Le strade di New York di Little Firestar84 (/viewuser.php?uid=50933)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ghiaccio e Fuoco ***
Capitolo 2: *** Domande ***
Capitolo 3: *** Call me (maybe) ***
Capitolo 4: *** Zaffiri, brillanti e pepite d'oro ***
Capitolo 5: *** La morte avrà i tuoi occhi ***
Capitolo 6: *** Passato, Presente ***
Capitolo 7: *** RAINDROPS ALL OVER ME ***
Capitolo 8: *** Le strade di Shinjuku ***
Capitolo 1 *** Ghiaccio e Fuoco ***
Scrivere il seguito di
Da Austin a Tokyo non è esattamente una cosa che
avevo pensato di fare; ero davvero certa che l'incontro tra Patrick
Jane, star di The Mentalist, e Ryo e Kaori fosse finito lì,
con la caduta, letterale e metaforica, della setta di Visualize,
presenza occulta per anni dello show porcedural americano.
Mi sbagliavo.
Ryo e Jane hanno preso il sopravvento, esigendo un nuovo incontro, di
collaborare con un nuovo caso- che, dal titolo della storia, ispirato
al crime Le Strade di San Farncisco, che ebbe il merito di lancviare la
carriera attoriale di Michael Duglas, è facile capire dove
sarà ambientato.
Ritroveremo tante facce, e ne incontrermo di nuove... e adesso, vi
lascio alla storia.
Grazie e alla prossima!
La
testa
gli pulsava, ed avvertiva come un peso sul petto, un dolore lancinante
che
aumentava con ogni singolo respiro che prendeva, e gli sembrava che i
polmoni
stessi stessero andando a fuoco, che dovesse soffocare da un momento
all’altro,
annegare… annaspava, come se fosse stato sotto ad una
valanga o cadendo negli
abissi più profondi del mare, eppure sapeva,
avvertiva di essere all’aria aperta.
I
suoi
organi andavano a fuoco, eppure, aveva freddo- tanto. Era come se il
suo corpo
fosse percorso da piccole scosse, come se milioni di minuscoli aghi lo
pungessero nel medesimo istante, senza dargli tregua.
Tentò
di
sollevarsi.
Il
primo
tentativo andò a vuoto: i muscoli erano troppo doloranti, e
parevano non voler
rispondere ai suoi stessi comandi: il suo stesso corpo lo stava
tradendo.
Strinse
gli
occhi. Prese un profondo respiro. Poi un altro ed un altro ancora. Dopo
un
tempo che gli parve lunghissimo, finalmente, si decise a riprovare, e
stavolta
riuscì a sedersi.
Lentamente,
aprì gli occhi, mentre si stringeva nelle sue stesse
braccia: era nudo, in un
parco, ed era notte, anche se tra le fronde degli alberi poteva
intravedere il
sole sorgere.
Si
guardò
intorno, confuso, non ricordando come fosse arrivato lì,
cosa fosse successo la
notte precedente. Possibile che mentre girava con i suoi amici per
locali
avesse bevuto così tanto da finire per addormentarsi in
giro, senza nemmeno
rendersi conto di cosa stava facendo?
La
sensazione di freddo – ed umido- non diminuì;
anzi, più riprendeva conoscenza,
più questa aumentava, ed ad essa si era unito anche una
forte acidità di
stomaco. Avvertì la bile salirgli in gola quando il suo
olfatto percepì un
forte odore ferroso, ed istintivamente si voltò, rigettando
nell’erba gli acidi
dello stomaco, vuoto se non per il liquore consumato in compagnia in
quantità
eccessiva.
Boccheggiando
per aria, si pulì la bocca con il braccio, ma
così facendo desiderò nuovamente
rimettere, quando avvertì quello stesso odore sulle labbra.
Occhi
sgranati, si guardò le mani: erano coperte di sangue.
“Fermo
dove
sei, non ti muovere!” Appena sentì la voce,
alzò gli occhi; la luce di una torcia
lo colpì nelle iridi scure, e il leggero senso di speranza
che aveva osato
provare per un solo attimo svanì nel nulla, rimpiazzato da
un panico accecante
come quella stessa luce bianca che gli veniva puntata in viso:
qualunque cosa
fosse accaduto nelle ore precedenti, sapeva di essersi messo nei guai,
anche se
non sapeva nemmeno lui quanto grandi - ma era facile intuirlo, dal tono
e dal
modo di fare della bella poliziotta che lo teneva sotto tiro.
“Sei armato?”
“Cosa…
io…..” rispose, confuso, guardandosi intorno,
quasi stesse cercando un’arma o
si aspettasse di trovarne una a portata di mano, proprio al suo fianco.
Per un
attimo, una frazione di secondo, in quella nebbia che avvolgeva il suo
raziocinio si chiese se effettivamente lo fosse, ma non seppe darsi una
risposta.
“In
ginocchio e mani dietro la testa, adesso!” La voce femminile
gli intimò,
avvicinandosi. “Sei in arresto con l’accusa di
omicidio. Hai il diritto di
rimanere in silenzio, tutto ciò che dirai potrà
essere usato contro di te in
tribunale. Hai diritto ad un avvocato,
e
se non puoi permettertene uno te ne
sarà
assegnato uno d’ufficio…”
“Ma
cosa…
omicidio? Ma di che diavolo stai parlando?!” Lui
sibilò a denti stretti, mentre
prendeva ad agitarsi, ribellarsi; sentì che l’aria
gli veniva a mancare, che il
buio catturava i suoi occhi mentre il cuore gli batteva con una tale
forza che
temette gli sarebbe scoppiato nel petto. “Non ho ucciso
nessuno!”
O
almeno,
ne era quasi del tutto certo: non pensava di poter avere alcuna
certezza.
Il
dolore
al petto era ormai quasi lancinante, la visione si stava nuovamente
offuscando,
e temeva di non avere via di scampo, che ci fosse solo la morte ad
attenerlo. Sapeva
che non sarebbe accaduto, però.
Conviveva
con saltuari attacchi di panico, di cui pochi o nessuno erano a
conoscenza, da
quando era tornato da quella terribile guerra tanti anni prima. Aveva
visto
l’orrore, la morte, il sangue, aveva sentito quel sapore,
quell’odore troppe
volte per poterlo dimenticare… e poi c’era stata
quella volta, quella maledetta volta
che lui non avrebbe mai
dimenticato, per nessun motivo al mondo. I suoi amici, I suoi compagni,
morti,
come pure i loro nemici, e lui, che camminava,
barcollava più morto che vivo in mezzo ai loro
resti, avvolto da
una nebbia, a malapena consapevole di essere un umano,
di essere vivo, la sua fidata compagna in
mano, pronta… ma lui era rimasto solo, e lei aveva perso la
sua utilità,
divenendo una mera appendice del suo essere, che negli anni mai lo
aveva
abbandonato.
“Ascolta,
la scientifica deve esaminarti, quindi non posso darti nulla da
metterti
addosso, ti chiedo solo di avere ancora un po’ pazienza. Ci
vorrà solo un
attimo.” Sentì il freddo metallico delle manette
mentre gli venivano messe ai
polsi, e la bella investigatrice lo aiutò ad alzarsi. Il suo
tono era
determinato, tuttavia, giusto, quasi compassionevole; era evidente che
lei
stava solo facendo il suo dovere. Non era una passacarte, né
tantomeno rincorreva
premi, denaro o promozioni: faceva quel lavoro perché ci
credeva, perché
desiderosa di aiutare la gente- la gente normale, le persone comuni
– ad
ottenere giustizia quando tutti gli altri si ostinavano a negarla loro.
“Posso
leggerti di nuovo i tuoi diritti, se non hai capito o non hai
sentito…”
Mentre
si
alzava, lui scosse il capo, e vide, per terra, in una posizione
innaturale,
quasi fosse stata una bambola rotta, un corpo di donna inerte,
straziato fino a
renderlo irriconoscibile anche a chi l’avesse amata, gli
occhi spalancati – o
ciò che ne rimaneva - a guardare il cielo, eppure vitrei, i
capelli corti che
sembravano quasi essere un’areola intorno al capo.
Non
sapeva
chi fosse, o forse, semplicemente, non lo ricordava: la mente in una
nebbia,
era confusa su cosa fosse esattamente successo nei giorni prima.
“Posso…
posso fare una telefonata?” Domandò, con voce
tremante. Gli sembrava quasi di
essere un cucciolo, o forse un bambino. Non ricordava di essersi mai
sentito
così: forse non aveva mai provato una tale emozione, un tale
bisogno.
“Appena
saremmo arrivati al Javits Building potrai fare una chiamata al tuo
avvocato.
Non prima.” La poliziotta gli rispose, con calma. Le rotelle
del cervello dell’uomo
iniziarono a girare:
il Javits Building
era la sede dell’FBI di New York- almeno adesso aveva una
vaga idea di dove si
stesse trovando. La nebbia non si era ancora dipanata, ma almeno aveva
quel
singolo punto fermo, e forse, forse sarebbe potuto partire da
lì per fare luce
su cosa gli fosse accaduto, e perché pensavano che fosse un
omicida, anche se
c’era una domanda che lo incuriosiva e a cui non riusciva a
dare risposta: da
quando un omicidio era un reato federale? Non se ne sarebbe dovuto
occupare il
dipartimento di Polizia? Cosa rendeva diversa, particolare, la morte di
quella
donna?
Mentre
era
perso nelle sue elucubrazioni mentali, tecnici di laboratorio e
investigatori
forensi gli si avvicinarono, prelevando residui da sotto le unghie,
campioni di
DNA dal cuoio capelluto, dalla bocca, fotografando ogni centimetro del
suo
corpo mentre, alle sue spalle, un’altra squadra stava facendo
lo stesso con il
corpo della donna.
Non
ricuciva a smettere di farsi quelle domande: dove diavolo era, chi era
quella
donna, e perché l’FBI stava indagando su un
omicidio?
Strinse
gli
occhi, cercando di portare tutto in sottofondo, di vivere solo
nell’attimo,
conscio solo del suo cuore che pulsava e dei suoi polmoni che si
riempivano e
svuotavano di aria.
Dentro.
Fuori. Dentro. Fuori.
Ancora,
e
ancora, e ancora.
Lentamente,
riprese finalmente il pieno controllo del suo intero essere.
Una
donna
gli porse un pantalone della tuta ed una felpa, e dei calzini per non
farlo
camminare scalzo, poi gli rimise le manette e lo accompagnò
verso lo
scintillante SUV nero, facendolo poi accomodare sul retro.
Mentre
guardava il paesaggio scorrergli davanti, la mente dell’uomo
andò alla sua
famiglia, e si chiese se ancora la sua fidanzata, quella bellissima
donna dai
capelli ramati che lo aspettava a casa col sorriso ed il cuore in mano,
avrebbe
voluto sposarlo da lì a pochi giorni dopo aver saputo di
cosa era stato
accusato- e se, conoscendo il suo passato, avrebbe mai potuto credere
alla sua
innocenza.
Non
era
nemmeno certo di credere lui stesso di non aver fatto nulla…
non ricordava
nulla, e soprattutto, conosceva il suo passato, il tipo
d’uomo che era stato, e
che sarebbe potuto facilmente tornare ad essere, se lei avesse deciso
di
voltargli le spalle, abbandonandolo al suo triste destino di uomo
solitario che
non aveva nessun’altro al mondo.
Non
era al
suo avvocato che avrebbe telefonato, anche perché ormai era
da tempo che non ne
aveva più uno di fiducia, sempre che mai ne avesse avuto
uno- semplicemente,
alla gente piaceva dire di essere suo amico. Usa o sarai usato: non
c’era forse
un detto simile? Non lo aveva forse imparato lui stesso, con
quell’esistenza
zingara al limite della legalità, nelle tante zone grigie
che abitavano il
mondo?
No, la sua telefonata, lui
l’avrebbe fatta a
casa. Lei avrebbe saputo indicargli
a
chi rivolgersi, e soprattutto, avrebbe chiamato qualcuno che si sarebbe
messo a
districare il bandolo di quella matassa che, seppure ancora confuso,
egli era
certo essere fin troppo complicata per gli standard a cui
l’FBI era abituata –
e che mai e poi lui da sola sarebbe riuscito a risolvere da solo.
Per
quanto
gli dolesse ammetterlo, aveva bisogno di aiuto. Qualcosa bolliva in
pentola, ne
era certo. Qualcuno doveva averlo incastrato, anche se ancora non
sapeva bene
il perché – di certo, le persone a cui negli anni
aveva pestatoi i piedi erano
parecchie, ed era almeno da quando aveva venticinque anni che aveva
smesso di
tenere a mente nomi, volti e numeri di chi aveva giurato vendetta, di
fargliela
pagare ad ogni costo.
Qualcosa
che
aveva visto, o di cui qualcuno dei suoi informatori gli aveva parlato?
O forse
qualcosa su cui stava indagando o su cui aveva indagato in passato?
Solo perché
da quando si era fidanzato si era dato una
“tranquillizzata” ciò non voleva
dire che la sua vita fosse divenuta più semplice: aveva
continuato a fare
quello che faceva prima, a pestare piedi a destra e manca senza fare
troppa attenzione
a chi ne avrebbe subito le conseguenze, anche perché, lui,
non era mai stato
tipo da tollerare le ingiustizie, o accettare compromessi facili.
Eppure…
eppure, non gli veniva in mente nulla – non di recente,
almeno - che potesse
richiedere una tale soluzione così drastica, non solo per
screditarlo ma
addirittura toglierlo dalla piazza. Sembrava troppo…
esagerato, definitivo. Che
dovesse guardare al passato? Magari addirittura alla sua
gioventù?
Gettò
il
capo all’indietro, posandolo sul poggiatesta. Forse,
l’unica persona che
avrebbe davvero potuto aiutarlo era l’uomo che sarebbe dovuto
divenire suo
cognato da lì a un paio di giorni, se le cose non fossero
andate a rotoli in un
battito di ciglia: Ryo Saeba, il famoso City Hunter.
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Capitolo 2 *** Domande ***
Ed eccoci qui, con la stporia che entra nel vivo e l'introduzione di
facce vecchie e nuove... e sopratutto dei nostri! Vedo con piacere che
il il mio trucchetto ha funzionato, e che diversi di voi hanno pensato
che fosse Ryo quello che era stato arrestato e che fosse Saeko
la bella poliziotta che gli punta l'arma addosso! Vi rtingrazio per il
feeback e vi auguro buona lettura!
“Certo
che vi siete proprio messi in un bel casino, eh?” Ryo
scrollò le spalle senza
nemmeno prendersi la briga di rispondere al suo interlocutore. Badge di
visitatore al collo, da dietro il falso specchio ascoltava
minuziosamente cosa
Chris avesse da dire alla bella poliziotta, tale Agente Kay Daniels,
che aveva
appena fatto il suo ingresso in sala interrogatori. “Hai
fatto bene a chiamarmi.
La burocrazie federale può essere una brutta bestia da
affrontare da soli, non
la raccomanderei al mio peggior nemico.”
Ryo
prestava poca o nulla attenzione a cosa il suo
“amico” gli stesse dicendo: anche
lui era curioso di sapere cosa il futuro cognato, Chris Barton, ex
fotoreporter
di guerra, avesse
da dire.
Mentre
guardava le istantanee della scena del crimine, Ryo non smetteva di
porgere
l’orecchio alla conversazione che avveniva dentro la sala
interrogatori, senza
prestare attenzione invece a Patrick Jane, consulente
dell’FBI, nonché alleato
in un caso che, circa un anno e mezzo prima, li aveva visti affrontare,
a
Tokyo, un pazzo maniaco che si nascondeva dietro una presunta setta.
Quel caso
aveva, nel bene e nel male, stravolto le loro vite: Jane era riuscito
finalmente a placare i demoni che da anni attanagliavano il suo animo,
dopo la
scomparsa violenta della sua prima moglie e della loro figlia, e Ryo,
dopo aver
quasi perso Kaori, aveva finalmente accettato di vivere
quell’amore tormentato
invece che continuare a rifuggirlo, nascondendosi dietro a mille scuse.
“Ammettilo:
volevi solo fare il mio nome per entrare qui dentro.” Jane lo
prese in giro.
Appena Chris aveva potuto, aveva chiamato casa, informando Sayuri dell’accaduto,
sapendo che lei avrebbe
chiesto l’intervento di Ryo, che con Kaori li aveva raggiunti
per festeggiare
insieme le imminenti nozze e l’arrivo previsto, da
lì a qualche mese, del loro
primogenito.
E
Ryo,
appena saputo che era all’FBI che Chris era tenuto in
custodia, aveva fatto una
chiamata al suo consulente di
fiducia
dell’FBI, Patrick Jane. Ryo si era immaginato che Jane
avrebbe chiamato qualche
amico, fatto il loro nome, presentato il caso a qualcuno dei piani
alti, ma
invece, il mentalista, che si trovava a Chicago in visita alla famiglia
della
moglie Teresa, si era bellamente presentato alla loro porta poche ore
dopo, con
un sorriso bianco accecante a trentadue denti, ed aveva finito per
accompagnare
Ryo nell’imponente palazzo di cristallo.
“Se
avessi
voluto entrare qui avrei potuto farlo anche da solo, Jane,
fidati.” Ryo lo
canzonò, sollevando leggermente la foto della vittima e
guardandola meglio:
aveva qualcosa di stranamente famigliare, anche se non riusciva a
capire cosa,
esattamente. Un viso che aveva visto quando viveva in America? Magari,
semplicemente, assomigliava a qualcuno che aveva incontrato
chissà dove, chissà
quando- dopotutto, si diceva che tutti avessero almeno sei o sette
persone nel
globo che assomigliavano loro…
“Sì,
ma non
lo avresti fatto in modo legale,” Jane
ribatté, abbassando la voce. Braccia incrociate, si
avvicinò allo specchio e
studiò attentamente Christopher, per capire se
nell’interrogatorio avrebbe
mentito: per ora, tutto della sua fisicità sembrava indicare
che fosse sincero,
ma Jane sapeva che all’ufficio di New York poco o nulla
importava della sua
opinione. “Lo
hanno già interrogato o
questa è la prima volta?”
“Primo
interrogatorio,” Ryo fece schioccare la lingua contro il
palato, braccia
conserte, appoggiandosi mollemente contro il muro a gustarsi la scena.
“Lo
hanno tenuto sulla graticola. Sai come sono certi poliziotti vecchio
stampo,
gli piace far cuocere lentamente i loro polli. Sperano in una
confessione
facile per sfinimento, e il capo di questa Daniels sembra
così. Peccato che
così hanno fatto il nostro gioco.”
“Già,
siamo
riusciti a prenderci un posto in prima fila per
l’interrogatorio del tuo
cognatino.” Jane
sospirò mettendosi
accanto a Ryo, che sbuffò, quasi quella parola
l’avesse seccato leggermente. A
differenza dell’amico – gli sembrava ancora strano
definire così Saeba, eppure,
in un modo molto peculiare, era ciò che erano diventati dopo
il loro incontro a
Tokyo - lui stava prendendo la cosa molto seriamente. Anche lui, quasi
vent’anni prima, era stato dove si trovava Christopher in
quel momento: in una
sala interrogatori, ammanettato ad un tavolo, dopo aver mangiato un
panino,
senza acqua da ore, sotto alle luci accecanti della sala interrogatori:
tutte
metodologie di una guerra psicologica studiata per far confessare i
possibili
colpevoli, ma che tante, troppe volte, avevano portato allo sfinimento
anche di
innocenti, che per poter respirare di nuovo un po’ di aria,
avere il sollievo
di una goccia d’acqua nelle gole arse dalla sete, erano pronti anche a
confessare di aver
assassinato la madre.
“Signori,”
Deakins, il capo di Daniels, una donna forse più vicina ai
sessanta che ai
cinquanta, magra e dal cipiglio militare, fece il suo ingresso nella
stanza;
mani dietro la schiena, si mise con la schiena al falso specchio,
guardando i
due uomini. “Spero non vi dispiaccia se vi faccio compagnia
mentre assistete ad
un interrogatorio nella mia unità.”
Li
guardò
negli occhi, sorridendo un po’ malevola, quasi a sottolineare
che quel luogo
era suo e di nessun altro, e che loro non erano i benvenuti: forse, non
fosse
stato per la buona parola messa da qualcuno che era ben più
in alto di lei – e
del cui nome il suo diretto superiore non aveva ritenuto di doverla
informare –
lei non avrebbe mai permesso che quei due
“soggetti” dalla dubbia moralità, ma
che a quanto sembrava avevano fornito un contributo di non poco conto a
un “caso molto importante”
occupassero quel
luogo su cui, fino ad allora, lei aveva regnato sovrana.
“Mister
Barton, conosceva la vittima?” Daniels
domandò, calma ne tranquilla; tutto della sua
fisicità era studiato per infondere pace ed un senso di
sicurezza nel suo
interlocutore, e Jane si chiese quanto vi fosse di vero e quanto fosse
studiato
ad arte.
“No,
non ho la più pallida di chi fosse quella donna.”
Chris abbassò il capo, tentando di grattarsi la nuca, e
scosse la testa, le labbra serrate in una perfetta linea orizzontale. “Io… non ricordo nulla della
notte scorsa.”
Mentre
Christopher faceva quell’ammissione, il capo era basso, i
pugni stretti:
sembrava che si vergognasse, o che, peggio, si sentisse
colpevole, o credesse di esserlo. A sentire quelle parole,
ma soprattutto quel tono, Deakins sorrise compiaciuta, certa di avere
ormai il
caso in mano: aperto e chiuso, era un nuovo personalissimo record per
lei e la
sua unità, che le sarebbe valso i complimenti del Vice
Direttore dell’FBI.
“Posso
garantire per lui fino alle due circa,” Ryo ammise,
giocherellando con una
sigaretta spenta, continuando a guardare l’interrogatorio con
fare falsamente
disinteressato, il tono sempre un po’ sbruffone e
canzonatorio. “Siamo stati ad
Atlantic City a giocare al Tropiacana fino a mezzanotte circa, potrete
vederci
alle telecamere di sorveglianza che sono certo un posto come quelle
abbia in
quantità- sempre che non vagliano nascondere qualcosa. Col
gioco d’azzardo non
si sa mai…”
“Quindi
lei
e Mister Barton siete amici signor… Saeba, giusto?
Giapponese?” Deakins gli
domandò, con vivo interesse, mentre Ryo prese a stringere
tra i denti il filtro
della sigaretta spenta. “Devo farle i complimenti, non sono
molti i giapponesi
con un inglese eccellente come il suo.”
“L’ho
incontrato per la prima volta l’altro ieri mattina, in
realtà, ma le nostre
fidanzate sono sorelle. Siamo arrivati qui dal Giappone per il loro
matrimonio.” Ryo non si sbottonò sulle sue
origini, né la ringraziò per il
complimento per la lingua. Tuttavia, ammise a controvoglia, non era
esattamente
entusiasta di dover mettere in mezzo Kaori in quella spinosa faccenda;
tuttavia, temeva che prima o poi sarebbe potuto accadere, anche
perché,
tecnicamente, stava fornendo un alibi al futuro cognato, o comunque
ristringendo la finestra del tempo in cui quell’orrendo
crimine poteva essere
stato commesso, quindi quasi certamente anche Sayuri presto o tardi
sarebbe
stata interrogata. “Siamo arrivati a New York verso le due di
notte, poi io
sono tornato in albergo, e lui è andato a farsi un giro con
degli amici perché
volevano fare le ore piccole.”
Deakins
apparve pensierosa: certamente stava pensando a chi affidar il compito
di fare
tutti i dovuti controlli- i ticket dell’autostrada e dei
sottopassi, le
telecamera di sorveglianza…
Iniziò
a
farsi i dovuti calcoli: Barton era stato trovato accanto al cadavere
alle sei e
quarantacinque minuti circa: avrebbe avuto il tempo di uccidere la
donna, o
qualcuno lo aveva messo lì? Solo il medico legale, indicando
una più precisa
ora del decesso, avrebbe potuto toglierle questo dubbio.
Per
ora,
però, prove e circostanze sembravano indicare lui come
colpevole. La donna
soppesò ciò di cui era stata informata; poi, con
cipiglio militaresco, sospirò,
e tornò ad interessarsi all’interrogatorio, senza
prestare attenzione a Saeba,
cercando, anzi, quasi di eliminarlo, quasi la sua presenza non fosse
null’altro
che rumore bianco.
“Christopher,
non sei obbligato a rispondere a nessuna
domanda, e ricorda, puoi appellarti al quinto emendamento.”* L’avvocato,
un ometto sui quaranta, con gli occhialini, gli
rammentò, posandogli una mano sull’avanbraccio.
Christopher era arrivato fino a
oltre quarant’anni senza aver mai avuto un
“suo” avvocato di fiducia: se si
metteva nei guai per lavoro, erano i giornali, le reti televisive, le
agenzie
di stampa che lo pagavano a fornirgli la difesa necessaria, e anche
quando
aveva divorziato da Amanda, la sua prima moglie, la cosa era stata
consensuale
perciò si erano limitati a lasciar fare
all’avvocato di lei, gestendo la
pratica da entrambe le parti…
Niente
figli, niente animali, erano in affitto, era stato tutto facile ed
indolore,
come togliere un cerotto, ognuno si era ripreso quello che aveva prima
delle
nozze e quel poco che avevano preso durante il matrimonio lo avevano
diviso
equamente a secondo anche del valore effettivo. Amanda era stata fin
troppo
comprensiva, lui avrebbe lasciato tutto a lei molto volentieri.
L’ultimo anno
del loro matrimonio era stato difficile, lei aveva sofferto molto, e
Chris
aveva solo voluto una cosa, lasciarla libera di ricominciare da capo,
lontano
da quel fardello che lui era divenuto dopo quell’incidente in
guerra.
Astringendo
di denti, Chris, lo sguardo vuoto, fissò la donna davanti a
lui che lo
interrogava. Aveva sempre saputo, in un piccolo angolo della sua mente,
che
quel giorno sarebbe tornato a
fare
capolino nella sua esistenza, che la felicità non sarebbe
durata a lungo… e che
presto o tardi avrebbe dovuto pagare caro il prezzo per aver osato
sperare di
essere finalmente fuggito dall’Inferno della sua mente.
“Non
capisco una cosa, perché è l’FBI ad
indagare su un omicidio? Credevo che questo
genere di cose fosse di competenza della polizia…”
Kaori domandò a Jane, immaginando
che, essendo lui un locale ed un federale, potesse avere più
facilmente
risposta a quella domanda. Inoltre, non voleva apparire sciocca, ma
dopotutto,
tutta la sua conoscenza dei metodi di investigazione degli americani
derivava
dalla visione di film e serie tv, lettura di gialli e qualche
chiacchierata con
il buon amico Mick.
“In
realtà
è una mera questione di cavilli,” Jane fece
spallucce, guardando le foto della
scena del crimine, un occhio sempre attento che nessuno arrivasse ad
interromperli. “L’omicidio è avvenuto su
di un terreno di proprietà del governo
federale quindi anche l’investigazione è di
competenza del governo federale. “Le
solite quisquilie, in una parola.”
Kaori sospirò,
sempre più incerta sul da farsi.
Lei e Ryo avevano raggiunto Sayuri nel piccolo appartamento che
divideva con
Christopher, in attesa di trovare qualcosa di più grande una
volta che la data
del parto si fosse avvicinata, e adesso la donna era seduta su quello
che fino
a poche ore prima era stato il loro letto,
abbracciando con occhi tristi il grembo colmo di vita. Oramai, chiunque
poteva
vedere che la giornalista era in stato interessante: i lineamenti erano
stati
addolciti dalla gravidanza, ed il ventre, giorno dopo giorno, diveniva
sempre
più pronunciato.
Un
maschio:
il primogenito di Christopher sarebbe stato un maschio. Solo il giorno
prima, a
pranzo, stavano scherzando con Kaori e Ryo di come fossero alla
disperata
ricerca di un nome che potesse essere adatto tanto ad un giapponese che
ad un
americano, ed adesso… adesso, Chris rischiava di passare il
resto dei suoi
giorni chiuso in una cella, senza neppure mai conoscere veramente il
suo stesso
sangue.
“Davvero
non ricorda nulla?” La donna chiese, guardando
alternativamente Ryo e Jane.
“Zero.
L’avvocato dice che è molto confuso,
non riesce nemmeno a ricordare bene gli ultimi giorni. Figurati che non
ricordava nemmeno che fossimo già arrivati, era convinto di
essere uscito solo
con i suoi amici come faceva di solito.”
Ryo
spense
la sigaretta nel posacenere che aveva posato sul davanzale, e
guardò le strade
brulicare di vita: era un quartiere tranquillo, però, adatto
a crescere dei
bambini, non certo come quello in cui lui e Kaori vivevano a Tokyo.
Chris e
Sayuri meditavano di trasferirsi, cercare magari a Manhattan, vicino al
loro
ufficio, ma non capiva il perché: ragazzini che correvano,
che giocavano a
pallone, fiori alle finestre, niente strade affollate di traffico
soffocante, niente
spacciatori… perché rinunciare ad un paradiso del
genere?
“Credi
che
gli tornerà in mente cosa è successo?”
la sua compagna, di lavoro e vita, gli
domandò, sedendosi sul davanzale accanto a lui. Kaori vide i
bambini correre
dietro al pallone e sorrise, sognante, e Ryo si domandò a
cosa stesse pensando;
poi, lei avvertì lo sguardo del compagno su di
sé, e arrossì, cercando invece
di scrutare, con la coda dell’occhio, la sorella.
Approfittando
di quella momentanea distrazione, Ryo sorrise, immaginando che fosse
alla
maternità che la ragazza stesse pensando, che stesse
sognando dei figli loro.
Da quando, oltre diciotto mesi prima, avevano fatto il grande passo,
non
avevano mai toccato l’argomento, forse perché per
lei era già tanto che lui avesse
accettato di vivere quel loro amore a lungo contrastato dallo stesso
sweeper,
ma entrambi sapevano che prima o poi uno dei due avrebbe rotto il
ghiaccio al
riguardo, soprattutto adesso che Sayuri era in attesa.
E
comunque,
Ryo lo sapeva: Kaori era nata per essere madre.
E
lui stava
iniziando a credere che forse, anche con quel lavoro, avere dei figli,
qualcuno
da amare, fosse possibile, e se le cose si fossero fatte troppo
complicate,
sparire, fingere la propria morte, ricominciare da capo altrove, con un
nuovo
nome, un passato fabbricato ad arte non era poi così
complicato, come Ray
Hefner stesso aveva insegnato loro.
E
poi,
stava diventando quasi un chiodo fisso: quasi se la vedeva, una piccola
guerriera dai capelli rossi e gli occhi neri. Un bambino loro, un mix
perfetto
dei loro geni, qualcuno da amare come era stata amata lei, su cui
riversare
l’amore che lui non aveva ricevuto.
“Beh,
allora?” Kaori lo chiamò, risvegliandolo da quello
stato catatonico in cui era
caduto mentre fantasticava
sul loro
futuro. Ryo si imbarazzò un po’, come tutte le
volte che capitava che Kaori lo
prendesse in contropiede, si grattò nervosamente il collo,
cercando di
ricordare di cosa stessero parlando….. Ah,
giusto. Chris non ricordava nulla e Kaori si chiedeva se
avrebbe mai
rammentato i fatti dei giorni precedenti.
Schiarendosi
la voce, tornò all’argomento principale.
“Beh,
è difficile
a dirsi. Se è stato drogato potrebbero aver usato qualcosa
che gli ha bruciato
del tutto i ricordi, altrimenti, piano, piano, gli ultimi giorni
porrebbero
tornargli in mente.” Ryo sospirò, pensieroso,
chiedendosi se Jane sarebbe stato
in grado di fargli avere i campioni di Chris, o anche solo i risultati
delle
analisi, per sapere dal Professore cosa ne pensasse. Purtroppo Ryo
sapeva bene
– anche da esperienza diretta- che certe droghe erano capaci
di cancellare del
tutto la nozione di cosa fosse accaduto, trasportare l’io in
uno stato tale che
chi le assumeva avrebbe potuto fare qualsiasi cosa…. Anche
uccidere. E molte di
quelle sostanze non erano nemmeno schedate, viste le
quantità astronomiche di
porcherie con cui i chimici se ne uscivano fuori ogni anno: senza
sapere
esattamente cosa cercare, a meno che non si trattasse di qualcosa di
standard,
difficilmente su un esame
basico
sarebbero uscite fuori. “Se è
stato
drogato.” L’uomo ammise a malavoglia, mani
incrociate dietro al capo.
“Cioè?”
Kaori gli domandò. Che Chris fosse colpevole non le era
nemmeno passato per
l’anticamera del cervello: Sayuri diceva che era innocente,
credeva con tutta
sé stessa che lo fosse, quindi doveva
essere
così. Poche persone erano giudici di carattere buoni come
sua sorella, che non
era certo il tipo di donna da farsi inginocchiare dal primo venuto.
“Quegli
agenti dell’FBI sono parecchio in gamba, anche se mi duole
ammetterlo. Hanno
decisamente fatto i compiti per bene.” Ryo ammise a
malincuore.
“Deakins
ha
fatto aspettare per interrogare Chris per farlo innervosire, ma anche
perché
voleva notizie ed informazioni. Che ha ottenuto.”
Guardò la compagna con
sguardo intento, deciso, serio. Kaori quasi rabbrividì: quel
Ryo era lontano
anni luce da quello che lei vedeva di solito, non era il maniaco
assatanato o
il cretino, ma lo sweeper micidiale senza paura e senza
pietà – l’angelo della
morte di cui tutti le parlavano, e che lei aveva sempre pregato di non
incontrare sul suo cammino. “Chris era al seguito delle
truppe statunitensi in Afghanistan.
Un giorno la loro unità subì
un’imboscata, due kamikaze si fecero saltare,
insieme a delle autobombe, mentre il loro convoglio passava attraverso
un
villaggetto fatto di baracche. Non sopravvisse nessuno, da ambo le
parti, solo
Chris, che trovarono tre giorni dopo, che vagava in mezzo ai cadaveri.
Al
ritorno iniziò a soffrire di Stress Post Traumatico e una
notte, pensando di
essere in una zona di guerra, ha quasi ucciso la moglie durante un
flashback…”
“Ah!”
Kaori
sussultò, facendo un passo indietro, una mano al cuore. Di
nuovo guardò in
direzione della sorella, chiedendosi se sapesse e non le avesse detto
nulla per
pudore, o forse vergona, o se Chris avesse tenuto la verità
sulla fine del suo
matrimonio celata anche alla sua nuova compagna.
“Quindi… credi che possa
davvero essere stato lui?”
“Chi
lo
sa,” Ryo le rispose un po’ distaccato, e freddo,
scrollando le spalle.
“Potrebbe anche essere. Non sarebbe il primo che tornato
dalla guerra fa una cazzata
del genere senza nemmeno rendersene conto. Deakins sembra pensarlo, e
non
vorrei che si impuntasse e non facesse altre indagini. Certo, se fosse
andata
effettivamente così, sarebbe comunque una bella attenuante,
il cognatino si
farebbe qualche anno di manicomio giudiziario e poi, se non gli
friggono il
cervello con l’elettroshock, potrebbe essere libero come un
uccellino in men
che non si dica.”
La
mente di
Ryo andò a Deakins, a ciò che la donna aveva
detto, ma soprattutto il modo: negli
anni aveva visto tante, troppe volte poliziotti troppo zelanti che
volevano
chiudere un caso in fretta per fare bella figura o perché
davvero desiderosi di
togliere dalle strade dei delinquenti, granitici nelle loro
opinioni… anche
Kaori, da quando era divenuta City Hunter, ne aveva viste a bizzeffe di
cose
simili, per non parlare di tutti gli sfoghi sentiti in
gioventù dal padre prima
e dal fratello poi.
Il
fantasma
che però lei non conosceva direttamente era quello che
invece a Ryo era fin
troppo familiare: quello della guerra. Cambiavano gli anni, cambiava il
continente, cambiavano le motivazioni, ma alla fine il risultato era
sempre lo
stesso.
Quanti
ex
compagni aveva visto, dopo gli anni della guerriglia, quando il
Professore lo
aveva preso con sé, cadere vittima di quel destino crudele?
Ricordava di un suo
ex compagno, che una notte si era svegliato nel letto di una prostituta
e
l’aveva massacrata a calci e pugni, perché pensava
di essere stato attaccato,
che lei fosse un nemico e lo
volesse
uccidere. Che quello fosse stato lo stesso destino di Chris? Dopotutto,
la
guerra era uno sporco affare, non guardava in faccia nessuno, non le
importava
il colore della tua pelle, il tuo ceto sociale o il perché
combattessi: non
lasciava scampo, ti piegava, chiunque tu fossi, e da dovunque tu
provenissi.
Ryo
guardò
i bambini correre in strada: loro non sapevano ancora come il mondo
potesse
essere crudele e sporco, e se fossero stati fortunati non lo avrebbero
mai
scoperto, a differenza di lui e Kaori, che nella vita avevano sofferto
fin
troppo, fin dalla più tenera età, vittime
entrambi delle scelte di genitori
degeneri.
Guardò
l’orologio: a quell’ora, il partner di Daniels
sarebbe dovuto essere ancora in
giro a fare domande, capire la linea temporale degli eventi, mentre
Jane gli
aveva detto che sarebbe andato a rompere le scatole al medico legale.
Lo
sweeper si alzò, decidendo di raggiungerlo: forse avrebbe
avuto nuove
informazioni che avrebbero fatto loro comodo.
Non
tanto
su Chris… ma su quella misteriosa donna che l’uomo
era accusato di aver
assassinato. Ryo era certo di non conoscerla personalmente - lei era
troppo
giovane, e lui mancava da troppo tempo dagli Stati Uniti - eppure
c’era
qualcosa in lei di vagamente famigliare, che gli ricordava qualcuno,
solo, non
sapeva esattamente chi… e la cosa gli rodeva.
Perché
Ryo ne
aveva la certezza assoluta: quella sensazione avrebbe potuto portare
alla
risoluzione del caso.
*Il
quinto emendamento della Costituzione degli Stati Uniti
garantisce che ogni individuo non possa essere obbligato a fornire informazioni
pregiudizievoli e/o
incriminanti per sé stesso dal Governo, permettendogli di
rimanere in silenzio
(una delle formule presente nel cosiddetto
“Miranda” -
he il diritto di rimanere in silenzio, ha il
diritto ad un avvocato…).
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Capitolo 3 *** Call me (maybe) ***
“Devo
forse
ricordarle che l’intralcio alle indagini è
reato?” Mentre lui e Jane erano
fuori dall’ufficio del coroner, Daniels, l’agente
dell’FBI, di chiare origini
afro-americane, li squadrò da capo a piedi, con un
sorrisetto enigmatico sul
viso, guardando Jane divertita: era evidente che, nella sua carriera,
dovevano
essersi già incontrati, o per lo meno, doveva aver sentito
parlare di lui; un fatto
non certo sconcertate, visto che, quando si erano scontrati a Tokyo,
Mick
stesso era stato ben consapevole della travagliata storia del
mentalista
divenuto consulente per il governo federale.
“Kay,
lieto
di rivederti. Come sta il fidanzatino, cerca sempre di tirare fuori dai
guai il
suo fratellino?” le sorrise, offrendole la mano mentre
chiudeva la cartellina
gialla con alcune informazioni sul caso; poi, mentre lei la stringeva,
con
sorriso amichevole sul viso, un sorriso intelligente, però,
che mostrava quanto
lei non fosse il tipo da abboccare all’amo, Jane si
voltò verso Ryo. “In
passato ho collaborato con l’agente Daniels e la sua
unità. All’epoca aveva un illusionista
come consulente. Il ragazzo
mi idolatrava. Letteralmente.”
“Jane,
non
siamo qui per parlare di Cameron e di Jonathan.” Daniels
incrociò le braccia, e
prese a dondolarsi sui talloni, un po’ a disagio, e Jane si
morse la lingua: a
quanto sembrava, dovevano esserci problemi in paradiso. Kay adorava
Jonathan,
non tanto per l’effettivo contributo che dava ai casi, ma
perché era stato uno
dei pochi uomini che aveva incontrato che aveva capito di cosa lei
avesse
effettivamente bisogno: sorridere. Al mentalista era bastata
un’occhiata, dopo
averli incontrati, per capirlo. “Posso darvi solo limitato
accesso al caso, e
solo sotto la mia supervisione, o quella di Deakins. Tu ed il tuo amico
non potete e non
dovete andare in giro a fare indagini per conto
vostro.”
“Va
bene,
mammina, farò il bravo bambino, prometto, parola di
scout.” Jane la prese in giro,
facendole una sorta di saluto militare.
“Jane,
la
prima cosa che Lisbon mi ha detto quando collaborammo insieme fu: non
credergli
mai quando giura sul suo onore di lupetto, lui non è mai
stato uno scout.” Daniels
sospirò, alzando gli occhi al cielo e
passando tra Jane e Ryo, pronta ad aprire la porta
dell’ufficio di medicina
legale. “Giuro che a volte non capisco come faccia Teresa ad
avere avuto il
coraggio di sposarti.”
“Meh,
ho
delle grandi doti persuasive, sai?” Le disse, seguendola
all’interno degli
stretti e asettici corridoi scarsamente illuminati, dove le luci basse
rendevano l’atmosfera degna di un film horror; Jane
alzò lui stesso gli occhi
al cielo a quella visione spettrale: oramai era quasi
vent’anni che girava il
Paese con il suo lavoro, e gli uffici di medicina legale forense erano
tutti
uguali, quasi a coroner e medici legali piacesse dare l’idea
dell’atmosfera da
film horror di serie C. “L’agente Alvarez ha
scoperto qualcosa?”
Mano
sul
pomello, la donna si voltò verso i due uomini.
“Jane…”
Lo
avvertì, alzando l’indice verso di lui, e
guardandolo dritto negli occhi.
“Niente
ingerenze, lo abbiamo capito, agente Daniels. Le sembrerà
strano, ma so come
trattare con gli sbirri, specie quelli bravi e carini come
lei.” Ryo le disse,
con tono strafottente, da seduttore incallito. “Tuttavia,
devo ammettere che
siamo curiosi di sapere cosa ne pensa lei.”
“Penso
che
suo cognato dovrebbe cercarsi un avvocato bravo, e anche molto, e
chiedere una
perizia psichiatrica per scagionarlo o
comunque permettergli di avere una pena ridotta.” Gli disse
sinceramente,
guardandolo con gli occhi colmi di compassione. “Signor
Saeba, abbiamo parlato
con i colleghi e gli amici di Barton. Tornati da Atlantic City hanno
pensato di
fare le ore piccole andando in un locale di spogliarelli, il Sapphire….”
“Uno
Strip
club? Apperò, a saperlo mica andavo a dormire con la mia
ragazza, mi sono perso
il meglio della serata!”
Ryo ironizzò,
sebbene al Tropicana avesse
guadagnato bei quattrini, abbastanza da fare un bel regalino a Kaori
nel caso
le cose si fossero messe per il meglio – dubitava che con un
verdetto di
colpevolezza, o il cognato dietro le sbarre, sarebbe stata molto
propensa a
peccaminose coccole nella SPA di qualche hotel di lusso.
Daniels
lo
fulminò, e poi riprese a parlare, come se non fosse stata
mai interrotta. “La
vittima, Amy Simmons, di anni ventidue, lavorava lì, ed
è stata vista lasciare
il locale con il sospettato, dopo che avevano consumato abbondanti
quantità di
alcolici.”
“Quindi
tu
e Deakins pensate che Barton sia effettivamente colpevole.”
Jane sintetizzò.
“Stiamo
guardando in tutte le direzioni, Jane, ma per adesso le prove sembrano
indicare
lui come indiziato. E
comunque,”
Daniels dovette ammettere, seppure a malincuore. “Non sarebbe
il primo reduce
con sindrome da Stress Post Traumatico che dopo essersi fatto un goccio
di
troppo fa una cosa del genere. Ma se è davvero colpa del
PSTD, allora potrebbe
servirgli come attenuante, nel caso in cui…”
Non
finì la
frase: cosa volesse dire era lampante a tutti, fin troppo, ripeterlo
sarebbe
stato solo inutile, ormai entrambi gli uomini avevano capito
l’antifona: nel
caso di un verdetto di colpevolezza. Tuttavia, Ryo si chiedeva a cosa
sarebbe
servito avere delle attenuanti: se fosse stato dichiarato colpevole, la
vita di
Chris sarebbe finita comunque, quello era poco ma sicuro. Sarebbe stato
travolto dal senso di colpa, avrebbe sempre avuto gli sguardi puntati
addosso, avrebbe
perso la fiducia delle persone amate: sarebbe divenuto prigioniero di
una
prigione sì, ma le cui sbarre gli avrebbero attanagliato
l’animo.
Guidati
dalla giovane donna, lo sweeper ed il mentalista entrarono nella sala
autopsie;
il medico legale, un uomo atletico sui cinquant’anni, dalla
folta capigliatura
rossa, ricoprì il corpo della giovane donna nella sua
interezza non appena li
vide, risparmiando ai poveri resti di dover tollerare
l’essere studiati
ulteriormente da occhi indiscreti.
Braccia
incrociate, si appoggiò al lavandino con il bacino, e si
levò la mascherina
chirurgica prima di salutare Daniels con un movimento del capo,
fulminando
invece Ryo e Jane, gelido: che non apprezzasse
l’intromissione di quei due
perfetti sconosciuti nel suo tempio era a dir poco palese. Non si
trattava di
senso di superiorità, ma di rispetto verso i morti, di dare
loro cosa gli era
stato troppo spesso negato negli ultimi istanti di vita terrena.
Daniels
gli
fece un cenno di assenso col capo, come a dargli l’okay per
proseguire, dando
ufficialità alla presenza dei due uomini al suo fianco, e
l’uomo sospirò,
alzando leggermente gli occhi al cielo per una quasi impercettibile
frazione di
secondo, ma poi si arrese, e fece il suo macabro dovere, raccontando di
cosa avesse
atteso alla fine della vita quella giovane donna.
“Amy
Simmons, di anni ventidue, presenta profonde ferite penetranti da corpo
contundete al capo, compatibili con,” e indicò il
masso su un tavolo di acciaio
lì accanto, sporco di sangue aggrumato e capelli. “Quel sasso, su cui abbiamo trovato
campioni di sangue e capelli
compatibili con quelli della vittima. Il suo assalitore l’ha
colpita con tale
forza da causare un’emorragia intra-cranica a seguito della
quale si è
verificata un’erniazione che ha portato al decesso della
vittima intorno alle
quattro e quarantasette del mattino…”
“Ma
come
siamo precisi…” Jane lo ridicolizzò,
schernendolo. Il medico legale lanciò
un’occhiataccia a Daniels,
lasciando
trasparire quanto poco avesse apprezzato che la sua
professionalità fosse stata
presa per i fondelli e ridicolizzata da quell’uomo che, ai
suoi occhi, era poco
più di un barbaro.
“La
signorina Simmons aveva un orologio che nella colluttazione con il suo
assalitore è stato danneggiato, fermandosi alle quattro e
quarantasette
precise.” Spiegò, sintetico.
“E
cos’era,
svizzero per battere il secondo?” Jane continuò,
nonostante lo sguardo di
Daniels, così simile a quello che Teresa gli aveva lanciato
tante volte, avesse
dovuto farlo desistere. Ma lui non
poteva farci nulla. Adorava punzecchiare la gente, specie i medici
legali.
“Giapponese,
in realtà. Un Citizen.” ammise l’uomo,
determinato, guardando il mentalista
negli occhi con espressione divertita, quasi stessero giocando al gatto
e al
topo. “Simmons possedeva un orologio della Citizen, un
modello chiamato Satellite Wave, il
cui sistema di
radio-controllo non si connette agli orologi atomici sparsi qua e
là sulla
superficie terrestre, ma ad un sistema di ventiquattro satelliti che
orbitano
intorno al pianeta, che permette di segnalare l’orario con un
errore di circa
un secondo ogni dieci milioni di anni.”
Daniels
si
limitò ad alzare un sopracciglio, e gli offrì la
mano; il medico parve non
capire subito, poi comprese che la donna desiderava il referto, e
glielo porse,
sorridendo sornione, cosa che fece alzare gli occhi al cielo alla
donna, che a
malapena evitò di sbuffare.
“Il
laboratorio ha effettuato i tossicologici sia della vittima che
dell’uomo che
avete arrestato, quello di lei è praticamente pari a zero,
mentre, con somma
sorpresa di nessuno, quelli di lui sono alle stelle.”
“Tracce
di
scopolamina o GHB?” Ryo domandò mentre, da sopra
alla spalla di Daniels,
leggeva i risultati delle analisi.
“In
quale
dei due?” Il medico legale guardò la federale,
quasi ad aspettare conferma da
lei che poteva rispondere alla domanda, poi fece schioccare la lingua
contro il
palato. “Se erano stati drogati, non c’è
più traccia nei loro sistemi, anche
perché sarebbe
passato troppo tempo da quando
avrebbero potuto assumere le sostanze a quando abbiamo raccolto i
campioni, e
purtroppo, a differenza di altre sostanze, non lasciano traccia nemmeno
nei
capelli. In compenso però ho trovato il DNA del sospettato
sotto le unghie
della ragazza, compatibilmente con i graffi riscontrati sulla schiena
di
Barton, come potete evincere dalle foto allegate al dossier, il sangue
trovato
sulle braccia di Barton apparteneva alla Simmons e
le impronte sul masso usato presumibilmente come arma del delitto
sono sempre del sospettato.”
“Altro?”
la
donna domandò, secca, mentre stava per girare pagina; Ryo
alzò un dito,
fermandola, arrivò alla fine della pagina e le fece cenno
col capo di
proseguire. Lei sibilò a denti stretti, girò e
aspettò che il medico legale
andasse avanti con le sue spiegazioni.
“C’è
stato
un rapporto sessuale, anche parecchio violento, anche se non posso dire
se
fosse consensuale o meno. Niente scambio di fluidi corporei, hanno
usato un
preservativo…”
“Ha
trovato
reazione allergica al lattice per dirlo?” Jane
domandò, facendo stringere i
denti a Daniels.
“No,
ma
come ho indicato nel rapporto dell’agente Daniels,
all’interno del canale
vaginale ho trovato tracce di una sostanza spermicida che viene
comunemente
usata per ricoprire una delle maggiori marche di profilattici sul
mercato,” il
medico legale sbuffò, seccato dalle intromissioni di Jane. “e no, il
profilattico non era tra le prove
che mi avete portato da analizzare, e buona fortuna a trovarlo,
stanotte è
venuto un acquazzone e probabilmente adesso sarò a nuotare
in qualche fogna
insieme ai ratti.”
Daniels
chiuse la cartellina; la sporse al medico ma lui fece cenno di no col
capo:
evidentemente, ne aveva già una copia ad uso interno.
Ringraziandolo, se ne
andò, seguita dai due uomini; non era ancora
fuori dalla porta quando si voltò verso di
loro, e guardo Jane negli
occhi.
E
lo stava
ancora guardando negli occhi quando offrì a Ryo un suo
biglietto da visita.
“Non
sono
stupida, so che non mi darete retta e farete quello che volete
comunque, poco
importa cosa vi possa dire, e andrete avanti con le indagini per conto
vostro nonostante
io vi abbia praticamente
supplicati in ginocchio di non farlo. Perciò, questo
è il mio biglietto.”
Sbuffò un poco, tuttavia aveva come
un’aria… comprensiva, quasi lei stessa
sapesse che a volte la giustizia non poteva passare solo dalle mani
delle forze
dell’ordine. “Tanto vale collaborare ed evitare di
pestarci i piedi a vicenda.
Informatemi se scoprite qualcosa, e Jane, niente sciocchezze, tu ed il
tuo
amico vedete di stare lontani da guai. Lisbon non me lo perdonerebbe se
dovesse
capitarti qualcosa mentre si suppone che tu sia sotto la mia
responsabilità.”
“Oh,
non
preoccuparti, Teresa non te ne farebbe mai una colpa. Lo sa che mi
ficco nei
guai per conto mio.” Le rispose lui con aria divertita,
mentre finì di leggere
il rapporto, memorizzando quante più informazioni poteva in
quel breve arco di
tempo. Esasperata, la donna afferrò la cartelletta, e
allontanandosi recuperò
il telefono dalla tasca della giacca blu oltremare e fece una chiamata,
mentre
i due uomini lasciarono il laboratorio, andando nella direzione
opposta.
Una
volta
fuori, Ryo si accese una sigaretta, e ne offrì una al
mentalista, che la
rifiutò deciso.
“Allora
Jane, cosa mi dici?” gli chiese, appoggiandosi pigramente al
muro di mattoni.
Jane mimò la sua posa, sbottonandosi il gilet e mettendosi
la giacca al
braccio, accaldato da quella giornata di pallido sole, che il piovasco
della
notte aveva reso ancora più afosa.
“Beh,
le
prove sono tutte contro di lui, ma non significa che sia colpevole,
solo che è
stato incastrato per bene. Peggiore dei casi, potrei provare ad
ipnotizzarlo,
vedere se riuscisse a ricordare qualcosa, ma non sarebbe ammissibile in
tribunale.” Ammise, pensieroso. “Tu, piuttosto,
cosa mi dici di questa storia?
Se tu il detective, dopo tutto.”
Ryo
sorrise, scanzonato, grattandosi il capo. Detestava quando lo
chiamavano così,
gli faceva strano.
Gettò
la
sigaretta a terra e la spense, schiacciandola con la punta della
scarpa; mani
incrociate dietro al capo, guardò il cielo mentre parlava:
era colmo di nubi
che non lasciavano presagire bel tempo.
“Cosa
ne
penso? Beh, che sono un mucchio di stronzate, e che qualcuno vuole
incastrare
Chris.” Ammise, riflettendo, cercando di capire cosa potesse
essere accaduto: in
tutta quella storia, c’era qualcosa che non gli tornava.
“Con un tasso di alcol
così alto
nel sangue non esiste che si
sia fatto quella spogliarellista, a malapena poteva camminare. E
comunque, ci
avrò passato insieme solo poche ore, ma la gente la so
inquadrare, e quel tipo
pende dalle labbra di Sayuri, non l’avrebbe tradita nemmeno
per salvarsi la
pelle.”
“Quindi,
parte delle prove lo inchiodano, e parte delle altre prove
sembrerebbero
indicare la sua innocenza, peccato che con il suo DNA sulla vittima sia
già una
condanna certa se il caso arriva in tribunale. Le giurie adorano quel
genere di
cose.” Jane rifletté, mani in tasca.
“Quindi, adesso che si fa?”
“Hai
sentito Daniels, non è stupida. Sa che indagheremo comunque.
Tanto vale che
vado a fare un po’ di domande in giro… per prima
cosa voglio fare un salto in
questo Sapphire e vedere se riesco a farmi dare i nastri di
video-sorveglianza.” Ryo scrollò le spalle,
sistemandosi la giacca addosso. “Ci
scommetto la testa che Chris non era poi così sobrio o
consenziente quando è
uscito dal locale con la bella biondina.”
“Vengo
con
te. Tu sarai bravo ad ottenere quello che vuoi con una pistola, ma io
riesco a
convincere la gente a fare quello che voglio senza che nemmeno si
rendano conto
che stanno facendo i miei e non i loro interessi.” Jane
sorrise, tronfio,
soddisfatto, e baldanzoso. Fiero delle proprie capacità.
“E poi, non credo che
Kaori sarebbe molto felice di saperti in uno strip club da solo, e
dubito che
vorrebbe accompagnarti lei.”
“Ah!”
Ryo
rise, sonoro, forte, gettando il capo all’indietro mentre
saliva sulla vecchia
auto, dal lato passeggero. Era abbastanza irritante non essere in
controllo,
non poter tenere il volante tra le mani, ma almeno Jane era uno che
alla guida
ci sapeva fare, e si divertiva, non certo una nonnina nonostante il suo
look
vecchio stile lo facesse a volte apparire invece come un gentleman
vecchio
stampo. “Non crederesti ai posti in cui l’ho
trascinata in passato per lavoro!”
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Capitolo 4 *** Zaffiri, brillanti e pepite d'oro ***
“Sei
sicuro
di voler entrare così?” Mentre si avvicinavano, a
notte ormai inoltrata, verso
l’ingresso del Sapphire Club, Ryo squadrò Jane,
leggermente scettico. Il
mentalista aveva tolto la giacca, rimanendo solamente con il gilet
lasciato
aperto, dandogli un’aria un po’ trasandata, ed
aveva indossato un paio di
occhiali da sole, assolutamente ridicoli a notte fonda, ma camminava
sicuro,
spalle alte e schiena dritta: la camminata classica di chi aveva denaro
da
spendere, potere da condividere, ma soprattutto che demarcava una
totale
mancanza di buon gusto o di un’etica moralista.
“Fidati,
vecchio mio, so cosa sto facendo. Sono un truffatore nato. E nel
peggiore dei
casi, faccio il nome di mio cognato- beh, ex
cognato. Danny ha affari molto proficui in tutte le bettole
del paese, e
amici e parenti ovunque.” Jane gli rispose, dando a Ryo una
pacca sulla
schiena. Lo sweeper scrollò le spalle, e mani nelle tasche
dei jeans seguì il
“socio di fortuna”, guardandosi bene intorno,
avvertendo il peso della pistola
che portava nascosta sotto alla giacca, una cosa che con la Python non
gli era
mai capitata – paradossale, considerato che
quest’arma era estremamente leggera
rispetto alla sua. Ma la sua amata Magnum era dovuta rimanere a casa,
dato che
difficilmente avrebbe potuto imbarcarla; non aveva creduto necessario
recuperare un’arma appena sceso dall’aereo, ma
appena saputo di Chris aveva
chiamato Mick che aveva chiamato un amico che aveva chiamato un
conoscente che
aveva chiamato un tizio che gli aveva fatto avere, per
l’equivalente di un rene
e un occhio, un’arma e un po’ di munizioni; come
souvenir, Ryo si era regalato
un paio di coltelli di ceramica, nel caso gli fossero tornati utili.
Sperò
che a
nessuno venisse in mente di perquisirli, e che non ci fosse un
metal-detector
all’entrata, altrimenti sarebbe stato fregato; certo, lui
sapeva difendersi
benissimo anche a mani nude, e avrebbe potuto usare uno dei coltelli,
ma come
aveva detto Sean Connery negli Intoccabili,
portare un coltello quando si va a fare una sparatoria era da
deficienti. O
qualcosa del genere.
Forse
dato
l’orario, era ancora presto, il Sapphire era ancora
tranquillo, anche fuori non
c’erano code; i due uomini si avviarono verso
l’ingresso, su cui spiccava
un’insegna al neon blu con il nome del locale. Mentre
entravano – Jane sembrava
il classico tipo che aveva da spendere e spandere, e a lui
l’ingresso era
sempre stato garantito ovunque, complice l’aria da bel
tenebroso che faceva
andare in brodo di giuggiole le donne- Ryo si dette
un’occhiata in giro,
dicendosi che tutto sommato non era poi così tanto diverso
dai tanti locali che
c’erano a Kabukicho: pali dove ragazze vestite di poco o
nulla ballavano,
cameriere che giravano per il locale in topless su tacchi talmente
vertiginosi
da sembrare trampoli, spogliarelliste e lap-dancers che era lampante
arrotondassero proponendo bollenti notti di sesso agli avventori,
uomini che
cercavano di annegare la loro solitudine, la paura di vivere ed il senso di colpa
lasciandosi trasportare
da quei corpi compiacenti, perdendosi nell’alcol ed in un
paio di tette.
Sorrise,
malinconico, la mente che vagava, tornava al passato.
Un
tempo,
uno nemmeno troppo lontano, lui era stato uno di quegli uomini, e
dietro lo
stordimento dei sensi, rapporti fugaci e privi di emozione e
coinvolgimento
consumati nei privé aveva tentato di allontanare il pensiero
di Kaori dalla
mente e dal cuore.
Ma
era
stato tutto inutile: col tempo, lei
aveva prevalso. Aveva continuato a fare lo stupido in giro, a girare
per locali,
ma aveva smesso di rimorchiare seriamente, neanche più ci
provava. Anche il
sesso era divenuto tabù, la sua mente invasa da lei, dal
desiderio di lei sola,
dal bisogno di affondare nel corpo meraviglioso di
quell’altrettanto
meravigliosa creatura che lo amava con tutta se stessa, nonostante
tutti i suoi
tanti difetti.
E
adesso…
adesso nessuno avrebbe mai più osato toccarla,
perché nell’ambiente si sapeva
che Kaori e Ryo erano una cosa sola.
“Quindi,
questo è il tipo di locale che bazzichi a
Shinjuku….” Jane sovvenne,
guardandosi intorno, perdendo un po’ della sua baldanza, cosa
che fece
sorridere Ryo, che quasi scoppiò a ridere. Il mentalista
aveva scoperto che la
teoria era una cosa, la pratica era un’altra, e
l’uomo di mondo si era rivelato
un semplice borghese che arrossiva e si vergognava per un paio di tette
che non
appartenesse alla sua dolce metà.
“Sì,
ma
ormai lo faccio solo per lavoro, se devo cercare informazioni o
qualcuno di
particolare.” Gli rispose con nonchalance, sorridendo ad
un’audace coniglietta
che casualmente gli urtò
il braccio
con il prorompente seno vistosamente rifatto. “Ormai sono un
monogamo convinto
e pure pantofolaio.”
“Ah,
non ci
credo nemmeno se lo vedo. Teresa ed io siamo
pantofolai. Ci piace starcene sul divano a coccolarci tranquilli,
mangiamo a
casa, guardiamo vecchi film con Evan, questo genere di cose.”
Il mentalista
fece un sorrisetto malizioso, ed indicò Ryo con
l’indice destro. “Tu e la bella
Kaori, scommetto la mia collezione di auto vintage che in questi
diciotto mesi
il letto l’avete lasciato poco o nulla, e che ci avete
dormito ancora meno.”
“Te
l’ha
mai detto nessuno che sei uno stronzetto?” Ryo
borbottò, mugugnando,
ingobbendosi leggermente. Era anche arrossito un po’, cosa
che fece capire a
Jane che aveva preso in pieno- d'altronde, raramente lui si sbagliava.
“Scherzi?
Me lo dicono almeno una volta al giorno. Ma tu sei più
gentile degli altri- di
solito dopo che me lo hanno detto mi spaccano il naso. Non hai idea di
quante
rinoplastiche che ho dovuto fare negli anni. Il mio medico mi manda
pure un
cesto a Natale e mi ha detto che la prossima la offre lui.”
Sedendosi su un
divanetto di velluto rosso, le luci al neon, un leggero fumo per creare
atmosfera, la musica assordante- tutte cose che Jane sapeva essere
trappole
studiate per far passare ai clienti il maggior tempo possibile nel
locale- il
mentalista, picchiettando con le dita sul bracciolo logoro, prese a
guardarsi
intorno, cercando la sua preda, l’anello debole che avrebbe
potuto aiutarli a
trovare il bandolo di quella matassa.
Un
cliente
abituale?
Una
delle
ragazze?
Una
spogliarellista?
Uno
dei
gorilla del proprietario? Jane li studiò per bene, e decise
che almeno uno dei
due uomini doveva essere un infiltrato.
O
magari
uno dei buttafuori- o il tizio che, davanti alla porta dei bagni,
faceva finta
di non vendere roba?
E
poi,
eccolo lì, il loro cucciolo.
Diede
una gomitata a Ryo ed indicò una ragazza, che sedeva sulle
ginocchia di quello
che sembrava un pomposo texano uscito direttamente dai Simpson;
vecchio,
grasso, col sigaro in bocca, il boccale di birra sul tavolino, le mani
lunghe e
una vistosa arma sotto alla giacca – talmente vistosa che lo
sweeper era certo
nemmeno lui sapesse maneggiarla, se non per mettersi in mostra.
Una
Colt
Anaconda con una canna da otto pollici- proprio come quella che aveva
suo padre
l’ultima volta che si erano scontrati, su quella nave, quando
la sua vita aveva
finalmente preso una svolta decisiva quando le sue labbra e quelle di
Kaori si
erano sfiorate attraverso un vetro.
Quella
era
una signore pistola, mica quella
cosetta che Ryo teneva nascosta sotto alla giacca.
Ryo
alzò un
sopracciglio, interessato. Se avesse giocato bene le sue carte, sarebbe
riuscito a fregargliela senza nemmeno che il grasso gradasso se ne
accorgesse, ed
intanto gli avrebbe pure portato via quella puledrina spaventata che
scalpitava
dal bisogno di confidare le sue paure a qualcuno.
Afferrando
la bottiglia di birra che aveva ordinato al bancone, Ryo fece
l’occhiolino a
Jane, che scrollò il capo divertito, attendendo di vedere
cosa Saeba avrebbe
combinato; lo sweeper si mosse, camminando incerto, quasi fosse
già brillo,
verso il divanetto dove il tizio stava strusciando il suo inguine
molliccio
contro il corpo della bella giovane, agghindata come Jessica Rabbit in
versione
porno, e poi, una volta raggiunto, gli rovesciò addosso la
bottiglia. Il
vecchio saltò in piedi, furibondo, e Ryo, parlando
strascicato, lo avvicinò,
braccio intorno alle spalle.
“Dai,
amico, non te la prendere, siamo qui per divertirci!”
“Brutto
idiota, questo me lo ha fatto un sarto a mano, hai idea di quanto
costi? “
Sibilò a denti stretti. “Ma io ti rovino,
sai?!”
L’uomo
fece
per placcare Ryo, ma lo sweeper fu più rapido; sotto lo
sguardo divertito di
Jane, che succhiava da una cannuccia un drink, quando l’uomo
si avventò su di
lui, evitò agilmente il colpo, muovendosi con le movenze di
un felino. Il
vecchio fece per attaccarlo, inferocito per il modo in cui il giovane
lo
guardava, strafottente ed impertinente, ma il nipponico fu
più lesto, e con un
paio di ganci ben assettati mandò il vecchio al tappeto. La
security lo raccattò
da terra per accompagnarlo fuori, ma prima che arrivasse
all’uscita Ryo gli si
avvicinò, dandogli una pacca sulla spalla, e facendo finta
di nulla ne
approfittò per fregargli la Colt: gli sarebbe potuta tornare
utile, e comunque,
meno tipi del genere giravano armati, meglio era. Solo allora
tornò dalla
ragazza, che stava ancora tremando. Era giovane, e Ryo provò
una tenerezza
incredibile nei suoi confronti, non poté fare a meno di
ripensare a quando lui
e Kaori si erano rincontrati e lei era entrata di prepotenza nel suo
mondo –
non doveva avere più di una ventina d’anni.
“Tutto
bene, ragazzina?” le domandò, dolce e tranquillo,
posandole una mano sulla
spalla. “Vuoi un po’ d’acqua? Qualcosa di
forte?”
Lei
fece
segno di no col capo basso, ma era chiaro quanto quell’uomo
l’avesse
spaventata; tremava come una foglia smossa dal vento.
Aveva
avuto
paura, e non certo solo per quel viscido… Jane aveva visto
giusto. Quella
ragazza conosceva la loro vittima, o perlomeno aveva saputo cosa era
accaduto a
Simmons, e la cosa l’aveva sconvolta.
“Sei
un’amica di Amy, vero?” le domandò,
versandole dell’acqua in un bicchiere
direttamente da una bottiglia chiusa, la voce calma e pacata. La
giovane
spalancò gli occhi, ed il tremolio aumentò; si
fece piccola, schiacciando il
suo intero corpo contro il lato del divanetto opposto a quello occupato
dallo
sweeper, che guardava con terrore.
“Sei…
sei
uno sbirro?” domandò, con voce rotta, tremante.
“Sono
uno
che vuole capire cosa è successo davvero.” Le
disse, senza muoversi dal posto,
ma cercando il suo sguardo, nel tentativo di tranquillizzarla.
“La conoscevi,
vero?”
Fece
segno
di sì, rifuggendo gli occhi profondi dell’uomo,
che era stato, nel frattempo,
raggiunto da Jane.
“Era
strana,” disse. “Già da un
po’. Ma quella sera… lo era più del
solito. Quando è
arrivato quel tipo, non era felice come il solito, sembrava quasi
triste, non
come le altre volte, faceva sempre i salti di gioia quando lui
arrivava. Come
tutte, del resto.” Fece un sorrisetto, scrollando le spalle,
mentre Ryo alzò un
sopracciglio, con sguardo interrogativo. Il
tipo… di chi parlavano? Forse…
possibile che fosse Chris? Quindi, che
stesse mentendo? Ma perché? Chi o cosa voleva
coprire… delle scappatelle, un
caso a cui lavorava, una delle ragazze…
“Il
tipo?”
Jane domandò, intromettendosi nella discussione, precedendo
Ryo. “Intendi dire
forse l’uomo che è stato fermato per il suo
omicidio?”
“Sì,”
rispose, stringendosi nelle braccia, muovendo il capo in segno di
consenso.
“Lui ogni tanto veniva qui, ma non era come gli altri.
Sembrava una brava
persona. Lui voleva solo parlare. Ed ascoltarci. Non riesco a credere
che sia
stato lui a farle una cosa del genere… le voleva bene, le
diceva sempre che era
come la sua sorellina!”
“Chi
credi
che possa essere strato, allora? C’era qualcuno che ce
l’aveva con lei?” le
domandò il mentalista, schioccandole le dita davanti allo
sguardo perplesso
della giovane; la sua voce si abbassò di un ottava,
acquistando una qualità ed
una cadenza quasi ipnotiche, che destarono un innaturale senso di pace
e
sicurezza nella ragazza. “Qualcosa ti è appena
venuto in mente, qualcosa che
non credi importante ma che potrebbe esserlo. Andiamo, lasciati andare
e dicci
tutto, su, con noi puoi confidarti!”
“Cosa
diavolo volete?” Una profonda voce maschile sibilò
alle loro spalle. Gli uomini
si voltarono, trovandosi davanti un tipo sui cinquant’anni,
pochi capelli,
tarchiato, con profonde occhiaie. Sembrava distrutto, come se fosse in
lutto,
eppure percorso nel suo intero essere da una profonda rabbia.
“Perché fate
domande sulla mia Amy?”
“Ah,
il
magnaccia della fanciulla!” Jane esordì,
schioccando la lingua contro il
palato. Subito l’uomo lo afferrò per il colletto
della camicia, sollevandolo in
aria con rabbia.
“Amy
non
aveva un magnaccia! Lei non era una puttana!”
sibilò in faccia a Jane. “Lei era
la mia donna! La amavo! Tutti la amavano, e quel bastardo me
l’ha portata via!”
“Sì,
e
magari eri pure geloso…” Ryo lo
sbeffeggiò, posandogli una mano sulla spalla
per fargli abbassare Jane. L’uomo eseguì, ed il
mentalista rimise a posto delle
immaginarie pieghe sul suo consunto gilet. “La ragazzina dice
che Barton le
girava intorno, qua al locale. A proposito, mi gioco la faccia che la
signorina
qui presente non è ventunenne…”
“Ma
non
scherziamo!” L’uomo non rispose, ma
voltò il capo altrove. “Quel tipo era
inoffensivo, anzi, adesso era parecchio che non veniva più.
Volete sapere cosa
ne penso? Qualcuno l’ha voluto incastrare. Avrà
pestato i piedi a qualcuno e
per fargliela pagare hanno messo in mezzo la mia dolce Amy!”
I
due
“investigatori” si guardarono, perplessi; sapevano
che poteva essere così-
anzi, la possibilità era più che concreta
– eppure Chris continuava
a negarlo, nonostante anche chi avrebbe
dovuto crederlo colpevole lo spalleggiasse, in una situazione che si
ritrovava
ad essere quasi paradossale.
Peccato
che
oltre a proclamare la sua innocenza e di non sapesse se qualcuno ce la
potesse
avere con lui Chris avesse anche detto fino alla nausea di non
conoscere la
vittima, e di non aver frequentato mai quel locale… due
bugie, che una volta
scoperte dai federali lo avrebbero messo in un mare di guai,
compromettendo la
sua credibilità.
“Quando
l’ha vista per l’ultima volta?” Jane
domandò, ormai abituato a fare certe
domande dopo quasi vent’anni di servizio nelle forze
dell’ordine.
“Quel
pomeriggio,” rispose il titolare
dell’establishment. “Sapete, mi sembra ancora
strano sapere che non c’è più.
Stamattina mi sono affacciato alla finestra di
casa mia e non capivo perché non tornasse dal bar con le
brioches ed il
cappuccino.”
Gli
uomini
si guardarono, condividendo uno sguardo di intesa; erano certi che
l’uomo non
stesse mentendo. Sembrava affranto, in lutto. Anche se entrambi erano
pienamente consapevoli che avevano visto uomini migliori fare
cose ben peggiori.
“Le ragazze al club dicono che era
preoccupata e nervosa.” Quella di Jane non era una domanda,
ma un’affermazione,
che aveva già capito essere vera. “Era successo
qualcosa ultimamente?”
“Ditemelo voi.” Perese il
telefono,
e fece scorrere le foto, fino a che non trovò quella che
voleva, e mostrò lo
schermo ai due uomini; lui, con una
ragazza in costume da bagno, su una barca. “Questa era lei
fino a un paio di mesi
fa. Poi all’improvviso ha sentito il bisogno di rifarsi tutta
e cambiare del
tutto stile.”
Guardarono attentamente la foto.
Senza le lenti a contatto colorate, i capelli castani, naturali,
lunghi, lo
sguardo sbarazzino, sembrava un’altra persona, perfino
più giovane: una normale
ragazzina, come tante.
“A Amy non piaceva parlare dei
problemi e del passato, quando eravamo insieme, lasciavamo fuori tutto
e tutti,
so solo che era cambiata ultimamente, da qualche mese a questa parte.
Intendo fisicamente. All’inizio
pensavo che
fosse colpa di Barton, ma poi ho capito che lui aveva preso Amy per una
terapista, e ho scoperto che si era fatta una nuova amica. Alle ragazze
diceva
che questa la voleva far entrare in giri più importanti,
politici, sportivi,
non le mezze calzette che frequentano il mio locale.” Fece
una pausa,
passandosi una mano sul cranio, quasi del tutto pelato, mentre Jane e
Ryo si
scambiarono uno sguardo d’intesa.
Una traccia: lieve, ma era meglio di
nulla.
“Qualche idea su chi sia la
misteriosa samaritana?” Ryo domandò, mani in tasca
dei jeans, ma l’ex compagno
di Amy scosse il capo.
“Qui non si è mai vista, e
Amy ne
parlava il minimo indispensabile.” Sospirò,
mordendosi le labbra, tese in una
solida linea orizzontale. “Fidatevi, se volete un colpevole,
guardate in quella
direzione e non rimarrete delusi.”
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Capitolo 5 *** La morte avrà i tuoi occhi ***
Mentre
stava per entrare nella saletta riservata alle conversazioni
normalmente tenute
tra avvocati e clienti, il cellullare di Ryo squillò; prima
di consegnarlo alla
guardia, lo sweeper si allontanò e rispose, anche
perché vide da chi proveniva
la chiamata: Daniels.
“Il
suo
amico è nei guai,” gli disse lei, secca, senza
tanti giri di parole. “Abbiamo
scoperto che suo cognato era un cliente abituale del Sapphire e che non
era la
prima volta che se la faceva con una spogliarellista che arrotondava
andando a
letto coi clienti. Abbiamo pure alcune belle foto prese dalle
telecamere di
sorveglianza…”
“Di
lui a
letto con quelle sciacquette?” le domandò, schiena
appoggiata contro il muro,
sopracciglio alzato. “Ne dubito. E comunque, Kay cara, non
pensi dovremmo
passare a darci del tu? Dopotutto mi sembra di capire che siamo dalla
stessa
parte!” Quasi lei potesse vederlo, Ryo, sbruffone, fece
l’occhiolino,
ridacchiando, divertito dal modo in cui stava mettendo in
difficoltà la giovane
guardia di sicurezza.
“Beh,
intanto abbiamo foto di lui insieme a delle graziose signorine della
notte, tra
le quali la vittima, e
copia di
transazioni con un’agenzia di escort, pagate con una carta di
credito ricaricabile,
collegata ad un conto intestato solo a lui presso una banca diversa da
quella
dove ha il conto con la mogliettina, e, indovina? L’estratto
conto arrivava ad
una casella postale. Se passate di qui vi faccio vedere
tutto.” La donna
sospirò; in sottofondo, si sentiva il rumore di fogli di
carta girati- Daniels
doveva essere vecchia scuola, come lui e Jane, che si affidavano alla
tecnologia solo in casi straordinari.
“Le
sta
scopando?” Ryo le domandò senza troppi giri di
parole; la guardia, un ragazzo
piuttosto giovane, probabilmente al suo primo incarico,
arrossì a sentirlo
parlare in quel modo. “Perché se ci sta solo
parlando non vuole dire nulla. Sai
quanti tizi prendono baristi e lucciole per terapisti, io ero
già uno di
quelli! Praticamente tutte le signorine della notte di Shinjuku
sapevano che
avevo il cuore che sanguinava per la mia bella!”
Fece
l’occhiolino alla guardia: sempre più rosso, gli
ricordava tanto il caro
Umibozu con quella disarmante innocenza.
“Ufficiosamente
tu e Jane fate parte del collegio difensivo di tuo cognato, quindi se
qualcuno
lo chiede io sono obbligata a
fornirvi questo materiale repertato.” La donna,
dall’altra parte della linea,
sospirò. “Quello che so è che non
sembrano fotomontaggi.”
“Voglio
comunque farli vedere a Jane ed al suo amico informatico, non si sa
mai,” Ryo
sospirò. Con la mano andò alla tasca dei jeans,
dove teneva il pacchetto di
sigarette; sapeva di non poter fumare lì, ma ne aveva
voglia, e quel semplice
gesto, quello sfioramento dei polpastrelli sulla cicca, era abbastanza
per
tranquillizzarlo un po’. “E comunque, ben fossero
vere non significa nulla.
Anche io nella mia città parlo con un mucchio di rifiuti e
con ragazze di
strada, ma non significa che me la faccio con loro o che mi scopo tutte
le
femmine sopra i vent’anni.”
Tra
di
loro, cadde il silenzio. Fu
Daniels,
dopo molto, troppo tempo, a prendere la parola, la voce bassa e grave.
“Ryo,
non ho ancora capito esattamente cosa fai per vivere, e non mi
interessa
nemmeno: Jane mi dice di fidarmi, e per me tanto basta, ma lascia che
ti dica
una cosa. Tutti abbiamo segreti e lati oscuri che celiamo a tutti gli
altri,
anche le persone che amiamo di più, e tu questo tipo lo
conosci solo da pochi
giorni… davvero vuoi fidarti di lui?”
“Oh,
ma io
non mi fido di lui,” Ryo ammise. “Ma mi fido di
Sayuri. Quella donna non è una
stupida svampita che si lascia incantare dal primo venuto tanto
facilmente,
credimi.”
“Beh,
allora qualcuno sapeva che lui frequentava quelle ragazze, e lo ha
incastrato
per bene, ma ti avverto: io inizio ad avere le mani legate. Le prove
contro di
lui sono schiaccianti, e il procuratore distrettuale preme
perché venga
spiccato un mandato d’arresto e si vada a giudizio immediato.
Qui non parliamo
solo più di un fermo!”
Senza
aggiungere altro, Ryo riattaccò, lasciando poi il telefono
nella vaschetta
bianca che la timida guardia gli
porse.
“Ehi, ragazzino, guarda che se sei così timido qua
non farai vita lunga, sai?”
gli disse scherzando, facendogli l’occhiolino, le mani nelle
tasche dei jeans;
poi, entrò nella sala colloqui.
Chris
era
già seduto ad aspettarlo, ammanettato al tavolo, viso chino.
“Tutto
bene, vecchio mio?” Ryo gli domandò, retorico,
lasciandosi cadere sulla sedia
davanti all’uomo; Chris sembrava uno straccio; aveva anche un
occhio nero, ed
uno sguardo veloce alle mani rivelò nocche escoriate e
leggermente
insanguinate. C’era stata una rissa, ma era chiaro chi avesse
avuto la meglio:
lui.
Chris
non
rispose; strinse i denti, determinato, sbattendo i pugni chiusi sul
tavolo di
formica, senza guardare il “cognato”; Ryo
sollevò una mano, fece per sfiorarlo,
stringergli la mano per rassicurarlo o anche solo impedirgli di
continuare in
quella pantomima che gli avrebbe causato solo guai e catturato
l’attenzione
delle guardie, ma poi, ricordando le severe regole delle prigioni
americane,
desistette. “Chris, ascoltami bene, ti tirerò
fuori da qui, va bene? Questa non
è la fine, ma solo un intoppo. Sarai di ritorno da Sayuri
prima che tu te ne
renda conto.” Gli sussurrò.
Era
vero:
non si sarebbe fermato fino a che Chris non fosse stato fuori, in un
modo o
nell’altro. Contrariamente a quanto diceva Daniels, era certo
dell’innocenza
del compagno di Sayuri, che ci fosse qualcosa sotto.
“Come
sta?”
Chris domandò; non aggiunse altro, sapendo che Ryo avrebbe
compreso di chi
stette parlando.
Gli
uomini
innamorati erano così: con un solo pensiero nella mente, le
donne del loro
cuore.
“Sayuri
è
una donna forte, ed ha Kaori con sé adesso,” le
rispose. “Potrà essere provata,
ma sa che supererete anche questa.”
“E
tu,
invece?” Chris gli domandò, mordendosi il labbro,
buttando fuori tutta l’aria
che aveva. Non condivideva la fiducia della campagna, sempre che Ryo
non gli
stesse mentendo. “Tu cosa credi?”
Ryo
lo
studiò attentamente. Gambe distese sotto al tavolo, caviglie
incrociate, posò i
gomiti mollemente sui braccioli di quella scomoda seduta di metallo.
“Che
tu sia
solo un bersaglio di comodo e che ci sia sotto qualcosa di molto grosso
l’ho
capito pure io,” Ryo gli disse, cercando di studiare i suoi
occhi per leggervi
dentro una traccia di menzogna. “Ma la vera domanda
è: che rapporti avevi con
quella donna, e perché hai mentito?”
“Ragazzina, Ryo, quella era solo una
ragazzina.” Sibilò a denti stretti, guardando il
“cognato” negli occhi. “Senti,
va bene, la conoscevo, okay? E non era la prima volta che andavo in
quel locale...
e non sono certo fiero di averlo nascosto a Sayuri, ma lei, lei non
avrebbe mai
capito. I miei amici sapevano che ogni tanto ci facevo un salto, loro
credevano
cosa volevano credere, e
mi ci hanno
trascinato per un ultimo hurrà. Ma non ci sono mai andato
insieme, va bene? Non
ho mai tradito Sayuri, né con quella ragazzina né
con le altre. Non era per
quello che andavo lì.”
Silenzio.
Poi,
Ryo
parlò. Una sola parola, ma chiara, e l’altro
comprese, capì che il cognato lo
stava mettendo alla prova: se avesse mentito, il suo fiuto lo avrebbe
avvertito.
“Perché?”
“Non
vengo
da una famiglia benestante, Ryo. Anzi, tutt’altro. Avevo una
sorella minore… è
scappata di casa a diciassette anni, si è messa a spogliarsi
nei locali di Las
Vegas a diciotto, è rimasta incinta a ventuno. Non batteva,
ma il suo ragazzo
aveva provato a convincerla a farlo e lei lo aveva mollato, si
è rifatta una
vita. La ragazza successiva non è stata così
fortunata, ed invece di un diploma
si è trovata con una coltellata nello stomaco.”
Spiegò, torturandosi le dita.
“Mia sorella mi ha dato l’ispirazione. Avevo deciso
di scrivere un articolo,
cercare di capire queste ragazze. Perché lo fanno,
perché alcune, oltre a spogliarsi,
accettano di battere. Ma alla fine è diventata una cosa
reciproca. Io ascoltavo
loro… e loro ascoltavano me.”
La
guerra.
Quel fantasma che perseguitava entrambi.
“E
Amy era
una delle ragazze da cui andavi a confessarti…”
Chris strinse le labbra in una
perfetta linea retta, ed annuì. “Pensi di aver
fatto arrabbiare qualcuno?
Potresti aver pestato i piedi a qualche pappone, a qualche madama, e
magari
manco te ne sei accorto.”
“No,
no,
assolutamente no!” Chris rispose, certo delle proprie
ragioni. “Il mio servizio
era solo sulle ragazze, non andavo a scavare sui traffici,
né avevo chiesto
nulla ai protettori, giuro!”
“Uhm,”
Ryo
si batté l’indice sul mento, pensieroso.
“E la ragazza, la conoscevi bene?”
“Amy?
Sì,
ci avevo parlato, insieme, e pure parecchie volte. Lei era la ragazza
tipo che
fa quel lavoro e finisce in strada, checché il suo pappone
dica: figlia di una
ragazza madre adolescente, mamma si mette con un poco di buono
benestante che
le mantiene tutte e due e garantisce un ottimo tenore di vita, peccato
che lui
allunghi le mani appena Amy diventa adolescente. Mammina scopre la
tresca e
invece di prendersela col maritino caccia la figlia di casa, che
finisce sulla
strada, perché pensa di essere sporca, si sente colpevole,
un rifiuto…” Chris
si lasciò cadere con la schiena contro la sedia, e
sospirò. “La verità è che
quelle ragazze ascoltano, e non giudicano, ed Amy era davvero brava,
come
spalla su cui piangere, ma dopo che Sayuri mi ha detto di essere
incinta ho
smesso di andarci. Erano mesi che non la vedevo, quando al Sapphire mi
ha
salutato ci ho messo un po’ a riconoscerla, si era rifatta,
non sembrava
neppure più lei. Forse è per questo che quando mi
hanno raccattato al parco ero
così confuso, non sembrava nemmeno lei... in testa avevo
solo un gran caos.”
“Hai
idea
del perché siete andati lì quella
sera?” Ryo domandò, continuando
l’interrogatorio, e Chris ripeté la stessa cosa
per l’ennesima volta… in quanti
gli avevano già posto la stessa domanda?
“Al
parco
no, ma al Sapphire mi ci hanno portato i miei colleghi…
Mark, anche lui
frequentava quel posto, era stato lui a presentarmi Amy. Lui sapeva che
ci
andavo per lavoro,
ma pensava che fosse
solo una scusa per, sai, provarci con le ragazze. Appena te ne sei
andato mi
hanno chiesto di fare una capatina al locale, in nome dei bei vecchi
tempi.”
Ryo sollevò un sopracciglio, interessato, quando
capì che era stata proprio la
sua assenza a spingere gli uomini a fare quell’ardita
richiesta a Chris.
“Temevano che avresti fatto la spia con Sayuri dato che stai
con la sorella.
Siamo arrivati lì, Amy mi ha visto, anche se io subito non
l’ho riconosciuta e
sono rimasto stupito, poi abbiamo chiacchierato, preso un
drink… e poi il buio
totale.”
“E
mentre
parlavate, ti ha detto niente di un’amica?” Ryo
domandò, ricordando quel
particolare che lo aveva colpito, la donna che secondo le colleghe di
Amy era
stata la causa del suo cambiamento di stile.
“Mi
ha
parlato di un’amica
molto speciale, che
insieme avrebbero cambiato vita…” Chris
scosse leggermente il capo, cercando di ricordare il più
possibile, ma la sua
memoria, seppure fosse parzialmente tornata, si fermava a quando aveva
bevuto
con la giovane ragazza. “Pensavo parlasse di qualche
volontaria che la volesse
tirare fuori, che fosse riuscita dove io avevo fallito. Mi aveva pure
fatto
piacere. Mi ero ripromesso di chiederle di contattarmi,
perché volevo sapere
come sarebbe andata a finire… ma evidentemente mi sbagliavo.
Forse era una
madama che la voleva nella sua scuderia,
chissà…”
“Quindi,
tu
saresti solo un capro espiatorio, e sarebbe lei quella che potrebbe
aver
pestato i piedi a qualcuno… al suo pappone, o alla donna che
la voleva…” Ryo si
massaggiò il mento, pensieroso.
Qualcosa
continuava a non quadrare in quella storia assurda: perché
prendersela con lui,
se davvero Chris non aveva fatto nulla?
“Ryo,
lo so
che non mi conosci, ma io Sayuri non la tradirei mai.” Si
difese l’uomo, mal
interpretando il silenzio di Saeba, che nel frattempo si era alzato,
salutando
il cognato con un rapido gesto della mano. “Dopo la guerra,
quando il mio
matrimonio è andato a farsi fottere,
non
pensavo che avrei trovato qualcuno che avrebbe potuto… guarire il mio animo, darmi pace. Ma lei
lo ha fatto... non vado
nemmeno più in terapia perché gli attacchi di
panico ormai li so gestire e sono
rarissimi! Con quelle donne avevo iniziato a parlarci per lavoro, poi
mi sono
lasciato prendere la mano, e quando avevo bisogno di sfogarmi, loro
erano lì.
Non potevo dire a Sayuri che ero terrorizzato dall’idea di
essere padre, che il
PSTD tornasse…c’è stata
al massimo
qualche confidenza, degli sfoghi, ma ti giuro che non ci andavo a letto!”
Ryo
si
fermò davanti alla porta prima di bussare per farsi aprire
dal timido
secondino, e fece un sorriso mascalzone a Chris; sentì
ripetersi quell’ultima
frase nella testa ancora e ancora e ancora, terribilmente familiare:
gli
ricordava sé stesso, gli ultimi tempi, prima del matrimonio
di Umi e Miki,
quando ormai era chiaro a tutti che chi regnava sul suo cuore era Kaori. Mick era stato il suo
primo confidente, ma
anche alcune ragazze che lo conoscevano bene avevano saputo dei suoi
dubbi, del
tumulto del suo cuore, i reietti di cui lui solo si fidava, anime nere
come
lui.
“Allora,
amico mio, mi sa che siamo più simili di quello che
credevamo!”
“Tua
sorella?” Jane domandò a Kaori appena lei gli
aprì la porta, ma la giovane
scosse il capo, il viso basso, mogio, e Jane comprese: Sayuri non era
in casa.
Kaori
non
lo aveva detto, ma era facile immaginare che Chris o il suo avvocato le
avessero parlato di cosa era successo, o che le stesse forze
dell’ordine
l’avessero interrogata al riguardo; sapere che
l’uomo che si stava per sposare,
l’uomo da cui si aspettava un bambino, frequentava delle
escort non faceva
piacere a nessuno.
La
coppia
di sweeper non disse nulla, ma era proprio così; desiderosa
di allontanarsi dal
talamo nuziale, la giornalista era andata da un’amica,
volendo solo stare
lontano da tutto e da tutti, non voleva nulla intorno che le potesse
ricordare
quello che lei stava vivendo a tutti gli effetti come un tradimento.
Kaori
aveva deciso di darle il suo spazio, comprendendo come potesse farle
male
sapere che il suo compagno le avesse tenuto nascosti quegli incontri
clandestini. Certo, lui aveva assicurato che non era mai successo
nulla, che non
l’aveva tradita, ma aveva anche detto di non conoscere quella
giovane donna,
mentre adesso la verità che raccontava era
un’altra.
Le
due
sorelle non sapevano più a cosa credere.
Ryo,
Kaori
e Jane avevano quindi la casa tutta per sé; si sedettero
intorno al tavolo
rotondo della sala, dove facevano bella mostra di sé
già patatine e birre, ma
soprattutto le cartelline con gli appunti sul caso. Avevano intenzione
di
controllare fotografie, gli appunti di Chris sul suo computer,
qualsiasi cosa
potesse aiutarli, ma non sembravano giungere a nulla. Avevano anche
spulciato
l’articolo sulle lucciole che stava scrivendo, ma nulla. Non
c’erano
fotografie, non c’erano veri nomi, non faceva riferimento a
locali o papponi…
solo dati, e curiosità, poco più di un articolo
di rotocalco, niente per cui
sarebbe valsa la pena uccidere qualcuno, o incastrare qualcun altro.
Sembrava
che l’uomo avesse ragione: almeno, su quello era
stato onesto fin dal principio.
“L’amica
di
Amy, sappiamo chi potrebbe essere?” Kaori domandò,
ricontrollando quello che
Jane aveva trascritto dell’incontro con la ragazza che
lavorava al Sapphire e
ciò che il “pappone” ed amante di Amy
aveva detto loro successivamente. “Chris
pensava potesse essere tipo una buona samaritana che voleva farla
uscire dal
giro, ma se invece fosse stata, non so, una protettrice? Magari voleva
portare
nella sua scuderia Amy, era una tale bella ragazza!”
“Sì,
ma non
spiegherebbe perché abbiano voluto incastrare Chris, tuo
cognato ha la fedina
più pulita di quella di un neonato, dannazione!”
Ryo sbuffò, ciondolandosi
sulla sedia e guardando il soffitto. “Porca Miseria,
dovrò pure chiedere a Mick
di chiamare i suoi amici della CIA per guardare se Chris ha qualche
scheletro
nell’armadio… Mi spenna vivo appena torniamo a
casa, quella sanguisuga, con
tutti i favori che gli devo!”
Il
telefono
di Jane squillò; pigramente, l’uomo
afferrò il vecchissimo modello, a
conchiglia, e rispose. Disse poco o nulla, giusto qualche
sì, un paio di no, un
va bene, e chiuse la telefonata senza dire arrivederci o grazie.
“Posso?”
Senza aspettare risposta da Kaori, Jane afferrò il portatile
su cui la ragazza
stava lavorando, e digitando con due sole dita, gli indici, lentamente,
mordendosi il labbro come per concentrarsi meglio, andò al
suo account di posta
elettronica, e non appena aprì la mail mandatagli,
alzò un sopracciglio,
sorridendo soddisfatto: il ragazzo era davvero in gamba, era un piccolo
genio
dei computer, e non capiva perché, soprattutto dopo la morte
sul campo della
“fidanzatina” di alcuni anni prima, lui ancora
premesse per divenire un agente
effettivo.
“A
proposito della nostra misteriosa bionda… Wylie ha
gentilmente hackerato un
paio di telecamere di sorveglianza di luoghi vicini a dove Simmons
aveva fatto
acquisti o prelievi di denaro nelle ultime settimane, e ha trovato un
paio di
fotogrammi interessanti…”
Fece
scorrere l’anteprima delle immagini inviategli; fotogrammi
spesso di scarsa
qualità, venivano da circuiti di sicurezza di negozi e
bancomat, ma in tutte
era chiara la presenza della vittima insieme ad una donna poco
più grande di
lei; in mezzo a tante immagini sgranate, però, ce
n’era una che rendeva
perfettamente la fisicità della donna misteriosa. Occhi
azzurri, taglienti, ed
un sorriso vivace, ma un po’ malizioso, con un qualcosa di
minaccioso, quasi
stesse tramando qualcosa.
Ryo
avvicinò la mano allo schermo, incupito, e quasi lo
sfiorò: c’era qualcosa di
terribilmente familiare in quell’immagine, ma non riusciva a
capire cosa
potesse essere, eppure gli sembrava di averlo sulla punta della lingua.
“Certo
che l’amichetto
di Amy aveva proprio ragione…” convenne Kaori,
mani giunte sotto al mento. “Lo stesso
colore di capelli, lo stesso taglio, Amy aveva pure messo le
lenti… anche i
vestiti, sono diversi ma è chiaro che lo stile è
simile. Sembra quasi di vedere
uno specchio magico, di quelli del Luna park, con un’immagine
leggermente
deformata.”
Gli
occhi. Ryo
ingoiò a vuoto, fissandosi
sull’ultimo fotogramma, l’immagine quasi
perfettamente nitida della donna
misteriosa, un primo piano. La mente vagò pressappoco al
tempo in cui lui e
Mick si erano incontrati, a quando, rimasto solo, aveva accettato di
lavorare
con l’amico. Era stato allora che aveva visto per
l’ultima volta quegli occhi –
occhi che un tempo aveva conosciuto molto bene.
Due
persone
avevano condiviso quelle iridi azzurre, un uomo e sua figlia.
Un
mentore,
un partner, un amico, e quella ragazzina che lo guardava come se Ryo
fosse il
centro del suo mondo, il suo adorato fratello maggiore, anche se non
era il
sangue ad unirli.
Kenny
Field,
il suo primo partner negli Stati Uniti, e sua figlia, Sonia, che
all’epoca era
stata solo una bambina.
Il
collo
della bottiglia che aveva in mano si frantumò, schegge di
vetro miste a liquido
ambrato che gli entravano nella carne, e Kaori subito fu lì
a prendersi cura di
lui, come aveva fatto dal primo giorno in cui era divenuta sua socia,
pulendo
il sangue che gli colava dalla mano con un fazzoletto che gli avvolse
intorno
al palmo lacerato. Eppure, Ryo non si accorse di nulla: era come se
fosse
insensibile a quello che gli accadeva intorno, tranne che a
quell’immagine,
quello sguardo, quegli occhi… per questo aveva avuto, fin
dal principio, quella
vaga sensazione: come se Amy gli avesse ricordato qualcuno: fin da
bambina,
Sonia aveva avuto i capelli con quel taglio, quel colore, e
quell’esatta
gradazione di azzurro, glaciale, nelle iridi. Passati così
tanti anni, Ryo non
aveva fatto subito il collegamento. Ma adesso capiva. Tutto aveva senso.
Aveva
avuto
ragione. Fin dal principio.
Chris
non
era mai stato il vero bersaglio: era stato sempre e solo una pedina, un
piccolo
ingranaggio di un gioco molto più grande di tutti loro messi
insieme, quello della
vendetta.
Sonia
lo
sapeva. Quella bambina che lo aveva amato come un fratello adessso era diventata una donna, ed
aveva infine scoperto la terribile verità, che lui le aveva
mentito.
Ryo
strinse
gli occhi, senza nemmeno sentire il dolore, e ripensò a lei,
alla piccola
Sonia. Era poco
più di una bambina
l’ultima volta che l’aveva vista, quando
l’aveva lasciata in un orfanotrofio
dopo che il padre era morto, affidandogliela, e Ryo le aveva raccontato
di un
terribile incidente d’auto, quando in realtà la
verità era ben altra.
Kenny
aveva
estratto la pistola per primo, e Ryo si era solo difeso; tra i due
sweeper, era
stato il più giovane ad avere la meglio, ma Ryo aveva
comunque vissuto con il
rammarico per quel dramma per anni, e a volte il ricordo ancora faceva
capolino
nei suoi pensieri, facendolo sprofondare nel senso di colpa.
E
adesso…
adesso, la figlia di Kenny era tornata, per pareggiare i conti.
Tetro,
terrorizzato come mai prima di allora, Ryo alzò lo sguardo
verso Kaori: ancora
una volta, lei era in pericolo a causa sua. Lui aveva ucciso il padre
di Sonia,
la donna di certo avrebbe cercato di colpire coloro a cui lui
più teneva per
farlo soffrire e distruggerlo. Gli ritornò in mente una
frase che gli aveva
detto una volta Jane; non ricordava le parole esatte, ma il concetto
era
chiaro: se vuoi distruggere un uomo non lo uccidi, colpisci chi gli
è caro.
Sonia
aveva
colpito Chris per arrivare a lui e Kaori.
Jane
rimase
composto al suo posto, si limitò a squadrare
l’amico, concentrato. “Cosa ti è
venuto in mente, Ryo?” si limitò a domandargli.
“Non mentirmi, l’hai
riconosciuta, me ne sono accorto. Di chi si tratta, di una ex? O una a
cui tu
hai pestato i piedi?”
“I
suoi occhi.
Ho riconosciuto i suoi occhi. Sono gli stessi di suo padre. Gli stessi
che
aveva da piccola. Anche se… se allora non erano
così freddi.” Rispose, guardando
meglio l’immagine, il cuore in gola, mentre Kaori lo fissava,
rimasta a bocca
aperta e senza fiato. “So chi ha ucciso Amy, e
perché ha voluto incastrare
Chris.”
Qualunque
fosse stato il gioco di Sonia, era chiaro che il suo intento era
fargliela pagare,
e quale modo più poetico che togliergli ciò che
di più caro aveva al mondo,
proprio come lui aveva fatto con lei? La sua famiglia, i suoi
affetti… loro
avrebbero pagato per lui.
Aveva
la
netta sensazione che quegli occhi, freddi come il ghiaccio e taglienti
come la
lama di un coltello, non lo avrebbero lasciato più, e lo
avrebbero perseguitato
per il resto dei suoi giorni, in qualunque modo fosse destinato a
finire il
loro scontro.
“Chi
è
questa donna per te, Ryo?” Jane gli domandò,
mentre Kaori iniziava a tremare,
per la preoccupazione… ma soprattutto per la pura. Non tanto
per la sua vita,
ma per l’identità di quella donna. Cosa
rappresentava per Ryo? Possibile che ci
fosse stata qualcuna così innamorata di lui da fare una cosa
del genere? O
c’era sotto qualcos’altro?
“Si
chiama
Sonia - Sonia Field.” Lo sweeper sussurrò,
guardando dritto avanti a sé. “E io
ho ucciso suo padre.”
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Capitolo 6 *** Passato, Presente ***
Il
vento soffiava, caldo, alzando la sabbia e l’erba secca,
ed anche l’odore
di petrolio grezzo, che
forte proveniva dal vicino oleodotto, bruciando i loro polmoni.
Mezzogiorno.
Come in un vecchio film western di altri tempi.
Col
cuore in gola, Ryo, vent’anni appena, guardò il
suo
mentore. “Andiamo Kenny… che diavolo significa
tutto questo?”
“Si
tratta semplicemente dell’orgoglio del professionista,
Ryo…” L’uomo, ormai sulla cinquantina,
l’occhio destro nascosto da una vistosa
cicatrice, sogghignò, la mano posata sulla pistola nella
fondina, facendo un
passo avanti verso il suo pupillo.
“Per
anni mi hanno considerato il migliore cacciatore di taglie sulla
piazza, ma sto
invecchiando, e non posso premettere ad un ragazzino di passarmi
avanti,
sarebbe un affronto intollerabile!”
Kenny
fece un altro passo verso Ryo, e un altro ed un altro
ancora; per ogni passo di lui, il giovane ne faceva uno indietro,
cercando
disperatamente nello sguardo dell’amico e mentore una
risposta, un motivo
valido a quella sfida.
“Non
ci posso credere che sia davvero per questo che vuoi
sfidarmi, Kenny!” Ryo sussurrò, cercando di
placare l’animo chiaramente
irrequieto e sconvolto del più anziano uomo. Le mani alzate,
si rifiutava di
prendere la sua fidata Magnum, compagna di tante battaglie fin
dall’adolescenza.
“Pensa a Sonia! Se tu morissi come farebbe senza di te?! Sei
l’unica persona
che ha al mondo!”
Kenny
gli sorrise, una luce quasi malvagia, pazza nello
sguardo. Ryo ingoiò a vuoto quando ricordò quella
stessa espressione, quel
ghigno… l’ultima volta che lo aveva visto, era
stato sul viso dell’uomo che a
lungo aveva chiamato padre, la sua unica famiglia, l’unica
persona che lui
avesse amato. Colui che gli aveva insegnato a non fidarsi mai, con quel
tradimento che anni prima lo aveva quasi portato alla morte.
“Non
sottovalutarmi, ragazzino…” Kenny
affermò, tranquillo,
facendo schioccare la lingua contro il palato. “Davvero credi
di riuscire a
vincere così facilmente?”
Ryo
si fermò, immobile. Controllando il respiro ed il
battito del suo cuore, squadrò ancora una volta il volto
dell’uomo, alla
ricerca di uno spiraglio, di una ragione.
Non
ne trovò alcuna.
Sapeva
cosa avrebbe dovuto fare: si trattava di
sopravvivere.
“SISTEMERÒ
LA TUA SUPERBIA, RAGAZZINO!” Kenny urlò con tutto
il fiato che aveva in gola. Scattante come un felino, la mano
andò alla
fondina, e veloce si mosse verso il giovane allievo ed amico, pistola
in pugno.
Due
colpi echeggiarono nel silenzio di quella vallata arida,
due uomini si scrutarono in volto, barcollanti.
Ryo
lasciò cadere la pistola a terra, mentre si teneva
saldamente il braccio destro, da cui cadeva un rivolo di sangue caldo. Quasi fosse un automa, gli
occhi spenti e
privi di luce, si mosse verso l’uomo con cui aveva passato
gli ultimi due anni
della sua vita.
Il
polmone perforato, Kenny cadde sulle ginocchia,
sorridendo, gli occhi colmi di lacrime, e subito Ryo fu al suo fianco,
riconoscendo nuovamente il sorriso irriverente del buon amico in quei
tratti di
nuovo rilassati.
“Mi
spiace Kenny, io…”
“È
andata bene così…” L’uomo
strinse nella sua la mano di
Ryo, e, occhi socchiusi, fece un lieve cenno col capo, ad indicare che
era
andata come doveva andare, e non
serbava
rancore verso il suo pupillo. “Ho ricevuto delle minacce da
parte di
un’organizzazione criminale… se non ti avessi
ucciso, avrebbero preso la mia
piccola Sonia.”
“Ma…
è assurdo….
Perché…” Il giovane strinse i pugni; il
senso di colpa per aver ferito mortalmente Kenny era reso ancora
più forte dalla
consapevolezza che quella morte sarebbe caduta, in ogni modo, su di
lui.
“Non
potevo costringere Sonia ad una vita in fuga, e
quest’organizzazione…” Kenny strinse i
denti, la voce si faceva sempre più
flebile, il respiro corto ed affannato. “…sono
troppo potenti. Non mi restava
che sfidarti… e morire. Adesso che… che non sono
riuscito ad eseguire i loro
ordini… ma almeno… mia figlia non
correrà più nessun rischio!”
“Kenny….
No! Non dire così… è
assurdo!” Ryo lo supplicò,
vedendo che le ultime energie stavano abbandonando l’amico.
“Ryo…
vattene. Fuggi finché sei in tempo. Trova qualcuno che
si occupi della mia Sonia…. E fa in modo che cresca lontano
dal nostro
ambiente. Non raccontarle che suo padre è morto
perché non sapeva proteggerla…
dille che è successo in un incidente
stradale…” Guardò Ryo negli occhi,
piangendo. “Promettimelo, Ryo.”
“Affidai
Sonia ad un orfanotrofio gestito da un gruppo di suore, e le feci avere
il
denaro necessario per iniziare una nuova vita una volta che fosse stata
maggiorenne, occupandomi di lei nell’ombra fino a che non
ebbe compiuto
diciotto anni.” Sigaretta in mano, Ryo espirò una
boccata di fumo, guardando il
cielo dal balcone della casa di Sayuri e Chris; Jane era in piedi di
fianco a
lui, Kaori invece, con una mano sul cuore e gli occhi bassi, era
appoggiata con
la schiena contro
la vetrata. Ormai
sera, le poche stelle visibili da New York erano nascoste da un cielo
plumbeo
che sembrava promettere tempesta.
“L’organizzazione
che voleva vederti morto…” la donna
pronunciò le parole con voce bassa,
strozzata, mentre sentiva premere nel profondo dell’animo le
stesse emozioni
che aveva provato quando lei e Ryo si stavano apprestando ad andare su
quella
nave ed affrontare la morte. “Si trattava… si
trattava dell’Union Teope?”
“Non
l’ho
mai saputo.” Ryo scrollò le spalle, con una
nonchalance che era lungi dal
provare veramente, ma ormai uso ad indossare una maschera quando si
trattava
del suo passato. Colpito nel profondo, non voleva che il suo turbamento
raggiungesse Kaori, causandole ulteriori sofferenze e patimenti.
“Non me ne
meraviglierei, ma effettivamente tra lo scontro con Kenny e
l’omicidio di tuo
fratello sono trascorsi più di dieci anni, veramente tanto
tempo…”
“Io
non ci
metterei la mano sul fuoco, Ryo… tuo padre erano anni che
non era più lucido, lo
sai anche tu. Potrebbe aver detto a Kenny di ucciderti
perché temeva che
tentassi di spodestarlo, o perché vedeva in te una debolezza
di cui disfarsi.”
Kaori gli disse, dolcemente ma con decisione, caparbietà,
avvicinandosi a lui,
posandogli una mano sul petto. Gli occhi di Ryo erano scuri, privi di
luce,
spenti, e lei ne soffrì, comprendendo come lui stesse
probabilmente ricordando
quando Kaibara aveva tentato un ultimo colpo da maestro, sul finire del
conflitto in Sud America, e ormai persa la fiducia di tutti i suoi
uomini tranne
che di una singola persona- il suo figlioccio- aveva somministrato a
Ryo, con
l’inganno, la polvere degli Angeli. “Che il padre
di Sonia ti abbia attaccato
su ordine della Union Teope o di qualcun altro, poco importa, tu ti sei
solo
difeso.”
Lo
sweeper
strinse la mano della donna nella sua, e se la portò alle
labbra, baciandola,
indugiando a lungo in quel contatto, respirando il profumo delicato di
lei,
dolce e famigliare, che lo rassicurò, rincuorandolo,
calmando il suo intero
essere.
“Dovresti
andartene, Kaori.” le disse dolcemente, la voce bassa, colma
di tristezza e
rimpianto e senso di colpa; ponendo la mano sulla guancia di Kaori, la
donna si
lasciò andare a quel tocco, baciando la pelle ruvida del
compagno, solcata
dalle cicatrici di tante, troppe battaglie. “Lasciarmi qui e
non voltarti più
indietro. Dimenticarti di me. Farti una vita con un
brav’uomo.”
“No,
Ryo. E
non solo perché attaccando la mia famiglia Sonia ha messo in
mezzo anche me.”
Lei, gli occhi colmi di lacrime, scosse il capo, guardandolo dritto in
quelle
orbite nere come la notte più oscura, ma che per lei sola
sapevano brillare con
la luce di tutte le stelle del firmamento. “Io sono la tua
compagna… sono la
compagna tanto di Ryo Saeba quanto di City Hunter. Voglio stare con te,
e
combattere con te… E se sarà necessario morire
con te.”
Copiose
le
lacrime lasciarono i begli occhi luminosi di Kaori; Ryo le sorrise, di
un
sorriso velato di tristezza ma sincero, ricolmo di tutto
l’amore che aveva per
anni nutrito per lei e tenuto a lungo celato, e come aveva fatto quasi
due anni
prima nella radura, la strinse nelle braccia, affondando il naso nei
morbidi ricci
mentre le labbra della sua compagna sfioravano, senza malizia ma con
infinita
dolcezza, la vena pulsante del collo dello sweeper.
Il
momento
magico fu interrotto da un battere di mani; la coppia si
voltò, ricordandosi
improvvisamente della presenza di Jane. “Molto romantico, ma
come vi avevo già
detto quando ci siamo incontrati a Tokyo, non c’è
assolutamente bisogno di
essere così melodrammatici.” Sorridendo tronfio,
fece scioccare la lingua
contro i denti. “Adesso che sappiamo con chi abbiamo a che
fare, trovare un piano
d’azione sarà molto più facile del
previsto, non lo credete anche voi? Intanto,
direi di fare la cosa che preferisco quando si tratta di indagare in
postriboli
di perdizione come quelli in cui operava la nostra
vittima…”
I
due
uomini si guardarono, sorridenti e complici.
“Mettere
sotto torchio l’infiltrato e fargliela fare
addosso!” I due uomini dissero nel
medesimo istante, lasciando Kaori senza parole; Jane e Ryo stavano
prendendo
alla leggera quella storia, e a lei non piaceva affatto.
“L’infiltrato?”
Kaori domandò, sbattendo le ciglia. Ryo e Jane annuirono
all’unisono, mentre lo
sweeper teneva una mano sulla spalla della sua compagna, tanto di
lavoro quanto
di vita.
“Proprio
così! Mi gioco la mia collezione di auto storiche che
c’è almeno uno sbirro che
spia quel pappone rammollito da quattro soldi, e che sa tutto di tutti,
magari
anche qualcosa su Sonia!” Jane rispose, sorridente,
riprendendo in mano la
tazza di the che aveva poggiato sulla ringhiera.
Ryo
fece
cenno di sì col capo, poi si voltò verso Kaori.
“Kaori, tu vieni con noi, non
voglio saperti qui da sola!”
“Scordatelo,
Ryo! Terrò la pistola a portata di mano e starò
lontana da porte e finestre, ma
io non ci vengo con te in uno di quei localacci che bazzichi sempre a
Shinjuku!”
La donna, in tutta risposta, sbuffò; braccia conserte,
alzò il naso al insù,
piccata. “E poi lo sai benissimo che sono capacissima di
badare a me stessa!
Sono o no anch’io City Hunter, eh?”
Alzando
gli
occhi al cielo, lo sweeper si limitò a scrollare le spalle;
c’era poco da fare,
sapeva quanto testarda fosse Kaori, e quanto difficile fosse farle
cambiare
idea una volta che si era convinta di qualcosa. E poi,
l’altra metà di City
Hunter aveva ragione: lei non era né ingenua né
incapace. Jane lo guardò, con
un’espressione rassegnata pure lui: il suo sguardo sembrava
dire che lo capiva
benissimo, e che con la sua dolce metà si era trovato
più volte nella medesima
situazione.
E
comunque,
Ryo aveva sempre un piano di scorta di cui lei non sapeva nulla, giusto
per
ogni evenienza, quindi sì: le avrebbe lasciato fare come
voleva.
Quella sera, lo sweeper ed il
mentalista tornarono al Sapphire:
era
la terza volta che facevano una capatina al locale, ed ormai i
buttafuori avevano
imparato a conoscerli; inoltre, il capo aveva detto loro che quei due,
per
quanto strani, stavano cercando di capire cosa fosse davvero capitato
alla
dolce Amy: erano ospiti graditi nello sfarzoso locale di piacere e
perdizione, almeno
fin quando avessero fatto il loro dovere.
Jane
e Ryo
guardarono i due buttafuori che non lasciavano mai la flaccida e
pallida figura
di quello che si diceva essere il compagno di Amy; i due analizzarono
la
situazione con occhio critico, cercando di capire dai piccoli gesti, da
minuscoli particolari e dalle loro micro-espressioni quali dei due
potesse
essere un poliziotto infiltrato, certi che si trattasse di uno di loro
due -
con quel lavoro, avrebbero potuto avere accesso a tutte le ragazze e a
tutte le
stanze del locale senza destare sospetti.
Che
il poliziotto
infiltrato avesse fiutato qualcosa? Non se ne sarebbero meravigliati,
nonostante Daniels non sapesse nulla al riguardo di operazioni
particolari in
corso al Sapphire; era cosa risaputa che le task-force fossero come dei
contenitori a tenuta stagna e che non condividevano informazioni se non
sotto
tortura – ed in questo, il Giappone era identico agli Stati
Uniti - e se quindi
qualcuno avesse saputo qualcosa di Amy o Sonia, non lo avrebbero certo
detto a
quello che Jane definiva un magnaccia da
quattro soldi, ma nemmeno all’agente Daniels.
Jane
chinò
il capo sulla spalla: uno dei due uomini teneva una piccola pistola ad
una
fondina alla caviglia. Non era un granché da cui partire, ma
per esperienza,
gli uomini affiliati alla criminalità organizzata la pistola
di riserva la tenevano
molto più in bella vista per mettere in guardia chiunque
pensasse di voler fare
loro degli scherzi.
“Venti
dollari sul rosso,” Ryo asserì offrendo una
banconota al compare di guai,
fissando i due sgherri del poco di buono.
“Cos’è,
Ryo, non ti fidi del tuo sesto senso?” Jane
replicò, sorridendo malandrino, con
l’aria di chi era certo delle proprie conclusioni e a cui
piaceva prendere per
i fondelli il suo prossimo. Tirò fuori dalla tasca della
giacca un rotolo di
banconote, e lo fece vedere allo sweeper giapponese; piccolo taglio,
dovevano
esserci almeno cinquecento dollari lì dentro.
“Punto tutto sull’omaccione
sdentato con i tatuaggi.”
“Te
l’ha
mai detto nessuno che sei razzista? Solo perché è
grosso e nero e tatuato pensi
sia un poliziotto sotto copertura che se la fa con i suoi
obbiettivi!” Ryo lo
prese in giro. Mentre il proprietario del locale se ne stava seduto ad
un
tavolo, circondato da ragazze seminude che cercavano di fargli trovare
consolazione tra le loro formose grazie che di naturale sembravano
avere poco o
nulla, i due uomini si divisero, pronti ciascuno ad approcciare il
proprio
bersaglio, ognuno a modo suo; Jane fece finta di, molto
casualmente, andare addosso al suo obbiettivo, appena questi
si fu lievemente allontanato dal grande capo.
Una
spallata, tutto lì.
“Ehi,
idiota, guarda dove vai!” Lo apostrofò il gigante
di colore con una voce quasi
sibilante. Jane fece la sua migliore espressione colpevole.
“Oh,
mi
scusi, sa, ho lasciato a casa lenti ed occhiali… non volevo
fare brutta figura con
le ragazze, sembrare toppo un nerd… non le ho fatto male,
vero?” Prese a dare
colpetti alla spalla dell’uomo, quasi a volergli togliere dal
petto delle
immaginarie macchie di polvere, poi, con un sorriso disarmante, appena
l’uomo
si mise a guardarlo in faccia, Jane mosse la mano, ed
afferrò la spalla del
buttafuori, stringendola con presa decisa, assumendo
un’espressione seria e
concentrata. Non lo avrebbe ipnotizzato -
non era una cosa così facile, e soprattutto
così’ veloce da fare come la
gente credeva– ma a volta bastava che il soggetto lo credesse possibile per fargli sputare
tutta la verità, e quel
tonto era il soggetto perfetto.
“Al mio tre
schioccherò le dita, tu cadrai in
uno stato di trance e mi dirai la verità, tutta la
verità, nient’altro che la
verità.” Jane lo apostrofò, godendo di
come il pomo d’Adamo del citrullo stesse
andando su e giù; alzò la mano libera,
contò da uno a tre e poi schioccò le
dita, e proprio come aveva immaginato, l’uomo assunse
un’espressione quasi
vacua: ci era cascato in pieno, pensava di essere in trance.
“Allora…
per chi lavori davvero?” Jane gli chiese, e appena la bocca
dell’uomo prese a
tremare, e lui cantò, il mentalista sorrise lieto e gaio,
felice di aver avuto
ragione per l’ennesima volta, anche se doveva ammettere che
era stato fin
troppo facile e noioso far ammettere al tizio che era un investigatore
della
procura, e che stavano indagando sul proprietario del club, tale Steve
Antionioli, e sui suoi traffici dal Messico agli Stati Uniti. Il
protettore era
accusato di far entrare illegalmente nel Paese delle ragazzine, alcune
anche
minorenni, promettendo loro lavori puliti, ma di utilizzarle poi nei
suoi
locali ma soprattutto nel giro della prostituzione.
Jane
guardò
il tizio, piagnucolante nell’abbondante seno di una delle
ragazze che gli
accarezzava il cranio quasi pelato: dubitava che quel tizio fosse
così furbo da
mettere su un carrozzone del genere; se un traffico di schiave del
sesso in
quel locale c’era (e Jane non dubitava che così
fosse), non era certo lui a
capo dell’intera operazione, ma qualcuno dei suoi sottoposti
che lavorava
nell’ombra. Di Sonia, però,
non sembravano
sapere nulla.
Distrattamente,
il mentalista si gustò la scena di Ryo che approcciava il suo povero citrullo; il suo stile era
stato leggermente diverso;
fingendo di essere un po’ alticcio, aveva fatto un
po’ di baccano vicino al
bagno del locale, spintonando quello che aveva tutta l’aria
di essere un VIP;
il rosso (Callaghan, mai nome fu più irlandese) vedendo cosa
stesse accadendo
andò subito a vedere come porre rimedio a
quell’incresciosa situazione, ma non
appena prese Ryo per il bavero della giacca, lo sweeper, con un
sorrisetto
compiaciuto e soddisfatto ribaltò le posizioni, e lo spinse
nel bagno tenendolo
fermamente con un braccio bloccato dietro alla schiena, disarmandolo.
L’uomo
era
ancora a terra quando Ryo estrasse da dietro la schiena il suo nuovo
giocattolino, l’Anaconda rubata al pezzente texano, e,
Callaghan a terra, la
puntò alla faccia del buttafuori.
“Per
chi
lavori davvero? Sei sul libro paga di quel puttaniere o stai con gli
sbirri? O
magari con Sonia
Field…” Ryo fece
schioccare la lingua contro il palato, osservando compiaciuto il
terrore
controllato riempire gli occhi dell’uomo davanti a lui. “Dimmi per chi
lavori o ti faccio un buco in
testa in mezzo agli occhi, e credimi, non scherzo…”
“Non
posso
dirtelo… sono in incognito, indago sul vero protettore di
Amy e sui suoi
affari…” Callaghan lo guardò, serio e
concentrato, senza mai distogliere gli
occhi dalla canna: era lampante che dicesse sul serio, ma anche che Ryo
non
fosse un nemico, seppure gli stesse puntando addosso la canna di una
pistola.
“Procuratori, poliziotti, alti ufficiali,
politici… sono tutti nel suo giro, ma
io non posso dirti di più!”
“Ne
sei
sicuro? Pensaci bene…” La sicura
scattò, mentre Ryo premeva, con fredda
determinazione, la canna della pistola contro la fronte
dell’uomo.
“Prima
levami dalla testa quel cazzo di pistola, non sono così
idiota da non capire
che siamo dalla stessa parte!” Callaghan continuò,
le mani leggermente alzate
in segno di resa. Ryo sogghignò, e rimise nella fondina
nascosta sotto la
giacca l’arma. Offrì al poliziotto la mano,
aiutandolo ad alzarsi, e Callaghan
si tirò su, ripulendosi alla meno peggio i capi, prima di
continuare: aveva
capito che non sarebbe servito a nulla tenere nascosta la
verità a quell’uomo.
“Era
già
tanto se Antonioli si era accorto che la sua fidanzatina aveva cambiato
taglio
di capelli. Quel tizio è una macchietta da quattro soldi,
non sarebbe in grado
di fare del male ad una mosca, ed è così stupido
che nemmeno si rende conto che
il suo vice controlla il giro della prostituzione in mezza
Manhattan.”
“Però
magari ti ha detto di controllarla... cos’è, aveva
pura di Barton? Che gli
rubasse la ragazza?” Ryo gli domandò. Braccia
incrociate, teneva la schiena
appoggiata al muro.
“No,
Barton
era inoffensivo…” Callaghan scosse lievemente il
capo. “Lui è una vittima di
qualche complotto, proprio come Amy.”
“E
chi l’avrebbe
ordito questo fantomatico complotto, secondo voi?” Ryo lo
guardò con
un’espressione che la diceva lunga su quanto credesse a
quella versione, e che
c’era qualcosa che non tornava. Era come se stessero tutti
cercando di ricreare
lo stesso puzzle, ma nessuno di loro avesse la figura completa. Era
chiaro,
almeno a lui, che tutta quella storia era stata ordita da Sonia, ma
com’era
possibile che nessuno ne sapesse nulla? “Antonioli? Lei era
la sua donna,
dopotutto… o magari il suo vice. Magari ha scoperto che
voleva passare ad
un’altra squadra.”
“Penso
che
lo sappiamo entrambi che Antonioli è solo un cretino con la
testa bacata che
pensa con l’uccello, ed il suo vice sa che ci sono pesci
più appetitosi di
quella ragazzetta, non rischia di mandare tutto a puttane per una come
lei,
nemmeno per dare l’esempio alle altre.” Callaghan
sghignazzò. “E poi lo
sapevano tutti qui, Amy era la ragazza di tutti e di
tutte. Di gente che poteva essere incazzata o gelosa ce
n’era a
bizzeffe, ed approfittare di una situazione così
è facile.”
“Sonia,
la
sua amichetta.” Ryo si limitò a dire, compiaciuto,
mentre Callaghan faceva
cenno di sì col capo. Come lo sweeper aveva sospettato, la
polizia sapeva che Chris era
innocente, ma, come
un cavallo con i paraocchi, si rifiutavano di vedere oltre il loro
naso, ovvero
aiutare quella che per loro era la concorrenza con un altro caso.
“Se
è la
bionda, sì, si tratta di lei. Amy se la faceva alle spalle
di Antonioli con
questa da un po’. Se qualcuno ha incastrato il vostro amico,
è stata lei. Ed è
pure ingamba… sa come coprire le sue tracce.”
“Già,
ha
imparato da uno dei migliori…” Ryo
sospirò, uscendo dal bagno, mani in tasca
dei jeans. A quanto pareva, Sonia non era stata lontana dal giro del
padre, ma
aveva invece intrapreso la professione paterna: questo faceva di lei un
avversaria capace e letale, ma dava a Ryo un certo vantaggio: nel giro,
ci si
conosceva tutti, e qualcuno avrebbe parlato, o sarebbe stato disposto
ad
aiutarlo. Forse. Se fosse stato fortunato.
Pochi
passi, e vide Jane trotterellare verso di lui, soddisfatto e
compiaciuto, e
ancora con le mani in tasca alzò un sopracciglio. Vuoi vedere che…
“Il
tizio
ha cantato?” Gli domandò, accendendosi una
sigaretta.
“Oh
sì,
come un usignolo!” Jane gongolò, tronfio, quasi
fischiettando. “Anche il tuo ha
ammesso di essere un poliziotto?”
Ryo
alzò
gli occhi al cielo, grattandosi il capo mentre stringeva tra i denti il
filtro
della bionda. “Porca miseria, ma sai che a volte sei
insopportabile? Mai che ti
scappi qualcosa!”
Il
mentalista si limitò a scuotere le spalle con falsa
noncuranza. “Se ti può
essere di consolazione, nessuno dei due sa che l’altro
è un infiltrato. Non so
per chi lavori il tuo, ma il mio lavora direttamente per il
procuratore. E…”
“E
sa poco
o nulla. Il mio ha giusto sospetti, ma nessuna prova. Abbiamo solo
sprecato del
tempo e siamo sempre al punto di partenza!” Ryo si
voltò verso Antonioli, e gli
fece un cenno di saluto col capo, nemmeno lui era certo del
perché, poi lui e
Jane presero la strada per uscire dal locale – sentiva un
disperato bisogno di
aria fresca, di vedere il cielo, nonostante la pioggia
incessante… sapeva di
aver lasciato l’Angelo della morte alle spalle, che avere al
proprio fianco
Kaori lo aveva cambiato, e anche solo fingere di essere ancora
quell’uomo,
anche solo per un attimo, era per lui faticoso, doloroso, e gli
procurava un
senso di repulsione quasi indescrivibile, quasi non fosse
più in grado di
conciliare il Ryo del passato con quello del presente.
Voleva
solo
tornare a casa, da Kaori, stringerla tra le braccia, perdersi nel corpo
della
sua dolce metà e amarla fino a che non fossero crollati per
lavare via la
sozzezza di quell’ambiente, e ricordare come il tocco della
sua amata fosse in
grado di ripulirlo, innalzarlo quasi.
Prese
il
telefono e con un sorriso sulle labbra digitò il numero di
casa di Sayuri, dove
Kaori era rimasta ad aspettarli. Dopo del tempo, troppo
tempo, il sorriso svanì però dal volto
di Ryo. Kaori non
rispondeva… e questo poteva significare tante cose, ma
qualcosa che gli
bruciava nel petto gli diceva che erano guai.
“Kaori
non
risponde…….” Ryo sibilò
chiudendo la chiamata. “Questa cosa non mi piace per
nulla!”
Jane
si
limitò a fare cenno di sì col capo, sapendo
esattamente cosa stesse passando
per la testa dell’amico. Patrick aveva un solo obbiettivo:
aiutare Ryo a
ritrovare Kaori, qualunque cosa le fosse accaduto. E se
necessario… supportarlo
nella sua vendetta.
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Capitolo 7 *** RAINDROPS ALL OVER ME ***
Ryo
e Jane
l’avevano avvisata che avrebbero fatto tardi, che
c’erano alcune cose da
chiarire riguardo al locale gestito dal “pappone”
di Amy. La donna, sola, si
era preparata una cena veloce da consumare fredda con quello che aveva
trovato
nel frigo, poi si era accomodata sul divano, abbracciandosi le
ginocchia e
guardando nel vuoto.
Si
sentiva
sola… e dopo che Sayuri se n’era andata, cercando
ospitalità presso un amica
che le garantiva tranquillità e solitudine,
aveva iniziato ad avere freddo, un freddo che le partiva
da dentro e le
avvolgeva il cuore in una morsa dolorosa, e sapeva che quella
sensazione, non
appena la sorella avesse saputo che la donna che aveva forse incastrato
Chris,
e fatto crollare il castello di sotterfugi dell’uomo, era
collegata a Ryo,
sarebbe stato ancora peggio.
Già
lo sapeva:
Sayuri non li avrebbe perdonati, non sarebbe stata in grado di guardare
oltre
la sofferenza che le avevano involontariamente causato. Stavolta, la
sorella
maggiore non avrebbe più tentato di allontanarla da Ryo,
né tantomeno di
riallacciare i rapporti in nome del legame di sangue che le univa.
Chiudendo
gli occhi, Kaori lasciò cadere la testa
all’indietro. Ne avrebbe sofferto?
Assolutamente sì, si era subito affezionata a Sayuri, ancora
prima di accettare
la loro parentela, ma allo stesso tempo, non l’aveva mai
sentita veramente come
famiglia, nel senso stretto della parola. Sayuri la idealizzava, la
vedeva come
lei voleva che Kaori dovesse essere, e non come la sorella fosse in
realtà.
Kaori avrebbe conservato per sempre il ricordo della giornalista nel
cuore, e
quell’abito, che solo una volta aveva indossato, che ancora
giaceva infondo
all’armadio, custodito con cura all’interno di una
scatola di cartone lucido
azzurro Tiffany, tra starti di carta velina e fogli profumati alla
lavanda, le
sarebbe sempre stato caro, fino a che avesse avuto memoria…
ma alla fine dei
giochi, la sua famiglia era un’altra.
Ryo.
Miki
e
Umibozu.
Mick.
Saeko. Il Professore.
E
soprattutto, il suo amato fratello. Hideyuki era
la sua famiglia, lo era sempre stato, ed il fatto che ormai
fossero trascorsi quasi dieci anni da quando era scomparso non lo
rendeva meno
tale.
Oh,
fratello, aiutami tu… cosa devo fare? Si
domandò, stringendo il medaglione che aveva al collo, un
regalo di Ryo per il loro primo mese insieme: era lo stesso medaglione
che Yuko
aveva trovato fortuitamente, ancora bambina, quando Ryo
l’aveva salvata, e che
lui, anni dopo, si era ripreso di nascosto. Ryo le aveva raccontato che
gli era
stato donato da una donna di un villaggio in cui Kaibara ed il resto
della
“ciurma” si erano fermati per diversi mesi. Quella
matrona si era affezionata a
Ryo, all’epoca solo ragazzino. Gli aveva domandato cosa lo
tenesse legato a
Kaibara, e perché non si fermasse lì con lei; lui
si era limitato ad abbassare
il capo e scuoterlo, lieve, mentre guardava il suo padre putativo
prepararsi a
spostare la sua armata personale verso altri lidi, negli occhi uno
sguardo che
riusciva a racchiudere in sé tanti, troppi sentimenti:
gratitudine, speranza,
tristezza, delusione, paura…
La
donna
aveva capito: mai Ryo avrebbe tradito quell’uomo, una cui
parola poteva salvare
o colonnare quel ragazzo. Lei gli aveva scompigliato i capelli, come
fosse stato
un qualsiasi ragazzino, e gli aveva dato quel ciondolo,
perché sui ricordasse
di lei, e di chi era nel profondo – il bambino con il cuore
grane che sapeva
ancora sperare.
Per
questo Ryo
lo aveva donato a Kaori: perché ricordasse chi era davvero
lui… non tanto City
Hunter, ma per prima cosa, Ryo- il suo Ryo.
Persa
nei
suoi pensieri, nell’oscurità della stanza in cui
si trovava, la donna sentì a
malapena un rumore provenire dall’ingresso, un ticchettio
regolare… tacchi, si
rese subito conto. Si
concentrò per capire con chi avesse a che fare, ma nulla
tradiva la natura
dell’intruso: di certo non era Sayuri, incapace di celare la
sua aura in quel
modo.
Temeva
di
sapere fin troppo bene di chi si trattasse.
Con
uno
scatto, fece per alzarsi dalla sua posizione, nel tentativo di
raggiungere la
camera da letto, dove Ryo le aveva lasciato un’arma per
difendersi, ma appena
scavalcato il divano, avvertì un dolore al capo, e la
visione si fece
appannata. Inginocchiata a terra, provò ad alzarsi, ma lo
scatto di una pistola
le fece cambiare idea.
Sollevò
il
capo, mentre il sangue le colava negli occhi e l’interruttore
scattava,
accendendo il lampadario: davanti a lei stava una donna, bellissima,
giovane, biondi
capelli corti e dagli occhi glaciali.
La
stessa
donna del video.
“Alla
tua
sorellina nessuno ha detto che se hai il fidanzatino in gattabuia
conviene
cambiare la serratura? Non si sa mai chi potrebbe impossessarsi di una
copia
delle chiavi…” Strafottente, fece roteare
nell’aria le chiave, il dito indice
destro nell’anello.
“Sonia.”
Kaori sussurrò, e
la donna le sorrise
con malcelato orgoglio.
“Ciao
Kaori… ho sentito tanto parlare di te, sai? Nel giro lo
sanno tutti che sei la
donna di Ryo…” Le disse sogghignando, inclinando
leggermente il capo di lato.
Fece un passo in direzione di Kaori, e le puntò la pistola
contro il cranio,
premendo con forza sulla pelle della fronte. Kaori avvertì
il metallo freddo
della canna, ma strinse i denti, rifiutandosi di dare questa
soddisfazione alla
donna: non si sarebbe mostrata debole, avrebbe dimostrato di essere
all’altezza
del nome di City Hunter.
“Maledetta…
hai fatto tutto… per cosa, far soffrire me e Ryo?”
Kaori sibilò. “E perché,
poi? Vuoi sfidarlo? Sei una stupida se credi di poterlo
battere!”
“Oh,
ma lo
so… Ryo è troppo bravo per chiunque, era perfino
più bravo di mio padre… ma io
forse riuscirò a fargli provare la stessa sofferenza che ho
provato io, il
dolore di perdere la persona che ama di più.
Poi lo ucciderò, quando mi supplicherà
di aiutarlo a raggiungerti
all’inferno.” La sicura scattò, e Kaori
inspirò a fondo, chiudendo gli occhi,
attendendo la sua fine. Ma poi non accadde nulla, e sentì
che Sonia stava
reinserendo la sicura. “Ma non adesso. Adesso
andiamo… vederti morire sotto ai
suoi occhi sarà molto più doloroso che trovare
solo il tuo cadavere. E non
provare a fare scherzi, o tua sorella ne pagherà le
conseguenze…ho molti amici
qui in città!”
Digrignando
i denti, il suo cuore avvolto da un profondo odio, Kaori si
alzò, pronta ad
assecondare la sua assalitrice.
Sapeva
di
non avere altra scelta, se non voleva che Sayuri pagasse più
di quanto già non
stava facendo.
“Kaori!” Urlando il nome della
compagna a squarcia gola, Ryo spalancò la porta
dell’appartamento. Sembrava
tutto a posto, ma qualcosa gli diceva che non era così; con
il fiato in gola ed
il battito del cuore martellante, entrò cauto nelle stanze,
e poi, lo vide.
Accanto
al
divano, per terra. Un vaso. Sporco di sangue.
“Dannazione!”
Ryo Sbattè un pugno contro il muro, ed il cartongesso
cedette sotto al suo
colpo, alzando una nuvola di polvere biancastra. “Siamo
arrivati tardi… Sonia
l’ha già presa!”
Jane
non
disse nulla, ma si limitò a guardarsi intorno, percorrendo
le stanze guardingo,
con un senso di terrore ed ansia quasi atavici che lo permeavano nel
suo intero
essere. Era quasi terrorizzato ad aprire le porte delle camere, temendo
che lo
stesso destino che il fato gli aveva messo davanti attendesse ora
Ryo…
Conosceva il terrore, la pena dell’amico, con cui condivideva
quel dolore:
forse conosceva poco Kaori, ma aveva vissuto esperienze
simili… le morti di
Angela e Charlotte prima, e poi Teresa, che tante volte a causa sua era
stata
rapita…
Quando
ebbe
chiuso l’ultima porta, poté finalmente tirare un
sospiro di sollievo, e
raggiunse lo sweeper.
“Non
c’è
traccia di Kaori in casa.” Jane affermò,
consapevole che sarebbe stata una
piccola consolazione per Ryo. “Deve avere usato una copia
delle chiavi. La
serratura non è scassinata, ma ho trovato tracce di una
sostanza plastica
bianca. Sonia deve aver fatto un calco alla meno peggio per potersi
intrufolare
qui indisturbata.”
“Mi
gioco
la testa che Sonia l’ha portata via con sé, e che
Kaori è ancora viva. Se
avesse voluto ucciderla, lo avrebbe fatto qui, ma vuole che io lo veda
con i
miei occhi.” Ryo disse con fiducia, ed un leggero sorriso sul
volto. Si alzò
dalla posizione in cui era, e si diresse in camera da letto.
Aprì l’armadio e
prese a svuotare la sacca che si era portato dietro, trovandoci al
fondo un
aggeggio che, a prima vista, appariva Game Boy Advance.
“Ho
la
netta impressione che quello non sia un vecchio modello di game
Boy…” Jane gli
domandò, chinandosi accanto a Ryo, che aprì
l’aggeggio e lo accese.
“Ho
messo
addosso una trasmittente a Kaori, e se siamo fortunati Sonia non
l’ha ancora
capito… o non le importa di farsi trovare da noi!”
Ryo fece l’occhiolino al
mentalista, mentre richiudeva
l’equipaggiamento e lo metteva in tasca della
giacca azzurra. “Ah,
chissà come si arrabbierà la mia dolce
metà quando lo scoprirà, inizierà con
la
sua solita tiritera che non mi fido, e che non la reputo
all’altezza… però
intanto chi è che la toglie sempre dai guai?”
“Ha
una
buona portata?” Jane gli domandò, e mentre
scendevano le scale, Ryo si grattò
il collo.
“Sì,
non
utilizza il Bluetooth, ma un sistema di posizionamento satellitare.
Mica posso
sempre starle sempre a massimo dieci metri di distanza!” Lo
sweeper si appoggiò
alla macchina di Jane, e si tirò su il colletto della
giacca, accendendosi una
sigaretta; i due uomini erano sotto una tettoia, protetti
dall’acqua che
scendeva come se avesse voluto cancellare via i mali e le ingiustizie,
le
brutture del mondo.
Ricontrollò
l’apparecchio; la luce blu lampeggiante si muoveva: Sonia
stava portando Kaori
da qualche parte, sempre che non avesse preso il ciondolo gettandolo su
un
camion o altro.
“Jane,
ascolta…” Ryo sospirò, guardando il
mentalista. “Io lavoro solo in coppia con i
miei partner. Qualcuno che non conosco bene, per me è solo
una possibile
debolezza, lo capisci, vero?”
“Sì…”
Jane
fece cenno di sì col capo, mentre però il suo
viso si rabbuiava. Ci era passato
anche lui: a Jane non era mai piaciuto il lavoro di squadra, abituato a
fare
tutto da solo. Non era stato in un team nemmeno con la moglie Angela, e
per
tanti anni la squadra del CBI era stata qualcuno da usare a suo uso e
consumo
quando gli faceva comodo. Perciò, chi era lui per parlare?
“Sì, lo capisco, ma
non significa che mi piaccia.”
“E
poi…” sogghignò,
guardando con un sorrisetto ed un sopracciglio alzato la lucina che si
era
fermata. “Sonia mi conosce, e si aspetta che io vada da solo.
Sa che detesterei
mettere nel mezzo un povero cristo che non centra nulla con
noi.”
“E
noi non
vorremmo mai deluderla, vero?” Jane scosse il capo,
ridacchiando. ”Sai, da
bravo lupetto in questo momento mi sembrerebbe opportuno prometterti di starne
fuori…”
Ryo,
mani
in tasca, si limitò a sorridere, scuotendo leggermente il
capo, mentre
nuvolette di fumo salivano nell’aria, e la nicotina gli
riempiva i polmoni.
Ryo
parcheggiò l’auto prestategli da Jane poco fuori
uno degli edifici dove Kaori
era probabilmente tenuta in ostaggio; si trattava di una zona piuttosto
ampia,
forse industriale, ma ormai abbandonata, recintata da alte reti su cui
cartelli
gialli e neri intimavano agli avventori di stare alla larga, in quanto
pericolante. Un tempo forse quartiere benestante, il terreno era
circondato da
vecchi palazzi ormai fatiscenti, su cui svettava una carnevalata di
abiti e
biancheria stesi, nonostante il brutto tempo; Ryo non comprese se quei
palazzi
fossero divenuti case do fortuna per disperati senza altra scelta, o se
chi vi
aveva un tempo abitato fosse scappato senza avere nemmeno la
possibilità di
ritirare i propri miseri averi.
Ryo
saltò
sulla recinzione, scavalcandola in una mossa fulminea nonostante i
vestiti
appesantiti dall’acqua, ed atterrò dalla parte
opposta. Prese a camminare lungo
le vie, i corridoi tra le varie costruzioni, guardingo, sperando con
tutto sé
stesso di aver avuto ragione, e che Sonia avesse deciso di uccidere
Kaori solo
una volta che si fossero trovati faccia a faccia: se così
fosse stato, avrebbe
avuto almeno una possibilità di salvare la sua compagna.
E
poi, la
vide.
Parcheggiata
in uno spiazzo, davanti ad una saracinesca arrugginita e crepata in
più punti,
c’era una piccola utilitaria, a cui era appoggiata la bionda
che avevano visto
nelle immagini con Amy: Sonia.
Fasciata
in
una tuta rossa, un giubbotto di pelle dello stesso colore, si
proteggeva con un
ombrello, e sorrise, maligna, acida, cinica appena vide lo sweeper
davanti a
sé; in macchina, Ryo vide Kaori, che con le lacrime agli
occhi poggiava
entrambi i palmi contro il vetro, proprio come quel giorno sulla nave
di
Kaibara.
“Kaori!”
Urlò, facendo per avvicinarsi alla macchina, ma Sonia
gettò l’ombrello, e sparò
un solo colpo, ai piedi di Ryo, fermandolo, mentre,
all’interno del veicolo,
Kaori sbatteva i pugni contro il parabrezza, disperata.
“Non
così
in fretta, Ryo,” la donna sogghignò, guardandolo,
fredda, negli occhi. “Sai,
non pensavo saresti venuto, nonostante la tua bella avesse una cimice
addosso…ma
a quanto pare, un po’ di sangue in fondo alle tue vene lo
hai. Di mio padre non
ti è importato, ma di lei, ti importa eccome!”
“RYO,
TI
PREGO, NON FARE STUPIDAGGINI!” La voce di Kaori irruppe nel
silenzio, rotto solo
dallo scrosciare della pioggia. Disperata, sentiva il suo cuore
straziarsi alla
visione di quello che stava accadendo. Qualunque fosse stato
l’esito di quel
duello…. Qualcuno sarebbe morto. Anzi, qualcuno era già perito per la folle
vendetta di Sonia.
“Sonia…”
Ryo, tranquillo, quasi rassegnato, le domandò, cercando di
dimenticare la
ragazzina che aveva conosciuto, la sorellina minore, la bambina che
aveva fatto
giocare, che spingeva sull’altalena; in quel momento, se
voleva salvare Kaori e
sé stesso, sapeva di dover mettere da parte il passato, che
doveva tornare ad
essere City Hunter, il letale sweeper, freddo e determinato.
“Dimmi solo una
cosa: come hai fatto a sapere che sono stato io ad uccidere tuo
padre?”
Sonia
digrignò
i denti, stringendo sempre con maggiore forza la pistola, sentendo la
rabbia
salirle dentro: Ryo non negava. Anzi, confermava quello che le avevano
detto.
“Alcuni
anni fa, incontrai un uomo, era un vecchio amico tuo e di mio
padre… ma
soprattutto tuo.” Gli
rispose, con
voce sibilante, una voce così carica di odio e rancore che
pareva provenire
direttamente dagli inferi. I suoi occhi erano sgranati, solcati da
sottili vene
sanguinolente – occhi furibondi, pazzi. “Ti
dice niente il nome Shin Kaibara, Ryo?”
Alla
menzione dell’uomo che lo aveva cresciuto, Ryo
serrò la mascella, i pugni
chiusi. La sua proverbiale freddezza venne un attimo a mancare, ed il
suo cuore
si tinse di nero, colmandosi di freddo odio rancoroso.
Kaibara.
Era stato lui. Era sempre lui a far
soffrire coloro che avveno avuto la sfortuna di incrociare la strada di
Ryo e
chiamarlo amico. Quanto a lungo sarebbe ancora durato
quell’inferno? Sarebbe
mai finito davvero? Anche da morto, l’uomo che Ryo aveva
chiamato papà lo
perseguitava con la sua ombra letale, lasciando solo morte e
distruzione
ovunque egli fosse passato.
“Fu
lui a
dirmelo, circa due anni fa. Mi confessò che mi avevi
ingannato, dicendomi che papà
era morto in un incidente… hai anche avuto il coraggio di
falsificare il suo
testamento per tenermi lontano da un mondo di cui facevo parte per
diritto di
nascita, perché sapevi che se lo avessi scoperto mi sarei
vendicata! Ma non ha
fatto alcuna differenza, perché da allora mi sono allenata,
e sono diventata
una killer ed una cacciatrice di taglie come voi, e ti ho tenuto
d’occhio da
lontano per escogitare un piano…” Sguardo
micidiale, pazzamente determinata,
Sonya si muoveva, lenta e sinuosa, continuando il suo monologo senza
mai allontanare
gli occhi dallo sweeper, nella cui mente si fece sempre più
chiaro il piano di
Shin.
Sonia
era
stata informata di cosa era successo poco prima dello scontro sulla
nave, in
cui Kaibara aveva perso la vita. Suo padre aveva forse previsto quello
sviluppo, e sembrava essersi procurato un ultimo asso nella manica da
giocare
al momento opportuno: la vendetta di Sonia era stata come
un’assicurazione per
lui, una bomba destinata, prima o poi, a scoppiare. Ed il fatto che
forse
proprio Kaibara aveva indirettamente causato la morte di Kenny rendeva
il tutto
ancora più macabro e grottesco.
“Non
è
stato difficile, sai? Ho scoperto che la tua donna aveva una sorellina
con un
fidanzato dal passato non troppo fulgido e con il vizietto di trattare
le
escort come terapiste. Silver Fox dice che tu fai tanto il duro ma che
faresti
tutto per la tua bella… e così ho deciso di
provarci. Vedere se, nel caso fosse
successo qualcosa al suo
cognatino, ti
saresti lasciato convincere a venire qui a risolvere questa
faccenduola… Ho
trovato quella piccola puttanella da strapazzo, la sua cocca, e me la
sono
lavorata per bene. Avrebbe dovuto uccidere Barton, ma si è
lasciata intenerire,
così ho dovuto improvvisare. L’ho colpita fino a
farle perdere i sensi, poi ho
preso un altro masso e l’ho stretto nella mano del tuo
amichetto, finendo il
lavoro. L’ho guardata, ed è stato come guardarmi
in uno specchio, Ryo, e mi
sono chiesta se, dopo tutti questi anni, ti saresti fatto qualche
domanda, se
in qualche modo avresti rivisto me in lei…”
Interrotto
il suo pazzo soliloquio, degno del peggiore criminale di bassa lega,
Sonia
prese la mira, e Ryo non fece alcunché, si limitò
a guardarla, carico di
tristezza, la mano alzata all’altezza della fondina, pronta a
stringere la
letale Anaconda nel palmo: se prima aveva avuto un attimo di
esitazione,
adesso, vedendo cosa Sonia era diventata, aveva perso ogni malizia, ed
era
pronto a compiere il suo dovere di angelo della morte e di spazzino del
sottomondo criminale.
“No, Ryo,
no!” un altro urlo, Ryo e Sonia
voltarono i visi in direzione della voce; videro Kaori, che era
riuscita a
forzare la serratura della macchina, correre tra le braccia di Ryo. Si
strinsero, e lei nascose il volto nel suo petto, serrando nei pugni la
stoffa
della giacca impregnata di pioggia; poi, disperata, si voltò
verso Sonia, che
ancora teneva la pistola puntata verso lo sweeper, e parlò,
con la voce rotta
dal pianto, ma una determinazione tale che Ryo le aveva visto poche
volte negli
occhi infuocati. “Se è la vendetta che vuoi,
uccidi me invece che lui, Sonia,
ma sappi che tutto ciò che stai facendo non
servirà mai a nulla!”
“Kaori,
perché
diavolo non sei scappata?!” Ryo le sibilò
nell’orecchio, ma la donna scosse il
capo. “Avanti, vattene, ti copro io!”
“No,
io non
scappo, Ryo! Senza di te la mia esistenza non avrebbe senso! Non ho
intenzione
di vivere senza di te!” Gli urlò praticamente
sulle labbra, prima di voltarsi
verso l’avversaria. “Perciò Sonia, se
vuoi sparare a Ryo… se lo vuoi uccidere….
Dovrai uccidere anche me, ma sappi che vendicarsi non
servirà a nulla, non
riporterà tuo padre indietro, né
cancellerà gli anni di solitudine!”
“Ti
sbagli… la vendetta ha senso eccome… E tu
adesso mi hai servito su un piatto d’argento
un’opportunità che non posso
lasciarmi scappare!” Sibilò. Braccia distese
davanti a sé, teneva bene in vista
il suo obbiettivo, quella donna. Eppure… eppure
c’era qualcosa che stonava, Ryo
percepiva come una sottile esitazione. Paura. Senso di colpa. Ryo
strinse con
forza Kaori, facendo aderire la schiena della giovane contro il proprio
solido
petto, senza mai distogliere lo sguardo da quello della sua
oppositrice. “Gli
farò provare lo stesso dolore che mi ha
fatto provare lui… prima di morire, vedrà morire
la donna che ama!”
“Tu
non
capisci il cuore di Ryo, cosa ha provato quando ha dovuto sparare a tuo
padre, al suo
amico!” Kaori le spiegò, con infinita
dolcezza. Il cuore di Ryo sussultò, andando alla sua amata,
che ancora una
volta metteva un’altra persona – un loro nemico, un
assassina – davanti alla
propria incolumità. Se mai avesse avuto un dubbio sul fatto
che Kaori fosse un
angelo, adesso, anche l’ultimo era infine sparito.
“Lui è stato costretto ad
uccidere tuo padre! Kenny aveva sfidato Ryo a duello, e lui ha dovuto
sparare!
Lui era stato messo nelle condizioni che non poteva sfuggire al ricatto
di un’organizzazione
criminale, che aveva minacciato di ucciderti e farti del male. Non
sapeva come
uscirne, così sfidò Ryo, certo che sarebbe
morto… e così, tu non saresti più
stata in pericolo, e saresti uscita dal giro! Non lo capisci?! Tutto
quello che
tuo padre e Ryo hanno fatto, l’hanno fatto per
proteggerti!”
“Mio
padre… scelse di essere ucciso in duello
da Saeba... per proteggere me?” Occhi sgranati, Sonia fece un
passo indietro,
leggermente esitante. Tentò di conciliare quello che sapeva
con quello che
provava, con ciò a cui, negli anni, aveva assistito. Non
aveva creduto subito a
quella storia, ma quell’uomo le aveva mostrato un video, e il
referto autoptico
della morte del padre. Quindi, doveva
essere vero. “SONO TUTTE BUGIE, SI È INVENTATO
TUTTO!”
“Perché
non
capisci quanto è stato generoso Ryo? Lui non ti disse niente
per non farti
soffrire, e sistemò tutto affinché tu potessi
vivere una vita il più normale
possibile, e poi se andò in silenzio!!” Kaori si
portò una mano sul cuore, gli
occhi colmi di lacrime. Cercò lo sguardo di Sonia, cercando
di trasmetterle
tutto quello che negli anni lei stessa aveva provato. A
vent’anni, Kaori non
aveva compreso il comportamento di Ryo, che le era divenuto lampante
solo dopo quel
bacio sulla nave. “Ryo non è un uomo che mente
facilmente, non su queste cose!”
Alla
mente
di Sonia tornarono le parole del padre, sospirate a mezza voce la
mattina della
sua morte; non ci aveva mai ripensato, ma adesso, si chiedeva se quelle
parole
potessero assumere un nuovo significato, se fossero, in qualche
modo… vere.
Ryo
è un bravo ragazzo, Sonia. Qualsiasi cosa accada, fidati
sempre di lui.
Lo
so, Ryo mi è molto simpatico, dopo di te è la
persona più
gentile che conosco!
Ma
le
importava davvero, alla fine? Ryo aveva ucciso suo padre, e questo
rimaneva un
fatto. Le aveva tolto la sua famiglia. Qualunque fosse stato il motivo,
l’avrebbe pagata cara, lui e la sua donna.
Prese
la
mira, ed iniziò a sparare con la sua semi-automatica; un
colpo quasi fece
centro, sfiorando il viso di Kaori, su cui spiccò una scia
di sangue, grossa
come una lacrima scarlatta. La pioggia intanto continuava a cadere,
incessante,
mentre la sweeper continuava a stringersi al suo compagno, il volto nel
suo
petto.
Ryo
non
sembrava intenzionato a lasciarla andare; il cuore alla vista del
sangue gli
martellava nel petto, che bruciava con la consapevolezza che sarebbero
potuti
entrambi perire a causa sua, la teneva tra le braccia come se Kaori
fosse la
cosa più preziosa e delicata del mondo – cosa che
per lui era effettivamente
vera.
Investito dalla
consapevolezza che, quale
fosse stato il motivo, lui aveva aperto la strada a quegli accadimenti,
che le
sofferenze di Chris e Sayuri erano sua responsabilità, come
pure la morte di
Amy, Ryo si arrese al destino, e lasciò scivolare il braccio
destro che
impugnava la pistola.
Intanto,
Sonia continuava, imperterrita, a sparare con la sua pistola, i
proiettili che
colpivano il selciato accendendolo di mille scintillii, quasi
l’aria fosse
magica tutto intorno ai due innamorati, che vivevano e respiravano
l’uno per
l’altra, dimentichi di tutto e tutti, mentre la pioggia
faceva aderire ai loro
corpi i loro abiti ormai fradici, che avevano perso del tutto la loro
funzione.
Stringendo
i denti, Sonia prese la mira, pronta a colpire prima Kaori, e poi,
dopo, una
volta che lei fosse spirata tra le braccia del suo amato, Ryo: non
avrebbe
sbagliato, basta esitazioni, sarebbero morti, e finalmente lei avrebbe
avuto la
sua vendetta… e sarebbe uscita dal giro. Avrebbe finalmente
avuto quella vita
normale di cui il padre e Ryo spesso e volentieri dicevano di volere
per lei.
Adesso,
il
momento era infine giunto.
Dito
premuto sul grilletto, pronta a colpire, la donna vide con la coda
dell’occhio
un bagliore lampeggiante provenire da uno dei vecchi palazzi
circostanti il
luogo del duello. Irrigidendosi, protese lo sguardo verso la fonte
luminosa,
mentre un fulmine si abbatteva sulla piazzola, accanto
all’auto, illuminando lo
spiazzo quasi a giorno. L’evento improvviso fece sussultare
la donna, che emise
un grido mentre faceva, inavvertitamente, un passo
all’indietro. Rapido, Ryo
approfittò della disattenzione di lei per alzare nuovamente
la pistola, Kaori
sempre stretta a lui, e sparare due colpi: il primo colpì
Sonia, disarmandola,
il secondo allontanò l’arma da lei, in maniera
definitiva.
Il
volto
rigato dalla pioggia e da lacrime di rabbia per la vendetta negatele,
la donna
cadde sulle ginocchia, guardando, impietrita, Ryo, che la fissava quasi
vuoto,
privo di emozioni, continuando a far scorrere un pollice sulla pelle
del collo
della sua amata, nel tentativo di rassicurarla della sua presenza, che
era
finita, e che stavano entrambi bene.
Ancora
una
volta, ne erano usciti vivi.
Sonia
guardò la coppia stringersi, perdersi nel proprio mondo
interiore, e rosa da
una rabbia ceca, primordiale, digrignò i denti, mentre la
mano destra andava
alla fondina che teneva nascosta sotto alla giacca. Le dita affusolate
stavano
per afferrare il calcio dell’arma quando una mano la
afferrò per la spalla,
fermandola e sbilanciandola all’indietro.
La
bionda
alzò lo sguardo, e si scoprì circondata, Daniels
ed Alvarez le stavano puntando
le loro pistole addosso, come pure alcuni degli altri agenti, mentre
Jane
sorrideva, tronfio, da dietro ai federali, protetto dai loro corpi, al
sicuro
sotto ad un ombrello blu. Fazzoletto di cotone alla mano, si
avvicinò alla
coppia, e offrì la pezzola alla donna, che si
tamponò la ferita al viso,
ringraziandolo timidamente.
Mentre
gli
agenti portavano via l’omicida, Ryo fece un cenno di
ringraziamento al
californiano, sollevando con fare interrogativo un sopracciglio.
“Ma tu non
avevi dato la tua parola di lupetto che ne saresti stato
fuori?”
Jane
si
limitò a scoppiare a ridere, scuotendo lieve il capo, mentre
spostava su Kaori
l’ombrello.
“Perché,
secondo te io sono stato negli scout?”
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Capitolo 8 *** Le strade di Shinjuku ***
...e siamo arrivati alla fine! Grazie a chi ha letto, e a chi
leggerà, e sappiatelo... no, non è la fine. Ormai
Patrick e Ryo a lavorare insieme ci hanno fatto il callo, e comunque si
sa: glia rchi narrativi si fanno o singoli o in trilogie! E
allora, un giorno (probabilmente quest'autunno...) torneranno ia
collaborare, e stavolta per aiutare il tipo di cleinte preferito
dal nostro City Hunter...
una donna! E non una qualsiasi, ma l'Agente Daniels, che
sarà costretta a dare la caccia al suo di consulente,
Cameron Black, e al suo gemello, Jonathan, che, con una donna
misteriosa, sono alla ricerca della chiave per scoprire il tesoro
nascosto dal loro bisnonno e da Houdini , una ricerca che li
porterà fino a Tokyo... ma adesso, passiamo all'epilogo di
questa storia!
“Ehy,
ma
stai ancora dormendo? Alzati che è tardi! Ma lo sai o no che
ore sono?”
Sorridendo, già vestita di tutto punto con un lupetto bianco
e una gonna color
camoscio, Kaori si lasciò cadere sul letto, accanto al
compagno, e prese a
fargli il solletico per farlo svegliare. Ryo, mugugnando una protesta
incomprensibile, si voltò dall’altra parte,
nascondendo il capo sotto al
cuscino. “Ryo, dai, svegliati, io ho già ritirato
la posta e sono già andata
alla stazione… e c’è un XYZ nuovo di
zecca! Ho appuntamento col cliente al bar
del Shinsato Hotel oggi pomeriggio, magari potrebbe essere qualcosa di
interessante!”
Ryo
mugugnò
una risposta, anch’essa intellegibile (che però la
donna immaginò volesse dire
qualcosa tipo Lasciami in pace che la
scorsa notte ho fatto tardi con Mick, oppure non
mi interessano le proposte di lavoro da parte degli uomini) e
Kaori alzò gli occhi al cielo, senza però perdere
il suo proverbiale sorriso:
era inutile, Ryo non sarebbe cambiato mai, sarebbe stato a vita un
animale
notturno.
Kaori
gli
tirò via di dosso il sottile lenzuolo, e arrossì,
imbarazzata nonostante ormai
fossero anni che viveva accanto a Ryo, di cui quasi due come sua
compagna di
vita, quando lo trovò nudo come un verme e pronto
all’azione; improvvisamente sveglio e malizioso, lo
sweeper ridacchiò
stupidamente, mentre cercava di abbracciare la sua donna per stamparle
sul viso
degli umidi baci, ma soprattutto di trascinarla su di sé.
“Dai Kaori, guarda,
il mio mokkori si è svegliato, hai visto? Ti ubbidisce come
un cagnolino! Non
lo vuoi premiare?”
“Ma,
ma,
Ryo, adesso…” tentò lei di
divincolarsi, ma sembrava che più lei tentava di
sfuggirgli, più il desiderio del suo partner si faceva
sentire.
“Dai,
Kaori, guarda, si ricorda perfino la prima volta che sei venuta a
svegliarlo, e
vuole dirti cosa voleva farti già allora! Non sei contenta,
eh, eh, eh?” le
disse sghignazzando, allupato. La donna rimase di sasso: per quanto
potesse, a
volte, credere che Ryo potesse essere serio e concentrato…
c’erano dei momenti
in cui tornava ad essere l’infantile ragazzino con
l’erezione facile ed il
desiderio assatanato fuori controllo. Il fatto che poi lui adesso se ne
uscisse
con quella storia dell’averla voluta già allora,
dopo che per anni le aveva
dato del maschiaccio, accusandola di non essere in grado di eccitarlo,
la
faceva andare ancora di più su di giri- e non certo nel
senso positivo della
cosa.
Avvertendo
l’erezione premere contro il tessuto della gonna, Kaori prese
da sotto alla
testa di Ryo il cuscino, e glielo spiaccicò in faccia,
liberandosi dalla sua
morsa, innervosita dalla sua totale mancanza di
professionalità e serietà.
Lasciatolo solo nel letto, la donna prese a sfogliare il pacco della
posta del
giorno, che aveva appoggiato sul materasso: un paio di quotidiani che
avrebbero
letto attentamente più tardi, pubblicità, un paio
di conti da pagare… e poi,
una busta gialla, con affrancatura americana; sembrava avesse fatto
molta
strada, fosse stata sballottata da un piccolo ufficio postale
all’altro, come
ad impedire a chi l’avesse ricevuta di comprendere fino in
fondo da dove fosse
partita.
Poteva
provenire da una sola persona.
Sayuri.
Le
mani
della sweeper presero a tremare, e quasi avesse percepito il dolore e
la paura
della compagna, Ryo si svegliò da quell’apparente
stato di torpore, e le fu
immediatamente accanto, mentre guardava, rattristata, la busta,
incapace di
aprirla, timorosa.
Dopo
quello
che era successo, una volta che le minacce di Sonia si erano rivelate
per ciò
che erano, promesse vuote, lei e Sayuri non si erano più
parlate; sapeva che la
sorella biologica la riteneva, in parte, responsabile di ciò
che era accaduto a
lei e Chris, che se non l’avesse cercata e trovata, se Ryo
non fosse entrato
con prepotenza nelle loro vite, nulla di quello che era accaduto
sarebbe mai
successo, ma la giovane sweeper si rifiutava di vederla
così. Ryo l’aveva
salvata – dalla solitudine, dal senso di
incapacità che aveva provato
nell’istante stesso in cui le aveva detto della morte di
Hide. Le aveva dato
una casa, uno scopo… una famiglia.
“Kaori?”
le
domandò timidamente, sfiorandole la spalla con un dito, un
tocco semplice e
delicato che tuttavia catturò la sua attenzione. Lei scosse
il capo, e con le
lacrime agli occhi aprì la busta.
C’erano
solo due foto, una di un semplice matrimonio, Sayuri vestita con un
abitino
stile boho, davanti ad un municipio
di una piccola città di provincia, forse del mid-west, e una
di lei e Chris con
un neonato, e null’altro; nemmeno un biglietto, nemmeno una
parola, nemmeno una
riga.
“Kaori…”
Ryo sospirò, abbassando la mano e lasciandola cadere
mollemente sul letto. “So
che Sayuri ce l’ha con te perché tutta questa
storia è stata colpa mia. Se tu
volessi… io…. Io lo capirei, tutto qui. Lei
è la tua famiglia e poi, se tu non
fossi al mio fianco, non saresti sempre in pericolo, e la tua vita
sarebbe
molto più semplice…”
Asciugandosi
le lacrime col pugno, e tirando sul naso come una bambina, la giovane
donna
scosse il capo, cercando di sorridere. Cercò il conforto del
corpo solido del
partner, cingendogli la vita con le sue esili braccia, e lui
passò una mano nei
capelli ramati, scompigliandoli, guadandola dolce, come se lei fosse
stasta la
cosa più preziosa del mondo- e per lui, lo era: lo era
sempre stata.
“Ryo,
a me non interessa
vivere una vita semplice se
non posso farlo al tuo fianco. Amo la mia vita,
questa vita e… e amo te. Sayuri potrà
essere la mia famiglia di sangue,
ma la conosco appena. Per me lei è una
sconosciuta.” Gli disse, godendosi
quelle carezze, facendo le fusa come una gattina.
All’improvviso però si
immobilizzò; abbassò gli occhi, ed
arrossì, timida, prendendo a torcersi le
dita nervosamente. “Tu sei
la mia
famiglia- e ormai lo sei da molti anni. E vorrei che tu lo
fossi… per sempre,
se lo vorrai. Se mi
vorrai.”
Sollevandole
il mento con un dito perché si potessero guardare negli
occhi, Ryo alzò un
sopracciglio, sorridendole in modo quasi enigmatico mentre le passava
il
pollice sulle labbra carnose. “Di solito è
l’uomo che fa la proposta, sai?”
“Sì,
ma se
aspetto una proposta da te ho tempo di perdere altri dieci anni! Io
voglio
farla finché sono giovane questa cosa!” Lei gli
fece la linguaccia, scrollando
le spalle, sbarazzina come la ragazzina che aveva incontrato tanti anni
prima:
era inutile, dentro, lei sarebbe sempre rimasta la sua
Sugar… e questo lui non
l’avrebbe cambiato mai, per nessun motivo al mondo. Quella
ragazzina lo aveva
conquistato in un modo che Ryo allora non aveva capito, né
pienamente compreso;
la Kaori sedicenne lo aveva intenerito, quella ventenne lo aveva
eccitato e
sedotto, la giovane donna che era divenuta, innamoratasi di lui, lo
aveva
conquistato, facendo cadere tutti i muri che negli anni Ryo aveva
eretto per
proteggersi. “E poi mica voglio un matrimonio sfarzoso o che
altro, io vorrei…”
fece una pausa, e si morse il labbro cercando la parola giusta.
“vorrei solo
qualcosa che fosse al contempo un punto di partenza e uno di arrivo.
Qualcosa
di simbolico, ecco.”
Gli
occhi
di Kaori caddero sulla foto del nipote: non sapeva nemmeno come si
chiamasse, e
forse non lo avrebbe saputo mai. Tracciò i lineamenti con
un’unghia,
soffermandosi sugli occhi, così uguali a quelli di Sayuri,
ed ai suoi,
dimentica del mondo intero, anche di Ryo, che continuò ad
accarezzarle i
lineamenti con un tocco delicato ma eccitante allo stesso tempo.
“Sì”
le
disse lui, all’improvviso. Kaori alzò lo sguardo
verso il compagno, che le
sorrideva soddisfatto, un po’ strafottente, molto fiero di
sé, e sbatté le
ciglia di quei suoi grandi occhioni.
“Eh?”
Ancora
una volta, la donna faticava a seguire, e comprendere, i ragionamenti
contorti
del bel Saeba.
“Sì,
ti
sposo. Ci sto.” Le disse, senza perdere un filo di quella
strafottenza, quel
carattere tronfio che lo aveva sempre contraddistinto.
“Cos’è, non ti va già
più? Guarda Kaori che io adesso idea non
la cambio mica più, eh!”
“Ma…
ma io
non parlavo di un vero matrimonio, e poi non
sei tu quello che mi aveva detto che tu
sei un clandestino senza documenti, che sei come morto, e che quindi
non…” Ryo
le mise un dito sulle labbra per zittirla, poi, mollemente, si
lasciò cadere
sul letto, braccia incrociate dietro al capo.
“Vuoi
che non
ci sia in giro qualcuno che non sappia hackerare un registro per
infilarci un
Ryo Saeba di anni…uhm, vediamo… posso arrivare ad
un massimo di trentacinque
anni, questa è la mia ultima offerta!” le disse,
scherzoso.
Kaori
rimase senza parole, e continuò a guardarlo, stupita.
Tuttavia, le labbra le
tremavano per l’emozione, e Ryo, intenerito oltremisura da
quel comportamento,
sentendosi un po’ colpevole per tutte le manchevolezze del
passato, che avevano
causato tanti dubbi alla donna del suo cuore, la strinse forte a se, il
capo di
Kaori appoggiato contro quel cuore che batteva solo per lei.
“Sai, mentre
eravamo a New York, guardavo quei bambini che correvano per strada, e
ho
pensato che io non avevo mai vissuto così, non avevo mai
giocato contento
sapendo che poi sarei tornato a casa da dei genitori che mi avrebbero
coccolato.
Non mi è mancato, perché quando conosci solo la
guerra ti accontenti di quello
che hai, ma… ma ho iniziato a pensare che mi piacerebbe amare qualcuno così. Se tu
vuoi.”
“Ma…
ma io
credevo che…” Kaori non osò finire la
frase, mentre combatteva strenuamente per
combattere le lacrime che, traditrici, minacciavano di lasciare i suoi
occhi. “Insomma,
tu, tu avevi detto che, che non volevi una famiglia, che nel nostro
lavoro non
si possono avere figli…”
Un
figlio
suo e di Ryo: un sogno che Kaori aveva tenuto a lungo celato, che aveva
nascosto in un angolo del suo cuore, una speranza che aveva permesso
riempirle
l’animo solo in rari momenti, quando lui non le era accanto,
per non turbarlo o
farlo sentire in colpa. Che quel sogno potesse divenire comunque
realtà? Che
anche lui lo volesse, dopotutto?
“Quando
sono arrivato qui, c’erano tre tipi di poliziotti: i
corrotti, quelli onesti
che venivano fatti fuori dai corrotti e quelli che non facevano nulla
perché
non pensavano di avere abbastanza potere per cambiare le cose. Ma
adesso… dopo
tanti anni che sono qui, con Saeko e suo padre ai vertici della
Polizia, con il
polipone, Miki e Mick, con le Gatte che sono tornate e hanno fatto un
po’ di
pulizia… le cose sono cambiate. Shinjuku non è
più la stessa di quando sono
arrivato. E forse… forse è il momento che cambi
anch’io.”
Ryo
si
grattò la nuca, distogliendo lo sguardo da Kaori, che
tuttavia avvertiva su di
sé: poteva quasi sentire il battito del cuore della sua
compagna, ne percepiva
l’aura emozionata, colma di affetto, che lo abbracciava e
teneva il suo animo
al sicuro. “Ci ho pensato, e magari potrei, non so, fare come
Jane. O
comportarmi da vero investigatore
privato. O mettermi a fare il taglialegna in qualche sperduto paesino
del
Canada, per me è lo stesso. Non ti prometto rose e fiori,
Kaori, forse non
potrò mai uscire del tutto dal giro, e so di non essere una
persona con cui è
facile avere a che fare, ma ti posso giurare che ti amerò
sempre, e proteggerò
la mia famiglia ad ogni costo… che si tratti solo di noi due
o…o dei bambini
che verranno, ecco. Se li vorrai anche tu.”
“Io….
Non
lo so. Non sono certa che mi piaccia l’idea di lasciare Hide
e tutti gli altri,
però...” La ragazza ammise
a malincuore;
abbassò gli occhi, arrossendo, incapace però di
nascondere il sorriso. “Ti
mentirei se ti dicessi che non ci ho mai pensato, a, ecco, ad un figlio
nostro.”
“Sì,
effettivamente sarebbe un crimine non passare i miei meravigliosi geni
di
Stallone…” lui sogghignò, e lei lo
colpì col cuscino in pieno volto, facendolo
scoppiare a ridere mentre lei gli metteva il broncio e lo additava con
i suoi
soliti nomignoli, porco, pervertito,
vergognoso… tutti deliziosi vezzeggiativi per le
orecchie di Ryo.
E
poi, lui
la trascinò a letto, e tra risate, sospiri, sussurri e
mugolii di piacere
dimenticarono entrambi tutto, per un tempo che fu troppo breve per i
loro
gusti. Ma era comunque abbastanza.
E
comunque,
al domani ci avrebbero pensato prossimamente: forse avrebbe ripreso i
contatti
con la sorella di Kaori, o forse la sua famiglia sarebbe stata
solamente quella
che si era creata negli anni, accanto a Ryo; forse sarebbe diventata la
signore
Saeba, o forse no, forse lei e Ryo avrebbero continuato a fare gli
sweeper o
magari avrebbero cambiato lavoro, magari avrebbero avuto uno o due
figli, che
sarebbero cresciuti con i clan di Mick e Falcon che stavano sfornando
pargoli
con le loro consorti...
Kaori
non
lo sapeva, non c’era certezza del domani, come la vita le
aveva insegnato – e a
lei nemmeno importava più di tanto, era ben felice di
godersi, in tutti i sensi
della parola, quel momento, il suo immediato. Ryo la amava, e questo
era già
abbastanza.
E
comunque,
l’amore del suo partner era già di per
sé una certezza, l’unica di cui a lei
importasse qualcosa: qualsiasi cosa fosse accaduta, i loro cuori non
avrebbero
ceduto mai, avrebbero continuato a battere l’un per
l’altra, anche oltre la
vita se fosse stato necessario.
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