Con cuori di cenere

di SherryVernet
(/viewuser.php?uid=15105)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa e Indice ***
Capitolo 2: *** Ciò che non si dimentica e non si perdona ***
Capitolo 3: *** Nell'ombra dei giganti ***
Capitolo 4: *** Chi è causa del suo mal ***
Capitolo 5: *** I pagliacci ***
Capitolo 6: *** La cenere e la neve ***



Capitolo 1
*** Premessa e Indice ***


Questa storia è ispirata al Writober di Fanwriter.it

 

 

Con cuori di cenere

 

“Che resta... se poi anche questo libro, e tutti i nostri atti di pietà, compiuti con cuori di cenere, non sono già cenere anch’essi... più cenere degli atti sensuali là nel fiume, che trepidano di vita e si propagano come cerchi nell’acqua...”

 

–– Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, capitolo VII ––

 

 

 

 

 

Bozzetti di studio su Dabi e i Todoroki, con Hawks a carico. Perché si sa che Hawks è un Todoroki onorario.

Un po' di Dabi/Hawks, quasi in sottofondo.

 

Spolier per chiunque non sia in pari con il manga.

 

Questa è la mia prima scorribanda nel fandom di BNHA, almeno dall'altra parte della tastiera.

Approfitto del Writober 2021 per riprendere la penna in mano cambiando drasticamente aria,  e per prendere confidenza con questo universo e questi personaggi.

Di solito sono una che scrive piano,  riscrive pianissimo, e revisiona per  mesi. Questo è un tentativo di: non riscrivere; revisionare il meno possibile; dare il giusto tempo al tempo;  e dedicare,  per circa un mese, un paio di ore al giorno alla scrittura di cose dilettevoli, tentando tenere  il passo senza  rimanere troppo indietro né  perdermi  per strada –– ahahahahaha! 

 

L’indice, aggiornato progressivamente, è qui di seguito.

 

 

Nota del 2 aprile 2023

Ovviamente i miei buoni propositi sono andati a donnine d'angiporto in men che non si dica. La vita ci si è messa e sono stati un paio d'anni apocalittici.

Riparto da qui, per sciogliere un po' l'inchiostro inceppato nella penna.

 

 

 

 

 

Lista Blank

 

Giorno 1: Ciò che non si dimentica e non si perdona

» Prompt: Mnestic (Words)
» Rating: giallo
» Link: https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3994540

 

Giorno 2: Nell'ombra dei giganti

» Prompt: Scian (Words)
» Rating: giallo
» Link:  https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3994797

 

Giorno 3: Chi è causa del suo mal

» Prompt: Wabi-Sabi (Words)
» Rating: giallo

» Link:  https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3995988&i=1

 

Giorno 4:  I pagliacci

» Prompt:  Eccedentalist (Words)
» Rating: giallo

» Link:  https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=4051017&i=1

 

Giorno 5:  La cenere e la neve

» Prompt:  Neve (Night)
» Rating: arancione

» Link: https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=4054016

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Ciò che non si dimentica e non si perdona ***


Prompt:  Mnestic (lista: Words)

Rating: giallo

 

 

Ciò che non  si dimentica e non si perdona

 

 

 

“Nous trouvons de tout dans notre mémoire; elle est une espèce de pharmacie,  de laboratoire de chimie, où on met au hasard la main tantôt sur une drogue calmante, tantôt sur un poison dangereux.”

–– Marcel Proust, La Prisonnière ––

 

 

Tōya non dimentica e neppure perdona: che cosa fosse scoppiettare d’orgoglio, bruciare di gioia; il fuoco, allora rosso, sulle dita, la fiamma amica che non lo scottava; il viso di suo padre, non ancora segnato, né la sua colpa più grande –– quella d’averlo amato, e poi scartato. Tōya non dimentica d’essere stato  un prodigio, poi un fallito; e, infine, lo sfortunato figlio di sua madre, un morto che  nessuno ha seppellito.

E si chiede, Tōya, se l’abbiano scordato o, peggio, se l’abbiano ridotto a una fotografia, a un vuoto dietro a un vetro e ad un riflesso; ma, forse, del resto, lo era già da prima, quando chi era stato, quello che aveva senso, era ormai andato perso, e a Tōya non restava che la rabbia col ricordo ustionante di sé stesso.

Di questi tempi, Tōya srotola i giorni come una vecchia pellicola consunta: a singhiozzi, tracciando con le dita i ricordi degli altri e i propri graffi, lungo un film muto di cenere e di fumo, suture e cicatrici – le ha contate tutte; ricorda il perché, il dove, l’ora, come se avesse importanza,  come  se la  data da non dimenticare non fosse una sola; come se gli anni e i fatti e le circostanze valessero  davvero qualcosa per fare i conti con tutto il suo rancore.

È quel rancore che salda i debiti tra la memoria e la dimenticanza, il prezzo in cose perse che si deve pagare –– questione di  dettagli: gli occhiali da sole, sospesi sul taschino di un giaccone; che cosa abbia mangiato a colazione; la luce grigia negli occhi di sua madre quando, una volta, ancora  sorrideva, o la certezza  infantile che  avesse smesso per colpa di Tōya. Occhio per occhio… è come un’equazione.

E gli occhi di suo padre lo guardano riflessi nello specchio, sfuggenti di passaggio alle finestre; lo scrutano nell’ombra di un bicchiere più spesso che alla televisione, comunque troppo spesso per dimenticare lo sguardo esatto del suo disappunto, della sua delusione. Che altri occhi potrebbe ricordare? Quelli di Hawks  –– Takami, no: Keigo –– quando è sincero sempre per errore; lo ammette solo qualche volta, se si addormenta e non può  fare a meno di sognare. È un segreto che si tiene in tasca, che stringe nel pugno assieme al proprio nome, entrambi una condanna e un anatema –– per chi?; Tōya non ci vuole pensare.

Ma la memoria è subdola ed è stronza. Tōya ci ripensa – non che faccia, d’altronde, alcuna differenza. Ripensa a quella donna che s’è venduta un figlio senza opporre troppa resistenza. Ripensa al peso delle aspettative; immagina, s’illude, che non siano dolorose, quando non sono state disattese. Si chiede che cosa Hawks ricordi; che cosa avesse e che cosa gli sia stato tolto; che cosa abbia dimenticato, ed a che cosa abbia dovuto rinunciare. Per un momento, Tōya lo contempla come se fosse un riflesso capovolto –– lo spettro redivivo di chi Tōya sarebbe dovuto diventare, se avesse potuto ––, finché la realtà, cogli occhi di suo padre, non lo schiaffeggia in faccia dal primo piano lucido di turno. Allora, Tōya scaccia quei pensieri, oziose distrazioni, assieme ai krapfen che Keigo ha servito a colazione; alla contezza di dove diavolo siano finiti gli occhiali da sole; alla luce fuggevole negli occhi sbagliati dei bugiardi.

Il resto, però, Tōya non lo dimentica; né a lui né a sé stesso, lo perdona.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Nell'ombra dei giganti ***


Prompt:  Scian (Words)

Rating: giallo

 

Nell'ombra dei giganti

 

 

" ...the very substance of the ambitious is merely the shadow of a dream."

– William Shakespeare, Hamlet, Atto 2, Scena 2 –

 

 

 

 

Le ombre dei giganti sono lunghe e profonde.

Scrutando le ombre incerte sul  soffitto, nel neon d'una stanza d'ospedale, coll'occhio buono e coll'occhio ancora opaco – è l'ombra del fuoco, un velo di vapore –, Keigo vi cerca  la linea di confine tra la ragione e dove abbia sbagliato.

All Might era immenso, era infinito –– più un  santo che un eroe; più grande di quanto, a un uomo solo, sarebbe consentito. Keigo, già bambino, l'aveva immaginato, che ombra atroce si portasse dietro. E che non fosse un'ombra che aveva proiettato, che avesse voluto... beh, non ha cambiato niente e non è importato.

Quello che conta, quello che importa, quel che ha cambiato tutto, è quello che Keigo non aveva capito. Le ombre tremolanti, dal neon sul soffitto, glielo rinfacciano, allungandosi, pallide e pigre, nel sole tramortito del tramonto. Eppure Keigo aveva creduto che chi brilla della luce di uno sforzo, chi è il fuoco costante che era stato per lui –  per Keigo, per  Hawks – un bagliore di speranza, non avesse ombra. 

Adesso sa che ha un'ombra anche la fiamma: l'ombra d'un'ambizione che crea e che conquista la distanza; si stende sugli altri, più oscura e più terribile per la vicinanza.

È quella l'ombra che gli resta addosso: l'ombra nell'occhio opaco; l'ombra di fumo in gola, che ancora non lo lascia respirare; è l'ombra di cui Dabi s'è ammantato, come una scusa, come una corazza, forse finanche come una ragione. È l'ombra di cenere che gli è rimasta in faccia e che non ha avuto ancora il coraggio di pulire. È l’ombra silenziosa delle ali che non è sicuro di poter riavere. È l'ombra d'un dubbio, e dell'incertezza di non sapere, adesso, cosa fare.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Chi è causa del suo mal ***


Prompt:  Wabi-Sabi (Words)

Rating: Giallo

 

 

 

 

Chi è causa del suo mal

 

 

“V'è forse, in noi Orientali, un'inclinazione ad accettare i limiti, e le circostanze, della vita. Ci rassegniamo all'ombra, così com'è, e senza repulsione. La luce è fievole? Lasciamo che le tenebre c'inghiottano, e scopriamo loro una beltà.”

– Jun'ichirō Tanizaki, Libro d’ombra (1933) –

 

 

A certe cose, ormai,  Tōya ha fatto l’abitudine: a un corpo dolorante,  una ferita  aperta, e all’acqua che brucia quando gli piove in testa o si lava la faccia  (il  sapone  è quasi  una tortura, nel diluvio di  spilli che è farsi una doccia); al pezzo di mascella che gli manca da anni ed al vago orrore che, nonostante la rabbia, il rancore e tutto questo tempo, ancora rimanga masticare, se la fame non è obnubilante, bianca, e Tōya ci pensa; a vivere una vita dimezzata, con quattro libri smagriti e un cambio di mutande, da far entrare in una borsa a tracolla che quasi nessun altro chiamerebbe valigia, o, alla bisogna,  da trasferire in tasca. 

Forse qualcuno, forse finanche Keigo, ha potuto trovare, nelle sue suture d’oro e d’argento, di titanio, mostruosa, una sorta di bellezza; forse un memento dell’imperfezione, dell’impermanenza; o forse la morale di una storia che Tōya non ha avuto l’occasione o la pazienza di stare a sentire –  e non importa se, in fin dei conti, sia stato un racconto prudenziale oppure di speranza.

A certe cose – Tōya lo sa –, inevitabilmente, uno si rassegna; a lungo andare, ce le si fa piacere: il fuoco che  divora  le vecchie cicatrici non gli fa più male dell’eco del dolore nel ricordo; non piangere più è una consolazione, in un certo senso, quando ne ha bisogno; e che mangiare sia un’agonia non è poi un  gran danno,  se l’ombra del  fumo e  l’amaro della cenere sono oramai l’unico gusto al mondo.  E, forse, questa è una forma di saggezza, un segreto iniziatico per non morirne, per non impazzire nella disperazione della perdita. 

Tōya però non è mai stato bravo ad accettare: le circostanze; i limiti crudeli del suo corpo; l’amore di suo padre che, allora soprattutto, seppe di disappunto e d’abbandono; tutte le cose  che non può cambiare, ma che non  può ammettere, cui ancora non si vuole sottomettere. Tōya ne ha pagato il prezzo, continuerà a pagare, perché le conseguenze valgono il peso di ogni decisione, la responsabilità d’un’autoaffermazione che sputi in faccia al mondo ed al destino e a chi non è potuto diventare, la lucida certezza d’una convinzione.

Talvolta, tuttavia, mentre si lava la faccia e chiacchiera in silenzio col proprio dolore, stornando lo sguardo dalla bellezza  infranta e orripilante che lo rimira, sfacciata, dallo specchio, Tōya si chiede – è un dubbio subdolo, un’infida incertezza – se Tomura abbia avuto mai un’alternativa e la coscienza che serve a rassegnarsi, o almeno a capire il peso della polvere, il fascino discreto della dimenticanza, della distruzione.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** I pagliacci ***


 Prompt: Eccedentalist (Words)

Rating: giallo

 

 

I pagliacci

 

 

“War is a game that is played with a smile. If you can't smile, grin. If you can't grin, keep out of the way till you can.”

Winston Churchill, bozza di discorso riportata in: William Manchester, The Last Lion: Visions of Glory (1874-1932), New York 1989, p.  591 –

 

 

 

Di Enji si può dire tutto: che, in fondo, non è mai stato altro che un furfante, il mostro sotto al letto d’un bambino, a capo ed al principio della storia; o che abbia perso di vista le cose minute che danno un senso al bene più grande, per cocciutaggine, per cieca ambizione; che sia un omone torvo, un burbero goffo (questo, neanche Fuuyumi lo potrebbe negare); che non abbia capito, in nessun momento cruciale, che cosa fosse giusto, che cosa fosse il caso di dire o di fare, per essere un padre decente, se non da manuale, e un marito migliore; per mettere in parole e nelle azioni quell’inatteso, incandescente amore che, prima, non aveva creduto di poter sentire – se solo fosse stato in grado di vedere, di farselo bastare…

Di Enji si può dire tutto, perché non è un santo, né è stato un buon eroe. E, tutto, lo si è detto, lo si continua a dire; in fondo, Enji pensa che abbiano ragione.

Ma, Enji è anche un uomo intelligente, occasionalmente, quando non s’incaponisce su un piano folle, sfasato di vent’anni, che non può funzionare, e smette d’ascoltare anche le proprie scuse – per le lacrime di Rei; le recriminazioni di tutti i propri figli, senza fermarsi a prestar loro attenzione; la tentazione della felicità; la voce del buonsenso; il grido disperato (d’aiuto, di dolore, di furore) del piccolo Tōya, cui ha appiccato il fuoco e che continua a bruciare. Neppure le ceneri, i frammenti di ossa, sui picchi di Sekoto gli furono davvero di lezione.

A casa, Enji, sin dal primo giorno, è stato un inetto, la fonte d’ogni male, un tragico incapace. Però, sul lavoro, Endeavor è attento, solerte, spesso perspicace.

All’inizio, Hawks fu una faccenda tutta professionale; un piccolo incidente di percorso, che sembra solo più grande della vita, più grande delle luci e i riflettori, più grande e più leggero, sospeso a mezz’aria, delle parole grosse, pesanti, che gli lanciava in testa, come pietre, le fondamenta su cui lui, Endeavor – Enji; goffo, cocciuto, imperfetto, Enji – doveva costruire. Gliele lanciava, quelle parole grosse, come una sfida, come un salvagente, con un sorriso sbieco, a mezza bocca, da giullare, abbagliante e falso, un sole d’alluminio e di cartone.

Nei mesi, poi, ha visto anche gli altri suoi sorrisi: quelli brillanti, fragili, bugiardi; quelli caparbi, a denti stretti, rossi di sangue, in mezzo alla battaglia; quelli minuscoli, strazianti e quasi sinceri, nascosti tra uno scherzo e una menzogna, per un pezzo di pollo strappato a uno spiedino, e il sogno vagheggiato di poter dormire.

Che cosa, ora, sia Hawks, per lui e per tutti loro, Enji non ha ancora il coraggio di domandarselo. Né osa pensare che – con pazienza, con testardaggine, con mille aspettative inconfessate e mezze verità, tutte con troppa o senza alcuna importanza; col marchio di famiglia delle fiamme di Tōya, sul viso, sulla schiena, sull’anima e nel cuore – Hawks, Keigo, sia diventato il figlio maggiore che avrebbe voluto avere, un rimpiazzo, al rovescio, di quell’altro figlio che Enji aveva abbandonato né aveva potuto seppellire. 

Certo, i sorrisi di Hawks, Enji non li ha visti tutti; ma ha il dubbio ed il sentore che Tōya, per errore o privilegio, ne abbia scorti alcuni – intimi, preziosi, i più segreti – di quelli che arrivano, sfiancati, fino agli occhi, spianandosi la strada a colpi di machete. Ha la certezza che, solo per questo, Tōya non abbia avuto la crudeltà o la forza di vederlo morire. Negli occhi, adesso, Hawks non ha niente; solo un riflesso duro e dolorante, d’acciaio battuto a fuoco, che non si piega e neppure si spezza, ma fa ancora male. Entrando nella stanza d’ospedale, reclamando il suo posto in un dramma famigliare con cui, sulla carta, non ha assolutamente nulla da spartire; è Keigo che lo osserva, lo soppesa, senza sorrisi e senza compromessi, con gli occhi di Tōya d’un altro colore.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** La cenere e la neve ***


» Prompt: Neve (Night)
» Rating: arancione

 

 

 

La cenere e la neve

 

 

 

"Io senta la neve ancora

io senta il suo cadere placido

dal mio mondo sparuto.

Le mie piccole cose qui,

la mezza matita che non mi abbandona.

I miei volti nelle fiamme tanti

che hanno lo stesso colore.

E gli anni passano così

nel cuore della notte di neve."

– Rocco Scotellaro, "Desiderio" (1947) –

 

 

 

Sui picchi di Sekoto, quella notte, la cenere che gli cadde intorno, la cenere che si lasciò dietro – cenere, i pezzi consumati del suo corpo –; la cenere, sui picchi di Sekoto, quella notte, fu come la neve.

Ed alla neve aveva ripensato, con tutto il rancore dei suoi tredici anni, della sua delusione, e tra le lacrime incagliate tra le ciglia – riarse, cristalli di sale che gli bruciavano gli occhi, più dure e più scottanti delle fiamme che lo cremavano vivo –; al fatto che anche lui, in fondo, non era stato altro che un fiocco di neve cui s'è appiccato il fuoco; e che, più tardi, suo padre non avrebbe ritrovato neppure la cenere e la neve, nel turbinio ustionante di quell'inferno che aveva scatenato, che lui stesso era diventato – se alla fine, dopo la fine, si fosse degnato di venire a raccattare un pugno di polvere e di niente.

Allora, Tōya, nel cuore di cobalto dell'incendio, aveva riso forte, singhiozzando.

E aveva sentito il gelo di sua madre nelle ossa.

Il gelo dei suoi nervi che esplodevano in un brivido, fiori sulfurei di polvere da sparo, spilli di freddo nei palmi delle mani, nelle dita, nel petto ed in gola, mozzati col respiro graffiante di fumo, tagliente più del vetro, quasi brina.

Il gelo della cenere che gli baciava le guance, piano piano, anche lei un avanzo, glaciale quanto lui su quella pira funebre.

Lieve. Condannata.

Come neve.

 

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3994538