Les secrets des forêts

di carlo90
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1° ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2° ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3° ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1° ***


Il signore degli anelli

Il signore degli anelli

Fan Fiction

Les secrets des forêts

(I segreti dei boschi)


Personaggi in questo capitolo:


Gli ultimi raggi del sole sfioravano le bianche mura di Minas Tirith. Il calore non era mai stato così bello, la luce del tramonto, dopo le numerose battaglie che portarono alla pace nella terra di mezzo, riscaldava gli animi delle persone, che avrebbero potuto dormire a sonni tranquilli. Ora il sole colorava ogni luogo di un rosso scarlatto, colore che sarebbe scomparso subito dopo, quando sarebbe passato dietro alle montagne e la luce prodotta si sarebbe spenta, per poi tornare dalla parte opposta, illuminando di nuovo la giornata. Aragorn ed Arwen erano ora i sovrani dell’impero di Gondor, erano felici finalmente, una volta raggiunta la pace per stare insieme fino alla fine della loro vita.

Nel frattempo un cavallo con delle sfumature marroni chiare e scure galoppava per i campi del Pelennor. Sopra il puledro, stava una figura umana, coperta da un cappuccio nero, come il mantello, che sventolava insieme al vento. Quel cavallo puntava verso la città bianca, senza che nessuno se ne accorgesse. Le difese del centro abitato erano diminuite parecchio, non solo a causa della morte in battaglia, ma anche perché molti soldati, dopo aver visto la morte in faccia presso il nero cancello, si ritirarono dall’esercito per lo sconforto. Dopotutto, a Gondor non rimaneva nessun nemico, poiché la torre nera era caduta e lì insieme al torrione, erano morti anche molti orchi.

Aragorn stava seduto sul trono, dove pochi giorni prima stava seduto Denethor, in quella stanza dove erano conservate tutte le statue dei precedenti re: facevano parte della sua stirpe, erano i suoi antenati. Davanti al trono, i servitori di corte avevano sistemato un massiccio tavolo di legno scuro, che contrastava con il bianco delle pareti, sopra il quale avevano posato una gran cartina che illustrava tutti i confini del regno, ed oltre, fino a Granburrone. Era da molto che un viandante mostrava al re tutti i territori che facevano parte del regno, ma Aragorn seguiva con poca attenzione, così spostava lo sguardo indietro, passando per Rohan, per Isengard, per la foresta di Fangorn, per i boschi di Loth Lorien, per Moria, per fermarsi poi a Granburrone. Mentre lo sguardo scorreva lungo la cartina, ad Aragorn tornavano in mente tutte le avventure, ricordava ancora l’aroma di corteccia amalgamato con il tanfo di orchi, quando cercò di estrarre la freccia dal corpo di Boromir, ripensava alla promessa che poco prima gli aveva fatto, dicendogli che un giorno sarebbero entrati trionfanti a Gondor, insieme, e così, come un grido fastidioso, sentiva ancora nella sua mente quando Boromir lo aveva chiamato “mio Re”, prima di morire. Così lo sguardo passò avanti, cercando di cancellare quel brutto ricordo, per passare ad uno più bello: Granburrone. Come delle immagini, tornavano alla mente Arwen, con il suo viso dolce e delicato, che gli donava il suo gioiello dell’immortalità, poi suo padre, con il viso avvilito, che non voleva lasciare che sua figlia rinunciasse all’immortalità. Tutto quel tempo era passato, Arwen era sola, lui l’aveva abbandonata. Il suo fiato aumentò di scatto, e si mise una mano sul petto, stringendo a sé il ciondolo argenteo che ancora oggi portava. Non aveva ancora parlato molto con sua moglie, si potevano vedere poco, gli affari di corte, ora che c’era il nuovo re, erano moltissimi, e nel poco tempo libero Aragorn si faceva insegnare come fare il re, era nel suo sangue, ma non lo aveva mai fatto, non aveva mai governato prima d’ora e si sentiva impreparato per quel posto.

“Sire, io avrei finito…” disse l’uomo imbarazzato.

“Si, andate pure…” rispose con un gesto della mano.

L’uomo fece un inchino e, raccogliendo le carte, si avviò verso l’uscita.

I due soldati spalancarono la doppia porta e Aragorn sentì i raggi del sole riscaldargli il viso, mentre già sentiva il profumo della libertà per quella serata. Così si alzò e si diresse fuori. Arwen stava in piedi, al centro del cortile, accarezzando l’albero bianco, simbolo di Gondor. Era evidente: la regina sentiva la mancanza dei boschi, aveva bisogno di essere a contatto con la natura. Ma non appena vide il marito gli corse incontro e lo abbracciò, mentre lui sorrideva e la stringeva a se.

“Mi sei mancato tanto…” gli sussurrò all’orecchio.

“Mi dispiace, anche tu mi sei mancata, temevo di averti persa…”

“Assicurami che mi vuoi bene…”

“Non ti voglio bene, ti amo, con tutto il mio cuore…”

Arwen lo strinse ancora di più e gli donò un bacio sul viso.

“Anch’io ti amo… di più di qualunque cosa al mondo…”

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Aragorn vide un uomo di corte che si avvicinava e così lasciò la presa della moglie.

“Scusate Sire, e anche a voi regina, il banchetto per il nuovo re è pronto, tutta la città è salita per rendere omaggio a voi Sire, ognuno ha portato del cibo in base alle proprie possibilità.”

“Molto bene… adesso arriviamo…”

“Ah Sire, dimenticavo, anche le guardie hanno chiesto di poter salire per rendervi omaggio… le guardie che hanno turno di sorveglianza…”

Aragorn era in dubbio… se fosse venuto qualche piccolo esercito di orchetti sarebbe stato spacciato, non ci sarebbe stato nessuno a difendere la porta o a perlomeno dare l’allarme. Ma non avrebbero dovuto esserci orchetti in giro…

“Allora, Sire?” chiese l’uomo.

Aragorn si voltò verso Arwen per farsi sostenere.

“Io direi che anche loro hanno diritto ad un po’ di festeggiamenti…”

Aragorn annuì.

L’uomo fece un profondo inchino rivolto ai sovrani e si diresse verso la stanza regale.

“Hai fatto bene…” gli sussurrò Arwen appoggiandosi alla sua spalla mentre passeggiavano verso le scale.

“È stato solo grazie a te…”


Così tutto il popolo di Minas Tirith si recò alla parte alta della città, dove c’erano dei lunghi tavoli disposti in file, di modo che la maggior parte della popolazione si potesse sedere e mangiare insieme ai sovrani.

La piccola piazza era stata allestita con moltissime candele, cosicché anche se la notte sarebbe stata più buia del previsto, non ci sarebbero stati problemi. In un’altra piazza più in basso era stata costruita una scacchiera gigante, con un piccolo palco, dove i cantori medievali della città potranno suonare in onore del re, mentre le coppie balleranno sulla scacchiera. Aragorn ed Arwen camminavano lungo un corridoio semiaperto, con delle colonne unite da un muretto in pietra.

Appena arrivati alla piazza, furono sommersi dai fiori, tutto il popolo era felice di essere uscito da quell’inferno, un inferno chiamato Denethor.

Degli abitanti urlavano felici: “Evviva il nuovo re! Evviva per Aragorn, figlio di Arathorn! E abbasso Denethor! Si! Abbasso Denethor!”

Tutti erano felici, tutti, tranne una sagoma umana appoggiata ad un muro poco più in là. Quell’uomo era Faramir. Non si era unito al banchetto, preferiva starsene in disparte.

Mentre tutti erano impegnati a mangiare, Aragorn sussurrò all’orecchio di Arwen che sarebbe tornato subito, quindi si alzò e si diresse verso il muro vicino al quale aveva visto Faramir. Ma l’uomo non c’era più. Allora Aragorn si guardò intorno e vide un’ombra muoversi in fondo al corridoio. Così lo percorse abbastanza velocemente e si ritrovò in un piccolo giardino grazioso con un laghetto al centro che lui non conosceva. Sulla riva del laghetto sicuramente non naturale, stava seduto Faramir, che gettava sassolini nel lago con forza.

“Chi sei?” chiese Faramir, dopo aver sentito dei passi avvicinarsi.

“Sono io…” rispose il re, sicuro che avrebbe riconosciuto la voce.

“Che cosa vuoi? Perché non vai a festeggiare e mi lasci qui da solo?!?”chiese, ma non era tanto una domanda, più che altro era un obbligo.

“Beh, ecco… volevo vedere perché non ti univi ai festeggiamenti…”

“Vedi, non mi piace partecipare alle feste contro mio padre…”

“Non è contro tuo padre…” rispose Aragorn, mantenendo la calma.

Faramir gettò un altro sassolino nel laghetto.

“… e poi non l’ho voluto io che il popolo gridasse in quel modo…” aggiunse.

“Ma tu sei il re. Tu devi decidere tutto. Potevi zittirli muovendo un solo dito, io invece, non sono nulla. Avresti voluto urlare anche tu contro mio padre…”

“Faramir, non fare lo sciocco. Lo sai benissimo che non lo avrei mai fatto.”

“Si, solo perché sei re, se tu non fossi il re lo avresti urlato eccome.”

“Faramir, io non sono contro tuo padre, ho soltanto occupato il suo posto.”

“Il mio posto.”

Aragorn rimase stupito. Non si sarebbe mai aspettato che Faramir poteva essersela presa per quello. Non era logico, Aragorn avrebbe dovuto essere re in ogni modo, era la sua stirpe.

“Saresti stato solo sovrintendente, custode del trono, non re… e comunque sei sempre generale dell’esercito…”

“Si, generale, bel compito, da reali insomma, da figli di un sovrintendente.”

Aragorn era proprio irritato, Faramir si permetteva di fare il possessivo... voleva essere re, odiava Aragorn per quello che era.

“Tuo padre ti odiava. Non ti avrebbe mai lasciato il suo posto! Stava per bruciarti vivo! Non te lo ricordi? Ti odiava a morte! Avrebbe lasciato Gondor nella rovina, in mano a qualsiasi persona piuttosto che… piuttosto che a suo figlio!”

Faramir si alzò di scatto e guardò Aragorn in faccia.

“Ma io sono l’unico rimasto! Sono io che dovevo occupare il suo posto! Perché sono l’unico vivo! Sono suo figlio comunque!”

“È solo grazie a Gandalf che sei vivo!“

“Non m’interessa grazie a chi, grazie a cosa! Ed è grazie a te, che dovrai cercarti un nuovo generale!” così s’alzò e si diresse dalla parte opposta alla festa, verso casa sua.

“Faramir! Aspetta! Cosa? Dove vai?”

“Addio, re!” disse e sbatté la porta di legno chiudendola a chiave.


Mentre Aragorn tornava alla festa, Faramir stava sistemando il cavallo nella stalla dietro casa, e intanto, molto più in basso, l’uomo incappucciato era fermo da un po’ di tempo davanti ai portoni di Minas Tirith, chiedendo ripetutamente di aprire.

“Volete lasciarmi fuori eh? Ora che avete concluso la guerra non avete più bisogno di noi… bene… giacché state tanto zitti e vi rintanate nei vostri buchi dietro alle mura, vi meritate questo!” così prese il proprio arco e incendiò una freccia. Allora la lanciò dentro le mura, subito dopo il portone. Il tetto di una casa cominciò subito a bruciare. Dopodiché scrisse su una pergamena parole fugaci, e senza firmare, l’arrotolò attorno ad un’altra freccia che lanciò sempre dentro. Così fatto, salì a cavallo e si diresse verso nord.

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Intanto Aragorn era tornato a tavola.

Nessuno immaginava quello che stava succedendo a pochi metri più in basso.

“Tesoro, dove sei stato?” chiese Arwen preoccupata.

“Niente, ho solo discusso con Faramir, tutto qui…”

“Tutto a posto?” chiese accarezzandolo in viso.

“Si, stai tranquilla, non c’è problema…” rispose.

“Bene… quasi tutti si stanno spostando più in basso, dove ci sono le danze. Andiamo anche noi?” chiese mostrando il visino dolce.

“Si, aspetta solo un minuto.” Così si alzò e parlò ai pochi che erano rimasti.

“Signori, vi chiedo di spostarvi più in basso, verso la piazza con le danze… io e la regina vi raggiungeremo subito.”

Così fecero. Tutti si alzarono e coppie, mano nella mano si preparavano per ballare.

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Una volta allontanati Aragorn si voltò verso Arwen e cominciò a baciarle il collo. Poi si avvicinò verso il suo orecchio e le sussurrò: “Questo era l’antipasto, questa notte ti voglio tutta per me…”

Arwen lo guardò stupita, ma nel senso felice, anche se avrebbe voluto subito, ma capiva che avrebbe dovuto aspettare.

Così si diressero verso le danze, mano nella mano.

Arwen avrebbe voluto ballare come quando era più giovane, era spinta a chiederlo ad Aragorn, ma lui sembrava non volerlo fare, non era forse capace? In ogni caso era meglio non metterlo in imbarazzo.

Anche Aragorn avrebbe voluto danzare con la donna che amava, ma sapeva benissimo che non avrebbe dovuto: il suo posto sarebbe stato quello seduto, a guardare il popolo allegro.

Ognuno danzava felice, mentre alcuni uomini robusti avevano portato un tavolo verso la piazza delle danze, e l’avevano riempita con bottiglie, bicchieri, vino, acqua e chi più ne ha più ne metta.

Mentre i musicisti suonavano una bella canzone, due donne giovani, senza compagno, scendevano per la città, andando a riempire due secchi con l’acqua del pozzo potabile.

Tutti erano felici. Nessuno si aspettava quello che sarebbe successo pochi minuti dopo. Quello che stava già succedendo. A causa di un uomo, solamente perché non gli era stato aperto.

Aragorn stava abbracciando Arwen, che cominciava ad avere sonno. Le accarezzava i capelli neri, mentre lei chiudeva gli occhi, aspettando che la festa finisse, per essere, finalmente, da sola, con il suo Aragorn.

Anche lui non vedeva l’ora di poter stare nel letto con il suo amore, una volta che, dopo tante battaglie, si potevano ritrovare insieme, sarebbero rimasti abbracciati per sempre, se Aragorn non avesse visto.

Le due donne correvano urlando, ma non si comprendeva cosa dicessero, poiché gridavano entrambe.

Arwen si svegliò di colpo. La musica cessò, e le persone rimasero ferme, ancora abbracciate, come durante il ballo.

“Al fuoco! Le nostre case bruciano!”

Appena udite le parole il popolo entrò nel panico.

“Calma! Calma!” gridò Aragorn, anche lui preso dal panico, ma cercava di controllarlo.

“Silenzio! State zitti!” aggiunse.

Le persone si fermarono e ci fu un leggero silenzio.

“Il fuoco non oltrepasserà le mura del primo livello, ma per sicurezza salite tutti nel giardino dell’albero bianco. Gli uomini né troppo giovani, né troppo vecchi mi seguano, dobbiamo andare a spegnere il fuoco. Le donne e i bambini procurino più secchi che possano, ma dopo tornate nel giardino!”

Diversamente da come Aragorn si aspettava, la folla si mosse con un certo ordine.

Arwen si alzò e abbracciò fortemente il marito.

“Ti amo…” gli sussurrò.

“Anch’io ti amo, più di quanto si possa amare, ora vai nella sala del trono e cerca di mantenere l’ordine, sta calando la notte, gli studiosi di corte sostengono che farà molto freddo, quindi cerca di far entrare più gente che puoi nel palazzo, ma non troppa, si potrebbe morire soffocati. E mi raccomando, non mandarli in preda al panico. Dì alla folla che probabilmente pioverà, non dire del freddo.”

“Va…bene…” disse la donna agitata, con le lacrime sul viso. “Torna presto.”

“Tornerò, te lo prometto.”


Così le diede un bacio appassionato ma fugace, perché sapeva che non c’era tempo da perdere.


Le fiamme erano molte di più di quelle che si aspettava.Uomini lanciavano più acqua che potevano, caricandola dal pozzo, mentre Aragorn era in mezzo a loro, proprio come loro. Dovette sentire pianti di bambini intrappolati nelle case, che erano rimasti a casa, a volte da soli, a volte con le madri.

Molti cittadini si gettavano tra le fiamme, tentando di salvarli, ma la maggior parte delle volte la casa cedeva prima che loro potessero uscire.

Aragorn era anche lui in preda al panico, avrebbe potuto morire, perdere così la sua Arwen. Gli uomini non stavano bene in ordine, avrebbero dovuto gettare l’acqua alla base delle case, e tutti insieme, mentre ognuno era distante dall’altro.

Quegli uomini erano soldati, la maggior parte, avrebbe dovuto esserci qualcuno che li comandasse, ma qualcuno che li conosceva bene, qualcuno come Faramir.

Proprio in quel momento Aragorn sentì il rumore di zoccoli sulla pietra.

Era Faramir. Aveva visto tutto. Ormai le fiamme avevano raggiunto il secondo livello. Erano riuscite a superare le mura bruciando la porta.

Per un attimo Aragorn e Faramir si guardarono negli occhi. Aragorn aveva bisogno di lui, ma ci aveva appena litigato, e Faramir se ne stava andando. Quei pochi attimi sembrarono durare molto tempo. Faramir avrebbe lasciato la città, Aragorn ne era certo.



Che cosa succederà? Hehe vedrete… vi chiedo xfavore, scrivetemi recensioni, anche negative, ma non offensive… Niente pomodori please… comunque vi prometto che più avanti ci sarà qualche intrigo… e aumenterò il rating… ciao!

E scrivete recensioni!



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Capitolo 2
*** Capitolo 2° ***


Capitolo 2

Capitolo 2


Desidero inserire quest’immagine poiché rappresenta Minas Tirith in fiamme.

Faramir era fermo, a cavallo, mentre Aragorn con il volto annerito dalla cenere, lo guardava supplichevole. Faramir abbassò lo sguardo a terra. Scese da cavallo e legò il puledro ad una staccionata. Poi si volse verso Aragorn dicendo: “Scusa fratello.”

Un sorriso comparve sulle labbra del re che si avvicinò verso il generale abbracciandolo come un fratello. “Non c’è tempo da perdere” disse poi, mentre il sorriso cominciava a svanire.

Faramir cominciò subito a mettere in riga i soldati, di modo che spegnessero il fuoco in breve tempo.

Intanto Arwen stava facendo entrare più persone possibili dentro la sala del trono, senza affollare troppo.

“Venite dentro, le nubi promettono male, potrebbe piovere.” Ripeteva, accompagnando donne e bambini nella sala. Oramai la stanza era quasi piena e, come aveva detto Aragorn, sarebbero potuti morire soffocati. Così prese alcune donne e le fece sistemare nelle stanze delle ancelle. Ora andava bene, le persone erano disposte appoggiate alle pareti e alle colonne, mentre alcuni abitanti che abitavano vicino al palazzo portavano più coperte che avevano, anche tovaglie, cosicché quasi tutti potessero coprirsi. Arwen uscì per vedere quanti stavano ancora fuori.

Donne e bambini stavano lì, con delle poche coperte, mentre la brezza fredda sfiorava il dolce viso della regina. Dovette vedere l’espressione infreddolita dei bimbi, abbracciati dalle madri per farli riscaldare, cosa quasi impossibile. Un dolore le attaccò lo stomaco. Non poteva lasciare lì quelle persone, non poteva lasciarle morire assiderate. Non poteva nemmeno assumersi la responsabilità di decidere chi portare al caldo e chi no. Non poteva portarli dentro, sarebbero tutti morti soffocati, e nemmeno se avessero aperto la porta, sarebbe entrato il freddo.

Così Arwen non sapeva cosa fare, allora cominciò a pensare ad Aragorn, se sarebbe riuscito a spegnere il fuoco. Arwen cercava di convincersi che presto sarebbe tutto finito, che dopo poco avrebbe rivisto Aragorn salire le bianche scale, con il viso annerito dalla cenere, e le avrebbe dato il bacio più intenso e appassionato che avesse mai ricevuto.

Allora Arwen si voltò verso la sala del trono, mentre una lacrima scivolava lentamente sul suo viso al pensiero che Aragorn sarebbe potuto morire. Il vento gelido si fermò non appena chiuse il grosso portone di legno. Passeggiò avanti e indietro per la sala, guardando i bimbi addormentarsi, inconsapevoli di quello che stava succedendo. Le madri piangevano, pensando ai mariti, come Arwen non riusciva a tralasciare l’inquietudine per Aragorn. Poi la regina si fermò davanti ad una madre, con in braccio un bimbo di pochi mesi, lo coccolava e lo stringeva a sé, visibilmente impaurita, e guardava Arwen implorante, come se avesse potuto fare qualcosa per lei. La regina provò compassione per quella madre, si chinò per parlarle e le sussurrò: ”Anch’io temo per mio marito, anch’io ho paura per lui, aspettando qui, nella sala del trono, che arrivino annunciandoci che hanno spento il fuoco.”

La donna non riusciva a parlare, piangeva in continuazione, in silenzio.

“Come ti chiami?” chiese la regina dolcemente.

“Armereth” disse deglutendo.

“Vedrai, tuo marito tornerà.”

La donna annuì, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. “Grazie mia Signora…” sussurrò poi.

Arwen camminò verso il trono, si sedette e cadde in un sonno turbato.

Un piccolo esercito, con a capo Faramir, marciava lungo i campi del Pelennor. Essi portavano l’albero bianco sugli scudi, il simbolo di Gondor. L’esercito puntava verso nord. Poi di fronte a loro, stava un altro esercito, di cavalieri, con a capo Eomer. Gli eserciti stavano uno di fronte all’altro. Poi la visuale cambiò del tutto. Elrond era lì, di fronte a lei, e cominciò a parlarle: “Arwen, figlia mia, manda un esercito verso nord, verso Rohan…”

“E perché dovrei, padre?” chiese lei, intimorita da quella visione.

“Perché altrimenti vedrai ciò che non vuoi vedere.” Rispose, chinando il capo e cominciando a dissolversi.

“Padre, cosa significa questo?”

Ma era troppo tardi, Elrond era già scomparso. Fiamme stavano lì e Arwen vide Minas Tirith bruciare. Nella sala del trono stava Aragorn, sdraiato su un altare in pietra, immobile.

Arwen gridò, Aragorn era disteso, morto, con una spada infilzata nel petto. Arwen riconobbe la spada. Il manico era contornato da due teste di cavallo. Era la spada che un tempo apparteneva a Theoden.

Le porte della sala si spalancarono. Arwen si svegliò di soprassalto. Aveva il fiatone.

Erano tornati. Dalle porte aperte vide entrare il chiarore dell’alba.

Prima di tutti entrò Faramir, seguito da molti uomini. Arwen si alzò e li andò incontro.

Molte donne si alzarono e cercarono i mariti in mezzo alla folla. Alcuni erano rimasti fuori.

Arwen, avvicinatasi a Faramir, chiese: “Faramir, dov’è Aragorn?”

“Credo stia arrivando, non lo so di precisione.”

Arwen allora si diresse per uscire. Faramir la prese per un braccio e le disse: “No, Arwen, non uscire.”

Queste brevi parole colpirono la regina al cuore. Faramir non la voleva far uscire.

“Perché?” chiese, mentre avrebbe voluto piangere.

“È meglio che tu non veda.”

Arwen allora riuscì a staccare il braccio dalla mano di Faramir e corse fuori.

Aragorn non c’era. Il leggero calore del mattino illuminava i lineamenti delle persone ancora addormentate. Erano cadute nel sonno durante la notte. Faceva molto freddo.

Arwen si portò una mano sulla bocca come se volesse trattenere un grido.

Quelle persone avevano il viso coperto di ghiaccio. Erano tutti morti.

No. Non poteva essere. Arwen aveva ucciso quelle persone. Era tutta colpa sua. Lei aveva deciso il destino di quelle persone. Aveva ucciso quegli abitanti. E inoltre erano tutti donne e bambini.

Arwen cadde a terra sulle ginocchia. Faramir le stava dietro. Alzatasi, Faramir l’abbracciò.

Lei chiuse gli occhi. Dopo un poco Faramir lasciò la presa. Allora Arwen lo guardò e scappò in camera sua, gettandosi sul letto a baldacchino, abbracciando il cuscino di Aragorn.

Il tempo scorreva veloce, ma la regina non se ne accorgeva. Era già passata l’ora del pranzo quando qualcuno bussò alla porta.

Arwen stette zitta, figurando che non ci fosse nessuno. Aveva chiuso la porta a chiave.

“Arwen sei qui?” chiese una voce da dietro.

L’elfa riconobbe la voce di Faramir.

Voleva stare zitta, ma non ne ebbe la forza.

“Non voglio parlare con nessuno!” urlò.

“Arwen apri questa porta! È tutta la mattina che ti cerchiamo! Da quanto tempo sei chiusa lì dentro?” disse battendo forti pugni sul legno.

“Ho detto che non voglio vedere nessuno!” urlò ancora più forte in preda alle lacrime.

“Aragorn! Vieni qui! L’ho trovata!”

Arwen si sentì come confortata all'improvviso.

Si alzò per aprire la porta e fece girare velocemente la chiave.

Fuori stavano Faramir con dietro Aragorn. Arwen si gettò nelle sue braccia con una tale velocità, che Faramir dovette slanciarsi indietro per non essere urtato.

“Aragorn, amore mio, temevo di averti perduto.”

“Mi sono dovuto fermare, bisognava caricare le persone morte su delle barelle, così ho mostrato dove si trovava il magazzino che le conteneva.”

“Faramir mi aveva fatto capire che eri morto.”

“Non me ne ha dato il tempo” disse Faramir sorridendo.

“Ora è tutto finito. Fuori stanno celebrando il funerale per i defunti.”

“Quanti sono?” chiese Arwen sentendosi responsabile delle morti.

“Trentuno, quelli tra le fiamme, in totale, con quelli congelati sono circa ottantacinque.”

Arwen sentì un crampo allo stomaco.

“Andiamo fuori in loro rispetto…” disse Arwen.

Così s’incamminarono verso il cortile.

Fuori stavano molte bare, già pronte da qualche tempo.

Molte mogli piangevano, mentre altre si abbracciavano dandosi forza l’una con l’altra.

Arwen passeggiava tra le bare, mentre le donne la vedevano inquieta.

Piangeva, come le altre donne, si sentiva colpevole per quelle morti, ogni cassa era una vita che se ne andava.

Poi la vide. Lì, davanti a lei, stava Armereth, la donna che aveva consolato poche ore prima. Teneva ancora il bimbo in braccio mentre con l’altra mano accarezzava la bara del marito.

Arwen si avvicinò alla donna. Era sconvolta e con il viso avvilito versava lacrime.

Allora Arwen si ricordò d’averle assicurato che il marito sarebbe tornato.

“Mi dispiace.” disse, cercando di consolarla.

Armereth singhiozzava in continuazione, senza smettere di accarezzare la bara.

Poi cadde sulle ginocchia, mentre con le mani si copriva il viso.

Arwen allungò le braccia per prendere il bimbo.

Armereth glielo porse e la regina lo prese in braccio. Era addormentato, con un visino dolce, non sapeva di aver perso il padre e non comprendeva cosa volesse dire quella parola.

Arwen così lo strinse a sé, coccolandolo. La regina pensava a quando avrebbe avuto un bimbo con Aragorn. Al solo pensiero ad Arwen tornarono in mente dei momenti orrendi. Non avrebbe potuto.

Armereth stava ancora lì, addosso alla bara, a terra sulle ginocchia.

“Com’è morto?” chiese Arwen alla donna.

“Bruciato… è entrato dentro una casa per salvare un bimbo, ma non ce l’ha fatta.” Disse indicando una bara poco più in là.

Infatti, lì stavano una madre e un padre, con di fronte una piccola cassa, che conteneva quello che rimaneva del bimbo bruciato.

Poco dopo portarono le bare nei campi del Pelennor, per poterle seppellire in un piccolo cimitero che era stato riedificato dopo la guerra.

Era una visione molto triste. Aragorn ed Arwen stavano abbracciati a guardare le persone sepolte, pensando a quanto la vita può finire improvvisamente.


Poche ore dopo Arwen e Aragorn stavano seduti a cena con le persone più importanti di Gondor, assaporando le bontà che la servitù aveva preparato.

Ma come potevano? La regina non aveva ancora assaggiato nulla, mentre pensava ripetutamente ad Armereth, come avrebbe passato quella cena, da sola, con il suo bambino.


Non era passato molto tempo, quando Aragorn ed Arwen stavano sotto le soffici coperte, mentre il gelido vento bussava sulla finestra.

“Aragorn” disse Arwen tastando il materasso con le mani.

“Si?”

“Devo dirti una cosa.”

“Dimmi amore mio”

“Ecco… la notte scorsa mi padre mi è apparso in sogno… dev’essere una cosa urgente, altrimenti mi avrebbe mandato una lettera.”

“Che cosa ha detto?”

“Prima di tutto ho visto un esercito con Faramir e uno con Eomer, posti uno di fronte all’altro, dopo c’era mio padre che mi avvertiva di comunicarti che devi mandare un esercito verso nord, subito.”

“Arwen, magari era solamente un sogno. Perché dovrei mandare un esercito a Rohan?”

“Non lo so. Ma ha anche detto che se tu non lo farai io vedrò quello che non vorrei mai vedere.”

“Ossia?”

“La tua…morte.”

“Perché?”

“Aspetta. Eri morto, con la spada di Theoden infilzata nel petto.”

“Arwen, Theoden è morto.”

“Lo so, ma ora la sua spada ora ce l’ha Eomer.”

“Eomer non mi ucciderebbe mai! Perché dovrebbe?”

“Non lo so. Ho tanta paura, ho paura che possa succedere, di nuovo.”

“No Arwen, la guerra non scoppierà più.”

“Manda l’esercito.”

“Arwen, non è il momento. Non hai visto quanti morti oggi?”

“Lo so. Mandane uno piccolo, con i guerrieri più anziani.”

“Sarebbe uno spreco.”

“Manda anche Faramir.”

“Arwen…”

“Lo fai per me?”

“Per te farei di tutto lo sai”

“Ecco. Il mio desiderio è questo.”

“Arwen io…”

Ma le labbra dell’elfa su quelle di Aragorn bloccarono le sue parole.

Così, dopo poco s’addormentarono, ancora abbracciati.


Bene, ecco qui un nuovo capitolo. Scritto di getto, senza tutta quell’ispirazione che avevo scrivendo il primo. E’ più corto ma mi sembra carino.

Vi prego recensite!!! Secondo voi fa bene Arwen? Deve mandarlo l’esercito o no?

Hehe aspetto recensioni ;)

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Capitolo 3
*** Capitolo 3° ***


Capitolo 3: Malinconie di una regina



La candida luce dell’alba cominciava ad entrare attraverso le alte finestre. La stanza da letto reale era colma di un ottimo profumo, mentre entrambi dormivano. Arwen arricciò il naso, mentre cominciava a svegliarsi. Mantenendo costantemente gli occhi chiusi passò una mano sul viso di Aragorn, accarezzandolo con dolcezza. Poi tirò le coperte verso di lei e ridacchiò al lamento nel sonno di Aragorn. Voleva ancora assorbire quel tepore che ancora per poco poteva avere.
Si stiracchiò come un gatto, con i pugni serrati, e sbadigliando silenziosamente, mentre sfiorava una delle colonne del letto a baldacchino. Le lievi tende che contornavano il letto oscillarono a una piccola folata di vento. Nella camera giaceva un profumo di frutta. Fu allora che Arwen aprì gli occhi. Davanti al letto stava un piccolo tavolino di legno scuro, e sopra di questo una ciotola piena di pesche e albicocche. La regina si alzò lentamente dal letto, lasciando ondulare il bianco vestito.

Poi si chinò, prendendo in mano una piccola albicocca, e lasciandosi tentare dalla fame. Poi un brivido la scosse, e lasciò ricadere l’albicocca nella scodella. Si voltò velocemente, aprendo l’armadio ed estraendo una coperta estiva, che stava accuratamente piegata in basso. Se la sistemò sulle spalle e si guardò allo specchio: era così buffa!

Lasciò scivolare la coperta a terra e si avvicinò per dare un bacio ad Aragorn, che sorrideva nel sonno. Poi uscì velocemente lungo la sala del trono, fiancheggiata dalle statue dei vecchi re. Ai fianchi dell’enorme portone stavano, immobili, due guardie della cittadella. Arwen fece segno loro di aprire il portone: immediatamente si voltarono ed attrassero i due pezzi di portale verso l’interno della stanza. Un fascio di luce colpì la regina, allargandosi sempre più, fino ad illuminare l’intera stanza. Un enorme polverone si agitò quando le porte sbatterono in fondo ai cardini. Arwen avanzò impassibile in mezzo a quella nube di polvere, mentre il sole sorgente la illuminava lievemente, e le montagne spezzavano il suo fondo, in tanti piccoli pezzi. Così avanzò verso l’albero bianco, salutandolo in elfico, e chinando il capo, alla sua maestosità.

E una lacrima scivolò sul suo viso, mentre pensava a Granburrone, e a tutti i suoi boschi, che le mancavano, in quella pianura sterminata e morta. Per la prima volta provò odio nei confronti di quella città. Passò una mano sulla ruvida corteccia dell’albero bianco, piangendo.

Una guardia della cittadella si avvicinò con passo fugace alla regina, ma quella aveva il volto rigato dalle lacrime e corse verso la punta della fortezza, coprendosi il viso con le mani. Arrivata in cima alla punta rocciosa, si fermò sostenendosi con le mani appoggiate al bianco muro in pietra. Da lì poteva osservare tutto: i campi del Pelennor, con tutte le sue strade, anguste e diritte, che dividevano ordinatamente il campo, con la sua erba ingiallita, che cresceva sino a ricoprire le ossa degli ulifanti e delle altre creature decedute in quel luogo. Quei campi erano stati macchia dell’esercito di Mordor, proveniente da Est. Ed era lì che stava guardando Arwen: il sole nascente si era eretto sopra le alte montagne di Mordor, dalle quali proveniva una leggera brezza fredda che sfiorava il viso della regina e faceva agitare il suo vestito.

E a tutti quei tormenti si aggiungeva il sogno della notte precedente, dove suo padre l’aveva avvertita, era necessario mandare l’esercito a Rohan. E doveva farlo. Ma per quale motivo? Non lo sapeva.

“Padre…” sussurrò al vento, ed egli rispose con una folata gelida sul viso.

Arwen non aveva più notizie di nessuno, lei non avrebbe dovuto stare in quel luogo, in quella città, aveva bisogno di tornare nei suoi boschi, nella natura, a Granburrone, insieme a suo padre. Ma lei amava Aragorn, lo desiderava con tutto il cuore e avrebbe sopportato anche ciò per poter stare insieme a lui.

“Dama Arwen…” una voce dietro di lei interruppe i suoi pensieri.

“Che cosa volete?” chiese la regina, non riconoscendo la voce, e senza voltarsi.

“Vi volevo consigliare di rientrare, siete vestita leggera e dovreste prendere qualcosa di caldo.”

“A voi non deve importare come sono vestita, e non voglio nessuna colazione.” Disse, voltandosi di scatto e mantenendo la calma.

Davanti a lei stava un soldato armato, portando una lancia nella mano destra, e uno scudo nero col simbolo di Minas Tirith nell’altra.

“Perdonate la mia indiscrezione sua maestà…” disse, chinando il capo e voltandosi verso il portone.

Egli fece segno alle guardie di entrare nella sala del trono per poter lasciare la regina sola.

Così Arwen poté tornare ai suoi pensieri, senza essere nuovamente turbata da quegli uomini così diversi da lei.

Ad un certo punto, nell’aria si udì il suono di un corno. Lei non conosceva i suoni diversi e non avrebbe saputo dire a quale popolo appartenesse.

Il corno suonò di nuovo. Arwen si concentrò sul suono: era un tono rimbombante e rauco.

Esso suonò una terza volta.

L’elfa aguzzò la vista per poter vedere chi fosse a suonare il corno.

E, voltatasi verso sinistra, vide un cavaliere in cima alla collina. Ormai il sole era alto ed ella vedeva solamente l’ombra dell’uomo a cavallo.

“Rohan..” sospirò.

La regina si voltò di scatto e cominciò a correre, mentre l’aria le appuntiva il viso e il vestito svolazzava dietro di lei.

Scese le scale della cittadella saltando dei gradini, e reggendosi il lungo vestito per non incespicare.

Una volta scese le scale percorse un lungo corridoio delimitato da un muretto reggente delle colonne. Esse formavano delle ombre regolari, come se volessero fermare Arwen.

“Faramir!!” urlò la regina giunta in un cortile in pietra.

Si guardò un attimo intorno ma non vide nessuno.

“Faramir!!” gridò per una seconda volta.

Riprese a correre in una via stretta, dove non sarebbe riuscito a passare un cavallo.

Giunse ad una casa con dei gradini sul fianco, contornati da un muro reggente. Li salì in fretta, battendo forte su una porta in legno.

“Aprite!!” urlò mentre batteva forte i pugni.

Dopo poco tempo una giovane donna aprì la porta con viso sconvolto.

“Sia lodato il cielo!” disse Arwen “dove posso trovare il capitano Faramir?”

“Mia signora, qualche casa più avanti, sull’angolo, c’è un balconcino sopra la porta.”

“Grazie signora, non saprò mai come ringraziarla.”

E riprese a correre giù per le scale con passi fugaci.

Una volta svoltato l’angolo vide una porta in legno e sopra di questa stava un balconcino ornato di fiori dai colori vivaci. Essi emanavano un profumo fragrante. Arwen batté sul legno rugoso e irregolare della porta, sperando vivamente che aprisse qualcuno.

“Chi è?” chiese una voce maschile dietro alla porta.

“Vi prego devo parlare con Faramir!” esclamò Arwen, mentre un uomo apriva la porta con calma.

“Il signor Faramir sta dormendo e francamente, non vuol essere disturbato.” Disse con chiarezza l’uomo dal viso pallido e ossuto, con il volto serio.

Arwen sbuffò e fece per entrare, quando l’uomo la fermò, mettendosi davanti alla porta.

“Ho detto che non vuole essere disturbato.” Disse, con espressione corrucciata.

Arwen non esitò, la rabbia che stava dentro di lei la indusse a mettere tutta la forza che aveva nel braccio e tirò un pugno dritto in faccia all’uomo. Questo fece qualche passo indietro tastandosi il viso con le mani, mentre dal naso aquilino scendeva rapidamente del sangue.

Arwen entrò nell’ingresso, ammobiliato con credenze costose e quadri del padre di Faramir, Denethor. L’uomo si voltò e sparì dietro ad una porta sulla destra.

Sul muro centrale stava una vecchia porta appuntita. Arwen si avvicinò, impugnando la maniglia arrugginita. Aprendola lentamente sbirciò all’interno e vide delle scale a chiocciola.

Le salì rapidamente e giunse in quella che doveva essere una soffitta, l’odore acre e stagnante regnava in mezzo ad una catasta di mobili e oggetti curiosi. Sul lato est stava una finestra, fuoriuscente dal tetto. E il sole lasciava entrare una candida luce che rinvigoriva quel luogo.

In un angolo della stanza stava l’armatura di Faramir, tralasciata in quell’angolo, quasi dimenticata.

Arwen si avvicinò a quell’armatura, chinandosi e soffiando via la polvere, mentre si sistemava i capelli mori dietro alle orecchie a punta. Una piccola nebbiolina polverosa si agitò nell’aria.

“Arwen…” sussurrò una voce dietro di lei.

L’elfa si girò di scatto, spaventata, da quella voce che irrompeva il silenzio. Chi era a conoscere il suo nome?

“Faramir!” esclamò Arwen alzandosi e camminandogli incontro. “Grazie al cielo! Qualcuno ha suonato un corno! Ha suonato tre volte!”

Il capitano di Gondor la zittì con un segno della mano.

“Tornatene da dove sei venuta. Nessuno ti ha autorizzato a rovistare tra le mie cose.”

“Ma Faramir! C’era un cavallo! Di Rohan… o almeno credo… e comunque ha suonato il corno per tre volte di seguito! Tu sai che cosa significa!”

“Guerra…” rispose Faramir distratto.

“Faramir vieni!” l’incitò Arwen prendendolo per un braccio e provando a trascinarlo giù per le scale.

“Arwen…” disse lui guardandola con tono severo.

“Cosa c’è? Non mi credi?”

“Hai detto una cosa assurda! Chi mai potrebbe dichiararci guerra in questo momento?”

“I cavalieri di Rohan! Eomer! Mio padre me ne ha parlato in un sogno!”

“Arwen… i sogni sono cose immaginarie, non combaciano con la realtà…”

“Faramir… vieni a vedere!”

“D’accordo…” disse sbuffando.

Purtroppo al loro ritorno sulla cittadella non v’era nulla di ciò che Arwen aveva raccontato.

Faramir domandò a qualche guardia della cittadella se avesse udito o veduto qualcosa.

Ma nessuno aveva visto ciò che Arwen affermava.

Quella sera a cena nella sala del trono parteciparono Aragorn, Arwen, Faramir e alcuni uomini dell’alta società. Le portate erano molto sostanziose e Arwen ne fu felice, ricordando quanto poco avesse mangiato la sera precedente. E questo rese i piatti ancor più gustosi.

Dopo la cena gli uomini rimasero a discutere su un fatto che Arwen non capì molto, ma comprese che non era niente male osservando il viso sorridente di suo marito.

Ad un certo punto Arwen si alzò salutando tutti e finse di andare nella propria stanza. Camminando per il corridoio semibuio cercò con lo sguardo una finestra abbastanza spessa e ne trovò una dalla quale uscì. Camminando su un tetto in pietra con un po’ di difficoltà riuscì a raggiungere il cortile dell’albero bianco. Scavalcato il muretto, si avvicinò al tronco e si sedette sull’erba curata a meditare.

Faceva molto freddo e il vento gelido la feriva.

Dopo poco tempo, il portone si aprì di scatto e si richiuse con altrettanta velocità.

“Arwen? Cosa fai qui?” chiese la voce di Faramir alle sue spalle.

“Penso.”

“Rientra Arwen che fa freddo.”

“Si… va bene…” disse sbuffando e, salutando Faramir, entrò nella sala.

Per fortuna Aragorn non fece molte domande sul perché fosse uscita, vedendola malinconica.

Quando tutti uscirono, Aragorn accompagnò sua moglie in camera, dove aveva fatto mettere molte candele luminose ed emananti quel gradevole odore di cera.

Arwen si voltò verso Aragorn sorridendo, e dal modo in cui suo marito chiuse la porta, capì che quella sarebbe stata una notte indimenticabile.

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