Le strade di New York

di Little Firestar84
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ghiaccio e Fuoco ***
Capitolo 2: *** Domande ***
Capitolo 3: *** Call me (maybe) ***
Capitolo 4: *** Zaffiri, brillanti e pepite d'oro ***
Capitolo 5: *** La morte avrà i tuoi occhi ***
Capitolo 6: *** Passato, Presente ***
Capitolo 7: *** RAINDROPS ALL OVER ME ***
Capitolo 8: *** Le strade di Shinjuku ***



Capitolo 1
*** Ghiaccio e Fuoco ***


Scrivere il seguito di Da Austin a Tokyo non è esattamente una cosa che avevo pensato di fare; ero davvero certa che l'incontro tra Patrick Jane, star di The Mentalist, e Ryo e Kaori fosse finito lì, con la caduta, letterale e metaforica, della setta di Visualize, presenza occulta per anni dello show porcedural americano.
Mi sbagliavo.
Ryo e Jane hanno preso il sopravvento, esigendo un nuovo incontro, di collaborare con un nuovo caso- che, dal titolo della storia, ispirato al crime Le Strade di San Farncisco, che ebbe il merito di lancviare la carriera attoriale di Michael Duglas, è facile capire dove sarà ambientato.
Ritroveremo tante facce, e ne incontrermo di nuove... e adesso, vi lascio alla storia.
Grazie e alla prossima!


La testa gli pulsava, ed avvertiva come un peso sul petto, un dolore lancinante che aumentava con ogni singolo respiro che prendeva, e gli sembrava che i polmoni stessi stessero andando a fuoco, che dovesse soffocare da un momento all’altro, annegare… annaspava, come se fosse stato sotto ad una valanga o cadendo negli abissi più profondi del mare, eppure sapeva, avvertiva di essere all’aria aperta.

I suoi organi andavano a fuoco, eppure, aveva freddo- tanto. Era come se il suo corpo fosse percorso da piccole scosse, come se milioni di minuscoli aghi lo pungessero nel medesimo istante, senza dargli tregua.

Tentò di sollevarsi.

Il primo tentativo andò a vuoto: i muscoli erano troppo doloranti, e parevano non voler rispondere ai suoi stessi comandi: il suo stesso corpo lo stava tradendo.

Strinse gli occhi. Prese un profondo respiro. Poi un altro ed un altro ancora. Dopo un tempo che gli parve lunghissimo, finalmente, si decise a riprovare, e stavolta riuscì a sedersi.

Lentamente, aprì gli occhi, mentre si stringeva nelle sue stesse braccia: era nudo, in un parco, ed era notte, anche se tra le fronde degli alberi poteva intravedere il sole sorgere.

Si guardò intorno, confuso, non ricordando come fosse arrivato lì, cosa fosse successo la notte precedente. Possibile che mentre girava con i suoi amici per locali avesse bevuto così tanto da finire per addormentarsi in giro, senza nemmeno rendersi conto di cosa stava facendo?

La sensazione di freddo – ed umido- non diminuì; anzi, più riprendeva conoscenza, più questa aumentava, ed ad essa si era unito anche una forte acidità di stomaco. Avvertì la bile salirgli in gola quando il suo olfatto percepì un forte odore ferroso, ed istintivamente si voltò, rigettando nell’erba gli acidi dello stomaco, vuoto se non per il liquore consumato in compagnia in quantità eccessiva.

Boccheggiando per aria, si pulì la bocca con il braccio, ma così facendo desiderò nuovamente rimettere, quando avvertì quello stesso odore sulle labbra.

Occhi sgranati, si guardò le mani: erano coperte di sangue.

“Fermo dove sei, non ti muovere!” Appena sentì la voce, alzò gli occhi; la luce di una torcia lo colpì nelle iridi scure, e il leggero senso di speranza che aveva osato provare per un solo attimo svanì nel nulla, rimpiazzato da un panico accecante come quella stessa luce bianca che gli veniva puntata in viso: qualunque cosa fosse accaduto nelle ore precedenti, sapeva di essersi messo nei guai, anche se non sapeva nemmeno lui quanto grandi - ma era facile intuirlo, dal tono e dal modo di fare della bella poliziotta che lo teneva sotto tiro. “Sei armato?”

“Cosa… io…..” rispose, confuso, guardandosi intorno, quasi stesse cercando un’arma o si aspettasse di trovarne una a portata di mano, proprio al suo fianco. Per un attimo, una frazione di secondo, in quella nebbia che avvolgeva il suo raziocinio si chiese se effettivamente lo fosse, ma non seppe darsi una risposta.

“In ginocchio e mani dietro la testa, adesso!” La voce femminile gli intimò, avvicinandosi. “Sei in arresto con l’accusa di omicidio. Hai il diritto di rimanere in silenzio, tutto ciò che dirai potrà essere usato contro di te in tribunale. Hai diritto ad un avvocato,  e se non puoi permettertene uno te  ne sarà assegnato uno d’ufficio…”

“Ma cosa… omicidio? Ma di che diavolo stai parlando?!” Lui sibilò a denti stretti, mentre prendeva ad agitarsi, ribellarsi; sentì che l’aria gli veniva a mancare, che il buio catturava i suoi occhi mentre il cuore gli batteva con una tale forza che temette gli sarebbe scoppiato nel petto. “Non ho ucciso nessuno!”

O almeno, ne era quasi del tutto certo: non pensava di poter avere alcuna certezza.

Il dolore al petto era ormai quasi lancinante, la visione si stava nuovamente offuscando, e temeva di non avere via di scampo, che ci fosse solo la morte ad attenerlo. Sapeva che non sarebbe accaduto, però.

Conviveva con saltuari attacchi di panico, di cui pochi o nessuno erano a conoscenza, da quando era tornato da quella terribile guerra tanti anni prima. Aveva visto l’orrore, la morte, il sangue, aveva sentito quel sapore, quell’odore troppe volte per poterlo dimenticare… e poi c’era stata quella volta, quella maledetta volta che lui non avrebbe mai dimenticato, per nessun motivo al mondo. I suoi amici, I suoi compagni, morti, come pure i loro nemici, e lui, che camminava, barcollava più morto che vivo in mezzo ai loro resti, avvolto da una nebbia, a malapena consapevole di essere un umano,  di essere vivo, la sua fidata compagna in mano, pronta… ma lui era rimasto solo, e lei aveva perso la sua utilità, divenendo una mera appendice del suo essere, che negli anni mai lo aveva abbandonato.

“Ascolta, la scientifica deve esaminarti, quindi non posso darti nulla da metterti addosso, ti chiedo solo di avere ancora un po’ pazienza. Ci vorrà solo un attimo.” Sentì il freddo metallico delle manette mentre gli venivano messe ai polsi, e la bella investigatrice lo aiutò ad alzarsi. Il suo tono era determinato, tuttavia, giusto, quasi compassionevole; era evidente che lei stava solo facendo il suo dovere. Non era una passacarte, né tantomeno rincorreva premi, denaro o promozioni: faceva quel lavoro perché ci credeva, perché desiderosa di aiutare la gente- la gente normale, le persone comuni – ad ottenere giustizia quando tutti gli altri si ostinavano a negarla loro. “Posso leggerti di nuovo i tuoi diritti, se non hai capito o non hai sentito…”

Mentre si alzava, lui scosse il capo, e vide, per terra, in una posizione innaturale, quasi fosse stata una bambola rotta, un corpo di donna inerte, straziato fino a renderlo irriconoscibile anche a chi l’avesse amata, gli occhi spalancati – o ciò che ne rimaneva - a guardare il cielo, eppure vitrei, i capelli corti che sembravano quasi essere un’areola intorno al capo.

Non sapeva chi fosse, o forse, semplicemente, non lo ricordava: la mente in una nebbia, era confusa su cosa fosse esattamente successo nei giorni prima.

“Posso… posso fare una telefonata?” Domandò, con voce tremante. Gli sembrava quasi di essere un cucciolo, o forse un bambino. Non ricordava di essersi mai sentito così: forse non aveva mai provato una tale emozione, un tale bisogno.

“Appena saremmo arrivati al Javits Building potrai fare una chiamata al tuo avvocato. Non prima.” La poliziotta gli rispose, con calma. Le rotelle del cervello dell’uomo  iniziarono a girare: il Javits Building era la sede dell’FBI di New York- almeno adesso aveva una vaga idea di dove si stesse trovando. La nebbia non si era ancora dipanata, ma almeno aveva quel singolo punto fermo, e forse, forse sarebbe potuto partire da lì per fare luce su cosa gli fosse accaduto, e perché pensavano che fosse un omicida, anche se c’era una domanda che lo incuriosiva e a cui non riusciva a dare risposta: da quando un omicidio era un reato federale? Non se ne sarebbe dovuto occupare il dipartimento di Polizia? Cosa rendeva diversa, particolare, la morte di quella donna?

Mentre era perso nelle sue elucubrazioni mentali, tecnici di laboratorio e investigatori forensi gli si avvicinarono, prelevando residui da sotto le unghie, campioni di DNA dal cuoio capelluto, dalla bocca, fotografando ogni centimetro del suo corpo mentre, alle sue spalle, un’altra squadra stava facendo lo stesso con il corpo della donna.

Non ricuciva a smettere di farsi quelle domande: dove diavolo era, chi era quella donna, e perché l’FBI stava indagando su un omicidio?

Strinse gli occhi, cercando di portare tutto in sottofondo, di vivere solo nell’attimo, conscio solo del suo cuore che pulsava e dei suoi polmoni che si riempivano e svuotavano di aria.

Dentro. Fuori. Dentro. Fuori.

Ancora, e ancora, e ancora.

Lentamente, riprese finalmente il pieno controllo del suo intero essere.

Una donna gli porse un pantalone della tuta ed una felpa, e dei calzini per non farlo camminare scalzo, poi gli rimise le manette e lo accompagnò verso lo scintillante SUV nero, facendolo poi accomodare sul retro.

Mentre guardava il paesaggio scorrergli davanti, la mente dell’uomo andò alla sua famiglia, e si chiese se ancora la sua fidanzata, quella bellissima donna dai capelli ramati che lo aspettava a casa col sorriso ed il cuore in mano, avrebbe voluto sposarlo da lì a pochi giorni dopo aver saputo di cosa era stato accusato- e se, conoscendo il suo passato, avrebbe mai potuto credere alla sua innocenza.

Non era nemmeno certo di credere lui stesso di non aver fatto nulla… non ricordava nulla, e soprattutto, conosceva il suo passato, il tipo d’uomo che era stato, e che sarebbe potuto facilmente tornare ad essere, se lei avesse deciso di voltargli le spalle, abbandonandolo al suo triste destino di uomo solitario che non aveva nessun’altro al mondo.

Non era al suo avvocato che avrebbe telefonato, anche perché ormai era da tempo che non ne aveva più uno di fiducia, sempre che mai ne avesse avuto uno- semplicemente, alla gente piaceva dire di essere suo amico. Usa o sarai usato: non c’era forse un detto simile? Non lo aveva forse imparato lui stesso, con quell’esistenza zingara al limite della legalità, nelle tante zone grigie che abitavano il mondo?

 No, la sua telefonata, lui l’avrebbe fatta a casa. Lei avrebbe saputo indicargli a chi rivolgersi, e soprattutto, avrebbe chiamato qualcuno che si sarebbe messo a districare il bandolo di quella matassa che, seppure ancora confuso, egli era certo essere fin troppo complicata per gli standard a cui l’FBI era abituata – e che mai e poi lui da sola sarebbe riuscito a risolvere da solo.

Per quanto gli dolesse ammetterlo, aveva bisogno di aiuto. Qualcosa bolliva in pentola, ne era certo. Qualcuno doveva averlo incastrato, anche se ancora non sapeva bene il perché – di certo, le persone a cui negli anni aveva pestatoi i piedi erano parecchie, ed era almeno da quando aveva venticinque anni che aveva smesso di tenere a mente nomi, volti e numeri di chi aveva giurato vendetta, di fargliela pagare ad ogni costo.

Qualcosa che aveva visto, o di cui qualcuno dei suoi informatori gli aveva parlato? O forse qualcosa su cui stava indagando o su cui aveva indagato in passato? Solo perché da quando si era fidanzato si era dato una “tranquillizzata” ciò non voleva dire che la sua vita fosse divenuta più semplice: aveva continuato a fare quello che faceva prima, a pestare piedi a destra e manca senza fare troppa attenzione a chi ne avrebbe subito le conseguenze, anche perché, lui, non era mai stato tipo da tollerare le ingiustizie, o accettare compromessi facili.

Eppure… eppure, non gli veniva in mente nulla – non di recente, almeno - che potesse richiedere una tale soluzione così drastica, non solo per screditarlo ma addirittura toglierlo dalla piazza. Sembrava troppo… esagerato, definitivo. Che dovesse guardare al passato? Magari addirittura alla sua gioventù?

Gettò il capo all’indietro, posandolo sul poggiatesta. Forse, l’unica persona che avrebbe davvero potuto aiutarlo era l’uomo che sarebbe dovuto divenire suo cognato da lì a un paio di giorni, se le cose non fossero andate a rotoli in un battito di ciglia: Ryo Saeba, il famoso City Hunter.

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Capitolo 2
*** Domande ***


Ed eccoci qui, con la stporia che entra nel vivo e l'introduzione di facce vecchie e nuove... e sopratutto dei nostri! Vedo con piacere che il il mio trucchetto ha funzionato, e che diversi di voi hanno pensato che fosse Ryo quello che era stato arrestato e che fosse Saeko la bella poliziotta che gli punta l'arma addosso! Vi rtingrazio per il feeback e vi auguro buona lettura!

“Certo che vi siete proprio messi in un bel casino, eh?” Ryo scrollò le spalle senza nemmeno prendersi la briga di rispondere al suo interlocutore. Badge di visitatore al collo, da dietro il falso specchio ascoltava minuziosamente cosa Chris avesse da dire alla bella poliziotta, tale Agente Kay Daniels, che aveva appena fatto il suo ingresso in sala interrogatori. “Hai fatto bene a chiamarmi. La burocrazie federale può essere una brutta bestia da affrontare da soli, non la raccomanderei al mio peggior nemico.”

Ryo prestava poca o nulla attenzione a cosa il suo “amico” gli stesse dicendo: anche lui era curioso di sapere cosa il futuro cognato, Chris Barton, ex fotoreporter di guerra,  avesse da dire.

Mentre guardava le istantanee della scena del crimine, Ryo non smetteva di porgere l’orecchio alla conversazione che avveniva dentro la sala interrogatori, senza prestare attenzione invece a Patrick Jane, consulente dell’FBI, nonché alleato in un caso che, circa un anno e mezzo prima, li aveva visti affrontare, a Tokyo, un pazzo maniaco che si nascondeva dietro una presunta setta. Quel caso aveva, nel bene e nel male, stravolto le loro vite: Jane era riuscito finalmente a placare i demoni che da anni attanagliavano il suo animo, dopo la scomparsa violenta della sua prima moglie e della loro figlia, e Ryo, dopo aver quasi perso Kaori, aveva finalmente accettato di vivere quell’amore tormentato invece che continuare a rifuggirlo, nascondendosi dietro a mille scuse.

“Ammettilo: volevi solo fare il mio nome per entrare qui dentro.” Jane lo prese in giro. Appena Chris aveva potuto, aveva chiamato casa, informando Sayuri  dell’accaduto, sapendo che lei avrebbe chiesto l’intervento di Ryo, che con Kaori li aveva raggiunti per festeggiare insieme le imminenti nozze e l’arrivo previsto, da lì a qualche mese, del loro primogenito.

E Ryo, appena saputo che era all’FBI che Chris era tenuto in custodia, aveva fatto una chiamata al suo consulente di fiducia dell’FBI, Patrick Jane. Ryo si era immaginato che Jane avrebbe chiamato qualche amico, fatto il loro nome, presentato il caso a qualcuno dei piani alti, ma invece, il mentalista, che si trovava a Chicago in visita alla famiglia della moglie Teresa, si era bellamente presentato alla loro porta poche ore dopo, con un sorriso bianco accecante a trentadue denti, ed aveva finito per accompagnare Ryo nell’imponente palazzo di cristallo.

“Se avessi voluto entrare qui avrei potuto farlo anche da solo, Jane, fidati.” Ryo lo canzonò, sollevando leggermente la foto della vittima e guardandola meglio: aveva qualcosa di stranamente famigliare, anche se non riusciva a capire cosa, esattamente. Un viso che aveva visto quando viveva in America? Magari, semplicemente, assomigliava a qualcuno che aveva incontrato chissà dove, chissà quando- dopotutto, si diceva che tutti avessero almeno sei o sette persone nel globo che assomigliavano loro…

“Sì, ma non lo avresti fatto in modo legale,” Jane ribatté, abbassando la voce. Braccia incrociate, si avvicinò allo specchio e studiò attentamente Christopher, per capire se nell’interrogatorio avrebbe mentito: per ora, tutto della sua fisicità sembrava indicare che fosse sincero, ma Jane sapeva che all’ufficio di New York poco o nulla importava della sua opinione.  “Lo hanno già interrogato o questa è la prima volta?”

“Primo interrogatorio,” Ryo fece schioccare la lingua contro il palato, braccia conserte, appoggiandosi mollemente contro il muro a gustarsi la scena. “Lo hanno tenuto sulla graticola. Sai come sono certi poliziotti vecchio stampo, gli piace far cuocere lentamente i loro polli. Sperano in una confessione facile per sfinimento, e il capo di questa Daniels sembra così. Peccato che così hanno fatto il nostro gioco.”

“Già, siamo riusciti a prenderci un posto in prima fila per l’interrogatorio del tuo cognatino.”  Jane sospirò mettendosi accanto a Ryo, che sbuffò, quasi quella parola l’avesse seccato leggermente. A differenza dell’amico – gli sembrava ancora strano definire così Saeba, eppure, in un modo molto peculiare, era ciò che erano diventati dopo il loro incontro a Tokyo - lui stava prendendo la cosa molto seriamente. Anche lui, quasi vent’anni prima, era stato dove si trovava Christopher in quel momento: in una sala interrogatori, ammanettato ad un tavolo, dopo aver mangiato un panino, senza acqua da ore, sotto alle luci accecanti della sala interrogatori: tutte metodologie di una guerra psicologica studiata per far confessare i possibili colpevoli, ma che tante, troppe volte, avevano portato allo sfinimento anche di innocenti, che per poter respirare di nuovo un po’ di aria, avere il sollievo di una goccia d’acqua nelle gole arse dalla sete,  erano pronti anche a confessare di aver assassinato la madre.

“Signori,” Deakins, il capo di Daniels, una donna forse più vicina ai sessanta che ai cinquanta, magra e dal cipiglio militare, fece il suo ingresso nella stanza; mani dietro la schiena, si mise con la schiena al falso specchio, guardando i due uomini. “Spero non vi dispiaccia se vi faccio compagnia mentre assistete ad un interrogatorio nella mia unità.”

Li guardò negli occhi, sorridendo un po’ malevola, quasi a sottolineare che quel luogo era suo e di nessun altro, e che loro non erano i benvenuti: forse, non fosse stato per la buona parola messa da qualcuno che era ben più in alto di lei – e del cui nome il suo diretto superiore non aveva ritenuto di doverla informare – lei non avrebbe mai permesso che quei due “soggetti” dalla dubbia moralità, ma che a quanto sembrava avevano fornito un contributo di non poco conto a un “caso molto importante” occupassero  quel  luogo su cui, fino ad allora, lei aveva regnato sovrana.

“Mister Barton, conosceva la vittima?” Daniels domandò, calma ne tranquilla; tutto della sua fisicità era studiato per infondere pace ed un senso di sicurezza nel suo interlocutore, e Jane si chiese quanto vi fosse di vero e quanto fosse studiato ad arte.

“No, non ho la più pallida di chi fosse quella donna.” Chris abbassò il capo, tentando di grattarsi la nuca, e scosse la testa, le labbra serrate in una perfetta linea orizzontale. “Io… non ricordo nulla della notte scorsa.”

Mentre Christopher faceva quell’ammissione, il capo era basso, i pugni stretti: sembrava che si vergognasse, o che, peggio, si sentisse colpevole, o credesse di esserlo. A sentire quelle parole, ma soprattutto quel tono, Deakins sorrise compiaciuta, certa di avere ormai il caso in mano: aperto e chiuso, era un nuovo personalissimo record per lei e la sua unità, che le sarebbe valso i complimenti del Vice Direttore dell’FBI.

“Posso garantire per lui fino alle due circa,” Ryo ammise, giocherellando con una sigaretta spenta, continuando a guardare l’interrogatorio con fare falsamente disinteressato, il tono sempre un po’ sbruffone e canzonatorio. “Siamo stati ad Atlantic City a giocare al Tropiacana fino a mezzanotte circa, potrete vederci alle telecamere di sorveglianza che sono certo un posto come quelle abbia in quantità- sempre che non vagliano nascondere qualcosa. Col gioco d’azzardo non si sa mai…”

“Quindi lei e Mister Barton siete amici signor… Saeba, giusto? Giapponese?” Deakins gli domandò, con vivo interesse, mentre Ryo prese a stringere tra i denti il filtro della sigaretta spenta. “Devo farle i complimenti, non sono molti i giapponesi con un inglese eccellente come il suo.”

“L’ho incontrato per la prima volta l’altro ieri mattina, in realtà, ma le nostre fidanzate sono sorelle. Siamo arrivati qui dal Giappone per il loro matrimonio.” Ryo non si sbottonò sulle sue origini, né la ringraziò per il complimento per la lingua. Tuttavia, ammise a controvoglia, non era esattamente entusiasta di dover mettere in mezzo Kaori in quella spinosa faccenda; tuttavia, temeva che prima o poi sarebbe potuto accadere, anche perché, tecnicamente, stava fornendo un alibi al futuro cognato, o comunque ristringendo la finestra del tempo in cui quell’orrendo crimine poteva essere stato commesso, quindi quasi certamente anche Sayuri presto o tardi sarebbe stata interrogata. “Siamo arrivati a New York verso le due di notte, poi io sono tornato in albergo, e lui è andato a farsi un giro con degli amici perché volevano fare le ore piccole.”

Deakins apparve pensierosa: certamente stava pensando a chi affidar il compito di fare tutti i dovuti controlli- i ticket dell’autostrada e dei sottopassi, le telecamera di sorveglianza…

Iniziò a farsi i dovuti calcoli: Barton era stato trovato accanto al cadavere alle sei e quarantacinque minuti circa: avrebbe avuto il tempo di uccidere la donna, o qualcuno lo aveva messo lì? Solo il medico legale, indicando una più precisa ora del decesso, avrebbe potuto toglierle questo dubbio.

Per ora, però, prove e circostanze sembravano indicare lui come colpevole. La donna soppesò ciò di cui era stata informata; poi, con cipiglio militaresco, sospirò, e tornò ad interessarsi all’interrogatorio, senza prestare attenzione a Saeba, cercando, anzi, quasi di eliminarlo, quasi la sua presenza non fosse null’altro che rumore bianco.

“Christopher, non sei obbligato a rispondere a nessuna domanda, e ricorda, puoi appellarti al quinto emendamento.”* L’avvocato, un ometto sui quaranta, con gli occhialini, gli rammentò, posandogli una mano sull’avanbraccio. Christopher era arrivato fino a oltre quarant’anni senza aver mai avuto un “suo” avvocato di fiducia: se si metteva nei guai per lavoro, erano i giornali, le reti televisive, le agenzie di stampa che lo pagavano a fornirgli la difesa necessaria, e anche quando aveva divorziato da Amanda, la sua prima moglie, la cosa era stata consensuale perciò si erano limitati a lasciar fare all’avvocato di lei, gestendo la pratica da entrambe le parti…

Niente figli, niente animali, erano in affitto, era stato tutto facile ed indolore, come togliere un cerotto, ognuno si era ripreso quello che aveva prima delle nozze e quel poco che avevano preso durante il matrimonio lo avevano diviso equamente a secondo anche del valore effettivo. Amanda era stata fin troppo comprensiva, lui avrebbe lasciato tutto a lei molto volentieri. L’ultimo anno del loro matrimonio era stato difficile, lei aveva sofferto molto, e Chris aveva solo voluto una cosa, lasciarla libera di ricominciare da capo, lontano da quel fardello che lui era divenuto dopo quell’incidente in guerra.

Astringendo di denti, Chris, lo sguardo vuoto, fissò la donna davanti a lui che lo interrogava. Aveva sempre saputo, in un piccolo angolo della sua mente, che quel giorno sarebbe tornato  a fare capolino nella sua esistenza, che la felicità non sarebbe durata a lungo… e che presto o tardi avrebbe dovuto pagare caro il prezzo per aver osato sperare di essere finalmente fuggito dall’Inferno della sua mente.

 

“Non capisco una cosa, perché è l’FBI ad indagare su un omicidio? Credevo che questo genere di cose fosse di competenza della polizia…” Kaori domandò a Jane, immaginando che, essendo lui un locale ed un federale, potesse avere più facilmente risposta a quella domanda. Inoltre, non voleva apparire sciocca, ma dopotutto, tutta la sua conoscenza dei metodi di investigazione degli americani derivava dalla visione di film e serie tv, lettura di gialli e qualche chiacchierata con il buon amico Mick.

“In realtà è una mera questione di cavilli,” Jane fece spallucce, guardando le foto della scena del crimine, un occhio sempre attento che nessuno arrivasse ad interromperli. “L’omicidio è avvenuto su di un terreno di proprietà del governo federale quindi anche l’investigazione è di competenza del governo federale. “Le solite quisquilie, in una parola.”

 Kaori sospirò, sempre più incerta sul da farsi. Lei e Ryo avevano raggiunto Sayuri nel piccolo appartamento che divideva con Christopher, in attesa di trovare qualcosa di più grande una volta che la data del parto si fosse avvicinata, e adesso la donna era seduta su quello che fino a poche ore prima era stato il loro letto, abbracciando con occhi tristi il grembo colmo di vita. Oramai, chiunque poteva vedere che la giornalista era in stato interessante: i lineamenti erano stati addolciti dalla gravidanza, ed il ventre, giorno dopo giorno, diveniva sempre più pronunciato.

Un maschio: il primogenito di Christopher sarebbe stato un maschio. Solo il giorno prima, a pranzo, stavano scherzando con Kaori e Ryo di come fossero alla disperata ricerca di un nome che potesse essere adatto tanto ad un giapponese che ad un americano, ed adesso… adesso, Chris rischiava di passare il resto dei suoi giorni chiuso in una cella, senza neppure mai conoscere veramente il suo stesso sangue.

“Davvero non ricorda nulla?” La donna chiese, guardando alternativamente Ryo e Jane.

 “Zero. L’avvocato dice che è molto confuso, non riesce nemmeno a ricordare bene gli ultimi giorni. Figurati che non ricordava nemmeno che fossimo già arrivati, era convinto di essere uscito solo con i suoi amici come faceva di solito.”

Ryo spense la sigaretta nel posacenere che aveva posato sul davanzale, e guardò le strade brulicare di vita: era un quartiere tranquillo, però, adatto a crescere dei bambini, non certo come quello in cui lui e Kaori vivevano a Tokyo. Chris e Sayuri meditavano di trasferirsi, cercare magari a Manhattan, vicino al loro ufficio, ma non capiva il perché: ragazzini che correvano, che giocavano a pallone, fiori alle finestre, niente strade affollate di traffico soffocante, niente spacciatori… perché rinunciare ad un paradiso del genere?

“Credi che gli tornerà in mente cosa è successo?” la sua compagna, di lavoro e vita, gli domandò, sedendosi sul davanzale accanto a lui. Kaori vide i bambini correre dietro al pallone e sorrise, sognante, e Ryo si domandò a cosa stesse pensando; poi, lei avvertì lo sguardo del compagno su di sé, e arrossì, cercando invece di scrutare, con la coda dell’occhio, la sorella.

Approfittando di quella momentanea distrazione, Ryo sorrise, immaginando che fosse alla maternità che la ragazza stesse pensando, che stesse sognando dei figli loro. Da quando, oltre diciotto mesi prima, avevano fatto il grande passo, non avevano mai toccato l’argomento, forse perché per lei era già tanto che lui avesse accettato di vivere quel loro amore a lungo contrastato dallo stesso sweeper, ma entrambi sapevano che prima o poi uno dei due avrebbe rotto il ghiaccio al riguardo, soprattutto adesso che Sayuri era in attesa.

E comunque, Ryo lo sapeva: Kaori era nata per essere madre.

E lui stava iniziando a credere che forse, anche con quel lavoro, avere dei figli, qualcuno da amare, fosse possibile, e se le cose si fossero fatte troppo complicate, sparire, fingere la propria morte, ricominciare da capo altrove, con un nuovo nome, un passato fabbricato ad arte non era poi così complicato, come Ray Hefner stesso aveva insegnato loro.

E poi, stava diventando quasi un chiodo fisso: quasi se la vedeva, una piccola guerriera dai capelli rossi e gli occhi neri. Un bambino loro, un mix perfetto dei loro geni, qualcuno da amare come era stata amata lei, su cui riversare l’amore che lui non aveva ricevuto.

“Beh, allora?” Kaori lo chiamò, risvegliandolo da quello stato catatonico in cui era caduto mentre   fantasticava sul loro futuro. Ryo si imbarazzò un po’, come tutte le volte che capitava che Kaori lo prendesse in contropiede, si grattò nervosamente il collo, cercando di ricordare di cosa stessero parlando….. Ah, giusto. Chris non ricordava nulla e Kaori si chiedeva se avrebbe mai rammentato i fatti dei giorni precedenti.

Schiarendosi la voce, tornò all’argomento principale. 

“Beh, è difficile a dirsi. Se è stato drogato potrebbero aver usato qualcosa che gli ha bruciato del tutto i ricordi, altrimenti, piano, piano, gli ultimi giorni porrebbero tornargli in mente.” Ryo sospirò, pensieroso, chiedendosi se Jane sarebbe stato in grado di fargli avere i campioni di Chris, o anche solo i risultati delle analisi, per sapere dal Professore cosa ne pensasse. Purtroppo Ryo sapeva bene – anche da esperienza diretta- che certe droghe erano capaci di cancellare del tutto la nozione di cosa fosse accaduto, trasportare l’io in uno stato tale che chi le assumeva avrebbe potuto fare qualsiasi cosa…. Anche uccidere. E molte di quelle sostanze non erano nemmeno schedate, viste le quantità astronomiche di porcherie con cui i chimici se ne uscivano fuori ogni anno: senza sapere esattamente cosa cercare, a meno che non si trattasse di qualcosa di standard, difficilmente su un  esame basico sarebbero uscite fuori. “Se è stato drogato.” L’uomo ammise a malavoglia, mani incrociate dietro al capo.

“Cioè?” Kaori gli domandò. Che Chris fosse colpevole non le era nemmeno passato per l’anticamera del cervello: Sayuri diceva che era innocente, credeva con tutta sé stessa che lo fosse, quindi doveva essere così. Poche persone erano giudici di carattere buoni come sua sorella, che non era certo il tipo di donna da farsi inginocchiare dal primo venuto.

“Quegli agenti dell’FBI sono parecchio in gamba, anche se mi duole ammetterlo. Hanno decisamente fatto i compiti per bene.” Ryo ammise a malincuore.

“Deakins ha fatto aspettare per interrogare Chris per farlo innervosire, ma anche perché voleva notizie ed informazioni. Che ha ottenuto.” Guardò la compagna con sguardo intento, deciso, serio. Kaori quasi rabbrividì: quel Ryo era lontano anni luce da quello che lei vedeva di solito, non era il maniaco assatanato o il cretino, ma lo sweeper micidiale senza paura e senza pietà – l’angelo della morte di cui tutti le parlavano, e che lei aveva sempre pregato di non incontrare sul suo cammino. “Chris era al seguito delle truppe statunitensi in Afghanistan. Un giorno la loro unità subì un’imboscata, due kamikaze si fecero saltare, insieme a delle autobombe, mentre il loro convoglio passava attraverso un villaggetto fatto di baracche. Non sopravvisse nessuno, da ambo le parti, solo Chris, che trovarono tre giorni dopo, che vagava in mezzo ai cadaveri. Al ritorno iniziò a soffrire di Stress Post Traumatico e una notte, pensando di essere in una zona di guerra, ha quasi ucciso la moglie durante un flashback…”

“Ah!” Kaori sussultò, facendo un passo indietro, una mano al cuore. Di nuovo guardò in direzione della sorella, chiedendosi se sapesse e non le avesse detto nulla per pudore, o forse vergona, o se Chris avesse tenuto la verità sulla fine del suo matrimonio celata anche alla sua nuova compagna. “Quindi… credi che possa davvero essere stato lui?”

“Chi lo sa,” Ryo le rispose un po’ distaccato, e freddo, scrollando le spalle. “Potrebbe anche essere. Non sarebbe il primo che tornato dalla guerra fa una cazzata del genere senza nemmeno rendersene conto. Deakins sembra pensarlo, e non vorrei che si impuntasse e non facesse altre indagini. Certo, se fosse andata effettivamente così, sarebbe comunque una bella attenuante, il cognatino si farebbe qualche anno di manicomio giudiziario e poi, se non gli friggono il cervello con l’elettroshock, potrebbe essere libero come un uccellino in men che non si dica.”

La mente di Ryo andò a Deakins, a ciò che la donna aveva detto, ma soprattutto il modo: negli anni aveva visto tante, troppe volte poliziotti troppo zelanti che volevano chiudere un caso in fretta per fare bella figura o perché davvero desiderosi di togliere dalle strade dei delinquenti, granitici nelle loro opinioni… anche Kaori, da quando era divenuta City Hunter, ne aveva viste a bizzeffe di cose simili, per non parlare di tutti gli sfoghi sentiti in gioventù dal padre prima e dal fratello poi.

Il fantasma che però lei non conosceva direttamente era quello che invece a Ryo era fin troppo familiare: quello della guerra. Cambiavano gli anni, cambiava il continente, cambiavano le motivazioni, ma alla fine il risultato era sempre lo stesso.

Quanti ex compagni aveva visto, dopo gli anni della guerriglia, quando il Professore lo aveva preso con sé, cadere vittima di quel destino crudele? Ricordava di un suo ex compagno, che una notte si era svegliato nel letto di una prostituta e l’aveva massacrata a calci e pugni, perché pensava di essere stato attaccato, che lei fosse un nemico e  lo volesse uccidere. Che quello fosse stato lo stesso destino di Chris? Dopotutto, la guerra era uno sporco affare, non guardava in faccia nessuno, non le importava il colore della tua pelle, il tuo ceto sociale o il perché combattessi: non lasciava scampo, ti piegava, chiunque tu fossi, e da dovunque tu provenissi.

Ryo guardò i bambini correre in strada: loro non sapevano ancora come il mondo potesse essere crudele e sporco, e se fossero stati fortunati non lo avrebbero mai scoperto, a differenza di lui e Kaori, che nella vita avevano sofferto fin troppo, fin dalla più tenera età, vittime entrambi delle scelte di genitori degeneri.

Guardò l’orologio: a quell’ora, il partner di Daniels sarebbe dovuto essere ancora in giro a fare domande, capire la linea temporale degli eventi, mentre Jane gli aveva detto che sarebbe andato a rompere le scatole al medico legale. Lo sweeper si alzò, decidendo di raggiungerlo: forse avrebbe avuto nuove informazioni che avrebbero fatto loro comodo.

Non tanto su Chris… ma su quella misteriosa donna che l’uomo era accusato di aver assassinato. Ryo era certo di non conoscerla personalmente - lei era troppo giovane, e lui mancava da troppo tempo dagli Stati Uniti - eppure c’era qualcosa in lei di vagamente famigliare, che gli ricordava qualcuno, solo, non sapeva esattamente chi… e la cosa gli rodeva.

Perché Ryo ne aveva la certezza assoluta: quella sensazione avrebbe potuto portare alla risoluzione del caso.

 

*Il quinto emendamento della Costituzione degli Stati Uniti garantisce che ogni individuo non possa essere obbligato  a fornire informazioni pregiudizievoli e/o incriminanti per sé stesso dal Governo, permettendogli di rimanere in silenzio (una delle formule presente nel cosiddetto “Miranda”  - he il diritto di rimanere in silenzio, ha il diritto ad un avvocato…).

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Capitolo 3
*** Call me (maybe) ***


“Devo forse ricordarle che l’intralcio alle indagini è reato?” Mentre lui e Jane erano fuori dall’ufficio del coroner, Daniels, l’agente dell’FBI, di chiare origini afro-americane, li squadrò da capo a piedi, con un sorrisetto enigmatico sul viso, guardando Jane divertita: era evidente che, nella sua carriera, dovevano essersi già incontrati, o per lo meno, doveva aver sentito parlare di lui; un fatto non certo sconcertate, visto che, quando si erano scontrati a Tokyo, Mick stesso era stato ben consapevole della travagliata storia del mentalista divenuto consulente per il governo federale.

“Kay, lieto di rivederti. Come sta il fidanzatino, cerca sempre di tirare fuori dai guai il suo fratellino?” le sorrise, offrendole la mano mentre chiudeva la cartellina gialla con alcune informazioni sul caso; poi, mentre lei la stringeva, con sorriso amichevole sul viso, un sorriso intelligente, però, che mostrava quanto lei non fosse il tipo da abboccare all’amo, Jane si voltò verso Ryo. “In passato ho collaborato con l’agente Daniels e la sua unità. All’epoca aveva un illusionista come consulente. Il ragazzo mi idolatrava. Letteralmente.”

“Jane, non siamo qui per parlare di Cameron e di Jonathan.” Daniels incrociò le braccia, e prese a dondolarsi sui talloni, un po’ a disagio, e Jane si morse la lingua: a quanto sembrava, dovevano esserci problemi in paradiso. Kay adorava Jonathan, non tanto per l’effettivo contributo che dava ai casi, ma perché era stato uno dei pochi uomini che aveva incontrato che aveva capito di cosa lei avesse effettivamente bisogno: sorridere. Al mentalista era bastata un’occhiata, dopo averli incontrati, per capirlo. “Posso darvi solo limitato accesso al caso, e solo sotto la mia supervisione, o quella di Deakins. Tu ed il tuo amico non potete e non dovete andare in giro a fare indagini per conto vostro.”

“Va bene, mammina, farò il bravo bambino, prometto, parola di scout.” Jane la prese in giro, facendole una sorta di saluto militare.

“Jane, la prima cosa che Lisbon mi ha detto quando collaborammo insieme fu: non credergli mai quando giura sul suo onore di lupetto, lui non è mai stato uno scout.”  Daniels sospirò, alzando gli occhi al cielo e passando tra Jane e Ryo, pronta ad aprire la porta dell’ufficio di medicina legale. “Giuro che a volte non capisco come faccia Teresa ad avere avuto il coraggio di sposarti.”

“Meh, ho delle grandi doti persuasive, sai?” Le disse, seguendola all’interno degli stretti e asettici corridoi scarsamente illuminati, dove le luci basse rendevano l’atmosfera degna di un film horror; Jane alzò lui stesso gli occhi al cielo a quella visione spettrale: oramai era quasi vent’anni che girava il Paese con il suo lavoro, e gli uffici di medicina legale forense erano tutti uguali, quasi a coroner e medici legali piacesse dare l’idea dell’atmosfera da film horror di serie C. “L’agente Alvarez ha scoperto qualcosa?”

Mano sul pomello, la donna si voltò verso i due uomini.

“Jane…” Lo avvertì, alzando l’indice verso di lui, e guardandolo dritto negli occhi.

“Niente ingerenze, lo abbiamo capito, agente Daniels. Le sembrerà strano, ma so come trattare con gli sbirri, specie quelli bravi e carini come lei.” Ryo le disse, con tono strafottente, da seduttore incallito. “Tuttavia, devo ammettere che siamo curiosi di sapere cosa ne pensa lei.”

“Penso che suo cognato dovrebbe cercarsi un avvocato bravo, e anche molto, e chiedere  una perizia psichiatrica per scagionarlo o comunque permettergli di avere una pena ridotta.” Gli disse sinceramente, guardandolo con gli occhi colmi di compassione. “Signor Saeba, abbiamo parlato con i colleghi e gli amici di Barton. Tornati da Atlantic City hanno pensato di fare le ore piccole andando in un locale di spogliarelli, il Sapphire….”

“Uno Strip club? Apperò, a saperlo mica andavo a dormire con la mia ragazza, mi sono perso il meglio della serata!”  Ryo ironizzò, sebbene al Tropicana avesse guadagnato bei quattrini, abbastanza da fare un bel regalino a Kaori nel caso le cose si fossero messe per il meglio – dubitava che con un verdetto di colpevolezza, o il cognato dietro le sbarre, sarebbe stata molto propensa a peccaminose coccole nella SPA di qualche hotel di lusso.

Daniels lo fulminò, e poi riprese a parlare, come se non fosse stata mai interrotta. “La vittima, Amy Simmons, di anni ventidue, lavorava lì, ed è stata vista lasciare il locale con il sospettato, dopo che avevano consumato abbondanti quantità di alcolici.”

“Quindi tu e Deakins pensate che Barton sia effettivamente colpevole.” Jane sintetizzò.

“Stiamo guardando in tutte le direzioni, Jane, ma per adesso le prove sembrano indicare lui come indiziato. E comunque,” Daniels dovette ammettere, seppure a malincuore. “Non sarebbe il primo reduce con sindrome da Stress Post Traumatico che dopo essersi fatto un goccio di troppo fa una cosa del genere. Ma se è davvero colpa del PSTD, allora potrebbe servirgli come attenuante, nel caso in cui…”

Non finì la frase: cosa volesse dire era lampante a tutti, fin troppo, ripeterlo sarebbe stato solo inutile, ormai entrambi gli uomini avevano capito l’antifona: nel caso di un verdetto di colpevolezza. Tuttavia, Ryo si chiedeva a cosa sarebbe servito avere delle attenuanti: se fosse stato dichiarato colpevole, la vita di Chris sarebbe finita comunque, quello era poco ma sicuro. Sarebbe stato travolto dal senso di colpa, avrebbe sempre avuto gli sguardi puntati addosso, avrebbe perso la fiducia delle persone amate: sarebbe divenuto prigioniero di una prigione sì, ma le cui sbarre gli avrebbero attanagliato l’animo.

Guidati dalla giovane donna, lo sweeper ed il mentalista entrarono nella sala autopsie; il medico legale, un uomo atletico sui cinquant’anni, dalla folta capigliatura rossa, ricoprì il corpo della giovane donna nella sua interezza non appena li vide, risparmiando ai poveri resti di dover tollerare l’essere studiati ulteriormente da occhi indiscreti.

Braccia incrociate, si appoggiò al lavandino con il bacino, e si levò la mascherina chirurgica prima di salutare Daniels con un movimento del capo, fulminando invece Ryo e Jane, gelido: che non apprezzasse l’intromissione di quei due perfetti sconosciuti nel suo tempio era a dir poco palese. Non si trattava di senso di superiorità, ma di rispetto verso i morti, di dare loro cosa gli era stato troppo spesso negato negli ultimi istanti di vita terrena.

Daniels gli fece un cenno di assenso col capo, come a dargli l’okay per proseguire, dando ufficialità alla presenza dei due uomini al suo fianco, e l’uomo sospirò, alzando leggermente gli occhi al cielo per una quasi impercettibile frazione di secondo, ma poi si arrese, e fece il suo macabro dovere, raccontando di cosa avesse atteso alla fine della vita quella giovane donna.

“Amy Simmons, di anni ventidue, presenta profonde ferite penetranti da corpo contundete al capo, compatibili con,” e indicò il masso su un tavolo di acciaio lì accanto, sporco di sangue aggrumato e capelli. “Quel sasso, su cui abbiamo trovato campioni di sangue e capelli compatibili con quelli della vittima. Il suo assalitore l’ha colpita con tale forza da causare un’emorragia intra-cranica a seguito della quale si è verificata un’erniazione che ha portato al decesso della vittima intorno alle quattro e quarantasette del mattino…”

“Ma come siamo precisi…” Jane lo ridicolizzò, schernendolo. Il medico legale lanciò un’occhiataccia a Daniels,  lasciando trasparire quanto poco avesse apprezzato che la sua professionalità fosse stata presa per i fondelli e ridicolizzata da quell’uomo che, ai suoi occhi, era poco più di un barbaro.

“La signorina Simmons aveva un orologio che nella colluttazione con il suo assalitore è stato danneggiato, fermandosi alle quattro e quarantasette precise.” Spiegò, sintetico.

“E cos’era, svizzero per battere il secondo?” Jane continuò, nonostante lo sguardo di Daniels, così simile a quello che Teresa gli aveva lanciato tante volte,  avesse dovuto farlo desistere. Ma lui non poteva farci nulla. Adorava punzecchiare la gente, specie i medici legali.

“Giapponese, in realtà. Un Citizen.” ammise l’uomo, determinato, guardando il mentalista negli occhi con espressione divertita, quasi stessero giocando al gatto e al topo. “Simmons possedeva un orologio della Citizen, un modello chiamato Satellite Wave, il cui sistema di radio-controllo non si connette agli orologi atomici sparsi qua e là sulla superficie terrestre, ma ad un sistema di ventiquattro satelliti che orbitano intorno al pianeta, che permette di segnalare l’orario con un errore di circa un secondo ogni dieci milioni di anni.”

Daniels si limitò ad alzare un sopracciglio, e gli offrì la mano; il medico parve non capire subito, poi comprese che la donna desiderava il referto, e glielo porse, sorridendo sornione, cosa che fece alzare gli occhi al cielo alla donna, che a malapena evitò di sbuffare.

“Il laboratorio ha effettuato i tossicologici sia della vittima che dell’uomo che avete arrestato, quello di lei è praticamente pari a zero, mentre, con somma sorpresa di nessuno, quelli di lui sono alle stelle.”

“Tracce di scopolamina o GHB?” Ryo domandò mentre, da sopra alla spalla di Daniels, leggeva i risultati delle analisi.

“In quale dei due?” Il medico legale guardò la federale, quasi ad aspettare conferma da lei che poteva rispondere alla domanda, poi fece schioccare la lingua contro il palato. “Se erano stati drogati, non c’è più traccia nei loro sistemi, anche perché  sarebbe passato troppo tempo da quando avrebbero potuto assumere le sostanze a quando abbiamo raccolto i campioni, e purtroppo, a differenza di altre sostanze, non lasciano traccia nemmeno nei capelli. In compenso però ho trovato il DNA del sospettato sotto le unghie della ragazza, compatibilmente con i graffi riscontrati sulla schiena di Barton, come potete evincere dalle foto allegate al dossier, il sangue trovato sulle braccia di Barton apparteneva alla Simmons e le impronte sul masso usato presumibilmente come arma del delitto sono sempre del sospettato.”

“Altro?” la donna domandò, secca, mentre stava per girare pagina; Ryo alzò un dito, fermandola, arrivò alla fine della pagina e le fece cenno col capo di proseguire. Lei sibilò a denti stretti, girò e aspettò che il medico legale andasse avanti con le sue spiegazioni.

“C’è stato un rapporto sessuale, anche parecchio violento, anche se non posso dire se fosse consensuale o meno. Niente scambio di fluidi corporei, hanno usato un preservativo…”

“Ha trovato reazione allergica al lattice per dirlo?” Jane domandò, facendo stringere i denti a Daniels.

“No, ma come ho indicato nel rapporto dell’agente Daniels, all’interno del canale vaginale ho trovato tracce di una sostanza spermicida che viene comunemente usata per ricoprire una delle maggiori marche di profilattici sul mercato,” il medico legale sbuffò, seccato dalle intromissioni di Jane.  “e no, il profilattico non era tra le prove che mi avete portato da analizzare, e buona fortuna a trovarlo, stanotte è venuto un acquazzone e probabilmente adesso sarò a nuotare in qualche fogna insieme ai ratti.”

Daniels chiuse la cartellina; la sporse al medico ma lui fece cenno di no col capo: evidentemente, ne aveva già una copia ad uso interno. Ringraziandolo, se ne andò, seguita dai due uomini; non era ancora  fuori dalla porta quando si voltò verso di loro, e guardo Jane negli occhi.

E lo stava ancora guardando negli occhi quando offrì a Ryo un suo biglietto da visita.

“Non sono stupida, so che non mi darete retta e farete quello che volete comunque, poco importa cosa vi possa dire, e andrete avanti con le indagini per conto vostro  nonostante io vi abbia praticamente supplicati in ginocchio di non farlo. Perciò, questo è il mio biglietto.” Sbuffò un poco, tuttavia aveva come un’aria… comprensiva, quasi lei stessa sapesse che a volte la giustizia non poteva passare solo dalle mani delle forze dell’ordine. “Tanto vale collaborare ed evitare di pestarci i piedi a vicenda. Informatemi se scoprite qualcosa, e Jane, niente sciocchezze, tu ed il tuo amico vedete di stare lontani da guai. Lisbon non me lo perdonerebbe se dovesse capitarti qualcosa mentre si suppone che tu sia sotto la mia responsabilità.”

“Oh, non preoccuparti, Teresa non te ne farebbe mai una colpa. Lo sa che mi ficco nei guai per conto mio.” Le rispose lui con aria divertita, mentre finì di leggere il rapporto, memorizzando quante più informazioni poteva in quel breve arco di tempo. Esasperata, la donna afferrò la cartelletta, e allontanandosi recuperò il telefono dalla tasca della giacca blu oltremare e fece una chiamata, mentre i due uomini lasciarono il laboratorio, andando nella direzione opposta.

Una volta fuori, Ryo si accese una sigaretta, e ne offrì una al mentalista, che la rifiutò deciso.

“Allora Jane, cosa mi dici?” gli chiese, appoggiandosi pigramente al muro di mattoni. Jane mimò la sua posa, sbottonandosi il gilet e mettendosi la giacca al braccio, accaldato da quella giornata di pallido sole, che il piovasco della notte aveva reso ancora più afosa.

“Beh, le prove sono tutte contro di lui, ma non significa che sia colpevole, solo che è stato incastrato per bene. Peggiore dei casi, potrei provare ad ipnotizzarlo, vedere se riuscisse a ricordare qualcosa, ma non sarebbe ammissibile in tribunale.” Ammise, pensieroso. “Tu, piuttosto, cosa mi dici di questa storia? Se tu il detective, dopo tutto.”

Ryo sorrise, scanzonato, grattandosi il capo. Detestava quando lo chiamavano così, gli faceva strano.

Gettò la sigaretta a terra e la spense, schiacciandola con la punta della scarpa; mani incrociate dietro al capo, guardò il cielo mentre parlava: era colmo di nubi che non lasciavano presagire bel tempo.

“Cosa ne penso? Beh, che sono un mucchio di stronzate, e che qualcuno vuole incastrare Chris.” Ammise, riflettendo, cercando di capire cosa potesse essere accaduto: in tutta quella storia, c’era qualcosa che non gli tornava. “Con un tasso di alcol così  alto nel sangue non esiste che si sia fatto quella spogliarellista, a malapena poteva camminare. E comunque, ci avrò passato insieme solo poche ore, ma la gente la so inquadrare, e quel tipo pende dalle labbra di Sayuri, non l’avrebbe tradita nemmeno per salvarsi la pelle.”

“Quindi, parte delle prove lo inchiodano, e parte delle altre prove sembrerebbero indicare la sua innocenza, peccato che con il suo DNA sulla vittima sia già una condanna certa se il caso arriva in tribunale. Le giurie adorano quel genere di cose.” Jane rifletté, mani in tasca. “Quindi, adesso che si fa?”

“Hai sentito Daniels, non è stupida. Sa che indagheremo comunque. Tanto vale che vado a fare un po’ di domande in giro… per prima cosa voglio fare un salto in questo Sapphire e vedere se riesco a farmi dare i nastri di video-sorveglianza.” Ryo scrollò le spalle, sistemandosi la giacca addosso. “Ci scommetto la testa che Chris non era poi così sobrio o consenziente quando è uscito dal locale con la bella biondina.”

“Vengo con te. Tu sarai bravo ad ottenere quello che vuoi con una pistola, ma io riesco a convincere la gente a fare quello che voglio senza che nemmeno si rendano conto che stanno facendo i miei e non i loro interessi.” Jane sorrise, tronfio, soddisfatto, e baldanzoso. Fiero delle proprie capacità. “E poi, non credo che Kaori sarebbe molto felice di saperti in uno strip club da solo, e dubito che vorrebbe accompagnarti lei.”

“Ah!” Ryo rise, sonoro, forte, gettando il capo all’indietro mentre saliva sulla vecchia auto, dal lato passeggero. Era abbastanza irritante non essere in controllo, non poter tenere il volante tra le mani, ma almeno Jane era uno che alla guida ci sapeva fare, e si divertiva, non certo una nonnina nonostante il suo look vecchio stile lo facesse a volte apparire invece come un gentleman vecchio stampo. “Non crederesti ai posti in cui l’ho trascinata in passato per lavoro!”

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Capitolo 4
*** Zaffiri, brillanti e pepite d'oro ***


“Sei sicuro di voler entrare così?” Mentre si avvicinavano, a notte ormai inoltrata, verso l’ingresso del Sapphire Club, Ryo squadrò Jane, leggermente scettico. Il mentalista aveva tolto la giacca, rimanendo solamente con il gilet lasciato aperto, dandogli un’aria un po’ trasandata, ed aveva indossato un paio di occhiali da sole, assolutamente ridicoli a notte fonda, ma camminava sicuro, spalle alte e schiena dritta: la camminata classica di chi aveva denaro da spendere, potere da condividere, ma soprattutto che demarcava una totale mancanza di buon gusto o di un’etica moralista.

“Fidati, vecchio mio, so cosa sto facendo. Sono un truffatore nato. E nel peggiore dei casi, faccio il nome di mio cognato- beh, ex cognato. Danny ha affari molto proficui in tutte le bettole del paese, e amici e parenti ovunque.” Jane gli rispose, dando a Ryo una pacca sulla schiena. Lo sweeper scrollò le spalle, e mani nelle tasche dei jeans seguì il “socio di fortuna”, guardandosi bene intorno, avvertendo il peso della pistola che portava nascosta sotto alla giacca, una cosa che con la Python non gli era mai capitata – paradossale, considerato che quest’arma era estremamente leggera rispetto alla sua. Ma la sua amata Magnum era dovuta rimanere a casa, dato che difficilmente avrebbe potuto imbarcarla; non aveva creduto necessario recuperare un’arma appena sceso dall’aereo, ma appena saputo di Chris aveva chiamato Mick che aveva chiamato un amico che aveva chiamato un conoscente che aveva chiamato un tizio che gli aveva fatto avere, per l’equivalente di un rene e un occhio, un’arma e un po’ di munizioni; come souvenir, Ryo si era regalato un paio di coltelli di ceramica, nel caso gli fossero tornati utili. 

Sperò che a nessuno venisse in mente di perquisirli, e che non ci fosse un metal-detector all’entrata, altrimenti sarebbe stato fregato; certo, lui sapeva difendersi benissimo anche a mani nude, e avrebbe potuto usare uno dei coltelli, ma come aveva detto Sean Connery negli Intoccabili, portare un coltello quando si va a fare una sparatoria era da deficienti. O qualcosa del genere.

Forse dato l’orario, era ancora presto, il Sapphire era ancora tranquillo, anche fuori non c’erano code; i due uomini si avviarono verso l’ingresso, su cui spiccava un’insegna al neon blu con il nome del locale. Mentre entravano – Jane sembrava il classico tipo che aveva da spendere e spandere, e a lui l’ingresso era sempre stato garantito ovunque, complice l’aria da bel tenebroso che faceva andare in brodo di giuggiole le donne- Ryo si dette un’occhiata in giro, dicendosi che tutto sommato non era poi così tanto diverso dai tanti locali che c’erano a Kabukicho: pali dove ragazze vestite di poco o nulla ballavano, cameriere che giravano per il locale in topless su tacchi talmente vertiginosi da sembrare trampoli, spogliarelliste e lap-dancers che era lampante arrotondassero proponendo bollenti notti di sesso agli avventori, uomini che cercavano di annegare la loro solitudine, la paura di vivere  ed il senso di colpa lasciandosi trasportare da quei corpi compiacenti, perdendosi nell’alcol ed in un paio di tette.

Sorrise, malinconico, la mente che vagava, tornava al passato.

Un tempo, uno nemmeno troppo lontano, lui era stato uno di quegli uomini, e dietro lo stordimento dei sensi, rapporti fugaci e privi di emozione e coinvolgimento consumati nei privé aveva tentato di allontanare il pensiero di Kaori dalla mente e dal cuore.

Ma era stato tutto inutile: col tempo,  lei aveva prevalso. Aveva continuato a fare lo stupido in giro, a girare per locali, ma aveva smesso di rimorchiare seriamente, neanche più ci provava. Anche il sesso era divenuto tabù, la sua mente invasa da lei, dal desiderio di lei sola, dal bisogno di affondare nel corpo meraviglioso di quell’altrettanto meravigliosa creatura che lo amava con tutta se stessa, nonostante tutti i suoi tanti difetti.

E adesso… adesso nessuno avrebbe mai più osato toccarla, perché nell’ambiente si sapeva che Kaori e Ryo erano una cosa sola.

“Quindi, questo è il tipo di locale che bazzichi a Shinjuku….” Jane sovvenne, guardandosi intorno, perdendo un po’ della sua baldanza, cosa che fece sorridere Ryo, che quasi scoppiò a ridere. Il mentalista aveva scoperto che la teoria era una cosa, la pratica era un’altra, e l’uomo di mondo si era rivelato un semplice borghese che arrossiva e si vergognava per un paio di tette che non appartenesse alla sua dolce metà.

“Sì, ma ormai lo faccio solo per lavoro, se devo cercare informazioni o qualcuno di particolare.” Gli rispose con nonchalance, sorridendo ad un’audace coniglietta che casualmente gli urtò il braccio con il prorompente seno vistosamente rifatto. “Ormai sono un monogamo convinto e pure pantofolaio.”

“Ah, non ci credo nemmeno se lo vedo. Teresa ed io siamo pantofolai. Ci piace starcene sul divano a coccolarci tranquilli, mangiamo a casa, guardiamo vecchi film con Evan, questo genere di cose.” Il mentalista fece un sorrisetto malizioso, ed indicò Ryo con l’indice destro. “Tu e la bella Kaori, scommetto la mia collezione di auto vintage che in questi diciotto mesi il letto l’avete lasciato poco o nulla, e che ci avete dormito ancora meno.”

“Te l’ha mai detto nessuno che sei uno stronzetto?” Ryo borbottò, mugugnando, ingobbendosi leggermente. Era anche arrossito un po’, cosa che fece capire a Jane che aveva preso in pieno- d'altronde, raramente lui si sbagliava.

“Scherzi? Me lo dicono almeno una volta al giorno. Ma tu sei più gentile degli altri- di solito dopo che me lo hanno detto mi spaccano il naso. Non hai idea di quante rinoplastiche che ho dovuto fare negli anni. Il mio medico mi manda pure un cesto a Natale e mi ha detto che la prossima la offre lui.” Sedendosi su un divanetto di velluto rosso, le luci al neon, un leggero fumo per creare atmosfera, la musica assordante- tutte cose che Jane sapeva essere trappole studiate per far passare ai clienti il maggior tempo possibile nel locale- il mentalista, picchiettando con le dita sul bracciolo logoro, prese a guardarsi intorno, cercando la sua preda, l’anello debole che avrebbe potuto aiutarli a trovare il bandolo di quella matassa.

Un cliente abituale?

Una delle ragazze?

Una spogliarellista?

Uno dei gorilla del proprietario? Jane li studiò per bene, e decise che almeno uno dei due uomini doveva essere un infiltrato.

O magari uno dei buttafuori- o il tizio che, davanti alla porta dei bagni, faceva finta di non vendere roba?

E poi, eccolo lì, il loro cucciolo. Diede una gomitata a Ryo ed indicò una ragazza, che sedeva sulle ginocchia di quello che sembrava un pomposo texano uscito direttamente dai Simpson; vecchio, grasso, col sigaro in bocca, il boccale di birra sul tavolino, le mani lunghe e una vistosa arma sotto alla giacca – talmente vistosa che lo sweeper era certo nemmeno lui sapesse maneggiarla, se non per mettersi in mostra.

Una Colt Anaconda con una canna da otto pollici- proprio come quella che aveva suo padre l’ultima volta che si erano scontrati, su quella nave, quando la sua vita aveva finalmente preso una svolta decisiva quando le sue labbra e quelle di Kaori si erano sfiorate attraverso un vetro.

Quella era una signore pistola, mica quella cosetta che Ryo teneva nascosta sotto alla giacca.

Ryo alzò un sopracciglio, interessato. Se avesse giocato bene le sue carte, sarebbe riuscito a fregargliela senza nemmeno che il grasso gradasso se ne accorgesse, ed intanto gli avrebbe pure portato via quella puledrina spaventata che scalpitava dal bisogno di confidare le sue paure a qualcuno.

Afferrando la bottiglia di birra che aveva ordinato al bancone, Ryo fece l’occhiolino a Jane, che scrollò il capo divertito, attendendo di vedere cosa Saeba avrebbe combinato; lo sweeper si mosse, camminando incerto, quasi fosse già brillo, verso il divanetto dove il tizio stava strusciando il suo inguine molliccio contro il corpo della bella giovane, agghindata come Jessica Rabbit in versione porno, e poi, una volta raggiunto, gli rovesciò addosso la bottiglia. Il vecchio saltò in piedi, furibondo, e Ryo, parlando strascicato, lo avvicinò, braccio intorno alle spalle.

“Dai, amico, non te la prendere, siamo qui per divertirci!”

“Brutto idiota, questo me lo ha fatto un sarto a mano, hai idea di quanto costi? “ Sibilò a denti stretti. “Ma io ti rovino, sai?!”

L’uomo fece per placcare Ryo, ma lo sweeper fu più rapido; sotto lo sguardo divertito di Jane, che succhiava da una cannuccia un drink, quando l’uomo si avventò su di lui, evitò agilmente il colpo, muovendosi con le movenze di un felino. Il vecchio fece per attaccarlo, inferocito per il modo in cui il giovane lo guardava, strafottente ed impertinente, ma il nipponico fu più lesto, e con un paio di ganci ben assettati mandò il vecchio al tappeto. La security lo raccattò da terra per accompagnarlo fuori, ma prima che arrivasse all’uscita Ryo gli si avvicinò, dandogli una pacca sulla spalla, e facendo finta di nulla ne approfittò per fregargli la Colt: gli sarebbe potuta tornare utile, e comunque, meno tipi del genere giravano armati, meglio era. Solo allora tornò dalla ragazza, che stava ancora tremando. Era giovane, e Ryo provò una tenerezza incredibile nei suoi confronti, non poté fare a meno di ripensare a quando lui e Kaori si erano rincontrati e lei era entrata di prepotenza nel suo mondo – non doveva avere più di una ventina d’anni.

“Tutto bene, ragazzina?” le domandò, dolce e tranquillo, posandole una mano sulla spalla. “Vuoi un po’ d’acqua? Qualcosa di forte?”

Lei fece segno di no col capo basso, ma era chiaro quanto quell’uomo l’avesse spaventata; tremava come una foglia smossa dal vento.

Aveva avuto paura, e non certo solo per quel viscido… Jane aveva visto giusto. Quella ragazza conosceva la loro vittima, o perlomeno aveva saputo cosa era accaduto a Simmons, e la cosa l’aveva sconvolta.

“Sei un’amica di Amy, vero?” le domandò, versandole dell’acqua in un bicchiere direttamente da una bottiglia chiusa, la voce calma e pacata. La giovane spalancò gli occhi, ed il tremolio aumentò; si fece piccola, schiacciando il suo intero corpo contro il lato del divanetto opposto a quello occupato dallo sweeper, che guardava con terrore.

“Sei… sei uno sbirro?” domandò, con voce rotta, tremante.

“Sono uno che vuole capire cosa è successo davvero.” Le disse, senza muoversi dal posto, ma cercando il suo sguardo, nel tentativo di tranquillizzarla. “La conoscevi, vero?”

Fece segno di sì, rifuggendo gli occhi profondi dell’uomo, che era stato, nel frattempo, raggiunto da Jane.

“Era strana,” disse. “Già da un po’. Ma quella sera… lo era più del solito. Quando è arrivato quel tipo, non era felice come il solito, sembrava quasi triste, non come le altre volte, faceva sempre i salti di gioia quando lui arrivava. Come tutte, del resto.” Fece un sorrisetto, scrollando le spalle, mentre Ryo alzò un sopracciglio, con sguardo interrogativo. Il tipo… di chi parlavano? Forse… possibile che fosse Chris? Quindi, che stesse mentendo? Ma perché? Chi o cosa voleva coprire… delle scappatelle, un caso a cui lavorava, una delle ragazze…

“Il tipo?” Jane domandò, intromettendosi nella discussione, precedendo Ryo. “Intendi dire forse l’uomo che è stato fermato per il suo omicidio?”

“Sì,” rispose, stringendosi nelle braccia, muovendo il capo in segno di consenso. “Lui ogni tanto veniva qui, ma non era come gli altri. Sembrava una brava persona. Lui voleva solo parlare. Ed ascoltarci. Non riesco a credere che sia stato lui a farle una cosa del genere… le voleva bene, le diceva sempre che era come la sua sorellina!”

“Chi credi che possa essere strato, allora? C’era qualcuno che ce l’aveva con lei?” le domandò il mentalista, schioccandole le dita davanti allo sguardo perplesso della giovane; la sua voce si abbassò di un ottava, acquistando una qualità ed una cadenza quasi ipnotiche, che destarono un innaturale senso di pace e sicurezza nella ragazza. “Qualcosa ti è appena venuto in mente, qualcosa che non credi importante ma che potrebbe esserlo. Andiamo, lasciati andare e dicci tutto, su, con noi puoi confidarti!”

“Cosa diavolo volete?” Una profonda voce maschile sibilò alle loro spalle. Gli uomini si voltarono, trovandosi davanti un tipo sui cinquant’anni, pochi capelli, tarchiato, con profonde occhiaie. Sembrava distrutto, come se fosse in lutto, eppure percorso nel suo intero essere da una profonda rabbia. “Perché fate domande sulla mia Amy?”

“Ah, il magnaccia della fanciulla!” Jane esordì, schioccando la lingua contro il palato. Subito l’uomo lo afferrò per il colletto della camicia, sollevandolo in aria con rabbia.

“Amy non aveva un magnaccia! Lei non era una puttana!” sibilò in faccia a Jane. “Lei era la mia donna! La amavo! Tutti la amavano, e quel bastardo me l’ha portata via!”

“Sì, e magari eri pure geloso…” Ryo lo sbeffeggiò, posandogli una mano sulla spalla per fargli abbassare Jane. L’uomo eseguì, ed il mentalista rimise a posto delle immaginarie pieghe sul suo consunto gilet. “La ragazzina dice che Barton le girava intorno, qua al locale. A proposito, mi gioco la faccia che la signorina qui presente non è ventunenne…”

“Ma non scherziamo!” L’uomo non rispose, ma voltò il capo altrove. “Quel tipo era inoffensivo, anzi, adesso era parecchio che non veniva più. Volete sapere cosa ne penso? Qualcuno l’ha voluto incastrare. Avrà pestato i piedi a qualcuno e per fargliela pagare hanno messo in mezzo la mia dolce Amy!”

I due “investigatori” si guardarono, perplessi; sapevano che poteva essere così- anzi, la possibilità era più che concreta – eppure Chris continuava  a negarlo, nonostante anche chi avrebbe dovuto crederlo colpevole lo spalleggiasse, in una situazione che si ritrovava ad essere quasi paradossale.

Peccato che oltre a proclamare la sua innocenza e di non sapesse se qualcuno ce la potesse avere con lui Chris avesse anche detto fino alla nausea di non conoscere la vittima, e di non aver frequentato mai quel locale… due bugie, che una volta scoperte dai federali lo avrebbero messo in un mare di guai, compromettendo la sua credibilità.

“Quando l’ha vista per l’ultima volta?” Jane domandò, ormai abituato a fare certe domande dopo quasi vent’anni di servizio nelle forze dell’ordine.

“Quel pomeriggio,” rispose il titolare dell’establishment. “Sapete, mi sembra ancora strano sapere che non c’è più. Stamattina mi sono affacciato alla finestra di casa mia e non capivo perché non tornasse dal bar con le brioches ed il cappuccino.”

Gli uomini si guardarono, condividendo uno sguardo di intesa; erano certi che l’uomo non stesse mentendo. Sembrava affranto, in lutto. Anche se entrambi erano pienamente consapevoli che avevano visto uomini migliori fare cose ben peggiori.

“Le ragazze al club dicono che era preoccupata e nervosa.” Quella di Jane non era una domanda, ma un’affermazione, che aveva già capito essere vera. “Era successo qualcosa ultimamente?”

“Ditemelo voi.” Perese il telefono, e fece scorrere le foto, fino a che non trovò quella che voleva, e mostrò lo schermo ai due uomini; lui, con  una ragazza in costume da bagno, su una barca. “Questa era lei fino a un paio di mesi fa. Poi all’improvviso ha sentito il bisogno di rifarsi tutta e cambiare del tutto stile.”

Guardarono attentamente la foto. Senza le lenti a contatto colorate, i capelli castani, naturali, lunghi, lo sguardo sbarazzino, sembrava un’altra persona, perfino più giovane: una normale ragazzina, come tante.

“A Amy non piaceva parlare dei problemi e del passato, quando eravamo insieme, lasciavamo fuori tutto e tutti, so solo che era cambiata ultimamente, da qualche mese a questa parte. Intendo fisicamente. All’inizio pensavo che fosse colpa di Barton, ma poi ho capito che lui aveva preso Amy per una terapista, e ho scoperto che si era fatta una nuova amica. Alle ragazze diceva che questa la voleva far entrare in giri più importanti, politici, sportivi, non le mezze calzette che frequentano il mio locale.” Fece una pausa, passandosi una mano sul cranio, quasi del tutto pelato, mentre Jane e Ryo si scambiarono uno sguardo d’intesa.

Una traccia: lieve, ma era meglio di nulla.

“Qualche idea su chi sia la misteriosa samaritana?” Ryo domandò, mani in tasca dei jeans, ma l’ex compagno di Amy scosse il capo.

“Qui non si è mai vista, e Amy ne parlava il minimo indispensabile.” Sospirò, mordendosi le labbra, tese in una solida linea orizzontale. “Fidatevi, se volete un colpevole, guardate in quella direzione e non rimarrete delusi.”

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Capitolo 5
*** La morte avrà i tuoi occhi ***


Mentre stava per entrare nella saletta riservata alle conversazioni normalmente tenute tra avvocati e clienti, il cellullare di Ryo squillò; prima di consegnarlo alla guardia, lo sweeper si allontanò e rispose, anche perché vide da chi proveniva la chiamata: Daniels. 

“Il suo amico è nei guai,” gli disse lei, secca, senza tanti giri di parole. “Abbiamo scoperto che suo cognato era un cliente abituale del Sapphire e che non era la prima volta che se la faceva con una spogliarellista che arrotondava andando a letto coi clienti. Abbiamo pure alcune belle foto prese dalle telecamere di sorveglianza…”

“Di lui a letto con quelle sciacquette?” le domandò, schiena appoggiata contro il muro, sopracciglio alzato. “Ne dubito. E comunque, Kay cara, non pensi dovremmo passare a darci del tu? Dopotutto mi sembra di capire che siamo dalla stessa parte!” Quasi lei potesse vederlo, Ryo, sbruffone, fece l’occhiolino, ridacchiando, divertito dal modo in cui stava mettendo in difficoltà la  giovane guardia di sicurezza.

“Beh, intanto abbiamo foto di lui insieme a delle graziose signorine della notte, tra le quali la vittima,  e copia di transazioni con un’agenzia di escort, pagate con una carta di credito ricaricabile, collegata ad un conto intestato solo a lui presso una banca diversa da quella dove ha il conto con la mogliettina, e, indovina? L’estratto conto arrivava ad una casella postale. Se passate di qui vi faccio vedere tutto.” La donna sospirò; in sottofondo, si sentiva il rumore di fogli di carta girati- Daniels doveva essere vecchia scuola, come lui e Jane, che si affidavano alla tecnologia solo in casi straordinari.

“Le sta scopando?” Ryo le domandò senza troppi giri di parole; la guardia, un ragazzo piuttosto giovane, probabilmente al suo primo incarico, arrossì a sentirlo parlare in quel modo. “Perché se ci sta solo parlando non vuole dire nulla. Sai quanti tizi prendono baristi e lucciole per terapisti, io ero già uno di quelli! Praticamente tutte le signorine della notte di Shinjuku sapevano che avevo il cuore che sanguinava per la mia bella!”

Fece l’occhiolino alla guardia: sempre più rosso, gli ricordava tanto il caro Umibozu con quella disarmante innocenza.

“Ufficiosamente tu e Jane fate parte del collegio difensivo di tuo cognato, quindi se qualcuno lo chiede io sono obbligata a fornirvi questo materiale repertato.” La donna, dall’altra parte della linea, sospirò. “Quello che so è che non sembrano fotomontaggi.”

“Voglio comunque farli vedere a Jane ed al suo amico informatico, non si sa mai,” Ryo sospirò. Con la mano andò alla tasca dei jeans, dove teneva il pacchetto di sigarette; sapeva di non poter fumare lì, ma ne aveva voglia, e quel semplice gesto, quello sfioramento dei polpastrelli sulla cicca, era abbastanza per tranquillizzarlo un po’. “E comunque, ben fossero vere non significa nulla. Anche io nella mia città parlo con un mucchio di rifiuti e con ragazze di strada, ma non significa che me la faccio con loro o che mi scopo tutte le femmine sopra i vent’anni.”

Tra di loro, cadde il silenzio.  Fu Daniels, dopo molto, troppo tempo, a prendere la parola, la voce bassa e grave. “Ryo, non ho ancora capito esattamente cosa fai per vivere, e non mi interessa nemmeno: Jane mi dice di fidarmi, e per me tanto basta, ma lascia che ti dica una cosa. Tutti abbiamo segreti e lati oscuri che celiamo a tutti gli altri, anche le persone che amiamo di più, e tu questo tipo lo conosci solo da pochi giorni… davvero vuoi fidarti di lui?”

“Oh, ma io non mi fido di lui,” Ryo ammise. “Ma mi fido di Sayuri. Quella donna non è una stupida svampita che si lascia incantare dal primo venuto tanto facilmente, credimi.”

“Beh, allora qualcuno sapeva che lui frequentava quelle ragazze, e lo ha incastrato per bene, ma ti avverto: io inizio ad avere le mani legate. Le prove contro di lui sono schiaccianti, e il procuratore distrettuale preme perché venga spiccato un mandato d’arresto e si vada a giudizio immediato. Qui non parliamo solo più di un fermo!”

Senza aggiungere altro, Ryo riattaccò, lasciando poi il telefono nella vaschetta bianca che la timida guardia  gli porse. “Ehi, ragazzino, guarda che se sei così timido qua non farai vita lunga, sai?” gli disse scherzando, facendogli l’occhiolino, le mani nelle tasche dei jeans; poi, entrò nella sala colloqui.

Chris era già seduto ad aspettarlo, ammanettato al tavolo, viso chino.

“Tutto bene, vecchio mio?” Ryo gli domandò, retorico, lasciandosi cadere sulla sedia davanti all’uomo; Chris sembrava uno straccio; aveva anche un occhio nero, ed uno sguardo veloce alle mani rivelò nocche escoriate e leggermente insanguinate. C’era stata una rissa, ma era chiaro chi avesse avuto la meglio: lui.

Chris non rispose; strinse i denti, determinato, sbattendo i pugni chiusi sul tavolo di formica, senza guardare il “cognato”; Ryo sollevò una mano, fece per sfiorarlo, stringergli la mano per rassicurarlo o anche solo impedirgli di continuare in quella pantomima che gli avrebbe causato solo guai e catturato l’attenzione delle guardie, ma poi, ricordando le severe regole delle prigioni americane, desistette. “Chris, ascoltami bene, ti tirerò fuori da qui, va bene? Questa non è la fine, ma solo un intoppo. Sarai di ritorno da Sayuri prima che tu te ne renda conto.” Gli sussurrò.

Era vero: non si sarebbe fermato fino a che Chris non fosse stato fuori, in un modo o nell’altro. Contrariamente a quanto diceva Daniels, era certo dell’innocenza del compagno di Sayuri, che ci fosse qualcosa sotto.

“Come sta?” Chris domandò; non aggiunse altro, sapendo che Ryo avrebbe compreso di chi stette parlando.

Gli uomini innamorati erano così: con un solo pensiero nella mente, le donne del loro cuore.

“Sayuri è una donna forte, ed ha Kaori con sé adesso,” le rispose. “Potrà essere provata, ma sa che supererete anche questa.”

“E tu, invece?” Chris gli domandò, mordendosi il labbro, buttando fuori tutta l’aria che aveva. Non condivideva la fiducia della campagna, sempre che Ryo non gli stesse mentendo. “Tu cosa credi?”

Ryo lo studiò attentamente. Gambe distese sotto al tavolo, caviglie incrociate, posò i gomiti mollemente sui braccioli di quella scomoda seduta di metallo.

“Che tu sia solo un bersaglio di comodo e che ci sia sotto qualcosa di molto grosso l’ho capito pure io,” Ryo gli disse, cercando di studiare i suoi occhi per leggervi dentro una traccia di menzogna. “Ma la vera domanda è: che rapporti avevi con quella donna, e perché hai mentito?”

Ragazzina, Ryo, quella era solo una ragazzina.” Sibilò a denti stretti, guardando il “cognato” negli occhi. “Senti, va bene, la conoscevo, okay? E non era la prima volta che andavo in quel locale... e non sono certo fiero di averlo nascosto a Sayuri, ma lei, lei non avrebbe mai capito. I miei amici sapevano che ogni tanto ci facevo un salto, loro credevano cosa volevano credere,  e mi ci hanno trascinato per un ultimo hurrà. Ma non ci sono mai andato insieme, va bene? Non ho mai tradito Sayuri, né con quella ragazzina né con le altre. Non era per quello che andavo lì.”

Silenzio.

Poi, Ryo parlò. Una sola parola, ma chiara, e l’altro comprese, capì che il cognato lo stava mettendo alla prova: se avesse mentito, il suo fiuto lo avrebbe avvertito.

“Perché?”

“Non vengo da una famiglia benestante, Ryo. Anzi, tutt’altro. Avevo una sorella minore… è scappata di casa a diciassette anni, si è messa a spogliarsi nei locali di Las Vegas a diciotto, è rimasta incinta a ventuno. Non batteva, ma il suo ragazzo aveva provato a convincerla a farlo e lei lo aveva mollato, si è rifatta una vita. La ragazza successiva non è stata così fortunata, ed invece di un diploma si è trovata con una coltellata nello stomaco.” Spiegò, torturandosi le dita. “Mia sorella mi ha dato l’ispirazione. Avevo deciso di scrivere un articolo, cercare di capire queste ragazze. Perché lo fanno, perché alcune, oltre a spogliarsi, accettano di battere. Ma alla fine è diventata una cosa reciproca. Io ascoltavo loro… e loro ascoltavano me.”

La guerra. Quel fantasma che perseguitava entrambi.

“E Amy era una delle ragazze da cui andavi a confessarti…” Chris strinse le labbra in una perfetta linea retta, ed annuì. “Pensi di aver fatto arrabbiare qualcuno? Potresti aver pestato i piedi a qualche pappone, a qualche madama, e magari manco te ne sei accorto.”

“No, no, assolutamente no!” Chris rispose, certo delle proprie ragioni. “Il mio servizio era solo sulle ragazze, non andavo a scavare sui traffici, né avevo chiesto nulla ai protettori, giuro!”

“Uhm,” Ryo si batté l’indice sul mento, pensieroso. “E la ragazza, la conoscevi bene?”

“Amy? Sì, ci avevo parlato, insieme, e pure parecchie volte. Lei era la ragazza tipo che fa quel lavoro e finisce in strada, checché il suo pappone dica: figlia di una ragazza madre adolescente, mamma si mette con un poco di buono benestante che le mantiene tutte e due e garantisce un ottimo tenore di vita, peccato che lui allunghi le mani appena Amy diventa adolescente. Mammina scopre la tresca e invece di prendersela col maritino caccia la figlia di casa, che finisce sulla strada, perché pensa di essere sporca, si sente colpevole, un rifiuto…” Chris si lasciò cadere con la schiena contro la sedia, e sospirò. “La verità è che quelle ragazze ascoltano, e non giudicano, ed Amy era davvero brava, come spalla su cui piangere, ma dopo che Sayuri mi ha detto di essere incinta ho smesso di andarci. Erano mesi che non la vedevo, quando al Sapphire mi ha salutato ci ho messo un po’ a riconoscerla, si era rifatta, non sembrava neppure più lei. Forse è per questo che quando mi hanno raccattato al parco ero così confuso, non sembrava nemmeno lei... in testa avevo solo un gran caos.”

“Hai idea del perché siete andati lì quella sera?” Ryo domandò, continuando l’interrogatorio, e Chris ripeté la stessa cosa per l’ennesima volta… in quanti gli avevano già posto la stessa domanda?

“Al parco no, ma al Sapphire mi ci hanno portato i miei colleghi… Mark, anche lui frequentava quel posto, era stato lui a presentarmi Amy. Lui sapeva che ci andavo  per lavoro, ma pensava che fosse solo una scusa per, sai, provarci con le ragazze. Appena te ne sei andato mi hanno chiesto di fare una capatina al locale, in nome dei bei vecchi tempi.” Ryo sollevò un sopracciglio, interessato, quando capì che era stata proprio la sua assenza a spingere gli uomini a fare quell’ardita richiesta a Chris. “Temevano che avresti fatto la spia con Sayuri dato che stai con la sorella. Siamo arrivati lì, Amy mi ha visto, anche se io subito non l’ho riconosciuta e sono rimasto stupito, poi abbiamo chiacchierato, preso un drink… e poi il buio totale.”

“E mentre parlavate, ti ha detto niente di un’amica?” Ryo domandò, ricordando quel particolare che lo aveva colpito, la donna che secondo le colleghe di Amy era stata la causa del suo cambiamento di stile.

“Mi ha parlato di  un’amica molto speciale,  che insieme avrebbero cambiato vita…” Chris scosse leggermente il capo, cercando di ricordare il più possibile, ma la sua memoria, seppure fosse parzialmente tornata, si fermava a quando aveva bevuto con la giovane ragazza. “Pensavo parlasse di qualche volontaria che la volesse tirare fuori, che fosse riuscita dove io avevo fallito. Mi aveva pure fatto piacere. Mi ero ripromesso di chiederle di contattarmi, perché volevo sapere come sarebbe andata a finire… ma evidentemente mi sbagliavo. Forse era una madama che la voleva nella sua scuderia, chissà…”

“Quindi, tu saresti solo un capro espiatorio, e sarebbe lei quella che potrebbe aver pestato i piedi a qualcuno… al suo pappone, o alla donna che la voleva…” Ryo si massaggiò il mento, pensieroso.

Qualcosa continuava a non quadrare in quella storia assurda: perché prendersela con lui, se davvero Chris non aveva fatto nulla?

“Ryo, lo so che non mi conosci, ma io Sayuri non la tradirei mai.” Si difese l’uomo, mal interpretando il silenzio di Saeba, che nel frattempo si era alzato, salutando il cognato con un rapido gesto della mano. “Dopo la guerra, quando il mio matrimonio è andato a farsi fottere,  non pensavo che avrei trovato qualcuno che avrebbe potuto… guarire il mio animo, darmi pace. Ma lei lo ha fatto... non vado nemmeno più in terapia perché gli attacchi di panico ormai li so gestire e sono rarissimi! Con quelle donne avevo iniziato a parlarci per lavoro, poi mi sono lasciato prendere la mano, e quando avevo bisogno di sfogarmi, loro erano lì. Non potevo dire a Sayuri che ero terrorizzato dall’idea di essere padre, che il PSTD tornasse…c’è stata  al massimo qualche confidenza, degli sfoghi, ma ti giuro che non ci andavo  a letto!”

Ryo si fermò davanti alla porta prima di bussare per farsi aprire dal timido secondino, e fece un sorriso mascalzone a Chris; sentì ripetersi quell’ultima frase nella testa ancora e ancora e ancora, terribilmente familiare: gli ricordava sé stesso, gli ultimi tempi, prima del matrimonio di Umi e Miki, quando ormai era chiaro a tutti che chi regnava sul suo cuore era Kaori.  Mick era stato il suo primo confidente, ma anche alcune ragazze che lo conoscevano bene avevano saputo dei suoi dubbi, del tumulto del suo cuore, i reietti di cui lui solo si fidava, anime nere come lui.

“Allora, amico mio, mi sa che siamo più simili di quello che credevamo!”

 

“Tua sorella?” Jane domandò a Kaori appena lei gli aprì la porta, ma la giovane scosse il capo, il viso basso, mogio, e Jane comprese: Sayuri non era in casa.

Kaori non lo aveva detto, ma era facile immaginare che Chris o il suo avvocato le avessero parlato di cosa era successo, o che le stesse forze dell’ordine l’avessero interrogata al riguardo; sapere che l’uomo che si stava per sposare, l’uomo da cui si aspettava un bambino, frequentava delle escort non faceva piacere a nessuno.

La coppia di sweeper non disse nulla, ma era proprio così; desiderosa di allontanarsi dal talamo nuziale, la giornalista era andata da un’amica, volendo solo stare lontano da tutto e da tutti, non voleva nulla intorno che le potesse ricordare quello che lei stava vivendo a tutti gli effetti come un tradimento. Kaori aveva deciso di darle il suo spazio, comprendendo come potesse farle male sapere che il suo compagno le avesse tenuto nascosti quegli incontri clandestini. Certo, lui aveva assicurato che non era mai successo nulla, che non l’aveva tradita, ma aveva anche detto di non conoscere quella giovane donna, mentre adesso la verità che raccontava era un’altra.

Le due sorelle non sapevano più a cosa credere.

Ryo, Kaori e Jane avevano quindi la casa tutta per sé; si sedettero intorno al tavolo rotondo della sala, dove facevano bella mostra di sé già patatine e birre, ma soprattutto le cartelline con gli appunti sul caso. Avevano intenzione di controllare fotografie, gli appunti di Chris sul suo computer, qualsiasi cosa potesse aiutarli, ma non sembravano giungere a nulla. Avevano anche spulciato l’articolo sulle lucciole che stava scrivendo, ma nulla. Non c’erano fotografie, non c’erano veri nomi, non faceva riferimento a locali o papponi… solo dati, e curiosità, poco più di un articolo di rotocalco, niente per cui sarebbe valsa la pena uccidere qualcuno, o incastrare qualcun altro.

Sembrava che l’uomo avesse ragione: almeno, su quello era stato onesto fin dal principio.

“L’amica di Amy, sappiamo chi potrebbe essere?” Kaori domandò, ricontrollando quello che Jane aveva trascritto dell’incontro con la ragazza che lavorava al Sapphire e ciò che il “pappone” ed amante di Amy aveva detto loro successivamente. “Chris pensava potesse essere tipo una buona samaritana che voleva farla uscire dal giro, ma se invece fosse stata, non so, una protettrice? Magari voleva portare nella sua scuderia Amy, era una tale bella ragazza!”

“Sì, ma non spiegherebbe perché abbiano voluto incastrare Chris, tuo cognato ha la fedina più pulita di quella di un neonato, dannazione!” Ryo sbuffò, ciondolandosi sulla sedia e guardando il soffitto. “Porca Miseria, dovrò pure chiedere a Mick di chiamare i suoi amici della CIA per guardare se Chris ha qualche scheletro nell’armadio… Mi spenna vivo appena torniamo a casa, quella sanguisuga, con tutti i favori che gli devo!”

Il telefono di Jane squillò; pigramente, l’uomo afferrò il vecchissimo modello, a conchiglia, e rispose. Disse poco o nulla, giusto qualche sì, un paio di no, un va bene, e chiuse la telefonata senza dire arrivederci o grazie.

“Posso?” Senza aspettare risposta da Kaori, Jane afferrò il portatile su cui la ragazza stava lavorando, e digitando con due sole dita, gli indici, lentamente, mordendosi il labbro come per concentrarsi meglio, andò al suo account di posta elettronica, e non appena aprì la mail mandatagli, alzò un sopracciglio, sorridendo soddisfatto: il ragazzo era davvero in gamba, era un piccolo genio dei computer, e non capiva perché, soprattutto dopo la morte sul campo della “fidanzatina” di alcuni anni prima, lui ancora premesse per divenire un agente effettivo.

“A proposito della nostra misteriosa bionda… Wylie ha gentilmente hackerato un paio di telecamere di sorveglianza di luoghi vicini a dove Simmons aveva fatto acquisti o prelievi di denaro nelle ultime settimane, e ha trovato un paio di fotogrammi interessanti…”

Fece scorrere l’anteprima delle immagini inviategli; fotogrammi spesso di scarsa qualità, venivano da circuiti di sicurezza di negozi e bancomat, ma in tutte era chiara la presenza della vittima insieme ad una donna poco più grande di lei; in mezzo a tante immagini sgranate, però, ce n’era una che rendeva perfettamente la fisicità della donna misteriosa. Occhi azzurri, taglienti, ed un sorriso vivace, ma un po’ malizioso, con un qualcosa di minaccioso, quasi stesse tramando qualcosa.

Ryo avvicinò la mano allo schermo, incupito, e quasi lo sfiorò: c’era qualcosa di terribilmente familiare in quell’immagine, ma non riusciva a capire cosa potesse essere, eppure gli sembrava di averlo sulla punta della lingua.

“Certo che l’amichetto di Amy aveva proprio ragione…” convenne Kaori, mani giunte sotto al mento. “Lo stesso colore di capelli, lo stesso taglio, Amy aveva pure messo le lenti… anche i vestiti, sono diversi ma è chiaro che lo stile è simile. Sembra quasi di vedere uno specchio magico, di quelli del Luna park, con un’immagine leggermente deformata.”

Gli occhi. Ryo ingoiò a vuoto, fissandosi sull’ultimo fotogramma, l’immagine quasi perfettamente nitida della donna misteriosa, un primo piano. La mente vagò pressappoco al tempo in cui lui e Mick si erano incontrati, a quando, rimasto solo, aveva accettato di lavorare con l’amico. Era stato allora che aveva visto per l’ultima volta quegli occhi – occhi che un tempo aveva conosciuto molto bene.

Due persone avevano condiviso quelle iridi azzurre, un uomo e sua figlia.

Un mentore, un partner, un amico, e quella ragazzina che lo guardava come se Ryo fosse il centro del suo mondo, il suo adorato fratello maggiore, anche se non era il sangue ad unirli.

Kenny Field, il suo primo partner negli Stati Uniti, e sua figlia, Sonia, che all’epoca era stata solo una bambina.

Il collo della bottiglia che aveva in mano si frantumò, schegge di vetro miste a liquido ambrato che gli entravano nella carne, e Kaori subito fu lì a prendersi cura di lui, come aveva fatto dal primo giorno in cui era divenuta sua socia, pulendo il sangue che gli colava dalla mano con un fazzoletto che gli avvolse intorno al palmo lacerato. Eppure, Ryo non si accorse di nulla: era come se fosse insensibile a quello che gli accadeva intorno, tranne che a quell’immagine, quello sguardo, quegli occhi… per questo aveva avuto, fin dal principio, quella vaga sensazione: come se Amy gli avesse ricordato qualcuno: fin da bambina, Sonia aveva avuto i capelli con quel taglio, quel colore, e quell’esatta gradazione di azzurro, glaciale, nelle iridi. Passati così tanti anni, Ryo non aveva fatto subito il collegamento. Ma adesso capiva. Tutto aveva senso.

Aveva avuto ragione. Fin dal principio.

Chris non era mai stato il vero bersaglio: era stato sempre e solo una pedina, un piccolo ingranaggio di un gioco molto più grande di tutti loro messi insieme, quello della vendetta.

Sonia lo sapeva. Quella bambina che lo aveva amato come un fratello adessso era diventata una donna, ed aveva infine scoperto la terribile verità, che lui le aveva mentito.

Ryo strinse gli occhi, senza nemmeno sentire il dolore, e ripensò a lei, alla piccola Sonia.  Era poco più di una bambina l’ultima volta che l’aveva vista, quando l’aveva lasciata in un orfanotrofio dopo che il padre era morto, affidandogliela, e Ryo le aveva raccontato di un terribile incidente d’auto, quando in realtà la verità era ben altra.

Kenny aveva estratto la pistola per primo, e Ryo si era solo difeso; tra i due sweeper, era stato il più giovane ad avere la meglio, ma Ryo aveva comunque vissuto con il rammarico per quel dramma per anni, e a volte il ricordo ancora faceva capolino nei suoi pensieri, facendolo sprofondare nel senso di colpa.

E adesso… adesso, la figlia di Kenny era tornata, per pareggiare i conti.

Tetro, terrorizzato come mai prima di allora, Ryo alzò lo sguardo verso Kaori: ancora una volta, lei era in pericolo a causa sua. Lui aveva ucciso il padre di Sonia, la donna di certo avrebbe cercato di colpire coloro a cui lui più teneva per farlo soffrire e distruggerlo. Gli ritornò in mente una frase che gli aveva detto una volta Jane; non ricordava le parole esatte, ma il concetto era chiaro: se vuoi distruggere un uomo non lo uccidi, colpisci chi gli è caro.

Sonia aveva colpito Chris per arrivare a lui e Kaori.

Jane rimase composto al suo posto, si limitò a squadrare l’amico, concentrato. “Cosa ti è venuto in mente, Ryo?” si limitò a domandargli. “Non mentirmi, l’hai riconosciuta, me ne sono accorto. Di chi si tratta, di una ex? O una a cui tu hai pestato i piedi?”

“I suoi occhi. Ho riconosciuto i suoi occhi. Sono gli stessi di suo padre. Gli stessi che aveva da piccola. Anche se… se allora non erano così freddi.” Rispose, guardando meglio l’immagine, il cuore in gola, mentre Kaori lo fissava, rimasta a bocca aperta e senza fiato. “So chi ha ucciso Amy, e perché ha voluto incastrare Chris.”

Qualunque fosse stato il gioco di Sonia, era chiaro che il suo intento era fargliela pagare, e quale modo più poetico che togliergli ciò che di più caro aveva al mondo, proprio come lui aveva fatto con lei? La sua famiglia, i suoi affetti… loro avrebbero pagato per lui.

Aveva la netta sensazione che quegli occhi, freddi come il ghiaccio e taglienti come la lama di un coltello, non lo avrebbero lasciato più, e lo avrebbero perseguitato per il resto dei suoi giorni, in qualunque modo fosse destinato a finire il loro scontro.

“Chi è questa donna per te, Ryo?” Jane gli domandò, mentre Kaori iniziava a tremare, per la preoccupazione… ma soprattutto per la pura. Non tanto per la sua vita, ma per l’identità di quella donna. Cosa rappresentava per Ryo? Possibile che ci fosse stata qualcuna così innamorata di lui da fare una cosa del genere? O c’era sotto qualcos’altro?

“Si chiama Sonia - Sonia Field.” Lo sweeper sussurrò, guardando dritto avanti a sé. “E io ho ucciso suo padre.”

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Capitolo 6
*** Passato, Presente ***


Il vento soffiava, caldo, alzando la sabbia e l’erba secca, ed anche  l’odore di petrolio grezzo, che forte proveniva dal vicino oleodotto, bruciando i loro polmoni.

Mezzogiorno. Come in un vecchio film western di altri tempi.

Col cuore in gola, Ryo, vent’anni appena, guardò il suo mentore. “Andiamo Kenny… che diavolo significa tutto questo?”

“Si tratta semplicemente dell’orgoglio del professionista, Ryo…” L’uomo, ormai sulla cinquantina, l’occhio destro nascosto da una vistosa cicatrice, sogghignò, la mano posata sulla pistola nella fondina, facendo un passo avanti verso il suo pupillo.  “Per anni mi hanno considerato il migliore cacciatore di taglie sulla piazza, ma sto invecchiando, e non posso premettere ad un ragazzino di passarmi avanti, sarebbe un affronto intollerabile!”

Kenny fece un altro passo verso Ryo, e un altro ed un altro ancora; per ogni passo di lui, il giovane ne faceva uno indietro, cercando disperatamente nello sguardo dell’amico e mentore una risposta, un motivo valido a quella sfida.

“Non ci posso credere che sia davvero per questo che vuoi sfidarmi, Kenny!” Ryo sussurrò, cercando di placare l’animo chiaramente irrequieto e sconvolto del più anziano uomo. Le mani alzate, si rifiutava di prendere la sua fidata Magnum, compagna di tante battaglie fin dall’adolescenza. “Pensa a Sonia! Se tu morissi come farebbe senza di te?! Sei l’unica persona che ha al mondo!”

Kenny gli sorrise, una luce quasi malvagia, pazza nello sguardo. Ryo ingoiò a vuoto quando ricordò quella stessa espressione, quel ghigno… l’ultima volta che lo aveva visto, era stato sul viso dell’uomo che a lungo aveva chiamato padre, la sua unica famiglia, l’unica persona che lui avesse amato. Colui che gli aveva insegnato a non fidarsi mai, con quel tradimento che anni prima lo aveva quasi portato alla morte.

“Non sottovalutarmi, ragazzino…” Kenny affermò, tranquillo, facendo schioccare la lingua contro il palato. “Davvero credi di riuscire a vincere così facilmente?”

Ryo si fermò, immobile. Controllando il respiro ed il battito del suo cuore, squadrò ancora una volta il volto dell’uomo, alla ricerca di uno spiraglio, di una ragione.

Non ne trovò alcuna.

Sapeva cosa avrebbe dovuto fare: si trattava di sopravvivere.

“SISTEMERÒ LA TUA SUPERBIA, RAGAZZINO!” Kenny urlò con tutto il fiato che aveva in gola. Scattante come un felino, la mano andò alla fondina, e veloce si mosse verso il giovane allievo ed amico, pistola in pugno.

Due colpi echeggiarono nel silenzio di quella vallata arida, due uomini si scrutarono in volto, barcollanti.

Ryo lasciò cadere la pistola a terra, mentre si teneva saldamente il braccio destro, da cui cadeva un rivolo di sangue caldo.  Quasi fosse un automa, gli occhi spenti e privi di luce, si mosse verso l’uomo con cui aveva passato gli ultimi due anni della sua vita.

Il polmone perforato, Kenny cadde sulle ginocchia, sorridendo, gli occhi colmi di lacrime, e subito Ryo fu al suo fianco, riconoscendo nuovamente il sorriso irriverente del buon amico in quei tratti di nuovo rilassati.

“Mi spiace Kenny, io…”

“È andata bene così…” L’uomo strinse nella sua la mano di Ryo, e, occhi socchiusi, fece un lieve cenno col capo, ad indicare che era andata come doveva andare, e  non serbava rancore verso il suo pupillo. “Ho ricevuto delle minacce da parte di un’organizzazione criminale… se non ti avessi ucciso, avrebbero preso la mia piccola  Sonia.”

“Ma… è assurdo…. Perché…” Il giovane strinse i pugni; il senso di colpa per aver ferito mortalmente Kenny era reso ancora più forte dalla consapevolezza che quella morte sarebbe caduta, in ogni modo, su di lui.

“Non potevo costringere Sonia ad una vita in fuga, e quest’organizzazione…” Kenny strinse i denti, la voce si faceva sempre più flebile, il respiro corto ed affannato. “…sono troppo potenti. Non mi restava che sfidarti… e morire. Adesso che… che non sono riuscito ad eseguire i loro ordini… ma almeno… mia figlia non correrà più nessun rischio!”

“Kenny…. No! Non dire così… è assurdo!” Ryo lo supplicò, vedendo che le ultime energie stavano abbandonando l’amico.

“Ryo… vattene. Fuggi finché sei in tempo. Trova qualcuno che si occupi della mia Sonia…. E fa in modo che cresca lontano dal nostro ambiente. Non raccontarle che suo padre è morto perché non sapeva proteggerla… dille che è successo in un incidente stradale…” Guardò Ryo negli occhi, piangendo. “Promettimelo, Ryo.”

“Affidai Sonia ad un orfanotrofio gestito da un gruppo di suore, e le feci avere il denaro necessario per iniziare una nuova vita una volta che fosse stata maggiorenne, occupandomi di lei nell’ombra fino a che non ebbe compiuto diciotto anni.” Sigaretta in mano, Ryo espirò una boccata di fumo, guardando il cielo dal balcone della casa di Sayuri e Chris; Jane era in piedi di fianco a lui, Kaori invece, con una mano sul cuore e gli occhi bassi, era appoggiata con la schiena  contro la vetrata. Ormai sera, le poche stelle visibili da New York erano nascoste da un cielo plumbeo che sembrava promettere tempesta.

“L’organizzazione che voleva vederti morto…” la donna pronunciò le parole con voce bassa, strozzata, mentre sentiva premere nel profondo dell’animo le stesse emozioni che aveva provato quando lei e Ryo si stavano apprestando ad andare su quella nave ed affrontare la morte. “Si trattava… si trattava dell’Union Teope?”

“Non l’ho mai saputo.” Ryo scrollò le spalle, con una nonchalance che era lungi dal provare veramente, ma ormai uso ad indossare una maschera quando si trattava del suo passato. Colpito nel profondo, non voleva che il suo turbamento raggiungesse Kaori, causandole ulteriori sofferenze e patimenti. “Non me ne meraviglierei, ma effettivamente tra lo scontro con Kenny e l’omicidio di tuo fratello sono trascorsi più di dieci anni, veramente tanto tempo…”

“Io non ci metterei la mano sul fuoco, Ryo… tuo padre erano anni che non era più lucido, lo sai anche tu. Potrebbe aver detto a Kenny di ucciderti perché temeva che tentassi di spodestarlo, o perché vedeva in te una debolezza di cui disfarsi.” Kaori gli disse, dolcemente ma con decisione, caparbietà, avvicinandosi a lui, posandogli una mano sul petto. Gli occhi di Ryo erano scuri, privi di luce, spenti, e lei ne soffrì, comprendendo come lui stesse probabilmente ricordando quando Kaibara aveva tentato un ultimo colpo da maestro, sul finire del conflitto in Sud America, e ormai persa la fiducia di tutti i suoi uomini tranne che di una singola persona- il suo figlioccio- aveva somministrato a Ryo, con l’inganno, la polvere degli Angeli. “Che il padre di Sonia ti abbia attaccato su ordine della Union Teope o di qualcun altro, poco importa, tu ti sei solo difeso.”

Lo sweeper strinse la mano della donna nella sua, e se la portò alle labbra, baciandola, indugiando a lungo in quel contatto, respirando il profumo delicato di lei, dolce e famigliare, che lo rassicurò, rincuorandolo, calmando il suo intero essere.

“Dovresti andartene, Kaori.” le disse dolcemente, la voce bassa, colma di tristezza e rimpianto e senso di colpa; ponendo la mano sulla guancia di Kaori, la donna si lasciò andare a quel tocco, baciando la pelle ruvida del compagno, solcata dalle cicatrici di tante, troppe battaglie. “Lasciarmi qui e non voltarti più indietro. Dimenticarti di me. Farti una vita con un brav’uomo.”

“No, Ryo. E non solo perché attaccando la mia famiglia Sonia ha messo in mezzo anche me.” Lei, gli occhi colmi di lacrime, scosse il capo, guardandolo dritto in quelle orbite nere come la notte più oscura, ma che per lei sola sapevano brillare con la luce di tutte le stelle del firmamento. “Io sono la tua compagna… sono la compagna tanto di Ryo Saeba quanto di City Hunter. Voglio stare con te, e combattere con te… E se sarà necessario morire con te.”

Copiose le lacrime lasciarono i begli occhi luminosi di Kaori; Ryo le sorrise, di un sorriso velato di tristezza ma sincero, ricolmo di tutto l’amore che aveva per anni nutrito per lei e tenuto a lungo celato, e come aveva fatto quasi due anni prima nella radura, la strinse nelle braccia, affondando il naso nei morbidi ricci mentre le labbra della sua compagna sfioravano, senza malizia ma con infinita dolcezza, la vena pulsante del collo dello sweeper.

Il momento magico fu interrotto da un battere di mani; la coppia si voltò, ricordandosi improvvisamente della presenza di Jane. “Molto romantico, ma come vi avevo già detto quando ci siamo incontrati a Tokyo, non c’è assolutamente bisogno di essere così melodrammatici.” Sorridendo tronfio, fece scioccare la lingua contro i denti. “Adesso che sappiamo con chi abbiamo a che fare, trovare un piano d’azione sarà molto più facile del previsto, non lo credete anche voi? Intanto, direi di fare la cosa che preferisco quando si tratta di indagare in postriboli di perdizione come quelli in cui operava la nostra vittima…”

I due uomini si guardarono, sorridenti e complici.

“Mettere sotto torchio l’infiltrato e fargliela fare addosso!” I due uomini dissero nel medesimo istante, lasciando Kaori senza parole; Jane e Ryo stavano prendendo alla leggera quella storia, e a lei non piaceva affatto.

“L’infiltrato?” Kaori domandò, sbattendo le ciglia. Ryo e Jane annuirono all’unisono, mentre lo sweeper teneva una mano sulla spalla della sua compagna, tanto di lavoro quanto di vita.

“Proprio così! Mi gioco la mia collezione di auto storiche che c’è almeno uno sbirro che spia quel pappone rammollito da quattro soldi, e che sa tutto di tutti, magari anche qualcosa su Sonia!” Jane rispose, sorridente, riprendendo in mano la tazza di the che aveva poggiato sulla ringhiera.

Ryo fece cenno di sì col capo, poi si voltò verso Kaori. “Kaori, tu vieni con noi, non voglio saperti qui da sola!”

“Scordatelo, Ryo! Terrò la pistola a portata di mano e starò lontana da porte e finestre, ma io non ci vengo con te in uno di quei localacci che bazzichi sempre a Shinjuku!” La donna, in tutta risposta, sbuffò; braccia conserte, alzò il naso al insù, piccata. “E poi lo sai benissimo che sono capacissima di badare a me stessa! Sono o no anch’io City Hunter, eh?”

Alzando gli occhi al cielo, lo sweeper si limitò a scrollare le spalle; c’era poco da fare, sapeva quanto testarda fosse Kaori, e quanto difficile fosse farle cambiare idea una volta che si era convinta di qualcosa. E poi, l’altra metà di City Hunter aveva ragione: lei non era né ingenua né incapace. Jane lo guardò, con un’espressione rassegnata pure lui: il suo sguardo sembrava dire che lo capiva benissimo, e che con la sua dolce metà si era trovato più volte nella medesima situazione.

E comunque, Ryo aveva sempre un piano di scorta di cui lei non sapeva nulla, giusto per ogni evenienza, quindi sì: le avrebbe lasciato fare come voleva.

 

            Quella sera, lo sweeper ed il mentalista tornarono al Sapphire: era la terza volta che facevano una capatina al locale, ed ormai i buttafuori avevano imparato a conoscerli; inoltre, il capo aveva detto loro che quei due, per quanto strani, stavano cercando di capire cosa fosse davvero capitato alla dolce Amy: erano ospiti graditi nello sfarzoso locale di piacere e perdizione, almeno fin quando avessero fatto il loro dovere.

Jane e Ryo guardarono i due buttafuori che non lasciavano mai la flaccida e pallida figura di quello che si diceva essere il compagno di Amy; i due analizzarono la situazione con occhio critico, cercando di capire dai piccoli gesti, da minuscoli particolari e dalle loro micro-espressioni quali dei due potesse essere un poliziotto infiltrato, certi che si trattasse di uno di loro due - con quel lavoro, avrebbero potuto avere accesso a tutte le ragazze e a tutte le stanze del locale senza destare sospetti.

Che il poliziotto infiltrato avesse fiutato qualcosa? Non se ne sarebbero meravigliati, nonostante Daniels non sapesse nulla al riguardo di operazioni particolari in corso al Sapphire; era cosa risaputa che le task-force fossero come dei contenitori a tenuta stagna e che non condividevano informazioni se non sotto tortura – ed in questo, il Giappone era identico agli Stati Uniti - e se quindi qualcuno avesse saputo qualcosa di Amy o Sonia, non lo avrebbero certo detto a quello che Jane definiva un magnaccia da quattro soldi, ma nemmeno all’agente Daniels.

Jane chinò il capo sulla spalla: uno dei due uomini teneva una piccola pistola ad una fondina alla caviglia. Non era un granché da cui partire, ma per esperienza, gli uomini affiliati alla criminalità organizzata la pistola di riserva la tenevano molto più in bella vista per mettere in guardia chiunque pensasse di voler fare loro degli scherzi.

“Venti dollari sul rosso,” Ryo asserì offrendo una banconota al compare di guai, fissando i due sgherri del poco di buono.

“Cos’è, Ryo, non ti fidi del tuo sesto senso?” Jane replicò, sorridendo malandrino, con l’aria di chi era certo delle proprie conclusioni e a cui piaceva prendere per i fondelli il suo prossimo. Tirò fuori dalla tasca della giacca un rotolo di banconote, e lo fece vedere allo sweeper giapponese; piccolo taglio, dovevano esserci almeno cinquecento dollari lì dentro. “Punto tutto sull’omaccione sdentato con i tatuaggi.”

“Te l’ha mai detto nessuno che sei razzista? Solo perché è grosso e nero e tatuato pensi sia un poliziotto sotto copertura che se la fa con i suoi obbiettivi!” Ryo lo prese in giro. Mentre il proprietario del locale se ne stava seduto ad un tavolo, circondato da ragazze seminude che cercavano di fargli trovare consolazione tra le loro formose grazie che di naturale sembravano avere poco o nulla, i due uomini si divisero, pronti ciascuno ad approcciare il proprio bersaglio, ognuno a modo suo; Jane fece finta di, molto casualmente, andare addosso al suo obbiettivo, appena questi si fu lievemente allontanato dal grande capo.

Una spallata, tutto lì.

“Ehi, idiota, guarda dove vai!” Lo apostrofò il gigante di colore con una voce quasi sibilante. Jane fece la sua migliore espressione colpevole. 

“Oh, mi scusi, sa, ho lasciato a casa lenti ed occhiali… non volevo fare brutta figura con le ragazze, sembrare toppo un nerd… non le ho fatto male, vero?” Prese a dare colpetti alla spalla dell’uomo, quasi a volergli togliere dal petto delle immaginarie macchie di polvere, poi, con un sorriso disarmante, appena l’uomo si mise a guardarlo in faccia, Jane mosse la mano, ed afferrò la spalla del buttafuori, stringendola con presa decisa, assumendo un’espressione seria e concentrata. Non lo avrebbe ipnotizzato -  non era una cosa così facile, e soprattutto così’ veloce da fare come la gente credeva– ma a volta bastava che il soggetto lo credesse possibile per fargli sputare tutta la verità, e quel tonto era il soggetto perfetto.

 “Al mio tre schioccherò le dita, tu cadrai in uno stato di trance e mi dirai la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità.” Jane lo apostrofò, godendo di come il pomo d’Adamo del citrullo stesse andando su e giù; alzò la mano libera, contò da uno a tre e poi schioccò le dita, e proprio come aveva immaginato, l’uomo assunse un’espressione quasi vacua: ci era cascato in pieno, pensava di essere in trance.

“Allora… per chi lavori davvero?” Jane gli chiese, e appena la bocca dell’uomo prese a tremare, e lui cantò, il mentalista sorrise lieto e gaio, felice di aver avuto ragione per l’ennesima volta, anche se doveva ammettere che era stato fin troppo facile e noioso far ammettere al tizio che era un investigatore della procura, e che stavano indagando sul proprietario del club, tale Steve Antionioli, e sui suoi traffici dal Messico agli Stati Uniti. Il protettore era accusato di far entrare illegalmente nel Paese delle ragazzine, alcune anche minorenni, promettendo loro lavori puliti, ma di utilizzarle poi nei suoi locali ma soprattutto nel giro della prostituzione.

Jane guardò il tizio, piagnucolante nell’abbondante seno di una delle ragazze che gli accarezzava il cranio quasi pelato: dubitava che quel tizio fosse così furbo da mettere su un carrozzone del genere; se un traffico di schiave del sesso in quel locale c’era (e Jane non dubitava che così fosse), non era certo lui a capo dell’intera operazione, ma qualcuno dei suoi sottoposti che lavorava nell’ombra. Di Sonia, però,  non sembravano sapere nulla.

Distrattamente, il mentalista si gustò la scena di Ryo che approcciava il suo povero citrullo; il suo stile era stato leggermente diverso; fingendo di essere un po’ alticcio, aveva fatto un po’ di baccano vicino al bagno del locale, spintonando quello che aveva tutta l’aria di essere un VIP; il rosso (Callaghan, mai nome fu più irlandese) vedendo cosa stesse accadendo andò subito a vedere come porre rimedio a quell’incresciosa situazione, ma non appena prese Ryo per il bavero della giacca, lo sweeper, con un sorrisetto compiaciuto e soddisfatto ribaltò le posizioni, e lo spinse nel bagno tenendolo fermamente con un braccio bloccato dietro alla schiena, disarmandolo.

L’uomo era ancora a terra quando Ryo estrasse da dietro la schiena il suo nuovo giocattolino, l’Anaconda rubata al pezzente texano, e, Callaghan a terra, la puntò alla faccia del buttafuori. 

“Per chi lavori davvero? Sei sul libro paga di quel puttaniere o stai con gli sbirri? O magari  con Sonia Field…” Ryo fece schioccare la lingua contro il palato, osservando compiaciuto il terrore controllato riempire gli occhi dell’uomo davanti a lui.  “Dimmi per chi lavori o ti faccio un buco in testa in mezzo agli occhi, e credimi, non scherzo…”

“Non posso dirtelo… sono in incognito, indago sul vero protettore di Amy e sui suoi affari…” Callaghan lo guardò, serio e concentrato, senza mai distogliere gli occhi dalla canna: era lampante che dicesse sul serio, ma anche che Ryo non fosse un nemico, seppure gli stesse puntando addosso la canna di una pistola. “Procuratori, poliziotti, alti ufficiali, politici… sono tutti nel suo giro, ma io non posso dirti di più!”

“Ne sei sicuro? Pensaci bene…” La sicura scattò, mentre Ryo premeva, con fredda determinazione, la canna della pistola contro la fronte dell’uomo.

“Prima levami dalla testa quel cazzo di pistola, non sono così idiota da non capire che siamo dalla stessa parte!” Callaghan continuò, le mani leggermente alzate in segno di resa. Ryo sogghignò, e rimise nella fondina nascosta sotto la giacca l’arma. Offrì al poliziotto la mano, aiutandolo ad alzarsi, e Callaghan si tirò su, ripulendosi alla meno peggio i capi, prima di continuare: aveva capito che non sarebbe servito a nulla tenere nascosta la verità a quell’uomo.

“Era già tanto se Antonioli si era accorto che la sua fidanzatina aveva cambiato taglio di capelli. Quel tizio è una macchietta da quattro soldi, non sarebbe in grado di fare del male ad una mosca, ed è così stupido che nemmeno si rende conto che il suo vice controlla il giro della prostituzione in mezza Manhattan.”

“Però magari ti ha detto di controllarla... cos’è, aveva pura di Barton? Che gli rubasse la ragazza?” Ryo gli domandò. Braccia incrociate, teneva la schiena appoggiata al muro.

“No, Barton era inoffensivo…” Callaghan scosse lievemente il capo. “Lui è una vittima di qualche complotto, proprio come Amy.”

“E chi l’avrebbe ordito questo fantomatico complotto, secondo voi?” Ryo lo guardò con un’espressione che la diceva lunga su quanto credesse a quella versione, e che c’era qualcosa che non tornava. Era come se stessero tutti cercando di ricreare lo stesso puzzle, ma nessuno di loro avesse la figura completa. Era chiaro, almeno a lui, che tutta quella storia era stata ordita da Sonia, ma com’era possibile che nessuno ne sapesse nulla? “Antonioli? Lei era la sua donna, dopotutto… o magari il suo vice. Magari ha scoperto che voleva passare ad un’altra squadra.”

“Penso che lo sappiamo entrambi che Antonioli è solo un cretino con la testa bacata che pensa con l’uccello, ed il suo vice sa che ci sono pesci più appetitosi di quella ragazzetta, non rischia di mandare tutto a puttane per una come lei, nemmeno per dare l’esempio alle altre.” Callaghan sghignazzò. “E poi lo sapevano tutti qui, Amy era la ragazza di tutti e di tutte. Di gente che poteva essere incazzata o gelosa ce n’era a bizzeffe, ed approfittare di una situazione così è facile.”

“Sonia, la sua amichetta.” Ryo si limitò a dire, compiaciuto, mentre Callaghan faceva cenno di sì col capo. Come lo sweeper aveva sospettato, la polizia sapeva che Chris era innocente, ma, come un cavallo con i paraocchi, si rifiutavano di vedere oltre il loro naso, ovvero aiutare quella che per loro era la concorrenza con un altro caso.

“Se è la bionda, sì, si tratta di lei. Amy se la faceva alle spalle di Antonioli con questa da un po’. Se qualcuno ha incastrato il vostro amico, è stata lei. Ed è pure ingamba… sa come coprire le sue tracce.”

“Già, ha imparato da uno dei migliori…” Ryo sospirò, uscendo dal bagno, mani in tasca dei jeans. A quanto pareva, Sonia non era stata lontana dal giro del padre, ma aveva invece intrapreso la professione paterna: questo faceva di lei un avversaria capace e letale, ma dava a Ryo un certo vantaggio: nel giro, ci si conosceva tutti, e qualcuno avrebbe parlato, o sarebbe stato disposto ad aiutarlo. Forse. Se fosse stato fortunato.

Pochi passi, e vide Jane trotterellare verso di lui, soddisfatto e compiaciuto, e ancora con le mani in tasca alzò un sopracciglio. Vuoi vedere che…

“Il tizio ha cantato?” Gli domandò, accendendosi una sigaretta.

“Oh sì, come un usignolo!” Jane gongolò, tronfio, quasi fischiettando. “Anche il tuo ha ammesso di essere un poliziotto?”

Ryo alzò gli occhi al cielo, grattandosi il capo mentre stringeva tra i denti il filtro della bionda. “Porca miseria, ma sai che a volte sei insopportabile? Mai che ti scappi qualcosa!”

Il mentalista si limitò a scuotere le spalle con falsa noncuranza. “Se ti può essere di consolazione, nessuno dei due sa che l’altro è un infiltrato. Non so per chi lavori il tuo, ma il mio lavora direttamente per il procuratore. E…”

“E sa poco o nulla. Il mio ha giusto sospetti, ma nessuna prova. Abbiamo solo sprecato del tempo e siamo sempre al punto di partenza!” Ryo si voltò verso Antonioli, e gli fece un cenno di saluto col capo, nemmeno lui era certo del perché, poi lui e Jane presero la strada per uscire dal locale – sentiva un disperato bisogno di aria fresca, di vedere il cielo, nonostante la pioggia incessante… sapeva di aver lasciato l’Angelo della morte alle spalle, che avere al proprio fianco Kaori lo aveva cambiato, e anche solo fingere di essere ancora quell’uomo, anche solo per un attimo, era per lui faticoso, doloroso, e gli procurava un senso di repulsione quasi indescrivibile, quasi non fosse più in grado di conciliare il Ryo del passato con quello del presente.

Voleva solo tornare a casa, da Kaori, stringerla tra le braccia, perdersi nel corpo della sua dolce metà e amarla fino a che non fossero crollati per lavare via la sozzezza di quell’ambiente, e ricordare come il tocco della sua amata fosse in grado di ripulirlo, innalzarlo quasi.

Prese il telefono e con un sorriso sulle labbra digitò il numero di casa di Sayuri, dove Kaori era rimasta ad aspettarli. Dopo del tempo, troppo tempo, il sorriso svanì però dal volto di Ryo. Kaori non rispondeva… e questo poteva significare tante cose, ma qualcosa che gli bruciava nel petto gli diceva che erano guai.

“Kaori non risponde…….” Ryo sibilò chiudendo la chiamata. “Questa cosa non mi piace per nulla!”

Jane si limitò a fare cenno di sì col capo, sapendo esattamente cosa stesse passando per la testa dell’amico. Patrick aveva un solo obbiettivo: aiutare Ryo a ritrovare Kaori, qualunque cosa le fosse accaduto. E se necessario… supportarlo nella sua vendetta.

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Capitolo 7
*** RAINDROPS ALL OVER ME ***


Ryo e Jane l’avevano avvisata che avrebbero fatto tardi, che c’erano alcune cose da chiarire riguardo al locale gestito dal “pappone” di Amy. La donna, sola, si era preparata una cena veloce da consumare fredda con quello che aveva trovato nel frigo, poi si era accomodata sul divano, abbracciandosi le ginocchia e guardando nel vuoto.

Si sentiva sola… e dopo che Sayuri se n’era andata, cercando ospitalità presso un amica che le garantiva tranquillità e solitudine,  aveva iniziato ad avere freddo, un freddo che le partiva da dentro e le avvolgeva il cuore in una morsa dolorosa, e sapeva che quella sensazione, non appena la sorella avesse saputo che la donna che aveva forse incastrato Chris, e fatto crollare il castello di sotterfugi dell’uomo, era collegata a Ryo, sarebbe stato ancora peggio.

Già lo sapeva: Sayuri non li avrebbe perdonati, non sarebbe stata in grado di guardare oltre la sofferenza che le avevano involontariamente causato. Stavolta, la sorella maggiore non avrebbe più tentato di allontanarla da Ryo, né tantomeno di riallacciare i rapporti in nome del legame di sangue che le univa.

Chiudendo gli occhi, Kaori lasciò cadere la testa all’indietro. Ne avrebbe sofferto? Assolutamente sì, si era subito affezionata a Sayuri, ancora prima di accettare la loro parentela, ma allo stesso tempo, non l’aveva mai sentita veramente come famiglia, nel senso stretto della parola. Sayuri la idealizzava, la vedeva come lei voleva che Kaori dovesse essere, e non come la sorella fosse in realtà. Kaori avrebbe conservato per sempre il ricordo della giornalista nel cuore, e quell’abito, che solo una volta aveva indossato, che ancora giaceva infondo all’armadio, custodito con cura all’interno di una scatola di cartone lucido azzurro Tiffany, tra starti di carta velina e fogli profumati alla lavanda, le sarebbe sempre stato caro, fino a che avesse avuto memoria… ma alla fine dei giochi, la sua famiglia era un’altra.

Ryo.

Miki e Umibozu.

Mick. Saeko. Il Professore.

E soprattutto, il suo amato fratello. Hideyuki era la sua famiglia, lo era sempre stato, ed il fatto che ormai fossero trascorsi quasi dieci anni da quando era scomparso non lo rendeva meno tale.

Oh, fratello, aiutami tu… cosa devo fare? Si domandò, stringendo il medaglione che aveva al collo, un regalo di Ryo per il loro primo mese insieme: era lo stesso medaglione che Yuko aveva trovato fortuitamente, ancora bambina, quando Ryo l’aveva salvata, e che lui, anni dopo, si era ripreso di nascosto. Ryo le aveva raccontato che gli era stato donato da una donna di un villaggio in cui Kaibara ed il resto della “ciurma” si erano fermati per diversi mesi. Quella matrona si era affezionata a Ryo, all’epoca solo ragazzino. Gli aveva domandato cosa lo tenesse legato a Kaibara, e perché non si fermasse lì con lei; lui si era limitato ad abbassare il capo e scuoterlo, lieve, mentre guardava il suo padre putativo prepararsi a spostare la sua armata personale verso altri lidi, negli occhi uno sguardo che riusciva a racchiudere in sé tanti, troppi sentimenti: gratitudine, speranza, tristezza, delusione, paura…

La donna aveva capito: mai Ryo avrebbe tradito quell’uomo, una cui parola poteva salvare o colonnare quel ragazzo. Lei gli aveva scompigliato i capelli, come fosse stato un qualsiasi ragazzino, e gli aveva dato quel ciondolo, perché sui ricordasse di lei, e di chi era nel profondo – il bambino con il cuore grane che sapeva ancora sperare.

Per questo Ryo lo aveva donato a Kaori: perché ricordasse chi era davvero lui… non tanto City Hunter, ma per prima cosa, Ryo- il suo Ryo.

Persa nei suoi pensieri, nell’oscurità della stanza in cui si trovava, la donna sentì a malapena un rumore provenire dall’ingresso, un ticchettio regolare… tacchi, si rese subito conto. Si concentrò per capire con chi avesse a che fare, ma nulla tradiva la natura dell’intruso: di certo non era Sayuri, incapace di celare la sua aura in quel modo.

Temeva di sapere fin troppo bene di chi si trattasse.

Con uno scatto, fece per alzarsi dalla sua posizione, nel tentativo di raggiungere la camera da letto, dove Ryo le aveva lasciato un’arma per difendersi, ma appena scavalcato il divano, avvertì un dolore al capo, e la visione si fece appannata. Inginocchiata a terra, provò ad alzarsi, ma lo scatto di una pistola le fece cambiare idea.

Sollevò il capo, mentre il sangue le colava negli occhi e l’interruttore scattava, accendendo il lampadario: davanti a lei stava una donna, bellissima, giovane, biondi capelli corti e dagli occhi glaciali.

La stessa donna del video.

“Alla tua sorellina nessuno ha detto che se hai il fidanzatino in gattabuia conviene cambiare la serratura? Non si sa mai chi potrebbe impossessarsi di una copia delle chiavi…” Strafottente, fece roteare nell’aria le chiave, il dito indice destro nell’anello.

“Sonia.” Kaori sussurrò,  e la donna le sorrise con malcelato orgoglio.

“Ciao Kaori… ho sentito tanto parlare di te, sai? Nel giro lo sanno tutti che sei la donna di Ryo…” Le disse sogghignando, inclinando leggermente il capo di lato. Fece un passo in direzione di Kaori, e le puntò la pistola contro il cranio, premendo con forza sulla pelle della fronte. Kaori avvertì il metallo freddo della canna, ma strinse i denti, rifiutandosi di dare questa soddisfazione alla donna: non si sarebbe mostrata debole, avrebbe dimostrato di essere all’altezza del nome di City Hunter.

“Maledetta… hai fatto tutto… per cosa, far soffrire me e Ryo?” Kaori sibilò. “E perché, poi? Vuoi sfidarlo? Sei una stupida se credi di poterlo battere!”

“Oh, ma lo so… Ryo è troppo bravo per chiunque, era perfino più bravo di mio padre… ma io forse riuscirò a fargli provare la stessa sofferenza che ho provato io, il dolore di perdere la persona che ama di più. Poi lo ucciderò, quando mi supplicherà di aiutarlo a raggiungerti all’inferno.” La sicura scattò, e Kaori inspirò a fondo, chiudendo gli occhi, attendendo la sua fine. Ma poi non accadde nulla, e sentì che Sonia stava reinserendo la sicura. “Ma non adesso. Adesso andiamo… vederti morire sotto ai suoi occhi sarà molto più doloroso che trovare solo il tuo cadavere. E non provare a fare scherzi, o tua sorella ne pagherà le conseguenze…ho molti amici qui in città!”

Digrignando i denti, il suo cuore avvolto da un profondo odio, Kaori si alzò, pronta ad assecondare la sua assalitrice.

Sapeva di non avere altra scelta, se non voleva che Sayuri pagasse più di quanto già non stava facendo.

 

            “Kaori!” Urlando il nome della compagna a squarcia gola, Ryo spalancò la porta dell’appartamento. Sembrava tutto a posto, ma qualcosa gli diceva che non era così; con il fiato in gola ed il battito del cuore martellante, entrò cauto nelle stanze, e poi, lo vide.

Accanto al divano, per terra. Un vaso. Sporco di sangue.

“Dannazione!” Ryo Sbattè un pugno contro il muro, ed il cartongesso cedette sotto al suo colpo, alzando una nuvola di polvere biancastra. “Siamo arrivati tardi… Sonia l’ha già presa!”

Jane non disse nulla, ma si limitò a guardarsi intorno, percorrendo le stanze guardingo, con un senso di terrore ed ansia quasi atavici che lo permeavano nel suo intero essere. Era quasi terrorizzato ad aprire le porte delle camere, temendo che lo stesso destino che il fato gli aveva messo davanti attendesse ora Ryo… Conosceva il terrore, la pena dell’amico, con cui condivideva quel dolore: forse conosceva poco Kaori, ma aveva vissuto esperienze simili… le morti di Angela e Charlotte prima, e poi Teresa, che tante volte a causa sua era stata rapita…

Quando ebbe chiuso l’ultima porta, poté finalmente tirare un sospiro di sollievo, e raggiunse lo sweeper.

“Non c’è traccia di Kaori in casa.” Jane affermò, consapevole che sarebbe stata una piccola consolazione per Ryo. “Deve avere usato una copia delle chiavi. La serratura non è scassinata, ma ho trovato tracce di una sostanza plastica bianca. Sonia deve aver fatto un calco alla meno peggio per potersi intrufolare qui indisturbata.”

“Mi gioco la testa che Sonia l’ha portata via con sé, e che Kaori è ancora viva. Se avesse voluto ucciderla, lo avrebbe fatto qui, ma vuole che io lo veda con i miei occhi.” Ryo disse con fiducia, ed un leggero sorriso sul volto. Si alzò dalla posizione in cui era, e si diresse in camera da letto. Aprì l’armadio e prese a svuotare la sacca che si era portato dietro, trovandoci al fondo un aggeggio che, a prima vista, appariva Game Boy Advance.

“Ho la netta impressione che quello non sia un vecchio modello di game Boy…” Jane gli domandò, chinandosi accanto a Ryo, che aprì l’aggeggio e lo accese.

“Ho messo addosso una trasmittente a Kaori, e se siamo fortunati Sonia non l’ha ancora capito… o non le importa di farsi trovare da noi!” Ryo fece l’occhiolino al mentalista, mentre richiudeva  l’equipaggiamento e lo metteva in tasca della giacca azzurra. “Ah, chissà come si arrabbierà la mia dolce metà quando lo scoprirà, inizierà con la sua solita tiritera che non mi fido, e che non la reputo all’altezza… però intanto chi è che la toglie sempre dai guai?”

“Ha una buona portata?” Jane gli domandò, e mentre scendevano le scale, Ryo si grattò il collo.

“Sì, non utilizza il Bluetooth, ma un sistema di posizionamento satellitare. Mica posso sempre starle sempre a massimo dieci metri di distanza!” Lo sweeper si appoggiò alla macchina di Jane, e si tirò su il colletto della giacca, accendendosi una sigaretta; i due uomini erano sotto una tettoia, protetti dall’acqua che scendeva come se avesse voluto cancellare via i mali e le ingiustizie, le brutture del mondo.

Ricontrollò l’apparecchio; la luce blu lampeggiante si muoveva: Sonia stava portando Kaori da qualche parte, sempre che non avesse preso il ciondolo gettandolo su un camion o altro.

“Jane, ascolta…” Ryo sospirò, guardando il mentalista. “Io lavoro solo in coppia con i miei partner. Qualcuno che non conosco bene, per me è solo una possibile debolezza, lo capisci, vero?”

“Sì…” Jane fece cenno di sì col capo, mentre però il suo viso si rabbuiava. Ci era passato anche lui: a Jane non era mai piaciuto il lavoro di squadra, abituato a fare tutto da solo. Non era stato in un team nemmeno con la moglie Angela, e per tanti anni la squadra del CBI era stata qualcuno da usare a suo uso e consumo quando gli faceva comodo. Perciò, chi era lui per parlare? “Sì, lo capisco, ma non significa che mi piaccia.”

“E poi…” sogghignò, guardando con un sorrisetto ed un sopracciglio alzato la lucina che si era fermata. “Sonia mi conosce, e si aspetta che io vada da solo. Sa che detesterei mettere nel mezzo un povero cristo che non centra nulla con noi.”

“E noi non vorremmo mai deluderla, vero?” Jane scosse il capo, ridacchiando. ”Sai, da bravo lupetto in questo momento mi sembrerebbe opportuno prometterti  di starne fuori…”

Ryo, mani in tasca, si limitò a sorridere, scuotendo leggermente il capo, mentre nuvolette di fumo salivano nell’aria, e la nicotina gli riempiva i polmoni.

 

Ryo parcheggiò l’auto prestategli da Jane poco fuori uno degli edifici dove Kaori era probabilmente tenuta in ostaggio; si trattava di una zona piuttosto ampia, forse industriale, ma ormai abbandonata, recintata da alte reti su cui cartelli gialli e neri intimavano agli avventori di stare alla larga, in quanto pericolante. Un tempo forse quartiere benestante, il terreno era circondato da vecchi palazzi ormai fatiscenti, su cui svettava una carnevalata di abiti e biancheria stesi, nonostante il brutto tempo; Ryo non comprese se quei palazzi fossero divenuti case do fortuna per disperati senza altra scelta, o se chi vi aveva un tempo abitato fosse scappato senza avere nemmeno la possibilità di ritirare i propri miseri averi.

Ryo saltò sulla recinzione, scavalcandola in una mossa fulminea nonostante i vestiti appesantiti dall’acqua, ed atterrò dalla parte opposta. Prese a camminare lungo le vie, i corridoi tra le varie costruzioni, guardingo, sperando con tutto sé stesso di aver avuto ragione, e che Sonia avesse deciso di uccidere Kaori solo una volta che si fossero trovati faccia a faccia: se così fosse stato, avrebbe avuto almeno una possibilità di salvare la sua compagna.

E poi, la vide.

Parcheggiata in uno spiazzo, davanti ad una saracinesca arrugginita e crepata in più punti, c’era una piccola utilitaria, a cui era appoggiata la bionda che avevano visto nelle immagini con Amy: Sonia.

Fasciata in una tuta rossa, un giubbotto di pelle dello stesso colore, si proteggeva con un ombrello, e sorrise, maligna, acida, cinica appena vide lo sweeper davanti a sé; in macchina, Ryo vide Kaori, che con le lacrime agli occhi poggiava entrambi i palmi contro il vetro, proprio come quel giorno sulla nave di Kaibara.

“Kaori!” Urlò, facendo per avvicinarsi alla macchina, ma Sonia gettò l’ombrello, e sparò un solo colpo, ai piedi di Ryo, fermandolo, mentre, all’interno del veicolo, Kaori sbatteva i pugni contro il parabrezza, disperata.

“Non così in fretta, Ryo,” la donna sogghignò, guardandolo, fredda, negli occhi. “Sai, non pensavo saresti venuto, nonostante la tua bella avesse una cimice addosso…ma a quanto pare, un po’ di sangue in fondo alle tue vene lo hai. Di mio padre non ti è importato, ma di lei, ti importa eccome!”

“RYO, TI PREGO, NON FARE STUPIDAGGINI!” La voce di Kaori irruppe nel silenzio, rotto solo dallo scrosciare della pioggia. Disperata, sentiva il suo cuore straziarsi alla visione di quello che stava accadendo. Qualunque fosse stato l’esito di quel duello…. Qualcuno sarebbe morto. Anzi, qualcuno era già perito per la folle vendetta di Sonia.

“Sonia…” Ryo, tranquillo, quasi rassegnato, le domandò, cercando di dimenticare la ragazzina che aveva conosciuto, la sorellina minore, la bambina che aveva fatto giocare, che spingeva sull’altalena; in quel momento, se voleva salvare Kaori e sé stesso, sapeva di dover mettere da parte il passato, che doveva tornare ad essere City Hunter, il letale sweeper, freddo e determinato. “Dimmi solo una cosa: come hai fatto a sapere che sono stato io ad uccidere tuo padre?”

Sonia digrignò i denti, stringendo sempre con maggiore forza la pistola, sentendo la rabbia salirle dentro: Ryo non negava. Anzi, confermava quello che le avevano detto.

“Alcuni anni fa, incontrai un uomo, era un vecchio amico tuo e di mio padre… ma soprattutto tuo.” Gli rispose, con voce sibilante, una voce così carica di odio e rancore che pareva provenire direttamente dagli inferi. I suoi occhi erano sgranati, solcati da sottili vene sanguinolente – occhi furibondi, pazzi.  “Ti dice niente il nome Shin Kaibara, Ryo?”

Alla menzione dell’uomo che lo aveva cresciuto, Ryo serrò la mascella, i pugni chiusi. La sua proverbiale freddezza venne un attimo a mancare, ed il suo cuore si tinse di nero, colmandosi di freddo odio rancoroso. 

Kaibara. Era stato lui. Era sempre lui a far soffrire coloro che avveno avuto la sfortuna di incrociare la strada di Ryo e chiamarlo amico. Quanto a lungo sarebbe ancora durato quell’inferno? Sarebbe mai finito davvero? Anche da morto, l’uomo che Ryo aveva chiamato papà lo perseguitava con la sua ombra letale, lasciando solo morte e distruzione ovunque egli fosse passato.

“Fu lui a dirmelo, circa due anni fa. Mi confessò che mi avevi ingannato, dicendomi che papà era morto in un incidente… hai anche avuto il coraggio di falsificare il suo testamento per tenermi lontano da un mondo di cui facevo parte per diritto di nascita, perché sapevi che se lo avessi scoperto mi sarei vendicata! Ma non ha fatto alcuna differenza, perché da allora mi sono allenata, e sono diventata una killer ed una cacciatrice di taglie come voi, e ti ho tenuto d’occhio da lontano per escogitare un piano…” Sguardo micidiale, pazzamente determinata, Sonya si muoveva, lenta e sinuosa, continuando il suo monologo senza mai allontanare gli occhi dallo sweeper, nella cui mente si fece sempre più chiaro il piano di Shin.

Sonia era stata informata di cosa era successo poco prima dello scontro sulla nave, in cui Kaibara aveva perso la vita. Suo padre aveva forse previsto quello sviluppo, e sembrava essersi procurato un ultimo asso nella manica da giocare al momento opportuno: la vendetta di Sonia era stata come un’assicurazione per lui, una bomba destinata, prima o poi, a scoppiare. Ed il fatto che forse proprio Kaibara aveva indirettamente causato la morte di Kenny rendeva il tutto ancora più macabro e grottesco.

“Non è stato difficile, sai? Ho scoperto che la tua donna aveva una sorellina con un fidanzato dal passato non troppo fulgido e con il vizietto di trattare le escort come terapiste. Silver Fox dice che tu fai tanto il duro ma che faresti tutto per la tua bella… e così ho deciso di provarci. Vedere se, nel caso fosse successo qualcosa al  suo cognatino, ti saresti lasciato convincere a venire qui a risolvere questa faccenduola… Ho trovato quella piccola puttanella da strapazzo, la sua cocca, e me la sono lavorata per bene. Avrebbe dovuto uccidere Barton, ma si è lasciata intenerire, così ho dovuto improvvisare. L’ho colpita fino a farle perdere i sensi, poi ho preso un altro masso e l’ho stretto nella mano del tuo amichetto, finendo il lavoro. L’ho guardata, ed è stato come guardarmi in uno specchio, Ryo, e mi sono chiesta se, dopo tutti questi anni, ti saresti fatto qualche domanda, se in qualche modo avresti rivisto me in lei…”

Interrotto il suo pazzo soliloquio, degno del peggiore criminale di bassa lega, Sonia prese la mira, e Ryo non fece alcunché, si limitò a guardarla, carico di tristezza, la mano alzata all’altezza della fondina, pronta a stringere la letale Anaconda nel palmo: se prima aveva avuto un attimo di esitazione, adesso, vedendo cosa Sonia era diventata, aveva perso ogni malizia, ed era pronto a compiere il suo dovere di angelo della morte e di spazzino del sottomondo criminale.

 “No, Ryo, no!” un altro urlo, Ryo e Sonia voltarono i visi in direzione della voce; videro Kaori, che era riuscita a forzare la serratura della macchina, correre tra le braccia di Ryo. Si strinsero, e lei nascose il volto nel suo petto, serrando nei pugni la stoffa della giacca impregnata di pioggia; poi, disperata, si voltò verso Sonia, che ancora teneva la pistola puntata verso lo sweeper, e parlò, con la voce rotta dal pianto, ma una determinazione tale che Ryo le aveva visto poche volte negli occhi infuocati. “Se è la vendetta che vuoi, uccidi me invece che lui, Sonia, ma sappi che tutto ciò che stai facendo non servirà mai a nulla!”

“Kaori, perché diavolo non sei scappata?!” Ryo le sibilò nell’orecchio, ma la donna scosse il capo. “Avanti, vattene, ti copro io!”

“No, io non scappo, Ryo! Senza di te la mia esistenza non avrebbe senso! Non ho intenzione di vivere senza di te!” Gli urlò praticamente sulle labbra, prima di voltarsi verso l’avversaria. “Perciò Sonia, se vuoi sparare a Ryo… se lo vuoi uccidere…. Dovrai uccidere anche me, ma sappi che vendicarsi non servirà a nulla, non riporterà tuo padre indietro, né cancellerà gli anni di solitudine!”

 “Ti sbagli… la vendetta ha senso eccome… E tu adesso mi hai servito su un piatto d’argento un’opportunità che non posso lasciarmi scappare!” Sibilò. Braccia distese davanti a sé, teneva bene in vista il suo obbiettivo, quella donna. Eppure… eppure c’era qualcosa che stonava, Ryo percepiva come una sottile esitazione. Paura. Senso di colpa. Ryo strinse con forza Kaori, facendo aderire la schiena della giovane contro il proprio solido petto, senza mai distogliere lo sguardo da quello della sua oppositrice.  “Gli farò provare lo stesso dolore che mi ha fatto provare lui… prima di morire, vedrà morire la donna che ama!”

“Tu non capisci il cuore di Ryo, cosa ha provato quando ha dovuto sparare a tuo padre,  al suo amico!” Kaori le spiegò, con infinita dolcezza. Il cuore di Ryo sussultò, andando alla sua amata, che ancora una volta metteva un’altra persona – un loro nemico, un assassina – davanti alla propria incolumità. Se mai avesse avuto un dubbio sul fatto che Kaori fosse un angelo, adesso, anche l’ultimo era infine sparito. “Lui è stato costretto ad uccidere tuo padre! Kenny aveva sfidato Ryo a duello, e lui ha dovuto sparare! Lui era stato messo nelle condizioni che non poteva sfuggire al ricatto di un’organizzazione criminale, che aveva minacciato di ucciderti e farti del male. Non sapeva come uscirne, così sfidò Ryo, certo che sarebbe morto… e così, tu non saresti più stata in pericolo, e saresti uscita dal giro! Non lo capisci?! Tutto quello che tuo padre e Ryo hanno fatto, l’hanno fatto per proteggerti!”

 “Mio padre… scelse di essere ucciso in duello da Saeba... per proteggere me?” Occhi sgranati, Sonia fece un passo indietro, leggermente esitante. Tentò di conciliare quello che sapeva con quello che provava, con ciò a cui, negli anni, aveva assistito. Non aveva creduto subito a quella storia, ma quell’uomo le aveva mostrato un video, e il referto autoptico della morte del padre. Quindi, doveva essere vero. “SONO TUTTE BUGIE, SI È INVENTATO TUTTO!”

“Perché non capisci quanto è stato generoso Ryo? Lui non ti disse niente per non farti soffrire, e sistemò tutto affinché tu potessi vivere una vita il più normale possibile, e poi se andò in silenzio!!” Kaori si portò una mano sul cuore, gli occhi colmi di lacrime. Cercò lo sguardo di Sonia, cercando di trasmetterle tutto quello che negli anni lei stessa aveva provato. A vent’anni, Kaori non aveva compreso il comportamento di Ryo, che le era divenuto lampante solo dopo quel bacio sulla nave. “Ryo non è un uomo che mente facilmente, non su queste cose!”

Alla mente di Sonia tornarono le parole del padre, sospirate a mezza voce la mattina della sua morte; non ci aveva mai ripensato, ma adesso, si chiedeva se quelle parole potessero assumere un nuovo significato, se fossero, in qualche modo… vere.

Ryo è un bravo ragazzo, Sonia. Qualsiasi cosa accada, fidati sempre di lui.

Lo so, Ryo mi è molto simpatico, dopo di te è la persona più gentile che conosco!

Ma le importava davvero, alla fine? Ryo aveva ucciso suo padre, e questo rimaneva un fatto. Le aveva tolto la sua famiglia. Qualunque fosse stato il motivo, l’avrebbe pagata cara, lui e la sua donna.

Prese la mira, ed iniziò a sparare con la sua semi-automatica; un colpo quasi fece centro, sfiorando il viso di Kaori, su cui spiccò una scia di sangue, grossa come una lacrima scarlatta. La pioggia intanto continuava a cadere, incessante, mentre la sweeper continuava a stringersi al suo compagno, il volto nel suo petto.

Ryo non sembrava intenzionato a lasciarla andare; il cuore alla vista del sangue gli martellava nel petto, che bruciava con la consapevolezza che sarebbero potuti entrambi perire a causa sua, la teneva tra le braccia come se Kaori fosse la cosa più preziosa e delicata del mondo – cosa che per lui era effettivamente vera.

 Investito dalla consapevolezza che, quale fosse stato il motivo, lui aveva aperto la strada a quegli accadimenti, che le sofferenze di Chris e Sayuri erano sua responsabilità, come pure la morte di Amy, Ryo si arrese al destino, e lasciò scivolare il braccio destro che impugnava la pistola.

Intanto, Sonia continuava, imperterrita, a sparare con la sua pistola, i proiettili che colpivano il selciato accendendolo di mille scintillii, quasi l’aria fosse magica tutto intorno ai due innamorati, che vivevano e respiravano l’uno per l’altra, dimentichi di tutto e tutti, mentre la pioggia faceva aderire ai loro corpi i loro abiti ormai fradici, che avevano perso del tutto la loro funzione.

Stringendo i denti, Sonia prese la mira, pronta a colpire prima Kaori, e poi, dopo, una volta che lei fosse spirata tra le braccia del suo amato, Ryo: non avrebbe sbagliato, basta esitazioni, sarebbero morti, e finalmente lei avrebbe avuto la sua vendetta… e sarebbe uscita dal giro. Avrebbe finalmente avuto quella vita normale di cui il padre e Ryo spesso e volentieri dicevano di volere per lei.

Adesso, il momento era infine giunto.

Dito premuto sul grilletto, pronta a colpire, la donna vide con la coda dell’occhio un bagliore lampeggiante provenire da uno dei vecchi palazzi circostanti il luogo del duello. Irrigidendosi, protese lo sguardo verso la fonte luminosa, mentre un fulmine si abbatteva sulla piazzola, accanto all’auto, illuminando lo spiazzo quasi a giorno. L’evento improvviso fece sussultare la donna, che emise un grido mentre faceva, inavvertitamente, un passo all’indietro. Rapido, Ryo approfittò della disattenzione di lei per alzare nuovamente la pistola, Kaori sempre stretta a lui, e sparare due colpi: il primo colpì Sonia, disarmandola, il secondo allontanò l’arma da lei, in maniera definitiva.

Il volto rigato dalla pioggia e da lacrime di rabbia per la vendetta negatele, la donna cadde sulle ginocchia, guardando, impietrita, Ryo, che la fissava quasi vuoto, privo di emozioni, continuando a far scorrere un pollice sulla pelle del collo della sua amata, nel tentativo di rassicurarla della sua presenza, che era finita, e che stavano entrambi bene.

Ancora una volta, ne erano usciti vivi.

Sonia guardò la coppia stringersi, perdersi nel proprio mondo interiore, e rosa da una rabbia ceca, primordiale, digrignò i denti, mentre la mano destra andava alla fondina che teneva nascosta sotto alla giacca. Le dita affusolate stavano per afferrare il calcio dell’arma quando una mano la afferrò per la spalla, fermandola e sbilanciandola all’indietro.

La bionda alzò lo sguardo, e si scoprì circondata, Daniels ed Alvarez le stavano puntando le loro pistole addosso, come pure alcuni degli altri agenti, mentre Jane sorrideva, tronfio, da dietro ai federali, protetto dai loro corpi, al sicuro sotto ad un ombrello blu. Fazzoletto di cotone alla mano, si avvicinò alla coppia, e offrì la pezzola alla donna, che si tamponò la ferita al viso, ringraziandolo timidamente.

Mentre gli agenti portavano via l’omicida, Ryo fece un cenno di ringraziamento al californiano, sollevando con fare interrogativo un sopracciglio. “Ma tu non avevi dato la tua parola di lupetto che ne saresti stato fuori?”

Jane si limitò a scoppiare a ridere, scuotendo lieve il capo, mentre spostava su Kaori l’ombrello.

“Perché, secondo te io sono stato negli scout?”

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Capitolo 8
*** Le strade di Shinjuku ***


...e siamo arrivati alla fine! Grazie a chi ha letto, e a chi leggerà, e sappiatelo... no, non è la fine. Ormai Patrick e Ryo a lavorare insieme ci hanno fatto il callo, e comunque si sa:  glia rchi narrativi si fanno o singoli o in trilogie! E allora, un giorno (probabilmente quest'autunno...) torneranno ia collaborare, e stavolta per aiutare il tipo di cleinte preferito dal  nostro City Hunter... una donna! E non una qualsiasi, ma l'Agente Daniels, che sarà costretta a dare la caccia al suo di consulente, Cameron Black, e al suo gemello, Jonathan,  che, con una donna misteriosa, sono alla ricerca della chiave per scoprire il tesoro nascosto dal loro bisnonno e da Houdini , una ricerca che li porterà fino a Tokyo... ma adesso, passiamo all'epilogo di questa storia!

“Ehy, ma stai ancora dormendo? Alzati che è tardi! Ma lo sai o no che ore sono?” Sorridendo, già vestita di tutto punto con un lupetto bianco e una gonna color camoscio, Kaori si lasciò cadere sul letto, accanto al compagno, e prese a fargli il solletico per farlo svegliare. Ryo, mugugnando una protesta incomprensibile, si voltò dall’altra parte, nascondendo il capo sotto al cuscino. “Ryo, dai, svegliati, io ho già ritirato la posta e sono già andata alla stazione… e c’è un XYZ nuovo di zecca! Ho appuntamento col cliente al bar del Shinsato Hotel oggi pomeriggio, magari potrebbe essere qualcosa di interessante!”

Ryo mugugnò una risposta, anch’essa intellegibile (che però la donna immaginò volesse dire qualcosa tipo Lasciami in pace che la scorsa notte ho fatto tardi con Mick, oppure non mi interessano le proposte di lavoro da parte degli uomini) e Kaori alzò gli occhi al cielo, senza però perdere il suo proverbiale sorriso: era inutile, Ryo non sarebbe cambiato mai, sarebbe stato a vita un animale notturno.

Kaori gli tirò via di dosso il sottile lenzuolo, e arrossì, imbarazzata nonostante ormai fossero anni che viveva accanto a Ryo, di cui quasi due come sua compagna di vita, quando lo trovò nudo come un verme e pronto all’azione; improvvisamente sveglio e malizioso, lo sweeper ridacchiò stupidamente, mentre cercava di abbracciare la sua donna per stamparle sul viso degli umidi baci, ma soprattutto di trascinarla su di sé. “Dai Kaori, guarda, il mio mokkori si è svegliato, hai visto? Ti ubbidisce come un cagnolino! Non lo vuoi premiare?”

“Ma, ma, Ryo, adesso…” tentò lei di divincolarsi, ma sembrava che più lei tentava di sfuggirgli, più il desiderio del suo partner si faceva sentire.

“Dai, Kaori, guarda, si ricorda perfino la prima volta che sei venuta a svegliarlo, e vuole dirti cosa voleva farti già allora! Non sei contenta, eh, eh, eh?” le disse sghignazzando, allupato. La donna rimase di sasso: per quanto potesse, a volte, credere che Ryo potesse essere serio e concentrato… c’erano dei momenti in cui tornava ad essere l’infantile ragazzino con l’erezione facile ed il desiderio assatanato fuori controllo. Il fatto che poi lui adesso se ne uscisse con quella storia dell’averla voluta già allora, dopo che per anni le aveva dato del maschiaccio, accusandola di non essere in grado di eccitarlo, la faceva andare ancora di più su di giri- e non certo nel senso positivo della cosa.

Avvertendo l’erezione premere contro il tessuto della gonna, Kaori prese da sotto alla testa di Ryo il cuscino, e glielo spiaccicò in faccia, liberandosi dalla sua morsa, innervosita dalla sua totale mancanza di professionalità e serietà. Lasciatolo solo nel letto, la donna prese a sfogliare il pacco della posta del giorno, che aveva appoggiato sul materasso: un paio di quotidiani che avrebbero letto attentamente più tardi, pubblicità, un paio di conti da pagare… e poi, una busta gialla, con affrancatura americana; sembrava avesse fatto molta strada, fosse stata sballottata da un piccolo ufficio postale all’altro, come ad impedire a chi l’avesse ricevuta di comprendere fino in fondo da dove fosse partita.

Poteva provenire da una sola persona.

Sayuri.

Le mani della sweeper presero a tremare, e quasi avesse percepito il dolore e la paura della compagna, Ryo si svegliò da quell’apparente stato di torpore, e le fu immediatamente accanto, mentre guardava, rattristata, la busta, incapace di aprirla, timorosa.

Dopo quello che era successo, una volta che le minacce di Sonia si erano rivelate per ciò che erano, promesse vuote, lei e Sayuri non si erano più parlate; sapeva che la sorella biologica la riteneva, in parte, responsabile di ciò che era accaduto a lei e Chris, che se non l’avesse cercata e trovata, se Ryo non fosse entrato con prepotenza nelle loro vite, nulla di quello che era accaduto sarebbe mai successo, ma la giovane sweeper si rifiutava di vederla così. Ryo l’aveva salvata – dalla solitudine, dal senso di incapacità che aveva provato nell’istante stesso in cui le aveva detto della morte di Hide. Le aveva dato una casa, uno scopo… una famiglia.

“Kaori?” le domandò timidamente, sfiorandole la spalla con un dito, un tocco semplice e delicato che tuttavia catturò la sua attenzione. Lei scosse il capo, e con le lacrime agli occhi aprì la busta.

C’erano solo due foto, una di un semplice matrimonio, Sayuri vestita con un abitino stile boho, davanti ad un municipio di una piccola città di provincia, forse del mid-west, e una di lei e Chris con un neonato, e null’altro; nemmeno un biglietto, nemmeno una parola, nemmeno una riga.

“Kaori…” Ryo sospirò, abbassando la mano e lasciandola cadere mollemente sul letto. “So che Sayuri ce l’ha con te perché tutta questa storia è stata colpa mia. Se tu volessi… io…. Io lo capirei, tutto qui. Lei è la tua famiglia e poi, se tu non fossi al mio fianco, non saresti sempre in pericolo, e la tua vita sarebbe molto più semplice…”

Asciugandosi le lacrime col pugno, e tirando sul naso come una bambina, la giovane donna scosse il capo, cercando di sorridere. Cercò il conforto del corpo solido del partner, cingendogli la vita con le sue esili braccia, e lui passò una mano nei capelli ramati, scompigliandoli, guadandola dolce, come se lei fosse stasta la cosa più preziosa del mondo- e per lui, lo era: lo era sempre stata.

“Ryo,  a me non interessa vivere una vita semplice se non posso farlo al tuo fianco. Amo la mia vita, questa vita e… e amo te. Sayuri potrà essere la mia famiglia di sangue, ma la conosco appena. Per me lei è una sconosciuta.” Gli disse, godendosi quelle carezze, facendo le fusa come una gattina. All’improvviso però si immobilizzò; abbassò gli occhi, ed arrossì, timida, prendendo a torcersi le dita nervosamente. “Tu sei la mia famiglia- e ormai lo sei da molti anni. E vorrei che tu lo fossi… per sempre, se lo vorrai. Se mi vorrai.”

Sollevandole il mento con un dito perché si potessero guardare negli occhi, Ryo alzò un sopracciglio, sorridendole in modo quasi enigmatico mentre le passava il pollice sulle labbra carnose. “Di solito è l’uomo che fa la proposta, sai?”

“Sì, ma se aspetto una proposta da te ho tempo di perdere altri dieci anni! Io voglio farla finché sono giovane questa cosa!” Lei gli fece la linguaccia, scrollando le spalle, sbarazzina come la ragazzina che aveva incontrato tanti anni prima: era inutile, dentro, lei sarebbe sempre rimasta la sua Sugar… e questo lui non l’avrebbe cambiato mai, per nessun motivo al mondo. Quella ragazzina lo aveva conquistato in un modo che Ryo allora non aveva capito, né pienamente compreso; la Kaori sedicenne lo aveva intenerito, quella ventenne lo aveva eccitato e sedotto, la giovane donna che era divenuta, innamoratasi di lui, lo aveva conquistato, facendo cadere tutti i muri che negli anni Ryo aveva eretto per proteggersi. “E poi mica voglio un matrimonio sfarzoso o che altro, io vorrei…” fece una pausa, e si morse il labbro cercando la parola giusta. “vorrei solo qualcosa che fosse al contempo un punto di partenza e uno di arrivo. Qualcosa di simbolico, ecco.”

Gli occhi di Kaori caddero sulla foto del nipote: non sapeva nemmeno come si chiamasse, e forse non lo avrebbe saputo mai. Tracciò i lineamenti con un’unghia, soffermandosi sugli occhi, così uguali a quelli di Sayuri, ed ai suoi, dimentica del mondo intero, anche di Ryo, che continuò ad accarezzarle i lineamenti con un tocco delicato ma eccitante allo stesso tempo.

“Sì” le disse lui, all’improvviso. Kaori alzò lo sguardo verso il compagno, che le sorrideva soddisfatto, un po’ strafottente, molto fiero di sé, e sbatté le ciglia di quei suoi grandi occhioni.

“Eh?” Ancora una volta, la donna faticava a seguire, e comprendere, i ragionamenti contorti del bel Saeba.

“Sì, ti sposo. Ci sto.” Le disse, senza perdere un filo di quella strafottenza, quel carattere tronfio che lo aveva sempre contraddistinto. “Cos’è, non ti va già più? Guarda Kaori che io adesso idea non  la cambio mica più, eh!”

“Ma… ma io non parlavo di un vero matrimonio, e poi  non sei tu quello che mi aveva detto che tu sei un clandestino senza documenti, che sei come morto, e che quindi non…” Ryo le mise un dito sulle labbra per zittirla, poi, mollemente, si lasciò cadere sul letto, braccia incrociate dietro al capo.

“Vuoi che non ci sia in giro qualcuno che non sappia hackerare un registro per infilarci un Ryo Saeba di anni…uhm, vediamo… posso arrivare ad un massimo di trentacinque anni, questa è la mia ultima offerta!” le disse, scherzoso.

Kaori rimase senza parole, e continuò a guardarlo, stupita. Tuttavia, le labbra le tremavano per l’emozione, e Ryo, intenerito oltremisura da quel comportamento, sentendosi un po’ colpevole per tutte le manchevolezze del passato, che avevano causato tanti dubbi alla donna del suo cuore, la strinse forte a se, il capo di Kaori appoggiato contro quel cuore che batteva solo per lei. “Sai, mentre eravamo a New York, guardavo quei bambini che correvano per strada, e ho pensato che io non avevo mai vissuto così, non avevo mai giocato contento sapendo che poi sarei tornato a casa da dei genitori che mi avrebbero coccolato. Non mi è mancato, perché quando conosci solo la guerra ti accontenti di quello che hai, ma… ma ho iniziato a pensare che mi piacerebbe amare qualcuno così. Se tu vuoi.”

“Ma… ma io credevo che…” Kaori non osò finire la frase, mentre combatteva strenuamente per combattere le lacrime che, traditrici, minacciavano di lasciare i suoi occhi. “Insomma, tu, tu avevi detto che, che non volevi una famiglia, che nel nostro lavoro non si possono avere figli…”

Un figlio suo e di Ryo: un sogno che Kaori aveva tenuto a lungo celato, che aveva nascosto in un angolo del suo cuore, una speranza che aveva permesso riempirle l’animo solo in rari momenti, quando lui non le era accanto, per non turbarlo o farlo sentire in colpa. Che quel sogno potesse divenire comunque realtà? Che anche lui lo volesse, dopotutto?

“Quando sono arrivato qui, c’erano tre tipi di poliziotti: i corrotti, quelli onesti che venivano fatti fuori dai corrotti e quelli che non facevano nulla perché non pensavano di avere abbastanza potere per cambiare le cose. Ma adesso… dopo tanti anni che sono qui, con Saeko e suo padre ai vertici della Polizia, con il polipone, Miki e Mick, con le Gatte che sono tornate e hanno fatto un po’ di pulizia… le cose sono cambiate. Shinjuku non è più la stessa di quando sono arrivato. E forse… forse è il momento che cambi anch’io.”

Ryo si grattò la nuca, distogliendo lo sguardo da Kaori, che tuttavia avvertiva su di sé: poteva quasi sentire il battito del cuore della sua compagna, ne percepiva l’aura emozionata, colma di affetto, che lo abbracciava e teneva il suo animo al sicuro. “Ci ho pensato, e magari potrei, non so, fare come Jane. O comportarmi da vero investigatore privato. O mettermi a fare il taglialegna in qualche sperduto paesino del Canada, per me è lo stesso. Non ti prometto rose e fiori, Kaori, forse non potrò mai uscire del tutto dal giro, e so di non essere una persona con cui è facile avere a che fare, ma ti posso giurare che ti amerò sempre, e proteggerò la mia famiglia ad ogni costo… che si tratti solo di noi due o…o dei bambini che verranno, ecco. Se li vorrai anche tu.”

“Io…. Non lo so. Non sono certa che mi piaccia l’idea di lasciare Hide e tutti gli altri, però...” La ragazza ammise  a malincuore; abbassò gli occhi, arrossendo, incapace però di nascondere il sorriso. “Ti mentirei se ti dicessi che non ci ho mai pensato, a, ecco, ad un figlio nostro.”

“Sì, effettivamente sarebbe un crimine non passare i miei meravigliosi geni di Stallone…” lui sogghignò, e lei lo colpì col cuscino in pieno volto, facendolo scoppiare a ridere mentre lei gli metteva il broncio e lo additava con i suoi soliti nomignoli, porco, pervertito, vergognoso… tutti deliziosi vezzeggiativi per le orecchie di Ryo.

E poi, lui la trascinò a letto, e tra risate, sospiri, sussurri e mugolii di piacere dimenticarono entrambi tutto, per un tempo che fu troppo breve per i loro gusti. Ma era comunque abbastanza.

E comunque, al domani ci avrebbero pensato prossimamente: forse avrebbe ripreso i contatti con la sorella di Kaori, o forse la sua famiglia sarebbe stata solamente quella che si era creata negli anni, accanto a Ryo; forse sarebbe diventata la signore Saeba, o forse no, forse lei e Ryo avrebbero continuato a fare gli sweeper o magari avrebbero cambiato lavoro, magari avrebbero avuto uno o due figli, che sarebbero cresciuti con i clan di Mick e Falcon che stavano sfornando pargoli con le loro consorti...

Kaori non lo sapeva, non c’era certezza del domani, come la vita le aveva insegnato – e a lei nemmeno importava più di tanto, era ben felice di godersi, in tutti i sensi della parola, quel momento, il suo immediato. Ryo la amava, e questo era già abbastanza.

E comunque, l’amore del suo partner era già di per sé una certezza, l’unica di cui a lei importasse qualcosa: qualsiasi cosa fosse accaduta, i loro cuori non avrebbero ceduto mai, avrebbero continuato a battere l’un per l’altra, anche oltre la vita se fosse stato necessario.



 

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