Sliding doors di liriel4444 (/viewuser.php?uid=1102465)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4A ***
Capitolo 5: *** 4B ***
Capitolo 6: *** 5 ***
Capitolo 1 *** 1 ***
1
1.
Era seduto sulla poltrona davanti
al camino nel salotto del 221b di Baker Street. Non sapeva nemmeno lui da
quanto tempo fosse lì. L’immagine nei suoi occhi era sempre la stessa. Non
ricordava le parole che si erano scambiati. Lui in strada, con il cellulare
attaccato all’orecchio e un mantra nella testa: ‘Non saltare. Non saltare. Non saltare.’ Sherlock sul cornicione
che diceva cose assurde e senza senso.
Ogni tanto, qualcuna di quelle
frasi insensate gli tornava pure in mente.
“Io
sono un imbroglione.”
“Era
tutto un trucco. Ti ho preso in giro.”
John Watson aveva sempre avuto
fiducia in Sherlock Holmes e nelle sue incredibili capacità intellettive. Non
aveva mai dubitato della sua parola. Non era assurdo che non credesse proprio a
ciò che gli aveva detto nel suo ultimo istante di vita? Non era paradossale che
pensasse che ogni parola pronunciata da Sherlock, mentre si trovava su quel
dannato cornicione, fosse una menzogna?
Perché?
Lo faceva solo per non sentirsi
stupido per avere creduto a quelle spiegazioni stupefacenti, nate da semplici
deduzioni, che Sherlock spiattellava in faccia a tutti, facendoli sentire come
degli emeriti idioti?
Era veramente così meschino?
No.
Non voleva… poteva… credere di essere così meschino. Lui sapeva quanto Sherlock
fosse intelligente e quanto fosse bravo a osservare le persone e le cose. Le
sue spiegazioni erano sempre state perfettamente logiche e supportate da prove
scientifiche e materiali.
Allora, perché Sherlock gli aveva
mentito prima di…
Allora, perché Sherlock gli aveva
mentito, mentre si trovava su quel cornicione, con il lungo cappotto svolazzante
intorno a lui mentre…
‘Non pensarci! Non devi ricordarlo per quello!’ Sibilò, dentro di
sé.
Gli sembrò di sentire un rumore
provenire dalla stanza di Sherlock. Uno scricchiolio discreto, come se qualcuno
si stesse muovendo nella camera.
Con il cuore in gola e la gioia
negli occhi, John si alzò di scatto dalla propria poltrona e si precipitò a
spalancare la porta della stanza di Sherlock. Era arrivato con così tanto
impeto, che fece un paio di passi all’interno, prima di fermarsi.
“Sherlock! Lo sapevo che non ti
eri davvero suicidato! Lo sapevo che non mi avresti mai abbandonato in quel
modo!” Si guardò intorno, pieno di speranza e aspettativa.
Il sorriso si attenuò lentamente.
La disperazione riemerse in tutta la propria potenza, colpendolo come un pugno
allo stomaco e togliendogli il fiato.
Cadde sulle ginocchia, incapace
di respirare. Si lasciò scivolare in terra e si raggomitolò, mentre calde e
solitarie lacrime gli rigavano il viso.
****
La luce del mattino, che filtrava
dalla finestra della camera da letto, lo trovò ancora raggomitolato sul
pavimento.
Vi aveva trascorso la notte.
‘Patetico. –
ringhiò a se stesso – Se Sherlock mi
vedesse in queste condizioni, si vergognerebbe di me.’
Però, Sherlock non avrebbe più potuto
vederlo, perché Sherlock si era suicidato. Si era lanciato dal cornicione del
Saint Bartholemew. Lo aveva lasciato solo a sopportare le insinuazioni dei
giornali e la loro derisione. Lo aveva lasciato solo ad affrontare le
conseguenze derivate dalle accuse rivolte loro di essere i responsabili dei
crimini che Sherlock risolveva.
Perché era diventato chiaro per
tutti che Sherlock Holmes non poteva essere quel genio dell’investigazione per
cui si faceva passare, ma non poteva nemmeno avere organizzato tutto da solo.
Ergo, John Watson non era solo la sua ombra, il cagnolino che scodinzolava
dietro a Sherlock Holmes, che ne raccontava le false gesta in un blog molto
seguito, per esaltarne le infondate qualità deduttive, ma era anche il suo
complice, colui che lo aveva aiutato a pianificare così bene quell’inganno.
“IO SO CHE SEI REALE! CHE NON SEI
UN IMPOSTORE!”
L’urlo rimbombò nella stanza
vuota, correndo sulle pareti e scivolando da una stanza all’altra.
“io so che sei reale. che tutto
quello che dici viene dalla tua splendida ed eccezionale mente.”
Il sussurro oltrepassò appena le
sue labbra.
‘Allora
perché mi hai detto quelle menzogne?’
“Io non
sono un eroe, John. Sono un essere umano come tutti gli altri. Con pochi pregi
e molti difetti, direbbe qualcuno.”
John si
voltò verso la voce e lo vide.
Sherlock
era lì. In piedi. Nel bel mezzo della porta. Circondato dalla luce del sole.
John
sbatté le palpebre diverse volte. Incredulo.
L’apparizione
svanì.
‘Sherlock è morto. Ed io sto impazzendo.’
Fu allora
che capì.
Non
poteva rimanere al 221B di Baker Street, perché era come un veleno, per lui.
Senza Sherlock, non aveva senso rimanere in quell’enorme appartamento, in cui
tutto richiamava alla memoria il suo amico perduto.
Doveva
andare via.
Doveva
trovare un’altra sistemazione.
Lasciare
il fantasma di Sherlock in quella casa e fuggire il più lontano possibile dalla
sua vita precedente.
****
Trascorsero
solo pochi giorni. John non aveva mai avuto molte pretese. Un piccolo
appartamento in un palazzo poco più che fatiscente era più che sufficiente per
lui.
Per
fortuna, Sarah Sawyer lo aveva ripreso a lavorare alla clinica e poteva
mantenersi, senza chiedere soldi a nessuno.
Gregory
Lestrade non si era più fatto vedere, forse sentendosi in colpa per non avere
creduto in Sherlock e per averlo abbandonato nelle grinfie dei suoi detrattori,
senza nemmeno tentare di difenderlo.
Mycroft
Holmes aveva seguito l’esempio dell’ispettore. Anche lui aveva tante
responsabilità nella morte del fratello. Lo aveva gettato in pasto a Moriarty.
Se avesse osato farsi vedere, John non avrebbe esitato a ucciderlo. Tanto, che
cosa aveva da perdere?
Senza
Sherlock Holmes, lui non aveva più una vita.
Aveva
traslocato le sue poche cose nel nuovo appartamento. Aveva salutato la signora
Hudson, promettendole di andarla a trovare spesso, ben sapendo di mentire.
Stava
attendendo l’arrivo della metropolitana, che lo avrebbe portato alla sua nuova
casa. Alla sua nuova vita.
Teneva
fra le braccia un piccolo scatolone, con alcuni libri. Gli ultimi che portava
via dal 221B di Baker Street.
Fu allora
che il Fato fece una cosa strana. Era come se il Destino non sapesse che cosa
fare con questo John Watson, così disperato e solo. Perché il Caso sapeva molto
bene che Sherlock Holmes era vivo e che sarebbe tornato dal suo dottore.
Eppure,
fino al loro ricongiungimento, che la Sorte vedeva molto lontano, il Destino non
sapeva che cosa farsene di questo dottore tormentato e arrabbiato e angosciato.
Fu così,
che il Fato, o chi per lui, decise di tirare i dadi.
****
John (A)
Con un feroce sferragliare, il treno della metropolitana arrivò e si
fermò, riversando sul marciapiede una variegata umanità, ignara del dolore di
John Watson.
Un giovane, con le cuffie nelle orecchie, urtò il dottore, che
riuscì per un pelo a tenere lo scatolone in braccio.
Lanciando un’occhiataccia al giovane, che lo ignorò, John Watson
salì sulla carrozza. Trovò un posto libero e si sedette, appoggiandosi la
scatola sulle ginocchia.
Con lo sguardo vuoto e fisso davanti a sé, John Watson andò incontro
al proprio destino.
****
John (B)
Con un feroce sferragliare, il treno della metropolitana arrivò
e si fermò, riversando sul marciapiede una variegata umanità, ignara del dolore
di John Watson.
Un giovane, con le cuffie nelle orecchie, urtò il dottore
facendo cadere lo scatolone che teneva in braccio. I libri si sparpagliarono in
terra, sulla banchina, proprio davanti alle porte della carrozza.
Il giovane non si accorse nemmeno di quello che era accaduto e
continuò per la sua strada, immerso nel proprio mondo musicale.
Alcuni passeggeri corsero verso le porte in chiusura e
calciarono un paio di libri, che si allontanarono dagli altri.
Le porte si chiusero, davanti a un John Watson frastornato, che
fissava i libri sparsi per terra, vedendo il corpo insanguinato dell’uomo che
gli aveva sconvolto la vita.
****
Piccola
nota dell’autrice
Ciao a chi sia arrivato qui in fondo.
L’idea che ha ispirato questo racconto
arriva dritta dritta da un film che, probabilmente, conoscete tutti. Si tratta
di “Sliding doors” di Peter Howitt (1998), con Gwyneth Paltrow, John Hannah,
John Lynch e Jeanne Tripplehorn.
Protagonista della storia è un John Watson
reduce dal suicidio (che noi sappiamo essere finto) di Sherlock Holmes. Il
nostro consulente investigativo sarà abbastanza latitante, ma non del tutto
assente.
Immagino che siano stati scritti tanti
racconti, relativi a questo periodo, quindi spero che la mia storia non ne
ricordi nessuno.
Pubblicherò un capitolo a settimana, ogni domenica,
ma prometto di non saltare l’aggiornamento del mercoledì della traduzione di
“Sweet Home Baker Street”.
Ciao ciao.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** 2 ***
2
Capitolo
2
John (A)
La carrozza sballottò
per quasi mezz’ora il corpo di un apatico John Watson, prima che il dottore
raggiungesse la propria destinazione.
La casa che lo
aspettava, non aveva nulla in comune con il 221B di Baker Street. Era una
palazzina di quattro piani, senza ascensore, con sei appartamenti per piano. La
porta d’ingresso era di vetro smerigliato, ma si intravedevano diverse crepe.
‘Sherlock le avrebbe notate subito e dedotto che cosa le avesse provocate
prima ancora che io avessi avuto il tempo di sbloccare la serratura,’ sorrise.
Il sorriso durò appena
un secondo.
‘Non pensare a Sherlock. Lui non c’è più. Non sentirai mai più la
sua voce, non vedrai mai più i suoi occhi. Prima smetterai di pensare a lui,
prima ricomincerai a vivere,’ ringhiò fra sé e sé.
Era più facile da
pensare che da fare.
Qualsiasi cosa lo
portava a pensare a Sherlock. Anche la più innocente. Anche la più impensabile.
Sherlock era
un’ossessione.
Sbatté la porta
d’ingresso e iniziò a salire le ripide scale interne. Per fortuna il suo
appartamento era al primo piano. La gamba aveva ricominciato a fargli male e zoppicava.
Salire quelle scale non era comodo.
Il dolore fisico, però,
andava bene. Era giusto. Benvenuto.
Lo distoglieva dal
dolore che gli stringeva il cuore in una morsa ferrea. Lo distoglieva dal
dolore per la perdita di Sherlock.
Aprì la porta
dell’appartamento. Una piccola sala squallida e grigia lo accolse con
freddezza. John la ignorò.
Buttò la scatola dei
libri sul tavolo che la sala condivideva con l’angolo cottura del cucinotto e
si diresse all’armadietto più vicino.
La bottiglia di pessimo
whiskey era lì, che lo attendeva.
John non prese nemmeno
il bicchiere. Aveva bisogno di stordirsi. Di dimenticare. Di smettere di
pensare.
Aprì il tappo e si mise
la bottiglia al collo, mentre caracollava verso il divano.
****
John (B)
John fissò i libri,
sparsi sulla banchina della metropolitana.
Li guardava, ma non
li vedeva, perché gli occhi erano ottenebrati dalle lacrime.
Nessuno osò
avvicinarsi o chiedere se avesse bisogno di aiuto.
Con rabbia, John calciò
il primo libro, come se fosse stato un pallone. Poi ne colpì un secondo e un
terzo. Avrebbe continuato all’infinito, se una voce non avesse raggiunto la sua
coscienza.
“John? John stai
bene?”
Il dottore si
immobilizzò e si girò verso la voce, i pugni chiusi e stretti lungo i fianchi.
Era pronto a insultare e a picchiare chiunque gli avesse parlato. Come potevano
chiedergli se stesse bene, quando la sua vita era finita? Come potevano anche
solo pensare che lui stesse bene, quando aveva fallito nell’impresa più
importante? Lui non aveva salvato Sherlock Holmes. Era pronto a urlare contro
chiunque gli avesse rivolto la parola, quando si scontrò con un paio di occhi
chiari e una massa di capelli ricci e neri.
John fissò
l’apparizione, incredulo. Si passò una mano sugli occhi e riportò lo sguardo
sul volto della persona che gli aveva parlato: “Sher…”
“John, ti ricordi
di me? Sono Matthew Randall. Eravamo insieme nell’unità medica, in
Afghanistan.”
John annuì.
‘Certo che non è Sherlock, stupido. Sherlock è morto. Si è
lanciato dal cornicione del Bart’s e non tornerà mai più da te.’
“Certo che mi
ricordo di te, Matt. Come stai?”
“Bene. Grazie.
Posso aiutarti?” Indicò con una mano i libri sparsi.
John arrossì in modo
violento, sentendosi un perfetto idiota. Aveva appena preso a calci dei poveri
libri, che non gli avevano chiaramente fatto nulla, su una banchina della
metropolitana. Affollata di gente.
Doveva essere
sembrato un pazzo.
‘Si può impazzire per il dolore?’
“Sì, grazie. Sei
molto gentile.” Sorrise, incerto.
“Dove li devi
portare?” Domandò Matt, mentre recuperava i libri e li infilava nella scatola.
“Sto cambiando
abitazione. Questi sono gli ultimi libri che ho preso dalla mia vecchia… da…”
non riuscì ad andare avanti.
“Posso
accompagnarti, se vuoi. Così potremo fare due chiacchiere. È da tanto tempo che
non ci vediamo.”
Il sorriso di Matt
era caloroso e sincero. Quegli occhi azzurri, i ricci morbidi, le labbra piene,
gli ricordavano così tanto Sherlock, da fare male.
“Mi farebbe molto
piacere. Così posso offrirti qualcosa da bere, per ringraziarti del tuo aiuto.
Sempre che tu non abbia altro da fare.”
“Sono tutto tuo. –
ribatté in tono allegro Matt – Per qualsiasi cosa di cui tu abbia bisogno.”
****
John (A)
Non si era accorto di
essersi addormentato. Non capì che cosa lo avesse svegliato. Era intontito
dall’alcool e i suoi riflessi erano molto rallentati.
‘Patetico.’ Gli sussurrò, in tono sprezzante,
una voce che assomigliava pericolosamente a quella di Sherlock.
John poteva sentire il suo sguardo fisso su di lui, le labbra
piene strette in una linea sottile, il bel viso atteggiato a una espressione di
biasimo.
“TU SEI MORTO! LASCIAMI
IN PACE! A CHI VUOI CHE IMPORTI SE MI UBRIACO?” Urlò al fantasma dell’amico
morto.
Il rumore sordo si
ripeté. John tese i sensi, per capire di che cosa si trattasse. Il fantasma di
Sherlock svanì dalla stanza.
Un lamento arrivò dal
corridoio. Senza riflettere troppo, John spalancò la porta e si trovò davanti
il buco nero della canna di una pistola.
Ormai completamente
sveglio e con gli effetti della sbornia svaniti, John osservò l’uomo che lo
stava minacciando.
Di mezza età, basso e
tarchiato, teneva l’altro braccio rigido lungo il corpo. Del sangue fuoriusciva
copioso da una ferita che doveva trovarsi appena sotto la spalla.
Qualcosa si mosse nel
profondo dell’anima di John Watson. Quell’uomo era sicuramente un criminale. Il
medico avrebbe potuto metterlo fuori combattimento molto facilmente e
consegnarlo alla polizia.
‘A che pro?’
Sherlock e lui avevano
collaborato con la polizia. Avevano rischiato le loro vite per assicurare i
delinquenti alla giustizia. E che cosa ne avevano ottenuto in cambio? Diffidenza,
derisione, sospetto. E, alla prima difficoltà, Sherlock era stato screditato e
denigrato, accusato di essere un millantatore, un imbroglione, un esaltato.
‘Sherlock si è ucciso perché la polizia ha creduto alle menzogne di
Moriarty, invece che a una persona meravigliosa che li aveva aiutati per anni,
senza pretendere in cambio altro che considerazione e rispetto.’
Con la rabbia che
montava inesorabile dentro di lui, John sentì la propria voce dire: “Abbassa
quell’arma ed entra. Sono un medico. Non voglio sapere nulla di te. Ti curerò.
Non ti denuncerò alla polizia.”
L’uomo lo fissò
sospettoso e incredulo.
John gli voltò le
spalle e recuperò la borsa con dentro il materiale necessario alla medicazione.
Cominciò a fare un
elenco mentale di ciò di cui avrebbe avuto bisogno.
Quello era l’inizio
della sua nuova vita.
****
John (B)
Durante il viaggio
in metropolitana, John e Matt avevano parlato dei vecchi commilitoni.
Anche Matt aveva
lasciato l’esercito e lavorava presso una clinica privata in centro a Londra.
Era benestante e single.
John aveva sempre
saputo che Matt era gay. Il giovane collega non ne aveva mai fatto un mistero.
All’inizio lo aveva persino corteggiato. Con molto tatto, John gli aveva fatto
comprendere che era lusingato, ma non interessato. Questo non aveva impedito ai
due uomini di instaurare un rapporto di fiducia e di reciproca stima.
Durante il tragitto
dalla stazione della metropolitana al nuovo appartamento, Matt aveva insistito
per portare il pacco pieno di libri. Aveva notato che John zoppicava e non
voleva che si sforzasse.
John gliene fu
molto grato. Era piacevole parlare con qualcuno che non avesse nulla a che fare
con il suo recente passato.
‘Con Sherlock.’
Con qualcuno che
non sapeva niente di indagini, pazzi dinamitardi e geni del crimine. Con
qualcuno con cui parlare di cose innocue come la guerra e la morte in
battaglia.
Arrivati al nuovo
appartamento, John aprì la porta e fece accomodare Matt nel suo spoglio e
squallido alloggio. Si vergognò un po’ della propria condizione, ma Matt
continuava a sorridere, come se John lo avesse accolto in una casa lussuosa e
ben arredata.
“Mi sono appena
trasferito, non ho molte cose. – John si sentì in dovere di giustificarsi –
Però posso offrirti un po’ di whiskey in un bicchiere pulito.” Terminò, andando
verso il mobile dell’angolo cucina, dove prese una bottiglia e due bicchieri.
Matt si tolse il
cappotto e si accomodò sul divano. John si sedette accanto a lui, versando una
dose generosa del forte liquore ambrato in entrambi i bicchieri.
“Agli amici
presenti e a coloro che ci hanno lasciato.” Mormorò, alzando un bicchiere.
“Agli amici
ritrovati.” Ricambiò Matt.
Entrambi
trangugiarono un sorso generoso di liquore.
“Chi ti ha ferito
così tanto, John?” Domandò Matt, con infinita dolcezza.
John fece un verso
a metà fra una risata e un singhiozzo: “Credo che tu sia l’unico in città a non
sapere nulla. Un mio amico si è ucciso. Non sono riuscito a salvarlo…” e una
valanga si riversò all’esterno. John raccontò tutto a Matt, come non aveva mai
fatto nemmeno con la sua terapista.
Del suo incontro
con Sherlock. Di quanto fosse intelligente ed eccezionale. Del modo in cui
avevano subito stretto un rapporto di profondo rispetto e fiducia reciproca. Di
quanto fosse diventato importante la loro amicizia. Di come Sherlock fosse
stato posto su un piedistallo altissimo, fatto di fragile cristallo, che era
stato distrutto, facendo precipitare il suo amico all’inferno.
“Così Londra e
l’umanità hanno perso la persona migliore che sia mai esistita a questo mondo.
Senza Sherlock, il mondo è più vuoto e più freddo.” Concluse.
Mentre parlava,
John aveva continuato a versarsi da bere, perché era più facile raccontare di
quell’essere meraviglioso, che lo aveva abbandonato, se qualcosa di forte gli
scioglieva il nodo che si ostinava a formarsi alla gola.
Si voltò verso Matt,
ma non vide lui.
Vide gli occhi
chiarissimi, i ricci corvini, gli zigomi affilati di Sherlock. E le sue labbra
piene, che gli sorridevano. Invitanti.
“Perché
comprendiamo quanto siano importanti le persone solo quando non ci sono più?
Perché temiamo così tanto di mostrare i nostri sentimenti, da perdere
l’occasione di essere felici?” Sussurrò.
John si avvicinò e
Sherlock non si sottrasse al bacio.
Anzi.
Spogliò John con
delicatezza, lo ricoprì di baci e di carezze. Lo preparò con dolcezza e lo penetrò,
riempiendolo con il proprio cazzo e muovendosi dentro di lui. Facendolo sentire
completo.
“SHERLOCK!” Urlò
John, all’apice del piacere.
Sentì lo sperma
dell’altro riempirlo. Braccia forti che lo avvolgevano, cullandolo come un
bambino, mentre piangeva e mormorava frasi sconnesse e senza senso.
Fino a cadere fra
le braccia di Morfeo.
Piccola nota dell’autrice
Così
le vite dei due John prendono strade completamente diverse.
Grazie
a chi stia leggendo il racconto e grazie a Himeko82 per la recensione al primo
capitolo.
Alla
prossima domenica.
Ciao
ciao.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** 3 ***
3
Capitolo
3
John (A)
L’uomo ferito se ne era
andato, borbottando un grazie. John lo aveva quasi ignorato, preferendo
dedicarsi alla bottiglia di whiskey, abbandonata sul divano.
La valutò con sguardo
critico. Era rimasto solo un terzo del liquido ambrato, quindi non sufficiente
a ottenebrare la coscienza. Cercò di fare mente locale, per ricordare se in
casa vi fossero altre bottiglie, anche di alcool puro, ma la sua mente non
voleva collaborare.
Con un ringhio
rabbioso, John iniziò ad aprire i pochi sportelli dell’angolo cottura, quelli
del mobile in salotto e, per ogni evenienza, quelli della camera da letto.
Nulla.
Non una goccia di
alcool in più, rispetto a quel misero terzo.
Ricordava che lì vicino
c’era un negozio di liquori e afferrò la giacca, per andare a fare un po’ di
scorta.
‘Hai sempre criticato tua sorella, perché annegava i suoi problemi
nell’alcool e ora tu fai lo stesso?’ Lo apostrofò Sherlock,
in tono risentito.
John si voltò verso il
fantasma dell’amico, furioso: “Zitto, tu! Non hai diritto di giudicare. Lo hai
perso quando ti sei lanciato dal cornicione del Bart’s, senza darmi la
possibilità di salvarti. Se tu hai deciso che l’unica soluzione al tuo problema
era ucciderti, perché io non posso fare la stessa cosa? Lasciami in pace e torna
da dove sei venuto. Non ho bisogno di te. E tu hai chiaramente dimostrato al
mondo intero che non avevi bisogno di me. E che non ti fidavi di me.”
Girò la schiena
all’amico e uscì dalla porta a passo di marcia.
Tornò poco meno di
mezz’ora dopo, con quattro bottiglie di whiskey e nulla da mangiare.
L’appartamento, però,
non era vuoto.
Un uomo di circa
quaranta anni, con una leggera barba rossiccia e profondi occhi verdi, era
comodamente seduto sul divano. Indossava un paio di jeans blu, una maglia
azzurra e una giacca nera un po’ imbottita.
John lo guardò appena,
appoggiando la sporta sul tavolo e riponendo le bottiglie al loro posto.
“Non mi sembra di
conoscerla. Se anche la conosco, non ho voglia di compagnia. Sa dove sia la
porta. Se ne vada,” ringhiò.
“Dottor John H. Watson,
ex capitano del 5th Northumberland Fusiliers Regiment. Congedato dall’esercito
con tutti gli onori a causa di una grave ferita di guerra. Ha collaborato con
Scotland Yard, insieme a Sherlock Holmes, l’unico consulente investigativo
esistente al mondo, in questo momento caduto in disgrazia, in ogni senso in cui
uno voglia utilizzare il termine, in quanto accusato di essere un imbroglione e
un millantatore. Lei scriveva un blog, raccontando le vostre avventure…”
“Senta, se è venuto qui
per raccontarmi la mia vita, se lo risparmi. La conosco bene. Si tolga dai
piedi, prima che mi venga voglia di sbatterla fuori, non sono dell’umore giusto
per avere ospiti,” lo interruppe John.
L’uomo non si scompose,
anzi, sorrise: “Capirà la mia sorpresa, quando uno dei miei uomini mi ha
riferito che lei lo ha ricucito, dopo che era stato ferito in un… incidente.”
“Ah. La ferita da arma
da fuoco di stanotte. Niente di che. Non volevo che sporcasse tutto il
corridoio di sangue. Non è facile da pulire e non mi sembra che qui le pulizie
siano troppo approfondite.”
“Vorrei pagarla, per il
suo lavoro.”
****
John (B)
Matthew Randall si
svegliò in un letto sconosciuto e impiegò qualche secondo per riordinare le
idee. Non era certo la prima volta che gli capitava, ma quando ricordò con chi
avesse trascorso la notte, emise un gemito di rimorso e nascose il viso nel
cuscino.
John non era
accanto a lui. Si doveva essere alzato molto presto, perché la sveglia segnava
le 7:02 e l’altra metà del letto era fredda.
Sempre con il viso
nascosto nel cuscino, Matt ricordò il periodo che John e lui avevano trascorso
in Afghanistan. Aveva sempre ammirato John, ma Tre Continenti Watson aveva
messo ben in chiaro fin dall’inizio a. di non essere gay e b. di adorare le
donne.
Quindi, per Matt
era terra inospitale. Erano amici, certo. Si raccontavano le reciproche
conquiste, ovvio. Però, fra loro, non avrebbe mai potuto esserci nulla.
Allora, che cosa
accidenti era accaduto la notte precedente?
Avevano bevuto.
Tanto. Soprattutto John. Eppure… eppure John Watson era sembrato tutto fuorché
eterosessuale.
Con un grugnito,
Matt si mise a sedere sul letto. Su una sedia lì accanto, c’erano i suoi abiti,
ben piegati, e un paio di asciugamani puliti.
“Ho davvero il
sonno pesante, per non essermi accorto di quello che ha fatto John, mentre
dormivo,” brontolò.
Era inutile
rimandare. Tanto valeva alzarsi, fare una doccia e andare da John, a supplicare
il suo perdono in ginocchio. Per quanto fossero anni che non si vedevano, non
voleva rinunciare alla loro amicizia.
A costo di
cospargersi il capo di cenere.
****
John (A)
John fissò l’uomo come
se fosse pazzo, poi scoppiò in una risata amara: “Lei mi vuole pagare?” Ripeté,
incredulo.
“Non solo. Potrei avere
bisogno altre volte dei suoi servizi. E potrei procurarle altri clienti. Sa,
nel mio campo di lavoro capitano spesso degli incidenti e non sempre negli
ospedali sono comprensivi.”
John si appoggiò al
tavolo, incrociando le braccia sul petto. Osservò l’uomo per un lungo momento,
mordicchiandosi il labbro inferiore: “Ha detto lei stesso che ho collaborato
con Scotland Yard. – riprese, parlando in modo lento – Se qualcuno ha bisogno
di cure mediche, ma non può rivolgersi a un ospedale, è perché ha fatto o sta
facendo qualcosa di illegale. Che cosa le fa credere che io non denunci lei e
il suo uomo, appena esce di qui?”
L’uomo appoggiò i
gomiti alle ginocchia e si sporse in avanti, ricambiando lo sguardo intenso di
John: “Mi dica, dottor Watson, ha informato il suo amico Gregory Lestrade del
lavoretto che ha fatto stanotte?”
“Potrei dirle di no e
averlo fatto,” John scrollò le spalle.
“Sappiamo entrambi che
non ha chiamato nessuno.”
“Potrei sempre farlo
più tardi,” insisté John.
“Io credo proprio che
non lo farà. Credo che lei si senta tradito dalla polizia, per il modo in cui
hanno trattato lei e il suo amico, dopo tutto quello che avete fatto per loro…”
“Lei non crede che
Sherlock fosse un imbroglione? Eppure lo dicono tutti i giornali.” Lo
interruppe John, in tono brusco.
“Non lo credo. Nessuno
nel mio campo crede che Sherlock Holmes fosse una frode. I poliziotti lo
pensano perché lui gli ha fatto fare la figura degli idioti troppe volte. Però,
non è questo il punto. Che cosa vuole fare della sua vita, ora, dottore? Non
credo che a Scotland Yard siano molto interessati a continuare la vostra
collaborazione. So che ha trovato lavoro part time in una clinica, ma non è uno
stipendio molto alto. Io le sto offrendo un lavoro. Ben pagato. E con il
brivido del proibito. I miei uomini non sono assassini o criminali violenti,
dottore. Ladri. Truffatori. Niente protettori né spacciatori né omicidi. Che
cosa mi dice, dottore?”
‘John! Non lo fare! Tu sei un uomo onesto, un uomo buono!’ Lo supplicò il fantasma di Sherlock.
John gli lanciò
un’occhiata torva, poi si voltò verso l’uomo reale seduto sul divano. “Accetto.
Devo mantenere il lavoro alla clinica. Per le apparenze. Il materiale medico me
lo deve procurare lei. Voglio un telefono irrintracciabile, con cui tenere i
contatti.”
L’uomo si alzò,
sorridendo soddisfatto e allungando una mano: “Affare fatto. Sarà un piacere
lavorare con lei, dottor Watson. Ho sempre amato il suo blog. Ah, mi chiamo
Robert Campbell.”
John prese la mano e la
strinse.
Il fantasma di Sherlock
lo fissava con biasimo, ma a John non importava.
****
John (B)
Matt fu attirato in
cucina dal profumo di tè. Vi arrivò titubante, non sapendo bene che cosa
aspettarsi.
John era seduto al
tavolo e stava leggendo il giornale. Davanti a lui c’erano due tazze, una
teiera, una zuccheriera, un brik per il latte e un piatto con dei croissant.
John era persino
uscito a fare la spesa e Matt non si era accorto di nulla.
‘Per fortuna non siamo in Afghanistan o a quest’ora potrei
essere morto senza nemmeno saperlo.’ Pensò Matt.
“Buongiorno?”
Salutò, esitante.
John piegò il
giornale e gli sorrise: “Buongiorno. Siediti. Sarai affamato.”
Matt si sedette di
fronte a John: “Sono confuso,” confessò, versandosi del tè.
“Ti aspettavi di
essere preso a pugni?” Ribatté John, divertito.
“Forse.”
“In realtà, mi hai
dato modo di pensare a tante cose.”
Matt prese un
croissant e lo spezzò a metà, guardando John negli occhi: “Puoi dirmi come hai
fatto a fare tante cose in così poco tempo? Se non ricordo male, eri piuttosto
ubriaco anche tu…”
“Non so. Mi sono
svegliato presto e mi sono messo a riflettere su ciò che era accaduto.”
Matt si agitò sulla
sedia, a disagio: “A proposito di quello, John…”
“Non è stata colpa
tua. Io lo ho voluto quanto te, anche se, scusa se te lo dico, non pensavo di
stare facendo l’amore con te.”
“Me ne sono reso
conto, anche se un po’ in ritardo.”
“Ho riflettuto
molto anche su quello.”
“Senti, John, so
che non sei gay, quindi…”
“Sai perché ho
sempre professato ad alta voce di non essere gay? Quando Harry, la mia sorella
maggiore, ha confessato di essere lesbica, in famiglia è stata una tragedia.
Mio padre era furioso e mia madre piangeva tutto il giorno, supplicandomi di
essere normale. Ed io lo feci. Cominciai a dire a tutti che io non ero gay.
Divenne la mia frase preferita. Il mio mantra. Lo ho ripetuto così tanto, che
ho convinto persino me stesso di non essere gay.”
Matt si strozzò con
un pezzo di croissant e iniziò a tossire furiosamente. John lo fissò, un po’
preoccupato, ma si rese subito conto che non era nulla di grave.
“Stai dicendo… –
tossì – stai dicendo di essere gay? Perché, amico, se tu sei gay, lo nascondi
molto bene.”
“No no. Non sono
gay. A me piace molto fare sesso con le donne. Però non disdegno neppure guardare
gli uomini. Sono molto attratto da un certo tipo di uomo ed ero molto curioso
di fare sesso con il mio tipo ideale. In realtà, sono sempre stato sicuro di
essere bisessuale, però capisci…”
“Se tu lo avessi
confessato ai tuoi genitori, ne sarebbe nata un’altra tragedia. Non mi sembrano
tipi progressisti.”
John annuì:
“Esatto.”
“Però, scusa, John,
i tuoi genitori sono morti. Tua sorella non ti biasimerebbe di certo, se tu
stessi con un uomo, quindi…”
“Ti ho detto che mi
piace solo un certo tipo di uomo.”
Rimarcò John.
“Uno come me?”
Sorrise Matt, accattivante.
“O come Sherlock.
Avete diversi tratti in comune.” Confermò John.
“Allora, tu e il
tuo amico…”
“Nulla. Non è mai
successo nulla, fra Sherlock e me. Io mi sono subito sentito attratto da lui,
ma Sherlock ha messo ben in chiaro fin dal nostro primo incontro che era
sposato con il suo lavoro e per nulla interessato a impelagarsi in relazioni
sentimentali, con uomini o donne, che fossero. Tenevo troppo al nostro
rapporto, per correre il rischio di perderlo solo per un po’ di sesso, così ho
represso i miei sentimenti. La frase ‘non sono gay’ è tornata a essere il mio
mantra esistenziale. Mi serviva per ricordarmi che non avrei mai potuto avere
Sherlock e che dovevo accontentarmi della nostra straordinaria amicizia, oltre
che proteggerla dalle stupide insinuazioni che tutti facevano sul nostro
rapporto. Il suo suicidio ha riportato a galla i miei sentimenti repressi. Se
mi fossi dichiarato, se gli avessi rivelato ciò che provavo…”
John si interruppe.
Chiuse gli occhi e scosse la testa. Matt allungò una mano e prese una di quelle
di John, stringendola con tenerezza: “Che cosa pensi che sarebbe accaduto, se
tu ti fossi fatto avanti?”
Il dottore riaprì
gli occhi, velati da una profonda tristezza: “Stavo per dire che forse ora lui sarebbe
ancora vivo ed io non sarei un morto che cammina. Però so che non è vero. È più
probabile che Sherlock mi avrebbe allontanato ed io non avrei mai potuto
trascorrere questi meravigliosi anni insieme a lui.”
Un silenzio carico di
dolore cadde nella cucina. Matt sapeva che era troppo presto, però ora sperava
di avere di una possibilità.
“Possiamo rimanere
amici e uscire insieme, qualche volta?” Chiese, pieno di speranza.
“Certo. Solo amici,
però. Ti sono grato per stanotte, perché avevo davvero bisogno di sentirmi
desiderato. Però, non sono pronto per una relazione sentimentale, né con un
uomo né con una donna. È troppo presto, capisci?”
Matt allungò la
mano, rincuorato e felice: “Amici.”
‘Per ora.’ Non aggiunse a voce alta.
John prese la mano
e la strinse con calore: “Amici.”
Un raggio di sole
filtrò dalla finestra della cucina. Forse il futuro di John aveva ancora la
possibilità di non essere così grigio come lui aveva pensato dall’istante in
cui Sherlock si era lanciato dal cornicione del Bart’s.
Piccolo angolo dell’autrice
I
due John hanno davvero preso strade completamente diverse. Uno è talmente
arrabbiato da non avere scrupoli a lavorare per un criminale, l’altro ha
davanti a sé un futuro che sembra più roseo, avendo trovato un amico che nulla
ha in comune con il suo passato con Sherlock.
Grazie
a chi stia leggendo il racconto e a Himeko82 per la recensione.
A
domenica prossima.
Ciao
ciao.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** 4A ***
4A
Capitolo
4
Universo A
John (A)
Erano trascorsi quasi
due anni. John non riusciva a crederci.
Erano due anni che lui
respirava senza che i suoi occhi cadessero sul corpo magro e flessuoso di
Sherlock Holmes, sui suoi morbidi ricci e su quelle iridi così chiare, in cui
qualsiasi cosa poteva specchiarsi.
John aveva atteso che
il cuore smettesse di battere o che i polmoni cessassero di inalare aria.
Niente.
Cuore e polmoni avevano
continuato a svolgere le loro funzioni, malgrado John avesse fatto di tutto per
ostacolare la loro ostinata voglia di continuare a vivere.
Aveva perso il conto
delle volte in cui si era svegliato sul divano, dopo essersi scolato una
bottiglia di pessimo whiskey. Persino l’adrenalina che gli procurava il curare
persone in modo clandestino, non gli bastava per provare quel brivido di
piacere che aveva sempre provato, quando correva per le strade di Londra
insieme a Sherlock.
La vita continuava e la
sua lenta distruzione con lei.
John aveva rotto i
ponti con tutti i suoi vecchi amici. Non era più andato a Baker Street. La
signora Hudson aveva tentato di contattarlo, ma il dottore si era ben guardato
dal risponderle. Lo stesso aveva fatto con Mike. Invece, con Mycroft, Greg e
Molly non era stato difficile interrompere i contatti, perché non si erano più
fatti sentire.
Non che John lo avesse
notato.
Le uniche persone che
incontrava erano i pazienti della clinica, in cui ancora lavorava part time, e
i clienti illegali. Questi erano diventati numerosi. Ai criminali della banda
di Campbell, si erano aggiunti diseredati di varia natura, come prostitute o
senzatetto, che non si rivolgevano volentieri ai centri di assistenza medica
legali.
Quella mattina, John fu
svegliato da un insistente bussare.
Si era addormentato sul
divano, con l’immancabile bottiglia di whiskey come unica compagnia.
Senza troppa fretta, il
dottore si sedette, strofinandosi il viso con le mani. Chiunque stesse
bussando, lo faceva con sempre maggiore intensità. Era davvero intenzionato a
non andarsene, senza avere ricevuto una risposta.
Con un grugnito
infastidito, John si alzò e spalancò la porta del suo misero appartamento: “Chi
cazzo è!” ringhiò.
Si trovò davanti gli
occhi nocciola di Gregory Lestrade, che aveva ancora il pugno sollevato a metà.
John fissò il vecchio amico con sorpresa, che presto fu sostituita da un senso
di strisciante malessere.
Greg lo stava guardando
con qualcosa che assomigliava tanto alla pietà.
Investito da un rabbia
improvvisa, John non salutò nemmeno il poliziotto, ma lo apostrofò in modo
sgarbato: “Che cosa vuoi?”
“Buongiorno, John. Come
stai? Avrei bisogno di parlarti, posso entrare?”
John non si mosse.
Tenne saldamente la mano sulla porta, impedendo a Greg l’accesso
all’appartamento: “Non abbiamo nulla di cui parlare. Non certo dopo due anni. È
tardi per le scuse, ispettore Lestrade,” ribatté il dottore, in tono freddo.
Greg sospirò,
passandosi una mano fra i capelli: “Per favore, è importante.”
John lo fissò negli
occhi per qualche secondo, poi lasciò andare la porta e tornò a sedersi sul divano.
Greg entrò e chiuse la
porta. Non si guardò intorno, ma non poté evitare di arricciare il naso,
infastidito da un cattivo odore, che non riusciva a identificare.
“Dì quello che hai da
dire e vattene. Fallo in fretta. Non ho l’eternità per starti ad ascoltare.”
Quello sguardo carico
di pietà ricomparve negli occhi di Greg: “John… che cosa stai facendo della tua
vita?” Sospirò, in tono addolorato.
“Non sono affari tuoi,
Greg. Se sei venuto qui solo per farmi la paternale, puoi andartene subito. Non
ho intenzione di stare ad ascoltare le tue stronzate,” ribatté John, furioso.
“Domani uscirà una
notizia sui giornali. Volevo dartela di persona, perché penso che tu te lo
meriti. Abbiamo riabilitato la sua memoria.”
John apparve disordinato,
come se non avesse compreso le parole di Lestrade. La confusione fu presto
sostituita dalla sorpresa, che fu cancellata dal dolore: “Ora? Lo state
riabilitando ora? L’integerrima
Scotland Yard ha impiegato solo due
anni per riabilitare la memoria di un uomo di cui avrebbe dovuto fidarsi, senza
provare alcun dubbio? Vi siete fatti prendere in giro da Moriarty come degli
idioti, dubitando dell’integrità di uno degli uomini migliori, che abbiano mai
camminato su questa Terra. Che cosa ti aspetti da me? Perdono? Riconoscenza?
Cosa?”
“Vorrei solo che tu
tornassi alla tua vecchia vita. In giro si mormora di un dottore che cura
piccoli criminali e malcapitati, senza denunciare eventuali crimini alla
polizia.”
“E questo, che cosa
c’entra con me?” domandò John, in tono gelido.
“Stai facendo una cosa
illegale, John. Non macchiare la memoria di Sherlock passando dall’altra
parte,” sussurrò Greg.
John si alzò in piedi,
i pugni stretti e le braccia rigide lungo i fianchi: “Come osi mettere in mezzo
Sherlock, dopo che sei stato il primo a tradirlo? Quando quegli idioti di
Anderson e Donovan hanno abboccato al tranello di Moriarty, tu non hai fatto nulla per lui.”
“Che cosa avrei dovuto
fare, secondo te? I miei superiori hanno iniziato a mettere in dubbio il mio
operato. Ho rischiato di perdere il lavoro, solo perché ho accettato la
consulenza di Sherlock. Non ho potuto fare nulla per lui, se non cercare di
mettere in evidenza i suoi pregi. Questo, comunque, non giustifica il fatto che
tu sia diventato il medico della malavita. Pensi che Sherlock approverebbe?”
John era sempre più
furioso. Nel profondo del suo cuore sapeva che Greg aveva ragione, ma non
poteva ammetterlo: “Vattene! Fuori di qui o non rispondo più di me! Non farti più
vedere!” ringhiò, infine.
Greg lo fissò per
qualche secondo. Scosse la testa e si voltò per uscire. Con la mano sulla
maniglia, si girò a guardare l’amico: “Sei ancora in tempo. John. Sherlock è
morto. È stata una tragedia, ma non è giusto che tu ti rovini la vita. Devi
andare avanti, non rimanere ancorato al passato.”
“Senza di lui, io non
ho una vita,” sbottò John.
“Non fidarti di quei
criminali. Per ora nessuno ti vuole mettere nei guai, ma vedrai che, alla prima
difficoltà, ti tradiranno.”
“Esattamente come hai
fatto tu con Sherlock. Dimmi, Greg, che differenza c’è fra te e quei presunti
criminali? Loro, almeno, non si fingono tuoi amici, per poi pugnalarti alle
spalle alla prima occasione,” ribatté John, in tono secco.
Un lampo di dolore
attraversò gli occhi nocciola di Greg, che, scuotendo la testa e non riuscendo
a trovare qualcosa da dire che placasse il dottore, uscì. John afferrò la
bottiglia di whiskey e la lanciò contro la porta.
****
Sherlock (A)
Il barbiere aveva
finalmente terminato di fare la barba a un impaziente Sherlock, che stava
parlando con il fratello del caso per cui lo aveva ricondotto a casa. Il
barbiere era abituato a non ascoltare i discorsi fatti in quella stanza, ben
consapevole dei rischi che avrebbe corso, se avesse fatto trapelare anche solo
mezza parola fuori da quelle mura sicure. Ad ogni modo, fino a quel momento i
fratelli Holmes non avevano parlato di cose importanti. Anzi, erano quasi
banalità, rispetto ad altre conversazioni cui aveva assistito. Che cosa mai
poteva essere un eventuale attentato a Londra, rispetto al rovesciamento di un
governo straniero? L’uomo terminò di fare la barba al più giovane dei fratelli
Holmes, di nuovo annoverato fra coloro che camminavano e respiravano sulla
Terra, e se ne andò, con un lieve cenno di saluto.
Finalmente soli,
Sherlock affrontò l’argomento che gli stava davvero a cuore: “Dimmi di John.”
Mycroft non disse una
parola. Si avvicinò al fratello e gli porse una cartellina. Sherlock lo aprì
senza indugi. Si fermò a fissare la fotografia di un uomo dai capelli
ingrigiti, con profonde occhiaie e orribili baffi biondastri, che coprivano il
labbro superiore. Sembrava un uomo distrutto dal dolore, invecchiato troppo
presto e senza speranza nel futuro.
Sherlock studiò quel
volto familiare eppure così estraneo, con evidente sorpresa. Cercò nel proprio
palazzo mentale l’ultima immagine che aveva immagazzinato di John e la
confrontò con quella dell’uomo della foto.
Non avevano nulla in
comune.
La vitalità e l’energia
di John erano del tutto assenti in questa nuova versione incolore e apatica.
“Questi baffi sono
orribili. Dobbiamo eliminarli. Non posso andare in giro con un vecchio,” affermò,
in tono deciso, alzando gli occhi sul fratello e guardandolo in modo
accusatorio, come se lo ritenesse personalmente responsabile per i baffi di
John.
Mycroft sostenne lo
sguardo di Sherlock: “Quei baffi non sono certo il problema maggiore di John.”
lo informò, senza alcuna inflessione nella voce.
“Che cosa vuoi dire?”
“Leggi il fascicolo.”
Sherlock scorse
velocemente la dettagliata relazione sull’attuale vita del dottor John H.
Watson. Ne fu talmente sorpreso, che lo rilesse da capo, chiedendosi se fosse
uno scherzo di cattivo gusto di Mycroft.
‘Non è possibile, ma è tutto vero. Perché John?’
“Come hai potuto
permettere che John cadesse così in basso?” ringhiò, rivolto al fratello.
Mycroft non si
scompose, avendo già previsto la reazione di Sherlock: “Secondo te, che cosa
avrei dovuto fare per impedire a John di fare ciò che ha fatto? Dopo la tua
morte ha allontanato tutti. E, comunque, non mi avrebbe mai ascoltato. Secondo
lui, io ero il responsabile principale della tua dipartita. Non mi sarei
meravigliato se avesse tentato di uccidermi.”
“Così hai lasciato che
John distruggesse la propria vita senza intervenire! – sbottò Sherlock, furioso
– Non erano questi i nostri patti, Mycroft! Tu avresti dovuto vegliare su
John…”
“È ciò che ho fatto. Ho
sempre controllato chiunque avvicinasse John. In fin dei conti, si è preso cura
di piccoli criminali e sbandati. Poveri diavoli che avevano più da perdere di
lui, se lo avessero denunciato. So per certo che ha fatto anche alcune
segnalazioni anonime alla polizia, quando si è reso conto che alcuni dei suoi…
pazienti si trovavano in situazioni difficili. Se anche qualche poliziotto
avesse avuto dei sospetti su John, nessuno lo avrebbe mai tradito. Vedi,
Sherlock, malgrado il tuo dottore sia caduto molto in basso, non ha mai smesso
di prendersi cura delle persone e, persino in quegli ambienti, questo ha un
proprio valore.”
Sherlock chiuse la
cartellina con un gesto irato e la buttò sulla scrivania del fratello: “Ora
vado a Baker Street e farò in modo che tutto questo abbia fine. A cominciare da
quegli orribili baffi.”
“John non vive più a
Baker Street.” Lo informò Mycroft.
“Dove lo trovo?”
domandò Sherlock, impaziente.
Mycroft gli diede un
bigliettino. Il giovane Holmes lo afferrò e uscì dallo studio del fratello,
come una folata di vento impetuoso.
****
John (A)
La ferita che stava
curando non era niente di grave. La giovane donna che aveva accompagnato da lui
la ragazza ferita, gli stava spiegando che era stato un cliente molto
esuberante. Erano entrambe ragazze troppo giovani per trovarsi sulla strada e
non avere nessuno che si occupasse di loro.
John sapeva che un
tempo si sarebbe indignato e avrebbe fatto di tutto, pur di aiutare quelle
ragazze a lasciare il marciapiede. Sapeva che, probabilmente, si sarebbe
preoccupato per loro persino negli ultimi tempi.
Solo che, in quel
momento, non sentiva nulla.
Dopo la visita di
Lestrade, si sentiva svuotato.
Era come se i suoi
sentimenti fossero stati annullati dalla consapevolezza che Sherlock non
avrebbe approvato il suo comportamento.
Il fantasma non gli
apparso, nemmeno dopo che Lestrade era uscito. Nemmeno dopo che John si era
attaccato a una bottiglia nuova, per affogare la pietà, che aveva letto sul
viso del suo amico.
La giovane donna lo
strappò dai suoi cupi pensieri: “Dottore? Vorrei dirle una cosa…”
“Dimmi.” Rispose in
modo indifferente.
“Ecco… si tratta di un…
cliente… lui… ecco, parla molto, quando ha finito…” la giovane donna si bloccò,
mordicchiandosi il labbro inferiore.
Era chiaramente
indecisa se continuare a parlare o tacere.
Per la prima volta,
John alzò gli occhi su di lei e la vide veramente. Forse aveva diciotto anni.
Era bassa e magra. I capelli corvini erano raccolti in una coda di cavallo
alta. Il trucco era troppo pesante, ma John vide la paura che serpeggiava in
quei giovani occhi marroni.
“Che cosa hai sentito?”
domandò, con una dolcezza che pensava non gli appartenesse più.
“Quell’uomo era tutto
fuorché gentile. Si è vantato di essere stato assunto da qualcuno di
importante, per levare di mezzo un poliziotto di nome Lestrade, che si è
immischiato in affari che non lo riguardano.”
John si sentì come se
lo avessero colpito alla stomaco.
Greg! Greg era in
pericolo e lui doveva salvarlo! Non
poteva permettere che un altro suo amico morisse, senza che lui facesse anche
l’impossibile per salvarlo: “Dimmi tutto quello che sai. Farò in modo che
nessuno sappia che sei stata tu a dirmelo. Sai che ti puoi fidare di me.”
Senza alcuna
esitazione, la giovane donna riferì tutto a John.
L’uomo aveva seguito
Greg per alcuni giorni. Sapeva che il poliziotto fumava molto, quando era
nervoso. Sapeva anche che non poteva farlo in ufficio. Da agente di Scotland
Yard era molto ligio alle regole. Greg andava sempre a fumare in un luogo
appartato, da solo. Sarebbe stato lì che l’uomo lo avrebbe ucciso. Mentre
fumava la sua ultima sigaretta. Perché una sigaretta non si rifiuta nemmeno a
un condannato a morte.
“Grazie!” John quasi
urlò, quando la ragazza ebbe finito di parlare. Le diede un bacio sulla fronte
e uscì di casa. Di corsa.
Stavolta non sarebbe arrivato
troppo tardi per impedire il peggio.
****
Sherlock (A)
Non ricordava che fosse
così complicato attraversare la sua amata Londra. Il taxi aveva impiegato
un’eternità per raggiungere l’indirizzo dell’appartamento in cui viveva John.
Sherlock era agitato e
infastidito allo stesso tempo.
Agitato perché
finalmente avrebbe rivisto John. Durante la loro lunga separazione aveva
compreso una cosa importante e doveva
parlarne con John. Non sapeva che cosa aspettarsi. John avrebbe potuto
buttargli le braccia al collo o sparargli. Entrambe le reazioni sarebbero state
coerenti con il carattere di John.
Infastidito perché John
si era messo nei guai e lui non lo aveva previsto. Sapeva che il dottore
sarebbe stato sconvolto dalla sua morte, ma non immaginava che si sarebbe
schierato dalla parte del crimine. Per fortuna, da quello che aveva letto, non
era nulla di irreparabile. Sarebbe riuscito a tenere John fuori dalla prigione,
a costo di dovere un favore al suo grasso fratello, pur di fare sparire le
prove più compromettenti.
Finalmente arrivò a
casa di John.
Sherlock scese dal taxi
e squadrò il palazzo, scuotendo la testa. Il quartiere non aveva una bella
reputazione e quella casa era messa peggio di alcuni luoghi in cui si era recato
per bucarsi.
Dal palazzo stavano
uscendo due giovani donne. Erano chiaramente delle prostitute e una era appena
stata medicata.
Con un sorriso,
Sherlock si avviò all’ingresso. Quella ragazza era stata da John e lui doveva
essere in casa.
Si bloccò, quando
percepì i discorsi delle ragazze: “Forse non avresti dovuto dire al dottor
Watson del tuo cliente. E se lui lo scopre?”
“Il dottor Watson è un
uomo buono e onesto. È sempre pronto ad aiutarci. Non volevo che soffrisse per
la morte di un altro suo amico. Inoltre, quel bastardo di Carl sta bene in…”
La ragazza si bloccò,
quando venne afferrata per la spalle da un uomo alto, magro, con una chioma
scompigliata di ricci neri e gli occhi più azzurri e feroci che avesse mai
visto in vita sua.
“Dove è andato! Dimmi
dove è andato John Watson!” ordinò, in tono imperioso.
“A… a Scotland Yard…
dall’ispettore Lestarde…” balbettò la ragazza, intimorita. Non riuscì ad
aggiungere altro.
L’uomo l’aveva lasciata
e si era fiondato dentro un taxi, sbraitando di correre verso Scotland Yard il
più velocemente possibile.
****
John era arrivato a
Scotland Yard. Sapeva che Greg andava in un terrazzo appartato del quarto
piano, sul retro dell’edificio, quando voleva fumare in santa pace.
Correndo all’impazzata,
il dottore scansò le persone e si precipitò all’ascensore, schiacciando il
pulsante per il quarto piano.
L’ascensore non gli era
mai sembrato così lento. Finalmente le porte si aprirono e lui piombò nell’ufficio
di Lestrade.
Vuoto.
“Dov’è Greg?” domandò a
una sorpresa Donovan.
“Cosa…”
“DOV’È GREG!” ripeté,
con il tono imperioso di un capitano dell’esercito.
“Sta fumando.” Rispose
Donovan, di riflesso.
Senza dare spiegazioni,
John si precipitò verso il terrazzo. Greg stava fumando, appena al di là della
porta di accesso al balcone. John intravide un bagliore e il cuore saltò un
colpo.
Il cecchino si trovava
sul palazzo di fronte.
“GREG!” urlò,
precipitandosi verso l’amico e mettendosi fra lui e il cecchino.
Fu uno strano déjà-vu,
quando il proiettile lo colpì alla schiena.
L’ultima cosa che John
vide, fu il volto sorpreso e sconvolto di Greg.
L’ultima cosa che udì,
fu qualcuno che urlava il suo nome. John avrebbe giurato che fosse stata la
voce di Sherlock, a chiamare il suo nome.
Era stata
un’allucinazione, ne era sicuro, ma non aveva importanza, perché presto, molto
presto, si sarebbe finalmente ricongiunto con Sherlock.
Piccolo angolo dell’autrice
In
questo capitolo non compare il John (B). Il capitolo è già molto lungo con la
storia di John (A). Se ci fosse stato anche il secondo universo, sarebbe
diventato troppo lungo. Così ho deciso di separare i due universi paralleli.
Oggi è protagonista John (A), la prossima settimana sarà il turno di John (B).
Spero
che il capitolo vi piaccia lo stesso.
Grazie
a chi stia leggendo il racconto e a Himeko82 per la recensione.
A
domenica prossima.
Ciao
ciao.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** 4B ***
4B
Capitolo
4
Universo B
John (B)
Erano trascorsi
quasi due anni. John non riusciva a crederci.
Sherlock Holmes era
morto da quasi due anni e il mondo aveva trovato il modo di andare avanti senza
di lui. Del resto, se ci era riuscito John, che aveva capito di avere sempre
amato l’unico consulente investigativo esistente sulla Terra, per il resto
dell’Umanità era stato semplice convivere con la mancanza di Sherlock.
Il dottore si era
immerso nel lavoro. Lavorava part time in due cliniche e accettava di sostituire
i colleghi e di svolgere i turni meno desiderati, perché tanto la sua vita era
inesistente. Si trascinava giorno dopo giorno. Sempre uguale e monotona. In
attesa che arrivasse la sua fine.
John avrebbe
accolto la morte con piacere, perché si sarebbe finalmente riunito a Sherlock.
L’unica cosa che gli impediva di infilarsi una pistola in bocca e mettere fine
ai propri giorni, era la paura che tutti incolpassero Sherlock del suo suicidio,
malgrado fosse già morto. Non avrebbe fatto nulla per infangare ulteriormente la
memoria del suo amico.
Dal funerale di
Sherlock, il dottore non aveva più visto né sentito Greg, Molly o Mycroft, ma ogni
tanto usciva a cena con la signora Hudson. Sapeva che l’anziana donna era
rimasta sola a Londra e sapeva quanto fosse affezionata a Sherlock. E a lui.
Non le avrebbe mai fatto mancare la sua compagnia, ma John non aveva più messo
piede a Baker Street. Quel luogo era troppo carico dei bei ricordi e della
presenza di Sherlock, per potervi entrare senza essere sopraffatto dal dolore.
Quella mattina, un
discreto bussare allontanò John dai fornelli, dove stava preparando la
colazione. Quando aprì la porta, osservò il suo visitatore con sorpresa.
Gregory Lestrade non sembrava molto invecchiato. Certo, aveva qualche capello
bianco in più e alcune rughe della fronte erano un po’ più profonde, ma gli
occhi marroni erano sempre vivaci e vispi.
“Buongiorno, Greg!
– John lo salutò con un sorriso cordiale – Ti trovo bene. Entra. Stavo giusto
preparando la colazione. Ti va una tazza di tè?”
Si fece da parte e
l’ispettore entrò in casa, guardandosi intorno. L’appartamento era luminoso e
ordinato. L’arredamento era moderno, ma riusciva a risultare caldo e familiare.
Un cane di piccola taglia, di cui Lestrade non riconobbe la razza, occupava
pigramente il centro del divano e fissava l’umano sconosciuto come se lo
sfidasse a mandarlo via.
“Sto bene, grazie.
Ti trovo in forma. Anche se sei un po’ strano con quei baffi.”
“Non ti piacciono?”
“Oh… beh… sei…
diverso.” Ribatté Greg, quasi imbarazzato, come se avesse il timore di
offendere il dottore.
John sogghignò:
“Tranquillo, non piacciono a nessuno. Ogni volta che la incontro, la signora
Hudson fa almeno un paio di commenti sarcastici per convincermi a tagliarli.”
“E tu li tieni lo
stesso?” Chiese Lestrade, sorpreso.
“A me piacciono. E
mi divertono i commenti della signora Hudson. – ridacchiò il dottore – Che cosa
ti porta da queste parti?” Domandò, facendo cenno a Greg di sedersi al tavolo
della cucina.
“Volevo anticiparti
una notizia, che sarà pubblicata domani dai giornali. Scotland Yard ha
riabilitato la memoria di Sherlock Holmes.”
John si bloccò,
mentre spostava la teiera dal fuoco a un piccolo vassoio, su cui aveva già
sistemato due tazze.
Tacque a lungo, non
sapendo bene che cosa dire.
“Abbiamo accertato,
senza ombra di dubbio, che James Moriarty e Richard Brooks erano sì la stessa
persona, ma che la seconda era un’identità inventata da un boss criminale per
fuorviare le indagini sui suoi crimini. È stato altresì dimostrato che Sherlock
non ha mai commesso alcun reato e che tutte le indagini da lui svolte, le ha
risolte grazie alle proprie capacità, non perché lui avesse commesso o
progettato i crimini.” Spiegò Lestrade, quando vide che John non diceva nulla.
Con un sospiro,
John si voltò verso Greg, portando in tavola il vassoio e sedendosi: “Puoi
immaginare quanto io sia felice per questa notizia, Greg. Solo che è giunta con
due anni di ritardo. Sherlock è morto. L’ammissione di colpa di Scotland Yard
non lo riporterà in vita.”
“Lo so e mi
dispiace molto che ci sia voluto così tanto tempo. Però la sua memoria sarà
riabilitata. Nessuno potrà più ricordarlo come un imbroglione. Tutti sapranno
che Sherlock era una persona in gamba, che è morto lottando per la giustizia.”
Prima che John
potesse ribattere, la porta dell’appartamento si spalancò ed entrò un giovane
uomo alto, magro, con i capelli neri e ricci: “John! Ho una notizia fant… e tu
chi sei?” Domandò, squadrando Lestrade.
“Matt, questo è
Gregory Letrade. Greg, lui è Matthew Randall.”
Matt si fece serio
e incrociò le braccia sul petto: “Quel
Gregory Lestrade?” Domandò in tono quasi ostile.
John sorrise: “Sì.
È quel Gregory Lestrade.”
“Devo buttarlo
fuori? O picchiarlo?”
Greg era rimasto
interdetto dalla somiglianza del nuovo arrivato con Sherlock, ma ora inarcò le
sopracciglia, come se sfidasse Matt a provare a mettere in atto le due offerte
fatte a John. Prima che iniziasse una prova di testosterone, intervenne John:
“Premesso che Greg è un poliziotto e saprebbe come difendersi…”
“Io sono sempre un
ex soldato. Conosco anche io qualche
mossa segreta.”
“… è venuto in
pace. Anzi. Mi ha portato una buona notizia,”
“Mai come la mia!”
Si rallegrò Matt, afferrando con un braccio John, stringendolo a sé e
baciandolo sulla bocca.
Greg, che stava
bevendo un sorso di tè, iniziò a tossire convulsamente.
John allontanò Matt
con un’occhiataccia divertita e diede piccoli colpi sulla schiena del
poliziotto: “Su, Greg, non è successo nulla. Ti è solo andato di traverso un
po’ di tè.”
“Tu… tu…” Greg
tentò di parlare fra un colpo di tosse e l’altro, ma gli risultò molto
difficile.
“No. Non sto con
Matt. Se muori, lo farò accusare di omicidio,” sospirò John, alzando gli occhi
al soffitto.
Finalmente la tosse
si calmò e Greg riprese a respirare normalmente. Matt sogghignava apertamente:
“Ammetti che è stato divertente.”
John sbuffò, mentre
Greg lo incenerì con lo sguardo.
Matt scrollò le
spalle: “Comunque, Oscar mi ha detto di sì. Ha accettato di sposarmi. Ti voglio
come testimone di nozze,” informò il dottore, in tono allegro.
“Sono contento per
te. E onorato di farti da testimone. Ora, ti dispiace lasciarci soli?” Sorrise
John.
Matt osservò Greg:
“Sicuro?”
“Sicuro,” annuì
John.
“Sono nella mia
camera. Se lui non si comporta bene, chiama che io arrivo.” Asserì Matt e uscì
dalla stanza.
Greg si schiarì la
gola: “Tu e lui…”
“Siamo amici. – spiegò
John, mettendosi a sedere di fronte a Lestrade – Condividiamo questo
appartamento, per dividerci le spese di affitto e alloggio. Non mi sarei mai
messo con qualcuno che mi ricorda così tanto Sherlock. Avrei avuto paura di
usarlo come surrogato dell’uomo che amavo veramente. Matt è un bravo ragazzo e
si merita qualcuno che lo ami per quello che è. Come Oscar.”
Greg fissò il
dottore allibito: “Vuoi dire…”
“Che ho capito di
non essere solo etero. Mi piacciono anche gli uomini. Però non ho una relazione
da quando è morto Sherlock, né con una donna né con un uomo. La mia vita è
tutta casa e lavoro.”
I due uomini si
fissarono negli occhi per qualche secondo. Greg si passò la mano tra i capelli,
con un sorriso incredulo sulle labbra: “Però. Non vedi qualcuno per un paio
d’anni e guarda che cosa succede.”
“Sei
scandalizzato?”
“No. Tra i ragazzi
giravano diverse voci su te e Sherlock…”
“Non c’è mai stato
nulla fra noi. Solo amicizia,” affermò John.
“Ti credo e mi
dispiace molto. Se foste stati una coppia, forse le cose sarebbero andate in
modo diverso.”
John scrollò le
spalle: “Non lo sapremo mai.”
Un silenzio quasi
imbarazzato cadde nella cucina.
Greg si alzò: “Beh,
ora devo andare. Ti va di uscire a bere una birra, qualche volta? Non vorrei
perdere ancora i contatti. Eravamo amici. Mi sei mancato, in questi anni.”
John sorrise e
allungò una mano: “Con piacere. Non ho cambiato numero di telefono e non ho
molti impegni. Quando vuoi, chiama.”
Greg ricambiò il
sorriso e andò via, felice di avere ritrovato almeno l’amicizia di John.
****
Sherlock (B)
Il barbiere aveva
finalmente terminato di fare la barba a un impaziente Sherlock, che stava
parlando con il fratello del caso per cui lo aveva ricondotto a casa. Il
barbiere era abituato a non ascoltare i discorsi fatti in quella stanza, ben
consapevole dei rischi che avrebbe corso, se avesse fatto trapelare anche solo
mezza parola fuori da quelle mura sicure. Ad ogni modo, fino a quel momento i
fratelli Holmes non avevano parlato di cose importanti. Anzi, erano quasi
banalità, rispetto ad altre conversazioni cui aveva assistito. Che cosa mai
poteva essere un eventuale attentato a Londra, rispetto al rovesciamento di un
governo straniero? L’uomo terminò di fare la barba al più giovane dei fratelli
Holmes, di nuovo annoverato fra coloro che camminavano e respiravano sulla
Terra, e se ne andò, con un lieve cenno di saluto.
Finalmente soli,
Sherlock affrontò l’argomento che gli stava davvero a cuore: “Dimmi di John.”
“John?” ribatté
Mycroft, come se non avesse compreso di chi stesse parlando il fratello.
Sherlock sbuffò e
alzò gli occhi al soffitto: “John Watson!” sbottò.
“Ah, quel John. Prendo il tè con lui tutti i
venerdì al Diogene’s.” Affermò il maggiore degli Holmes, con un sorriso
sarcastico sulle labbra.
“Si vede. Sei
ingrassato di almeno cinque chili,” Sherlock ricambiò il sorriso.
“Veramente non ho
preso più di due chili, ma non credo che questo sia il centro del tuo
interesse. Tu vuoi sapere del tuo John.” Mycroft allungò una cartellina al
fratello, che la aprì subito.
Si trovò davanti il
viso familiare di John. I capelli si erano ingrigiti, aveva messo su qualche
chilo, ma gli occhi erano sempre di quell’incredibile azzurro intenso, che
Sherlock aveva amato dal primo momento in cui lo aveva visto.
“Che cosa sono
questi?” Sbottò, fissando Mycroft con biasimo.
“Credo che si
chiamino baffi,” rispose il maggiore, serafico.
“Questi dovranno
sparire. Invecchiano John di almeno dieci anni. Io non posso andare in giro con
un vecchio.” dichiarò Sherlock, deciso.
“Vedremo quanto ci
metterai a convincerlo.”
“Dieci minuti. Ora
vado a Baker Street e vedrai che domani questi baffi saranno spariti.”
“John non vive più
a Baker Street. Ha lasciato l’appartamento poco dopo il tuo finto funerale.”
Mycroft parlò in tono neutro e questo insospettì Sherlock. Se il fratello aveva
smesso di prenderlo in giro, doveva esserci un motivo preciso e, forse, serio.
“Che cosa è che non
mi dici?”
“John convive con
un suo collega, un tale Matthew Randall.”
Il cuore di
Sherlock mancò un colpo. Mycroft avrebbe giurato che fosse persino impallidito,
se non fosse già stato molto pallido.
“Il dottor Randall
si è appena fidanzato con un tale Oscar Walder. John e Randall dividevano le
spese dell’appartamento. Come facevate voi due a Baker Street,” lo informò
Mycroft, non facendo molto per celare un sorrisetto irriverente.
“Sei proprio
divertente, Mike. Dovresti fare il comico, sai?”
“Non chiamarmi
Mike. Nella cartellina trovi l’indirizzo. John è lì. Stamattina non lavora.”
Sherlock chiuse la
cartellina con un colpo secco: “Bene. È giunto il tempo che John ed io torniamo
al posto cui apparteniamo: il 221B di Baker Street.”
“Se il dottore non
ti ucciderà per averlo ingannato…”
“John capirà. Sarà
felicissimo di vedermi.”
“Convinto tu…”
Sherlock sbuffò e
lasciò l’ufficio del fratello. Mycroft lo seguì con lo sguardo e sorrise.
Probabilmente John si sarebbe infuriato, ma presto tutto sarebbe tornato come
era prima di James Moriarty.
****
John (B)
Era stato bello
rivedere Greg. Sarebbe stato altrettanto bello riprendere le loro uscite.
Avrebbe contattato anche Molly. Non c’era motivo per cui non potessero
incontrarsi qualche volta o scambiarsi qualche messaggio.
Certo, Molly era
sempre stata innamorata di Sherlock, anche se non era ricambiata, ma questo
sarebbe stato solo qualcos’altro che avrebbero avuto in comune.
Non avrebbe,
invece, chiamato Mycroft. Sarebbe stato molto strano vederlo o parlargli, ora
che Sherlock era morto.
John uscì nella
giornata fredda, ma soleggiata. Si fermò per qualche secondo, per farsi
riscaldare il viso dal tiepido sole.
Fece scorrere lo
sguardo verso l’altro lato della strada. Un giovane uomo, alto, magro, con
capelli ricci e neri, che indossava un lungo cappotto nero, lo stava fissando,
come se fosse stato un’apparizione.
John guardava il
giovane uomo, ma sembrava non riuscire a metterlo a fuoco. Assomigliava
incredibilmente a qualcuno, ma non poteva essere…
L’uomo gli sorrise.
Un sorriso felice,
ma allo stesso incerto.
I loro occhi si incatenarono
gli uni agli altri. Quegli occhi dalle iridi chiare in modo così straordinario
erano inconfondibili. Per quanto fosse assurdo, l’uomo che lo stava osservando
dal marciapiede opposto era Sherlock Holmes.
Quello vero, non il
fantasma, che aveva visitato i giorni più tristi di John.
Doveva
raggiungerlo. Toccarlo. Accertarsi che fosse davvero reale e non uno scherzo
bizzarro della sua mente.
John attraversò la
strada, con lo sguardo fisso su Sherlock.
Non vide il camion
che stava arrivando. Non udì lo stridore dei freni, che cercavano di fermare,
inutilmente, la corsa del tir.
Si sentì sollevare
in aria, come una foglia trasportata dal vento.
E udì la voce
disperata di Sherlock che urlava il suo nome.
Piccolo angolo dell’autrice
Come
annunciato nel capitolo precedente, questo è completamente dedicato a John (B)
e al suo Universo, molto diverso da quello di John (A), ma con la stessa
drammatica chiusura. Anche John (B) subisce un incidente prima di
ricongiungersi con Sherlock.
Ora
manca un solo capitolo, per sapere quale sarà la conclusione delle storie di
John (A) e John (B)
Grazie
a chi stia leggendo il racconto e a Himeko82 per la recensione.
A
domenica prossima.
Ciao
ciao.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** 5 ***
5
Capitolo
5
John (A)
L’ambulanza correva per
le strade di Londra, urlando la propria urgenza a chiunque incrociasse lungo il
percorso.
Nel suo stato di semi-incoscienza,
John sentiva quella voce vicina a lui, che lo pregava di tenere duro, di non
lasciarlo. Quella voce era bassa e profonda, quella di un baritono disperato.
Era una voce che conosceva benissimo e che da troppo tempo sentiva solo durante
quelle visioni a occhi aperti, diventate così familiari dalla morte di
Sherlock.
John voleva sorridergli
e rassicurarlo. Non doveva temere, presto sarebbero stati insieme e nessuno
avrebbe più potuto dividerli.
Per un attimo, John
aprì gli occhi e vide l’uomo seduto accanto a lui, vicino al medico che
monitorava le sue funzioni vitali. Quegli occhi azzurri così chiari erano
talmente disperati, che John allungò una mano verso la visione, sorridendogli.
Tutto diventò buio.
L’urlo dell’ambulanza
si fece sempre più lontano.
****
John (B)
L’ambulanza correva
per le strade di Londra, urlando la propria urgenza a chiunque incrociasse
lungo il percorso.
Nel suo stato di
semi-incoscienza, John sentiva quella voce vicina a lui, che lo pregava di
tenere duro, di non lasciarlo. Quella voce era bassa e profonda, quella di un
baritono disperato. Quella voce che non sentiva da anni, ma che avrebbe
riconosciuto fra milioni.
John sapeva di
averlo visto dall’altra parte della strada. Era certo che non fosse stato una
visione, come tante ne aveva avute negli ultimi due anni.
Lui aveva davvero
visto Sherlock. Doveva riuscire a rassicurarlo. Doveva fargli capire che lo
amava e che avrebbe lottato con tutte le proprie forze per rimanere con lui.
John riuscì ad
aprire gli occhi e a immergersi nelle iridi azzurro chiaro di Sherlock. Sentiva
la sua voce, che, come una dolce cantilena, ripeteva: “Stiamo per arrivare,
John. Andrà tutto bene. Ci sono tante cose che ti devo spiegare e raccontare.
Ce ne è una importantissima che ti devo dire. Tieni duro. Non mi lasciare.
Siamo quasi arrivati.”
John allungò una mano, per
assicurarsi che Sherlock fosse veramente lì.
Il giovane Holmes afferrò la
mano e la strinse fra le sue: “Ti amo tanto, John. Sono tornato. Per te.”
Il cuore di John ebbe un
sussulto. Non credeva alle proprie orecchie, ma era sicuro di che cosa avesse
sentito. Aveva tanto sognato di sentire quelle parole e ora Sherlock le aveva
finalmente pronunciate. Le loro vite sarebbero state meravigliose.
Sorrise, felice: “Anche io ti
amo.” Sussurrò.
Un sibilo maligno invase
l’abitacolo dell’ambulanza. Il medico urlò al conducente: “Più veloce! Lo
stiamo perdendo!”
John fu avvolto dal buio.
L’urlo dell’ambulanza si fece
sempre più lontano.
****
Sherlock
(A)
Era in quell’ospedale da
un’eternità. Seduto in terra, con la schiena appoggiata alla parete. Le mani
cingevano le ginocchia, raccolte contro il petto.
Il personale medico aveva rinunciato
a farlo alzare e sedere su una sedia della sala d’attesa. Al povero medico che
lo aveva avvicinato, aveva spiattellato che la moglie lo tradiva con la sua
migliore amica e che lo aveva sposato solo perché la sua famiglia non avrebbe
mai accettato la sua relazione lesbica. L’uomo si era allontanato sconvolto e
nessuno si era più avvicinato.
Tranne l’uomo con l’ombrello.
Mycroft entrò nella sala d’attesa
con passo flemmatico, facendo picchiettare la punta metallica del suo
inseparabile ombrello nero sul lindo pavimento. Era vestito in modo elegante,
con un abito a tre pezzi di colore chiaro. Osservò il fratello, con uno sguardo
di disapprovazione negli occhi chiari.
“Nessuno ti ha chiamato. Puoi
tornartene da dove sei venuto. Vai a fare scoppiare qualche guerra e lascia in
pace me,” lo apostrofò Sherlock, in tono secco.
“Lo so, fratellino caro, che non mi
hai chiamato. Lo ha fatto Lestrade. Quell’uomo era piuttosto stravolto, anche
se non saprei dire che cosa lo abbia sconvolto di più. Se il fatto che qualcuno
abbia tentato di ucciderlo. Se il fatto che il buon dottore lo abbia salvato.
Se il fatto che tu sia comparso, vivo e vegeto, sulla scena di questo tentato omicidio.”
“Lestrade sopravvivrà,” ribatté
Sherlock, laconico.
“E John?”
“Vuoi dirmi che non ti sei fatto
dire tutto dall’infermiera della reception?” Ringhiò il giovane Holmes, asciutto.
“Mi hanno assicurato che John è in
ottime mani. Vedrai che andrà tutto bene.”
“Deve andare tutto bene. Non posso
avere trascorso due anni d’inferno, a sgominare l’organizzazione di Moriarty
per proteggere John e perderlo lo stesso giorno in cui faccio ritorno a casa.
Non può accadere.”
Mycroft osservò il fratello,
provando una profonda compassione per lui. Non disse nulla. Si sedette in una
sedia accanto a lui e rimase in attesa.
****
Sherlock
(B)
Non c’era nessuno nella stanza a
parte lui. A parte il cadavere di John.
Sherlock era seduto su una
sedia, accanto al letto sul quale John era stato adagiato per gli ultimi e
inutili tentativi di tenerlo in vita.
Sherlock stringeva una mano di
John fra le sue. Una mano che stava diventando sempre più fredda, con il
passare del tempo.
Nessuno aveva tentato di
allontanare quell’uomo disperato dal cadavere del suo amato. Provavano talmente
tanta pietà per quel giovane uomo, che non nessuno aveva fretta di allontanarlo
da quella stanza.
L’uomo con l’ombrello nero entrò
silenziosamente nella stanza. Era vestito in modo elegante, con un abito di tre
pezzi di colore scuro. C’era tanta tristezza nel suo sguardo.
“Non sono riusciti a salvarlo.
Le ferite interne erano troppo gravi. Quando siamo arrivati in ospedale lui era
più morto che vivo.”
“Mi dispiace, fratellino,”
mormorò Mycroft.
Sherlock sapeva che il fratello
era sincero, ma la sua pietà lo faceva più infuriare, che lenire le sue ferite.
“Tutto quello che ho fatto in
questi due ultimi anni è stato inutile. Dovevo salvare John. Proteggerlo.
Ricongiungermi con lui per cominciare una nuova vita. Mi ha detto che mi amava.
Mi ha detto che mi…”
La voce si ruppe. Sherlock
strinse ancora più forte la mano di John. Mycroft appoggiò una mano sulla
spalla del fratello e la strinse in modo leggero, per fargli capire che lui era
lì e che ci sarebbe sempre stato.
“Dopo i funerali di John,
partirò per quella missione che mi ha offerto l’MI6.”
Mycroft si irrigidì. Pensava che
quel discorso fosse già stato accantonato. La missione era troppo pericolosa e
Sherlock avrebbe potuto morire: “Non è il momento per prendere decisioni di
questo tipo…”
“Io andrò. Avvisa tu l’MI6 o lo
farò io.” Lo interruppe Sherlock, in tono deciso.
Mycroft spostò lo sguardo verso
John Watson. Il dottore, in qualche modo, era riuscito a sopravvivere alla
morte di Sherlock Holmes.
Sherlock Holmes non avrebbe
fatto lo stesso. Sherlock Holmes non sarebbe sopravvissuto alla morte di John
Watson.
Il silenzio cadde nella stanza.
I rumori dell’ospedale erano lontani.
Solo la morte aleggiava sugli
uomini presenti.
****
John
(A)
Aveva l’impressione di un déjà-vu.
Il dolore alla spalla. Il battito ritmico dei macchinari. Il forte odore di
disinfettante, tipico degli ospedali.
A John Watson sembrava di essere
tornato indietro nel tempo. A quando gli avevano sparato in Afghanistan.
Solo che non sentiva il caldo afoso
del deserto afghano.
Anzi. Qualcuno gli stava tenendo
stretto una mano. A dire il vero, gliela stava praticamente stritolando.
Spostò la testa appena un po’, per
vedere a chi appartenesse quella mano. Il suo cuore iniziò a battere
velocissimo, registrato dai macchinari.
“Calmati, John. Sei fuori pericolo.
Il proiettile non ha leso organi vitali e potrai riprendere la piena
funzionalità del tuo braccio, se non ti fai venire un infarto ora,” lo
apostrofò Sherlock, fra l’irritato e il preoccupato, spostando velocemente lo
sguardo fra lui e i monitor.
John non poteva credere ai propri
occhi. Abbassò lo sguardo e vide che era la mano di Sherlock, che gli stava
stringendo la sua: “Tu sei reale,” gracchiò, con voce ruvida.
“Certo che sono reale! Perché non
dovrei esserlo?”
Si fissarono negli occhi per qualche
secondo. John incredulo. Sherlock perplesso.
“Oh. Quello. Non morto,” Sherlock
tentò di sorridere, ma gli venne fuori una smorfia strana.
“Dovrei prenderti a pugni…” cominciò
a dire John.
“Capisco, ma lascia che…” cercò di
intervenire Sherlock.
“… dovrei ucciderti per quello che
mi hai fatto, ma sono così felice di vederti…”
“… ti spieghi… io lo ho fatto
proteggere…”
“… che ti bacerei.” Concluse John.
“… te e…” Sherlock serrò la bocca di
scatto.
I due uomini si fissarono negli
occhi.
“Che cosa hai detto? Solo l’ultima
frase, non tutto il discorso.”
“Hai qualche problema con il tuo
palazzo mentale?” Ridacchiò John.
“Il mio palazzo mentale sta
benissimo. Se anche ripeti ciò che hai detto, non succede nulla,” ribatté
Sherlock, in tono lamentoso.
“Ho detto che ti bacerei,” ripeté
John, con un sorriso malizioso.
“Su una guancia?”
“Sulle labbra, idiota!” Sbottò John,
alzando gli occhi al soffitto.
Sherlock lo osservò attentamente.
Oh, quanto erano mancati quegli occhi a John. Avrebbe potuto trascorrere tutta
la vita a specchiarsi in essi.
Sherlock avvicinò le proprie labbra
a quelle di John. I due uomini si scambiarono un bacio tentennante, timido e
pieno di promesse.
Il giovane Holmes si staccò in
fretta e osservò John. Il dottore sorrideva felice.
“Quelli… – Sherlock si passò un dito
sul labbro superiore – devono sparire. Sono fastidiosi, quando ti bacio. E ho
intenzione di baciarti molto spesso, se tu sei d’accordo.”
“Sono d’accordo sul baciarci, ma
questi… – John scimmiottò il gesto di Sherlock – rimangono esattamente dove si
trovano. Saranno la tua punizione per quello che hai fatto, fino a quando non
potrò alzarmi da questo letto e darti il pugno, che ti meriti, senza che
saltino tutti i punti.”
Sherlock storse la bocca: “Dobbiamo
proprio arrivare al pugno?”
“Beh, dipende,” ribatté John
cercando di scrollare le spalle, ma facendo una smorfia di dolore, quando il
movimento interessò la spalla ferita.
“Non ti muovere. Potresti farti
male. Approfitterò del tempo in cui sarai fuori gioco, per spiegarti tutto e
vedrai che non mi prenderai a pugni.”
“Sembri molto sicuro di te.”
“Lo sono. E avrò modo di dirti tante
cose importanti. Avrai modo di pensarci e di dirmi che cosa ne pensi. Io spero…
io spero…”
“Anche io ti amo,” sussurrò John.
Sherlock lo fissò sbalordito:
“Davvero?” A John si strinse il cuore. Sherlock non gli era mai apparso così
vulnerabile.
“Davvero. E ora baciami ancora.
Chissà che tu non riesca a convincermi a tagliare i baffi,” sogghignò John.
“Come lei comanda, mio signore,”
mormorò Sherlock, con un lampo negli occhi.
C’era voluto tanto tempo, ma
Sherlock Holmes e John Watson erano finalmente insieme.
Piccolo angolo dell’autrice
È
sempre un po’ triste quando una storia finisce. Spero che vi sia piaciuta e che
sia stata di compagnia.
Grazie
a chi la abbia letta.
Ciao
ciao.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3983421
|