiace per quel mostro?”
“No!”
“Allora
cosa? Pensavo saresti stato lieto della notizia.”
“Certo
che lo sono! Ho aspettato tre anni, nel terrore!”
Mycroft
rimase in silenzio per un lungo momento.
“Non
potrà farti più nulla. Non farà
più nulla a nessuno.”
Sherlock
annuì.
“Ora
devo andare.” Mycroft si voltò verso John,
avvicinandosi al suo
orecchio.
“Ti
conviene trattarlo bene. Se vengo a sapere che soffre ancora a causa
tua… Ti faccio fare la stessa fine di
quell’uomo...”
John
non aveva nemmeno la forza, oltre la voglia, di infuriarsi per quella
minaccia. Quindi annuì semplicemente.
Mycroft
recuperò cappotto e sciarpa, e lasciò
l’appartamento, chiudendosi
la porta alle spalle.
“Come…
Come ti senti?”
Sherlock
era rimasto lì seduto, a fissare il vuoto.
“Non
lo so. Non so come devo sentirmi.”
John
gli si inginocchiò davanti.
“E’
finita.”
Sherlock
annuì.
“Si.
Si, è finita.”
“Non
dobbiamo più preoccuparci di nulla. Nessuno saprà
quello che è
successo.
Sherlock
avvolse le braccia attorno al collo di John, e ci sprofondò
con il
viso.
Quella
semplice notizia era stata così liberatoria che quello che
era
successo dopo era stato sconvolgentemente intenso.
Tutte
quelle emozioni negative trattenute per tutti quegli anni, da
distruggerli mentalmente. Ed ora era tutto finito. Tre anni di
prigionia, nel dolore e nel terrore. Ma la prigione ora era vuota. I
prigionieri erano stati liberati.
Non
ne aveva mai abbastanza. Dei suoi baci, delle sue mani sul corpo. Di
qualunque parte di lui.
Desiderò
che quella notte e quella mattina non finissero mai.
Con
una mano incastrata in quell’ammasso di riccioli scombinati,
fu
costretto a staccarsi dalla sua bocca, per riprendere fiato. Non
avrebbe fatto nemmeno quello se non gli fosse servito ossigeno.
Si
lasciò ricadere con la testa sul cuscino, ammirando il
soffitto,
mentre cercava di tornare a far funzionare i polmoni nel modo
corretto. Dallo sforzo di tutta quella attività fisica, gli
bruciavano.
Sherlock
si adagiò con la testa, sulla sua spalla sinistra. Le dita
lunghe e
magre che lo accarezzavano lungo il petto.
“E’
stato… Molto bello.” in realtà aveva
altri termini in mente, ma
non voleva sembrare rozzo.
“Solo
bello?”
Ecco,
come non detto.
“Non
posso dire le cose a cui sto pensando.-
Sherlock
ridacchiò, era una risata bassa e sommessa, ma il respiro
caldo,
contro la pelle sudata, gli diede un potente brivido. -E’
stato
incredibile.”
“Incredibile
va meglio.” Sherlock lo baciò proprio sopra al
cuore, che fece una
capriola.
“Sai
che dovremo fare un altro matrimonio, vero?”
John
era così intorpidito da tutto quel mix di piacere che aveva
provato
in quelle ultime ore, che al momento un qualunque discorso serio o
normale, gli sembrava arabo.
“Cosa?”
Sherlock
si raddrizzò per poter guardare il compagno negli occhi.
“Il
matrimonio, John. Lo sai che tecnicamente, non è valido,
vero?”
D’accordo,
decisamente non riusciva a capire quello che Sherlock stava cercando
di dirgli. O meglio, un significato quelle parole lo avevano, solo
che il suo cervello si stava rifiutando di constatarne la
veridicità.
“Ma
noi siamo già sposati, da tre anni.”
puntualizzò.
Sherlock
sorrise.
“Lo
so, mio dottore. Ma non abbiamo usato i nostri veri nomi quando lo
abbiamo fatto. I documenti erano falsi, e di conseguenza, anche il
matrimonio. Credevo lo sapessi.”
John
rimase in assoluto silenzio, per un lungo momento.
“Si.
Cioè… Cioè si ovvio che lo sapevo.
Però non ci ho fatto troppo
caso. Ecco, io ho sempre dato per scontato che fossimo
sposati.”
“Anche
io. In fondo è solo un pezzo di carta con una firma.
L’importante
è quello che sentiamo l’uno per l’altra.
Però… Però se non
vuoi sposarmi ufficialmente, io lo capisco. Forse ci rimarrebbe
più
male mia madre.”
John
rimase ad occhi sgranati, a ponderare quelle parole.
“Ma
io voglio sposarti! Che stai dicendo, perché non dovrei
volerlo!”
Sherlock
nuovamente ridacchiò.
“Va
bene, va bene. Ho capito. Allora dobbiamo fare le cose per bene
questa volta.”
“E
tu… Tu invece vuoi sposarmi?”
“Ti
sposerei anche mille volte.”
John
sorrise.
“Ma
stavi dicendo di tua madre.”
“Ah
si, lei impazzirebbe se non facessimo la cerimonia in grande stile.
Ovviamente ha già detto che si occuperà di tutto
lei.”
“Quindi
noi non facciamo nulla.”
“Dobbiamo
solo presentarci.”
“Ah
ecco.”
“Ti
dà fastidio?"
“Che
cosa?”
“Che
mia madre si metta in mezzo.”
“Ma
no. La capisco. Sei il suo unico figlio che si è sposato.
Non penso
abbia speranze per Mycroft. E poi è così
affezionata a Rosie.”
Sherlock
rise.
“Che
cosa ti fa ridere?”
“Quello
che hai detto su Mycroft.”
John
fece una smorfia con la bocca.
“Scusa
ma è la verità.”
“Lo
so. Per questo fa ridere. Non credevo sarebbe mai potuto accadere che
mi sposassi e avessi una famiglia mia.”
“E
invece…”
“Già.
Eccoci qui.”
“Forse
non tutti i mali vengono per nuocere.”
“Forse
no. Anzi.”
“Anzi?”
“Se
te lo dico ti arrabbi.”
“Non
potrei mai arrabbiarmi con te.”
A
quelle parole Sherlock assunse quasi un espressione triste.
“Non
è vero, invece ti faccio arrabbiare spesso.”
“E
dai… Dimmi che c’è che non
va.”
“Okay.
Te lo dico. Non sono così dispiaciuto di come sono andate le
cose.
Cioè… Non quello che è successo a te e
a Rosie. Intendo quello
che è successo a me.”
“Sherlock.”
John si mise seduto. Ora il discorso era diventato serio.
“Se
stai cercando di dire che te lo sei meritato, io
giuro…”
“No,
no. Non intendevo quello. Insomma, non proprio. Però sei
tornato.
Cioè, quello che mi è successo ti ha fatto
tornare, e lo sai, io
sono egoista. Quindi sono contento di essere finito in quel
parcheggio, perché ti ha fatto tornare da me.”
John
rimase fermo immobile, a fissare il vuoto. Non capiva come dover
prendere quello che Sherlock gli aveva appena detto. Insomma, lui lo
aveva abbandonato, probabilmente spezzandogli il cuore. Ma non aveva
mai capito che ci fosse un cuore che batteva per lui. Non aveva avuto
idea che in tutti quegli anni, Sherlock avesse avuto quel tipo di
sentimenti. E ci erano volute la bellezza di due tragedie per farli
avvicinare e far aprire il cuore di entrambi, a quei sentimenti che
avevano sempre cercato di annullare.
Lo
strinse tra le braccia.
“Non
ti voglio sentire fare certi discorsi. Ormai il passato è
passato.
L’importante è quello che abbiamo costruito ora. E
che ti amo.”
“Anche
io ti amo.”
Sherlock
si lasciò cullare dolcemente tra le braccia del suo dottore.
“Ti
amo John.”
“Ti
amo Sherlock.”
Quando
quella mattina finalmente entrambi si decisero a scendere dal letto..
Sherlock
aveva infilato solo un paio di pantaloni della tuta e si era chiuso
in bagno, John invece aveva raccattato la camicia di Sherlock, e se
l’era infilata, con l’idea di raggiungerlo sotto la
doccia. Non
aveva alcuna intenzione di lasciarsi scappare nessun minuto utile con
il suo compagno.
Bussò
alla porta del bagno, e Sherlock gli aprì, ancora con solo i
pantaloni grigi della tuta addosso, che lasciavano ben poco
all’immaginazione.
John
sospirò. Sarebbe stato la causa della sua morte. Lo sapeva
ormai dal
giorno in cui lo aveva conosciuto.
“Ehi,
quella è mia.”
“Ah
si? Dici?”
Non
avrebbe restituito quella camicia con così tanta
facilità.
Sherlock
rise.
“Direi
di si. Ti sta un po’ larga.” sorrise in modo furbo.
Quel
luccichio negli occhi, ormai il dottore lo conosceva bene.
“A
me sembra che invece sia mia, però se ne sei così
sicuro, puoi
sempre venire a riprendertela.”
Il
sorriso di Sherlock diventò un ghigno.
“Devo
riprendermela?”
Gli
si avvicinò così tanto che poteva quasi andare a
sbattere con la
faccia contro al suo petto.
“Vorrei
che ci provassi, si.”
Le
dita di Sherlock si appropriarono del primo bottone, e poi del
secondo, ma arrivato al terzo, decise di approfondire meglio con un
bacio. John quasi si sollevò in punta di piedi per andargli
incontro. Sentì Sherlock ridacchiare contro la sua bocca.
Peccato
che nessuno dei due avesse notato che in quell’appartamento,
non
fossero da soli. Erano così presi da non essersi minimamente
accorti
della presenza di due persone nel loro salotto. Quando finalmente si
staccarono l’uno dall’altro, un rumore insolito gli
fece voltare
la testa, nel tentativo di capire, cosa ci fosse che non andava.
Lestrade
e la signora Hudson se ne stavano in piedi, in salotto, con occhi
sgranati e bocca aperta. Il detective di Scotland Yard aveva coperto
gli occhi della padrona di casa un una mano.
Appena
Sherlock si rese conto, corse a chiudersi in bagno, purtroppo al
povero dottore non rimase che restare in quell’imbarazzo, e
con
solo la camicia addosso.
“Avresti
dovuto vedere la sua faccia!”
Sherlock
andò a sedersi sul divano, accanto al fratello, che stava
mescolando
una zolletta di zucchero nella tazza di tè appena preparato
dalla
signora Hudson.
“Non
mi dire. Mi sono perso la sua espressione, che peccato. Pagherei oro
per avere una foto di quel momento.”
“A
che serve, posso descriverla."
Sherlock
si avvicinò all’orecchio di Mycroft, iniziando a
bisbigliare
qualcosa. Mycroft di tanto in tanto rideva.
Insomma
veder ridere Mycroft Holmes era già abbastanza assurdo. John
non
credeva nemmeno che ne fosse capace.
“Sherlock
e dai, non è una cosa carina.”
“Perché?
Gli sto solo raccontando la scena di questa mattina. Non è
colpa mia
se Lestrade sembrava un baccalà.”
“Sherlock!”
per quanto ci provasse, John non era in grado di sgridare Sherlock in
modo credibile. Primo, perché Sherlock non era qualcuno che
si
lasciasse riprendere da alcuno, e secondo, perché se quando
lo
riprendeva, se ne usciva con quell’espressione da finto
innocente
come una moneta da tre pound, aveva già perso in partenza.
“Guardate
che io sono qui.” intervenne Lestrade, che non aveva affatto
un'aria felice.
“Si,
lo sappiamo che sei qui, Lestrade. Il che è un bene,
perché così
posso immaginarmi la scena ancora meglio.”
La
fronte del detective di Scotland Yard si corrugò,
riempiendosi di
rughe.
“Sei
uno stronzo, lo sai vero?”
Mycroft
lo ignorò, e riprese a parlare fitto con Sherlock.
John
per dargli un minimo di conforto, e fargli sapere che era dalla sua
parte, andò a dare una pacca sulla spalla del vecchio amico.
“Avresti
potuto dirmelo.” il detective lo disse rivolto a John.
“Lo
so, mi dispiace. Ma per noi non è così facile.
Cerca di capirci.”
“Eravamo
amici no? Così ci hai sempre definiti.”
John
sapeva che avrebbe dovuto lavorare duro per farsi perdonare da
Lestrade.
“Mi
hai fatto fare la figura dello stupido.”
“Mi
dispiace.” davvero non sapeva che altro dirgli. Per Sherlock
era
già stato difficile doverlo dire ai propri genitori, e per
quanto
riguardasse se stesso… Non aveva neanche preso in
considerazione il
doverlo dire ad altri. In fondo era stato quasi impossibile venire a
patti con se stesso e accettare la cosa. Ci aveva impiegato
letteralmente anni e gli ci era voluta una tragedia, per giungere
alla conclusione di amare Sherlock.
“Ora
devo andare. Ho del lavoro che mi aspetta. Così potete
sparlare
liberamente.- Lestrade infilò l’impermeabile.
Buonasera.” e
prese la porta.
John
con un sospiro si lasciò ricadere sulla poltrona.
______________________________________________________________________________________________________________
________________________________________________________________________________________________________________
Note
d’autrice:
Sono
in tremendo ritardo con l’aggiornamento, purtroppo mi sono
persa
con i giorni e non mi ero resa conto che ieri fosse martedì!
Pensate
come sto messa male. Quello di prossima settimana sarà
l’ultimo
capitolo. Sono davvero triste che sia finita, ma non vedo
l’ora che
arrivi novembre per una nuova avventura! In più ci saranno
in futuro
dei capitoli bonus di questa storia, tra cui, quello del matrimonio!
O magari di tutti e due i matrimoni… Chi vivrà
vedrà. Visto che
sono capitoli a parte forse in alcuni ci saranno scene più
piccanti…
Dipenderà tutto da come mi verranno fuori, perché
è da anni che
non le scrivo, non so se sono più in grado.
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Capitolo 40 *** Capitolo 40: Fine. ***
Capitolo
40: Fine.
***
L’organizzazione
del nuovo matrimonio richiedeva tempo, soprattutto visto tutto quello
che aveva in mente la signora Holmes.
In
fondo John era felice che si occupasse di tutto lei, anche per quanto
riguardava Rosie. Avevano persone ben liete di occuparsene in caso di
necessità, e di cui lui si fidava ciecamente. Era diventata
una
specie di famiglia allargata. La bambina aveva già iniziato
a
chiamare la signora Hudson, nonna, per grande gioia di
quest’ultima,
che si preoccupava ogni giorno di preparale le cose giuste. Aveva
provato più di una volta a far desistere la donna, ma non
voleva
sentire ragioni, quindi alla fine aveva semplicemente smesso di
insistere e l’aveva lasciata fare. Greg era diventato lo zio,
e di
tanto in tanto si ritrovavano a pranzo o a cena, quando non
c’era
un qualche caso a tenerlo occupato. Ovviamente questa situazione non
voleva dire che non sarebbero più tornati alla casa sulla
scogliera.
Assolutamente. Quella era casa loro e lo sarebbe sempre stata.
Semplicemente ora dovevano dividersi tra Londra e il paesino dove
erano finiti ad abitare.
Per
fortuna Mycroft aveva sistemato tutto, così John aveva
potuto
conservare il suo lavoro da dottore nella piccola cittadina. Non lo
avrebbe mai ammesso apertamente, ma era stato molto lieto di
intercedere del maggiore degli Holmes. A quanto pareva, la signora
McKennel era entusiasta di trovarsi niente di meno del governo dentro
casa. A Mycroft era bastato dire alla donna che due dei suoi
più
stimati abitanti erano sotto protezione, e che avevano collaborato
per far arrestare un pericoloso criminale internazionale,
così aveva
spiegato anche la storia dei documenti falsi.
Per
lei si era trattato di un vero onore partecipare attivamente alla
collaborazione con il governo inglese, tanto che Mycroft
l’aveva
premiata con una carica a vice sindaco.
Quindi
tutto era stato risolto per il meglio.
Il
fine settimana, e su questo la signora Holmes era stata tassativa,
Rosie lo avrebbe passato con loro. Ogni venerdì pomeriggio
viaggiavano per raggiungere la città, e la domenica sera
tornavano
alla casa sulla scogliera.
Quel
sabato mattina si stavano preparando per portare la bambina a casa
degli Holmes, era arrivato anche Mycroft, che era intenzionato ad
andare a trovare i suoi genitori, quindi aveva deciso di andare a
prendere l’allegra combriccola. Nonostante non avesse
apertamente
approvato quella situazione, si limitava a mantenersi indifferente e
distaccato. John aveva tanto l’impressione che centrasse la
signora
Holmes, e che quasi sicuramente avesse dato un ultimatum al
comportamento sprezzante e astioso del suo maggiore dei figli.
Ovviamente nessuno le disobbediva.
John
e Sherlock si trovavano in cucina con la signora Hudson, intenti a
preparare le ultime cose da mettere nella valigia che la bambina si
sarebbe portata via, quindi era rimasto solo Mycroft in salotto,
intento a leggere il giornale e sorseggiare una tazza di
caffè.
Rosie invece era in camera di Sherlock, e si era data al disegno.
Dopo
un po’, Rosie sgattaiolò fuori dalla stanza,
tenendo in mano un
foglio da disegno, si avvicinò quasi con timore a
quell’uomo che
non l’aveva mai degnata di uno sguardo o una gentilezza. In
realtà
non era sicura del perché a lui sembrava non piacesse la sua
presenza. Una volta, aveva chiesto a suo padre se per caso, lei non
gli piacesse, ma come risposta aveva ottenuto che era fatto
così con
tutti e di non perderci troppo tempo a cercare di capirlo. A lei
però
non era piaciuta come risposta. Non poteva semplicemente lasciare
perdere. Così aveva strizzato le meningi alla ricerca di una
soluzione. Aveva anche pensato a qualche regalo, ma non aveva
abbastanza soldi, e poi le sembrava una cosa così
impersonale e
fredda, quindi aveva deciso di fare qualcosa con le proprie mani.
Cosa c’era di meglio di un regalo fatto personalmente?
Però non
poteva usare cose troppo complicate, e poi non voleva che i suoi
papà
lo sapessero, almeno se fosse andata male, non gli avrebbe sentito
dire “te lo avevo detto”.
Alla
fine aveva trovato l’unica cosa che poteva andare bene per le
sue
esigenze: un disegno. Disegnare era una delle cose che preferiva in
assoluto, e ci si era messa davvero d’impegno. Lo aveva
iniziato
ancora giorni fa, perché doveva essere perfetto.
Diede
un ultimo ritocco, prima di ritenersi soddisfatta. In realtà
non si
riteneva mai del tutto soddisfatta di qualcosa, in fondo si poteva
sempre migliore, però non lo poteva fare meglio di
così. Scrisse il
suo nome, nell’angolo in fondo a destra, e prese il foglio.
Si
fermò dietro lo stipite della porta, e guardò nel
salotto. Per
fortuna la via era libera, avrebbe dovuto agire in fretta.
Lui
era seduto sul divano e stava leggendo il giornale. Aveva un
po’
paura ad interromperlo, avrebbe anche potuto prendere una sgridata,
non aveva idea di come avrebbe reagito, ma doveva farlo, non era una
codarda. Prese un bel respiro e a passo veloce gli ci si
avvicinò,
senza dire una parola. Se ne stava solo lì in piedi, ad
aspettare
che lui si accorgesse della sua presenza. Per fortuna, dopo un tempo
che a lei sembrò davvero interminabile, probabilmente
dovevano
essere passate ore, quello che doveva essere suo zio, ma non capiva
se lo fosse o meno, e non aveva la più pallida idea di come
chiamarlo, abbassò il pezzo di carta che stava leggendo, e
spostò
gli occhi sui suoi.
“Ciao,
ti serve qualcosa?” aveva un tono molto freddo. Davvero non
capiva
gli adulti. Così si limitò ad allungare il foglio
dove aveva fatto
il disegno.
Lui
la guardò un po’ incerto, ma poi lo prese, appena
fu sicura di
averglielo consegnato, corse via, a rifugiarsi nella camera dei suoi
genitori. Tornò al travolinetto basso ricoperto di matite e
pastelli
di ogni colore, e prese un altro foglio, su cui iniziò
subito un
altro disegno. Non aveva idea di cosa stava disegnando, aveva troppo
timore di guardare verso il salotto.
Dopo
un po’ sentì dei passi pesanti in avvicinamento.
Era quasi sicura
sicura si sarebbe presa una bella sgridata.
Mycroft
era assorto nella sua lettura, così tanto, da non essersi
accorto
della presenza accanto a lui, solo che sentendosi osservato, alla
fine, si era interrotto e aveva deciso di controllare di chi si
trattasse. A volte si isolava così tanto nel suo mondo, da
non
accorgersi di quello che accadeva attorno. Però non
c’era nessun
altro in salotto e l’unico trambusto proveniva dalla cucina.
Finalmente si voltò, e si trovò con una bambina
che lo stava
fissando intensamente.
Non
era affatto abituato ad interagire con piccoli umani. Non era lavoro
per lui, e quando qualche sua dipendente rimaneva incinta, si
limitava sempre a mandare una lettera di congratulazioni ed un
regalo. Non capiva tutte quelle esternazioni di gioia e schiamazzo.
Si
limitò a chiederle se le servisse qualcosa, gli sembrava la
risposta
più diplomatica e appropriata, in quel contesto.
La
bambina si era limitata a lasciargli un foglio e fuggire via.
Avvicinò
il foglio al viso, per poterlo osservare meglio.
C’era
un paesaggio di campagna, sullo sfondo riuscì a riconoscere
casa dei
suoi.
E
poi c’erano sua madre, con quella che doveva essere una
teglia di
biscotti in mano, e suo padre, seduto su di una poltrona a leggere il
giornale.
Poi
c’era John con il camice da dottore, la bambina stessa tra
loro
due, e Sherlock, e con sua grande sorpresa, anche lui.
Restò
per un attimo ad osservare i dettagli di quel ritratto di famiglia.
Si
alzò dal divano, ed andò verso la camera. La
bambina era china su
di un tavolino basso e stava colorando un altro disegno.
“Lo
hai fatto tu questo?” non aveva idea di come si interagiva
con i
bambini, le loro menti semplici lo mettevano in difficoltà.
Lei
lo guardò e annuì.
“Tutto
tu da sola?”
Lei
annuì ancora.
“Sei
davvero brava. Grazie.”
“Ti
piace?” il suono della voce timida lo prese un po’
in
contropiede.
“Si.
Molto. Grazie.
Ti
piace disegnare quindi.”
Lei
annuì ancora.
“Anche
a me.” a quelle parole lei alzò di scatto la
testa, con
un'espressione sorpresa.
“Davvero?”
“Sì.
Dipingo.”
“Wow!
Che bello! Hai le tele e i pennelli!”
“Si
li ho. Ti piacerebbe vederli?”
“Davvero
posso?”
“Certamente.”
“E
le matite ti piacciono?”
“Le
matite? Si, si non mi dispiacciono.”
La
bambina prese un foglio e lo allungò verso Mycroft, che
decise di
cogliere l’invito. Prese il foglio, e slacciò i
bottoni della
giacca, per potersi mettere seduto a terra.
John
e Sherlock, si trovarono così davanti a quella scena.
Sherlock era
ancora più stupito e sorpreso. Non era molto convinto di
come
reagire alla cosa.
Mycroft
si limitò ad alzarsi e a chiudere la giacca.
“Stavamo
semplicemente dialogando di pittura.”
John
sembrava sconvolto da quell’affermazione.
“Pittura?”
“Si,
pittura. Tua figlia ne è appassionata, non lo
sapevi?”
Quella
domanda fatta in modo così naturale sapeva quanto in
realtà fosse
una frecciatina. Mycroft stava velatamente insinuando che lui, suo
padre, non sapesse qualcosa cosa su sua figlia. Prima che gli venisse
un attacco di qualcosa, intervenne Sherlock.
“Certo
che lo sappiamo, chi credi le abbia insegnato a disegnare?”
Mycroft
si limitò a tirare le labbra.
“Abbiamo
concordato di fare una visita alla mia collezione di tele e colori,
non vero?” lo disse rivolto a Rosie, che si
illuminò di gioia.
“Si!”
Sherlock
era ancora più sconvolto da quell’informazione.
“Tu
cosa?”
“Cosa
sono quelle facce? Non posso passare un pomeriggio con mia nipote?-
Sherlock
e John si guardarono negli occhi. -Ebbene?”
“Posso
andare?”
Rosie
si aggrappò alla gamba di John.
“Ehm…
Ma si, ma si certo.” appena ebbe la risposta positiva dal
padre,
gli abbracciò la gamba.
“Bene.”
Mycroft uscì dalla stanza.
Sherlock
si piegò in avanti per poter poter guardare Rosie negli
occhi.
“Perché
non metti a posto? Così dopo andiamo dai nonni.”
“Si!”
Intanto
che la bambina sistemava tutto, uscirono anche loro dalla stanza.
“Ehm…
Che cosa è appena successo?” domandò
John.
“In
realtà… Credo di non saperlo. E’ una
novità.”
“Ma…
Ci dobbiamo preoccupare?”
“E’
mio fratello. Che cosa ti preoccupa?”
“Proprio
perché è tuo fratello che mi preoccupo.”
“In
effetti.”
“Ma
non penso abbia cattive intenzioni. Voglio dire, anche con me tende
ad essere iperprotettivo."
“Sherlock,
lui ti controlla. Non voglio che lo faccia con nostra figlia.”
“Sicuro?”
“Come?”
“Pensaci.
Hai qualcuno che può assicurarsi che a lei non
potrà accadere nulla
di male. Anche quando non ci sei.”
“Uhm.
Siamo genitori orribili, lo sai vero?”
“Perché?
Perché ci preoccupiamo della nostra unica figlia?”
“Si
ma usando il governo.”
“Lo
farebbero anche gli altri se potessero.”
In
effetti doveva convenire che Sherlock aveva ragione. Come sempre.
Probabilmente una volta che Rosie sarebbe diventata adolescente,
avrebbe finito con l’odiarli. Però non poteva fare
a meno di
preoccuparsi. Se questo voleva dire fare un patto con il diavolo, lo
avrebbe firmato con il sangue.
“D’accordo.”
“D’accordo?”
“Si
d’accordo.”
“Avviserò
mio fratello.”
“Sai
che ti amo vero? Anche quando Rosie finirà con
l’odiarci per
questa storia. Mi rimarrai solo tu.”
Sherlock
rise.
“Che
melodrammatico. Comunque ti amo anche io, anche quando nostra figlia
finirà con l’odiarci perché ci teniamo
a lei.”
John
si avvicinò a Sherlock, lo prese per la camicia e lo
baciò.
Sarebbe
andato tutto bene. Avrebbero vissuto bene e con una vita felice.
Fine.
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Note
d’autrice:
Ci
ho messo tanto a pubblicare perché davvero non volevo
finire. Ho
iniziato a
scriverla
a fine settembre, e l’ho conclusa a fine ottobre
dell’anno dopo.
Un anno intero a dedicarmi a questa storia. Come ho già
scritto
altre volte, era la prima cosa che scrivevo dopo davvero tanti anni,
oltretutto la prima su Sherlock e John. Quindi insomma è
stata
proprio una prima volta. Spero sia andata bene. Anche se le
recensioni non sono mai stati ai massimi livelli, lo considero
comunque un traguardo. Ho trovato persone che mi hanno lasciato
ottime recensioni, e anche se alcune poi le ho perse per strada, vi
ringrazio davvero con tutto il cuore. Anche con chi è
arrivato fino
a qui. Mettere
la parola fine è stata dura, mi affeziono sempre a quello
che
scrivo.
Ci
saranno altre storie, alcune sempre con i nostri beniamini, che non
ho ovviamente intenzione di abbandonare, e con cose nuove cose.
Quindi stay tuned!
E
ci sarà la famosa nuova storia a novembre, non so il giorno
preciso,
ma siamo vicini!
Insomma
ci sono un sacco di cose in arrivo.
Grazio
come sempre alle persone che hanno messo questa storia tra le seguite
e le preferite.
Sono
sia su Instagram che su Facebook per news e
quant’altro:
https://www.instagram.com/lady_norin/
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