Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli: Capitolo 1: *** Premessa e Indice *** Capitolo 2: *** Ciò che non si dimentica e non si perdona *** Capitolo 3: *** Nell'ombra dei giganti *** Capitolo 4: *** Chi è causa del suo mal *** Capitolo 5: *** I pagliacci *** Capitolo 6: *** La cenere e la neve ***
Questa
storia è ispirata al
Writober di Fanwriter.it
Con cuori di cenere
“Che
resta... se poi
anche questo libro, e tutti i nostri atti di pietà, compiuti
con cuori di
cenere, non sono già cenere anch’essi... più cenere degli atti
sensuali là nel
fiume, che trepidano di vita e si propagano come cerchi
nell’acqua...”
––
Italo Calvino, Il
cavaliere inesistente, capitolo VII ––
Bozzetti
di studio su Dabi e
i Todoroki, con Hawks a carico. Perché si sa che Hawks è un
Todoroki onorario.
Un
po' di Dabi/Hawks, quasi
in sottofondo.
Spolier
per chiunque non sia
in pari con il manga.
Questa
è la mia prima
scorribanda nel fandom di BNHA, almeno dall'altra parte della
tastiera.
Approfitto
del Writober 2021 per riprendere la penna in mano cambiando
drasticamente aria,e
per prendere confidenza con questo universo
e questi personaggi.
Di
solito sono una che scrive piano,riscrive pianissimo, e revisiona permesi. Questo è un tentativo di: non riscrivere;
revisionare il meno
possibile; dare il giusto tempo al tempo;e dedicare,per
circa un mese, un
paio di ore al giorno alla scrittura di cose dilettevoli,
tentando tenereil
passo senzarimanere
troppo indietro néperdermiper strada –– ahahahahaha!
L’indice,
aggiornato progressivamente, è qui di seguito.
Nota del 2 aprile 2023
Ovviamente i miei buoni propositi sono
andati a donnine d'angiporto in
men che non si dica. La vita ci si è messa e sono stati un
paio d'anni
apocalittici.
Riparto da qui, per sciogliere un po'
l'inchiostro inceppato nella
penna.
Lista Blank
Giorno 1:Ciò che non si dimentica e non si perdona
Capitolo 2 *** Ciò che non si dimentica e non si perdona ***
Prompt: Mnestic
(lista: Words)
Rating: giallo
Ciò che
non si dimentica e non si perdona
“Nous trouvons de tout dans notre mémoire; elle est une espèce de pharmacie, de laboratoire de chimie,
où
on met au hasard la main tantôt sur une drogue calmante, tantôt sur un poison dangereux.”
–– Marcel
Proust, La Prisonnière ––
Tōya non
dimentica e neppure perdona: che cosa fosse scoppiettare
d’orgoglio, bruciare
di gioia; il fuoco, allora rosso, sulle dita, la fiamma amica
che non lo
scottava; il viso di suo padre, non ancora segnato, né la sua
colpa più grande
–– quella d’averlo amato, e poi scartato. Tōya non dimentica
d’essere stato un
prodigio, poi un fallito; e, infine, lo sfortunato figlio di
sua madre, un
morto che nessuno ha seppellito.
E si
chiede, Tōya, se l’abbiano scordato o, peggio, se l’abbiano
ridotto a una
fotografia, a un vuoto dietro a un vetro e ad un riflesso; ma,
forse, del
resto, lo era già da prima, quando chi era stato, quello che
aveva senso, era
ormai andato perso, e a Tōya non restava che la rabbia col
ricordo ustionante
di sé stesso.
Di questi
tempi, Tōya srotola i giorni come una vecchia pellicola
consunta: a singhiozzi,
tracciando con le dita i ricordi degli altri e i propri
graffi, lungo un film
muto di cenere e di fumo, suture e cicatrici – le ha contate
tutte; ricorda il
perché, il dove, l’ora, come se avesse
importanza, come se
la data da non dimenticare non fosse una sola; come
se gli anni e i
fatti e le circostanze valessero davvero qualcosa
per fare i conti
con tutto il suo rancore.
È quel
rancore che salda i debiti tra la memoria e la dimenticanza,
il prezzo in cose
perse che si deve pagare –– questione di dettagli:
gli occhiali da
sole, sospesi sul taschino di un giaccone; che cosa abbia
mangiato a colazione;
la luce grigia negli occhi di sua madre quando, una volta,
ancora sorrideva, o la
certezza infantile
che avesse smesso per colpa di Tōya. Occhio per
occhio… è come
un’equazione.
E gli occhi
di suo padre lo guardano riflessi nello specchio, sfuggenti di
passaggio alle
finestre; lo scrutano nell’ombra di un bicchiere più spesso
che alla televisione,
comunque troppo spesso per dimenticare lo sguardo esatto del
suo disappunto,
della sua delusione. Che altri occhi potrebbe ricordare?
Quelli di Hawks ––
Takami, no: Keigo –– quando è sincero sempre
per errore; lo
ammette solo qualche volta, se si addormenta e non
può fare a meno
di sognare. È un segreto che si tiene in tasca, che stringe
nel pugno assieme
al proprio nome, entrambi una condanna e un anatema –– per
chi?; Tōya non ci
vuole pensare.
Ma la
memoria è subdola ed è stronza. Tōya ci ripensa – non che
faccia, d’altronde,
alcuna differenza. Ripensa a quella donna che s’è venduta un
figlio senza
opporre troppa resistenza. Ripensa al peso delle aspettative;
immagina,
s’illude, che non siano dolorose, quando non sono state
disattese. Si chiede
che cosa Hawks ricordi; che cosa avesse e che cosa gli sia
stato tolto; che
cosa abbia dimenticato, ed a che cosa abbia dovuto rinunciare.
Per un momento,
Tōya lo contempla come se fosse un riflesso capovolto –– lo
spettro redivivo di
chi Tōya sarebbe dovuto diventare, se avesse potuto ––, finché
la realtà, cogli
occhi di suo padre, non lo schiaffeggia in faccia dal primo
piano lucido di
turno. Allora, Tōya scaccia quei pensieri, oziose distrazioni,
assieme ai
krapfen che Keigo ha servito a colazione; alla contezza di
dove diavolo siano
finiti gli occhiali da sole; alla luce fuggevole negli occhi
sbagliati dei
bugiardi.
Il resto, però,
Tōya non lo dimentica; né a lui né a sé stesso, lo perdona.
" ...the
very
substance of the ambitious is merely the shadow of a dream."
–
William
Shakespeare, Hamlet, Atto 2, Scena 2 –
Le
ombre dei giganti sono
lunghe e profonde.
Scrutando
le ombre incerte
sul soffitto, nel neon d'una stanza d'ospedale,
coll'occhio buono e
coll'occhio ancora opaco – è l'ombra del fuoco, un velo di
vapore –, Keigo vi
cerca la linea di confine tra la ragione e dove
abbia sbagliato.
All
Might era immenso, era
infinito –– più un santo che un eroe; più grande di
quanto, a un
uomo solo, sarebbe consentito. Keigo, già bambino, l'aveva
immaginato, che
ombra atroce si portasse dietro. E che non fosse un'ombra che
aveva proiettato,
che avesse voluto... beh, non ha cambiato niente e non è
importato.
Quello
che conta, quello che
importa, quel che ha cambiato tutto, è quello che Keigo non
aveva capito. Le
ombre tremolanti, dal neon sul soffitto, glielo rinfacciano,
allungandosi,
pallide e pigre, nel sole tramortito del tramonto. Eppure
Keigo aveva creduto
che chi brilla della luce di uno sforzo, chi è il fuoco
costante che era stato
per lui – per Keigo, per Hawks – un
bagliore di speranza,
non avesse ombra.
Adesso
sa che ha un'ombra
anche la fiamma: l'ombra d'un'ambizione che crea e che
conquista la distanza;
si stende sugli altri, più oscura e più terribile per la
vicinanza.
È quella l'ombra che gli
resta addosso: l'ombra nell'occhio opaco; l'ombra di fumo in
gola, che ancora
non lo lascia respirare; è l'ombra di cui Dabi s'è ammantato,
come una scusa,
come una corazza, forse finanche come una ragione. È l'ombra
di cenere che gli è
rimasta in faccia e che non ha avuto ancora il coraggio di
pulire. È l’ombra
silenziosa delle ali che non è sicuro di poter riavere. È
l'ombra d'un dubbio,
e dell'incertezza di non sapere, adesso, cosa fare.
“V'è
forse, in noi
Orientali, un'inclinazione ad accettare i limiti, e le
circostanze, della vita.
Ci rassegniamo all'ombra, così com'è, e senza repulsione. La
luce è fievole?
Lasciamo che le tenebre c'inghiottano, e scopriamo loro una
beltà.”
–
Jun'ichirō
Tanizaki, Libro d’ombra (1933) –
A
certe cose, ormai, Tōya
ha fatto l’abitudine: a un corpo dolorante, una
ferita aperta,
e all’acqua che brucia quando gli piove in testa o si lava la
faccia (il sapone è
quasi una tortura, nel diluvio di spilli
che è farsi una
doccia); al pezzo di mascella che gli manca da anni ed al vago
orrore che,
nonostante la rabbia, il rancore e tutto questo tempo, ancora
rimanga
masticare, se la fame non è obnubilante, bianca, e Tōya ci
pensa; a vivere una
vita dimezzata, con quattro libri smagriti e un cambio di
mutande, da far
entrare in una borsa a tracolla che quasi nessun altro
chiamerebbe valigia, o,
alla bisogna, da trasferire in tasca.
Forse
qualcuno, forse
finanche Keigo, ha potuto trovare, nelle sue suture d’oro e
d’argento, di
titanio, mostruosa, una sorta di bellezza; forse un memento
dell’imperfezione,
dell’impermanenza; o forse la morale di una storia che Tōya
non ha avuto
l’occasione o la pazienza di stare a sentire – e
non importa se, in fin
dei conti, sia stato un racconto prudenziale oppure di
speranza.
A
certe cose – Tōya lo sa –,
inevitabilmente, uno si rassegna; a lungo andare, ce le si fa
piacere: il fuoco
che divora le vecchie cicatrici non gli
fa più male
dell’eco del dolore nel ricordo; non piangere più è una
consolazione, in un
certo senso, quando ne ha bisogno; e che mangiare sia
un’agonia non è poi un gran
danno, se l’ombra del fumo
e l’amaro della
cenere sono oramai l’unico gusto al mondo. E,
forse, questa è una
forma di saggezza, un segreto iniziatico per non morirne, per
non impazzire
nella disperazione della perdita.
Tōya
però non è mai stato
bravo ad accettare: le circostanze; i limiti crudeli del suo
corpo; l’amore di
suo padre che, allora soprattutto, seppe di disappunto e
d’abbandono; tutte le
cose che non può cambiare, ma che
non può ammettere, cui
ancora non si vuole sottomettere. Tōya ne ha pagato il prezzo,
continuerà a
pagare, perché le conseguenze valgono il peso di ogni
decisione, la
responsabilità d’un’autoaffermazione che sputi in faccia al
mondo ed al destino
e a chi non è potuto diventare, la lucida certezza d’una
convinzione.
Talvolta,
tuttavia, mentre si
lava la faccia e chiacchiera in silenzio col proprio dolore,
stornando lo
sguardo dalla bellezza infranta e orripilante che
lo rimira,
sfacciata, dallo specchio, Tōya si chiede – è un dubbio
subdolo, un’infida
incertezza – se Tomura abbia avuto mai un’alternativa e la
coscienza che serve
a rassegnarsi, o almeno a capire il peso della polvere, il
fascino discreto
della dimenticanza, della distruzione.
“War
is a game that
is played with a smile. If you can't smile, grin. If you can't
grin, keep out
of the way till you can.”
Winston
Churchill,
bozza di discorso riportata in: William Manchester, The Last
Lion:
Visions of Glory (1874-1932), New York 1989,
p. 591 –
Di
Enji si può dire tutto:
che, in fondo, non è mai stato altro che un furfante, il
mostro sotto al letto
d’un bambino, a capo ed al principio della storia; o che abbia
perso di vista
le cose minute che danno un senso al bene più grande, per
cocciutaggine, per
cieca ambizione; che sia un omone torvo, un burbero goffo
(questo, neanche
Fuuyumi lo potrebbe negare); che non abbia capito, in nessun
momento cruciale,
che cosa fosse giusto, che cosa fosse il caso di dire o di
fare, per essere un
padre decente, se non da manuale, e un marito migliore; per
mettere in parole e
nelle azioni quell’inatteso, incandescente amore che, prima,
non aveva creduto
di poter sentire – se solo fosse stato in grado di vedere, di
farselo bastare…
Di
Enji si può dire tutto,
perché non è un santo, né è stato un buon eroe. E, tutto, lo
si è detto, lo si
continua a dire; in fondo, Enji pensa che abbiano ragione.
Ma,
Enji è anche un uomo
intelligente, occasionalmente, quando non s’incaponisce su un
piano folle,
sfasato di vent’anni, che non può funzionare, e smette
d’ascoltare anche le
proprie scuse – per le lacrime di Rei; le recriminazioni di
tutti i propri
figli, senza fermarsi a prestar loro attenzione; la tentazione
della felicità;
la voce del buonsenso; il grido disperato (d’aiuto, di dolore,
di furore) del
piccolo Tōya, cui ha appiccato il fuoco e che continua a
bruciare. Neppure le
ceneri, i frammenti di ossa, sui picchi di Sekoto gli furono
davvero di
lezione.
A
casa, Enji, sin dal primo
giorno, è stato un inetto, la fonte d’ogni male, un tragico
incapace. Però, sul
lavoro, Endeavor è attento, solerte, spesso perspicace.
All’inizio,
Hawks fu una
faccenda tutta professionale; un piccolo incidente di
percorso, che sembra solo
più grande della vita, più grande delle luci e i riflettori,
più grande e più
leggero, sospeso a mezz’aria, delle parole grosse, pesanti,
che gli lanciava in
testa, come pietre, le fondamenta su cui lui, Endeavor – Enji;
goffo, cocciuto,
imperfetto, Enji – doveva costruire. Gliele lanciava, quelle
parole grosse, come
una sfida, come un salvagente, con un sorriso sbieco, a mezza
bocca, da
giullare, abbagliante e falso, un sole d’alluminio e di
cartone.
Nei
mesi, poi, ha visto anche
gli altri suoi sorrisi: quelli brillanti, fragili, bugiardi;
quelli caparbi, a
denti stretti, rossi di sangue, in mezzo alla battaglia;
quelli minuscoli,
strazianti e quasi sinceri, nascosti tra uno scherzo e una
menzogna, per un
pezzo di pollo strappato a uno spiedino, e il sogno
vagheggiato di poter
dormire.
Che
cosa, ora, sia Hawks, per
lui e per tutti loro, Enji non ha ancora il coraggio di
domandarselo. Né osa
pensare che – con pazienza, con testardaggine, con mille
aspettative
inconfessate e mezze verità, tutte con troppa o senza alcuna
importanza; col
marchio di famiglia delle fiamme di Tōya, sul viso, sulla
schiena, sull’anima e
nel cuore – Hawks, Keigo, sia diventato il
figlio maggiore che
avrebbe voluto avere, un rimpiazzo, al rovescio, di
quell’altro figlio che Enji
aveva abbandonato né aveva potuto seppellire.
Certo, i sorrisi di Hawks,
Enji non li ha visti tutti; ma ha il dubbio ed il sentore che
Tōya, per errore
o privilegio, ne abbia scorti alcuni – intimi, preziosi, i più
segreti – di
quelli che arrivano, sfiancati, fino agli occhi, spianandosi
la strada a colpi
di machete. Ha la certezza che, solo per questo, Tōya non
abbia avuto la
crudeltà o la forza di vederlo morire. Negli occhi, adesso,
Hawks non ha
niente; solo un riflesso duro e dolorante, d’acciaio battuto a
fuoco, che non
si piega e neppure si spezza, ma fa ancora male. Entrando
nella stanza
d’ospedale, reclamando il suo posto in un dramma famigliare
con cui, sulla
carta, non ha assolutamente nulla da spartire; è Keigo che lo
osserva, lo
soppesa, senza sorrisi e senza compromessi, con gli occhi di
Tōya d’un altro colore.
Sui
picchi di Sekoto, quella
notte, la cenere che gli cadde intorno, la cenere che si
lasciò dietro –
cenere, i pezzi consumati del suo corpo –; la cenere, sui
picchi di Sekoto,
quella notte, fu come la neve.
Ed
alla neve aveva ripensato,
con tutto il rancore dei suoi tredici anni, della sua
delusione, e tra le
lacrime incagliate tra le ciglia – riarse, cristalli di sale
che gli bruciavano
gli occhi, più dure e più scottanti delle fiamme che lo
cremavano vivo –; al
fatto che anche lui, in fondo, non era stato altro che un
fiocco di neve cui
s'è appiccato il fuoco; e che, più tardi, suo padre non
avrebbe ritrovato neppure
la cenere e la neve, nel turbinio ustionante di quell'inferno
che aveva
scatenato, che lui stesso era diventato – se alla fine, dopo
la fine, si fosse
degnato di venire a raccattare un pugno di polvere e di
niente.
Allora,
Tōya, nel cuore di
cobalto dell'incendio, aveva riso forte, singhiozzando.
E
aveva sentito il gelo di
sua madre nelle ossa.
Il
gelo dei suoi nervi che esplodevano
in un brivido, fiori sulfurei di polvere da sparo, spilli di
freddo nei palmi
delle mani, nelle dita, nel petto ed in gola, mozzati col
respiro graffiante di
fumo, tagliente più del vetro, quasi brina.
Il
gelo della cenere che gli
baciava le guance, piano piano, anche lei un avanzo, glaciale
quanto lui su quella
pira funebre.