Alberi sulle montagne, rami sugli alberi

di Mikirise
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alberi sulle montagne ***
Capitolo 2: *** rami sugli alberi ***



Capitolo 1
*** Alberi sulle montagne ***


alberi sulle montagne, rami sugli alberi

 
What night is tonight,
we are rowing on the river.
What day is today,
I get to share a boat with a prince.
The prince's kindness makes me shy,
take no notice of the people's mocking cries.
Ignorant, but not uncared for
I make acquaintance with a prince.
There are trees in the mountains and there are branches on the trees,
I adore you, oh! You do not know.
(Yuèrén Gē, Shànshuō)
 

1. Alberi sulle montagne

Dazai-san gira il lecca-lecca tra le labbra, e sembra star pensando a una risposta seria alla domanda di Ryunosuke. Dondola i piedi sul genkan. Si è rotto il braccio, cadendo da sopra un balconcino del primo piano. È caduto sul tettuccio di una macchina, che ha ricevuto, come souvenir dell’esperienza, la forma perfetta di un corpo umano e una visita alla concessionaria. A Dazai-san non importa. Dicono che si sia buttato dal balconcino di proposito, ma la motivazione cambia di volta in volta. Voleva scappare da un certo Kunikida. Voleva sentire il brivido del parkour. Era uno dei suoi tanti attentati al suicidio. La morte non è reale, se riesce a sfuggirgli così tante volte, ha sentito dire una volta Ryunosuke. Lo ha sentito dire da Dazai-san stesso. Non sarebbe un problema, se fossero solo parole, quelle che dice, ma lui continua ad agire, come un bambino, pronto a dimostrare che la morte, non avendola mai vissuta non esiste. Non ha nessun rispetto per se stesso o per il suo corpo. A Ryunosuke questo non interessa. Per questo è uno dei pochi che può ancora entrare in casa di Dazai-san.

Dazai-san muove le dita delle mani, per chiedere il bicchiere d’acqua che Ryunosuke tiene tra le dita. Continua a non dire una parola, e Ryunosuke spera davvero che sia perché sta pensando alla sua domanda. Gli porge il bicchiere di acqua e lo vede giocare con il lecca-lecca, girandolo sulle labbra come se fosse un bambino.

Non è una domanda strana, quella che gli ha fatto. È, invece, una domanda logica.

Ryunosuke ha diciotto anni, ha lasciato la scuola appena è stato possibile, ha la licenza media, è vero, ma è anche vero che ha vissuto in questa città per molto tempo. Mentre i ragazzini della sua età studiavano, lui doveva trovare un posto in cui dormire, sapere come guadagnarsi il pane. Forse non è stato sempre innocente e ha rubato e truffato per poter continuare a vivere, ma appunto, lo ha fatto per sopravvivere. Sa dove trovare le telecamere, come evaderle, come sembrare innocente, come essere il più forte. In più, proprio perché è bravo a scappare e a nascondersi, conosce le strade della sua città come se fossero le sue tasche. Da bambino sapeva dove nascondersi, in quali giardini si poteva infilare senza pericolo, sapeva già come girava il mondo. E col tempo le sue capacità di sopravvivenza sono migliorate. Per questo gli è sembrato strano che Dazai-san, per un lavoro pratico, sulla città, sul fare giri per la spesa ma anche controllare quello che succede per le strade non abbia scelto lui, ma una feccia pescata dall’orfanotrofio.

Ryunosuke ruota gli occhi al pensiero. Rimane seduto composto sul pavimento riscaldato. Dazai-san tiene le finestre aperte per la maggior parte dell’anno, anche adesso, che è inverno e che fuori gela. Ha pescato una feccia dall’orfanotrofio e lo ha messo per le strade di Yokohama, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Beh. Non lo è.

Ryunosuke in un orfanotrofio non ci è mai stato. Per il governo lui è morto a dodici anni. Non paga le tasse, non ha una residenza ufficiale, se mai si ammalasse di sicuro non saprebbero dire nemmeno che tipo di sangue ha nelle vene (A)(nel caso dovesse servire, Ryunosuke ricorda perfettamente che il suo tipo di sangue è A). Scappava dai poliziotti che volevano portare lui e Gin da qualche parte e poi -e poi? Cosa? Dividerli? Dire loro che non sono veri fratelli? Trovare modi per non farli incontrare mai più? Gli orfanotrofi sembrano il pezzo di mondo più disgustoso che Ryunosuke abbia mai visto. E lui di posti disgustosi ne ha visti. Ed è da un posto del genere che viene Nakajima Atsushi. Protetto dalle mura di una chiesa, con il cibo pronto in tavola, ancora non si è diplomato. Sedici anni di una vita tranquilla e placida. Ryunosuke non lo ha mai incontrato, ma sente davvero di odiarlo anche soltanto per questo.

Ha solo chiesto perché lui. Dazai-san arriccia le labbra, muovendo il lecca-lecca avanti e indietro. Perché lui. E ancora nessuna risposta.

“Tu hai mai incontrato una persona tanto amata, Akutagawa-kun?” gli chiede Dazai-san, a sua volta. È stato Dazai-san a trovare Nakajima Atsushi. Sembra che lui fosse stato trascinato da qualcuno in città, per visitare un’università, o qualcosa del genere. Un lavoro. Ryunosuke davvero non sa i dettagli. E nella sua ricerca, un’esplorazione che ha poco a che fare con l’accademia, ha incontrato Dazai-san, rinchiuso in un bidone della spazzatura che gridava contro dei tanuki ribelli. È stato poco prima del tuffo dal balconcino che gli ha rotto il braccio. Sembra infatti che dal cassonetto della spazzatura a un volo di venti metri il passo sia corto. Nakajima Atsushi lo ha seguito nel salto, chissà perché, e ne è uscito incolume, atterrando sulle gambe come se fosse stata roba da poco. Quando ha visto Dazai-san col braccio rotto, lo ha portato in ospedale. Almeno questo racconta Dazai-san. Sembra che il giorno dopo, Nakajima Atsushi si sia presentato con un paio di graffi sul viso e un misterioso livido sulla schiena. “O almeno, qualcuno che sia facile da amare.” Dazai-san punta il lecca-lecca contro di lui.

Ryunosuke inclina un po’ la testa. “No” risponde, dopo averci pensato su. Non è nemmeno qualcosa a cui pensa, quando incontra una persona. Non è così che le classifica.

“Atsushi-kun ha avuto il posto perché è un ragazzino facile da amare” risponde alla fine Dazai-san, guardando verso il giardino. Tira su una gamba, per infilare il piede sotto la coscia. “Al contrario tuo” aggiunge poi, appoggiandosi alla finestra.

“Cosa mi renderebbe facile da amare?” chiede Ryunosuke, con le sopracciglia aggrottate. Non capisce come questa caratteristica di una feccia dell’orfanotrofio possa rendere lui una seconda scelta. Si morde l’interno delle guance. Gli fa male il petto e non sa se è una risposta emotiva, questa, oppure un attacco di asma (non dovrebbe vivere in un posto con così tanto fumo). E cosa vuol dire, poi, essere facili da amare? Non ha senso. Nessuno lo è. C’è sempre qualcosa che non va, nelle persone.

“Niente.” Dazai-san si gira verso Ryunosuke con un sorriso. “Tu non puoi fare proprio niente, per essere facile da amare. Per questo non ti ho proposto.”

Ryunosuke abbassa lo sguardo, mantiene le sopracciglia aggrottate. Immagina sia facile essere amato, quando intorno a te non c’è stato altro se non amore. E comunque queste cose non gli interessano. “Se non volevi prendermi sul serio” mormora, stringendo i pugni “Allora potevi anche non rispondermi.”

Dazai-san continua a sorridere. Ryunosuke davvero non capisce che cosa trova di tanto divertente in tutto questo.





[How can others understand what I feel? They cannot -unless they have experienced the very same thing]

“Presidente” chiama a bassa voce Atsushi, con lo sguardo puntato verso le sue stesse cosce.

Sente di star sudando freddo. Sente proprio un pozza di sudore formarsi sotto le ascelle, mentre dietro le ginocchia diventa scivoloso e ha una voglia matta di togliersi i guanti. È a malapena marzo, fuori fanno meno di otto gradi centigradi (ha controllato, prima di venire fino a qui) e le finestre dell’ufficio del presidente sono ben chiuse. Nonostante si trovino nel suo ufficio (niente di più lontano da una casa tradizionale giapponese), Fukuzawa-san, il presidente, il grande capo, lo ha fatto sedere composto sul pavimento, con le ginocchia puntate verso il basso e i talloni rivolti verso l’alto. Atsushi alza uno sguardo verso Fukuzawa-san, poi lo abbassa di nuovo, stringendo i pugni.

Non ricorda di aver fatto qualcosa di male. Non ha rotto la stampante, è stato Ranpo-san, puntandoci sopra i piedi mentre mangiava le sue merendine. Atsushi si trovava solo lì. In più, quella faccenda è stata sistemata da Kunikida-san, che, mentre Ranpo-san dava la colpa ad Atsushi che doveva fotocopiare troppi documenti, ha sospirato e fatto un gesto stanco con la mano. Atsushi ha sentito le orecchie iniziargli a bollire, mentre sentiva di venire accusato per qualcosa che non aveva fatto (all’orfanotrofio, poteva voler dire perdere un pasto intero) e Kunikida-san gli aveva passato una mano sulla spalla, borbottando che Ranpo-san non lo stava dicendo sul serio e che nessuno comunque gli avrebbe creduto. Forse Ranpo-san è venuto a lamentarsi con Fukuzawa-san? Forse la faccenda non era stata liquidata via come se niente fosse?

Atsushi tira giù il mento, cercando di nascondersi dietro le spalle. Sta per compiere diciannove anni. Il tempo di ritirare il diploma e sistemare le valigie, giusto quello ha, prima di ritrovarsi per strada. Ha passato gli ultimi sei mesi a cercare un appartamento in città, con l’aiuto di Tanizaki-kun e Naomi-san, per non finire sotto i ponti quando l’orfanotrofio finirà le scartoffie per mandarlo via. Il patto che hanno con lo stato è di prendersi cura degli orfani per il tempo che serve loro a diplomarsi, da lì in poi se la devono vedere loro. Quando Tanizaki-kun gli ha chiesto se si sentisse un po’ nostalgico o se lo facesse sentire male lasciare così in fretta quella che doveva essere casa sua, Atsushi non ha mentito. Andarsene dall’orfanotrofio è una benedizione. Ma le cose cambiano, se perde il lavoro per colpa di una stampante che non ha rotto.

Si sfrega le mani contro i pantaloni. Senza lo stipendio dell’agenzia, anche se è modesto (tarato per uno studente liceale, aveva detto Dazai-san, appoggiato da Kunikida-san), Atsushi si ritroverà senza cibo, casa, amici e finirà per morire sulle rive del canale che porta al mare. Gli viene da piangere, a pensarci. Anche i vestiti che indossa, gli sono stati dati da Yosano-sensei e Kunikida-san. Dovrebbe ridarli indietro? Sono gli unici abiti eleganti che ha, oltre alla divisa scolastica, che comunque deve lasciare in orfanotrofio. Quindi si ritroverebbe quasi nudo, perché tre magliette e un pantalone non contano, senza soldi cibo o una casa. Finirà per rubare e lo porteranno in prigione, in cui verrà maltrattato per il resto della sua vita. Perché tornerà a rubare per non morire di fame e Atsushi non crede di essere così furbo da non farsi beccare e...

“Mi dispiace” mormora, guardando verso il basso. Il presidente non è una cattiva persona, potrebbe anche tenerlo in agenzia, ma detrargli dallo stipendio i soldi che gli servono. Solo che lo stipendio è troppo basso, Atsushi si ritroverebbe a non poter mangiare. Morirebbe di fame, piangendo vicino a...

“Atsushi-kun” lo chiama Fukuzawa-san. Ha un tono severo. Lui ha sempre un tono severo. Ogni volta che parla, ad Atsushi sembra che debba dare un ordine, oppure che voglia rimproverare. Viene chiamato dai dipendenti dell’agenzia ogni volta che succede qualcosa di grave, oppure ogni volta che devono prendere una decisione importante, che, viste le personalità che gravitano intorno a questo ufficio, possono essere sia questioni di vita o di morte, cosa fare con un caso, chi deve rimanere vicino a un ferito mentre Yosano-sensei lo cura, ma anche dove dovrebbero andare a mangiare la sera, chi dovrebbe pagare. Fukuawa-san prende tutte queste decisioni come se fossero ugualmente gravi. È un brav’uomo. Atsushi si sta iniziando a chiedere se davvero ha rotto lui la stampante. Se venisse cacciato, se lo meriterebbe. Portare questi problemi a... “È arrivata questa, per te.”

Atsushi sbatte le palpebre e alza lo sguardo verso Fukuzawa-san, che a sua volta fa un cenno con la testa per indicargli la lettera. La fa scivolare sul pavimento, accompagnandola con la mano nello spazio di Atsushi. Quindi non è stato chiamato qui per la stampante. Ah. Okay. Allora. Allora forse non finirà a vagabondare per la città. Okay. Cioè, no, sì, gli viene da piangere, ma okay. Allunga il braccio per prendere la lettera e la gira tra le mani. È così sollevato che non fa troppo caso al mittente. Non è nemmeno strano che a sua posta arrivi in agenzia, visto che di solito le lettere che arrivano in orfanotrofio vengono rubate e mai portate al destinatario. Fukuzawa-san gli aveva detto di farsi recapitare in ufficio qualsiasi cosa ordinasse, dai quaderni per studiare alle cose più stupide, come peluche o macchinette per le corse (ha anche aggiunto che non era molto sicuro di cosa facessero i giovani di oggi per divertimento, mentre Yosano-sensei rideva di tutta la conversazione che avevano avuto Atsushi e Fukuzawa-san). Atsushi non si è mai fatto recapitare niente in ufficio. I soldi li ha davvero spesi solo per scuola e trasporto (l’orfanotrofio è lontano) e per, un giorno, poter dare la caparra e un anno di affitto in anticipo per un appartamento che sarà solo suo.

Atsushi apre la lettera e la gira tra le mani. Un sigillo ufficiale. Una firma importante. Un è stato ammesso. Davvero tante parole e poi università.

Atsushi apre la bocca, alza le sopracciglia, sorpreso. Deve -pensa di dover rileggere questa lettera. Quindi. L’università ammette Nakajima Atsushi nella facoltà di Educazione e Scienze Umane, e al corso di Letteratura Giapponese, con ammissione anticipata rispetto ai suoi coetanei e poi tante altre parole. Atsushi sbatte le palpebre. Aspetta. No. Forse dovrebbe leggere di nuovo. L’università Nazionale di Yokohama ammette lo studente numero di matricola 35378, Nakajima Atsushi, al corso di…

“Qual è il verdetto?” chiede Fukuzawa-san. La sua immagine stoica barcolla un po’. Sembra impaziente.

Atsushi non ricorda nemmeno quando ha compilato la richiesta di iscrizione. O meglio, ricorda di aver compilato la richiesta di iscrizione, insieme a Kunikida-san e Yosano-sensei che lagnavano, perché fare Scienze Umane è come non laurearsi affatto. E ricorda come erano seduti uno a destra e l’altro a sinistra e sospiravano ogni volta che Atsushi scriveva qualcosa negli spazi bianchi. Yosano-sensei lo ha aiutato a compilare il curriculum scolastico, scegliendo le attività extra-curriculari da inserire, quali documenti allegare per mostrare la veridicità delle sue parole e Kunikida-san ha controllato che la burocrazia fosse in ordine, facendogli compilare il foglio coi dati personali una decina di volte. Atsushi ricorda come Fukuzawa-san sia comparso da dietro la porta e gli abbia ricordato di inserire l’indirizzo dell’agenzia come indirizzo di casa. E Tanizaki-kun, che sospirava ogni volta che gli chiedevano perché lui non avesse deciso di continuare gli studi. Ricorda, quindi, quando lo ha compilato. Non ricorda il momento in cui ha mandato la richiesta. Aveva dimenticato di star aspettando una risposta.

“Sono...” inizia a dire. Deglutisce. “Sono stato ammesso.”

“È stato ammesso!” grida Kenji-kun dietro la porta dell’ufficio.

Fukuzawa-san annuisce. “Congratulazioni.” E continua ad avere un tono severo, ma ha un sorriso dolce. “Ora puoi goderti i tuoi ultimi giorni da liceale.” Ah, stiamo fingendo che questa conversazione non viene spiata da sette persone fuori da quest’ufficio? Okay, va bene.

Atsushi si lascia sfuggire un sospiro. Essere stato ammesso non vuol dire comunque che potrà frequentare un’università. Tra le tasse, i libri, i trasporti pubblici, frequentare verrebbe a costargli quasi quanto guadagna in agenzia, se non di più. Certo che c’era un motivo se aveva dimenticato di star aspettando una risposta ed era che qualsiasi fosse stata, il risultato sarebbe stato lo stesso. Ma gli piace quanto tutti abbiano preso a cuore questa faccenda.

“Visto il tuo cambiamento di status” continua Fukuzawa-san. “Devo chiedertelo. A te, piacciono i gatti?”

La porta dell’ufficio si spalanca con Kenji-kun che tiene in mano uno striscione con sopra scritto un c’è sempre l’anno prossimo!, seguito da Tanizaki-kun e Naomi-san, che tengono le braccia ben alzate, a festeggiare.

“Avete sbagliato il lato dello striscione” fa notare Fukuzawa-san, indicandoli.

Tanizaki-kun inclina la testa per leggere lo striscione e si piazza davanti a Kenji-kun, per non far leggere ad Atsushi la scritta. Dietro di lui, Naomi-san e Kenji-kun si muovono divertiti da una parte all’altra per cambiare il lato visibile dello striscione. Dalle loro risate, Atsushi sa che questo piccolo incidente non è stato proprio un incidente. È una cosa così da loro da farlo quasi ridere.

“Vi ringrazio” dice, portandosi una mano sulle labbra, per nascondere il suo sorriso. “Ma comunque non penso di frequentare.”

Ha mandato la richiesto solo perché gli piaceva l’idea di essere stato raccomandato. Gli piaceva l’idea di essere stato chiamato. Lui. Chiamato per qualcosa. Scelto per qualcosa.

È una bella sensazione.

 




Atsushi dondola i piedi sulla sedia dell’infermeria, senza maglietta, in attesa che Yosano-sensei faccia la sua visita di controllo settimanale. Punta i palmi sullo spazio della sedia che non occupa e cerca di non incontrare nessuno con lo sguardo, concentrandosi sul tabellone delle lettere che usano per controllare la vista.

Per quanto dicano che Atsushi è stato preso in custodia da Dazai-san quando è entrato in quest’agenzia di detective, Atsushi pensa che la persona che davvero ha deciso di prenderlo dall’orecchio e insegnargli la maggior parte delle cose che sa, sia stato Kunikida-san. E forse per questo motivo, la persona da cui Atsushi si è più nascosta in questi ultimi due anni e mezzo (al di fuori dell’orfanotrofio) è stato proprio Kunikida-san. Il posto più sicuro per nascondersi nell’agenzia, è l’infermeria, aveva mentito a se stesso Atsushi, solo per poi rendersi conto che Yosano-sensei è forse una delle dottoresse più pericolose in circolazione. Perché, a quanto pare, alle persone di quest’ufficio ci tiene parecchio e si rende conto di lividi, piccoli dolori al braccio che non dovrebbero essere normali e dei movimenti che le persone fanno quando non vogliono che una certa parte del corpo faccia male. Non si preoccupa tanto dei tagli e dei labbri rotti, ma delle ferite che le persone nascondono sì. E Atsushi mentirebbe a se stesso se non dicesse anche che Yosano-sensei è un po’ sadica e ama studiare il dolore fisico.

“Ispira” gli ordina, posando il cerchio di metallo sulla schiena di Atsushi. E Atsushi prende un respiro profondo e trattiene il fiato per qualche secondo. “Ora espira” ordina di nuovo Yosano-sensei. E Atsushi tira fuori tutta l’aria che ha in corpo. “Con una costola incrinata non puoi andare da nessuna parte” dice poi.

Atsushi alza il mento, per poterla guardare, anche se sottosopra. “Ho una costola incrinata?” le chiede, con le sopracciglia aggrottate. Non gli sembra di avere una costola rotta, però. Si porta una mano sullo stomaco e poi su, verso il petto, dove un'ombra violacea macchia la pelle. Non gli fa nemmeno male. Tira in avanti la testa. Se c’è una costola rotta, la faccenda è seria. Lui pensava fosse soltanto un livido. “Beh, comunque non è stato fatto apposta, c’è poco da fare.”

“Non devi fare troppi sforzi. Lo dico a Kunikida. E devi prendere gli anti-dolorifici.” Yosano-sensei si toglie i guanti bianchi e li posa su una vaschetta, vicino al lettino. “Quando hai intenzione di trasferirti?” Sembra essere irritata. Fa il giro del lettino per sedersi vicino ad Atsushi e ha uno sguardo serio. Tiene in mano le bende mediche e le apre con fare stizzito. Atsushi non fa che portare problemi ovunque vada e gli dispiace per questa cosa, vorrebbe non avere il talento di complicare tutto quanto in continuazione. “Se vuoi frequentare l’università o no è solo una tua decisione, ma da quel posto devi andartene il prima possibile.”

Atsushi prova a sorridere. Sforza una risata, ma non gli esce molto bene, motivo per cui si limita a sospirare. “A vent’anni sarò maggiorenne” dice, alzando un dito della mano. Poi scrolla le spalle. Yosano-sensei non ride della battuta. Atsushi ha quasi diciannove anni. Rimanere nell’orfanotrofio fino alla sua maggiore età potrebbe voler dire farsi male più del necessario, soprattutto se si è odiati dal direttore, come lui. Questo lui lo sa, non è un idiota. “Stavo già cercando un appartamento in città” Muove le mani con fare nervoso, strusciandole una contro l’altra. “Fukuzawa-san ha detto che mi darà un aumento per anzianità.”

Yosano-sensei aggrotta le sopracciglia. Atsushi distoglie lo sguardo. Che è un errore, perché Yosano-sensei è forse la persona più tranquilla in questa stanza, che è tutto dire. E quando gli occhi di Atsushi incontrano quelli di Akutagawa, seduto con le gambe incrociate vicino al letto in cui sta dormendo Dazai-san, spera, per una frazione di secondo, di non essere mai stato visto. Di non essere stato notato, eh, sì, anche se si trova nel bel mezzo dell'infermeria mezzo nudo. Akutagawa lo guarda con una punta di disprezzo (niente di nuovo) e Atsushi prende un altro respiro profondo, inclina la testa e cerca la sua camicia bianca, per abbottonarsela senza dire una parola in più.

“Gli antidolorifici” gli ricorda Yosano-sensei, con un sospiro. “E non ho capito perché voi due non potete andare d’accordo” continua a bassa voce, ma non sembra essere irritata dal modo di comportarsi che hanno loro due.

Atsushi si alza in piedi e tira su le bretelle nere. Ci passa sopra le dita, mentre Yosano-sensei prende le medicine e Akutagawa schiocca la lingua contro il palato, tornando a guardare verso Dazai-san. Dovrebbe andare a comprare altri vestiti. Atsushi sbatte le palpebre e non riesce a non farsi scappare un sorriso, pensandoci. Quando è arrivato qui, col suo gakuran il primo giorno di lavoro, hanno tutti ruotato gli occhi. Kunikida-san non faceva che ripetere che in un posto di lavoro si deve essere professionali e quando Atsushi ha confessato di non avere degli abiti eleganti, Yosano-sensei lo ha trascinato nella zona commerciale di Yokohama e gli ha preso dei vestiti simili a quelli che indossava lei. Il fermacravatta, invece, glielo ha regalato Kunikida-san. Ma... “Forse è ora di andare a comprare altri vestiti.” Non può certo continuare ad andare in giro coi maglioni col cappuccio quasi rotti dal tanto essere usati. Ad aprile sarà un ragazzo di città.

“È una buona idea” risponde Yosano-sensei. “Un tuffo nella vita adulta.”

Atsushi si guarda la cravatta. Ha cinque completi, uno per ogni giorno lavorativo. Ma, appena uscirà dall’orfanotrofio, avrà del tempo libero. Non ci aveva mai pensato.

Deve sbrigarsi a trovare un appartamento qui intorno.

 



Atsushi sistema le graffette sulla scrivania, con le sopracciglia aggrottate, per unire i documenti che Ranpo-san e Dazai-san hanno lasciato sparsi per l’ufficio in un ordine non proprio logico. Deve sistemare tutto questo disastro prima che arrivi Kunikida-san, altrimenti ci saranno due persone che piangono in questo ufficio e nessuno dei due sarà Ranpo-san o Dazai-san. Atsushi cerca le diverse scritture che compilano i documenti, quella disordinata di Dazai-san e quella pigra di Ranpo-san e li divide in colonne, per poi cercare di capire l’ordine giusto in cui sistemarli. E, in tutto questo, Akutagawa sta seduto accanto a lui e ogni tanto si gira a guardarlo.

Il suo rapporto con Akutagawa è -beh. È come il rumore delle unghie sulla lavagna di gesso. Come i capricci di un bambino. Come i calzini bagnati dentro una scarpa asciutta. Praticamente, una rottura di coglioni. E Atsushi non capisce come sono arrivati ad avere un rapporto del genere, visto che ha sempre fatto di tutto per non pestare i piedi a nessuno. In linea generale, se ad Atsushi non fai niente di male e se sei una persona a grandi linee buona, non c’è la possibilità di stargli antipatico. Akutagawa -non gli sembra una persona cattiva, in realtà. Non pensa sia un cattivo ragazzo, non pensa nemmeno che abbia ammazzato qualcuno -cioè, beh, non crede, ma si è presentato come l’essere più cafone che Atsushi abbia mai incontrato e con cui abbia mai parlato. La prima volta che ha imprecato contro qualcuno, Atsushi ha imprecato contro Akutagawa. Ogni volta che Atsushi ruota gli occhi o sembra voler prendere a calci qualcuno, Tanizaki-kun o Dazai-san commentano, divertiti, ah, Atsushi ha un problema con Akutagawa. Ogni volta che ha voglia di fare qualcosa che non può andare bene col suo modo di comportarsi normale, qualcuno nell’agenzia ride e commenta ah, Akutagawa!

“Quindi non mi vuoi aiutare” mormora Atsushi, passando i fogli da una parte all’altra. “Starai solo lì, a fare lo scemo.”

“Non mi pagano” è la semplice risposta di Akutagawa. Che sarebbe anche una buona risposta, se non fosse che allora che cosa ci fai qui a meno di trenta centimetri da Atsushi a fissarlo come se gli avesse ucciso il cane.

Non gli ha ucciso il cane, vero?

Atsushi si immobilizza con i fogli in mano e gli occhi sbarrati. Non capisce perché gli viene il dubbio di aver fatto qualcosa che sa di non aver fatto. Deve smetterla di fidarsi così poco della sua stessa memoria. Non ha ucciso nessun cane. Scuote un po’ la testa e ricomincia a controllare i documenti. I fogli compilati da Ranpo-san sono macchiati di caffè e crema. Sono da ricopiare, correggendo gli errori e poi farli firmare a Ranpo-san, perché i pagamenti e i dati che sono stati raccolti per le indagini non diventino illegali. Quelli di Dazai-san, invece, sono inservibili. Atsushi deve chiedergli di compilarli una seconda volta. In più, dopo aver visto dei documenti così mal compilati, Atsushi sta iniziando a chiedersi se anche lui non ha fatto dei disastri coi casi che lui stesso ha seguito e risolto. Deve fermarsi dall’aprire il cassetto in cui tiene i suoi documenti e passare uno per uno in rassegna, per vedere di non aver fatto disastri. Anche se è una cosa che ha già fatto, questa. Anche se è una cosa che ha fatto più di una volta. Uhm. Deve concentrarsi sui documenti di Ranpo-san e Dazai-san. I docume-...

“Jinko” lo chiama Akutagawa. Gli prende il mento e gli gira la testa per guardarlo. Poi allunga il collo e lo bacia. Il contatto non dura nemmeno tre secondi (sotto i tre secondi non sono baci, ne hanno già discusso e hanno deciso che è così)(nell’ultimo periodo questi non-baci è come se fossero aumentati)(è strano). Atsushi ha giusto il tempo per allontanarsi che Akutagawa ha già in faccia la sua espressione disgustata e si permette anche di schioccare la lingua contro al palato.

Ha schioccato la lingua contro il palato ad Atsushi. Ha fatto tsk a lui.

Atsushi allunga la gamba per dargli un calcio sulla coscia e allontanarlo. “Se non hai intenzione di aiutare, dovresti solo andartene” gli ringhia contro, poi. Si morde l’interno delle guance, irritato, arrabbiato. Non lo sopporta quando fa così.

Soprattutto perché Akutagawa ruota gli occhi, infila le mani nella tasca della giacca e va via, senza nemmeno salutare.




[People change; moment by moment. What strange creatures we are.]

Dazai-san sta sdraiato su una panchina del belvedere, con le caviglie incrociate e un lecca-lecca alla mela, che deve aver rubato da Ranpo-san. Il sole sta sorgendo. Atsushi si è coperto nella sua bella giacca blu e controlla quale sarà l’ultimo treno della giornata.

Sono a malapena le otto del mattino, a scuola, gli hanno detto, non ci deve andarci per forza visto che gli esami sono già finiti e, vista la sua ammissione anticipata, lo trattano sempre più da universitario che da liceale. A maggio scade il tempo che si è dato per trovare una casa. È quasi metà marzo. Il tempo si muove in fretta e lui sta in piedi, vicino alla panchina, col cellulare in mano, a far finta di essere impegnato a cercare qualcosa.

Atsushi ha l’abitudine di andare a dormire alle otto di sera e svegliarsi alle cinque del mattino. Ogni giorno pensa che potrebbe prendere l’ultimo treno per tornare all’orfanotrofio e trovare i cancelli chiusi e qualcuno che gli ha buttato fuori quei tre maglioni che ha, per fargli capire che non deve più tornare. Non ha il coraggio di non tornare all’orfanotrofio, però. Lasciare l’orfanotrofio sarebbe diverso dall’essere cacciato. Prendere la decisione di andarsene via, per qualche ragione, gli sembra più spaventoso di quanto lo sia non avere altra scelta.

È strano come i suoi pensieri siano lucidi, la mattina presto, prima di incontrare qualcuno o parlare per davvero.

Non aveva mai preso il treno di prima mattina. Non conosceva quell’odore di aglio, non sapeva nemmeno quanto potesse essere freddo un mezzo pubblico, quanto potrebbe essere pieno, nemmeno. La mattina, Yokohama sembra una città tutta nuova, e gli vengono in mente le parole di Akutagawa. Tu nemmeno la conosci, questa città. Forse ha ragione. Vorrebbe passare il resto della sua vita a conoscerla. Gli piace il mare. Il porto. Non aveva mai visto il sole sorgere a Yokohama. Vorrebbe poter vedere il mare più spesso. Poi c’è una donna che passa, vicino alla panchina su cui Dazai-san è sdraiato e guarda prima lui, poi fa una smorfia, vedendo la faccia di Atsushi.

Atsushi si sistema il cappuccio sulla testa e tira un pochino il tessuto, per coprire la parte del viso gonfia. C’è poco da fare quando ti fanno male e comunque continui a pensare che devi tornare a casa. “Sono caduto” mormora e abbassa lo sguardo verso la punta delle scarpe.

Dazai-san è una di quelle persone che pensano che quello che succede all’orfanotrofio sia abbastanza normale. Quando parla ad alta voce, Atsushi deve dire che la sua è una casa famiglia. Ci sono solo otto bambini sotto i diciotto anni lì, e ognuno di loro deve dire anche di essere trattato bene. C’è un sistema di punti che mette qualcuno sopra oppure sotto in una classifica e a seconda della tua posizione puoi ricevere dei premi oppure si può venire puniti se, come Atsushi, finisci sempre nella parte più bassa della classifica. Che ogni tanto ci scappi uno schiaffo, una spinta, una caduta difficile da spiegare, per quello che dice Dazai-san, è normale. E questa cosa dice soltanto ad Atsushi che anche Dazai-san è cresciuto in un posto simile e che ha dovuto pensare fosse normale. Ognuno ha il proprio modo per sopravvivere.

Dazai-san alza lo sguardo verso Atsushi, aprendo un solo occhio. “Già” dice, chiudendo di nuovo gli occhi.

Atsushi si guarda intorno e sistema il capelli in modo che facciano da barriera contro sguardi troppo curiosi. Non c’è nessun caso che è stato affidato loro, nessun posto in cui Atsushi si deve infiltrare, nessuna informazione da contestualizzare, ed è stato Atsushi a chiamare Dazai-san, anche se non si aspettava che rispondesse e venisse fino a qua.

“Puoi dire che ti hanno derubato” commenta Dazai-san, con mezzo sospiro. Tiene le dita delle mani intrecciate dietro la testa. Guarda verso l’alto, pensando a qualcosa. “Tutti i soldi?”

“Ne ho salvati un po’” risponde Atsushi. Ha un nodo alla gola e gli pizzica il naso. “Ma non penso siano abbastanza. Anche con l’aumento di cui stava parlando Fukuzawa-san, non penso che potrei dare una caparra entro maggio e gli appartamenti costano davvero tanto.” Vorrebbe passarsi una mano sul viso, ma sente già lo zigomo fargli male da quando ha tirato su il cappuccio. Arriccia il naso. “Non ti sto chiedendo un prestito.”

“No, per quello dovresti chiamare Kunikida-kun.”

Atsushi sbatte le palpebre e abbassa lo sguardo, ancora una volta. Forse non dovrebbe farsi vedere in agenzia fino a che non gli si sgonfia lo zigomo. Sarebbe più facile, se solo non gli servissero i soldi. “Ti volevo chiedere se potresti prendere quello che sono riuscito a salvare.” Deglutisce. Ha quasi pianto quando si è reso conto che i più piccoli non hanno fatto la spia sui suoi soldi nascosti sul soffitto del bagno. Pensava davvero di aver perso tutto, quando uno dei ragazzi ha detto che ad Atsushi piace spendere i soldi come se fosse ricco. E pensava che non ci fosse nessuna speranza, quando ha guardato il direttore controllare tra le sue cose e lo ha accusato di essere un ladro. Ha perso più della metà dei soldi, va bene, non importa, deve proteggere quello che gli rimane. “Se li tenessi tu, non potrebbero trovarli.”

“Tipo una banca.”

Atsushi arriccia di nuovo il naso e si accovaccia, portandosi una mano sul cappuccio. “Volevo aprire un conto in banca, ma non posso senza il permesso del mio tutore legale.” E comunque non trova il coraggio per andarsene dall’orfanotrofio e iniziare un altro tipo di vita. Lo zainetto di Hello Kitty che ha sulla schiena lo ha rubato al ragazzino che ha fatto la spia ed è uscito di casa, fingendo di dover andare a scuola. Dentro ci ha nascosto i soldi. Tutto quello che ha, tranne quello che gli serve per i trasporti pubblici e qualche pasto sporadico. “Ti volevo chiedere questo favore.”

Dazai-san non risponde. Nel caso la risposta fosse negativa -Atsushi non ha la più pallida idea di dove altro andare o a chi chiedere. Aveva pensato di chiedere aiuto a Lucy, che lavora nella caffetteria sotto l’agenzia da ormai qualche mese. Lei dovrebbe poter capire e Atsushi si fida abbastanza di lei da sapere che non scapperà coi suoi risparmi. In più, anche Lucy ha messo da parte molti soldi per poter vivere liberamente a Yokohama. Sarebbe facile, spiegare a lei, ma Atsushi voleva comunque provare a chiedere a Dazai-san. Solo per sapere la sua risposta.

Gli pizzica lo zigomo. La pelle deve essersi rotta per il colpo ricevuto. Atsushi ha le mani fredde, ma sa che non deve toccarsi le ferite aperte. Soprattutto se non conosce lo stato delle sue mani. Se sono pulite, sporche, che cosa ha toccato.

Atsushi tira su col naso e lancia uno sguardo al mare. Yokohama sembra quel tipo di città che non ha un vero confine, grazie al mare. Puoi prendere una barca e navigare per chilometri e comunque quella sarebbe lo stesso Yokohama. È una delle cose che Atsushi non riesce a togliersi dalla testa. Quanto è grande questa città. Quante persone ci vivono.

“Atsushi-kun” lo chiama Dazai-san, con un’espressione calma. Muove il lecca-lecca tra le labbra. Non sembra voler dire chissà che cosa. “Non penso tu debba più tornare in quella casa-famiglia. Per oggi, almeno.”

Atsushi tiene i talloni staccati da terra e sente le spalle tremargli a quelle parole.

Una volta, Kunikida-san, mentre gli spiegava le varie prese per difendersi, gli ha detto che va bene anche scappare. Se l’avversario è più forte di te, se ti stanno puntando un’arma alla testa, se ci sono delle condizioni che ti fanno capire che sei con le spalle al muro, senza possibilità di vittoria, va bene arrendersi. No. Non arrendersi. Scappare. Arrendersi vorrebbe dire rinunciare a qualcosa, alla propria vita, alla propria salute. Ma se scappi stai facendo qualcosa. Si deve scappare col cervello, ecco tutto. Kunikida-san dice sempre che basta che le cose le fai col cervello. E Dazai-san gli sta dicendo che forse la cosa migliore adesso è scappare.

Atsushi ci pensa su. Mancano due settimane alla cerimonia di chiusura della scuola. Il che vuol dire che deve tenere duro per due settimane e poi potrà trovare un qualche rifugio qui a Yokohama. Potrebbe anche chiedere di venire ospitato, ma sa benissimo che l’ospite dopo tre giorni puzza e non vuole dare fastidio a nessuno. Non ha abbastanza soldi per permettersi una casa, comunque. Tira giù la testa, nascondendola tra le braccia. Sente che questa situazione non ha nessuna vera soluzione. Lui da solo non ha nessun potere per scappare da qualche parte. Ha resistito per quasi diciotto anni questa tortura. Pensa di riuscire a superare due settimane. E poi potrebbe chiedere a Fukuzawa-san se può dormire in ufficio, nel caso ci fosse un abbassamento delle temperature. Lì non darebbe fastidio, dormirebbe su un letto dell’infermeria. Sarebbe solo una cosa temporanea.

Quando oggi il direttore si renderà conto che Atsushi è mancato a scuola…

“Sono solo due settimane.”

Atsushi sfila lo zainetto di Hello Kitty e lo appoggia vicino alla panchina. Dazai-san lo guarda annoiato. “Succedono molte cose in due settimane” dice. Prende lo zainetto di Hello Kitty, poi scuote la testa. “Dallo ad Akutagawa. Lui sa sempre dove nascondere cose o persone.”

“Non mi aiuterà.”

“Digli che ti ho mandato io, allora.” Dazai-san si siede sulla panchina, con lo zaino ancora tra le mani. “Così siamo sicuri che ti aiuterà. E tieni.” Tira fuori dalle tasche degli occhiali da sole sporchi e graffiati. “Così puoi coprire il…”

Atsushi fa una smorfia. Così sembrerà soltanto un idiota. Ma immagina che non ci sia altra soluzione. Sa anche dove si trova Akutagawa adesso (non perché vuole) e non può certo presentarsi all’agenzia in questo stato. Anche se gli servono davvero i soldi, adesso. “Gli dirò che mi mandi tu” borbotta, sconfitto. Spera solo di non incontrare nessuno, allora, nel negozio di kimono degli Izumi.

 




Atsushi non può entrare nel negozio di kimono della famiglia Izumi.

Rimane in piedi, con le spalle verso il negozio, nascosto dietro un albero, mentre il sole sale sempre più in alto nel cielo e le persone continuano a camminargli intorno, senza farsi nessuna domanda. Almeno c’è il sole. Se fosse stato nuvoloso, un idiota con gli occhiali da sole sarebbe stato di sicuro più sospettoso. Per adesso, non può fare che aspettare e sperare che ci sia un momento per poter parlare con Akutagawa senza che nessuno li veda. Non si preoccupa molto di Akutagawa e di quale potrebbe essere la sua reazione, perché, se c’è una cosa che Atsushi sa fare è riconoscere le persone come lui e Dazai-san. Il problema sta in Kyoka-chan, in piedi vicino ai kimono, avvolta nel suo kimono rosso, che saluta con cortesia i clienti con un leggero inchino e le mani unite sul grembo.

Atsushi si morde l’interno delle guance. Non pensa di essere stato visto, motivo per cui può provare una fuga calma e pulita, senza errori. Non pensava Kyoka-chan sarebbe stata presente in negozio. Credeva fosse a scuola. Se per lui erano le ultime settimane da liceale, per Kyoka-chan queste erano le ultime settimane prima di diventare una liceale. Secondo quello che gli ha raccontato, è stata ammessa in una scuola femminile, gli aveva anche mostrato la divisa, con le orecchie rosse e un enorme sorriso. E sembrava essere contenta, perché se Atsushi si fosse trasferito in città, sarebbe stato più facile per loro incontrarsi e magari andare a mangiare delle crepe insieme. Certo non può preoccuparla in questo modo proprio adesso.

Il sole non è ancora altissimo e Atsushi deve cercare di nuovo il cellulare dentro lo zainetto di Hello Kitty, per controllare le ore.

Gli piacerebbe avere una vita un po’ più tranquilla. Quando Kyoka-chan gli ha chiesto quale fosse il suo sogno, non aveva potuto non dire una cosa del genere. Vorrebbe vivere una vita in cui la cosa più brutta che potrebbe succedergli è finire il latte e nessuno che gli gridi contro perché il latte è finito. Magari un posto in cui il latte non è finito perché glielo hanno rovesciato sui capelli. E sempre Kyoka-chan, dopo aver visto Atsushi in piedi vicino ad Akutagawa, gli ha chiesto che tipo di persona lo farebbe innamorare.

Qualcuno di gentile, ha risposto Atsushi. Non gli importa molto altro. Gli piacciono le persone gentili e potrebbe innamorarsi, un giorno, di una persona gentile. Forse.

Atsushi prende il cellulare tra le mani e chiude bene lo zainetto, dopo aver controllato che non manchi niente. Non è solo una questione dei soldi che è riuscito a salvare. Il cellulare. Il quaderno degli appunti che gli ha regalato Kunikida-san. Il buono per la pizza scaduto che gli ha dato Tanizaki-kun. La canna da zucchero che gli ha lasciato Kenji-kun quando è andato ad aiutarlo in fattoria la settimana scorsa. Controlla che tutte queste cose siano al loro posto. Non può perdere nulla. Anche se Atsushi ha pianto per aver perso la metà dei soldi (ed essere stato picchiato, certo), la verità è che più dei tre quarti delle lacrime venivano dall’aver perso anche delle piccole cose che i membri dell’agenzia gli hanno regalato negli ultimi due anni. E non solo loro. I fermagli che aveva scelto con Naomi-san e Kyoka-chan, ad esempio, sono persi per sempre. Sono oggetti che non avrà mai più indietro.

Atsushi si passa un dito sotto gli occhiali da sole, per stropicciarsi un occhio, mentre si dice che è inutile piangere sul latte versato. Si gira per andare verso il parco della zona, ma viene fermato da Akutagawa, nel suo kimono nero e blu, che lo guarda con un’espressione annoiata. Uhm? Quando è arrivato qui?

Atsushi aggrotta le sopracciglia e si gira per vedere che Kyoka-chan non si sia resa conto di loro due. Appena riesce a vederla, dietro la vetrina, che sorride a un cliente, torna a guardare Akutagawa, che ruota gli occhi.

“Mi ha chiamato Dazai-san” gli spiega Akutagawa. Atsushi non gli presta molta attenzione. Sta di nuovo sudando freddo. Non vuole certo far preoccupare Kyoka-chan e forse dovrebbe muoversi più in fretta, andare in un posto in cui non saranno visti. Akutagawa ruota gli occhi e lo afferra dal gomito, per trascinarlo due alberi più lontano. “Mi ha chiamato Dazai-san” gli ripete. Sembra star anche perdendo fiato. Non è abituato a fare grandi sforzi.

Atsushi lancia uno sguardo alla mano pallida di Akutagawa sulla sua giacca. È quasi sicuro che quelle mani sono fredde. Le conosce anche troppo bene, lui, per non sapere che non sono gelide. Controlla dove si sono fermati. Kyoka-chan da qui non può vederli. È anche vero che Akutagawa sta lavorando, quindi non può rubargli troppo tempo, motivo per cui si sfila lo zainetto dal braccio e glielo passa. “Potresti tenerlo tu?” gli chiede, guardandolo dritto negli occhi. “Appena trovo casa tornerò a prenderlo, forse un po’ prima, perché, beh, sì, dentro ci sono i miei soldi, sai. Tipo banca. Poi trovo un modo per ripagarti, beh, dovresti aspettare un po’. Quel tanto che basta per prima guadagnare e poi -beh, ma se non vuoi, capita, non è che lo devi fare per forza perché te lo ha detto Dazai-san.” Atsushi lancia un altro sguardo al negozio di kimono. Non ce ne sono molti, qui intorno.

Akutagawa gli muove il cappuccio, per scoprire parte dello zigomo gonfio. È un movimento che gli prende pochi secondi, giusto il tempo per Atsushi di muovere il viso verso di lui. Ritira la mano in fretta e guarda lo zainetto di Hello Kitty. Atsushi si morde l’interno della guancia per non sbottargli contro. Comunque glielo ha detto che se non vuole farlo può anche non farlo. Il kimono nero gli sta bene. Lo aveva già pensato. La sua divisa da lavoro gli sta bene. Almeno non sta curvo nel suo giubbotto nero e non sembra uno yokai pronto a rubare l’anima di qualcuno. Anche se sembra ancora che un soffio di vento lo potrebbe prendere e far volare via. Okay. In tutto questo, Akutagawa non sta rispondendo. Atsushi fa per ritare la mano e lo zainetto, ma, di nuovo, la mano di Akutagawa lo ferma, prendendolo dal polso.

Okay, quindi?

Atsushi alza un sopracciglio. Akutagawa rimane in silenzio per qualche altro secondo, prima di dirgli: “Il mio turno finisce all’una.” Gli lascia andare il polso. Akutagawa tiene lo sguardo basso. Continua a studiare quello zainetto di Hello Kitty. “Torna all’una. Aspettami davanti alla pasticceria. Lo prendo lì, questo coso.”

Akutagawa non ha la più pallida idea di cosa ha dovuto passare Atsushi per poter rubare questo zainetto. “Dovresti portare un po’ di rispetto” borbotta, abbracciandolo con fare protettivo.

Akutagawa si gira su se stesso e torna nel negozio di kimono, per finire il suo turno, lasciando Atsushi con tre ore da riempire e nemmeno un soldo. Beh. Questo vuol dire che potrà fare un bel giretto in libreria. Se riesce a nascondersi abbastanza a lungo, forse potrebbe anche finire quel libro che aveva lasciato a metà… come si chiamava? Luce, vento e poi…?

 



Atshushi si era dimenticato che leggere con gli occhiali da sole è stupido, frustrante e lo fa sembrare un idiota. Anche andandosi a nascondere da qualche parte, non si sentiva abbastanza tranquillo per poter leggere con serenità. Quindi ha abbandonato la sua idea di leggere ed è andato a finire sul tavolino della pasticceria due ore prima del previsto, con un tè troppo zuccherato e il cellulare aperto su una pagina di annunci di lavoro. Ha fatto il conto e potrebbe cercare di farsi assumere in un konbini, magari durante il turno di notte per riprendere abbastanza soldi. Atsushi si passa le dita sulla fronte.

Lo zigomo gli pizzica e sta iniziando a sentire come gli pulsa. È anche questo il motivo per cui non è riuscito a leggere. Per quanto la sua mente sia lucida, il dolore gli annebbia la vista e ci sono momenti in cui, anche se lui non vorrebbe, gli iniziano a lacrimare gli occhi per il dolore. Non è niente in confronto a -a tante altre cose che ha subito, in realtà. La costola incrinata ce l’ha ancora, alla fine. Ha il petto fasciato da quando Yosano-sensei lo ha trovato che barcollava per non fare troppi sforzi con la parte superiore del corpo. Tra gli oggetti che gli sono stati sequestrati, ci sono anche gli antidolorifici che gli aveva dato per non farlo stare troppo male. Due al giorno. Una la mattina e una la sera, gli aveva detto. E stai attento a non diventarne dipendente. Ad Atsushi non piacciono molto gli effetti degli antidolorifici così forti. Lo fanno sentire stordito. Si addormenta troppo facilmente. Non lo fanno sentire al sicuro.

È mezzogiorno e quarantacinque e Atsushi gira il cucchiaino nella tazza. È riuscito a infilarci cinque zollette. Quando Tanizaki-kun lo vede bere il tè in questo modo, ride e dice sempre che la vita è già troppo amara per bere del tè amaro. Atsushi sa che nel tè non ci dovrebbe andare lo zucchero. Si lascia cadere in avanti e preme la fronte contro il tavolino bianco. Non ha la più pallida idea di che cosa dovrebbe fare, adesso.

Adesso nel presente e adesso che sa che dovrebbe scappare dall’orfanotrofio e che non può farlo. Non ha ancora pianto tutte le sue lacrime per quello che ha perso. Era diventato troppo arrogante, aveva troppa fiducia in se stesso. Si era sentito, per mezza giornata, intoccabile. Perché anche se non voleva frequentare l’università, un’università lo ha accettato, perché ha un lavoro, perché ha delle persone intorno con cui parlare. Era anche giusto che poi sia successa una cosa del genere, per riportarlo alla realtà. Non può pensare di star per chiudere un capitolo della sua vita, perché, anche se trovasse un modo per scappare adesso, anche se non tornasse più in orfanotrofio, sarebbe sempre il ragazzino che è scappato dall’orfanotrofio. Sarebbe sempre la persona che ha sopportato per quasi diciannove anni botte e punizioni senza pensare di scappare. Per un pasto caldo al giorno. Perché era il suo modo di sopravvivere. Cosa potrebbe dire questo di lui? Che tipo di persona potrebbe diventare a questo punto una volta libero?

“Oi, Jinko.” Atsushi sente delle dita premergli contro la testa coperta dal cappuccio. “Andiamo.”

Atsushi aggrotta le sopracciglia. Alza la testa, per vedere Akutagawa, in piedi davanti a lui, il suo solito, orrendo, lunghissimo giubbotto e quella stupida posa che ha, in cui si incurva un po’, forse per prendere meno spazio. “Dove?” gli chiede. I colori dietro gli occhiali da sole sono offuscati. Non ha intenzione di muoversi, se Akutagawa non gli dice dove stanno andando. Bravo a nascondere cose e persone, ricordi? Non sia mai che decida di ucciderlo e nascondere il suo corpo da qualche parte.

Akutagawa studia a sua espressione, la sua faccia, prima di sedersi sul tavolino proprio davanti ad Atsushi e sospira. Allunga le braccia per prendere a tazza di tè e ne beve un sorso. Non batte ciglio, quando sente che il tè è più zucchero che tè. Anzi. Atsushi incrocia le braccia, ci punta sopra il mento e sente i lati delle labbra rimanere piegati verso il basso, anche se lui non vorrebbe.

“Lo hai colpito anche tu?” gli chiede Akutagawa.

Atsushi non muove la testa, rimane immobile, ma abbassa lo sguardo. Fissa la tazza tra loro due. Non si aspetta che Akutagawa capisca quello che lui sta provando, perché non sono mai stati nella stessa posizione. Atsushi è cresciuto in un orfanotrofio. Akutagawa dagli orfanotrofi ci è scappato fino a quando ha compiuto sedici anni. Non ci ha dormito una notte in orfanotrofio. Atsushi non sa che cosa ha fatto Akutagawa per sopravvivere insieme a sua sorella, ma sa che sta seduto proprio davanti a lui, un po’ anemico, forse, ma vivo. Se qualcuno lo colpiva in faccia, Akutagawa rispondeva colpendo la persona col doppio della forza. Se ora Atsushi gli confessasse che, quando il direttore lo colpisce, lui non alza nemmeno le mani per difendere il suo stesso viso, Akutagawa si irriterebbe e basta. Non può capire tutte le dinamiche di potere, o come può vivere una persona come Atsushi, che non vale abbastanza nemmeno ai suoi stessi occhi per difendere il suo stesso corpo. Quindi lascia cadere la testa di lato, mentre sospira.

“Quel Kunikida di cui parli sempre, non ti ha insegnato a difenderti?” chiede ancora Akutagawa.

Atsushi guarda lo schermo del cellulare e si rende conto che sono proprio adesso le tredici in punto. “Puoi tenermi lo zaino, fino a che non trovo un appartamento?” gli chiede a sua volta. Vorrebbe chiudere questa faccenda il prima possibile. Dovrebbe tornare all’orfanotrofio per le sette di sera, se Akutagawa non vuole aiutarlo, dovrà andare fino a sotto l’agenzia e nascondersi da tutti loro e cercare di parlare con Lucy e per farlo avrà bisogno di tempo e molta pazienza. Ha bisogno di una risposta adesso.

“Non mi rispondi?”

“E tu?” Atsushi sistema la testa sul braccio. “Non mi rispondi?”

Akutagawa ruota gli occhi e continua a bere il tè di Atsushi. Atsushi si morde l’interno delle guance e sospira per l’ennesima volta. Vorrebbe davvero chiudere la conversazione il più in fretta possibile. “C’è un posto in cui puoi stare già da adesso” gli dice Akutagawa, posando la tazza sul tavolino. Batte piano l’indice contro il tavolino. “Solo che ci devi andare adesso. Se non ci vai ora qualcun altro potrebbe occuparla.” Parla senza muovere le labbra. Borbotta, mormora, non parla con chiarezza. Ma le parole arrivano fino ad Atsushi. Akutagawa non aspetta una risposta, perché sembra avere ancora qualcosa da dire. Tira fuori la mano dalla tasca e sbatte, davanti al naso di Atsushi un vasetto quasi vuoto di pillole. Atsushi non ci mette molto a capire che sono antidolorifici. “Se non ti sbrighi facciamo tardi.”

Atsushi alza la testa dal tavolo. “Devo occupare una casa?” gli chiede. “Tipo abusivamente?”

Akutagawa schiocca la lingua. “Se preferisci finire per strada rimani qui.” Poi si alza in piedi. Aspetta qualche secondo perché Atsushi capisca che sta davvero cercando di aiutarlo. O qualcosa del genere. I miracoli di tirare in ballo il nome di Dazai-san!

Atsushi prende le pillole dal tavolo e le infila nello zainetto. “Porto la tazza” gli fa sapere, indicando la pasticceria.

Nel fondo della tazzina, lo zucchero in eccesso si è mischiato alle foglie di tè.

 



Atsushi apre un po’ la bocca, quando Akutagawa lo trascina davanti al complesso di appartamenti vicino all’agenzia. E non è stupido. Atsushi non è stupido, si è reso conto di starsi avvicinando al suo posto di lavoro. C’era stato un momento in cui ha pensato che Akutagawa volesse trascinarlo in agenzia e ha provato a scappare, solo per poi venire fermato da una mano sul polso, stretta come se da quella dipendesse la sua vita. Atsushi odia fare favori ad Akutagawa e Akutagawa odia fare favori ad Atsushi. Se lo voleva portare davanti a Yosano-sensei, allora Atsushi avrebbe dovuto accettare la sua punizione. Ma questo complesso -non pensava che lo avrebbe davvero portato in un posto sicuro.

Akutagawa prende delle chiavi dalla tasca e inizia a salire le scale. Atsushi lo segue ed è sicuro che in questo posto, una volta, qualche tempo fa, ci deve essere stato. Si guarda intorno, segue Akutagawa e -perché, se deve occupare l’appartamento Akutagawa ha delle chiavi? Non dovrebbe solo, beh, entrare? Atsushi non ha mai fatto una cosa del genere, ma sa che ci sono delle regole. Qualcuno in casa ci deve sempre essere, per fare in modo che nessuno entri quando qualcuno non guarda. Ci sono i turni di guardia, nessuno ha davvero le chiavi proprio per questo. Atsushi -per essere un detective non è poi così intuitivo. Ci mette ben quindici minuti a capire che cosa sta succedendo.

Il complesso di appartamenti vicino all’agenzia, che ha visto una volta qualche anno fa, il modo in cui Yosano-sensei gli ha chiesto quando aveva intenzione di trasferirsi e Dazai-san che gli ha detto di non tornare all’orfanotrofio. Akutagawa che è bravo a trovare posti e a nascondere cose o persone, e che ha ricevuto, questa mattina, una chiamata da Dazai-san.

La campanella suona solo quando Akutagawa gira le chiavi nella porta di un appartamento con sopra il numero 502. Akutagawa entra in casa e non si piega nemmeno per togliersi le scarpe, cammina soltanto e un passo prima ha le scarpe, il passo dopo è scalzo. Atsushi sbuffa una mezza risata, guardandolo. Si siede sul genkan e si slaccia le scarpe. Sul mobiletto delle scarpe, c’è un foglio bianco con sopra solo una frase. Atsushi allunga il collo per leggerla.

Benvenuto a casa.

Iniziano a tremargli le mani.

Atsushi deglutisce e posa la fronte sulle ginocchia. Le scarpe che si doveva togliere, rimangono lì, ai suoi piedi, ancora un altro po’. E gli pizzica il naso, quando chiude gli occhi.

“Togliti gli occhiali da sole” gli ordina Akutagawa. “E togli il cappuccio.”

Atsushi vorrebbe rispondergli male, ma in questo momento è così sopraffatto dalla sensazione di aver trovato un posto sicuro, da non riuscire a trovare nessuna parola, nessun’altra emozione che non sia sollievo. Si toglie gli occhiali da sole e prova a non piangere, perché soltanto lui sa quanto potrebbero fare male delle lacrime salate sullo zigomo non trattato. Tiene il cappuccio sulla testa, perché -beh, se dovesse scoppiare a piangere davanti ad Akutagawa sarebbe davvero imbarazzante, oltre che doloroso. Gioca, piuttosto, con la ciocca di capelli sulla tempia, nella speranza di nascondere il viso.

Akutagawa sospira con pesantezza e lascia le chiavi sul mobiletto delle scarpe. Atsushi gli dà le spalle, ma sa come si muoverebbe. Se gli dessero uno scenario, anche il più strano e improbabile, saprebbe come si muoverebbe Akutagawa. Ha fatto questo gioco con Kyoka-chan. Non ha sbagliato un movimento nel negozio di kimono. Lei ha riso tanto per questo, unendo le mani insieme. Akutagawa si siede accanto ad Atsushi con un tonfo.

“Jinko” lo chiama.

Atsushi non risponde. Non è riuscito ad andare oltre il genkan. Vorrebbe vedere questo appartamento. Vorrebbe chiamare Fukuzawa-san e chiedergli quanto gli deve di affitto, se davvero può venire a vivere qui anche da subito e ringraziarlo per lasciargli questo spazio per nascondere lo zaino. Lo ripagherà lavorando il doppio e se ne andrà appena troverà un appartamento e cercherà di non fare rumore e di non dare fastidio e-...

Akutagawa gli sposta il cappuccio, per scoprire la tempia. “È diventato rosso.”

Atsushi arriccia il naso. “Vuol dire che sta guarendo” risponde, cercando di fermarsi dal toccare lo zigomo.

“L’occhio” lo corregge Akutagawa. Non gli ha tolto il cappuccio. Conosce i limiti che non si devono superare. Sa quando deve chiedere il permesso per fare qualcosa. Anche se non sembra, anche Akutagawa è una persona -beh, forse non buona, ma decente. Sufficiente. Mediocre, forse. Conosce il minimo della decenza umana. E adesso studia l’occhio di Atsushi, con le sopracciglia aggrottate. È davvero messo così male? Atsushi non si è guardato allo specchio da ieri sera. “Hanno lasciato roba per curarti.” Akutagawa prende le scarpe che si è tolto nemmeno dieci minuti fa e sembra volersene andare. In effetti, non si è tolto nemmeno la giacca. Forse se ne vuole andare per davvero.

Eppure non si muove.

Atsushi si gratta la tempia, rompendo il contatto visivo tra loro due. Il loro rapporto è già strano così com’è, non vorrebbe certo renderlo più strano. “Comunque oggi devo tornare a... beh” dice. Parla giusto per parlare. Non sa che cosa dovrebbe dire ad Akutagawa, in un momento del genere. Vorrebbe poter parlare con Yosano-sensei, o con Kunikida-san, con Dazai-san, soprattutto con Fukuzawa-san, perché se non fosse per loro, in questo momento, non starebbe in un posto che sa essere sicuro. Entrare qui è stato come arrivare all’agenzia, quando pensa che non potrebbe succedergli niente di così brutto da essere irreparabile. È una cosa brutta, non avere il senso del proprio posto nel mondo, ora che ci pensa. Deve sbrigarsi a tornare all’orfanotrofio e farsi di nuovo una bella doccia con acqua fredda, per ricordarsi in che tipo di mondo vive.

Non sembra trovarsi in un momento o in un posto reale. Sembra quasi un sogno, questo. La sensazione di aver fatto cadere un peso che si portava dietro, averlo lanciato sulla soglia di casa, la sensazione di essere entrato in un posto caldo, in cui può togliersi la giacca senza rabbrividire -sono sensazioni nuove. Lo fanno sentire come se si fosse inebriato del profumo dei fiori di campo. Non sa nemmeno lui cosa vuol dire questo. Sa che non può rimanere troppo tempo qui, però.

Atsushi struscia le mani una contro l’altra, con una punta di nervosismo. Akutagawa ha ruotato gli occhi, quando ha sentito quello che doveva dire. “Prima di andarmene devo fare tutte quelle cose burocratiche. Dovrei firmare alcuni documenti, dimostrare che ho un posto in cui vivere. È un po’…” E comunque non può vivere in questo appartamento. Non ha abbastanza soldi. I pochi spicci che ha non coprirebbero nemmeno la metà delle spese. Quindi anche Atsushi deve andarsene da lì.

Eppure non si muove.

Akutagawa studia il viso di Atsushi. Le sue pupille si muovono da una parte all'altra, come se stesse pensando a qualcosa di importante. Atsushi segue lo sguardo di Akutagawa, che cade sulle scarpe nere ancora ai suoi piedi. Lo guarda allungarsi e slacciargli una scarpa, con un movimento veloce delle dita. Poi Akutagawa torna a guardare Atsushi. È il suo modo per capire se ha fatto qualcosa che non doveva fare. Slacciare i lacci delle scarpe è un po' il modo che hanno i bambini per dare fastidio, ma Atsushi non sente di essere preso in giro o vittima di un dispetto. Per questo inclina la testa.

Akutagawa prende questo gesto come un permesso per slacciargli anche l'altra scarpa. Se anche non c'è fretta, nei suoi gesti, c'è una precisione veloce. “Jinko” lo chiama e con una mano gira il mento di Atsushi, perché i loro nasi si tocchino mentre con l'altra mano gli muove il tallone, per togliergli una scarpa.

Appena Atsushi si rende conto del piede scalzo, muove lo sguardo verso i suoi piedi, cosa che deve irritare Akutagawa che chiude gli occhi e unisce le loro labbra in qualcosa che Atsushi ormai nemmeno più chiama bacio. Sotto i tre secondi non valgono. E, comunque, voleva solo sfilarsi l'altra scarpa. È incredibile quanto Akutagawa abbia bisogno di attenzioni.

Atsushi sente la testa leggera. In realtà, sente tutto il corpo leggero. Come quando si svegliava la mattina e sentiva la testa fresca e pensava ah, sì, questa sarà una bella giornata. Quelle giornate finivano quasi sempre male, con lui in punizione, o con qualche parte livido su braccia e collo, ma qui è diverso. Atsushi non ha una vaga sensazione che non succederà niente di brutto. Atsushi ha la sicurezza che in questo appartamento non gli succederà niente di brutto. Ed è una sicurezza pericolosa, soprattutto quando lo porta a calciare via le scarpe e salire a cavalcioni su Akutagawa. Perché sente un corpo reale. Qualcuno di solido. Gli piace trovarsi in un posto che non è reale, ma gli piace anche che Akutagawa, sotto di lui, è carne e ossa e dita che si muovono.

Non è la prima volta.

Atsushi lo bacia. Non è la prima volta che succede. Un bacio tra loro, sopra i tre secondi, con le labbra che si muovono e saliva e altra roba. Atsushi chiude gli occhi e spinge Akutagawa sul pavimento, mentre strofina il naso contro la sua guancia. Non sa descrivere il profumo di Akutagawa. Sa solo che è familiare. E quell'odore familiare gli fa venire voglia di baciarlo con più foga. Posa una mano sul petto di Akutagawa e sente una mano di Akutagawa prenderlo dal fianco, muoversi verso la schiena. È la prima volta che Atsushi prende l'iniziativa però, perché… Il pensiero viene fermato. Atsushi ora come ora ha voglia di sentire il sospiro di Akutagawa accanto all'orecchio, motivo per cui muove il mento per approfondire il bacio, chiudendo gli occhi. Vuole sentire le sue dita e la sua risata e qualsiasi cosa abbia da offrire adesso.

Akutagawa, con la testa posata sul pavimento di legno, alza una mano e la posa sulla ferita aperta di Atsushi. Atsushi aggrotta le sopracciglia. Le dita di Akutagawa pizzicano contro di lui e le mani gelide portano sia dolore che sollievo. Il cappuccio della felpa di Atsushi cade sulla sua schiena e lui apre gli occhi, per incontrare lo sguardo curioso di Akutagawa. Lo zigomo di Atsushi pulsa. Fa troppo male per continuare qualsiasi cosa avesse voglia di fare soli pochi secondi prima. Non si è rotto nessun incantesimo, ma Atsushi pensa di essere un po’ tornato in sé. Quindi scuote la testa, per liberarsi da quel tocco.

Beh, comunque lui… “Io devo tornare a...” Non sa come dovrebbe finire la frase. Non riesce a dire casa. Si tira indietro. Scivola giù dalla gambe di Akutagawa e lancia uno sguardo alle sue spalle, per vedere le sue scarpe gettate sul genkan. Ha la testa leggera. Lui non inizia mai queste cose. Di solito segue la corrente, lascia che sia Akutagawa a baciarlo, lascia che sia Akutagawa a toccarlo, lascia che sia Akutagawa a portare avanti qualsiasi cosa lui volesse. Sente la faccia calda e lo zigomo pulsare ancora e ancora e ancora. Non ha mangiato niente di solido, quindi non può nemmeno prendere l’antidolorifico. “Grazie per…”

Akutagawa si alza a sedere, facendo forza su un braccio. Lascia che Atsushi si sieda di nuovo accanto a lui, ma appena lo vede cercare di alzarsi, lo prende dal gomito, per fermarlo.

In Akutagawa non c’è niente di delicato. Questa è una cosa che Atsushi sa. Ma non è nemmeno così forte da fermare Atsushi, se si volesse liberare. Lo tira verso di lui. “No.” E non aggiunge nient’altro, perché se lo facesse non sarebbe Akutagawa Ryunosuke, la persona più irritante al mondo.

Atsushi cade su di lui con un tonfo secco, ed eppure Akutagawa non cade sul pavimento. Atsushi si morde l’interno delle guance e c’è la possibilità, non così palese, non così improbabile, che se tornasse all’orfanotrofio adesso, una parte di Atsushi morirebbe. O, beh, una parte di lui ne soffrirebbe davvero tanto. Non ha mangiato niente. Il corpo inizia a fargli davvero tanto male. Non è solo la faccia, lo zigomo che è così caldo e gonfio da dargli l’impressione di tenere un occhio chiuso. Sta iniziando a sentire un dolore nella zona delle costole, quella costola incrinata di cui parlava Yosano-sensei, forse. E c’è anche -ad Atsushi piace il tipo di calore che ha il corpo di Akutagawa. Certo. Ovvio che sia così. Altrimenti non avrebbero questo loro patto implicito. Non si farebbe toccare da lui, se in un qualche modo non gli piacesse.

Akutagawa gli lascia andare il gomito, solo per passare il braccio intorno alla sua vita, e Atsushi posa la testa sulla sua scapola, come se fosse un cuscino, senza pensarci su troppo. Akutagawa lo tira con sé, per finire entrambi sdraiati sul pavimento dell’entrata di casa e Atsushi sbatte un paio di volte le palpebre, guardando la parete bianca davanti a lui.

Il corpo gli fa così male che pensa di non potersi muovere più. Gli brucia la guancia. Non ci vede bene da un occhio. Non sa descrivere bene il profumo di Akutagawa. Ha la testa leggera. Sa che non può succedergli niente. Non vuole piangere davanti ad Akutagawa. Anche se è un pianto a lieto fine.

Ed eppure sta piangendo sopra Akutagawa, che finge di non rendersene conto.

 




Atsushi continua a guardare il vuoto che prende forma in una parete bianca, mentre ascolta il respiro di Akutagawa. Il suo petto sale e poi scende e poi sale di nuovo. Sembra esserci qualcosa nei suoi polmoni, perché fa fatica a respirare. C'è del muco nei suoi polmoni o roba del genere. Atsushi ha pianto tutte le lacrime che aveva in corpo. Il fianco schiacciato contro il pavimento dà un po' fastidio, ma non ha intenzione di muoversi, così come Akutagawa non ha intenzione di parlare.

Nessuno dei due si muove, quando la porta di apre. Atsushi non ha bisogno di vedere chi è la persona alla porta. Sa chi è. Lo sa perché il cuore di Akutagawa ha perso un battito e perché c'è solo una persona in questo mondo che potrebbe avergli chiesto di portarlo qui e assicurarsi che non andasse via.

Atsushi guarda la parete bianca. Sbatte piano le palpebre. Ha finito tutte le lacrime, non c'è pericolo che scoppi a piangere una seconda volta, anche perché non c'è più motivo per farlo. Abbassa un po' il mento e, se avesse il permesso di farlo, stringerebbe il corpo di Akutagawa come se fosse un peluche.

Dazai-san si inginocchia accanto a loro due e muove la ciocca di capelli di Atsushi, per coprire l'occhio e lo zigomo. “Hai fatto un buon lavoro" dice, ma né Atsushi né Akutagawa sa con chi si sta congratulando. "L'ultimo treno è già partito."





[In days gone by I never repented of my acts. I was sorry always only for what I didn’t do.]

“Ragazzino" lo chiama Kunikida-san. Ha un tono irritato. Forse perché Atsushi è ormai al suo secondo piatto di curry e ha capito che ha una voglia matta di ordinarne un terzo. "Togli il cappuccio e gli occhiali."

Atsushi sbatte le palpebre. Tira su lo sguardo, per vedere Kunikida-san che ha un'espressione seria sul viso. Atsushi ha saltato due giorni di lavoro. Quello di ieri, nascosto in un'appartamento che sa di dover lasciare il prima possibile, e oggi, trascinato fuori dalle orecchie da Kunikida-san che lo ha portato a mangiare. Sono due giorni che Atsushi non mangiava un pasto come si deve. Senza mangiare, non può nemmeno prendere le pillole per il dolore, quindi è rimasto accucciato in un angolo senza nemmeno la forza per cercare un futon su cui sdraiarsi. È grato a Kunikida-san per il pasto. No, non ha intenzione di togliersi gli occhiali da sole o mettere giù il cappuccio. Quindi si concentra di nuovo sulla sua ciotola di riso e ricomincia a mangiare.

Kunikida-san non è conosciuto per la sua pazienza. Assottiglia lo sguardo e posa i gomiti sul tavolo, per guardare con più intensità e attenzione Atsushi, che si passa la manica della maglietta sul lato della bocca. Si vergogna di aver fatto un gesto del genere, e sa che non ha nemmeno un posto per portare a lavare i suoi vestiti (bianchi). Dovrebbe fare più attenzione.

“Ti devo accompagnare a prendere le tue cose?” gli chiede Kunikida-san, con mezzo sospiro.

Atsushi ci pensa su. Le sue cose. I libri di Stevenson. I suoi tesori perduti. Atsushi inclina un po’ la testa, forzando un sorriso. “Ho già tutto” risponde. Se c’è una battuta che soltanto gli orfani possono capire è come riconoscere qualcuno senza famiglia. Tutto quello che hanno, o che avranno mai, entra in una busta di plastica, che trascinano da una parte all’altra del mondo. Perché tutto quello che appartiene a loro, appartiene alle persone a cui sono state affidate. Atsushi ha rubato uno zainetto, per non doversi muovere da una parte all’altra della città con una busta di plastica al polso. Ci sono cose che ha lasciato all’orfanotrofio perché gliele hanno tolte, ma quelle sono le perdite in un gioco che conosceva bene. “Non ho lasciato niente.” Almeno non lo ha fatto perché voleva.

Kunikida-san unisce le mani sul tavolo. Atsushi non vuole pensare troppo e muove il cucchiaio per il curry sul piatto bianco, che ha lasciato pulito. “Devi farti controllare da Yosano-sensei” dice Kunikida-san. Ha di nuovo un tono duro. “Gli fai vedere quell’occhio. Gli fai controllare le costole. Non ti chiedo di fotografare i lividi perché immagino che…” Kunikida-san non finisce la frase. Si limita a scuotere la testa e a lasciare che un piccolo sospiro esca dalle sue labbra. “Per i prossimi giorni -so che se ti dicessi di riposare non lo faresti, quindi voglio che vieni all’agenzia e il mio maestro ha chiesto che i giorni di convalescenza voi li passiate insieme. Vi occuperete della tua transizione dall’orfanotrofio a qui. Fukuzawa-sensei sarà il tuo garante, tutore, datore di lavoro, chiamalo come vuoi.” Prende un fazzoletto pulito e lo passa ad Atsushi.

“Devo andare a scuola per informare loro che non frequenterò queste ultime due settimane” pensa ad alta voce. Prende il fazzoletto dalle mani di Kunikida-san e lo ringrazia, con un cenno della testa. A questo punto, non ha intenzione di tornare all’orfanotrofio. Non vuole nemmeno tornare a scuola da solo. Ha già diciotto anni, nessuno può costringerlo a tornare all’orfanotrofio, anche se non è del tutto maggiorenne. Ma non si sa mai. Se avesse qualcuno accanto, si sentirebbe più tranquillo. “Ci posso andare con Fukuzawa-san?”

Kunikida-san ruota di nuovo gli occhi. Se continua a farlo, prima o poi, gli occhi potrebbero uscire fuori dalle orbite, dal tanto ruotare.

“Non -io non ho fatto assenze o ritardi, fino a ora” lo assicura Atsushi, tirandosi un po’ in avanti. Ha anche alzato un po’ la voce e ora sente le orecchie diventargli rosse per la vergogna. Kunikida-san non commenta questo suo comportamento. Rimane a fissarlo. Atsushi sente che questo è peggio di un qualsiasi altro rimprovero. “Non pensavo di farne.”

“Pensavi di andare a scuola con la faccia ridotta così?” gli chiede Kunikida-san.

Sembra una domanda a trabocchetto.

Atsushi si morde l’interno delle guance. Non può fingere che questa sia la prima volta che lo colpiscono in faccia così forte da fargli venire un occhio nero, o fargli gonfiare uno zigomo, a questo punto non pensa che Kunikida-san gli possa credere. È anche vero, però, che se le scuole coi gradi più bassi erano coordinate dal personale dell’orfanotrofio e quindi quando era più piccolo era più facile trovarlo in condizioni pessime, visto che Atsushi si era trovato un lavoro ed era stato ammesso in un liceo al di fuori dell’orfanotrofio, erano stati più attenti a non lasciare segni visibili di calci e pugni. Erano anni che il suo viso non era conciato in questo modo, motivo per cui si chiede se si era un po’ rammollito e se per questo adesso non riesce a sopportare il dolore che i graffi e i lividi portano con loro. Anche se non avessero avuto questa accortezza, però, sarebbero state poche le persone che gli avrebbero fatto domande. Queste, dalle loro parti, sono cose normali. Succedono a tutti. Atsushi non se la sente di dire una cosa del genere a Kunikida-san, però, motivo per cui tiene lo sguardo basso, unisce le mani sulle cosce e decide di non rispondere.

Kunikida-san non sembra proprio sapere che cosa fare, in situazioni del genere. E Atsushi non si aspettava certo che sapesse cosa fare. Per quanto voglia far finta di esserlo, non sembra un adulto completo, ancora, non sembra quel tipo di persona che conosce tutti i lati del mondo. “È per questo che nei prossimi giorni starai con Fukuzawa-sensei" borbotta, prendendo qualcosa dal suo quaderno. "Anche se dici che hai preso tutto dalla tua vecchia casa, hai anche faccende da sistemare e lo puoi fare solo con lui. Questa…" Tira fuori una carta di debito nera. La fa strisciare sul tavolo verso Atsushi. "... è la tua nuova carta. Basta coi contanti, ne avevamo già parlato. Caricheremo qui il tuo stipendio, mensilmente. Hai già parlato del tuo aumento con Fukuzawa-san, d'ora in poi non andrai da Tanizaki-san a prendere lo stipendio. Se ti derubano, basterà bloccare la carta e i soldi non verranno persi."

Atsushi prende la carta in mano e la gira tra le dita. Non ha un posto in cui metterla, quindi si limita a guardare Kunikida-san. “Mi dispiace per il disturbo" riesce a dire. Sarebbe strano ora infilarsela in tasca e Atsushi non si è portato lo zainetto di Hello Kitty. Deve muoversi quando Kunikida-san non lo sta guardando. "Non volevo creare problemi."

“Pensa piuttosto a come renderti utile.” Kunikida-san scuote la testa. “Almeno sapremo che tutto questo disastro ne è valsa la pena.”

“Mi dispiace" ripete a bassa voce Atsushi. E gli dispiace davvero. Gli dispiace così tanto che non ha nemmeno voglia di un terzo piatto di curry.

“Ho sentito che vuoi pagare l'affitto dell'appartamento.”

Atsushi annuisce piano. “Appena sarà possibile, vorrei ripagare per affitto, luce e...”

Kunikida-san scuote la testa. “Puoi anche farlo, ma non è necessario. Quelli sono gli appartamenti adibiti per il personale dell'agenzia. Pensala come se tu avessi già pagato l'affitto lavorando per Fukuzawa-sensei. Devi pagare il condominio e la luce, nient'altro. Puoi iniziarlo a fare dal prossimo mese. Ah. E puoi portare tutti i gatti che vuoi. Fukuzawa-sensei mi ha detto di sottolineare questo fatto.” Kunikida-san tamburella col dito. “Solo una cosa è importante.”

Atsushi tira le mani sotto il tavolo, giocherellando con la carta di debito. Non ne aveva mai toccata una. È più piccola di quello che pensava. Si chiede quanta forza ci dovrebbe mettere per spezzarla. Annuisce verso Kunikida-san.

“Ho avuto anche io diciotto anni. So che cosa vuol dire avere il tuo… ragazzetto… il tuo ragazzetto e penserai che avere un posto tuo è un buon -che quell'appartamento sia un buon posto per incontrarsi. Certo, sì, noi in ufficio conosciamo Akutagawa-kun e sappiamo che è un br-... beh, è di sicuro un ragazzo, e queste sono scelte che puoi fare solo tu, certo, nessuno ti andrà contro, mai. Solo -vorrei che portassi rispetto al posto in cui stai dormendo. Capisci quello che ti voglio dire?”

Atsushi assottiglia lo sguardo. Ha detto ragazzetto. Si gratta il polso con una punta di irritazione. “Solo che io e Akutagawa non stiamo insieme" gli risponde, alzando lo sguardo verso di lui. Ha la vista offuscata dagli occhiali da sole, verissimo, ma è una cosa buona che adesso Kunikida-san non veda lo sguardo che indossa. Atsushi sente che non è gentile, anche se non lo può dire con certezza. Decide di guardare da un'altra parte, posando il mento sul palmo della mano. "Akutagawa lo voglio il più lontano possibile dal posto in cui dormo. Quindi -in realtà non ho capito, ma non c'è nessun problema. Akutagawa non metterà più piede lì."

Kunikida-san alza un sopracciglio. Non ha preso niente da mangiare per sé. Guarda il suo quaderno, forse alla ricerca di qualcosa che potrebbe o dovrebbe dire in situazioni come queste. “Non che siano affari miei.” Tamburella di nuovo il dito contro il tavolo. “Vuoi un altro piatto?”

Kunikida-san è una brava persona.

 




Atsushi apre la porta dell'appartamento per entrare nello stesso momento in cui Akutagawa sta aprendo la porta dell'appartamento per uscire. Ci sono molte domande da fare, in questo momento. Ridammi la chiave di casa. È inquietante che tu sia qui. Sono appena tornato, non ho voglia di litigare. Atsushi opta per: “Kunikida-san non ti vuole qui.” Si toglie gli occhiali da sole e li posa sul mobiletto delle scarpe, per poi saltellare su un piede solo. Akutagawa gli porge un braccio per appoggiarsi e Atsushi lo prende senza nemmeno pensarci, per togliersi le scarpe. “Nel caso poi ti vedessero i vicini.”

Akutagawa aggrotta le sopracciglia. “Quali vicini?” gli chiede. Si tira indietro, lasciando Atsushi su un piede e con una sola scarpa. Deve essersi reso conto di stargli facendo un favore. “Beh, comunque se non mi vuole qui…” Cerca di superare Atsushi, per uscire dall’appartamento.

“Beh, ma se ora ti vedessero i vicini?” chiede Atsushi a sua volta, fermandolo sulla porta. “Rimani, no? Poi si può sapere che cosa ci fai qui e dimmi che hai delle chiavi tue e non che hai rotto una qualche finestra per entrare.”

Akutagawa inclina un po’ la testa, si guarda intorno. Deve star pensando alla risposta giusta da dare. Atsushi non ha molta fretta. Si sfila la giacca, sistema la borsa che Naomi-san gli ha regalato per metterci dentro la carta di debito e i suoi documenti d’identità e si stira la schiena. Non sente nessun vento freddo dentro casa, nessuno spiffero. Quindi se anche Akutagawa avesse rotto una finestra, per lo meno poi ha fatto in modo di coprire tutto quanto. “Ho forzato la serratura” dice alla fine Akutagawa.

Atsushi arriccia il naso. “No.” Scuote la testa, muove le mani in aria. “No, lo so che non è vero.” Chiude la porta dietro le spalle di Akutagawa ed entra in casa. Ha ancora un odore nuovo, questo appartamento. Sa un po’ di polvere, un po’ di deodorante per ambienti al pino (dall’odore crede che lo abbia scelto Kunikida-san, ma non ne può essere del tutto sicuro) e un po’ di riso bollito. C’è poco di Atsushi qui. “Voglio la tua copia delle chiavi. È davvero troppo inquietante che puoi entrare in casa mia quando non ci sono.”

Sul tavolino in mezzo al monolocale, c’è un vassoio di carta pieno di dolci, coperto da una plastica trasparente.

Akutagawa rimane in piedi vicino alla porta, con le braccia incrociate. Deve star pensando a cosa fare, mentre Atsushi si guarda intorno. “Hai portato i dolci?” Atsushi cammina verso il tavolino, inginocchiandosi davanti ai dolci con una certa eccitazione. Ci sono due mochi e quattro dango bocchan. Atsushi si porta una mano sulle labbra e chiude gli occhi, pregustando il sapore in bocca.

“No. Erano già qui.”

Atsushi arriccia le labbra. Sfrega le mani contro i pantaloni e sospira. “Ranpo-san li avrebbe già mangiati se li avesse portati lui, o qualcuno dell’agenzia. Se ci fossero parti con zucchero o vuote direi che me le hanno portate loro.” Alza un sopracciglio e poi scrolla le spalle. Beh. Non si aspetta che Akutagawa ammetta di aver fatto qualcosa di gentile per lui. Atsushi non va matto per i dolci, ma non dice mai no quando gliene offrono. “Non ricordo di averne mai mangiati senza fretta. Mi rimanevano incastrati nella gola, per questo. Sai, no?, quella cosa del -quando ti mandano a prendere del pane e puoi prenderne uno in più, magari, e mangiartelo da solo, no?, e però quel pezzo di pane di solito non è così buono, perché te lo devi mangiare in fretta. Sai, la sensazione? Del pezzo di pane in più, del mangiarlo con avidità senza che nessuno ti possa vedere, ma la cosa che -beh, alla fine non ti godi il sapore. Non ti sazia nemmeno.” Atsushi punta i gomiti sul tavolino. Abbassa lo sguardo. Sorride. “Questo tipo di cose.”

Akutagawa si toglie le scarpe. Inizia a sbottonarsi la giacca. Piano piano. Lui non sembra mai avere fretta. “Ho sempre diviso il pezzo in più con Gin” gli risponde.

Atsushi posa il mento su una mano a coppa. Tiene la testa girata verso di lui e gli scappa un sorriso. Beh, sì, certo che Akutagawa non ha mai mangiato un pezzo di pane in più da solo. “Sei tutto un fratello maggiore tu” ride. Con la mano libera, giocherella con la plastica che copre i dolci. Si chiede come possono essere dei dolci che non sono mangiati di fretta per non farseli rubare. Che Akutagawa lo voglia ammettere oppure no, questi sono dolci di Atsushi e di nessun altro. Nessuno può venire a prenderli e nessuno glieli può togliere da sotto i denti. È capitato, all’orfanotrofio, che Atsushi fosse stato spinto a vomitare i dolci che aveva mangiato. Ricorda la sensazione di bruciore nella gola, le lacrime che gli uscivano dagli occhi e l’odore sulle sue mani, che non voleva andare via. “I dolci sono peccato” si lascia sfuggire.

Akutagawa, che si sta sedendo vicino a lui, gli lancia un’occhiata confusa e Atsushi muove la mano, da sotto il mento a dietro il collo, mentre cerca di ridere ancora.

“Era una cosa che diceva il direttore dell’orfanotrofio” dice, fingendo di non star dando alle sue parole nessun peso. “C’erano tanti motivi per cui i dolci erano proibiti. Per i dolci, anche quelli più insignificanti come le caramelle, si litigava e molte volte ci picchiavamo anche solo per una caramella consumata. Pensa te. Una cosa così piccola che poteva portare tanta zizzania. Quindi il direttore e i maestri e i preti continuavano a ripetere che i dolci erano una tentazione del diavolo che si insinuava in noi per creare il caos. I dolci che facevano cadere nei peccati come la gola e l’avidità. E ti facevano mentire. Ah e, certo, c’era anche la questione del…” Atsushi muove la mano davanti al viso. Che cose strane da ricordare in momenti come questo. “Lascia stare.”

Akutagawa non risponde. Lo fissa, ma non risponde. Di solito è difficile farlo stare zitto e adesso vuole far diventare matto Atsushi dandogli il trattamento del silenzio. Forse era davvero meglio lasciarlo andare via quando si sono visti. Atsushi decide di aprire i dolci, a questo punto. Non gli interessa avere una risposta da Akutagawa, ora che ci pensa bene. Aveva anche assicurato a Kunikida-san che non sarebbe più entrato in questa casa. Eh. Forse doveva davvero davvero cacciarlo quando ne aveva la possibilità.

Akutagawa allunga la mano per far girare la testa di Atsushi verso di lui. Ha uno sguardo concentrato. Gli studia l’occhio, che è ancora rosso, ci vorranno giorni perché torni alla normalità, gli ha detto Yosano-sensei. Per il livido sullo zigomo, invece, è bastato chiedere aiuto a Naomi-san, per non dover tenere il cappuccio in testa. Ha coperto il livido con un colpo di pennello, per così dire. E adesso non gli fa male, anche se Akutagawa tocca le parti che si stanno rimarginando, perché è stato riempito di antidolorifici. È già tanto se ha coscienza di sé, in questo momento.

“I preti pazzi del quartiere ripetevano sempre che i dolci sono degli afrodisiaci” completa il pensiero di qualche secondo prima Akutagawa. Lo dice senza scoppiare a ridere, come se fosse una cosa seria. Proprio come i preti dell’orfanotrofio ripetevano questo vecchio mantra, mentre lo punivano per aver rubato delle caramelle, che Atsushi non aveva nemmeno rubato. Akutagawa scuote la testa.

Atsushi alza un lato delle labbra. “Ah, quindi è una cosa che dicono tutti i preti” ride. Si muove, per liberarsi dalla mano di Akutagawa sul viso. “Beh, non so nemmeno se questa cosa ha una base scientifica. E noi non sapevamo nemmeno di che cosa stessero parlando, se devo essere sincero. Ma continuavano a ripeterci di non mangiare dolci e lo sanno tutti che questo è il modo per rendere qualcosa desiderabile agli occhi dei bambini. Il gusto del proibito.” Sospira. “Beh, faccio il tè e li mangiamo?”

Akutagawa prende un dango tra le dita. “Vogliamo provare?”

“Cosa?”

“Se lo zucchero ha effetti afrodisiaci.”

Passa qualche secondo. Passa più di qualche secondo e nessuno dei due sembra volersi muovere. Akutagawa ha fatto un cenno con la testa, per far capire ad Atsushi che sta aspettando una risposta e la testa di Atsushi è troppo impegnata a chiedersi come fa Akutagawa a essere così bravo a portare la conversazioni su questi porti. Cioè, no, davvero. Un vero maestro della conversazione e avrà detto, sì e no, tre frasi nell’ultima mezz’ora. Complimenti. Seduttore. Da chi ha imparato? Dazai-san, forse? Ha insegnato queste tecniche a sua sorella? Atsushi, nella sua testa, gli sta facendo una ovazione. Applaude con tutta la forza che ha in mente e, dalle labbra gli esce un: “Già. Per la scienza.” E non ha nemmeno il tempo di finire la frase che Akutagawa gli infila una delle polpette in bocca, con la grazia di un infermiere da un film horror.

Atsushi prova a masticare, mentre Akutagawa gli bacia lo zigomo sano, prendendogli la testa tra le mani. Atsushi prova a ingoiare, ma sente che il boccone che Akutagawa gli ha infilato in bocca è davvero troppo grande e si ritrova a chiudere gli occhi e tossire. Akutagawa si tira indietro e Atsushi continua a tossire e tossire. Sente proprio un pezzo che gli è andato di traverso e il naso che gli brucia.

Akutagawa gli batte una mano sulla schiena, per farlo tossire con più forza. Un pezzo della polpetta al tè verde esce dal naso di Atsushi e gli trema il labbro a guardarlo perché questo è davvero… “Non me lo sono goduto per niente.” Si inumidisce le labbra e scuote un po’ la testa. Questi sono i suoi primi dolci fuori dall’orfanotrofio. Nessuno verrà a prenderlo o a tirarlo sul pavimento per punirlo. Atsushi sbatte le palpebre. Questi sono i suoi dolci. “Akutagawa. Senti. Vorrei godermeli questi dolci. Scusa.”

Akutagawa si siede di nuovo vicino a lui, con un tonfo. Atsushi lo vede ruotare gli occhi, ma non si lamenta. “Dammene uno. Non mangiare da solo da egoista.”

Atsushi sorride. “Tu puoi mangiare solo un mochi.”

Akutagawa prende il suo dango bocchan e fulmina con lo sguardo Atsushi, che non riesce a smettere di ridere.

“Ah, sì, volevo chiederti. Tu sei bravo a scegliere vestiti, giusto?”

 




Fukuzawa-san, il presidente, si muove con grande eleganza, accompagnando Atsushi fuori dal suo vecchio liceo. Ha parlato con il direttore scolastico e anche col direttore dell’orfanotrofio, ha accompagnato Atsushi a firmare davvero tanti documenti e ha ringraziato i professori per essersi presi cura di Atsushi fino a quel momento. La scuola finirà tra una settimana e mezza, quindi questa è pura formalità. Atsushi ha in mano il suo diploma, ben stretto tra le mani e indossa per l’ultima volta la sua uniforme nera, sopra una felpa bianca che gli ha prestato Tanizaki-kun, perché secondo lui Atsushi deve smettere di vestirsi con felpe di Winnie the Pooh e andare in giro con zainetti di Hello Kitty.

Atsushi non ha detto una parola rivolta al presidente, in tutta la mattinata. Gli è stato al fianco, con la schiena dritta, cercando di dimenticare come Tanizaki-kun gli abbia detto che passare il tempo con Fukuzawa-san è un po’ come passare il tempo con il professore durante una gita scolastica. Lo ha detto per dargli fastidio, prenderlo un po’ in giro, ma le sue parole sono rimaste impresse nella testa di Atsushi, che sente di star tremando per la paura di aver fatto, o di fare, un passo falso.

Ha lasciato la busta coi suoi libri in macchina. Fukuzawa-san ha distratto i preti, mentre Atsushi era entrato nella sua vecchia camera e aveva cercato nei suoi nascondigli i libri che ha comprato in questi anni. Sono, per la maggior parte, delle raccolte di favole, e i suoi due libri preferiti di Stevenson. L’isola del tesoro. Lo strano caso del Dottor Jekyll e del signor Hyde. I libri sono avvolti in vecchi stracci, li ha portati fuori come se fossero dei vestiti sporchi. E non sa come ringraziare Fukuzawa-san per il favore che gli ha fatto, uno dei tanti. Pensava che fossero persi per sempre e un po’ si era arreso al pensiero di aver perso anche quelli. E ora ha i suoi libri, il suo diploma, un appartamento, un lavoro… Kunikida-san ha ragione e Atsushi deve iniziare a pensare a come rendersi utile.

“Non hai degli amici da salutare?” gli chiede Fukuzawa-san. Cammina a un passo lento. Guarda gli studenti del liceo, alla ricerca di qualcuno che potrebbe aver riconosciuto Atsushi. “Qualcuno che conosci?”

Atsushi si guarda intorno. Ha passato gli ultimi diciotto anni da solo. No, non ha nessuno da salutare e nessuno che potesse chiamare amico. Prima di arrivare all’agenzia, Atsushi parlava a malapena. Girava voce, trai suoi compagni di classe, che non avesse una voce. Oppure che fosse stupido e che le parole per lui fossero più difficili da pronunciare. I suoi voti a scuola erano buoni, ma questo non fermava i suoi compagni da prenderlo in giro ogni volta che apriva bocca. E nessuno voleva nemmeno avvicinarsi al ragazzo con la divisa smessa. Atsushi passava la maggior parte del tempo in biblioteca, nascosto tra gli scaffali. Non può dire queste cose a Fukuzawa-san. Anche perché sarebbe inutile. Non si può cambiare il passato.

Atsushi scrolla le spalle. Ci deve pensare bene, a trovare un posto a cui dire addio. Ci deve essere almeno un angolo di questa campagna infernale in cui si è sentito… “Non c’è proprio un posto” dice, portandosi una mano sul mento. “Non c’è proprio una persona.”

“Tra tutte queste persone, non hai legato con nessuno?”

Suona un po’ come un rimprovero. Atsushi abbassa lo sguardo. Non sa che rispondere, perché venire rimproverato per essere stato incapace di fare amicizia con qualcuno è un po’ come venire rimproverato per aver letto troppi libri invece di essere andato a dormire. Sa che una persona come lui ha bisogno di persone intorno. Si è dovuto appoggiare a Fukuzawa-san, a Kunikida-san, a Yosano-san per potersi trovare in un posto che adesso può definire come tranquillo e sa che l’essere umano ha bisogno degli altri per continuare a sopravvivere. La sua incapacità di trovare una singola persona che lo trovasse non pietoso ma almeno simpatico, qualcuno con cui scambiare un paio di parole durante le ricreazioni, dice molto di lui.

La verità è che, in Atsushi, c’è ben poco da amare e ben poco con cui simpatizzare. Motivo per cui, per lui, è andato bene vivere la sua vita da liceale da solo. Ma ora che si ritrova davanti a una persona che in lui sta investendo, che gli sta dando un’opportunità… Le orecchie di Atsushi diventano calde, mentre guarda le sue scarpe e continuano a camminare.

Fukuzawa-san posa una mano sulla testa di Atsushi. È un gesto veloce. Come la posa, la ritira. Aspetta che Atsushi alzi lo sguardo. Il suo occhio non è ancora guarito. Da questa mattina, si riempie di lacrime, senza che Atsushi capisca il perché. “Mi ero chiesto perché non hai cercato aiuto prima, Atsushi-kun” dice Fukuzawa-san, appena escono dal portone della scuola. “Perché siamo dovuti arrivare a una situazione simile per fare in modo di tirarti fuori da questo posto. Quindi ora che so che prima di arrivare a Yokohama non hai avuto nessuno con cui parlare di quello che ti succedeva, non posso che dire che era qualcosa che avrei dovuto evitarti. Questo isolamento. Nonostante questo è importante che tu sappia che se anche hai dimostrato la tua forza, sopportando per questo lungo periodo senza lamentarti, saresti stato altrettanto forte se avessi chiesto aiuto.”

Atsushi sente di non star capendo. “Ho portato solo problemi” borbotta.

Fukuzawa-san guarda rima a destra e poi a sinistra, per poi continuare a camminare per la strada di campagna, come se lì ci fosse sempre stato. Devono scendere la collina, per poi camminare verso il canale che gli agricoltori usano per irrigare i campi e lì la macchina che li ha portati fino a qui li riporterà a Yokohama. A casa. Atsushi non è molto sicuro di quello che deve fare, ma pensa sia una cosa sicura seguire i passi del presidente.

“Ti trovi bene nell’appartamento?”

Atsushi fa un saltello per tornare a camminare al suo fianco. “Sì.”

“E ti trovi bene nell’agenzia?”

Atsushi sorride. “Sì.”

“Anche i tuoi colleghi si trovano bene con te.” Fukuzawa-san non cambia espressione. Continua a camminare. “E io so che tu fai di tutto per poter fare del tuo meglio. Mi basta questo. Ho fondato l’agenzia, anni fa, per fare in modo che Ranpo-kun potesse usare la sua mente a fin di bene. Poi vi siete uniti voi, uno dopo l’altro. E non sei il primo che chiede scusa per azioni già compiute, problemi già portati. Quindi ti risponderò nello stesso modo in cui ho risposto a ognuno di voi.”

Atsushi alza di nuovo lo sguardo per incontrare un sorriso da parte del presidente. Non lo aveva mai visto sorridere. Gli tremano un po’ le dita delle mani, perché non ha mai visto un sorriso del genere. E se ha mai visto un sorriso del genere, non lo ha visto rivolto a lui. È un sorriso così dolce, che gli fa venire voglia di piangere.

Fukuzawa-san posa una mano sulla spalla di Atsushi e gli dice: “Portami tutti i problemi che vuoi. Li risolveremo insieme.”

Atsushi abbassa lo sguardo, di nuovo. Le lacrime adesso gli salgono su tutt’e due gli occhi e cadono sulla strada.

 




“A me, quell’Akutagawa comunque non piace” dice Lucy. “Quindi meno male che non è venuto.”

Atsushi cammina portando le borse di carta in cui ha piegato i suoi nuovi vestiti, soprappensiero. Ci sono tante persone intorno a lui e deve stare attento a non urtarle, motivo per cui Lucy lo ha preso sottobraccio e ha iniziato a guidarlo per la strada pedonale. Si chiede come mai. Cioè, sì, nel senso. Si chiede perché, a Lucy, Akutagawa non piace.

Atsushi pensava nemmeno che loro due si fossero mai incontrati, non pensava che uno dei due potesse avere un’opinione sull’altro, a dirla tutta. Non le dà nemmeno torto, poi. Akutagawa è quel tipo di persona che quando la conosci ti viene voglia di prenderla a calci e poi a pugni e gridarle di stare zitto, per cinque secondi, stare solo in silenzio. Forse Akutagawa, quando è passato per il bar in cui lavora Lucy, deve averle detto qualcosa di scortese mentre Atsushi era in bagno. Forse hanno litigato. O forse sono quei tipi di persone che non vanno d’accordo e basta e, anche lavorandoci sopra, anche facendoli conoscere, smussando un po’ i loro caratteri, è impossibile che si possano abituare l’uno all’altra.

Lucy continua a camminare, con un passo allegro. In mezzo al quartiere commerciale, sembra essere diventata un tutt’uno con l’ambiente e, se non fosse per i suoi capelli rossi, Atsushi direbbe con certezza che è cresciuta in questa città. Nella sua gonna lunga, i capelli intrecciati intorno alla testa e il suo grande sorriso, Lucy ama spendere soldi e avere tante cose colorate intorno a lei. È una delle cose che ti rimangono se sei cresciuto in posti come gli orfanotrofi. Non avevi tante cose, da piccolo. Il cibo era contato, il pane sempre sbocconcellato, e mancavano anche cose più superflue come dei giocattoli, che sapevi che non erano tuoi. Il non avere niente ti porta, una volta cresciuto, a volere tutto. L’uniforme dell’orfanotrofio di Lucy era un pantalone e una maglietta grigia, non le lasciavano portare i capelli lunghi. Adesso acconcia i capelli come vuole lei, indossa tutti i colori che le piacciono, compra tantissimi giocattoli con cui poi non gioca, come se fosse una bambina viziata. Spende i suoi soldi per gli amici che non ha avuto da piccola. Non ne esci più. Quei posti sono luoghi che ti porti dietro, in un modo o nell'altro.

Ognuno ha il suo modo per sopravvivere.

“Avete mai parlato, te e Akutagawa?” le chiede, inclinando la testa. “Non lo sapevo.”

“Non ho mai parlato con lui” risponde Lucy. Stringe la mano intorno al braccio di Atsushi. “Non mi interessa parlare con lui. Ho visto quello che dovevo vedere. E sentito quello che dovevo sentire. Ehi, Atsushi. Quella ragazzina, Kyoka. Non le avevi detto che a te piacciono le persone gentili?”

Atsushi scrolla le spalle. “Beh, sì.”

“Ci sono molte persone gentili, quindi non capisco come tu sia finito con quell’Akutagawa.” Ah. Quindi è questo il problema. Lucy sembra essere un po’ irritata da questa faccenda. Sospira e si sistema una treccia sulla spalla, mentre camminano. “Quel Dazai, il tuo collega, mi ha detto: ah, non ti devi preoccupare di queste cose, perché, sai?, al nostro Atsushi-kun queste cose romantiche non interessano.” Lucy imita molto male le voci delle persone, ma non è il momento di farglielo notare. “E io ci credo che a te le cose romantiche non interessano. O almeno ci credevo. Ma sembra che tu abbia una specie di relazione con questo Akutagawa. E quindi mi sono messa a guardarlo e -a parte che hai dei gusti che lasciano a desiderare, fattelo dire. Lui è proprio brutto. Potevi scegliere qualcuno di carino, non pensi? Almeno carino. Ma poi c’è questa cosa che ha… questo -questa cosa che… non faceva che cercare Dazai.”

Atsushi ride. “Sì, è vero, è una cosa che fa.”

“Ma se in quella stanza ci sei tu, dovrebbe guardare solo te” ribatte Lucy, girandosi verso di lui. “O almeno dovrebbe guardarti. Dovrebbe trattarti bene, dovrebbe trattarti come la cosa più preziosa in questo mondo perché… santo cielo, Atsushi, non ti posso lasciare a un damerino che non sa nemmeno quante persone gli stanno lasciando tra le mani una delle cose più preziose della loro vita, non pensi?”

Atsushi sbatte piano le palpebre. Lucy distoglie lo sguardo. Il viso inizia a diventarle rosso. Le orecchie sembrano prendere fuoco.

“Non io” continua. “Nel senso. Io non gli sto lasciando proprio niente e nessuno. Di te non m’importa niente, eh, quindi puoi fare quello che vuoi io dico per -per quella ragazzina, Kyoka, tu sei uno importante e poi… uhm, magari pure per… per…” La sua voce si affievolisce e Lucy rimane in silenzio. Il suo passo è meno allegro, di sicuro si sente anche in imbarazzo.

“Sai che anche per me tu sei un’amica preziosa.” Atsushi continua a camminare e la trascina con lui. Non le lascia andare il braccio. Lucy è stata una delle sue prime amiche qui a Yokohama. Qualcuno che gli ha mostrato che all’orfanotrofio si sopravvive, che prima o poi le persone si dimenticano che sei orfano, che se ti appoggi alle persone giuste, puoi formarti una nuova vita. Non sarà mai abbastanza grato a Lucy, per tutto questo. “E nessuno sta lasciando un bel niente ad Akutagawa, perché noi non abbiamo nessuna relazione. Sta iniziando a essere stancante che tutti pensano che stiamo insieme. Non stiamo insieme.”

Lucy sospira. Atsushi non sa nemmeno dove stanno andando, loro camminano e basta. “È che, sai?, quando lui è al bar e tu sei al bar, io lo vedo.” Posa la tempia sul braccio di Atsushi. “Che tu guardi solo lui.”

Atsushi si gira verso Lucy, di scatto. Lei non sembra essere scossa da questo gesto.

“Ci sono tante persone intorno a te, che sono gentili, Atsushi. Davvero tante che sono gentili e che ti vogliono bene e che ti guardano adesso e vedono quell’occhio e quello zigomo e la fascia delle costole e vorrebbero solo starti accanto ed essere -vorrebbero averti convinto loro a rimanere, quando sei rimasto in quell’appartamento. Ce ne sono così tante, che ti adorano, forse non in modo romantico, ma sono sempre lì e tu scegli di innamorarti dell’unica persona che non rimane lì per te. Che non sta lì per te. Che guarda una persona che non sei te. Mi chiedo che merda ti hanno messo in testa. Perché hai scelto una persona che non sceglierà te. E tu ridi.” Lucy fa una smorfia. “Provi amore per una persona che non ne può provare, perché è ossessionata da un’altra persona e, da idiota, ridi.”

Atsushi arriccia le labbra.

Beh.

A questo non sa proprio che cosa dovrebbe rispondere.
 



Atsushi sistema i documenti da portare nell'ufficio di Fukuzawa-san tra le mani. La cartella di Kunikida-san, colorata di un verde perfetto nello spettro del verde, non ha nessuna macchia ed è quasi inutile controllarlo, al contrario delle altre cartelle. Il rapporto di Dazai-san, invece, non è stato nemmeno messo in una cartella, glielo ha lasciato sulla scrivania, mentre grondava di sangue, seguito da Akutagawa che lo reggeva dalle spalle. Beh. Almeno questa volta Dazai-san ha una scusa per aver consegnato un rapporto incompleto, al contrario di Ranpo-san, che gli ha dato dei documenti sporchi di dolci e di macchie di cioccolato. Atsushi ha copiato il rapporto, lo ha corretto, completato, correndo dietro Ranpo-san da una parte all'altra, cercando di corromperlo con merendine, poi ha infilato il tutto in una cartella gialla.

Il giallo per Ranpo-san, il viola per Yosano-sensei, per Kunikida-san verde, invece. E da lì chi è stato reclutato da chi ha lo stesso colore. Quindi Atsushi è stato assegnato, come a Dazai-san, il colore verde, Tanizaki-kun viola, eccetera eccetera. Atsushi non se n'era mai reso conto, è stato il presidente a spiegarglielo, come gli ha spiegato che più che per avere prove concrete di non star andando contro la legge coi loro rapporti, li usa per sapere che cosa stanno facendo, quanto sono produttivi e se hanno bisogno di qualcosa. Prima di Kunikida-san, i rapporti si facevano a voce al presidente. Per Fukuzawa-san sarebbe ideale che ognuno di loro presentasse il proprio rapporto a lui in persona e che facessero riassunto a voce, ma viste le sue giornate impegnate è quasi impossibile fare una cosa del genere. Questo rende molto triste il presidente.

Atsushi non si era reso conto nemmeno di quanto fosse impegnato Fukuzawa-san. È quasi una settimana che è stato assegnato come suo assistente ed è quasi una settimana che non ha un momento libero. Ci sono pranzi di lavoro, riunioni con tante persone, lavori da smaltire, casi da accettare e casi da rifiutare, anche la scelta di a chi affidare un caso prende molto tempo e dà molti grattacapi, soprattutto perché Atsushi è fuori dai giochi e così anche Kenji-kun, preso dai suoi lavori in campagna. Loro due sono un ottimo supporto fisico, anche se mancano di esperienza, mentre molti membri dell'agenzia mancano di forza fisica e questo vuol dire mandarli in posti che sono possibilmente pericolosi per loro. E, okay, Dazai-san si ferisce a ogni missione, come se fosse un bambino, per motivi stupidissimi.

Atsushi non ha mai sentito Fukuzawa-san lamentarsi, ma, ora che passano molto tempo insieme, lo sente molto spesso sospirare.

Non vuole portargli più problemi di quanto abbia già fatto.

Si muove per il corridoio dell’agenzia e, mentre controlla di aver sistemato i rapporti nel modo giusto, di non aver confuso i colori, o le scritture oppure… Sbatte la spalla contro la spalla di -ah, di Akutagawa. Atsushi era pronto a chiedere scusa, ma a vedere quella faccia non riesce a non ruotare gli occhi. “Uhm.” Beh, ha comunque tantissimo da fare e non ha tempo per stare dietro a qualsiasi pensiero che loro due possono avere. “Ciao.” E cerca di riprendere a camminare, ma Akutagawa studia il suo viso, come ha fatto da una settimana a questa parte.

L’occhio di Atsushi si sta curando bene e così anche le costole. Adesso, di visibile, c’è solo un’ombra violacea sul viso e una sempre più piccola macchia rossa nella sclera in basso. Atsushi sospira, guardando da un’altra parte. Se ha finito, gli piacerebbe tornare a lavoro il prima possibile.

“Oi, Jinko” lo chiama Akutagawa, avvicinandoglisi.

Sì, beh, magari la prossima volta. Atsushi gira la testa prima che Akutagawa lo possa non-baciare. Davvero. Non è dell’umore. “Ho da fare” borbotta, correndo verso l’ufficio del presidente.

Non guarda nemmeno l’espressione di Akutagawa. Dovrebbe tornare in fretta in infermeria, comunque, Dazai-san potrebbe svegliarsi da un momento all’altro.




[Am I not a discordant string in the divine symphony?]


“Mi hanno detto che stai facendo venire le palle blu ad Akutagawa-kun.”

Atsushi ingoia l’acqua che stava bevendo e inizia a tossire, portandosi la mano sul petto. Ci mette un po’ per riprendersi. Tossisce per trenta secondi buoni, con le lacrime agli occhi, piegandosi un po’ in avanti sulla sedia, con le mani sulle labbra. Appena finisce, cerca di prendere un respiro profondo e Dazai-san lo guarda con un sorriso curioso, sbattendo un po’ le palpebre, come se non avesse detto niente di inappropriato.

Dazai-san aggrotta le sopracciglia, con un’espressione divertita, prima di aprire di nuovo bocca. “Stai facendo venire le palle blu ad Akutagawa-kun” ripete, alzando un dito. Ha ancora il braccio ingessato e Yosano-sensei ha detto che questa volta ha esagerato e che deve ricordarsi che non tutti hanno il corpo dei ragazzini dell’agenzia, che sembrano fatti di plastica. Dazai-san non ha neanche spiegato come è riuscito a conciarsi in questo modo, è solo una cosa che è successa.

Atsushi si schiarisce la gola e posa il bicchiere d’acqua sul mobiletto vicino al letto dell’infermeria e prende uno spicchio di mela che ha tagliato poco prima. “Si è lamentato con te?” gli chiede. Morde la mela e alza lo sguardo verso il soffitto. Si è trasferito a Yokohama due settimane e mezzo fa e ha iniziato a evitare Akutagawa più o meno una settimana fa, è anche vero che non hanno combinato niente da prima del suo trasferimento, perché -Atsushi posa una mano sulle costole. E quando non sentiva dolore, si era concentrato sui dolci. “Quanto è infantile” sbotta, scuotendo la testa. Certo che andava a lamentarsi da Dazai-san, da chi altri? Atsushi prende un altro spicchio di mela. “Devi mangiarli questi” dice. Ma se Dazai-san non vuole mangiare e lui si può mangiare tutta la mela non è davvero un problema.

Dazai-san si appoggia al cuscino. Non la smette di sorridere. Chiude gli occhi, piuttosto. “Non è venuto a lamentarsene. Tutti gli altri lo stanno facendo al posto suo. Dovrebbe essere contata come tua abilità speciale il rendere Akutagawa-kun più tranquillo con le tue capacità in camera da letto.”

Atsushi fa una smorfia di disgusto. È davvero a un passo dall’alzarsi e andarsene via. “Non è...”

“Le tue abilità sotto le lenzuola.”

“Dazai-san, dovresti davvero…”

“Sto parlando di voi due che fate…” Si porta una mano vicino alle labbra e continua a bassa voce. “...sesso.”

“Non penso sia legale che tu mi parli in questo modo” gli dice, incrociando le braccia. “E comunque, non è che Akutagawa non può andarsi a cercare qualcuno con cui sfogarsi. Lascerei questo ruolo anche subito, se questo volesse dire non vedere più la sua stupida faccia. Non è un accordo esclusivo.”

Dazai-san aggrotta le sopracciglia. Apre gli occhi, come se Atsushi avesse detto qualcosa di strano. “Non -voi due non avete un rapporto esclusivo?”

“Io e Akutagawa non abbiamo proprio un rapporto” mette in chiaro Atsushi. Apre una mano, senza rendersene conto, per fare cenno di fermarsi, anche se il palmo viene rivolto al pavimento. “Non capisco perché tutti continuano a ripeterlo, ma io e lui non stiamo insieme, non abbiamo nessun accordo esclusivo, proprio nessun accordo, se un giorno lui decidesse di prendere un aereo e andarsene in -in America, che ne so, senza dirmelo e scomparire, a me non farebbe né caldo né freddo. E se io decidessi di andarmene in Scozia a cercare le bozze di Stevenson, sarebbe lo stesso per lui.” Sbuffa, scuotendo la testa. “Lasciatemi respirare.”

Dazai-san non riesce a fermare il sorriso che gli si forma sulle labbra. Sembra anche troppo divertito dalla situazione. “Ah, davvero?” chiede ancora.

Atsushi ruota di nuovo gli occhi. Tutte le volte che parla con Dazai-san, Atsushi sente di capire perché Kunikida-san sembra essere sempre di cattivo umore. Dazai-san è difficile da sopportare, anche se gli vuoi molto bene.

Se c’è una cosa che Atsushi ha imparato, stando con le persone, è che è vero che l’affetto a volte non ha a che fare col piacere. Che le persone ti possono piacere ma non per questo vuoi loro bene e che le persone possono non piacerti sempre ma che il tuo affetto per loro è imperturbabile e solido in una parte del tuo corpo, pronto a lottare per loro.

Atsushi arriccia le labbra. Anche corpo e testa sono due cose diverse. Vorrebbe avere le idee un po’ più chiare e certo che anche a lui piace passare il tempo con Akutagawa, gli piace il suo tocco, è il motivo principale per cui sono arrivati a questa situazione, ma è anche vero che è così tanto confuso. Ognuno ha il suo modo per sopravvivere. Si rende conto che il suo è diverso da quello di Lucy o da quello di Dazai-san. È diverso e molto più problematico se ci pensa bene. Perché nel suo modo di sopravvivere, potrebbe star ferendo una persona -e quella persona non è Akutagawa.

“Ho finito il mio turno di stare qui con te” annuncia, alzandosi dalla sedia. “Il tempo non finiva più.”

“Più passa il tempo, più ti comporti come Kunikida-kun.”

Atsushi gli fa la linguaccia, posando la mano sul pomello della porta, per andarsene via.

 




Kyoka-chan ha lasciato andare la giacca di Atsushi solo dopo avergli strappato la promessa di venirla a prendere sabato e di andare a fare un giro sulle giostre insieme. Non è una bambina, ha voluto ricordare, ma comunque dovrebbero andare insieme alla ruota panoramica e Atsushi non dovrebbe scomparire così, non importa in che condizioni stia la sua faccia, non dovrebbe scomparire in questo modo. Atsushi si accarezza la nuca, guardando verso il basso. Si rende conto di averla fatta preoccupare, ma si rende anche conto che Kyoka-chan ha quattordici anni e non dovrebbe entrare in contatto con certe -certe cose. Se Atsushi si fosse presentato nello stato in cui si trovava due settimane fa, l’avrebbe solo fatta preoccupare.

Akutagawa sistema il kimono che Fukuzawa-san ha ordinato sul tavolo. Alza lo sguardo verso Atsushi, poi ruota gli occhi e inizia a piegarlo. È stato lui a mandare via Kyoka-chan indicando dei clienti. Ha anche detto: stare sempre in mezzo ai piedi non ti porterà niente di buono. E Kyoka-chan è arrossita dalla rabbia, per quelle parole, ha stretto i pugni, lanciato uno sguardo veloce ad Atsushi ed è andata alla porta, per salutare i nuovi clienti.

“Dovresti essere più gentile, con Kyoka-chan” dice Atsushi. Non gli piace essere stato mandato qui. Se avesse avuto meno dignità, sarebbe andato da Fukuzawa-san e gli avrebbe detto che avrebbe fatto tutto, tutto quanto, qualsiasi cosa avesse voluto, anche andare a pulire la postazione di Ranpo-san, se gli avesse permesso di non andare al negozio degli Izumi. Si asciuga il sudore dei palmi delle mani sul pantalone. Ma questo non solo sarebbe stato irresponsabile, sarebbe anche stato da ingrati. “Poi è colpa mia che l’ho fatta preoccupare.”

Akutagawa schiocca la lingua contro il palato e continua a piegare con cura il kimono. Prima in due parti. Poi in quattro. Si piega per prendere la scatola in cui lo metterà e sistema la carta velina nel fondo. “Sì, è colpa tua” gli dà ragione, senza nemmeno alzare lo sguardo.

Atsushi deve concentrarsi per non dargli un pugno in faccia. Chiude gli occhi. Prende un respiro profondo. Non è nemmeno la cosa peggiore che gli abbia mai detto, quindi è inutile arrabbiarsi o iniziare a litigare. Questo deve essere un lavoro pulito. Atsushi entra, Atsushi prende il kimono, Atsushi se ne torna in ufficio (e non lava la postazione di Ranpo-san). Non vuole rovinarsi la giornata con quest’idiota. “Beh, allora non dovresti trattarla così” decide di rispondere. “Dovresti trattarla bene almeno perché è la figlia dei tuoi datori di lavoro. E lei è una brava ragazza. Non capisco che rabbia hai contro le brave persone.”

Akutagawa alza il kimono, con le braccia e lo infila nella scatola. “Sono affari miei come la tratto.” Piega il kimono con due gesti precisi. “Questo kimono non ha le misure del tuo di capo.”

“Sai le misure del mio capo?” Atsushi assottiglia lo sguardo. Questa sì che è una cosa inquietante, ma non è poi così strana, visto il posto in cui si trovano. Akutagawa non lo degna di una risposta proprio per questo. Atsushi passa il suo peso da una gamba all’altra, con fare nervoso. “È mio” confessa poi, con lo sguardo basso. “Non lo avevo mai visto ma è per questo che mi hanno mandato. Dicono che per i giorni speciali tutti nell’agenzia hanno un kimono da cerimonia. Non lo mettono proprio tutti, ma...”

Akutagawa studia il kimono, poi la faccia di Atsushi. Decide di non dire nulla. Sistema la carta velina intorno al kimono, prima di chiudere la scatola e prendere un nastro. In un qualche modo, questo suo silenzio è anche peggio di quello che Atsushi pensava di poter sentire.

Non ha mai avuto un kimono. Mai. Neanche uno smesso dai ragazzi più grandi. I preti dicevano che desiderare dei bei vestiti o dei vestiti costosi ti faceva peccare di vanità. I kimono rientrano in entrambe le categorie, quindi Atsushi immagina che potevano farti cadere nel peccato doppiamente. Ma quel kimono è suo. E lo può indossare quando vuole. Anche questo è stato un regalo dell’agenzia, anche se in realtà, per comprarlo, hanno fatto una colletta tutti quanti. Il colore è stato deciso da Dazai-san. Atsushi sente di star ricevendo un bel po’ di regali negli ultimi tempi. Davvero non sa come ringraziare. Non sa nemmeno se dovrebbe accettarli. Casa sua inizia a riempirsi di tutti i tipi di oggetti e nessuno glieli può buttare via. Casa sua sta diventando una fortezza e lui il drago che veglia sul tesoro che ci nascondono dentro.

“L’ultimo giorno di scuola” dice Akutagawa, facendo un nodo sulla scatola. “Vorranno festeggiare questo.”

Atsushi assottiglia le labbra, per non mostrare il suo sorriso. Scuola è finita in modo ufficiale per tutti, adesso, e lui ha il suo diploma dentro l’armadio da qualche giorno. La primavera sta arrivando e con lei tutte le allergie e gli starnuti e i fiori e i colori. Vorrebbe non essere venuto fino a qui, ma è contento di poter ritirare il kimono e vorrebbe mostrarlo a Tanizaki-kun e Naomi-san. Vorrebbe anche vedere quali hanno scelto loro. Quasi gli dispiace che non ci siano grandi festival nelle prossime settimane.

Akutagawa porge la scatola ad Atsushi e, quando entrambi la stanno reggendo, per puro caso, Atsushi sente i polpastrelli di Akutagawa vicino alle sue dita. E per un momento -sembra solo ad Atsushi, di sicuro, che il tempo si ferma in quei zero virgola tre secondi in cui si sono di nuovo toccati. Sono settimane che non si toccano, giorni che Atsushi gira la testa quando Akutagawa prova a baciarlo. La prima volta ha usato la scusa del lavoro. La seconda volta ha puntato verso un quadro e ha fatto finta di volerlo vedere più da vicino. E la terza volta si è portato una mano sulle labbra e ha fatto finta di essere sorpreso. E da lì Akutagawa ha ruotato gli occhi e non si è più avvicinato troppo. È strano che non si sia andato a lamentare da Dazai-san. Ma sì, certo che ad Atsushi manca il contatto fisico. Il loro contatto fisico. Ma -ma.

“Arrivederci” dice Akutagawa con un tono monocorde.

“Prima Kyoka-chan, poi me” sbuffa Atsushi, scuotendo la testa. “Non sai proprio trattare con le brave persone, uh?”

“Tu non sei una brava persona.”

Atsushi ruota gli occhi. “Detto da te, è un complimento.”

 




È difficile da spiegare a parole, ma Atsushi prova a farlo, mentre sistema il giardino condominiale insieme a Tanizaki-kun. Era una cosa che voleva fare da quando è arrivato qui. Sistemare il giardino.

All'orfanotrofio non lo facevano mai stare vicino a un orto. Dicevano che qualsiasi cosa lui toccasse moriva in pochi giorni. Qualcosa sul demonio che agisce attraverso le mani di Atsushi. E attraverso il suo stomaco. Infatti, non importava quanto Atsushi provasse a mangiare, all'orfanotrofio, aveva sempre fame. Cercava di riempirsi con i piatti di riso, un qualsiasi contorno, qualcosa che gli desse almeno l'illusione di essere sazio. Una volta, il direttore lo aveva tirato via dall'orto, con la faccia nella terra, alla ricerca di fragole, peperoni, carote, anche l'aglio, non gli importava. Era stato punito per questo. Due pasti al giorno li aveva assicurati, aveva detto il direttore, come è possibile che non gli bastassero? Perché trai suoi bambini si nascondeva un disgustoso ladro come lui? Atsushi poteva mangiare quanto voleva, avrebbe sempre avuto fame. Non sarebbe mai stato sazio.

Ma non era questo il punto. (Anche se si sta rendendo conto di quante volte gli hanno dato del maledetto in termini prettamente religiosi.)(Cose di cui non ci si rende conto fino a quando non è troppo tardi, immagina.) Beh, quindi, Akutagawa.

Se deve mettere a parole la sua relazione con Akutagawa, non saprebbe da dove iniziare, a essere sincero. Non vanno d'accordo, Akutagawa fa sempre arrabbiare Atsushi e ci sono momenti in cui Atsushi riesce a vedere qualcosa di simile all'odio negli occhi di Akutagawa, quando stanno insieme. La prima volta che si sono incontrati, sono finiti per arrivare alle mani. E così alla seconda, terza, quarta volta. C'erano volte in cui non parlavano nemmeno, si saltavano alla gola e Atsushi colpiva il petto di Akutagawa, quando era troppo vicino e Akutagawa lo insultava più forte, quando lo guardava. Non capisce davvero come siano arrivati a questo punto. Con Atsushi se si chiede se c'è dell'affetto nel suo comportamento con Akutagawa, se questo affetto è qualcosa che dovrebbe seguire.

È iniziato tutto perché Akutagawa non ha un tocco gentile, ma non lo ha mai nemmeno colpito, non sul serio, non dall’alto di una posizione non sua. Ad Atsushi piace il contatto fisico. Non lo sapeva prima di arrivare in agenzia. Non aveva mai pensato, prima, a come gli piace stare vicino agli altri e non ha mai pensato di avere davvero qualcuno che avrebbe voluto accanto o a cui prendere la mano o su cui posare la testa. I bambini dell’orfanotrofio sono dei rivali, in realtà, non si ha tempo per istaurare un qualsiasi rapporto di amicizia con loro e, anche se ci fosse stato un sentimento simile, la posizione di Atsushi lo isolava, se non in modo fisico in modo emotivo. Nessuno vuole stare con la persona odiata dal direttore, soprattutto se il direttore è la fonte principale di sostegno nell’ambiente in cui ti trovi.

Atsushi ricorda che la prima volta è stato dopo un fine settimana di isolamento.

Non ricorda cosa aveva fatto, è successo più di un anno fa, molto prima del suo compleanno. Era appena tornato nella sua stanza e forse aveva dimenticato di pulirla o forse aveva dimenticato che era il suo turno portare un qualcosa da una parte all’altra dell’orfanotrofio, poteva anche essere successo che avesse, senza volere, portato con sé un vecchio libro dalla biblioteca e che qualcuno, un prete o il direttore, se ne fosse reso conto.

Era stato preso dal braccio e rinchiuso in una camera di isolamento. Per ben due giorni. Un solo pasto al giorno. Atsushi aveva fame, si annoiava e aveva appoggiato la testa contro la parete, guardando il muro grigio davanti a lui. Non era certo la prima volta. In isolamento ci è finito così tante volte che non basterebbero i numeri coi nomi che conosce per contarli. Quindi ogni tanto chiudeva gli occhi e pensava al suo libro preferito di Stevenson. L’isola del tesoro. Bastava chiudere gli occhi e non era più lì, dentro quella stanza buia e senza finestre. Era in mezzo al mare. Era lontano. Stevenson ha viaggiato in Asia, quando era in vita. Ha visto tante cose. Atsushi amava leggere i suoi diari e immaginare com’erano i posti che Stevenson aveva visto. Sembrava una persona molto libera. Gli sarebbe piaciuto essere libero come lui.

E quando era uscito, il lunedì dopo non aveva sentito poi chissà quale differenza nello stare dentro la stanza o fuori. Finché non ha incontrato Akutagawa in agenzia.

Hanno litigato anche quel giorno. Atsushi era di cattivo umore. Forse lo era anche Akutagawa. Hanno litigato, sì, ecco, e poi è successo che Akutagawa ha inclinato un po’ la testa e gli ha preso la faccia tra le mani e lo ha baciato.

Atsushi ancora non capisce il perché. Al momento non gli è importato del perché. Dopo due giorni senza aver visto nessuno, non solo aveva potuto litigare con qualcuno, ma sentiva anche un tocco, un tocco che non era cattivo, che non gli voleva fare del male. E non era gentilissimo. Le labbra di Akutagawa non lo sono mai. Anche lui sembra quel tipo di persona che ha sempre fame. E a lui in quel momento interessava il tocco. Quel tocco. Il tocco di Akutagawa. È stata quella la cosa importante, sì.

I preti dicono sempre che avere un qualche desiderio fisico è peccato. Voler mangiare è peccato, volere troppo è peccato, voler sentire il tocco di qualcun altro è peccato, il sesso è peccato. E Atsushi era così arrabbiato e allo stesso tempo disperato che non gli era importato di fare peccato, anche se nella sua testa c’è sempre questa voce dietro l’orecchio che gli dice tutto quello che ha e che sta prendendo è qualcosa di rubato. Ci sono volte in cui il senso di colpa è più forte del piacere e ci sono momenti in cui il piacere è più forte del senso di colpa.

Ma non provava niente per Akutagawa.

Atsushi non ha chiesto a nessun altro di toccarlo, perché gli sembrava che solo Akutagawa non si trovasse in una posizione da cui giudicarlo. È tutto, è l’unico motivo per cui gli andava bene questo loro modo di essere. Fino a che non c’è stata una volta in cui -non è una cosa di cui si era reso conto, era solo che dopo aver parlato con Lucy ha iniziato a pensarci su e c’è stato questo momento, in cui Akutagawa ha avvolto la testa di Atsushi in un braccio. Lo aveva fatto per non fargli sbattere la testa contro il pavimento. Erano scivolati a terra, sdraiati e Akutagawa aveva stretta la testa di Atsushi, per non fargli male. Pensa sia stato quello il momento in cui Atsushi ha iniziato a provare qualcosa. Che non è una cosa buona. Provare emozioni, volere qualcosa di più, non solo è peccato, è anche un modo per essere degli arroganti, come diceva il direttore.

E comunque, non pensa che Akutagawa provi qualcosa per lui. Non gli sembra di poter sopportare il suo tocco, ora che vorrebbe che le dita che si sfiorano, un bacio, posare la testa sul suo petto, vogliano dire qualcosa. Prima era più facile. Se Akutagawa non prova niente -tutto questo non ha nessun significato. E Atsushi non lo sa cosa ci deve fare con le cose senza significato.

Atsushi sistema gli attrezzi per il giardinaggio di lato e inclina la testa, per guardare la pianta di prezzemolo che ha appena trapiantato. Non sembra messa in buone condizioni. Forse dovrebbe versarci sopra un po’ d’acqua. Non si è mai preso cura di una pianta.

“Beh” risponde Tanizaki-kun, alzando le sopracciglia. Posa il mento sul braccio, accucciato vicino ad Atsushi. “Questi sono -sono davvero tanti pensieri.”

Atsushi ha provato a mettere tutto a parole e in modo più chiaro possibile. Tanizaki-kun è il suo unico amico della sua stessa età. È stato il suo primo amico, anche, motivo per cui era solo ovvio che prima o poi si sarebbe andato a lamentare da lui. Almeno per schiarirsi le idee. Non che abbia davvero funzionato. E parlare di sesso è più imbarazzante che farlo. Avrebbe preferito rimanere in silenzio, a questo punto. Giocherella con la terra.

Tanizaki-kun si gratta la fronte e si lascia cadere seduto sul cortile. “Ho due cose da dirti, credo. Ma non sono molto bravo in queste cose, quindi non te la prendere se dico cose che ti offendono.”

Atsushi alza una spalla. Non capisce che cosa ha sbagliato con questo prezzemolo. Se non si adatterà in fretta, finirà per morire per colpa di Atsushi. È davvero un disastro.

“La prima cosa è che non ti ho mai sentito parlare così tanto. Cioè, sì, no, tu con me parli ed è divertente parlare con te. Ma tu non sei una di quelle persone che prendono sempre una posizione. Ed è -davvero difficile a volte capire quello che stai pensando sul serio per questo motivo. Noi ci conosciamo da due anni, ma io non ti ho mai visto arrabbiato, né sono mai riuscito a farti arrabbiare. La prima volta che ti ho visto parlare con Akutagawa, è bastato che lui dicesse una cosa sbagliata su Yosano-san e tu gli hai mollato un ceffone che è risuonato per tutto l’ufficio.” Tanizaki-kun alza un lato delle labbra. “È stato divertente.”

Atsushi fa una smorfia. È stata la prima volta che si sono picchiati, lo ricorda.

“A me, come persona” continua Tanizaki-kun. “Quel tipo non piace per niente. È scortese, non fa che lamentarsi e tratta male Naomi. Mi sarebbe piaciuto che ti fossi impelagato in questa situazione con una persona più sopportabile. Però penso anche che sia un bene che una persona così ti faccia arrabbiare o che ti faccia reagire. Se lui ti piace, dovresti, penso, farci qualcosa con questi sentimenti. Prenderli. Reclamarli. Hai vissuto tanto tempo all’orfanotrofio, quindi immagino che sia solo normale per te pensare che dovresti prendere qualcosa per te, ma -sarebbe davvero molto bello sapere che ti arrabbi e che rincorri le cose che ami o che lotti per i suoi sentimenti. E te lo meriti. Di prendere qualcosa per te. Te e basta.”

Atsushi fa una smorfia con le labbra. Tanizaki-kun è molto lucido nel dare consigli, a quanto pare.

Tanizaki-kun posa una mano sulla vecchia maglietta di Atsushi. Sorride. “La seconda cosa è che credo che tu non sappia riconoscere l’affetto che ti viene dato, quindi ti devo dire che io ti considero mio amico e che ti voglio bene.”

“Anche io ti voglio bene!” esclama senza perdere un secondo Atsushi, raddrizzando la schiena e girandosi a guardare Tanizaki-kun. Sente le guance diventargli rosse, perché non ricorda di averlo mai detto a Tanizaki-kun, ma è sincero, prova davvero un profondo affetto per lui. Doveva dirglielo prima, forse.

“Okay. Quindi. Se non sei sicuro di che cosa prova Akutagawa per te, perché non gli spieghi che cosa sta succedendo e non glielo chiedi direttamente?”

Atsushi deglutisce. Torna a fissare il cemento sotto di loro. Perché -lui aveva sempre fame e più mangia meno si sazia. Più ha meno è contento. Più riempie meno si sente.

Tanizaki-kun chiude le mani in due pugni. Stringe i gomiti. “Combatti, Atsushi!” lo incita. “Sono sicuro che andrà tutto bene. E se Akutagawa ti rifiuta, troveremo qualcun altro e io tirerò un sospiro di sollievo, perché passare con lui i fine settimana di Cluedo mi sembra una delle cose peggiori che potrebbe mai succederci.”

Atsushi sbuffa una risata. Tanizaki-kun ride insieme a lui.

 



Atsushi sta seduto davanti ad Akutagawa, con le ginocchia unite e giocherellando con le mani. Tiene lo sguardo basso. È stato lui a dirgli di venire fino a casa sua, perché voleva parlare. Ora come minimo dovrebbe parlare. O almeno fare qualcosa. Dovrebbe dire qualcosa come ehi, Akutagawa, ho avuto una rivelazione in queste settimane e ho pensato di parlartene, perché credo che potrebbe cambiare il tipo di rapporto che abbiamo. Vorresti ascoltarmi? Ma dire una cosa del genere ad Akutagawa… Atsushi stringe i denti. È un po’ una rottura essere in una posizione del genere con Akutagawa.

Akutagawa si alza in piedi e Atsushi allunga la mano e lo tira di nuovo giù, seduto, un po’ più vicino a lui, questa volta. Se ne voleva di sicuro andare. Ma Atsushi non ha ancora detto nulla, quindi come minimo dovrebbe almeno aspettare. No? È strano che Akutagawa abbia accettato di venire in casa sua, ora che ci pensa. Forse crede che Atsushi lo abbia chiamato per un incontro casuale di… Atsushi sente la faccia diventargli calda e lascia andare la giacca di Akutagawa, che sbuffa, incrociando le braccia.

“Cos’è che vuoi?” gli sbotta contro, girandosi verso di lui. “Stringi i tempi, ho cose da fare.”

Atsushi non pensa che Akutagawa abbia qualcosa da fare. Lavora dagli Izumi solo part-time, passa la maggior parte delle sue giornate dietro a Dazai-san, nella speranza di -bah. Atsushi non ha nemmeno mai capito il rapporto che questi due hanno. Sembra che Dazai-san abbia salvato Akutagawa e Gin da qualcosa. Sembra che per questo Akutagawa non riesca a toglierselo dalla testa e che voglia in un qualche modo essere visto da lui. Pensieri infantili. Atsushi vuole davvero avere a che fare con un tipo del genere? Muove un po’ il mento, guarda verso il soffitto, per pensare. Vuole davvero…?

Akutagawa sospira con pesantezza, tirando indietro la testa, per mostrare tutta la sua impazienza. Cafone.

“Lo sapevi che alla fine i dolci non sono un afrodisiaco?” sputa senza pensare. “Sembra, anzi che riduca il desiderio sessuale. Non -cioè, non è che stessi facendo delle ricerche, è solo che mentre stavo leggendo… uhm. Sono andato in biblioteca questa settimana. Non avevo mai avuto il tempo di farlo, ma Fukuzawa-san ha detto che aveva bisogno di andarci e io lo devo accompagnare fino a quando Yosano-sensei mi dice che devo farlo e siamo rimasti lì per un po’ e mi ha detto: puoi fare quello che vuoi. Quindi mi sono messo a leggere e per caso mi è capitato di leggere questa cosa. Scientificamente, i preti dicevano un sacco di cazzate.”

Akutagawa rilassa le spalle, distoglie lo sguardo. “Chi lo avrebbe mai detto.” Atsushi non sa cosa rispondere. Rimane seduto con le mani unite sulle cosce. Akutagawa ruota gli occhi. Apre la bocca e poi la chiude. Atsushi vede, con la coda dell’occhio, come si sta mordendo le guance. Apre di nuovo la bocca, per dire qualcosa. Poi la chiude. E okay. Adesso lo sta davvero incuriosendo ad Atsushi. “Le costole” dice alla fine Akutagawa, ruotando gli occhi.

Atsushi si tocca il lato del petto. Le costole non gli fanno male da un po’, ma Yosano-sensei dice che ha bisogno di ancora qualche settimana di riposo. Si è anche presa la libertà, ha detto, di prendere un appuntamento per controllare lo stato delle ossa di Atsushi e vuole controllare il motivo per cui, pur avendo cominciato a mangiare tre pasti abbondanti più due merende, non riesce a prendere peso e, anzi, ha perso due chili, scendendo a cinquanta. Eppure a lui sembra di stare bene. Quindi risponde: “Stanno bene.” Aggrotta le sopracciglia. Sono stato il motivo per cui Akutagawa si era fermato, un mese e mezzo fa, ora che ricorda. Le costole. Aveva posato la mano sulle sue costole e aveva detto: ti fa male. Non era nemmeno una domanda.

Stanno seduti, uno accanto all’altro, in mezzo al monolocale di Atsushi. È stato Atsushi a chiamarlo qui. Voleva parlare e ora non trova il coraggio di farlo. E Akutagawa ha risposto ed è venuto fino a qui. Magari dovrebbero fare qualcosa con questo tempo, invece che starsene in silenzio.

Atsushi abbassa lo sguardo. Continua a pensare a quel momento in cui erano dietro al negozio degli Izumi e aveva sentito una fitta, ma non aveva fermato il loro bacio. Continua anche a pensare a quel momento di mesi fa, quel lunedì dopo un fine settimana passato in isolamento. Atsushi aveva posato la testa sulla spalla di Akutagawa e l’aveva trovata spigolosa e gli era quasi sembrata inospitale. E non se n’era reso conto, in quel momento, ma Akutagawa stava trattenendo il respiro. “Senti Akutagawa” gli inizia a dire, posando un gomito sul tavolino e poi la guancia sulla mano. “Ma io ti piaccio, per caso?”

Akutagawa fa una smorfia. “Che cosa?” gli chiede. Ha la bocca aperta e sembra essere sorpreso.

Atsushi inclina la testa, mostra il collo. Non voleva chiederglielo. Nel senso, non era questo che gli voleva chiedere, perché lo ha chiamato qua per parlare dei suoi sentimenti, certo non di quelli di Akutagawa, ma sta mettendo insieme dei punti. Piacere e affetto, come già sa, non vanno sempre a braccetto. Akutagawa, per qualche motivo, è sempre scortese, sempre scontroso, quindi per vedere i suoi momenti di gentilezza ci si deve mettere dei buoni occhiali e controllare i suoi movimenti momento per momento. Akutagawa è gentile con sua sorella. La tratta bene. L’ascolta sempre. Akutagawa è stato attento alle ferite di Atsushi, ha sempre provato a rendersi il più ospitale possibile, nei loro momenti di intimità. È sempre attento. Ricorda anche le cose più stupide. Si rende conto delle emozioni di Atsushi in fretta. Forse Akutagawa -può essere che Akutagawa in un qualche modo si sia affezionato ad Atsushi? E se è così, in che modo? E gli piace Atsushi? Sembrano cose importanti da sapere.

Akutagawa ruota gli occhi e sembra volersi di nuovo alzare per andarsene, ma Atsushi è veloce, lo afferra di nuovo dalla giacca e lo tira verso il pavimento, usando il peso del suo corpo per riportarlo giù. Questa volta non gli lascia andare la giacca. Rimane ben aggrappato con una mano, per non farlo scappare.

Non è che abbia voglia di sistemare qualsiasi sia il loro rapporto adesso. Non vuole nemmeno sentirsi dire da Akutagawa che gli piace, oppure sentirlo arrabbiato perché no, Jinko, hai proprio capito male, il mio unico desiderio riguardante te è di vederti o sotto terra o sotto di me. Frase che Akutagawa gli ha già detto, quando stavano mangiando insieme, qualche mese fa. Ed è divertente, come frase, perché Akutagawa non ha abbastanza forza fisica per uccidere Atsushi e Atsushi sta difficilmente sotto Akutagawa.

È una battuta che lo fa ridere. Atsushi non ha il controllo sul lato delle labbra che si piega verso l’alto. Deve guardare da un’altra parte, per evitare lo sguardo di Akutagawa. Lo deve star irritando parecchio. Beh, che importa? Ad Atsushi piace la faccia che Akutagawa fa, quando è irritato.

“Oi, Akutagawa” lo chiama, tirandosi in avanti. Quando Akutagawa gira la testa , ruotando gli occhi, Atsushi si avvicina quel tanto che basta per baciarlo.

Pensa che per oggi potrebbe bastare. Alla fine, è davvero tanto tempo che nemmeno si sfiorano e Akutagawa dovrebbe davvero andare a scaricarsi da qualche altra parte, visto che Atsushi non lo ha certo chiamato per andarci a letto. Qui, lui aveva intenzione di sistemare il macello in cui si sono cacciati, anche se è ancora confuso e anche se non ha idea di quanto di questo sia affetto, quanto sia piacere e quanto sia il desiderio di un qualsiasi tocco dopo i diciotto anni di isolamento in orfanotrofio. Akutagawa è pur sempre la prima persona in tutto il mondo, in tutta la sua vita, che lo ha toccato sul serio. Beh. Quindi. Atsushi è più confuso di prima, ma non ha la pazienza di non soddisfare i suoi bisogni. Poi, dei bisogni di Akutagawa se ne occupi lui. Non sono affari di Atsushi, comunque. Crede. Beh. Non sa. Non così tanto. E quindi cerca di tirarsi indietro, solo per sentire la sua testa acchiappata tra le braccia di Akutagawa, che lo spinge verso di lui.

Eh. Beh. Ecco. Chi è Atsushi per dire no, a questo punto?

 




Non è che Ryunosuke voglia incontrare questo Nakajima Atsushi. Anzi. Il contrario. Ryunosuke vive meglio la sua vita, ignorando l’esistenza di questo tipo. Ryunosuke vorrebbe che Nakajima Atsushi non esistesse, che non fosse mai nato. Ma purtroppo si ritrova a dover incontrare Nakajima Atsushi. Sotto richiesta di Dazai-san. Dazai-san gli ha detto: Atsushi-kun viene da fuori città e non ha molto tempo per conoscere bene qui intorno, mentre tu qui ci sei nato, lo conosci come i palmi delle tue mani, giusto? Quindi non sarà un problema portarlo nei posti che ci servono. Certo non lo posso lasciare a Ranpo-kun, non pensi? Ryunosuke non ha la più pallida idea di chi sia questo Ranpo-kun e non gli importa nemmeno saperlo. Deve incontrare quel Nakajima Atsushi, adesso. E deve anche passare del tempo con lui, a quanto pare.

Si trascina verso l’ascensore del palazzo, solo per poi rendersi conto che è rotto. Sbatte la fronte contro la parete. Vorrebbe davvero uccidere chiunque gli capiti tra le mani, adesso. Si aspettano che lui faccia le scale? Tutte quelle scale? No. Sbatte di nuovo la fronte contro la parete. Piuttosto preferirebbe morire.

Ci sono due o tre ragazzi all’entrata del palazzo. Un tipo alto, una tipa con la voce mielosa e un tipo che sembra uscito fuori da un programma di moda, in cui qualcuno chiede aiuto a dei tipi famosi per sistemare lo stile di un loro amico. Ryunosuke vede solo quella parte dei programmi. Non gli importa di vedere che cosa faranno al guardaroba di quel povero sfigato, gli importa vedere per dieci minuti buoni delle persone che dicono di voler bene a qualcuno vendere quel qualcuno e insultarlo su una rete regionale o nazionale. È divertente. Quel tipo dell’entrata potrebbe essere venduto dagli altri due in qualsiasi momento. Anche questo sarebbe divertente.

Akutagawa alza un lato delle labbra e poi sente come il suo petto si stringa e, per un attimino, sia difficile respirare. Tossisce due volte, portandosi la mano sulla bocca. Ugh. Non ci tiene a salire fino all’ufficio, ma non vuole nemmeno deludere Dazai-san.

Si passa una mano sulla giacca nera e prova a prendere un respiro profondo, che viene bloccato da qualsiasi cosa ci sia nei suoi polmoni e Ryunosuke si trova di nuovo a tossire.

“Tutto bene?” chiede il ragazzo vestito di merda. Senza preavviso con solo qualche balzo, si ritrova vicino a Ryunosuke, con la testa inclinata, per vedere la sua faccia. “Penso stia avendo un attacco di asma!” grida verso capelli di merda e voce mielosa, poi torna a concentrarsi su Ryunosuke. “Hai un tuo inalatore? O preferisci che andiamo a prenderne uno noi o... okay, no, giusto, tu mica puoi parlare, quindi direi che…” Cerca qualcosa nelle sue tasche, dandosi schiaffi sulle cosce e poi sul sedere.

Tsk.

Ryunosuke ruota gli occhi (attacco asmatico questo gran cazzo) e si passa la manica della giacca sotto il labbro inferiore. “Non sono fatti tuoi” dice e guarda il ragazzino davanti a lui alzare un sopracciglio e poi sbuffare una risata. “C’è un altro modo per salire fino all’ufficio dell’agenzia dei detective?”

“Sei un cliente?” chiede Atsushi. Porta dei guanti che non servono a un bel niente se non a far sudare i palmi delle mani e gelare le dita. Solo i deficienti si metterebbero dei guanti simili. “L’ascensore è fuori servizio, per ora. Entro domani sarà operativo, hanno detto. Avevi un appuntamento?”

“Atsushi” lo chiama capelli di merda. Atsushi? Come Nakajima Atsushi? “Quello è Akutagawa.”

Nakajima Atsushi inclina un po’ la testa ed è la prima volta che lui e Ryunosuke si guardano negli occhi. È la primissima volta che si incontrano, la primissima volta che si vedono. Nakajima Atsushi sbatte le palpebre. Ryunosuke lo studia dalla punta dei capelli, che sono stati appena tagliati, male, con un buco sulla tempia e diverse lunghezze sulla nuca e sui lati, alle scarpe, che sembrano essere sul punto di bucarsi. Come aveva pensato Ryunosuke prima di incontrarlo, Nakajima Atsushi è una feccia dell’orfanotrofio e si nota a occhio nudo. Eppure, guardandolo per la prima volta all’entrata dell’edificio della sua agenzia, davanti a quell’ascensore rotto, Ryunosuke ha aggrottato le sopracciglia e ha capito quello che voleva dire Dazai-san.

Nakajima Atsushi ha il viso di una persona tanto amata. O che potrebbe essere tanto amata.

Ryunosuke infila le mani nelle tasche della giacca e schiocca la lingua. Certo. Lo capisce adesso, purtroppo. Chiude le mani in due pugni. Lo capisce.

“Mi ha guardato e ha schioccato la lingua” dice Nakajima Atsushi, girandosi verso capelli di merda. “Sul serio?

Ryunosuke non risponde. Si tira indietro. Esce dall’edificio. Lo capisce. Avrebbe preferito non capire quello che Dazai-san voleva dire, ma adesso capisce e lo odia. Lo odia tantissimo Nakajima Atsushi, per questo.



 

 

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Capitolo 2
*** rami sugli alberi ***


2. Rami sugli alberi


Atsushi e Akutagawa sono seduti uno di fianco all'altro, Atsushi con le mani nascoste tra le cosce e lo sguardo basso, Akutagawa guarda fuori dalla finestra, annoiato, come se questa situazione non avesse niente a che fare con lui. Kunikida-san si toglie gli occhiali, per pulire le lenti. Lo fa con gesti lenti. Muove le dita con fare distratto e ha la fronte corrugata. Sembra arrabbiato, anche se forse è solo un'impressione.

A Kunikida-san, Akutagawa non piace.

Non è davvero un segreto. A Kunikida-san non piacciono le persone che seguono in modo cieco e senza nemmeno farsi due domande una persona, soprattutto se quella persona è Dazai-san. Deve essere stato questo il motivo per cui ha chiesto ad Atsushi di non farlo dormire a casa sua e di non girarci troppo intorno. Solo che è difficile ricordare che Kunikida-san fa davvero molta paura, quando Akutagawa gira le chiavi di casa e si toglie la giacca e si siede al tavolino in salotto per mangiare con Atsushi. Ed è difficile ricordarlo anche quando si fa tardi e l’ultimo treno è partito e Akutagawa rimane a dormire da Atsushi, perché, beh, certo non lo può buttare fuori casa. Crede. Atsushi abbassa ancora di più la testa, neanche si volesse nascondere dietro il tavolo del bar. Non sa perché, ma sente di star per ricevere una ramanzina. Una di quelle lunghe. Sarebbe dovuto stare più attento, ecco, lo sapeva, perché Kunikida-san lo aveva avvertito, ma, come dice sempre Dazai-san, le regole le infrangi solo se qualcuno ti vede infrangerle.

Atsushi sente le spalle rigide, le dita, anche se sono ben immerse nelle cosce, sono così tanto fredde da raffreddare anche il pantalone. È un po’ nervoso -e per cosa? Akutagawa è pessimo da avere come ospite in casa. Lava malissimo i piatti, sa cucinare solo il riso e, cosa che Atsushi non sopporta, non fa che lamentarsi del suo futon.

Chi dorme su un futon?, gli chiede sempre. infilandosi sotto le coperte. Il pavimento è duro, i futon di Atsushi scadenti e quindi fa quasi male dormirci su. Akutagawa si sveglia al mattino lamentandosi per il mal di schiena, per il freddo, per qualsiasi cosa. Atsushi gli risponde ogni volta che c’è una soluzione molto semplice per questo problema: Akutagawa potrebbe anche andarsene a dormire a casa sua. E Akutagawa a questo non risponde, sbuffa soltanto, ruotando gli occhi.

Atsushi non capisce perché se lo ritrova lì quasi tutte le notti. E non capisce perché si preoccuperebbe se non lo vedesse in casa per più di tre notti consecutive. Mangiare insieme a qualcuno è divertente. Dormire insieme a qualcuno, è rilassante. E per questo è finito di nuovo nei guai. Atsushi non sa mettere dei limiti, non glielo hanno mai insegnato e questo è un caso in cui lui non ha voluto mettere limiti. Anche questo è uno dei motivi che lo hanno portato a questa situazione spiacevole.

“Io so” inizia Kunikida-san, con un sospiro. Si ferma quasi subito, per accarezzarsi il ponte del naso. Sembra essere a disagio tanto quanto lo è Atsushi (ad Akutagawa, tutta questa faccenda scivola addosso, per qualche motivo). Kunikida-san si infila di nuovo gli occhiali e scuote la testa, sospirando. “Ditemi voi cosa devo dire” sbotta alla fine, accarezzandosi la fronte.

Atsushi vuole sprofondare nella sedia, vuole essere seppellito in questo momento, non gli importa. Sente le orecchie diventargli rosse e -e sembra far caldo. Gli sembra che faccia davvero molto caldo. Lo sente solo lui? Fa caldo solo per lui? Lancia uno sguardo ad Akutagawa, pallido, con la schiena incurvata, che gli sta lanciando uno sguardo con la coda dell’occhio a sua volta. Beh. Lui non sembra avere caldo. Ma muove la mano, per posarla sul polso di Atsushi e gli fa un cenno con la testa.

“Se quell’appartamento è un dormitorio, allora non è una casa” dice, tornando a guardare fuori dalla finestra. “In una casa, Jinko potrebbe invitare chiunque lui voglia, ma a quanto pare non lo può fare perché lo sorvegliate. Allora perché rimanere lì?”

Perché l’affitto è basso!

Atsushi sbarra gli occhi e da caldo che aveva, adesso sente le ossa raggelarsi. Tira fuori una mano per prendere anche lui il polso di Akutagawa, mentre scuote la testa più volte. È ovvio che il complesso di appartamenti dell’agenzia è ben sorvegliato, sono un’agenzia di detective, hanno a che fare con dei criminali e quello è il posto più scontato in cui potrebbero incontrarsi tutti loro nel caso di un attacco. È sorvegliato per sicurezza. Ci sono le telecamere per sicurezza. E Atsushi aveva accettato quella condizione appunto per rimanere al sicuro. L’affitto è basso, Fukuzawa-san gli chiede sempre se il lavandino funziona, se qualcosa gocciola, se ha bisogno di qualcosa e Atsushi lì ha di sicuro molta più libertà di quella che ha avuto negli ultimi diciannove anni della sua vita.

Kunikida-san ruota gli occhi, Akutagawa si gira verso Atsushi. “Puoi sempre tornare a casa mia, per ora” gli dice, guardandolo dritto negli occhi. “Lì ci sono dei letti comodi.”

Adesso Atsushi non capisce se ha freddo, o se ha caldo, o se il suo corpo sta impazzendo. Apre la bocca, poi la chiude di nuovo. Pensava che la storia della casa fosse finita. Aveva trovato una casa, no? Allora perché tutto questo macello? Perché tutto questo rumore e chiasso? Lui vive in una casa che -Atsushi aggrotta le sopracciglia e abbassa lo sguardo. Rimanere per sicurezza… come potrebbe essere diverso dal rimanere per due piatti caldi al giorno?

“Atsushi-kun è ancora minorenne” fa loro notare Kunikida-san. Si sistema a sedere e ruota gli occhi. “Se fai qualcosa -se commetti un crimine o non paghi dei debiti, la persona che deve pagare per i tuoi errori è Fukuzawa-sensei, tu sei ben consapevole di questo. Non ti avrei chiamato se la persona che inviti a casa tua non fosse Akutagawa Ryunosuke. Perché ti avevo avvertito. Lui non è niente di buono. Certo che quell’appartamento è casa tua e certo che puoi fare quello che vuoi. Ma vista la persona con cui vuoi -fraternizzare, ecco, ti devo dare un altro avvertimento e questa volta lo do anche a te, Akutagawa-kun. Non fate errori.” Punta Akutagawa con un dito. “Non fargli fare errori. Perché conosco Atsushi-kun, quindi riterrò te responsabile. Un solo passo falso, ragazzino, e sei fuori, hai capito?”

Akutagawa fa una smorfia con le labbra, poi torna a guardare fuori dalla finestra, cosa che fa quasi scoppiare una vena sulla tempia di Kunikida-san, che comunque cerca di mantenere la calma, chiudendo gli occhi e prendendo un respiro profondo.

“Hai fame, moccioso?” chiede ad Atsushi, passandogli il menù della caffetteria. “Se scegli cose poco costose, ti offro il pranzo.”

Atsushi sforza un piccolo sorriso e fa un cenno con la testa per ringraziare Kunikida-san. Dopo averlo sgridato gli compra sempre del cibo. È una cosa frequente, inizia a rendersi conto. Atsushi è un po’ confuso, ha di sicuro tante cose a cui pensare, ma non riesce a dire no quando si tratta di cibo, alla fine. Lancia uno sguardo con la coda dell’occhio ad Akutagawa e si morde l’interno della guancia. “Kunikida-san.” Tira fuori le mani dalle cosce solo per prendere la mano di Akutagawa, sotto il tavolo. “Akutagawa non è proprio tutto tutto da buttare. Ci si può fidare, sai?”

Akutagawa tira via la mano e si gira quasi del tutto verso la finestra. Kunikida-san ruota gli occhi per l’ennesima volta. “Se non scegli cosa mangiare entro cinque minuti, ti mando a lavoro senza pranzo.”




[I don't have the strength to keep writing this. To go on living with this feeling is painful beyond description. Isn't there someone kind enough to strangle me in my sleep?]


Ryunosuke si sistema la camicia bianca, davanti a uno specchio troppo piccolo, in cui si vede a malapena l’angolo del suo viso, figuriamoci la cravatta, che sembra fare di tutto per rimanere storta. Ryunosuke scioglie il nodo con un movimento scocciato delle dita, per provarci un’altra -un’ultima volta. Cerca di ricordare quello che Nakahara gli ha detto. La cravatta e il nodo, il modo in cui le dita devono misurare roba e in cui il tessuto deve scivolare da una parte all’altra. Lo aiuterà solo questa volta, poi deve cavarsela da solo, gli ha detto. Nello specchio davanti a Ryunosuke si vede solo l’angolo del suo viso. La mascella, una parte delle labbra puntata verso il basso, la sua spalla.

Ryunosuke gira la cravatta, la annoda, ma gli sembra di nuovo storta, per qualche motivo. Muove lo specchio tondo. Inclina un pochino la testa, per vedere come un suo occhio (nero nero, forse perché non c’è tanta luce in questo suo appartamento) entri nel riflesso e lo guardi a sua volta. Ha i capelli un po’ troppo lunghi, forse, e la cravatta pende di lato, muovendosi verso la spalla con tutto il colletto. Per fermarla, dovrebbe stringerla al collo ma non gli piace la sensazione che prova nel farlo. Non gli piacciono le cravatte. Non gli piacciono gli abiti occidentali. Non gli piace pensare a che cosa dovrebbe mettersi. Non ci ha pensato negli ultimi diciotto anni e gli sembra stupido doverlo fare adesso, per dei colloqui di lavoro che non lo faranno nemmeno lavorare in un ufficio.

Nakahara ha detto: è importante che ti vesti bene, oggi, perché ti sto presentando a una famiglia importante per me. Ha detto anche che a loro non importa se non ha nemmeno il diploma, se però si saprà presentare bene. Ryunosuke ha dei dubbi su quel che riguarda doversi presentare bene. Non conosce molte persone che amano vestirsi bene e Dazai-san ha detto che di solito ci si presenta con un vestito elegante occidentale ai colloqui di lavoro con persone importanti.

Ryunosuke alza il polso. Ha dimenticato di abbottonarsi le maniche. Gira il polso e lo studia. Non ha la più pallida idea di come sembri adesso, di come si veda. Lui si sente ridicolo. Il tessuto del vestito gli sembra rigido e non gli piace l’idea di tutte queste cose che gli stringono i polsi, il collo, le caviglie. Ma ha bisogno di un lavoro. Almeno per permettere a Gin di vivere insieme a lui, senza pensieri. Lei che non ha avuto problemi a trovare un lavoro di mezza giornata e che fino ad ora ha portato più cose da mangiare a casa di quanto abbia fatto Ryunosuke. Lui rimane il fratello maggiore. È ora di ricordarlo. Si abbottona la manica e prende un respiro profondo. Con la destra è stato facile, adesso che deve usare la mano sinistra per sistemarsi, la cosa gli sembra davvero troppo difficile. Tira indietro la testa, soffocando un sospiro disperato.

Rimane così, in silenzio, davanti a uno specchio troppo piccolo, in un bagno davvero troppo piccolo per qualche minuto. Non ha molto da perdere ad andare all’indirizzo che gli ha lasciato Nakahara, e comunque, Nakahara è sempre stato attento a non fargli male. Per qualche motivo. Dice che gli ricordava qualcuno, ma Ryunosuke non ha mai capito a chi si riferisse. Nakahara dice anche che loro due hanno qualcosa in comune. Ryunosuke non ha capito a cosa si riferisse neanche qui. Di sicuro Nakahara non lo manderebbe in un vicolo buio vestito come un idiota, per essere picchiato e drogato e Ryunosuke non si sveglierebbe con un rene in meno. A lui non è mai successo, ma ha sentito una storia così, una volta.

Non ha sistemato lo specchio, per vedere la sua cravatta e non ha intenzione di farlo, adesso. L’appuntamento è alle tredici. Sono a malapena le nove del mattino. Non capisce perché si è preparato così in fretta. Si sente un po’ nervoso. Non ha la più pallida idea di che cosa potrebbero chiedergli di fare. Vorrebbe solo avere un po’ più di controllo su tutta la situazione intorno a lui. Non può sopravvivere con il poco che gli dà Dazai-san per portare in giro quell’orfano di merda e fargli vedere le parti importanti di Yokohama. Per ora, non sono andati da nessuna parte di importante, perché guardare Nakajima Atsushi negli occhi fa venire il voltastomaco a Ryunosuke e Nakajima Atsushi è quel tipo di persona, ha scoperto, che si distrae in fretta, trovando in cose inutili qualcosa di interessante, dice lui. Questo fa venire il voltastomaco a Ryunosuke con ancora più forza. Non può essere così schizzinoso.

Gin si affaccia alla porta, arricciando le dita intorno allo stipite della porta. Non dice molto. Non si è ancora legata i capelli e il suo pigiama rosa e bianco. Non dice niente sull’ora. Ma si guarda intorno, prima di fissare negli occhi Ryunosuke e cercare di forzare un piccolo sorriso. Non hanno parlato del colloquio di lavoro. Ma forse Gin capisce senza usare le parole, perché alza un pollice e fa un cenno della testa, prima di andarsene via.

Ryunosuke abbassa il mento per controllare la cravatta. Si guarda i polsi e li sente davvero troppo stretti, anche se non stringono per davvero, e si sente ridicolo in questi vestiti, ma Gin ha alzato il pollice, quindi deve andare bene. Il vestito, intende. Lui, intende. Tutti e due. Devono andare bene e andrà bene anche il colloquio di lavoro. Crede.

Ryunosuke lancia uno sguardo allo specchio tondo davanti a lui. Annuisce a se stesso. Sì. Sì, certo andrà tutto bene.


 



Aveva dimenticato che questa mattina deve portare Nakajima Atsushi a conoscere la città.

Nakajima Atsushi sbatte le palpebre, con le mani unite dietro la schiena, come un vecchietto, mentre lo aspetta, appoggiato al muro della stazione dei treni. Tra le tante persone, lui sembra scomparire nel suo essere insignificante e piccolo e davvero troppo magro. Aspetta Ryunosuke con la stessa pazienza di un cucciolo abbandonato sul ciglio della strada, alzando un pochino la testa, quando vede qualcuno che potrebbe assomigliargli e sorridendo a se stesso, per poi abbassare lo sguardo, come se avesse fatto un errore madornale, ogni volta che si rende conto di aver sbagliato persona. Ryunosuke lo guarda da vicino un pilastro. Sono le dieci del mattino. Avevano appuntamento alle nove e mezza. Nakajima Atsushi non ha un cellulare, quindi non lo ha chiamato.

Per chiedere scusa del suo ritardo, Ryunosuke ha pensato di prendere due crêpe, che ora tiene in mano. Ma non ha il coraggio di avvicinarsi a Nakajima Atsushi, che, nella sua testa, ora che ci pensa, lui chiama Atsushi, ma che non vuole chiamare Atsushi ad alta voce. Al solo pensiero di dover dirgli che gli dispiace per essere arrivato in ritardo, Ryunosuke vorrebbe un po’ morire. Ma non può lasciarlo in attesa per sempre ed è solo questo il motivo che lo spinge ad avvicinarsi al muro della stazione, per farsi vedere.

Atsushi alza un po’ il mento e poi lo abbassa, con un sorriso appena accennato. Ryunosuke non sa che cosa lo porta a essere così felice di vederlo. Ogni volta che parlano, loro due finiscono per litigare. Per le cose più stupide, poi. Non c’è niente di divertente nei loro incontri e non c’è niente di bello in quello che fanno. Atsushi però a volte guarda al cibo del distretto commerciale e sembra che gli brillino gli occhi. Non compra niente. Nemmeno un dolce per sé. Nemmeno una caramella da quindici yen. Questo, Ryunosuke lo capisce. Per questo ha preso le crêpe.

Atsushi inclina un po’ la testa. Non dimostra nemmeno i suoi sedici anni, quando viene a questi incontri. Sembra solo un ragazzino. Ha un maglione orrendo verde con sopra la faccia di un’imitazione di Pikachu, dei jeans che sembrano vecchi, delle scarpe così consumate da essere imbarazzanti a vederle. Ma ha avuto la buona idea di coprirsi la testa con un cappello blu che nasconde il suo taglio di capelli e le sue orecchie. Ryunosuke dà anche troppe attenzioni a come si veste Atsushi, ma il punto è che non ha mai visto una persona con uno stile così orrendo. Atsushi in sé è una persona insignificante e per niente degna di nota, ma, i suoi vestiti sono così brutti che diventano un motivo per farlo risaltare. Tutto questo è un insulto, ma Ryunosuke se lo tiene per sé, mentre allunga la mano con la crêpe e la porge ad Atsushi.

Atsushi guarda sempre il cibo, ma non lo compra mai. Quando gli viene dato, lo accetta con piacere, ma non sembra goderselo. Almeno. Non sembra che se lo goda tutto. O del tutto. O che comunque sia felice di mangiare.

A questo ci ha pensato dopo aver preso le crêpe.

“Ti sei vestito così per me?” lo prende in giro Atsushi, con la testa un po’ inclinata.

Parla del vestito che Ryunosuke ha indosso. L’abito formale. È impossibile dimenticarlo, Ryunosuke sente che gli stringe collo, polsi e adesso anche le caviglie. Non si è mai vestito in questo modo. Non per un colloquio di lavoro. Di solito così andava a rubare cibo ai funerali. Beh. Non che questo lo possa dire ad Atsushi. Finirebbero solo per litigare.

Potrebbe chiedergli se non si sente a disagio, vista la differenza della loro eleganza. Ryunosuke potrebbe anche insultare il suo maglione, dire che almeno lui non faceva vedere a tutti che era un orfano e che orfano sarebbe rimasto per tutta la sua vita. Ma non ha voglia di farlo. Abbassa lo sguardo. Controlla la cravatta e mormora: “Dopo ho un colloquio di lavoro.” Se ottiene questo lavoro, Gin potrà decidere se continuare a lavorare oppure no, se seguire quel corso che voleva seguire di auto-difesa, anche prendere un momento di pausa per andare a trovare quello che lei definisce un signore gentile che le ha insegnato le basi dell’auto-difesa. Sarebbe bello.

Atsushi forma una o perfetta con le labbra, prima di sorridere. Sembra di buon umore. Deve essergli successo qualcosa. “Mi tieni qui?” gli chiede, dandogli indietro la crêpe. Poi assottiglia lo sguardo e fa un passo in avanti. Con uno sguardo concentrato, gratta il nodo della cravatta di Ryunosuke e poi la scioglie. Rimane con la cravatta in mano, prima di arrotolarla su se stessa e tornare a guardare Ryunosuke con uno sguardo concentrato. Gli sistema il colletto con le dita. “Kunikida-san dice sempre che la cravatta è importante. Ma Yosano-sensei e Ranpo-san dicono che quando sei giovane devi usare il tuo essere giovane.”

“Che cosa vuol dire?” chiede Ryunosuke con una smorfia.

Atsushi scrolla le spalle. “Visto che viene da Ranpo-san, direi che non ci dovremmo dare troppo retta. Ma -tu non sei tipo da cravatta. Si vede troppo.” Finisce di sistemare il colletto e poi posa entrambe le mani sul petto di Ryunosuke, per allisciare la giacca nera, forse. A Ryunosuke non interessa. Perde tempo ruotando gli occhi. Atsushi, invece, appena si rende conto che hanno avuto contatto fisico per più di due secondi, tira indietro le mani, neanche fosse stato bruciato da una fiamma e sforza una risatina idiota. “Consiglio gratuito per ringraziarti della crêpe” dice, con una voce stridula. Prende la sua crepe dalle mani di Ryunosuke, di nuovo e la morde con troppa fretta.

Ryunosuke lo guarda quasi strozzarsi. Non che gli importi. Atsushi, fosse per lui, potrebbe morire in questo momento e lui non proverebbe niente. Ma gli dà una pacca sulla schiena, come si fa ai bambini per far fare loro il ruttino. “Poi mi spieghi perché dovrei seguire i consigli di uno che ha Pikachu sul maglione.”

Atsushi apre la bocca, indignato. Offeso come un bambino.

Yuuji faceva lo stesso sguardo, quando Ryunosuke gli diceva -gli diceva… gli diceva qualcosa. Era una cosa che continuava a ripetergli e ogni volta Yuuji apriva la bocca per poi gonfiare le guance e andare in un angolino della casa abbandonata che avevano occupato. L’unico modo che aveva per farlo tornare a parlare era… Ma che cosa gli diceva? Era un gioco tra loro, una scena che continuava a ripetersi, qualcosa che faceva parte della loro quotidianità. Qualcosa. Qualcosa che… Qualcosa che Ryunosuke ha dimenticato. Che ha voluto dimenticare, forse? Che ha dovuto…?

Atsushi ruota gli occhi e guarda da un’altra parte. Yuuji anche lo faceva sempre. Sì. In continuazione. Lui -lui... Ryunosuke sente un nodo alla gola e anche lui guarda da un’altra parte. Era una cosa che diceva sempre, ma che ha dimenticato. Si infila la mano libera in tasca, guarda un paio di bambini contare le monete che hanno in mano, davanti alla macchinetta dei biglietti. Era una cosa importante. Lo faceva sempre ridere, vedere Yuuji con le guance gonfie. Ryunosuke stringe le mani in un pugno. La sua crêpe si piega dentro il cartoncino in cui la stava portando. Una fragola cade per terra e lui nemmeno se ne rende conto. Finché non cade.

Atsushi si gira verso di lui e prende la crepe di Ryunosuke. Non deve averci pensato. Ha solo agito. E Ryunosuke ha sbarrato gli occhi al sentire qualcosa scivolargli dalle mani. Il cibo è importante e vitale e costa soldi e scarseggiava così tanto, prima, come può lui averlo…

Atsushi morde la sua crêpe, continua a mangiare come se nulla fosse. “Dove dobbiamo andare, oggi?” gli chiede, guardando dritto di fronte a sé.

Ryunosuke aggrotta le sopracciglia. “Non troppo lontano dal distretto commerciale.”

Atsushi annuisce. Non fa domande. È un essere insignificante e chiunque lo guarda lo dimentica in poco tempo o pensa solo che questo ragazzino non ha una famiglia. Ma non è stupido, per qualche motivo. E non è innocente, come Dazai-san pensava che fosse, per qualche motivo.

“Non hai freddo? Non indossi nemmeno la giacca.”

Atsushi, alle parole di Ryunosuke, per qualche motivo, ride.


 



“Sentite, non sto dicendo che è un ragazzo sveglio” dice Nakahara, dall’altra parte del muro. Ryunosuke abbassa lo sguardo e intreccia le dita sulle cosce, seduto composto, in attesa di una risposta. Non ha molto da fare. Guarda dritto di fronte a sé, come quando sente di venire trascinato da una parte all’altra dalla sua testa. È una cosa che gli ha detto di fare Gin. Quando non sai cosa fare e senti che la tua mente potrebbe andare via, chissà dove, la cosa migliore è guardare la parete di fronte a loro. Trovare una crepa. Un disegno. Qualcosa. Qualsiasi cosa su cui concentrarsi. “Ha di sicuro mille difetti, ma è obbediente. Cos’altro si potrebbe volere di più da qualcuno? È un ragazzo obbediente, qualsiasi cosa gli chiederete, lui la farà senza battere ciglio.”

Ryunosuke muove le dita. Passa il pollice destro sull’unghia del pollice sinistro. Davanti a lui c’è una parete- Non è bianca. È fatta di mattonelle rosse che arrivano fino al marroncino, tra loro c’è una piccola divisione bianca, brillano di luce propria, e anche del riflesso del sole fuori dalla finestra. I kimono coprono parte della parete. Allargati. Ben aperti, per mostrare i loro colori e i loro disegni floreali. Alcuni sono dorati e altri sono neri. Ryunosuke ha sentito, da qualche parte, che i kimono hanno una simbologia dietro. Non ne ha mai indossato uno. Ma ha origliato, quando era senza casa e aveva fame, e una signora con gli occhiali che le cadevano sul naso. Aveva detto qualcosa su ogni cosa che le diverse parti del kimono simboleggiano.

Ci sono diversi tipi di kimono. Ryunosuke continua a tormentarsi le dita delle mani. Le muove da una parte all’altra. Le struscia insieme. Prende un respiro profondo.

“Non metteremo un ragazzino in mezzo a problemi che sono più grandi di lui” risponde una voce femminile. Forse Izumi-san. Ryunosuke abbassa lo sguardo. Poi chiude gli occhi. Un respiro profondo. Ci sono diversi tipi di kimono, aveva letto da qualche parte. Il costo dipende dal tipo di tessuti, dai ricami. Ryunosuke aveva pensato di rubare un kimono, da quella signora con gli occhiali che gli cadevano sul naso. Ha studiato per giorni come capire quanto valutare un kimono. “Sembra troppo giovane.” Ha sfogliato libri. Ha fatto domande alla stessa signora che gli sorrideva, sistemandosi gli occhiali, che continuavano a caderle. Ha studiato per giorni interi, per settimane intere.

“Quel ragazzino è già in problemi più grandi di lui” ribatte Nakahara. “Sapete dove e come l’ho pescato, non capisco quale sia il problema. Lui non vuole morire di fame, è obbediente, ha una sorella su cui non vuole pesare. E voi avete detto che avete bisogno di qualcuno che obbedisca senza fare domande. Non conosco nessuno meno curioso di Akutagawa.”

“Akutagawa Ryunosuke. Come lo scrittore” commenta una voce maschile, questa volta. “È una coincidenza bizzarra.”

“Non dovremmo stare qui a discutere il suo nome” taglia corto Nakahara. Ryunosuke lo sente sospirare. Apre di nuovo gli occhi. C’è una bambina, con un kimono rosso e con dei disegni floreali. Se Ryunosuke avesse preso uno qualsiasi dei kimono in questa stanza, avrebbe guadagnato più di quanto Gin ha guadagnato negli ultimi sei mesi. “Akutagawa è obbediente, è grato, è -è leale. Cos’altro volete?” Ha studiato anche quel negozio. Il negozio di kimono in cui lavorava quella signora. Lei si chiamava… si chiama Chisato. Ryunosuke non ha mi chiesto come si scrivesse il suo nome. Se fossero mille città natali, quelle che portava nel nome, o se fossero mille santi, o una grande distanza. Era la proprietaria. Il negozio era sempre vuoto. Lei gli portava sempre due panini al melone. Uno per te. Uno per tua sorella. Perché lui continuava a lasciare il pezzo più grande per portarlo a casa. Lui aveva fame. Anche Gin doveva avere fame, quindi.

“Qualcuno che sa in cosa si sta immischiando.”

“Lui è già immischiato!”

Ryunosuke gira la testa verso la porta. Si morde l’interno delle guance e sente come la bambina col kimono rosso gli si avvicini, per guardarlo con degli occhi che sono davvero troppo grandi. È una ragazzina. Si deve star affacciando alla pubertà. Ryunosuke si concentra su di lei. Ha gli stessi occhi di Gin.

“Ed è solo. Mi avete chiesto qualcuno di poco curioso e solo. Nessuno lo può proteggere, ha bisogno di soldi. Tenetelo come un vostro commesso regolare, se vi dà tanti problemi metterlo nei vostri affari. Lasciate che si guadagni la vostra fiducia, se dovete. I soldi non vi mancano, giusto?”

Ryunosuke inclina la testa e vede la bambina col kimono rosso sedersi accanto a lui. Ha un peluche a forma di coniglio bianco. Devono piacerle le cose carine. Come a Gin. Ryunosuke si lascia sfuggire un mezzo sorriso. Gin da piccola non poteva vestirsi in modo femminile. Era pericoloso. Forse a undici, o dodici anni, Gin sarebbe stata così, se le fosse stato permesso vestirsi come voleva, giocare con quello che desiderava, se non fossero stati entrambi così presi dall’idea di sopravvivere da poter pensare ad altro, oltre al cibo che mancava tra le loro mani.

Ryunosuke allunga la mano e, senza pensare, la posa sulla testa di quella ragazzina, che si gira verso di lui, con un’espressione neutra.

“Tu lo hai portato qui con l’intenzione di farlo proteggere da noi.”

“Cos’ha fatto quel ragazzino che deve chiedere protezione a noi?”

Ryunosuke tira indietro la mano e abbassa il mento. La ragazzina si alza in piedi e tira giù a testa, per guardare l’espressione di Ryunosuke. Gli schiaccia il peluche in faccia, solo per poi tirarlo indietro e mostrare un sorriso divertito. Gin sarebbe stata così?

“Quel ragazzino lavora duro. Cos’altro volete sapere di lui?”

È stato il pensiero che avrebbero potuto mangiare, insieme a Gin, entrambi con la pancia piena, che ha spinto Ryunosuke a rubare due dei kimono più costosi dal negozio di Chisato. È entrato in piena notte. I kimono erano più grandi di lui, li ha piegati, messi in una scatola nello stesso modo in cui Chisato gli aveva insegnato e li aveva venduti a poco meno del loro prezzo originale. Quella ragazza aveva detto che non riusciva a compare un kimono perché erano tutti troppo costosi. Ryunosuke e Gin hanno mangiato per quasi un anno, con quei soldi. Era la prima volta che Ryunosuke rubava. Rubava sul serio.

“Che cosa ha fatto, Chuuya?”

Nakahara sospira.

Ryunosuke si gratta la nuca, tirando la testa un po’ in avanti.

“Sai, onii-chan” sussurra la bambina, prendendo una ciocca dei suoi capelli tra le dita. “I samurai portavano i capelli lunghi. Li legavano così. Tu li sai legare così?” Ryunosuke sospira. La bambina aspetta una risposta, con la testa inclinata, sempre più inclinata

Voleva tenere un kimono, per Gin. Ma anche se avesse avuto i soldi per comprargliene uno, sarebbe stato troppo pericoloso, farla vestire come voleva vestirsi lei. Era pericoloso. Ryunosuke non poteva proteggerla. Non è mai riuscito a farlo. È sempre stato il contrario. “I samurai non proteggevano le bambine.”

“E i ninja?”

“I ninja portavano i capelli corti.”

“Non sei molto simpatico.”

Ryunosuke si accarezza il retro del collo. “Non vengo pagato per essere simpatico” risponde, con la fronte aggrottata. Gira la testa verso la porta dietro la quale i signori Izumi e Nakahara stanno discutendo.

Ha ragione, quell’idiota di Atsushi ha ragione. Con una cravatta, Ryunosue si sarebbe sentito soffocare, ha il collo che gli va in fiamme. Sente di avere davvero troppo caldo. Atsushi, prima di salutarlo gli ha detto: spero che tutto vada bene, anche se non te lo meriti. Non capisce perché gli viene in mente adesso. Non capisce nemmeno perché si stia aggrappando a quelle parole.

Spero che tutto vada bene.





[...he understood far more deeply than anyone else the loneliness that lurked beneath his jaunty mask.]

Piove.

Ryunosuke guarda fuori dalla finestra. Si è svegliato e pioveva. È venuto fino al negozio degli Izumi e pioveva. È entrato in negozio e pioveva. Il sole ancora non si era nemmeno alzato dietro le nuvole e pioveva. Tuona anche. Se non ricorda male, oggi è uno di quei giorni in cui deve incontrarsi con Atsushi. Dopo che lui va a scuola, certo, deve prendersi tutto il tempo per andare fino in agenzia e posare le sue cose, poi cambiarsi, perché, gli ha detto questo Kunikida-san di cui non fa altro che parlare, anche quando deve conoscere la città, rappresenta la sua agenzia e quindi non possono permettersi che lui si faccia vedere con un maglione di Hello Kitty. Però piove. Non aveva mai piovuto i giorni in cui si sono incontrati. Ryunosuke ha visto Atsushi solo sotto il sole. Ha la sensazione che oggi non riuscirà a vederlo.

Ryunosuke si passa una mano sul polso. Non sta sudando, ma ha un po’ di caldo. Izumi-san gli sistema il kimono sulle spalle. È già il terzo che prova. Lei dice che non gli piace come il colore si abbina alla pelle di Ryunosuke e lui si è dovuto mordere la lingua per non rispondere che a lui non è che importi tanto. Quel kimono non è certo suo e, alla fine della giornata, dovrà darlo indietro. È a malapena una divisa. Spera che non gli detraggano niente dallo stipendio.

La stanza è silenziosa. Kyoka, la bambina che ha chiesto a Ryunosuke perché non vuole essere un samurai, sta seduta composta, con le ginocchia ben chiuse e il suo coniglietto bianco tra le mani. Non dice nulla. Ognuno lì dentro, ascolta la pioggia. Questo sembra essere il kimono giusto. Izumi-san si muove intorno a Ryunosuke e non sorride, ma sembra soddisfatta. Come se lo stesse per comprare in un’asta. Come se Ryunosuke fosse un qualche tipo vaso antico da valutare.

“Il nero sembra essere il tuo colore.”

È una cosa risaputa che i kimono maschili sono più brutti di quelli femminili. O meglio, come Gin vuole che lui dica, meno belli. I kimono femminili sono colorati e pieni di decorazioni. L’obi che indossano viene piegato e annodato in modo differente per dare risalto alla figura che c’è sotto l’abito stesso. I kimono maschili sono semplici, di solito nascosti da un haori e con un obi basso, con un nodo semplice. A Ryunosuke, questo kimono non sembra un granché. Ci sono uomini che quando indossano il kimono diventano più affascinanti. Sembra che Ryunosuke non sia uno di questi. Quindi si limita a non rispondere e ad arricciare le labbra. Si rifiuta di guardarsi allo specchio. Sente il petto che gli impedisce di respirare. Vorrebbe poter tossire.

Izumi-san gli sistema il kimono una seconda volta. Controlla che l’obi sia ben riposto, prima di sorridergli. “Porti il nome di uno scrittore, lo sapevi questo?” gli chiede, portandosi una mano sotto il mento. “Hai mai letto qualcosa di suo? Sono stati i tuoi genitori a darti questo nome?”

Ryunosuke si morde l’interno delle guance. Il suo nome è l’unica cosa che… “... mi hanno dato i miei genitori.” Metà della frase sembra essere uscito dalle sue labbra. Ryunosuke corruga un po’ la fronte e si porta una mano sulla bocca. Ma non ha mentito. Il motivo per cui sa che il suo nome è Ryunosuke è che Gin lo chiamava così fin da quando era molto piccola, storpiando un po’ le sillabe, okay, ma l’unica persona in questo modo accanto a lui lo chiamava in quel modo. E l’unica persona in questo mondo che lui voleva chiamare, ricordava, per qualche motivo, che portava e porta il nome Gin. Come un pesce rosso. Per anni non hanno avuto un cognome. È stato Dazai-san a dargliene uno. Forse pensava che fosse una battuta divertente, dare a un ragazzino con la licenza media il nome di un grande scrittore. Lo deve aver fatto per ridere. “Solo il nome.” Non ricorda il suo cognome prima. Non pensa davvero di averne avuto uno.

Anche Atsushi ha il nome di uno scrittore. Lo ha visto leggere un libro di un certo Nakajima Atsushi. Uno scrittore secondario, morto giovane, che conoscono in pochi, non lo conosceva nemmeno Atsushi, fino a poche settimane fa. Non sa perché adesso sta pensando a lui. Quando ha scoperto il suo omonimo scrittore, Atsushi ha inclinato la testa, ascoltando una guida parlare di come quell’uomo fosse morto ad appena trent’anni per un polmonite. Ha cercato di sorridere. Deve essere stato un augurio del direttore.

A lui, i suoi genitori non hanno lasciato nemmeno il nome.

“Conosci il percorso per arrivare al tempio?” gli chiede ancora Izumi-san, con un gomito posato sulla mano e un sorriso elegante. Sua figlia, Kyoka, della sua eleganza ha poco. Per quanto si sieda composta e per quanto cerchi di seguire il galateo, si vedono ancora le croste sulle caviglie di una bambina che gioca all’aperto, che cade sul cemento e che ride a voce troppo alta. Kyoka non assomiglia a sua mamma. Deve ancora costruire questa maschera che Izumi-san porta con sé. “La cosa che trovo singolare è la tua storia, Akutagawa-kun. Chuuya ti ha presentato come un ladro per sopravvivere. Tu e tua sorella. Un racconto di Akutagawa Ryunosuke parlava proprio di questo. Cosa è giusto fare per sopravvivere? Va bene rubare? Va bene rubare ai morti? Tu hai rubato ai morti?”

Ryunosuke deglutisce. Guarda da un’altra parte. Qualsiasi cosa lui abbia fatto, sono affari suoi. E in qualsiasi guaio lui si fosse cacciato -se ne è tirato fuori, anche se a volte tirarsene fuori vuol dire aspettare che tutte le persone coinvolte muoiano.

“Chuuya chiede di nasconderti in piena luce del sole. È nasconderti quello che vorresti fare?”

Ryunosuke lancia uno sguardo a Kyoka, che, annoiata, gira il suo coniglio di peluche ancora e ancora e ancora. “Volevo vendetta” risponde con un fil di voce. “Per le persone che hanno portato via, io volevo vendetta.” Abbassa lo sguardo. Non gli è mai piaciuto mentire a persone a cui può dire la verità. “La voglio ancora.”

Izumi-san arriccia le labbra. Il rossetto le rende più carnose. In questo posizione sembrano essere un cerchio soffice. “Ma?” gli chiede alzando un sopracciglio.

Ryunosuke prende un respiro profondo. “Ma” sospira, ruotando gli occhi. “Non so contro chi. Non so come. So, per ora, che ho solo mia sorella. E per lei vorrei una vita tranquilla. Qualcosa di normale.” In cui può indossare i vestiti che vuole e giocare con dei peluche. Ed essere rude se vuole essere rude e delicata se vuole essere delicata. In cui queste cose non le porteranno un problema o dolore o pericolo. In cui può ridere. Gin non ride da davvero tanto tempo. Gli piacerebbe saperla felice.

Izumi-san posa una mano sulla sua testa e arriccia piano le dita. “E perché questa cosa non va bene per te?” gli chiede a bassa voce. Poi sorride. “Il nero è il tuo colore e il blu mette in risalto la pelle. Da domani, Koyo si prenderà cura di te e Kyoka. Hai due settimane per imparare tutto. Poi inizierà la settimana di prova. Questo mese sarà retribuito.”

“Perché mi ha chiesto se conosco il percorso per arrivare al tempio? So cosa è un sando.”

Izumi-san scrolla le spalle. Un rossetto rosso che ha poco a che fare con il kimono, o i suoi capelli. Lo deve aver messo per accentuare il suo sorriso.

Fuori continua a piovere.


 



“Com’è il nuovo lavoro?” gli chiede Nakahara, seduto di fronte a lui con le gambe accavallate e la giacca posata sulle spalle. Non guarda verso Ryunosuke, ma qualcos’altro, come se fosse in attesa che qualcosa compaia, che qualcuno arrivi. È seduto con Ryunosuke. Non è seduto solo con Ryunosuke, però. Non emotivamente, almeno.

Ryunosuke non sa da dove vengano i soldi che Nakahara spende nelle cose più strane, come il vino di prima che loro nascessero, o su cappelli che un giorno gli copriranno la sua testa pelata e altre cose del genere. O almeno. Deve fingere di non sapere da dove vengono tutti quei soldi, come deve fingere di non sapere da dove vengono i soldi degli Izumi, nonostante il loro negozio sia sempre vuoto. Si è lasciato sfuggire un commento del genere l’altro giorno, con Atsushi. Erano in stazione. Atsushi aveva alzato lo sguardo verso il cielo e aveva detto che una volta era scappato dall’orfanotrofio. Non gli ha spiegato il perché, gli ha detto però che era scappato dall’orfanotrofio e si era infiltrato in una gita scolastica che stava andando da qualche parte. Un teatro, ha scoperto poi.

Ryunosuke prende una zolletta di zucchero tra le dita. Non sa perché gli viene coì tanto in mente Atsushi. Se assottiglia gli occhi, riesce a vederlo accanto a lui, l’aria frizzante dopo una pioggia leggera, le labbra socchiuse, le mani unite dietro la schiena e quel disgustoso maglione di Hello Kitty. Riesce a vederlo, accanto a lui, che incontra il suo sguardo e, forse per il nervosismo, sorride. Ryunosuke si passa una mano sulla fronte. Se la gratta. Prende un’altra zolletta di zucchero da far cadere nella sua tazzina.

Gli ha detto, Atsushi, che c’è stata una cosa che qualcuno ha detto, in quel teatro, che gli è rimasto in testa per settimane. Aveva detto, quel tipo: se anche nessuno venisse in questo teatro, se anche nessuno venisse a vedere questi spettacoli, questo teatro non chiuderà mai. Così tanto costano i biglietti. Una sola persona, con un solo biglietto, potrebbe coprire i costi dell’intero teatro. Un intero teatro. Grande imponente, ornato di filamenti d’oro. Un solo biglietto. Una sola persona.

Ryunosuke gli ha chiesto perché era scappato dall’orfanotrofio. Atsushi non ha risposto. Ha piuttosto chiesto a sua volta: non è per questo che gli Izumi ti tengono con loro?

“Perché tu mi tieni con te?” si lascia sfuggire, prendendo una terza zolletta di zucchero tra le dita.

Nakahara sospira. “Come sta Gin?” chiede a sua volta. È la seconda domanda che fa ed è la seconda domanda a cui Ryunosuke non ha intenzione di rispondere. Non che Nakahara ormai si preoccupi troppo delle risposte. Continua a guardare verso la finestra, muove il piede sotto il tavolo. Nemmeno si gira a guardarlo, Ryunosuke.

Ryunosuke si chiede -prende un’altra zolletta di zucchero. Si chiede come reagirebbe Nakahara se gli rispondesse. Se gli dicesse che ha incontrato una tipa coi capelli rossi che gli sta dando il tormento, che parla sempre di postura e di spalle rilassate e di come i vestiti occidentali abbiano rovinato l’eleganza del modo di vestirsi giapponese. Potrebbe raccontargli che lo ha sentito parlare con gli Izumi e che sa quello che sta cercando di fare, aiutare lui e Gin, non ferire il loro orgoglio. Ryunosuke potrebbe raccontare a Nakahara che detesta Atsushi con tutto il suo cuore, che non lo vuole più vedere, ma che quando Atsushi è accanto a lui -Ryunosuke potrebbe raccontare che Gin ha intenzione di andare a trovare un suo vecchio insegnante e che rimarrà fuori città per una o due settimane. Potrebbe raccontargli che forse -ha pensato che potrebbe ricominciare a studiare. Sia Ryunosuke che Gin, potrebbero andare a delle scuole serali, prendere un diploma. Gli piacerebbe. Atsushi ha detto che gli sembra un’idea brillante. Nakahara la trova un’idea brillante?

Questi incontri, però hanno poco a che fare con una persona che è davvero interessata a Gin e a Ryunosuke.

Per la strada, sopravvive il più forte. Quando non hai una famiglia, si sopravvive in gruppo. Nakahara ha perso il suo gruppo. Gin e Ryunosuke hanno perso il loro gruppo. Più o meno è successo nello stesso modo, quasi nello stesso periodo. Ryunosuke non sa perché Nakahara ha voluto prendersi cura di lui e Gin, è ancora giovane, è appena diventato maggiorenne e ogni tanto passa dei soldi a due orfani. Ha detto: beh, se vogliono vivere da soli, facciamo finta che sono io che li controllo. Trova dei lavori a due orfani. Tiene lontano da Gin chiunque potrebbe farle del male. Ma non lo fa né per Gin né per Ryunosuke. Lo fa per qualche altro motivo che Ryunosuke non capisce e che non ha intenzione di capire.

Nakahara prende un respiro profondo. “Dazai dice che ti ha trovato un amico e che andate molto d’accordo.”

Ryunosuke e Atsushi non sono amici.

Ryunosuke guarda la tazzina di fronte a lui. Dovrebbe chiedere di nuovo per quale motivo lo tiene ancora con lui. O cambiare domanda. Chiedergli quando lo ha incontrato, Dazai-san, o perché parlano ancora tra loro. Nakahara aveva detto che non gli avrebbe parlato mai più. Non lo ha mai sopportato. Nakahara a Dazai-san non sono mai riusciti a lavorare insieme o a stare insieme. Forse è questo che Nakahara non perdona a Dazai-san. Forse Nakahara ci ha provato e Dazai-san no. Forse ci hanno provato entrambi e hanno fallito e Nakahara deve e vuole dare la colpa a qualcuno. Beh, di sicuro questi non sono affari in cui Ryunosuke deve mettere il naso.

“Potresti parlarne con me, sai?” continua Nakahara, guardando fuori dalla finestra. “Del tuo amico. Del lavoro. Te l’ho trovato io il lavoro, te lo ricordi, sì?”

Ryunosuke prende un’altra zolletta di zucchero. La gira tra le dita. “Cosa vuoi?” Si morde l’interno delle guance. Mantiene lo sguardo basso. “Che ti ringrazi?”

Nakahara incrocia le braccia. Koyo sarebbe fiera di lui e del suo portamento. Il modo in cui posa il gomito sulla mano, o come mantiene la schiena dritta, le spalle rilassate. Koyo ha parlato del modo in cui tutto il corpo sembra ed è molto più rilassato quando le persone indossano il kimono. Nakahara sembra essere il suo modello principale, forse anche lui ha imparato qualcosa da lei. Forse si conoscono. Koyo ha detto che l’eleganza è il miglior modo di vendersi e di sedurre. Se Ryunosuke si sedesse in questo modo davanti ad Atsushi, lui…

“Non lo voglio.” Nakahara scuote la testa. “Ho già quello che volevo.” Muove la mano verso la tasca interna della giacca e tira fuori una bustina marrone, che fa scivolare sul tavolo. Poi prende il suo portafogli e tira fuori delle banconote, da lasciare sul tavolo. Si sistema il cappello sulla testa e si alza in piedi. “Il prossimo mese, stesso giorno, stessa ora, stesso tavolo. Porta anche Gin. Non la vedo da molto. Se hai bisogno di più soldi, chiamami.”

Ryunosuke vorrebbe poter ringraziare Nakahara in modo normale. Prende la busta coi soldi. Li infila nella tasca della giacca. Nessuno gli ha mai spiegato come ci si deve comportare in modo normale, però. Ringraziare qualcuno vuol dire far vedere loro che si aveva bisogno del suo aiuto- Per strada, avere bisogno di qualcuno vuol dire firmare la propria morte. E questo Ryunosuke non se lo è mai potuto permettere. Ha deciso molto tempo fa che non ha intenzione di morire.

 




L’appuntamento con Atsushi era all’una del pomeriggio. Alle dodici e quarantacinque, è uscito il sole dopo una mattinata di pioggia e la testa di Atsushi è comparsa dietro la vetrina del negozio di kimono degli Izumi, con un sorriso. E Kyoka, in piedi immobile con le mani intrecciate davanti alla pancia, impassibile per ore, ha inclinato un po’ la testa e si è portata una mano sulle labbra, con le orecchie rosse. Ryunosuke ha ruotato gli occhi.

Non ha tempo per pensare anche ad Atsushi, in realtà. Ha paura che se iniziasse a pensare a lui, o questa strana reazione di Kyoka, dimenticherà tutte le cose che ha imparato da Koyo, che vorrebbe essere chiamata per cognome e con un onorifico (preferirebbe il dono), ha detto, ma a Ryunosuke questa cosa non importa e continua a chiamarla Koyo. Ci sono molte più cose di quelle che Ryunosuke ha memorizzato quando era piccolo da imparare sui kimono, sembra, e ci sono dei termini da ricordare, ci sono troppe esperienze tattili (come dice Koyo) da ricordare. Se verrà preso come commesso, dovrà parlare coi fattorini, dovrà parlare con le persone che danno loro il tessuto per i kimono, o per gli obi, deve essere abbastanza indipendente da riconoscere da solo se è possibile fare un affare coi fattorini o coi commercianti che si presentano da loro.

Questo e, beh, deve ricordare i diversi tipi di kimono (tomesode, furisode, tsukesage...), i diversi tipi di obi (maru obi, fukuro obi, chuya obi...) -ha praticamente già dimenticato tutto. Ryunosuke sbarra gli occhi e appoggia i gomiti sul bachetto in cui lo avevano asciato a studiare. Quali erano i nodi degli obi e quali erano i tipi di obi e quali dovevano essere fatti per i kimono femminili e quali per i kimono maschili? E come si facevano? Koyo ha detto qualcosa su delle lezioni pratiche sull’aiutare a far indossare i kimono, che parte dall’indossare lui stesso un kimono senza fare disastri. Come? Come può ricordare tuto? E poi -non è che i clienti vengano fino a qui e gli chiedano ehi, ma come si chiama questo tipo di obi? E come lo fai? Non lo fanno. Tutto questo è stupido. Gira la pagina con gli appunti che ha preso oggi e poi torna alla pagina in cui si trovava alla fine. Ha voglia di sbattere la testa. Vogliono solo torturarlo, ecco cosa. Stringe la mano in un pugno. Odia questa situazione.

In più, lo sa che se anche passasse la settimana di prova questo vorrebbe dire che farebbe da fattorino per un qualche tipo di affare non proprio legale degli Izumi. Non vuole ficcare il naso. Non crede che sia chissà che cosa di sbagliato, se gli daranno dei soldi in più e se lui può far finta di star solo portando da una parte all’altra dei tessuti preziosi. Gli basta rimanere pulito fino ai vent’anni di Gin. Cioè deve rimanere pulito per quattro anni e sperare che, quando Gin sarà maggiorenne, non avrà più bisogno di lui, così non la trascinerà ovunque lui vada a finire. E ha quattro anni per pensare a come vendicarsi. Magari fare da fattorino per gli Izumi lo aiuterà a fare conoscenze importanti per arrivare a chiunque debba arrivare, o per capire che cosa è successo di preciso. A lui. A sua sorella. Alla sua famiglia.

Ma per farlo, deve imparare i nodi degli obi. Gli si chiudono gli occhi. E non ha voglia di pensare ad Atsushi. Lui è quel tipo di persona che risucchia chiunque stia intorno a lui. Quando Atsushi gli ronza intorno, Ryunosuke non fa altro che pensare a lui. Lo detesta. Si passa una mano trai capelli. Deve pensare a come vendicarsi. Deve pensare anche a Gin.

“Non è quella la postura di qualcuno che indossa un kimono.” Koyo colpisce la nuca di Ryunosuke con il ventaglio. Il ventaglio, che fa venire un brivido lungo la schiena di Ryunosuke, si muove verso il suo mento, per fargli alzare la testa e prendere di nuovo una posizione composta. Koyo gli batte sulla parte bassa della schiena con la mano due volte. “Devi rimanere dritto. Guarda Kyoka.”

Kyoka tiene la testa un po’ bassa, lo sguardo puntato verso qualche parte oltre il braccio di Atsushi, che è entrato nel negozio. Sorride un poco. Ryunosuke non lo sa come fa, ma Kyoka sta sorridendo senza sorridere. E fa quello sguardo languido verso Atsushi. Ryunosuke non vuole per niente fare come fa lei. Davvero non capisce perché dovrebbe prendere esempio da una dodicenne con una cotta per un deficiente. “Sembra un’idiota.”

“Parla così un gentiluomo?”

Atsushi sorride verso Kyoka, le dice qualcosa, le passa una mano sulla testa e Kyoka sembra star per prendere fuoco. Certo che si sta comportando come una fanciulla con le gote arrossate. È una ragazzina con le gote arrossate. E questo è così irritante. Non è anche un po’ troppo precoce? Kyoka ha solo dodici anni. E Atsushi non sembra rendersene conto, di queste attenzioni, cosa che rende il tutto solo una grandissima perdita di tempo. O no?

Quando lo sguardo di Ryunosuke e Atsushi si incontrano, Atsushi sorride e alza una mano per salutarlo. Ryunosuke torna a guardare il suo quaderno degli appunti. Riesce a vedere con la coda dell’occhio che Atsushi sorride e poi sospira, tirando giù le spalle.

I nodi degli obi. Come si chiamano i nodi degli obi e come si fanno? Quali sono i tipi di obi? Quali sono i tipi di kimono? Loro in questo negozio vendono gli yukata? Quali sono le differenze principali tra i kimono femminili e quelli maschili? Perché Atsushi lo continua a fissare, mentre risponde con pazienza alle domande di Kyoka? Dovrebbe dirgli di farsi i fatti suoi e che dovrebbe aspettare fuori da qui, certo non lì. Questo è il posto in cui lavora, certo non dove va a fare l’idiota o dove va a giocare. Ryunosuke sente di avere le orecchie calde, per qualche motivo.

Non è la prima volta che Atsushi si fa vedere dagli Izumi. Nell’ultima settimana, Atsushi e Ryunosuke dovevano incontrarsi tre volte e Kyoka ha insistito che si incontrassero qui, visto il brutto tempo. Ryunosuke ha fatto finta di non sapere il motivo di questa sua richiesta. Ma è divertente vedere quel gatto randagio in mezzo a un negozio di cristalli.

“Mi piace” sta dicendo Atsushi, con un sorriso. Indica con un dito Ryunosuke. “Il kimono di Akutagawa. Come gli sta. È molto affascinante, non pensi? Sembra un’altra persona.”

Lo ha detto solo per dargli fastidio. Ryunosuke adesso sente anche il petto caldo, la punta del naso che pizzica un pochino, e gli occhi che gli si offuscano, come se volesse mettersi a piangere. Non gli deve deve dare retta. Gli obi. Gli obi. Dovrebbe pensare al tipo di obi, al tipo di nodi, deve guardare il suo quaderno. Si porta entrambe le mani sulle orecchie. Chiude gli occhi.

“Qual è il tipo di persona che ti piace, Atsushi-kun?”

Ryunosuke prende un respiro profondo. Gli obi. I tipi di kimono. La differenza tra…

“Immagino che qualcuno di gentile possa andare bene.”

Ryunosuke sente di aver tirato giù le spalle e, per un mezzo secondo, forse di meno, si è lasciato sfuggire un'espressione sul viso. No. Gli obi, i nodi dell’obi, i kimono, i tipi di tessuti, i tipi di… Ryunosuke aggrotta la fronte. Deve concentrarsi. Non ha tempo per queste cose. Non ha tempo per Atsushi.

(Ryunosuke non è qualcuno di gentile, comunque.)


 




I soldi di Nakahara di solito coprono l’affitto e la spesa. Gin si siede con le gambe unite davanti a Ryunosuke e, insieme, contano quanto sono riusciti a racimolare in questo mese, come hanno sempre fatto e come continueranno a fare per almeno altri quattro anni. I soldi guadagnati da Gin, non servono a coprire nulla, motivo per cui Ryunosuke li rimette nella busta e li spinge verso di lei. I soldi che sono stati guadagnati da Ryunosuke, vanno insieme ai soldi di Nakahara, invece, nel caso durante la spesa settimanale o giornaliera che sia manchino soldi. Togliendo i soldi per l’affitto, per pagare acqua, corrente elettrica e gas, a loro rimane poco più di trecentomiladuecento yen. Ryunosuke dubita sia abbastanza per la spesa di un mese intero, ma conta con l’arrivo della settimana retribuita in negozio. Se anche lo pagassero mille yen, ogni centesimo conta per lasciare che sua sorella sia un po’ più libera.

Gin guarda la sua busta dello stipendio e arriccia le labbra. Non hanno passato molto tempo insieme, nelle ultime settimane. Gin non ha lasciato molto spesso i suoi capelli sciolti, pare. A lei piace sciogliersi i capelli. Le piace indossare dei vestiti e camminare. Dice sempre che va bene anche solo camminare. Ryunosuke abbassa lo sguardo. Non fanno una passeggiata insieme da molto tempo.

“Quando andrai a fare la tua…?” inizia a chiedere. Ryunosuke si passa una mano sul retro del collo. Dovrebbe chiedere quando ha intenzione di andare a trovare il suo vecchio maestro, quello di cui parla a volte. Gin deve averglielo detto, ma ha dimenticato le date, la settimana. Non per cattiveria, è stata solo una svista, non sa come dirglielo.

Gin continua a guardare la busta coi soldi. Ha le sopracciglia aggrottate. La spinge di nuovo al centro del tavolo. Giocherella con le dita, sotto il tavolo. Ryunosuke riesce a vedere questo movimento solo per colpa delle spalle. Gin non è una persona che parla tanto. Non lo è mai stata neanche quando erano piccoli e, per qualche motivo, sembra che crescendo la cosa sia peggiorata. Nakahara ride sempre di loro, per questo. Dice, ed è una cosa a cui Ryunosuke sente di dare troppa importanza, che Gin non parla molto perché non ha bisogno di farlo. Ogni volta che vuole dire qualcosa, alza gli occhi verso suo fratello, che indovina cosa succede in mezzo secondo. È un talento, ride Nakahara, lui pensava che quei due avessero un qualche potere psichico, che magari parlavano per telepatia. Ma no. È solo abitudine. È per abitudine che Ryunosuke sa anche che cosa vuole dire in questo momento Gin.

“Se ti fai qualche amica” le dice. “Potresti andare a compare qualcosa insieme a lei. O a lui. Qualcosa che ti piace. Perché non tenere i tuoi soldi?”

Gin non si muove. Non apre bocca. Ryunosuke non si aspettava un’altra risposta, è sincero. Non ha comunque intenzione di toccare i soldi di Gin. Torneranno utili più tardi. A Gin, certo non a lui. Allunga il braccio e prende di nuovo la busta.

“Prima del tuo viaggio, andiamo a prendere vestiti nuovi” le dice. Questi soldi, insieme a quelli del mese prima e del mese prima ancora, devono finire nel fondo per Gin quando sarà diventata maggiorenne. Nakahara gli ha detto che nessuno può prelevare dal conto che ha fatto loro, finché Gin non avrà vent’anni. Ryunosuke non si fida molto di quel tipo e controlla che i soldi non siano spariti quasi ogni settimana, perché fidarsi non è mai bene. Pensa di mettere l’ anche questo stipendio di Gin. Qualsiasi cosa succeda, almeno sotto il punto di vista finanziario dovrebbe stare bene. “Quando sei libera.”

Gin alza i lati delle labbra. Sorride un po’. Se Ryunosuke fosse una persona distratta, avrebbe perso il suo sorriso.

Fuori città, Gin può indossare tutti i vestiti che vuole. È meno pericoloso. Ryunosuke spera che, quando si separeranno, Gin vada in campagna e possa tenere i suoi capelli slegati e che, per una volta, almeno per lei, le cose vadano bene. Non è il tipo di persona che esprime desideri, ma spera che questo suo desiderio sia esaudito.


 




Dazai-san si porta un pezzo di carne in bocca e sembra estasiato dal sapore, tanto da chiudere gli occhi e unire le mani insieme. Ha anche le guance un po’ arrossate, ma quello deve essere per il riscaldamento alzato al massimo del locale. Atsushi, accanto a lui, non sembra essere estasiato. Sembra solo star pensando a quanto gli costerà questo pranzo e al fatto che ha dovuto invitare anche Ryunosuke (che ha la brutta abitudine di non riuscire a dire no a due cose)(la prima è: a Dazai-san, ovvio)(la seconda è: a un pasto gratuito). Ryunosuke cerca di concentrarsi sulla carne nel bel mezzo del tavolo, che scoppietta sopra dei carboni ardenti. È sempre voluto venire in posti del genere. Anche lui è molto contento di poter mangiare carne.

Ryunosuke muove le bacchette tra le dita e corruga un po’ la fronte. Il piatto di Dazai-san è pieno di carne. Il piatto di Ryunosuke ha qualche pezzo di carne. Il piatto di Atsushi è vuoto. È una cosa a cui sta facendo sempre più caso. Non è solo una questione di crêpe, Atsushi sembra non riuscire a mangiare più di tanto. E se ci riesce, trova sempre delle scuse per non farlo. Come dire. Atsushi non sembra essere il fan numero uno del cibo, che è una cosa strana, visto che ogni volta che Ryunosuke gli chiede perché torna all’orfanotrofio, se ci sta così male, risponde che torna lì perché ha fame. Che non riesca a mangiare fuori dall’istituto?

Dazai-san sta dicendo qualcosa con la bocca piena, ma Ryunosuke non riesce a capire, né sente il bisogno di capire qualsiasi cosa stia dicendo. Gioca ancora con le bacchette, gira un pezzo di carne e poi, come se fosse la cosa più naturale del mondo, la appoggia sul piatto di Atsushi. Non aspetta una risposta, torna a guardare il suo piatto e a scegliere che cosa mangiare dopo. Atsushi muove il piatto di lato, per allontanarlo da Ryunosuke, come il ragazzino capriccioso che è.

“Dovresti accettarla” si intromette Dazai-san, con un enorme sorriso. “È difficile che il nostro Akutagawa-kun condivida qualcosa, non lo sai? Dalle parti da cui veniamo noi, il cibo scarseggia sempre. L’unica cosa a cui si pensa è che non importa se l’altra persona non mangia, basta che io sopravviva. Ed eppure, eccolo qui, il nostro dolce, gentile e altruista Akutagawa-kun, pronto a condividere un bene così prezioso.”

Ryunosuke non sa come questo discorso suoni alle orecchie di Atsushi, se pensa che Dazai-san lo sta elogiando o se sta solo ridendo di lui, per quello che gli riguarda. ma è un rimprovero. Glielo dicono gli occhi di Dazai-san. Freddi. Neri. Arrabbiati. Sembra che Ryunosuke abbia fatto qualcosa di imperdonabile, motivo per cui sente che forse l’aria condizionata di questo posto è davvero troppo alta e gli è difficile respirare bene. Forse un attacco di asma. Ryunosuke abbassa lo sguardo verso il suo piatto. Ha fatto un errore, quindi. Non lo sapeva. Non vuole fare errori. Non vuole deludere Dazai-san.

“Per quanto mi riguarda, se la può anche tenere” borbotta Atsushi. Le sue bacchette sono pulite. Non ha toccato cibo. Sarebbe sospettoso, se Ryunosuke non sapesse che questa feccia da orfanotrofio non sa nemmeno che cosa sia il cianuro, figuriamoci altri tipi di veleno. Voleva davvero solo essere…

Le orecchie di Ryunosuke sembrano star andando a fuoco. Si passa una mano sul collo e cerca di non pensarci. Lui voleva solo essere gentile. Come se lui fosse gentile. Come se Atsushi potesse anche solo pensare a lui come a una persona gentile. Non doveva accettare l’invito.

Dazai-san sorride ancora di più, divertito. Appoggia una guancia sulla mano a coppa e inclina un po’ la testa. “Andate d’accordo, voi due” dice. “Passeggiare insieme vi ha avvicinati?”

“È solo lavoro” rispondono all’unisono loro due.

Atsushi ruota gli occhi. Ryunosuke si passa una mano sul retro del collo e poi nasconde la bocca dietro la mano libera, per tossire. Sì. Forse è l’asma, per questo non riesce a respirare bene. Deve controllare di aver portato con sé l’inalatore, deve controllare anche che ci sia un posto areato in cui stare per qualche minuto. Anche se non vuole davvero lasciare tutta questa carne da sola. Non sa perché Atsushi mangi sempre poco e di malavoglia, davanti a lui, ma sa che non possono essere più diversi di così, loro due. Ryunosuke adora poter mangiare fino a che la pancia non è sazia. Perché potrebbe non esserci una prossima volta in cui mangia così.

“Aw.” Dazai-san inclina la testa ancora di più, fino a quasi toccare il tavolo coi capelli. “Tu non lo puoi sapere Atsushi-kun, ma quando ho incontrato Akutagawa-kun era alto più o meno quanto questo tavolo. Gli ho dato una volta soltanto un pezzo di pane e lui ha iniziato a seguirmi ovunque come se fosse stato un cane. È stato così sconveniente. E mi ha portato molti problemi. Ci sono stati giorni in cui avrei voluto non dargli quel pezzo di pane. Ci sono volte in cui avrei voluto che morisse di fame. Questo mi rende una brutta persona?”

Ryunosuke crede di trovarsi in mezzo a una conversazione che non può capire del tutto. Non che gli importi. Cerca di concentrarsi sul cibo, piuttosto. Se Dazai-san ha qualcosa da dire ad Atsushi e ha intenzione di usare quella storia -beh, non è che lui non la conosca e non sappia cosa pensava Dazai-san ai tempi. Non è nemmeno così delicato da rimanerci male. Dazai-san, anche provando fastidio o irritazione nei suoi confronti, lo ha salvato da una morte certa. E non soltanto lui. Ha salvato sua sorella. Portando del cibo avanzato non una, non due, non tre volte ma ogni volta che loro avevano bisogno. In cambio di informazioni, in cambio di posti in cui andare, in cambio anche di cose da portare, ma li ha comunque salvati. Atsushi non può certo giudicarlo per questo. E a Ryunosuke non importa.

Atsushi lancia uno sguardo verso Ryunosuke e poi torna a guardare Dazai-san. “Anche quello era solo lavoro” risponde con un tono certo, una sicurezza che è difficile da sentire in lui.

Che Dazai-san stia testando la sua lealtà?

Ryunosuke corruga la fronte e alza lo sguardo per vedere il sorrido di Dazai-san. Sta cercando di capire quanto può fidarsi di Atsushi? Davanti a Ryunosuke? Usando Ryunosuke come mezzo per il test, addirittura? Ryunosuke mangia la carne, portandosela in bocca tutta intera e iniziando a masticare, per girarsi verso Atsushi.

Quando li ha incontrati, non gli era sembrato che ci fosse qualcosa che non andava. Atsushi ha smesso di sorridere quando ha visto Ryunosuke e ha anche ruotato gli occhi, ma questa è solo la norma. Che Dazai-san stia pensando a qualcosa? Che l’agenzia in cui lavorano non basti più? Vuole chiedere loro qualcosa? Vuole sapere a chi va la loro lealtà? Di entrambi? Non pensava che Atsushi fosse un ragazzino anche troppo innocente per capire il tipo di mondo in cui vivevano? Se sta congetturando qualcosa, allora perché portare un novellino come lui in questa faccenda? E, domanda più importante, è per questo che ha chiesto proprio a Ryunosuke di portarlo da una parte all’altra della città?

“Non mi vuoi chiedere com’era Akutagawa-kun da bambino?” ride ancora Dazai-san.

Atsushi ruota gli occhi. Ryunosuke continua a mangiare.

“Allora era alto così, gli occhi erano più grandi, si sono rimpiccioliti col tempo, un vero peccato se lo chiedi a me, e aveva sempre le mani sporche. Ugh. Si aggrappava ovunque, toccava sempre tutto e poi si aggrappava alla mia giacca sporcandomela tutta. Davvero disgustoso.”

“Non ho chiesto niente di tutto questo” si lamenta Atsushi. A Ryunosuke non importa. Basta che possa continuare a mangiare, per il resto, potrebbe anche non essere lì.

“Da bambino rideva molto” continua Dazai-san. Tira giù la mano e incrocia le braccia davanti al petto. “Ah. Questo ha attirato la tua attenzione” punzecchia Atsushi, indicandolo con gli indici. “Okay okay, allora ti dirò che Akutagawa-kun da piccolo rideva molto spesso e aveva un senso dell’umorismo preoccupante, lo facevano ridere le cose più stupide. Una volta è scoppiato a ridere per un rospo. Sembra che il rospo abbia fatto il suo verso e abbia gonfiato le guance. Akutagawa-kun ha iniziato a ridere ad alta voce, anche battendo le mani. E gli piaceva quando altre persone si facevano male. Se qualcuno cadeva da una bicicletta, dovevi raccogliere il tipo sulla bicicletta e anche Akutagawa-kun, che si piegava in due dalle risate fino a non riuscire a sostenersi più sulle sue stesse gambe. Poi ha smesso.”

“Perché?”

Ryunosuke non vuole sentire e nemmeno vuole sapere. Dazai-san scrolla le spalle. “È un mistero il nostro Akutagawa-kun” sospira. “Hai fatto così tante domande a me... perché non lo chiedi al diretto interessato adesso?”

Atsushi gira la testa vero Ryunosuke. Sembra star pensando. E anche Ryunosuke sta pensando, perché Dazai-san ha detto che Atsushi ha fatto tante domande. Domande su Ryunosuke? È per questo che Dazai-san ha iniziato a parlare di lui? Per rispondere a quelle domande? In questo ristorante fa caldo. Ryunosuke dovrebbe alzarsi in piedi e andarsene.

“Non mi è mai piaciuto ridere” taglia corto, allungando la mano per prendere un altro pezzo di carne.

Atsushi abbassa o sguardo. “Ah.” La base del suo collo diventa rossa. Si accarezza la fronte con la mano sinistra, quella più vicina a Ryunosuke, forse per chiudere un loro qualsiasi contatto visivo. Dazai-san, davanti a loro, sembra essere deliziato da qualsiasi cosa stia succedendo. Sorride, nasconde le labbra dietro una mano. Scuote anche un po’ la testa, come se si trovasse davanti al più bel spettacolo comico a cui ha mai partecipato.

Ryunosuke si chiede che cosa sta succedendo.




[A man sometimes devotes his life to a desire which he is not sure will ever be fulfilled]

La prima volta che Ryunosuke vede Atsushi in una giornata senza sole, è anche il primo giorno in cui loro due si sono incontrati in un giorno in cui non si sarebbero dovuto incontrare, e il primo giorno in cui Atsushi non sorride, nemmeno per cortesia a nessuno. E Ryunosuke guarda verso l’alto, le gocce di pioggia che non vogliono smettere di cadere e che rendono tutto solo molto triste, l’aria fredda di metà dicembre che vuole già fargli gelare le ossa.

Ryunosuke è in stazione perché ha accompagnato Gin al suo treno. L’ha salutata. Le ha anche dato un abbraccio. E ha pensato che per questa settimana il loro appartamento sarebbe stato molto vuoto, senza lei che passeggia da una parte all’altra, con una tazza di tè o di caffè o di qualche strano infuso tra le mani. E mentre si sistemava la giacca e pensava a questo, ha visto Atsushi, senza giacca, con le braccia incrociate che guardava verso l’alto, forse in attesa che la pioggia smettesse di cadere. Ha qualcosa in mano. Sembra un vecchio libro. Non deve volersi muovere dalla stazione per non bagnarlo, da bravo secchione.

Ryunosuke ha pensato anche a questa cosa di Atsushi. Per quello che gli ha raccontato, i vestiti che Atsushi indossa sono vestiti che altri orfani prima di lui hanno indossato. Per avere quell’orrendo maglione per cui tutti ridono di lui, quello di Hello Kitty, quello di Pikachu, quello orrendo con degli strani disegni colorati, Atsushi ha dovuto lottare con altri ragazzi e, ha detto ridendo, ha dato una gomitata a uno dei più piccoli perché magari questi non erano i maglioni più belli del mondo, ma erano i maglioni meglio tenuti, quindi quelli che lo avrebbero tenuto più al caldo. Ryunosuke inclina un po’ la testa. Deve aver perso la lotta per una giacca, Atsushi, visto che non ne mette mai una. I vestiti che ha a lavoro sono, appunto, per il lavoro, e li tiene da qualche parte in agenzia, perché, Ryunosuke prova a indovinare ma è pronto a scommettere che lo faccia per non farseli rubare.

Atsushi continua a guardare il cielo. Si sfrega le mani contro le braccia. Non è una cosa che fa davanti a Ryunosuke. Di solito, anche se fa freddo, Atsushi riesce a non rabbrividire. È forte a modo suo, ora che ci pensa. Atsushi. Lo è nei modi più strani, ma non per questo non lo è. Crede.

Ryunosuke ha un ombrello. Lo tiene legato al polso, per non perderlo e trovarlo subito, in giornate del genere. Atsushi sembra non averne uno. Sono le dieci del mattino. Non dovrebbe stare a scuola? E non dovrebbe indossare un’uniforme? Ryunosuke ha davvero tante domande. Non le chiederà mai, ma le ha.

Si avvicina ad Atsushi con calma. Studia il suo viso. È quasi perfetto. Ha le guance un po’ scavate. Sembra essere preso nei suoi pensieri. A cosa pensa? È una cosa importante? A Ryunosuke piace il viso di Atsushi. Il fatto che Atsushi sia anche facile da amare è una tragedia, dal suo punto di vista. Il profilo di Atsushi è uno di quelli semplici che sembrano venire fuori da una matita morbida. Forse perché è ancora così giovane, ha dei lineamenti che sono molto curvi e morbidi. La curva del suo naso è tonda, la curva delle sue labbra è ovale, e non ci sono linee dure. Ryunosuke non sa a cosa compararle, non è così bravo con le parole, preferisce parlare poco per questo. Ma gli piace il profilo di Atsushi, anche se è un po’ corrucciato, come oggi. Oggi è la prima volta che può pensare a una cosa del genere. Ryunosuke inclina un po’ la testa. Stringe l’ombrello. Dovrebbe chiamarlo? Dovrebbe cercare di risvegliarlo dai suoi pensieri? Atsushi è una spina nel fianco, ma a Ryunosuke piace. Dovrebbe lasciarlo qui, da solo, a congelare?

Ryunosuke sospira, sfilandosi un braccio dalla giacca. No. Forse non dovrebbe farlo. Dazai-san sembrava essere arrabbiato con lui quando ha servito ad Atsushi un pezzo di carne, quanto potrebbe arrabbiarsi per un gesto di gentilezza come dargli la sua giacca perché fa freddo? E non è solo Dazai-san, Atsushi è un tipo testardo e orgoglioso a modo suo, soprattutto quando c’è di mezzo Ryunosuke. Dargli la sua giacca, non sarebbe come ferirlo, in qualche modo? Ryunosuke corruga la fronte. Ma fa freddo. E piove. Cosa dovrebbe fare? Lui non è una persona gentile. Non lo vuole essere. Ma fa freddo e Atsushi non ha una giacca.

Ryunosuke si sfila anche l’altro braccio dalla giacca e la tira in testa ad Atsushi. Se poi vorrà iniziare a litigare, allora Ryunosuke girerà i tacchi e se ne andrà da qualche altra parte a farsi gli affari suoi.

Atsushi sbatte le palpebre e si guarda intorno, e quando vede Ryunosuke, aggrotta le sopracciglia e guarda la giacca nera che gli è caduta in testa. Non sembra capire. Non sono affari di Ryunosuke se quest’idiota non da nemmeno che cosa dovrebbe farci con una giacca. Davvero. Ha intenzione di andarsene via. Tra tre ore inizia il suo turno in negozio e Koyo ha detto che un gentiluomo bla bla bla. Questi sono i suoi ultimi giorni di prova. Non può permettersi nessun errore, motivo per cui deve andare a casa e farsi una doccia e ripassare ancora una volta i kimono, le categorie, il simbolismo e altra roba del tutto inutile, nel caso Koyo comparisse dal nulla e gli facesse una domanda senza preavviso. Non ha tempo per Atsushi.

“Che ci fai qui?” chiede comunque. Perché a quanto pare è un idiota e gli piace ficcare il naso negli affari di Atsushi. Deve essere un masochista. Gli piace fare domande a qualcuno che gli risponderà male e con cui finirà per litigare. “Non hai scuola?”

Atsushi continua a guardare la giacca. Stringe le dita intorno al tessuto e poi abbassa le spalle, sconfitto. Non sembra avere la stessa energia che ha di solito. Sembra stanco. E triste. E sul punto di scoppiare a piangere. Ryunosuke spera davvero tanto che non gli scoppi a piangere davanti. Non saprebbe cosa fare. Atsushi si infila la giacca. “Siamo in pausa invernale” risponde con mezza voce. Guarda verso i binari del treno. Incrocia le braccia. Doveva sentire davvero molto freddo, quindi.

“E cosa ci fai qui?”

Atsushi inizia ad abbottonare la giacca. È così preso da questo suo semplice compito che nemmeno guarda negli occhi Ryunosuke. Guarda solo i suoi bottoni. Parte da quello più lontano. E questo attira l’attenzione di Ryunosuke sulle sue mani. Ha le unghie mangiucchiate. Porta i guanti senza dita, quelli che di solito tiene con la sua divisa da lavoro. C’è una parte del palmo che si riesce a vedere, però. Una parte scura. Più scura del resto della pelle della mano. Ryunosuke non si era reso conto di questo.

“Ti ho fatto una domanda.”

“L’ultima volta che ho controllato non eri mia madre” ribatte Atsushi, alzando lo sguardo verso di lui. Sì, è di cattivo umore. Di pessimo umore anche. Non che a Ryunosuke cambi qualcosa. Atsushi serra la mascella e sembra rendersi conto solo in questo momento di quello che stava facendo. Accettare qualcosa di Ryunosuke. Un aiuto. Una giacca. “‘Fanculo.” Inizia a sbottonarsi la giacca, questa volta dal bottone più in alto, con una mano e le dita che gli scivolano sui bottoni ancora e ancora, rendendogli difficile sbottonarli.

Non fare l’idiota. Dai. Non fare l’idiota. Ryunosuke posa una mano sulla mano di Atsushi, per fermarlo. Fa freddo. Non ha una giacca. Ryunosuke non lo fa perché è gentile, è solo che poi Dazai-san si arrabbierebbe, sarebbe di cattivo umore perché uno dei suoi sta male, non lo può certo permettere questo. Non vuole. Atsushi ha le mani calde e il viso rosso e non si muove, quando Ryunosuke lo tocca. “Che ci fai qui?”

Atsushi ruota gli occhi. Fa una smorfia con le labbra. Scuote la testa. “Cercavo un…” Tira giù la mano, fa un passo indietro. “Niente che ti possa interessare.”

“Ti hanno cacciato?”

“No, loro non… i-io.” Scrolla le spalle. “Me ne sono andato io, non sono loro che mi hanno cacciato.”

Ryunosuke lascia passare un secondo di silenzio, per pensare. Non sembra essere stata una cosa premeditata. Forse è successo qualcosa e Atsushi è solo uscito dall’orfanotrofio. Non ha una borsa, non ha una giacca, non ha di sicuro nemmeno soldi, solo quel vecchio libro. Sono solo le dieci del mattino e dover passare il tempo senza scuola deve essere difficile per lui. Quanti anni ha? Sedici? Diciassette? In una famiglia normale è giusto e anche necessario che un ragazzino della sua età passi per la fase della ribellione. Se anche Atsushi dice che è scappato, Ryunosuke ha la sensazione che ha intenzione di tornare all’orfanotrofio il prima possibile, se non perché fa freddo, perché ha fame, e sopporterà ogni tipo di punizione. Per freddo e per fame. È inutile perdere tempo una causa persa.

“Va bene.” Si infila le mani nelle tasche dei pantaloni. Ha già fatto troppo. Se Dazai-san scoprisse che Ryunosuke è stato così gentile con Atsushi, cosa potrebbe succedere? Se si arrabbiasse sul serio? Se la prossima volta non fosse solo un rimprovero nascosto da una battuta ma qualcosa di peggio? “Chiama i tuoi amici se hai problemi.”

Atsushi non si degna di rispondere. Torna a guardare la pioggia, col mento puntato verso l’alto. Tiene il libro ben stretto contro il petto.

Ryunosuke, questi non sono affari tuoi.

Ryunosuke, hai già fatto più di quanto dovessi fare.

Ryunosuke, non farti trascinare.

Ryunosuke tira indietro la testa, soffocando un sospiro profondo e rumoroso. Prende da sotto il gomito Atsushi e apre l’ombrello. “Tu vieni con me” gli dice, e inizia a trascinarlo per la strada. (il braccio di Atsushi sembra essere fatto di sole ossa)(a Ryunosuke sembra che potrebbe spezzarsi con una stretta troppo forte)(e questo pensiero lo fa soltanto arrabbiare).


 




Atsushi parla quando Ryunosuke accende l’asciugacapelli. Lo fa arricciando un po’ il naso e poi le labbra, nel primo sorriso del giorno.

Ryunosuke non ha mai collegato Atsushi alle giornate di sole. Succede solo che ogni volta che loro due si incontrano è giorno e c’è il sole. Non c’è però persona più differente dal sole di Atsushi. Una volta aveva pensato che Atsushi avesse a che fare di più con la luna, se avesse dovuto pensare a qualcosa a cui collegarlo. Forse proprio perché non lo ha mai visto di notte, la luna sembrava essere fatta per accompagnare Atsushi ovunque andasse, anche senza farsi vedere e poi sorgere in cielo quando Atsushi era al sicuro. Sono pensieri strani. Ryunosuke non dovrebbe pensare a queste cose.

Non sapeva dove portare Atsushi, quindi lo ha portato a casa sua. Non sapeva quali vestiti dargli dopo essersi bagnati sotto quella pioggia pesante d’inverno, che sembra volerti buttare per strada insieme a lei, quindi gli ha dato i suoi vestiti. Ryunosuke sente di sta oltrepassando una linea che non dovrebbe oltrepassare. La casetta che condivide con Gin è piccola ed è segreta, privata, discreta, nessuno di loro ci ha mai portato qualcuno. Questa casa è il loro posto sicuro. Non capisce perché ha deciso di portare un problema qui. E perché gli sta asciugando i capelli.

Atsushi inizia a parlare quando l’asciugacapelli fa rumore. Si passa l’asciugamano sul retro del collo e sta seduto, composto, davanti a Ryunosuke, che passa le mani trai suoi capelli, per farli asciugare più in fretta. Lo fa sempre anche con Gin. Atsushi ha tirato indietro la testa, per incontrare lo sguardo di Ryunosuke e sembra essere confuso anche lui. Non gli chiede ehi, perché stai facendo una cosa del genere? Lo guarda e basta, prima di tornare a guarda dritto di fronte a sé.

“Sono scappato solo una volta, prima” gli dice. Deve star parlando perché crede che il rumore dell’asciugacapelli copra la sua voce. In mezzo al salotto, seduto con le ginocchia unite e le mani sulle cosce, Atsushi ha bisogno di parlare ma non ha bisogno di essere ascoltato. Ryunosuke gli può fare anche questa gentilezza. È forse l’unica che può fargli senza sentire di star facendo lui qualcosa di sbagliato. “Quando sono andato a quel teatro. Perché -io... non c’è momento che ricordi della mia vita in cui non sono stato orfano. Il direttore dice che i miei genitori mi facevano male. Che mi picchiavano. Quando sono scappato la prima volta, è stata anche la prima volta in cui mi ha picchiato il direttore.”

Ryunosuke finge di non sentire. È normale che i bambini vengano picchiati, da queste parti. Perché, dicono, non imparano mai, sono stupidi, non capiscono come va il mondo. Il metodo più veloce per far capire qualcosa è far loro male quando fanno qualcosa di sbagliato. Punizioni, botte, minacce o insulti, non importa. I bambini così capiscono e possono decidere loro cosa fare della loro vita, se scegliere una via, piuttosto che un’altra. È quell’amore duro, ripetono, che non esiste e che fa solo del male. Ryunosuke lo ha scoperto quando si è ritrovato nella situazione di persona amante. Pensava di dover rendere le persone forti e per prepararle doveva scuoterle dal loro torpore fiabesco, in cui nessuno avrebbe fatto loro del male. Se anche una persona che ti ama può farti male, immaginare cosa potrebbe fare un estraneo è spaventoso. Ma necessario. Botte, insulti. È anche il modo in cui si è approcciato ad Atsushi. Insulti.

Ryunosuke passa le dita trai capelli irregolari di Atsushi. Passa capello per capello. La cute che sembra essere poco nutrita, i capelli che ora sembrano brillanti. Lo ritiene debole. Atsushi è di sicuro più debole di Ryunosuke. Muove l’asciugacapelli, a destra e a sinistra. Quindi dovrebbe venire più scosso di quanto lo sia adesso?

“E io mi sono detto… no. Non voglio.” Atsushi scuote la testa. “Ma non poteva durare, perché non avevo un posto in cui andare e nemmeno del cibo, era davvero una battaglia persa in partenza. E ho pensato -per non morire di fame, magari lo posso sopportare. Per un po’. Giusto un po’.” Abbassa la testa. Guarda quel libro che si è stretto al petto per tutto il tempo.

I capelli di Atsushi sono più lunghi da una parte e più corti dall’altra. I pezzi che erano rimasti come buchi in cui i capelli sembravano essere stati rasati, ora sono coperti dai dei capelli un po’ più lunghi. È comunque un disastro di acconciatura. Si vede che nessuno lo rispetta all’orfanotrofio, nemmeno i ragazzini più piccoli. E ha una testa calda.

Per sbaglio, Ryunosuke tocca l’orecchio di Atsushi, con il mignolo ed è bollente, come se si stesse cucinando col suo stesso calore corporeo.

“Sai? Sono arrivato al punto in cui mi sono detto va bene me.” Atsushi non grida sopra l’asciugacapelli. Ryunosuke non sa nemmeno che espressione ha adesso. Questo discorso, è inutile ripeterlo, non è perché Ryunosuke ascolti e lui vorrebbe davvero non capire quello che Atsushi sta dicendo adesso. Ma assorbe ogni parola. Ricorda ogni frase. Non gli piace questa cosa. “Cioè se tanto mi odi, se mi detesti con così tanta passione, deve esserci un motivo. Non lo voglio sapere, certo che no, però va bene. Ti odierò indietro. E va -va bene se anche io lo odio, giusto? E comunque penso okay, capisco che odi me, capisco che vuoi fare male a me, ma potresti non fare male alle cose che amo? A quelle che mi piacciono, ecco. Ha -ha strappato delle pagine. Erano -non sono riuscito a salvarle e... non potevo certo rimanere lì. Devo fare qualcosa, giusto? Perché -perché va bene tutto, va bene me, ma perché anche…”

Ryunosuke muove l’asciugacapelli, spinge la testa di Atsushi di lato, per asciugargli i capelli dietro le orecchie. Se è così, forse allora questa volta non dovrebbe tornare indietro. Se sta cercando di mettere un limite a quello che succede lì, se pensa che abbiano toccato qualcosa che non dovevano toccare e che lui voleva difendere. Per quale motivo pensa che Ryunosuke non ha mai accettato di finire in orfanotrofio? A lui le botte non fanno paura, non fanno paura nemmeno le punizioni. È venire separato da Gin che gli fa paura. È l’idea che facciano a lei del male e lui non poterci fare niente, che gli fa paura.

Se per Atsushi questa cosa importante è questo libro -allora che rimanga fedele a questo suo stupido libro. Che lo protegga. Non era stato lui a dire che l’amore è, per un certo grado, protezione?

Atsushi ride piano. “Perché mi piace tanto il tuo tocco, Akutagawa? Qual è il tuo segreto?” chiede. Non è una domanda che doveva raggiungere le orecchie di Ryunosuke. Non è qualcosa che gli voleva chiedere per davvero. Gli vuole solo dare fastidio, vuole ridere, vuole ridicolizzare la situazione. Per se stesso. Ryunosuke in questo non c’entra niente. E non c’entra niente nemmeno la curva del collo di Atsushi, non c’entra niente nemmeno la pelle morbida sotto il suo tocco.

Ryunosuke spegne l’asciugacapelli e lo sbatte sul tavolino di fronte a loro, prima di alzarsi in piedi. Atsushi non batte una palpebra, mentre segue il suo movimento. “Vado a lavoro” annuncia. È tardi. Il suo turno inizia a l’una, oggi. Non può fare tardi, sono gli ultimi giorni di prova.

Atsushi tira indietro la testa, per guardarlo sottosopra. “Buon lavoro.”

“Rimani solo finché non avrai sentito i tuoi amici. Poi vattene.”

Atsushi aggrotta le sopracciglia e arriccia il naso. “Guarda che nemmeno io sono felice di stare qui.”

Ryunosuke sente di star per impazzire.


 




“Ah, la presenza di Nakajima-kun rende, in qualche modo, sia la nostra Kyoka che il nostro Ryunosuke i modelli perfetti per il negozio di kimono, non pensi anche tu, Koyo?” Izumi-san sta ridendo di loro. Unisce le mani insieme e il suo sorriso sembra essere luminoso. I suoi movimenti sono lenti. La sua voce è pacata. Ha lasciato che parte del collo si vedesse, quando si è girata verso Koyo, ma non lo ha fatto con nessuna volgarità, solo per mostrare la bellezza del kimono che indossa, e come i colori che porta siano in tono con la sua pelle pallida. Perfettamente bianca. Muove il ventaglio. “Sembra che la sua sola presenza rilassi le spalle di Ryunosuke e ravvivi il viso della mia piccola Kyoka.”

“È di sicuro una ventata di aria fresca” commenta Koyo, con un sorriso. “Qualcuno che sembra essere nato per lasciare che una persona elegante si appoggi al suo avambraccio.”

“Quel tipo di persona che non brilla, per lasciare che la persona al suo fianco brilli” concorda Izumi-san, annuendo.

Ryunosuke le guarda, mentre le ascolta parlare. Non sa che cosa voglia dire che le sue spalle sono più rilassate, quando Atsushi gli ronza intorno, ma non crede che sia vero. Non sa nemmeno che cosa ci fa qui Atsushi, nel negozio, con delle carte in mano che mostra a Kyoka, come se fosse una specie di mago. Gli aveva detto di aspettare una risposta da un qualsiasi suo amico e poi di andarsene da casa sua. Ma sembra che Atsushi si sia annoiato e sia venuto a prendere Ryunosuke alla fine del turno.

Piove. È questa la scusa che ha usato, mostrando due ombrelli che ha portato da casa. Per non farlo bagnare una seconda volta, gli ha portato un ombrello. E ora è in attesa di poter -cosa? Tornare a casa insieme? Quella non è casa di Atsushi. Quella è la casa di Gin. Spera davvero tanto che questo idiota non stia mettendosi comodo in posto che non appartiene né a lui né a Ryunosuke che lo ha invitato lì. È stato un errore. Quando c’è di mezzo quel tizio, Ryunosuke perde sempre la testa, dimentica che non dovrebbe prendere decisioni seguendo le emozioni. È pericoloso.

Ryunosuke si gira a guardare Atsushi che a sua volta lo guarda e gli sorride, con la testa un po’ inclinata. Viene sgridato da Kyoka, quando questa cosa succede. Perché sta giocando con lei, non con Ryunosuke. Perché dovrebbe guardare lei. Almeno mentre parlano, dovrebbe guardare lei.

È uno dei capricci più frequenti di Kyoka. Ryunosuke prende un respiro profondo e cerca di non arrabbiarsi. Koyo ha detto che per essere un commesso in questo negozio deve guadagnarsi la fiducia degli Izumi e deve anche non creare problemi, essere il modello dei kimono che stanno vendendo. Quindi deve seguire i principi della calma, dell’eleganza e della pazienza. Se sapesse suonare un qualche strumento, sarebbe stato meglio. Koyo dice che la sua educazione ha un peso non indifferente nella scelta di assunzione. Il che vuol dire che, già in quell’ambito, Ryunosuke è fottuto. Deve compensare con tutto il resto. Ma. Stava pensando. È uno dei capricci più frequenti di Kyoka, quando Atsushi viene a prendere Ryunosuke a lavoro, chiedere e pretendere che Atsushi guardi soltanto lei.

Si è allenata tanto anche lei. Per quello che Ryunosuke ha sentito, Kyoka sta imparando a suonare il koto e un giorno vuole far sentire ad Atsushi un qualche pezzo che ha sentito una volta.

Ryunosuke abbassa lo sguardo. Forse, quello che vogliono dire Koyo e Izumi-san è che sia Ryunosuke che Kyoka vogliono mostrare, per qualche motivo, il proprio valore ad Atsushi. Kyoka per colpa della sua stupida cotta adolescenziale, è inutile fingere di non vedere. Ryunosuke lo vuole fare solo per poi schiacciarlo e farlo sentire inutile. (E perché un po’ anche a lui piace quando Atsushi lo guarda)(ma non è la stessa cosa di Kyoka)(non lo è).

“Ryunosuke, caro” lo chiama Izumi-san.

Ryunosuke si gira verso di lei. Aspetta il cenno di Koyo prima di avvicinarsi ad entrambe e, appena è in piedi davanti a Izumi-san, fa un piccolo cenno con la testa. Pazienza, equilibrio, e altra robaccia che deve portare avanti altrimenti lo stipendio mensile se lo scorda.

Izumi-san gli sorride per dargli la sua approvazione. “Sciocco ragazzo” lo chiama con un sorriso dolce. “Hai forse capito il motivo per cui ti ho fatto studiare con così attenta devozione l'obi?” Muove il ventaglio e alza un sopracciglio, indicando con lo sguardo Atsushi che prova a spaventare Kyoka per farle perdere la compostezza.

Ryunosuke guarda Kyoka ridere piano e Atsushi arricciare le labbra, con quella falsa indignazione che gli adulti ostentano quando fingono di perdere contro un bambino. “Credo di no, Izumi-san" risponde poi, girandosi per guardare le espressioni delle due donne di fronte a lui. Non riesce a dire delle bugie così sfacciate a delle persone di cui dovrebbe guadagnare la fiducia. Sarebbe controproducente. E si è lasciato trasportare dall’irritazione di vedere qualcuno trasportare Atsushi in una conversazione in cui non c’entra nulla.

Izumi-san ride, portando una mano sulle labbra. “Sei onesto" lo congratula. "Potrai scoprirlo stando con noi il mese prossimo, allora. Te." Posa il ventaglio sul petto di Ryunosuke. "E anche il tuo amico, spero che venga a visitarci spesso."

Ryunosuke vorrebbe ribattere che lui e Atsushi non sono amici. Ma viene distratto dal pensiero che ha superato la settimana di prova, il mese di studio e le occhiatacce di Koyo. Sorride. Fa un cenno con la testa. “Si prenda cura di me anche questo mese" recita. Con questi soldi, potrà portare Gin a prendere qualsiasi vestito lei voglia mettersi. Senza guardare il prezzo, senza doversi nascondere.

Finalmente.

Uno qualsiasi. Da indossare quando vuole… perché Izumi-san ha di nuovo chiesto di Atsushi? Ryunosuke deglutisce. No. Ci penserà più tardi al perché. Adesso vuole solo godersi il momento.


 




Atsushi e Ryunosuke si sono bagnati sotto una pioggia scrosciante, nell’intento di non far bagnare invece il cibo che hanno deciso di portare a casa. Atsushi, appena sono entrati in casa, è scoppiato a ridere dei loro vestiti bagnati, del modo in cui avevano coperto con l’ombrello soltanto il cibo, del modo in cui si sarebbero dovuti cambiare una seconda volta per la stessa ragione della prima. Dicono che i folli sono le persone che continuano a ripetere la stessa azione finché non ottengono un risultato diverso. Forse quindi loro due sono dei folli. Ryunosuke ha ruotato gli occhi e lo ha mandato in bagno con un calcio, cosa che ha fatto ridere ancora di più Atsushi. Due folli, dice lui. Eppure qua di folle Ryunosuke vede solo se stesso.

È contento che in questa casa ci sia qualcun altro, oggi. Avrebbe sentito la mancanza della presenza di Gin, che può anche non essere molto rumorosa, ma che di sicuro prende il suo spazio. Questa casa, che fino a ieri gli era sembrata molto piccola, senza Gin sembrava troppo grande.

Non hanno preso poi tantissimo cibo. Solo quello che bastava per riempirsi la pancia dopo una giornata di lavoro. Atsushi sa cucinare soltanto il riso, Ryunosuke di solito non cucina ma mangia cibo confezionato o la frutta fresca che gli regalano. Cambiare, ogni tanto, fa bene. E vedere il tavolino del salotto così pieno con soli quattro piatti, per qualche motivo, fa sentire Ryunosuke -lo fa sentire bene. È stata una bella giornata. Sì. Beh. Togliendo Atsushi in attesa in stazione, era stata davvero una bella giornata.

“Dalle mie parti” si lascia sfuggire, guardando i piatti in tavola. Si siede con le gambe incrociate, prende le bacchette. “Dalle mie parti il cibo scarseggiava sempre, quindi ogni volta che potevo mangiare, cercavo di riempirmi la pancia il più possibile. Pensare che un giorno il cibo sarebbe stato regolare, che avrei potuto mangiare ogni giorno, non mi sfiorava nemmeno l’anticamera del cervello.” Avvicina la ciotola di riso a se stesso. La guarda. Il riso è buono anche quando è solo bianco. Ha un sapore tutto suo. Fa sentire a casa senza essere davvero a casa.

Atsushi è seduto accanto a lui, ma non mangia tantissimo. Con le bacchette prende solo un gamberetto fritto e torna a guardare Ryunosuke. È come se si aspettasse qualche parola o qualche frase. Quando Ryunosuke ricambia il suo sguardo, Atsushi sbatte le palpebre e poi sorride, giocherellando con le bacchette. “Stavo solo pensando” gli spiega, scuotendo la testa. “Che è la prima volta che mangiamo da soli noi due. Non pensavo che sarebbe mai successo.” Non stava pensando a questo, Ryunosuke ne è più che sicuro, ma non ha intenzione di ribattere.

Entrambi tornano a guardare il loro piatto. Il metodo di Ryunosuke è semplice ma anche molto efficace. Si mangia piano piano, un boccone alla volta, assaporando ogni chicco, ogni pezzo di verdura e di carne, ogni morso croccante di un gamberetto. Un passo per volta è anche il modo in cui ha affrontato tutta la sua vita. Il metodo di Atsushi, invece, è inconsistente. O meglio, non esiste. Perché Atsushi ha solo mangiato un gamberetto e poi è rimasto in silenzio, a guardare il cibo come se fosse una specie di suo nemico. Come se ci fosse qualcosa di sbagliato nell’idea che lui mangi qualcosa. Non muove un muscolo. Questa cosa sta davvero facendo irritare Ryunosuke.

Ha detto che è rimasto all’orfanotrofio per il cibo. Non capisce perché allora non stia mangiando adesso. Non aveva detto che era scappato? Vuole davvero lasciarsi morire di fame, per questo?

Ryunosuke sente l’irritazione salirgli su per i pugni e ruote gli occhi, puntando le ginocchia sul pavimento. Posa una mano sul tavolino per non perdere l’equilibrio e con le bacchette prende un pezzo di carne e lo infila in bocca ad Atsushi, che, sorpreso, aggrotta le sopracciglia e si tira un po’ indietro, quasi cadendo sdraiato.

“Mi vuoi uccidere?” gli grida contro. Ha la bocca piena e parte delle labbra sporche di sugo.

“Mangia” sibila Ryunosuke. Lancia uno sguardo al tavolino. Se non ha intenzione di mangiare con le buone, allora lo farà magiare con le cattive. Prende un gamberetto e di nuovo si spinge verso Atsushi, per infilargli anche questo in bocca. Atsushi prova ad allontanarsi, aiutandosi coi gomiti sul pavimento, come se fosse un verme, motivo per cui Ryunosuke lo ferma, raggiungendolo e sedendosi su di lui a cavalcioni. “Ti giuro, se non mangi da solo, non ho problemi a infilarti le cose giù per la gola.”

Atsushi, sdraiato sotto di lui, coi capelli spettinati, le labbra sporche e gli occhi grandi che guardano verso di lui, sospira e rilassa le spalle. Alza le mani, per mostrare che si è arreso. “Guarda che se continui così poi penso che ti piaccio, eh” ride.

È strano vederlo ridere da questa posizione. I capelli di diverse lunghezze non gli cadono sulla fronte, lasciandola invece scoperta e Atsushi ride assottigliando gli occhi, ha anche una piccola fossetta sulla guancia destra. Anche se non è una risata divertita ma sarcastica, Ryunosuke non può fare a meno che inclinare la testa e guardarlo, in silenzio. Atsushi è un bel ragazzo. Il tipico ragazzo che è una perla nascosta perché non può permettersi dei vestiti come si deve. Se non fosse per quei maglioni, per la pettinatura che lo ha lasciato rasato a tratti, Atsushi saprebbe che è un bel ragazzo. E Ryunosuke non riesce a non pensare che le parole di Dazai-san sono vere e che è così dannatamente facile affezionarsi a lui e corrergli dietro e guardarlo fare cose stupide solo per poi salvarlo a mezzo secondo dal disastro, da essere pericoloso.

Ryunosuke corruga la fronte e deglutisce. Lui Atsushi, per i motivi di prima, lo detesta. “Non ti sopporto.” Gli infila un pezzo di patata in bocca e poi si tira via, per tornare a mangiare al suo posto. Stringe le bacchette in un pugno. No che non lo sopporta. Lo detesta. Ogni volta che vede Atsushi e i suoi pensieri iniziano a girare intorno a lui, Ryunosuke vorrebbe gridare e vorrebbe colpire i muri e vorrebbe piangere. Non piange da così tanto tempo e Atsushi gli fa venire voglia di piangere. “Mangia.”

Atsushi si tira su a sedere e si gratta la nuca. Ha il viso sporco di sugo e patate, adesso. Sospira. Ryunosuke vorrebbe baciargli via il cibo dalle labbra. Ah, ecco. Deve essere impazzito del tutto.

“Poi dormo sul divano?” gli chiede Atsushi, iniziando a mangiare del riso. Un chicco per volta.

Ryunosuke sente le orecchie rosse. Dovrebbe concentrarsi sul cibo. Deve tornare in qualche modo alla realtà. “Per me puoi anche dormire in mezzo alla strada.”


 




Ryunosuke ha sempre avuto problemi a dormire la notte. Sta sdraiato sul letto e guarda il soffitto buio. Non riuscire a dormire poi così bene deve essere un regalo dei suoi anni per strada con Gin. Dormire era pericoloso, qualcuno doveva sempre rimanere sveglio. Per proteggere i più piccoli. E lui era il più grande del gruppo. Rimaneva in piedi per ore a guardare le strade. In città non si vedono le stelle, sembrano essere quel racconto lontano di dei pazzi che vengono dalla città. E c’erano sempre tante voci, per strada, persone che litigavano, macchine che frenavano proprio un momento prima un possibile incidente. Adesso che ha una casa, piccola, vuota e silenziosa, sembra tutto così strano e idilliaco, che ha paura che addormentandosi potrebbe svegliarsi e trovarsi di nuovo in mezzo alla strada.

E forse sarebbe meglio.

Dormire su un letto gli ricorda come la sua famiglia non lo ha mai potuto fare. Ryunosuke stringe la mano contro le coperte. Gli ricorda Rin che piangeva ogni notte, perché dormire per terra le graffiava il viso, che poi bruciava. Dormire su un letto -Ryunosuke è fortunato a poterlo fare. Avrebbe voluto che anche loro avessero un letto caldo.

Dal salotto, ci sono dei passi pesanti e veloci. Iniziano e finiscono immediatamente, seguiti da una porta che si chiude e poi da un conato di vomito. Ryunosuke non muove la testa dal cuscino, ma lancia uno sguardo verso la porta. Atsushi sta dormendo in salotto. Si è addormentato alle otto di sera, come un bambino. Ha chiuso gli occhi, ha abbandonato la testa sul divano e Ryunosuke lo ha coperto con un piumone che lo tenesse al caldo. Adesso sembra essere sveglio, però.

Ryunosuke ruota gli occhi. Tira via le coperte e scende dal letto, posando un piede dopo l’altro sul pavimento. Deve essere corso in bagno a vomitare. Vomitare che cosa, poi, sembra un mistero. Ryunosuke segue i passi di Atsushi, fino ad arrivare davanti alla porta del bagno. “Oi tu” lo chiama, sopprimendo uno sbadiglio “Tutto bene?”

Atsushi non risponde, quindi Ryunosuke apre la porta, perché, davvero, non gli importa in che condizioni sta adesso, vuole almeno sapere che quel deboluccio non gli ha rovinato il tappetino del bagno, o che non gli ha vomitato sul tappeto. Quando apre la porta, vede Atsushi inginocchiato di fronte al bagno, c’è un odore disgustoso per tutta la stanza e sembra quasi che questo idiota stia anche piangendo. E ora perché piange? Un riflesso del vomito? Ryunosuke assottiglia lo sguardo e prova a ricordare le volte che ha vomitato, se ha iniziato a piangere, per qualche motivo. Non gli sembra. Deve solo essere che ad Atsushi piace piangere.

“Mi dispiace” mormora Atsushi, asciugandosi le lacrime con la manica del pigiama che Ryunosuke gli ha prestato. Tira su col naso, stringe un ginocchio con la mano. “Perché era buono, te lo giuro, era buono ma...”

Sta piangendo perché ha vomitato del cibo.

Okay. Ryunosuke sospira. Atsushi è davvero tanto da avere tra le mani. Vorrebbe che Kyoka lo vedesse così e le si spezzassero i sogni del cavaliere con l’armatura scintillante che pensa che Atsushi sia. Solo poche persone possono vedere qualcuno in questo stato. Con le mani che gli tremano, gli occhi rossi e gonfi e la puzza di vomito. Ryunosuke sospira di nuovo e, non vorrebbe avvicinarsi al water proprio adesso, ma sembra che lo debba fare. Direbbe che questa è un’intossicazione alimentare, se anche lui avesse gli stessi sintomi. Si inginocchia vicino ad Atsushi e gli tocca la pancia, per vedere se è dura o se… “Ma tu sei sicuro che a quell’orfanotrofio ti danno da mangiare?” gli chiede con una voce dura. Non è normale che un ragazzo dell’età di Atsushi, che dovrebbe essere sano, che dovrebbe essere forte, sia un ammasso di ossa del genere. Ryunosuke vorrebbe dire di più, ma la puzza di vomito non lo lascia nemmeno respirare. Muove Atsushi di lato e tira lo sciacquone, per poi controllare il pigiama che indossa.

Atsushi annuisce. Il suo pigiama è pulito. Lui ha solo la faccia rossa. “Due pasti al giorno. Riso bianco e la verdura dell’orto.” Alza due dita. Guarda verso il water e sembra venirgli da piangere di nuovo. “Ho sprecato tutto il tuo cibo.” La sua voce è bassa. Chiude gli occhi e nasconde il viso tra le mani.

Ryunosuke gli sistema la ciocca della frangetta abbastanza lunga da cadergli sulla tempia. Atsushi sta sudando, per qualche motivo. Due pasti al giorno, ha detto. Non sembra che in questi due pasti sia contemplata della carne o dei legumi. Può aver avuto un incubo e quindi essere venuto a vomitare per lo stress. Beh. C’è anche il fattore ansia e stress dell’essere appena scappato da un orfanotrofio. Ma Atsushi non mangiava tanto neanche prima della sua fuga. Forse non è abituato a mangiare fuori. Può sempre essere un fattore psicologico, più che il suo stomaco che non riesce a sopportare altro cibo che non sia riso bianco. Quando Atsushi dice: avevo fame e per questo sono tornato all’orfanotrofio… Ryunosuke corruga la fronte. Che voglia dire che non riesce, anche se vuole mangiare cibo fuori dall’orfanotrofio?

Atsushi continua a piangere, anche se in modo silenzioso, davanti al water. Ryunosuke prende un asciugamano arancione da dietro di lui, per aiutarlo ad asciugare il sudore.

Se c’è un blocco psicologico e Atsushi non riesce a mangiare fuori dal posto da cui è scappato… “Non importa” sussurra. Gli passa l’asciugamano intorno al viso. Deve convincere Atsushi a farsi una doccia veloce, per togliersi da sopra le spalle qualsiasi cosa sia successa nella sua testa nelle ultime ore. Ma non ha voglia adesso di litigare, quindi lascia l’asciugamano da parte e gli accarezza la testa sudata. “L’ho dato a te quel cibo, no? Quindi potevi farci quello che volevi. Anche vomitarlo.” Sarebbe stato meglio non vomitarlo, okay, ma non pensa sia quello il momento giusto per dirlo. E comunque lui… “Non lo considero sprecato.”

Atsushi sembra voler scomparire. Ryunosuke non è molto bravo in situazioni del genere. Ha voglia di lasciarlo lì a piangere e si sta pentendo di essere venuto fino a qui a vedere che cosa stava succedendo. Cosa dovrebbe dire adesso?

“Vado a letto.” Si alza in piedi e sospira, allungando la schiena. Si muove verso la porta del bagno e lancia un’occhiata ad Atsushi, rannicchiato davanti al water. “Quando hai finito, vieni da me.”

Perché, se non si fosse capito fino ad ora, allora tanto meglio ricordare che Ryunosuke è uscito del tutto fuori di testa.


 




“Ah, Nakajima Atsushi! Come lo scrittore!” esclama Izumi-san, unendo le mani insieme. Ryunosuke scatta sull’attenti a sentire quel nome e si gira verso di lei, come se avesse chiamato il suo nome. “E anche come l’astronomo!” Izumi-san sorride. Indica col ventaglio Atsushi che, fuori dal negozio, sta parlando con qualcuno che… non è molto familiare a Ryunosuke, ma deve essere qualcuno della sua agenzia.

In questo momento non sta piovendo, ma ci sono delle enormi nuvole nere e sembra che fuori faccia abbastanza freddo da far scegliere ad Atsushi di prendere in prestito una delle giacche di Ryunosuke. Deve essere venuto a prenderlo, come aveva fatto il giorno prima, e deve essersi imbattuto in questo suo collega. E ora parlano. In effetti, dovrebbe essere una cosa buona perché .cioè, sì, Ryunosuke gli aveva detto di chiamare dei suoi amici, farsi ospitare da qualcuno e andarsene. Forse adesso loro -no, sì, nel senso che può essere la volta buona che si toglie di mezzo Atsushi, no? È una cosa buona. Crede. Ryunosuke corruga la fronte. Sì. No, sì, sì, deve essere una cosa buona, questa, dovrebbe essere felice e...

“Scusi, posso uscire per qualche secondo?” chiede a Izumi-san, con un cenno della testa. E il sorriso di lei è così divertito, mentre gli dà il permesso di andare ovunque vuole andare col ventaglio. Izumi-san, per qualche motivo, è sempre molto divertita dalle reazioni di Ryunosuke. Ma lui non ha voglia di stare lì a pensare a questo, soprattutto quando -ma non è che lui voglia andare a fermare una qualsiasi conversazione che potrebbe fermare Atsushi da andare via dal suo appartamento. solo curioso. Ecco, sì, curioso. Non -solo curioso.

Esce dal negozio e raggiunge Atsushi, che sta ridendo e rispondendo a delle domande, con calma, come se non ci fosse niente ad aspettarlo alla fine della sua camminata, come se Atsushi nemmeno lo conoscesse.

Questa è sola curiosità. Alla fine, si è dovuto sorbire la puzza di vomito e poi lui e Atsushi hanno dormito nel suo letto e Atsushi lo ha quasi calciato giù dal letto, perché non sa condividere un bel niente, a quanto pare. Quindi vuole solo sapere quale povero diavolo adesso se lo prenderà sulle spalle. Una zavorra come Atsushi è sempre difficile da portare da una parte all’altra. Ryunosuke non voleva certo trascinarselo sempre dietro. Certo che no. Vuole solo sapere chi verrà preso a calci nel sonno da quest’idiota, ecco. Sì. Tutto qui.

Si schiarisce la gola. Atsushi aggrotta le sopracciglia, prima di sorridere. “Ah. Akutagawa” lo saluta. Poi torna a parlare col suo collega. “Per favore, dì a Kunikida-san che sarò lì appena mi chiamerete. Con le vacanze invernali, ho davvero molto più tempo libero.”

“Kunikida-san ha detto che ci vuole lasciare riposare, durante le vacanze” risponde il tipo. Si infila le mani nelle tasche. Lancia uno sguardo a Ryunosuke. “Dovresti venirci a trovare, invece. Dico a me e a Naomi. Contro di lei non riesco mai a vincere a Uno, quindi potrei battere te.”

Atsushi ride piano. È una risata di cortesia. Ryunosuke ruota gli occhi. “Ti togli?” dice al collega di Atsushi. E Atsushi chiude gli occhi, prima di tirare la testa indietro. “Stai proprio davanti alla porta del negozio. Blocchi il passaggio.”

Il collega di Atsushi alza un sopracciglio, prima di sorridere e alzare le mani, in segno di resa. “Ah, mi dispiace Akutagawa-san, non volevo creare problemi. Stavo solo salutando…” Il suo sguardo passa da Atsushi a Ryunosuke, poi di nuovo ad Atsushi. “Per caso tu sei qui per lui?”

Atsushi ride a voce un po’ più alta di prima. Questa è una risata nervosa. “Dazai-san mi ha detto di…”

“Sono cazzi tuoi che ci fa lui qui?”

Il collega di Atsushi apre la bocca, forse per dire qualcosa. Dalla sua espressione sembra che voglia chiedere scusa, ma le scuse sono più lente del pizzico di Atsushi sul braccio di Ryunosuke. “Ma tu, per una volta, ti potresti comportare come una persona decente?” esclama esasperato. “Tanizaki-kun, mi dispiace. Sono qui perché Akutagawa mi ha promesso di finire i giri della città in queste due settimane. Sono arrivato un po’ troppo presto e quindi lo stavo aspettando fuori. Volevo passare a salutarvi uno di questi giorni, facevo un salto… ma ormai si è rovinata la sorpresa.” Sorride.

È bravo a mentire. Ryunosuke si passa la mano sul braccio pizzicato. Forse Atsushi è un po' troppo bravo a trovare scuse su due piedi. Si chiede cosa lo ha fermato dal mentire a Ryunosuke. Perché con lui è sempre così onesto?

Anche questo Tanizaki sorride. “Meno male che ti ho incontrato prima, se venivi a casa mia, mi trovavi con un ratto in mano a litigare per un pezzo di formaggio” ride. “Almeno adesso ho un motivo per mettere in ordine almeno il salotto.”

Atsushi scuote un po’ la testa, con un sorriso divertito. “Ti pare! Che importa?”

Questa conversazione sembra essere così impersonale da far salire i nervi a Ryunosuke da una parte e tranquillizzarlo sulla possibilità che questo ragazzino coi capelli castani e il sorriso da idiota potrebbe portare Atsushi da qualche parte per dargli rifugio fuori dall’orfanotrofio. “Non siete molto amici, voi due, vero?” chiede, con mezzo sorriso.

Atsushi chiude gli occhi. Tanizaki sorride e posa una mano sulla spalla di Atsushi. “Ah, ci stiamo prendendo i nostri tempi” risponde divertito. “Atsushi-kun, alla fine, non ha intenzione di scappare da nessuna parte, no? Abbiamo tutto il tempo del mondo.”

A Ryunosuke questo Tanizaki non piace per niente. Assottiglia lo sguardo, poi con una smorfia si gira e torna nel negozio di kimono degli Izumi. Non saluta. Non aggiunge una parola che non sia stata già detta. Anche perché -è davvero troppo irritato per parlare, non sarebbe dovuto uscire dal negozio, non avrebbe dovuto dare l’opportunità a quel tipo di dire delle cose del genere. È stata colpa sua. Ha fatto un errore, ha intenzione di rimediare.

“Hai imparato qualcosa di nuovo?” gli chiede Izumi-san, in piedi vicino a uno dei kimono che lei considera i più belli. Lo studia quasi tutte le mattine, sotto gli occhi attenti di Ryunosuke. Chissà perché.

Ryunosuke scuote la testa. Tutto il tempo del mondo, ha detto quel Tanizaki. E Atsushi ha sorriso, felice di quelle parole, le sue orecchie sono diventate rosse. Tutto il tempo del mondo questo grandissimo cazzo. Tutto il tempo del mondo Ryunosuke ha intenzione di rubarglielo.


 




“Non c’è molto da fare a casa tua” gli dice Atsushi, con le mai unite dietro la schiena. Si guarda intorno. Controlla le pareti. Gli mostra un libro -il libro con le pagine strappate che lo ha fatto scappare dall’orfanotrofio, e sforza un sorriso. “È l’unico libro che c’è in questa casa. Non ho mai visto una libreria vuota prima di venire da te. È una cosa un po’ triste, a pensarci. Nessuno ti ha mai regalato un libro? Nemmeno -Dazai-san non ti ha mai regalato un libro, magari di Akutagawa Ryunosuke, nemmeno per scherzo?”

Atsushi è quel tipo di persona che, a quanto pare, non riesce mai a smettere di parlare. Parla. Parla. Parla. Non si ferma mai. Quando lui entra in questa casa, la casa si riempie e prende ogni spazio disponibile, lasciando quel tanto che basta per altre due persone. Ryunosuke non ha intenzione di rispondergli o di fare conversazione, a dire la verità. È preoccupato. Atsushi prende tanto tempo e tanto spazio e tanta pazienza, che Ryunosuke non ha. Non si è dovuto dedicare a nessuno nello stesso modo nemmeno quando Gin era piccola. Atsushi è una palla al piede. Un deboluccio. Qualcuno che non vale nemmeno la pena uccidere o tormentare. Ma Ryunosuke si è offerto volontariamente a questa tortura. Anzi. Non contento, quando ha pensato che avrebbe potuto lasciare che Atsushi finisse per essere la palla al piede di qualcun altro, si è buttato con la testa bassa a bloccare una conversazione che avrebbe potuto fargli perdere un peso come quello che Atsushi.

Deve esserci qualcosa che non va nella sua testa. E deve essere che questo danno cerebrale glielo ha causato Atsushi con le sue chiacchiere, motivo per cui adesso Ryunosuke guarda, con la fronte corrucciata, le sue mani sopra gli appunti che ha preso sui kimono e gratta la parte di pelle intorno all’unghia. Deve solo ignorare Atsushi. Non ci vorrà poi molto.

“Allora facciamo così.” Atsushi si avvicina alla libreria vuota, occupata dalle sole chiavi e piccoli souvenir che Nakahara porta quando viene a trovarli. Posa il libro e si gira verso Ryunosuke. “Questo te lo regalo. È uno di quei libri che -conosci La freccia nera? È uno dei primi libri di Stevenson è anche uno dei primi… uhm, forse il primissimo libro occidentale che ho letto? All’orfanotrofio c’è una grandissima libreria, ma sono per lo più scritti teologici. Roba noiosissima su come si dovrebbe amare Dio e come si dovrebbe amare il prossimo e altra roba così. Però c’è anche una parte .non è molto grande ed è di sicuro molto nascosta. Ci ho messo anni a trovarla e c’è questa piccola ala in cui ci sono dei libri che sono di avventura. Romanzi di fantasia.”

Ryunosuke continua a grattarsi le pellicine delle dita. Piano piano, per non farsi male. Gli appunti che ha preso sono un po’ confusionari, ma è riuscito a ricostruire il suo percorso di pensieri mentre li scriveva. Oggi ha avuto la sensazione che Koyo volesse fargli qualche domanda di teoria e, l’unica cosa a cui lui riusciva a pensare era ad Atsushi. Averlo intorno mentre studia potrebbe essere un buon allenamento per imparare cose mentre c’è una distrazione intorno a lui. È un piano perfetto.

“Certo non potevano esserci troppi romanzi in quella sezione perché, con gli anni, sembra che tantissimi scrittori siano stati messi all’indice dal Papa. Tipo -lo sai che Harry Potter era all’indice da, mi pare, l’uscita del terzo o quarto libro? A scuola non ci credevano mai quando glielo dicevo. Ma era il motivo per cui non ho mai letto Harry Potter. Anche adesso non penso che non riuscirei a leggerlo perché ogni volta che provo a prendere uno di quei libri in biblioteca mi viene un nodo allo stomaco per il senso di colpa.”

Ryunosuke ruota gli occhi. “Sembra che hai lo stomaco sensibile, tu” borbotta. Sfoglia il suo quaderno degli appunti. Doveva ignorarlo e non è riuscito a farlo.

Atsushi alza un lato delle labbra. “Già, sembra.” Scrolla le spalle e giocherella con le pagine del suo libro. “Però, senti -no, non sono riuscito a vedere nemmeno i film. Ma posso vivere senza, no? E quindi, stavo dicendo -ti stavo raccontando, okay?, che se cercavi bene, andando da una parte all’altra della biblioteca verso un angoletto dove non andava nessuno c’era questo angolo pieno di questi romanzi ed è anche molto difficile trovare le persone, se ti nascondi lì. Quindi.” Dà un colpetto alla libreria. “Dovresti avere anche tu un posto del genere, non pensi? E il tuo primo libro… ta-dà! L’isola del tesoro! Un capolavoro, non pensi? Ora questa sì che sembra una vera libreria.” Atsushi posa le mani sui fianchi con un sorriso soddisfatto.

Ryunosuke gli lancia uno sguardo. Si morde l’interno delle guance. Potrebbe dire che non dovrebbe lasciare qualcosa di così importante per lui in casa sua. Atsushi qui non ci vive, Ryunosuke qui viene solo a dormire -a parte per gli ultimi giorni in cui torna a casa per poter stare con Atsushi. Perché lasciare uno dei suoi tesori da queste parti? Perché lasciarlo a Ryunosuke? O ha intenzione di rimanere qui per -per davvero tanto tempo? Ryunosuke chiude gli occhi. “Io quella roba non la leggo” decide di dire. Unisce le mani sul tavolino e alza un sopracciglio verso Atsushi.

“Perché no?” lagna Atsushi. Si lascia cadere in ginocchio e striscia verso il tavolino. Punta i gomiti contro il tavolino e tira giù le braccia. “C’è un personaggio, Barbecue, che secondo me ti piacerebbe. Sarebbe una specie di -è il tuo tipo. Dovresti leggerlo. Potresti leggerlo. Cioè, sì, manca una parte, ma ti piacerebbe. Poi, quando hai finito, ti porto le pagine. Riesco a trovare le pagine in più e te le porto, e poi…” Atsushi arriccia un po’ il naso con un sorriso. “E poi potremmo fondare un club del libro.”

Ryunosuke ruota gli occhi. “Non ho la minima voglia di fondare qualcosa con te.”

Atsushi sospira. “Mi sembra che tu sia entusiasta all’idea” gli dice. “Potremmo parlare della dicitura romanzo di formazione, o potrei raccontarti delle particolarità dei libri per ragazzi di Stevenson. E ti riempirei dei suoi libri. La freccia nera? Hai mai letto La freccia nera? Non sono mai riuscito a capire come i due protagonisti si sono innamorati, perché -è stato molto improvviso e molto… molto fiabesco, credo. Fossi stata in Joanna sarei stato così confuso. E tutta la parte di loro travestiti da frati e...” Si porta le mani sulla testa. “Lo puoi capire solo se lo leggi.”

“Sembra davvero una cosa estenuante. E molto infantile.”

“Non puoi dire che i classici sono infantili, sai?” Inclina un po’ la testa, appoggiando la guancia sul tavolino. “A meno che tu non li legga.”

Ryunosuke osserva il viso di Atsushi. Perché vorrebbe fargli leggere un libro che lui ritiene importante? Perché vuole che lo tenga lui? Non riesce davvero a capire la testa di questo tipo, ogni giorno gli sembra di impazzire dietro ai suoi ragionamenti. E poi di impazzire per colpa di quel suo sorriso pigro che ogni tanto fa. Del modo in cui arriccia il naso o le labbra. Del modo in cui piange e si lamenta e comunque continua a camminare da una parte all’altra della città, per scoprire i posti più nascosti che conosce soltanto Ryunosuke. Del modo in cui quasi grida Akutagawa, quando lo chiama. Del modo in cui ride. Del modo in cui si arrabbia. Del modo in cui lo pizzica. Del modo in cui fa dei lunghi discorsi in cui racconta delle cose che non importano a nessuno. Del modo in cui è la persona peggiore in questo mondo. Gli piace quando il suo viso è rilassato, come adesso, mentre chiude gli occhi.

“Izumi-san oggi, mentre ti cambiavi” gli inizia a dire Atsushi. “Mi ha parlato dei nodi dell’obi. Mi ha detto: non raccontarlo al nostro caro Ryunosuke, deve arrivarci da solo. E mi è venuta in mente una cosa.” Si accarezza la fronte con due dita, abbassa un po’ lo sguardo. “Ho davvero amato questo libro. Ma non posso tenerlo.”

Ryunosuke torna a guardare i suoi appunti. Posa una mano sulla testa di Atsushi, che ride piano. Forse dovrebbe leggere questo stupido libro, allora.

 



“Ho pensato che se il problema è che hai fame ma non riesci a mangiare, basterà darti poco cibo e poi tanto, finché non ti abitui.” Ryunosuke non riesce a dormire la notte. È una delle abitudini che gli sono rimaste da quando era piccolo. Ma oggi, invece di guardare verso il soffitto, gira la testa di lato, per vedere Atsushi, in un suo vecchio pigiama, con gli occhi chiusi e la guancia schiacciata sul cuscino. Sembra essere mezzo addormentato, lui, anche se sono a malapena le nove di sera. Ryunosuke non capisce come possa dormire così bene. “Basta che mangi poco, piano piano, il cibo che ti do, e poi potrai mangiare tanto” ripete. Appoggia la mano sulla guancia di Atsushi. “Il cibo che ti do io.”

Atsushi non apre gli occhi. Muove un po' la testa, per accomodarsi contro la mani di Ryunosuke. “Mi stai dicendo…” Non è addormentato, allora. Forse sta in una specie di dormiveglia. La sua voce esce stanca e un po' confusa, ma la sua espressione rimane serena. “Di abituarmi a te.”

Forse.

C'è qualcosa, in Atsushi. È il modo in cui ne parlano gli altri, forse, quel sorriso che compare sul viso di chi pronuncia il suo nome. Dazai-san, ad esempio. Lui sorride, sembra soddisfatto quando parla di Atsushi. Izumi-san che con lui ha parlato per cinque minuti in tutto e lo trova delizioso. Kyoka, che sembra essersi innamorata a prima vista. Quel tipo che vuole prendersi il suo tempo per conoscere Atsushi. Le persone gravitano intorno a lui. Accende una scintilla di curiosità. E si scopre che è un ragazzo inutile, incapace anche di scegliere i vestiti da solo. Questo tiene viva la curiosità.

“Sono parole forti da parte qualcuno che…” Atsushi ride piano. “Che sembra voler scomparire.”

Ryunosuke assottiglia lo sguardo, per guardare meglio nel buio della sua stanza. Il viso di Atsushi non è illuminato dalla luna, anzi, fuori sembra star ancora piovendo. Ryunosuke chiama Atsushi per nome, nella sua testa e quando lo deve chiamare con le labbra, con delle parole lo chiama Jinko, tigre mannara, per colpa dell’unico racconto che Atsushi ha letto del suo omonimo scrittore. E anche perché, per qualche motivo, non è riuscito mai a vederlo nello stesso momento in cui la luna splende in cielo. C’è qualcosa di misterioso in questo. Sono delle coincidenze che soltanto lui potrebbe ricordare. Non gliele ha mai dette ad Atsushi, non pensa nemmeno che lui se ne sia reso conto. Muove la mano sulla guancia di Atsushi. A Ryunosuke non importa che Atsushi non sappia delle cose. Si è reso conto quasi subito che, pur studiando tanto, Nakajima Atsushi non brilla in intelligenza. È strano si sia reso conto che Ryunosuke vive questo momento per preparare i momenti in cui non sarà presente. Per Gin.

“Io non voglio vivere così” continua Atsushi, con gli occhi chiusi. “Non voglio stare qui per adesso e poi non esserci più. Voglio trovare un posto in cui rimanere per sempre. Una casa in cui stare per sempre. Perché dovrei abituarmi a te, pur sapendo che tu non rimarrai per sempre? Ci sono persone che mi piacciono. Perché dovrei farmi piacere te se poi so che non ci sarai più?”

Atsushi non è poi così intelligente, ma sembra essere abbastanza bravo a difendere se stesso. Ryunosuke alza un lato delle labbra. È stupido ed egoista ed egocentrico. Preso da se stesso. In un qualche modo sembra difendersi. Atsushi posa la mano su quella di Ryunosuke. È sveglio, ma ha un’espressione così serena che sembra quasi stia dormendo. Non sembra essere una conversazione reale, quella che stanno avendo. Non vuoi liberarti? gli vuole chiedere Ryunosuke, ma non sa con che parole farle. Non vuoi liberarti?, ma non ha capito nemmeno da che cosa. Atsushi ormai è scappato dall’orfanotrofio, no?, non ha intenzione di tornare lì. Basta trovare un modo per saziarlo. È facile. Si trova. Si fa. Quindi da cosa si dovrebbe liberare? Perché Ryunosuke continua a pensare che Atsushi dovrebbe essere liberato.

“La cosa che vuoi tu per Gin-san, io la voglio per me.” Atsushi muove la testa verso il cuscino, per coprire il suo sbadiglio. “Una vita normale. Tempo illimitato. Sono cose che voglio per me.”

Ryunosuke lo osserva. Atsushi è sempre pallido, le sue mani sono piene di piccole bruciature, di quelle che sembra che ti fai quando friggi qualcosa ma non sei bravo a friggere e quindi l’olio scoppietta dappertutto e ti fa male. Sembra che gli brucino ancora, queste scottature, perché la notte scorsa cercava i posti più freschi per premerci sopra la pelle e darsi un po’ di sollievo. “Lo posso volere per entrambi” si lascia sfuggire Ryunosuke. È serio. Sente di esserlo per davvero non appena le parole gli escono di bocca. Può dare una vita normale a Gin e Atsushi e poi andarsene. Hanno la stessa età questi idioti. Potrebbero aiutarsi. A Gin Atsushi piace in modo moderato e Atsushi è una di quelle persone che fanno di tutto per essere utili e amate. Potrebbero andare anche d’accordo. Ryunosuke potrebbe dare una vita normale a entrambi e poi seguire la sua vendetta e...

“E tu?” Atsushi apre piano gli occhi. Guarda verso il basso. “Ci saresti nella nostra vita normale?”

Perché dovrebbero volerlo nella loro vita normale?

Ryunosuke sbatte le palpebre. Non capisce come questa cosa sia rilevante. Atsushi lo vorrebbe nella sua vita normale? E perché? Che senso avrebbe? Non lo odia? Non pensa che il mondo sia un pochino migliore, quando Ryunosuke non gli sta intorno?

Atsushi si stringe nelle spalle, posa la mano libera sul petto di Ryunosuke e scuote un po’ la testa. “Io lo vedo, ma le tue spalle sono sempre rigide” dice. Le sue labbra sono piegate verso il basso. “È proprio lì. Ma le tue spalle sono rigide.” Sembra quasi volersi mettere a piangere. Di nuovo.

Ryunosuke corruga la fronte. Atsushi chiude di nuovo gli occhi. “Nella mia vita, il mio desiderio più grande è non diventare mai come te, Akutagawa.” Sembra davvero tanto triste.

Poi non parla più. E Ryunosuke si addormenta, aspettando di sentire cos’altro voleva dire. Avrebbe voluto una spiegazione. Non riceve mai nessuna spiegazione.


 




Quando si sveglia, il letto è vuoto, Atsushi è scomparso e di lui rimane soltanto quello stupido libro di Stevenson che Ryunosuke non ha intenzione di leggere.

Nakajima Atsushi non torna a Yokohama per ben quindici giorni.





[A butterfly fluttered its wings in a wind thick with the smell of seaweed. His dry lips felt the touch of the butterfly for the briefest instant, yet the wisp of wing dust still shone on his lips years later.]

Ryunosuke ha aspettato Atsushi in stazione per quindici giorni, ma Atsushi non si è mai fatto vedere. Oggi non è un giorno tanto diverso dagli altri, decide Ryunosuke. Nevica. Guarda verso il cielo bianco e grigio e si chiede se quell’idiota è andato a cacciarsi da qualche parte sotto la neve. Ha detto di essere scappato dall’orfanotrofio, ma Ryunosuke ha la sensazione che la fame abbia avuto la meglio su di lui. Per questo lo aspetta in stazione. Vorrebbe almeno dirgli che questa decisione che ha preso non è la migliore. Che se il problema era che Ryunosuke non sarebbe rimasto intorno alla sua vita per tanto tempo, allora poteva abituarsi a qualcun altro. Magari a quel deficiente di Tanizaki. O a Dazai-san. O a quel Kunikida di cui continua a parlare. Non sarebbe meglio che tornare in un posto come quell’orfanotrofio?

Nevica da qualche giorno. In città spargono sale e riscaldano le strade. Le persone spalano. L’oceano rende tutto il clima molto più freddo. Ryunosuke odiava i giorni di neve. Era difficile tenere al sicuro e al caldo tutti. Lo detestava. C’era una cosa che Shinya ripeteva sempre ma che Ryunosuke non riesce a ricordare. Era qualcosa sulla neve. Non capisce come possa averla dimenticata. Qualcosa sui fiocchi di neve. Shinya aveva un carattere giocoso, pieno di speranza. Era qualcosa per tirarli su di morale. Era… Ryunosuke abbassa lo sguardo. Stringe l’ombrello tra le mani. Era qualcosa. Lo ricorda che era qualcosa. Ma non ricorda l’espressione con cui lo diceva, non ricorda le sue parole.

Sta passando tanto tempo e li sta dimenticando. Uno per uno. Una caratteristica alla volta. Le parole, i volti, le abitudini.

Ryunosuke stringe l’ombrello in una mano. Deve andare a lavoro. Quindi smette di guardare per i binari e va via.


 




Il ventaglio di Koyo colpisce le scapole di Ryunosuke con delicatezza. “Puoi rilassarti” gli dice con un sorriso. “Quando indossi il kimono.”

Ryunosuke non è mai stato rilassato in vita sua. E non capisce perché debbano continuare a fargli ripetere sempre la stessa cosa. Tira giù le mani. Ruota gli occhi. È tutta colpa di Atsushi, però. Perché è scomparso, perché non sa dov’è, perché ha detto tante cose e perché Ryunosuke è stato così patetico da quasi innamorarsene a prima vista e essere contento di vederlo in casa sua, essere felice di poter mangiare insieme, essere felice di avere avuto… non importa. Non gli importa. Tiene le spalle dritte, cercando di non incurvare la schiena.

Koyo sospira e apre il ventaglio. Si fa aria, in una fredda giornata di gennaio. Sembra una pazza. “Tu lo sai per quale motivo i tuoi capi indossano per lo più kimono? O perché a me piacciono? La differenza con gli altri tipi di abito, quello che significa per noi indossare abiti del genere?”

Ryunosuke sbatte le palpebre. Ruota gli occhi. Ricorda gli appunti. I kimono che derivano dagli hanfu, che sono simbolo di nobiltà, che sono…

“Gli abiti occidentali peccano di mandare di un centro. Sembrano essere fatti per torturare gli li porta, piuttosto che farli sentire comodi” riprende Koyo, muovendo il ventaglio. Si muove per il negozio, con calma ed eleganza. Ci sono solo loro due qui, di sicuro sarà così per ancora un po’. Ryunosuke abbassa un po’ la testa. Non dovrebbe pensare tanto ad Atsushi, ora come ora, giusto? Quell’idiota sta bene. A lui non importa niente di quale sia il suo destino, di che cosa si è andato a mettere in testa, di quelle strane bruciature sulle mano. Non gli importa. Non sono affari suoi. E quella stupida idea che gli era venuta -regalargli una vita normale? Perché? È diventato stupido tutto d’un tratto? “Per mantenere una posizione elegante, con gli abiti occidentali, la persona deve fare un grande sforzo, ricordare sempre la sua posizione per creare delle linee che non siano goffe e sgradevoli.”

Ryunosuke dovrebbe pensare soltanto a Gin. Dare una vita tranquilla solo a lei. Rendere felice e abbastanza forte solo lei. Lei dovrebbe essere il centro dei suoi pensieri. L’unica persona che può ancora proteggere è Gin. L’unica famiglia che gli è rimasta. Nessuna reazione chimica nel suo cervello può rendere Ryunosuke così stupido e ingenuo da pensare di poter aggiungere qualcuno di debole e stupido come Atsushi nella sua cerchia. Non può proteggere Atsushi e, cosa più importante, Atsushi non può proteggere se stesso, quindi non può proteggere gli altri. Non ne ha la prova in casa? Quel libro mezzo rotto che doveva essere il suo tesoro? No. No, Atsushi è troppo impegnativo, pretende troppo. Qualcuno che stia con lui per tutta la vita? Che se la prende comoda per conoscerlo? Che è certo di voler rimanere con lui? No. No no. Ryunosuke non può permettersi di essere distratto da Atsushi. Non può nemmeno dargli la metà di quello che pretende. No. Questa storia deve finire qui.

“Ma coi kimono, c’è qualcosa che ti sorregge sempre.” Koyo accarezza la parte davanti del suo obi, con un sorriso. Guarda verso il basso. “Non c’è bisogno di pensare. Non c’è nemmeno bisogno di ricordare. Puoi mantenere le spalle rilassate, perché c’è qualcosa che sostiene la tua schiena e rende le tue linee gradevoli. Sicure. Non ti lascia incurvare. Il kimono diventa parte del tuo corpo. L’obi ti sorregge.”

Ryunosuke corruga la fronte. Cos’è che ha appena detto? Studia Koyo, muovendo solo le pupille, con la bocca semiaperta. L’obi è qualcosa che ti sostiene, ha detto. L’obi ti sorregge. Qualcosa del genere. Atsushi ha detto che lui lo vede, ma che le spalle di Ryunosuke sono sempre rigide.

“È una cosa che dovresti sapere, questa” gli ricorda Koyo, muovendo il ventaglio. “I fili di trama. Il kariki-sen, nel punto in cui fai la prima piega dell’obi, rappresenta la preghiera, quando si batte due volte le mani.”

Ryunosuke annuisce. Sì. Ricorda qualcosa dagli appunti. “Il kaisumi-sen rappresenta il torii” continua. Sì. Certo. Ricorda quella parte degli appunti. Atsushi aveva sorriso, quando Kyoka glielo aveva ripetuto. “Le parti decorate rappresentano la strada per arrivare al tempio.”

“E il tesaki rappresenta l’inchino” finisce Koyo, annuendo. “Ryunosuke-kun, quando indossi un kimono, è un po’ come se fossi accompagnato dal percorso per arrivare alle divinità. Tessuto e corpo diventano qualcosa di importante e unico. Quando indossi un kimono, se ti abitui a lui, puoi finalmente rilassarti. Non è questa cosa da sola, molto poetica?”

Ryunosuke abbassa lo sguardo verso il suo kimono. Izumi-san ci ha messo davvero tanto a sceglierlo. Koyo lo ha aiutato a stringere bene i nodi. Atsushi gli ha detto che era molto affascinante in questo kimono. Posa la mano sull’obi, mordendosi l’interno delle guance con una punta di nervosismo. L’obi è qualcosa che ti sostiene. Grazie all’obi puoi rilassare le spalle e mantenere comunque la schiena dritta. Lo sguardo alto. Atsushi gli ha sempre detto di essere odiato dal dio che pregano i preti del suo orfanotrofio. Non ha niente e nessuno che lo sorregga, quando indossa quel suo orrendo maglione di Hello Kitty.

“Capisco.”

“Quando tornerà a casa il tuo obi, Ryunosuke-kun?”

Ryunosuke abbassa lo sguardo e chiude la mano intorno al kimono in un pugno. “Non lo so” ammette in un sussurro.

Koyo sorride. “Non lasciartelo sfuggire.” Il suo tono è triste. Il suo viso rimane elegante. “Non perdere di vista quello che è importante.”

Ryunosuke fa un cenno con la testa.

Non lo sa. Non vuole rimanere per sempre ad aspettare in stazione.


 




“Ah, Atsushi-kun” risponde in modo incerto Dazai-san, giocherellando con una mela tra le mani. Assottiglia lo sguardo, punta i gomiti sul tavolo, in modo molto maleducato. “Atsushi-kun” ripete con un tono soprappensiero, inclinando la testa di lato. “Non sapevamo nulla di lui da quasi due settimane. Abbiamo chiamato la sua casa-famiglia e dicono che è in punizione. Visto che servono loro i soldi, potrà tornare a lavoro quando finiscono le vacanze invernali. Non ci saremmo resi conto della sua scomparsa, se non fosse stato che Tanizaki-kun lo aspettava a casa sua qualche giorno fa. Strane coincidenze, vero? Aveva promesso di venire a trovare anche te?” Sorride. Adesso sembra divertito.

Ryunosuke abbassa lo sguardo. Dovrebbe alzarsi e andarsene. Le cose che voleva sapere le ha già sentite. Ma Dazai-san ha accettato di parlargli. Dazai-san vuole continuare a parlargli. Anche se è per sgridarlo, anche se è soltanto perché vuole farsi pagare il pranzo, per Ryunosuke va bene. Gli piace stare con lui. Vorrebbe poter stare con lui per più tempo.

“Uhm.” Dazai-san continua a sorridere, con gli occhi puntati sulla sua mela. “Potrebbe essere che Atsushi-kun ti piace?”

Ryunosuke corruga la fronte. Guarda Dazai-san che aspetta una risposta, con un sopracciglio alzato. Non sa quale sia la risposta giusta, a questo punto. L’ultima volta che è stato gentile con Atsushi davanti a Dazai-san, lui sembrava essere arrabbiato.

“Te lo avevo detto che è un ragazzino facile da amare” continua Dazai-san, con un sospiro. “Fa di tutto per essere amato, uh? Ma ha anche dei suoi principi. Davvero un buon miscuglio di caratteristiche. Lo rende servizievole al punto giusto. Quel tanto che basta per essere usato e poi essere lasciato in pace, non trovi? Se anche non mi servisse più, so che non mi seguirebbe ovunque, come invece fa qualcuno.” Si taglia uno spicchio di mela. Ne passa uno a Ryunosuke, che l’afferra senza nemmeno pensarci. “Cosa pensi tu di lui?”

Ryunosuke pensa tante cose di Atsushi. Sembra che non riesca a pensare ad altro se non ad Atsushi. Lui è... “Ingenuo, egocentrico, troppo magro.” Si porta in bocca lo spicchio di mela. Ci sono altre caratteristiche che sono importanti di Atsushi, come il suo essere testardo, la strana propensione a dover raccontare strani aneddoti della sua vita, la sua continua ricerca di contatto fisico e quel suo modo strano di parlare delle persone. Ah, sì, e anche, raccoglie e colleziona spazzatura con la scusa che sono dei piccoli tesori ed è un topo da biblioteca che dimentica di bere e mangiare quando trova un bel libro.

“E a te lui piace” finisce per lui Dazai-san. Annuisce. “A lui, tu piaci?” gli chiede.

Ryunosuke si morde l’interno delle guance. No. Non crede di piacere molto ad Atsushi. È già tanto se non lo odia.

“E come farai a farti piacere?” chiede ancora Dazai-san, sempre più curioso. “Perché tu vuoi farti sapere, giusto? È difficile per persone come noi piacere a persone come Atsushi-kun. Tu non sei una persona facile da amare, fattelo dire. Ma penso che ci sia una qualche possibilità per te. Se solo tu -beh, la tua vendetta è comunque più importate di qualsiasi cosa sia Atsushi-kun, giusto?” Ride piano.

Ryunosuke guarda verso il basso.

“Beh, allora penso ci sia davvero poco da fare” ride Dazai-san.


 




Atsushi sistema i documenti della sua agenzia, seduto alla sua scrivania. Non c’è nessun altro qui. Solo loro due. Atsushi e Ryunosuke. Atsushi è qui per lavoro, mentre Ryunosuke, dopo aver parlato con Dazai-san lo ha accompagnato in ufficio. Dazai-san deve aver pensato di farli incontrare. Deve aver pensato di farli parlare. Si diverte a manipolare tutti dalla sua posizione. Ryunosuke si è sempre lasciato manipolare senza farsi troppi problemi. Atsushi non sembra essere molto contento, invece.

Ryunosuke vede Atsushi sistemare i documenti. Li ricopia sul computer, controllando che siano stati ben compilati e che le cartelle siano in ordine. “Non mi guardare così” dice a un certo punto. Sembra essere di cattivo umore. Sta seduto, ha le caviglie incrociate. continua a ricopiare al computer e a controllare gli errori di battitura. “Ti giuro, Akutagawa, continui a guardarmi così e vengo lì a darti un pugno in faccia.”

Ryunosuke infila mani in tasca. Era preoccupato. E adesso quest’idiota sta qui, seduto come se nulla fosse successo. “Perché?” gli chiede. Sa già la risposta. Ognuno deve fare quello che deve, per sopravvivere. Ryunosuke lo sa. Ma deve sentirselo dire lo stesso.

Atsushi abbassa lo sguardo, gira la testa per non doverlo guardare. “Avevo fame” risponde. Stringe le mani in due pugni, scuote la testa, deglutendo. “È inutile che mi giudichi. Avevo fame.”

Atsushi è troppo debole per vivere nel mondo da solo. Ha bisogno di tante altre persone e una rete di sicurezza. Ha bisogno di sentirsi al sicuro e quindi poter mangiare. Non c’è essere in questo mondo più diverso da Ryunosuke. Ha allontanato l’ultima cosa che doveva proteggere da dentro l’orfanotrofio. Da ora in poi, non ci sarà più niente da proteggere in quell’istituto. È una cosa pericolosa da sapere. Vuol dire che qualsiasi cosa succeda ad Atsushi, quest’idiota non la prenderà come una scusa per andare via da lì. Vuol dire che potranno picchiarlo quanto vorranno, che potranno torturarlo quanto vorranno. Non c’è più niente da proteggere. Ryunosuke stringe i pugni. Stupido. Egoista. Testardo. Non ha più niente da proteggere.

“Senti, se devi stare così, potresti andartene a ‘fanculo?” gli ripete Atsushi, indicando l’ascensore dell’ufficio. “Io ho cose da fare. Sono indietro con alcune lezioni e comunque non devo più venire da te. Dazai-san dice che ho visto quasi tutto in città, quindi questa cosa qui può finire anche adesso.”

Ryunosuke si avvicina alla sua scrivania. “Ti avevo detto che ti saresti potuto abituare” gli sibila contro. Testardo. Egocentrico. Pieno di sé. Codardo.

“Abituare a cosa? A te? Non mi far ridere, dai. Sarei dovuto tornare a scuola, prima o poi, mi avrebbero trovato lì. Pensi che tutti siano come te?”

Codardo. Codardo. Codardo.

“Dove avrei dormito?” gli chiede. “Cosa avrei mangiato? Quando sarebbe tornata Gin-san, dove sarei andato? Non tutti hanno un Nakahara-san che li mantiene nel caso qualcosa vada storto. Non tutti hanno le spalle coperte come te, okay? Io devo almeno diplomarmi. E non lo posso fare se scappo. Dovevo tornare in tempo perché -non si dovevano vedere. Non mi puoi giudicare, davvero. Accetto che mi giudichino tutti, ma tu sei proprio l’ultima persona che può dirmi A.”

Stupido codardo.

Va bene.

Vuoi una casa? Vuoi una vita normale? Vuoi del tempo illimitato? Va bene. Codardo. Codardo. Va bene. È davvero questo che vuoi? Stupido. Codardo. Testardo. Idiota. Ryunosuke si inginocchia davanti alla sedia di Atsushi. Vuole questo? Ryunosuke non può dargli qualcosa di del tutto normale. Non lo può fare. Non lo sa fare. Ma questo codardo vuole questo? Per continuare a proteggere la sua stessa vita vuole questo? Per non farlo diventare qualcuno di cui Ryunosuke non ricorda la faccia, non ricorda le parole che continuava a ripetere, le frasi che lo facevano ridere, è questo che vuole?

“Cosa fai?” chiede Atsushi, con le sopracciglia aggrottate.

Ryunosuke non vuole che Atsushi diventi un ricordo sbiadito. Un ricordo di qualcosa di ingiusto, di qualcuno che doveva avere un letto caldo, una casa a cui tornare, un sorriso, delle cose da proteggere. Sta pensando. Sta sudando freddo. Va bene. Non vuole che Atsushi smetta di proteggersi. Non vuole che quel direttore gli dica che è odiato da dio. Non vuole che perda la speranza. Non vuole nemmeno che sia solo, una volta uscito da quell’orfanotrofio. Quindi, quella vita normale, quella promessa a cui Atsushi sta per rinunciare, quella speranza che sta per perdere… “Posso ridartela io” mormora, allungando le braccia per posare le mani sul viso di Atsushi.

Sì. Funziona. Dovrebbe funzionare, così. Sarebbero loro due e Gin e la loro vita normale. E Ryunosuke potrebbe dire quelle frasi che piacciono tanto ad Atsushi e spiegare che c’è tempo. C’è tempo. Va bene. La vuole anche lui la vita normale, senza tutta quella rabbia e quel dolore e quel senso di colpa per essere ancora qui. Va bene. Non sarebbe una vita normale come quella delle altre persone ma sarebbe una vita normale con una casa, con un lavoro, con tanti litigi. Questo può fare.

Atsushi sembra essere confuso. Non importa. Ryunosuke ha tempo per fargli capire le cose. Con calma. Non gli importa. Lo può fare. Se vuol dire farlo vivere, se vuol dire aiutarlo a continuare a vivere -Ryunosuke non è riuscito a salvare la sua famiglia, ma sa di poter salvare Atsushi. Conta come una vendetta. Vivere. Con qualcuno che vuole vivere con lui. Tira la testa di Atsushi verso di lui, lo fa scivolare giù dalla sedia, tra le sue gambe, mentre lo bacia. Lo bacia piano. Possono anche farlo, hanno tempo, non gli importa.

Rilassa le spalle.

Atsushi, rilassa le spalle.

Ryunosuke lo bacia piano, inclinando un po’ la testa di lato, mentre una mano scivola giù dalla guancia di Atsushi. Rilassa le spalle. Ryunosuke gli cinge la vita con un braccio, mentre lo bacia e sente che Atsushi lo bacia indietro, con una goffa calma, dimenticandosi di respirare. A modo suo, Atsushi sembra essere disperato, come se volesse mettersi a piangere. Va bene. Può piangere se vuole. Può anche inciampare e rompersi un braccio ed essere stupido. Non importa. Ryunosuke lo può sorreggere. Quindi, Atsushi, rilassa le spalle.


 




“Tanizaki-kun mi ha detto che sei stato tu a suggerire di regalarmi un kimono per il diploma” dice Atsushi, infilandosi sotto le coperte. Akutagawa, con le braccia incrociate e lo sguardo rivolto verso il soffitto ha un broncio sulle labbra, perché, ovviamente, ancora non riesce a credere che Atsushi vada a dormire alle otto di sera, come i vecchietti. Le abitudini sono dure a morire, alla fine. “Cosa che -beh, adesso capisco perché lo hanno preso dagli Izumi, uh?”

Akutagawa non lo degna di una risposta. Chiude gli occhi. È inutile continuare questa conversazione, quindi.

Atsushi sospira, infilandosi sotto le coperte. Sa che Akutagawa non è bravo a prendere sonno. Non importa cosa faccia. Rimane sveglio per tantissimo tempo dopo che Atsushi si addormenta. Per questo non capisce perché si ostina a voler andare a letto nello stesso orario. Akutagawa dorme poche ore per notte e il suo sonno è anche troppo leggero. Una volta si è svegliato perché Atsushi ha mosso il piumone. Non è più riuscito ad addormentarsi ed è stato intrattabile per tutto il giorno.

Atsushi ha tante domande. Se ad Akutagawa dà fastidio ogni tipo di rumore nella stanza, tanto da svegliarsi per un nonnulla, perché dormire con Atsushi? Perché poi ha questa fissazione di andare a dormire da lui, ogni giorno, soprattutto i giorni feriali? Questa cosa sta davvero facendo impazzire Atsushi. Dovrebbe -a lui Akutagawa sembra piacere davvero tanto, ma non per questo, almeno per il suo bene, non lo può cacciare di casa. Akutagawa dovrebbe andare a dormire in un posto in cui si sente al sicuro. Perché non rimanere a casa sua con sua sorella?

“Mi dispiace che oggi Kunikida-san ha fatto la ramanzina pure a te” sospira.

“Lo fa perché gli importa di te” risponde Akutagawa. “Va bene.”

Atsushi muove le dita delle mani con un po’ di nervosismo. Scuote la testa e ruota gli occhi. Beh, alla fine non pensa che sia importante sapere cosa quest’idiota pensa per davvero. Si sdraia di lato. Chiude gli occhi solo quando sente il braccio di Akutagawa intorno alla sua vita.

Rilassa le spalle e si addormenta.

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