Valentina,
a passo rapido, percorse via Mazzini e si avviò verso il
cimitero.
Si
fermò davanti alla bancarella di un fioraio, situata nel
piazzale d’ingresso, comprò un mazzo di gigli rossi e
riprese il suo cammino.
Oltrepassò
il cancello, percorse circa cento metri, poi si avviò nel
settore lapideo di destra del cimitero.
Qualche
minuto dopo, si fermò davanti ad una lapide bianca, di forma
rettangolare.
Al
centro di essa, era posata la foto di un giovane uomo dai lineamenti
regolari e dalla pelle olivastra, su cui spiccavano gli occhi neri,
dal taglio allungato e sottile.
I
lunghi e lisci capelli neri erano raccolti in una coda, mentre al
collo portava una collana d’oro, terminante in un capricorno
stilizzato, incrostato di brillanti.
Valentina
posò i gigli a poca distanza dalla pietra, poi si inginocchiò
e, per alcuni istanti, sussurrò una debole preghiera.
Fissò
la fotografia, poi il suo sguardo si posò sulla scritta sotto
di essa.
Gabriel
Rodriguez Santos
Città
del Messico 8 gennaio 1982 – Roma 24 giugno 2012
“La
tua forza è una cometa e illuminerà sempre le nostre
vite.”
Un
singhiozzo salì sulle labbra di lei. Il tempo non le aveva
fatto dimenticare quel giovane di origini messicane, desideroso di
diventare un affermato regista.
Si
era innamorata di lui per il suo carattere indomito e per la sua
indole vivace, amante dei divertimenti.
Il
dito indice destro, leggero, si posò sulla foto. In quel
momento, immaginava di accarezzare la pelle olivastra di Gabriel.
Con
lui, lei aveva sognato di avere una famiglia e dei figli.
Il
loro legame, nato ai tempi del liceo, aveva resistito agli anni e si
era rivelato assai tenace.
Spesso,
si scontravano su politica e letture, ma tale diversità non
ostacolava il loro legame.
Lui
le era sempre stato accanto e non aveva mai mancato di sostenere le
sue scelte.
Sospirò
e, con un gesto lento, si terse le lacrime, che rigavano le sue
guance. Gabriel, pur con i suoi difetti, era dotato d’un animo
nobile.
La
sua facciata, chiassosa ed esuberante, celava un cuore generoso.
Gabriel
adorava i bambini e non esitava a distribuire regali ai più
sfortunati, tramite la Caritas.
Ricordava
la sua condizione sfortunata, nelle strade di città del
Messico e, per quanto possibile, tentava di dare felicità ai
bambini non benedetti dalla sorte.
Tentava
sempre di nascondere questa sua gentilezza, quasi fosse un difetto,
ma lei e i suoi amici ne erano a conoscenza.
Quando
si parlava della sua generosità, Gabriel, di solito sicuro e
intraprendente, arrossiva d’imbarazzo e brontolava frasi
sconnesse.
Odiava
l’ostentazione del bene e, per questo, cercava di nasconderla.
–
Ci
sei stato troppo presto, amore mio. – sussurrò, il tono
amaro e triste. Solo i ricordi le rimanevano di Gabriel.
Poteva
custodirli nel suo cuore, come preziose gemme in un cofano.
Represse
l’amarezza e continuò a salmodiare una preghiera.
Si
alzò, volse le spalle alla tomba e si allontanò.
Un
debole fruscio, ad un tratto, giunse alle sue orecchie.
Valentina
si bloccò, turbata, e un brivido percorse la sua schiena. Non
sapeva perché, ma i suoi sensi la avvertivano di un pericolo.
Scosse
la testa e riprese a camminare, la testa china sul petto.
Ad
un tratto, una violenta onda d’urto la investì. La
sbalzò all’indietro.
Valentina
batté la spalla destra contro un pino. Il dolore si irradiò
nel suo corpo e la giovane svenne.
–
Signorina,
si sente bene? – domandò una voce maschile, palpitante
di preoccupazione.
La
nebbia dell’incoscienza venne perforata e, a fatica, Valentina
sollevò le palpebre.
Su
di lei, era china una figura umana indistinta, come un miraggio.
Sbatté
con più forza le palpebre e, davanti ai suoi occhi, comparve
un giovane uomo, di statura alta e di corporatura
snella, seppur muscolosa.
Una
folta capigliatura nera, malamente stretta da un laccio blu, scendeva
sulle spalle e sul suo petto e il suo volto, dai lineamenti regolari,
seppur decisi, era illuminato dagli occhi verdi, simili a smeraldi,
ombreggiati da lunghe ciglia nere.
I
suoi abiti erano coperti da un lungo cappotto nero e al collo pendeva
un ciondolo d’argento, terminante in una stella del medesimo
materiale, inscritta in un cerchio.
Valentina,
per alcuni istanti, rimase immobile, stordita e dolorante.
Poi,
cauta, si rimise in piedi, ma una fitta di sofferenza distorse il suo
volto.
–
Che
cosa si sente? – chiese ancora il giovane, il tono pacato, seppur
percorso da una breve nota di preoccupazione.
–
La
spalla… Non riesco a muoverla. Mi fa male. – si lamentò
lei.
Si
passò una mano sulla fronte, umida di sudore, e inspirò
grandi quantità d’aria.
–
Sta
tranquilla. Ci penso io. – la rassicurò lui.
Prese
il cellulare e chiamò la polizia.
Qualche
minuto dopo, due auto dei Carabinieri e un’ambulanza giunsero
davanti al cimitero.
Da
una macchina, scese un uomo alto e magro, che indossava un lungo
cappotto color cuoio.
Lunghi
e sottili capelli neri scendevano sul collo, lasciando scoperta
l’ampia fronte, segnata da rughe, e sul viso scavato spiccavano
i penetranti occhi castani.
Alla
sua spalla destra, era appesa un’ampia e capiente borsa, che,
di tanto in tanto, scivolava verso terra.
–
Buongiorno,
ispettore. – lo salutò il giovane, calmo.
–
Ciao,
Alexander. Che cosa succede qui? – domandò l’uomo.
–
Questa
ragazza è stata aggredita da dei criminali. Io ho cercato di
fermarli, con scarsi risultati. – si scusò l’altro.
Lo
sguardo del pubblico ufficiale si posò su Valentina, che,
silenziosa, attendeva.
Notato
il gonfiore della spalla destra, l’ispettore aggrottò la
fronte.
Poi,
aprì la borsa, vi rovistò un poco e prese un quaderno
di appunti e una penna.
–
Signorina,
sono l’ispettore Enrico d’Alessandro. Se la sente di
parlare, prima di andare in ospedale? Ci metteremo solo pochi minuti.
– domandò, gentile.
–
Sì.
Sono a sua disposizione. – rispose lei, decisa.
–
Molto
bene. Mi dia le sue generalità. E poi mi dica se ha notato
qualcosa di strano. – affermò Enrico.
Valentina
prese un lungo sospiro, poi si passò la mano sana sui capelli.
–
Mi
chiamo Valentina Castellani, ho ventitré anni e sono venuta
qui a portare dei fiori sulla tomba del mio fidanzato. Credo di
esserci rimasta per trenta minuti, ma non posso esserne certa, perché
non ho orologio. – cominciò.
–
E
dopo cosa è successo? – chiese Enrico.
–
Vede,
ho sentito un fruscio dietro di me. Sembrava che qualcuno mi stesse
seguendo, cercando di non fare rumore. Però ho creduto che
fosse una mia fantasia, dovuto all’atmosfera del luogo. Poi c’è
stata una violenta onda d’urto e mi ha sbalzata contro un
albero. Sono svenuta, mi dispiace di non potere dire di più. –
si scusò.
Enrico,
che aveva annotato tutto, sollevò la testa dal quaderno.
–
Stai
tranquilla. Ora, va in ospedale e fatti controllare il braccio.
Tuttavia, rimani a disposizione e se ti viene in mente qualche altro particolare non esitare a chiamarmi. – le disse.
Mise
la mano nella tasca della giacca e le consegnò un biglietto da
visita.
–
Qui
c’è il mio numero di telefono. Non perderlo. –
disse lui.
Qualche
istante dopo, due barellieri si avvicinarono a lei, la aiutarono a
sedersi sulla barella e si diressero verso l’ambulanza, che era
in attesa.
Pochi
minuti dopo, si allontanò dal cimitero.
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