Dyeda

di lilithiums
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 1 ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 2 ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***


Urla strazianti riecheggiavano nel cielo come un’enorme cupola senza fine di dolore e morte, al suo interno tutto vi era ricoperto di sangue rosso cremisi, corpi giacenti inermi a terra, senza vita, ricoperti di ferite mortali, arti mutilati e armi ormai abbandonate. E lì, al centro di tutto ciò vi si trovava una giovane ragazza che con occhi sgranati ed increduli, osservava tutto questo devasto, con un nodo che le chiudeva lo stomaco. Non era questo ciò in cui aveva creduto fin dalla nascita, ciò che era Noxus. Non c’era posto per i deboli, ma di sicuro non si tradivano i propri compaesani, o almeno così credette fino a quel fantomatico giorno della guerra sanguinaria fra Noxus e Ionia. Riluttante decise di scappare via, lontano da tutto questo, afferrò la sua spada runica, forgiata solo per lei dal capo dell’Alto Comando e corse, corse a perdifiato, senza una meta facendosi spazio fra i corpi mutilati dei suoi nemici e anche quello dei suoi compagni, uccisi ingiustamente. « Le mie mani sono sporche di sangue. » Un sussurro flebile quasi impercettibile, uscì dalla sua bocca come uno sputo, con riluttanza si rese conto che alcuni dei corpi che ora stava scansando, che ora le intralciavano i passi, erano gli stessi corpi che lei uccise con le sue stesse mani. Si destò quando sentì un grosso sparo a qualche metro dal punto in cui era, così da riprendere a correre. Corse e corse per molti metri, si rifugiò vicino ai resti di una casa, vi erano rimaste solo le fondamenta, ed un muro ridotto a metà dalla guerra. Vi si appoggiò con la schiena, e si accasciò a terra esausta. Chiuse gli occhi, l'eco della battaglia si sofferma con lei. Si cova nei suoi occhi, irrigidisce nella sua presa e nel suo passo. Non la lascia mai. Riven è ancora lì adesso, in mezzo ad essa. Si rialzò scattando in piedi, e proseguì la sua marcia verso l’ignoto, ancora una volta, da sola.

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 1 ***


"Sarà una condanna al lavoro. A cominciare dai campi di mastro Konte e signora. È inoltre decisione di questa corte che Riven ripari la sala del consiglio e le case di coloro la cui famiglia è stata danneggiata dall'invasione di Noxus."  Era quella la secca ma indulgente decisione che fuoriuscì dalle labbra sottili del giudice del consiglio. Erano passati alcuni mesi da quel verdetto, e sotto il sole cocente quelle frasi sarebbero pesate ad ogni persona di questo mondo, ma non a lei. Lei pensava, nel profondo del suo cuore affranto, che quella punizione inflittale dal giudice Ioniano non era abbastanza per una come lei: colei che aveva sterminato bambini, donne, uomini, anziani, senza nemmeno guardarli in faccia, lei che aveva tradito e che era stata tradita a sua volta, non le era concessa redenzione, non con una simile punizione. A lungo aveva errato in cerca della morte, il suo corpo era così emaciato e la sua mente così oscura e tormentata da innumerevoli crimini, che iniziava a nutrirsi dei suoi ricordi, che svanivano man mano che la sua fame e la sua sete aumentavano. Ma qualcuno l’accolse, la ospitò, le diede un posto da poter chiamare casa. I lavori forzati non erano pesanti per una donna che aveva sempre lavorato sodo fin dalla tenera età, non desiderava altro che essere utile senza dover dipendere da nessuno. Nella sala del consiglio vi era ancora traccia del caos seminato dal potere magico sprigionatosi dalla sua spada runica, i segni del vento tagliente erano ovunque sui muri, sulle panche ed era compito suo porvi rimedio. Come se riparando ciò che aveva distrutto, potesse riparare anche la sua anima lacerata da tempo, ma infondo lei ci sperava. Qualcuno credeva in lei, anche se a malapena ricordava il suo nome, anzi più ci pensava, più quel nome le sfuggiva dalla mente, com’era che si chiamava il giovane straniero del vento? La sua mente vagava immersa nei suoi pensieri mentre impilava un mattone sopra l’altro, con gesti meccanici e li ricopriva di stucco e vernice candida, il cui odore ricopriva quello di sudore della giovane donna, che lavorava ininterrottamente da quando era sorto il sole. “Dyeda…” quel sussurro flebile si perdeva nel vento appena fu pronunciato. Un sorriso appena percettibile apparve sul volto dell’albina mentre con il palmo della mano si asciugava il sudore dalla fronte. Dei passi flebili varcarono la soglia della porta, facendo sobbalzare Riven. Quest’ultima socchiuse gli occhi accecata dal sole riuscì a malapena a scorgere una figura imponente con dei lunghi capelli ribelli avvicinarsi sempre più a lei. Man mano che avanzava all’interno della sala, quella sagoma acquistava particolari, i suoi occhi balzarono sul volto di quello sconosciuto ma alquanto famigliare, dove un’enorme cicatrice fece cadere ogni dubbio su chi fosse quel giovane. Con stupore della ragazza, l’uomo si accovacciò di fianco a lei, facendosi spazio fra i vari utensili, per poi ammirare con occhio cinico il suo operato sulla parente dinanzi a loro. “Quindi ti hanno messa ai lavori forzati, eh?” esordì il giovane con voce roca, mentre un sorrisetto sarcastico gli si dipinse sul volto. Riven non rispose, si limitò ad annuire col capo, tenendo lo sguardo basso. Era la stessa persona che quel giorno la fece rinsavire dal suo torpore immaginario, colui che le ridiede la sua memoria, lo stesso che la capì nonostante tutte le prove urlassero in suo sfavore. Non riusciva tutt’ora a comprendere perché uno straniero, invece di odiarla come hanno fatto in molti, l’avesse capita e appoggiata fino alla fine. Un’altra spada spezzata, si definì lui tempo addietro. Troppe domande senza risposta, l’unica soluzione per trovarvi una risposta era semplicemente chiedere. Alzò di scatto il capo, con voce arida e cantilenante gli chiese qualcosa di vitale per lei: “Perché vaghi ancora senza una meta, ormai il colpevole dell’assassinio dell’anziano Souma è stato trovato e punito...” Si morse il labbro inferiore appena finì di parlare, rendendosi conto che era una domanda abbastanza campata in aria ed impertinente, tra l’altro aveva sentito solo qualche voce che girava sul suo conto da parte del vecchio Konte. Il giovane samurai voltò il capo nella sua direzione, tanto quanto bastava da poterla vedere con la coda dell’occhio, seguì una breve ma interminabile pausa prima che iniziò a rispondere in modo vacuo all’esiliata. “Ci sono crimini che solo tu puoi perdonarti, nessun altro può.” Si alzò dal pavimento facendosi leva con il braccio sinistro, dandole le spalle. “Spero che tu possa perdonare te stessa, Riven, prima o poi.” Riven restò a fissare il ragazzo camminare barcollando appena, fino a che svanì dal suo campo visivo. Rimasta nuovamente sola, sospirò, guardandosi il palmo delle mani piene di calli e di vernice. Ci sperava davvero, ci aveva sperato in una redenzione, ma ora che ricordava ogni cosa successa, ogni persona caduta in quella dannata guerra, ogni anima che aveva sottratto al proprio corpo, si chiedeva se davvero meritasse una redenzione. No, ti sbagli. Non mi perdonerò mai. Non mi perdoneranno mai.

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 2 ***


Una mattina come un'altra sembrava essere iniziata, il gallo cantava a squarciagola svegliando tutti i membri che abitavano la casa dei Konte. Riven si strofinó gli occhi, ancora assonnata, con un sospiro si alzò dal letto, infilò i piedi nelle pantofole spartane color panna, per poi dirigersi in bagno, aveva davvero bisogno di una doccia fredda per cacciar via i sogni orribili che ancora infestavano la sua mente ogni volta che chiudeva le palpebre. “Dyeda...DYEDA?” La voce della signora Konte risuonava nel silenzio mattutino, appena la udí, la giovane albina uscì dal bagno avvolta da un enorme asciugamano. Ogni cosa era più grande di lei lì, dopotutto vi avevano abitato due giovani uomini, non una donna minuta come lei. Strattonó con foga l’asciugamano sulla sua pelle umida, per poi infilarsi la solita tunica enorme, arrotolandone le maniche sulle braccia e sulle gambe almeno 8 volte. Raccolse i suoi capelli ribelli in una coda alta, pettinandoli velocemente, per poi scendere quei pochi e ripidi scalini che portavano al piano di sotto, per fare colazione insieme ai due anziani. Riven fece timidamente capolino nella sala da pranzo, dove vi erano già il signore e sua moglie seduti con una tazza di latte e caffè fumante dinanzi a sé. Salutó i due con un sorriso ed il rossore appena percettibile sulle gote, mentre prendeva posto a tavola. Shava esordì felice come una Pasqua, per ragioni a Riven ancora ignote. “Dyeda, cara, non dovresti più vestirti con abiti cosi grandi, è scomodo dato che vivrai qui a lungo, non trovi?” L'albina si scostó dal viso una ciocca tagliata in modo grossolano, per guardare la donna, per poi distogliere immediatamente lo sguardo fissando il caffè scuro dinanzi a sé. Menti. Devi mentire, non ne hai bisogno, non approfittare della loro gentilezza. “Non ne ho bisogno...io, posso lavorare anche così, sono abiti comodi.” Speró con tutta se stessa di essere stata convincente, ma persino lei aveva udito un tentennamento nella sua voce. I due coniugi si guardarono negli occhi a vicenda prima di scoppiare in una risatina. Riven alzò il capo confusa, guardó Shava scomparire dietro la porta, per farci capolino dopo una manciata di secondi, con in mano un'enorme cesto di vimini. A quella distanza non riusciva a vederne il contenuto, l'anziana si avvicinò al tavolo su cui vi erano seduti Asa e Riven, posandovi la cesta. Vestiti, c'erano dei vestiti di vari colori, bianco, nero, giallo, azzurro, persino rosa e rosso! “Oh!” Riven esclamò sorpresa fra se e se, con le lacrime agli occhi che minacciavano di scendere da lì a pochi istanti. Erano per lei, dalla sua...famiglia. Shava avvicinò la cesta a Riven, con un enorme sorriso compiaciuto e comprensivo. “Sono tuoi, cara. Alcuni un tempo appartenevano a me, altri li ho comprati appositamente per te. Stai lavorando sodo, non chiedi nulla in cambio, vorresti solo qualcuno che si prenda finalmente cura del tuo animo lacerato. Non ci importa quali crimini tu abbia commesso, la ragazza che abbiamo di fronte adesso, non è un mostro. È una splendida donna, lavoratrice, umile e gentile, dyeda.” Eccole, le lacrime a lungo represse, stavano sgorgando dai suoi occhi gonfi ed arrossati, rigandole il viso scarno, da sempre aveva lottato per non mostrarsi debole ai due coniugi Konte, ma era tutto vano, lo sapevano dal primo momento che l'avevano vista, sapevano il peso dei suoi demoni che si portava sulle spalle, e li avevano accettati, avevano accettato lei, una spada rotta, una Noxiana spietata richiedente asilo nello stesso luogo che voleva dominare. “Non…” Lottó con l'emozione che cercava di esplodere dentro il suo cuore, cercò di parlare senza che la voce le tremasse, si morse il labbro inferiore cercando di distogliere la sua attenzione dalle lacrime che cadevano copiosamente. “Non merito tutta questa indulgenza. Io...io li ho uccisi tutti! E probabilmente ho assistito alla caduta dei vostri figli.” Chiuse gli occhi, conscia del dolore che aveva causato ai due anziani con le sue parole. Il silenzio era calato nell'abitazione, sembravano attimi eterni per la giovane redenta. “Il destino ci ha ripagato donandoci un'altra figlia e noi ne siamo grati.” Il gatto del granaio dal pelo grigio folto ed arruffato, entrò dalla finestra semi aperta, per strusciarsi sulla gamba di Riven, come se volesse rafforzare le parole di Shava. La sua attenzione ricadde sull'animale al suo fianco, stranamente le sembrò cosi simile a lei. Sola, indipendentemente, ma a volte in cerca di cure. Posó la mano destra sul capo del gattino, che in tutta risposta miagoló, mentre con l'altra si asciugó le lacrime amare dal viso abbronzato. “Grazie, Emair, Fair…” La voce rotta dall'emozione, un sorriso che le illuminava il volto in fiamme, era da molto che non sorrideva genuinamente. Molte cose stavano cambiando attorno a lei, ma soprattutto in lei. A Noxus non era permessa alcuna forma di debolezza, piangere era un tabù, affidarsi ad altri in questo modo lo era altrettanto, l'unica cosa che doveva contare per te era se stessi e nessun altro. La solitudine l’accompagnava fin dai suoi 6 anni di vita, non le pesava molto, se stessa era l'unica persona che aveva, che conosceva, fino a quel momento. Si sentiva finalmente parte di un qualcosa, che non aveva niente a che vedere con la guerra. Una famiglia, la stessa che aveva sempre sognato, ancor prima degli incubi oscuri.

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