L'intrigo della collana

di Little Firestar84
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tre Partite ***
Capitolo 2: *** XYZ ***
Capitolo 3: *** Coincidenze ***
Capitolo 4: *** Cuori Di Strada ***
Capitolo 5: *** La grande rapina ***
Capitolo 6: *** Batticuore Notturno ***
Capitolo 7: *** Ta-da! ***
Capitolo 8: *** Fantasmi (di un Natale passato) ***
Capitolo 9: *** Aurora Boreale ***
Capitolo 10: *** Una nuova alba ***



Capitolo 1
*** Tre Partite ***


 L’intrigo della collana (1)

  1. Tre Partite

Bulgari Tower, Tokyo (2)

Ryo Saeba, seduto ad un tavolo del ristorante stellato “Luca Fantin” si allentò con due dita il nodo della cravatta sottile e nera, stringendo i denti mentre sudava freddo. 

Detestava i posti che trasudavano lusso, e detestava ancora di più doversi agghindare in quel modo ridicolo per poter incontrare un cliente, ma purtroppo c’era stato poco da fare: da quell’incarico, non ci si poteva tirare indietro. Era stata Saeko a suggerire al cliente (uomo, come troppo spesso gli accadeva da parecchio tempo a quella parte) di contattare ed ingaggiare Ryo, e questo già di per se lo obbligava a dire sì. Ma poi c’era anche Kaori da considerare, che già da un po’ si lamentava del troppo poco lavoro e del bisogno di diversificare un po’ i loro ingaggi, prendendone magari uno, ogni tanto, che pagasse per davvero.

E Bulgari avrebbe pagato molto, molto, molto bene.

Il cameriere – Italiano come tutto lo staff del locale, uno dei migliori ristoranti dell’intero continente asiatico – poggiò un grosso piatto di design, nero lucido,  davanti allo sweeper, che guardò la pietanza trattenendo un gemito. Se da un lato era grato che il cliente, Luca Silvestri, creativo del prestigioso marchio internazionale, gli stesse offrendo il pranzo in un locale raffinato e costoso, dall’altro Ryo si trovava a constatare che il luogo comune del ristorante stellato che serviva porzioni minuscole (per giunta di piatti che non si capiva esattamente bene cosa fossero) era purtroppo vero: non si sarebbe certo riempito lo stomaco con quelle porzioni. 

Silvestri intratteneva Kaori, parlandole della vista che si poteva avere dalla terrazza dell’hotel, situata sul tetto e chiamata Dom Pérignon, come il celeberrimo spumante, e Ryo gli lanciò un’occhiata omicida, che tanto ricordava lo sguardo di un cane rabbioso. Silvestri era un po’ troppo amichevole, aveva gli occhi che andavano un po’ troppo nella scollatura di Kaori, ed a Ryo tutto questo flirtare non piaceva assolutamente. 

Silvestri notò molto casualmente l’impugnatura della Magnum dello sweeper, e sussultò, mentre un gocciolone di sudore freddo gli colò dalla fronte. Il cinquantenne pallido e con pochi capelli neri impomatati si raddrizzò, cercando di volgere lo sguardo lontano dalla scollatura dell’affascinante sweeper, ed emise una risata sull’isterico, mentre si asciugava il collo con il tovagliolo di lino beige. 

Sotto al tavolo, Saeko, avendo capito cosa fosse accaduto, diede un calcio a Ryo per attirare la sua attenzione, e quando lui si voltò a guardarla, lei gli fece un sorrisetto, quasi a volergli dire che sì, era stato preso in castagna ad essere geloso della sua bella compagna - di lavoro e vita. 

Ryo la guardò, sospirando ed alzando gli occhi al cielo, rassegnato al suo destino, quello di aiutare Saeko e quell’uomo. Questa volta, però, oltre ad un cospicuo onorario, avrebbe anche preteso da Saeko che lei lo ripagasse per bene – e non certo solo per quel singolo caso. Era il momento che Saeko pagasse i suoi debiti con City Hunter, tutti, dal primo all’ultimo.

Ryo arrossì e si incurvò nelle spalle, mentre ripensò alle ripercussioni che la promessa di Saeko avrebbe avuto su tutta la sua intera esistenza, e si voltò verso Kaori,  che lo guardò incuriosita e leggermente preoccupata, quasi si aspettasse guai, o peggio, qualche scenata da parte del socio.

“Ehm, allora, signor Silvestri, esattamente, cosa vuole da noi?” Ryo domandò, leggermente imbarazzato di essere stato colto in flagranza (e non da una, ma da entrambe le donne), grattandosi il capo mentre la sua socia alzava un sopracciglio con espressione indecifrabile, cercando di capire a cosa fossero dovute stavolta le bizzarrie di Ryo.

“Tra pochi giorni partirà una mostra nella nostra boutique, con esposti dei gioielli unici e di valore inestimabile…” L’uomo iniziò, testa bassa e mani sulle ginocchia. 

“Quindi… temete furti?” Kaori gli domandò, fissando l’Italiano con espressione interrogativa, desiderosa di capire esattamente cosa ci fosse sotto quella paura che, in tutta franchezza, le sembrava immotivata ed esagerata.  “Siete una gioielleria di fama mondiale, con un vostro punto vendita aperto ormai da oltre due decenni in città; avrete sicuramente un sistema di sicurezza tecnologico, personale di guardia fidato e capace, e delle ottime assicurazioni che possano coprirvi nella remota eventualità che accada qualcosa. Nel mondo del lusso il vostro marchio è una garanzia, mi sembra strano che vi preoccupiate così tanto per la possibilità di un furto tanto da scomodare City Hunter.”

“Sì, ma, vede, i gioielli che vendiamo nei nostri negozi sono rimpiazzabili, venduti in serie. Se venissero rubati sarebbe una perdita, ma non eccessiva. I gioielli che metteremo in mostra invece sono pezzi unici, storici… opere d’arte. Se una di quelle creazioni venisse rubata sarebbe come… come se venisse rubato l’Urlo di Munch!”

Mentre Ryo giocherellava annoiato col cibo nel piatto, Kaori fissò Silvestri leggermente perplessa: certo, capiva che Silvestri dovesse essere fiero del lavoro degli artigiani della sua ditta, e lei stessa aveva visto su riviste di moda e di gossip modelle e star indossare creazioni storiche della maison, ed erano, indubbiamente, oggetti ricercati, pregiati, di grande valore, ma il paragone con una delle più famose tele del mondo le sembrava esagerato.

“Sono gioielli che vengono rubati per essere ammirati da chi li possiede, non per essere indossati, se non in determinati circoli… come quelli della Yakuza.” Saeko concluse, guardando in direzione dei due sweeper. Il corpo avvolto in un abito color lavanda che faceva risaltare le sue forme, teneva le braccia incrociate, ed il suo tono era freddamente professionale e calcolatore.

“Ripeto la domanda, signor Silvestri: lei, da noi, cosa vuole?” Ryo gli domandò, leggermente seccato che il papabile cliente non arrivasse al dunque. 

“Beh, ecco….. noi non possiamo certo chiedere alla polizia di occuparsi della sicurezza di un evento privato come questo… ed infatti abbiamo usato il nostro personale interno, oltre che esserci rivolti a uomini fidati, ma…” Silvestri sospirò, togliendosi gli occhialini e pulendoli con il tovagliolo. “Ma, signor Saeba, saremmo molto più tranquilli se lei decidesse di accettare di controllare l’eventuale presenza di falle nel sistema di sicurezza.”

“Arriviamo al sodo: quanto ci pagherebbe per questo lavoretto?” Ryo domandò, sogghignando con espressione interessata, mentre Kaori si limitava a pestargli un piede per tenerlo buono, e limitarlo nei suoi comportamenti a dir poco stravaganti. 

“Si tratterebbe di due milioni di Yen per un lavoro di poche ore al giorno…. Andrebbe bene per lei? Crede che sia fattibile, sì?” L’uomo parlava con tono concitato, nervoso, quasi supplichevole.

Kaori si dimenticò presto di tuti i dubbi che l’avevano assalita fino a quel momento, ed incrociò le mani in preghiera, mentre le venivano le lacrime agli occhi: con quella cifra sarebbero stati a posto per un po’, e avrebbero potuto ripianare qualche vecchio debito. Basta insalata e brodo col dado… avrebbero di nuovo mangiato ramen, pesce, carne… e tutto grazie a Saeko!

Per una volta, c’è da ringraziarla… e non si tratta nemmeno di uno dei suoi soliti casi strampalati che nessuno prenderebbe, nemmeno sotto tortura!

Ryo, invece, pensava a ben altro, e per una volta cibo e divertimento erano l’ultimo dei suoi pensieri: se Silvestri voleva davvero avere City Hunter che lavorava per lui, avrebbe dovuto accettare di dargli ben più dei due milioni pattuiti, e avrebbe fatto bene a tenere la bocca chiusa, nessuno doveva sapere cosa lui avesse in mente. 

Soprattutto, Kaori.

New York

“Jane, mi dispiace di averti fatto venire qui con  una bugia, ma non sapevo davvero come fare. Non so davvero più di chi mi posso fidare qui e…” L’agente dell’FBI Kay Daniels si alzò dalla sua sedia e, mani sui fianchi, si mise in piedi dietro a Patrick Jane, ex truffatore passato  a lavorare per i federali come consulente investigativo. L’uomo, chino sul tavolo da pranzo dello spartano appartamento della donna, stava esaminando una serie di vecchie foto degli anni venti con una lente di ingrandimento, ed un sorrisetto malizioso e soddisfatto stampato sul viso. “Mi stai ascoltando?!”

“Uh?” Il biondo mentalista alzò gli occhi dalle foto, che spinse verso il centro del tavolo con un gesto teatrale, poi si voltò verso la donna, sempre sorridente. Rimase in silenzio, braccia conserte e gambe accavallate, aspettando che lei gli facesse la fatidica domanda. 

Kay, esasperata, si passò una mano sugli occhi, e prese un profondo respiro, cercando di tranquillizzarsi, ricordando tutta la meditazione che negli ultimi anni si era ritrovata a fare: gli ultimi tre anni erano stati davvero tanto, tanto pesanti…

Cameron – il suo consulente - che entrava come un fulmine a ciel sereno nella sua vita, sconvolgendola, pretendendo di assumere quell’incarico, ed il tutto per poter tirare fuori dai guai il fratello gemello Jonathan, secondo lui ingiustamente accusato di omicidio. 

Jane, che tutte le volte che lavoravano ad un caso insieme, le rendeva la vita impossibile… con lui, ci si poteva giurare che sarebbe capitato un putiferio e ci sarebbe scappata qualche citazione in tribunale. 

Il giapponese Ryo Saeba e la sua fidanzata, che, indagando con lei su un presunto crimine in cui il di loro cognato era impiccato, l’avevano trasportata nel mondo dei mercenari e dei giustizieri della notte che vivevano ai margini della società (e della legalità).

Jonathan, che era fuggito di prigione con la donna che lo aveva incastrato, dopo essersi scambiato di posto con Cameron, che era rimasto incosciente per ore e ore dopo che il fratello lo aveva riempito di botte. 

Eppure, Cameron aveva perdonato Jonathan- e adesso erano scomparsi entrambi, e l’unica traccia che Kay avesse erano quelle vecchie foto, raffiguranti il bisnonno dei gemelli, famoso illusionista, in gioventù, insieme al suo mentore, Houdini, ed alcuni degli uomini più ricchi e potenti dell’epoca: la sera stessa in cui Cameron aveva fatto sparire le sue tracce, l’appartamento in cui viveva era saltato in aria, e la mattina seguente lei aveva ricevuto una busta con quelle foto, copia di quelle contenute nel diario del loro bisnonno. 

Anche quello era sparito, dal magazzino delle prove dell’FBI, insieme ad una mappa cifrata in esso contenuta, e con questi i gemelli Black. 

Quella era la pista da seguire: ma di chi fidarsi? Dell’FBI, che nonostante avesse potuto scagionare Jonathan, non lo aveva fatto per interessi politici?

Dei colleghi di Cameron e Jonathan – che forse a Jonathan erano ancora molto, troppo fedeli?

Jane era stato il primo, e forse unico, nome che le era venuto in mente: intelligente, perspicace, illusionista lui stesso (nonché mentalista) ed in più aveva vissuto lui stesso tra luce ed ombra, tra legalità ed illegalità. Per giunta, era abbastanza fuori dai giochi da non destare troppe attenzioni, e la Donna Misteriosa che aveva incastrato i gemelli Black difficilmente avrebbe pensato che qualcuno lo avrebbe chiamato ad indagare.

Jane era un investigatore capace, in grado di pensare fuori dagli schemi, e Kay era grata che lui avesse accettato di aiutarla- ma a volte, faticava molto a sopportarlo, specie quando era nervosa come quel giorno. 

La donna alzò gli occhi al cielo. “Allora Jane, hai scoperto qualcosa con le tue incredibili doti deduttive?” Gli domandò, mettendo una punta di sarcasmo per nulla velato nella sua voce. 

“Beh, mi sembra logico, Kay carissima. Le tracce che ci ha lasciato il tuo fidanzatino sono così elementari che mi meraviglio non ci sia arrivata tu da sola- voglio dire, tu, Cho e Lisbon siete molto più intelligenti dell’agente dell’FBI medio.” Jane ghignò, le dita intrecciate, mentre Kay faceva un solo passo avanti, verso di lui, con sguardo minaccioso. Le dita le stavano prudendo: aveva decisamente voglia di prendere quell’uomo per il collo e strozzarlo. 

Come Lisbon abbia resistito per più di quindici anni al suo fianco, non lo capirò mai…

Intuendone i pensieri, Jane alzò gli occhi al cielo, e poi le offrì una foto: in quella, non c’era tutta la “cricca” che aveva pagato il primo Black ed Houdini per nascondere allo stato (ed eredi indesiderati) buona parte delle loro ricchezze, ma bensì solamente Black, in mezzo ad un uomo dal discreto fascino e una donna dalla bellezza semplice e fresca, che ostentava un abito di chiara alta sartoria e talmente tanti gioielli enormi e stravaganti nemmeno fosse stata un albero di Natale. 

“Lo sai chi sono?” Le domandò, petulante e saccente come solo lui sapeva essere, con un tono che lasciava presagire che, come sempre, lui sapeva esattamente di cosa stesse parlando. Kay strinse i denti: ci sarebbe mai stato un argomento di cui quell’uomo non fosse stato conoscitore?

“Jane, se avessi saputo dove sbattere la testa non ti avrei chiamato.” Le donna sibilò, facendo un ulteriore passo avanti. Jane si morse le labbra: sì, era davvero nervosa. E tanto: forse era il caso di arrivare al punto. 

“Quello è nientepopodimeno che Howard Hughes – quel Howard Hughes. Multimiliardario, playboy, inventore, investitore, pioniere del cinema e dell’aviazione. La foto deve essere forse del 1926, intorno all’epoca in cui ereditò l’impero petrolifero del padre. E quella con lui, è la sua prima moglie, Ella Rice. Sposata nel venticinque, la mollò per correre dietro alle starlette di Hollywood nel ventinove.”  (3)

“Hughes era uno di quelli che aveva assunto Houdini e Black per nascondere i loro averi, e allora?”(4) La donna scrollò le spalle. “Questo lo sapevamo già!”

“Sì, però quello che ci interessa è cosa la moglie ha al collo.” Le offrì la lente, e Kay si chinò, ispezionando il collier: rappresentava un serpente, riccamente decorato, le scaglie ognuna una pietra. Roba molto costosa: era chiaro che il marito avesse le tasche piene di quattrini. “Quel collier si chiama Serpenti, ed è una creazione della maison Bulgari. Il serpente è uno dei loro marchi di fabbrica, e quel  gioiello in particolare è stato il primo in assoluto, apparentemente su commissione di Hughes stesso(5). La moglie era uscita di testa per la sifilide, e aveva sviluppato un’ossessione per i rettili – cosa malsana, il cervello umano è tarato per esserne terrorizzato, lo sapevi?”

“No, ma so che voglio che arrivi al punto.” Gli intimò. 

Jane scosse il capo, scontento: amava raccontare pillole di informazioni varie, che mostravano la sua conoscenza pressoché enciclopedica della realtà. 

“Hughes lasciò una cosa sola alla moglie quando divorziarono: quella collana. Il che mi fa pensare che la volesse tenere il più possibile lontana da se stesso… anche perché…”  fece una pausa teatrale, afferrò lo smartphone e iniziò a digitare, poi, trovato quello che cercava, offrì il dispositivo alla donna: nella pagina internet spiccava una foto del collier, a colori, ad alta risoluzione. Kay osservò la finezza dei particolari, la lavorazione minuziosa delle scaglie, ognuna una gemma dai colori che andavano dal verde al blu in tutte le gradazioni di tono in quello spettro, mentre invece la lingua era smaltata di rosso.

E poi, gli occhi: uno verde ed uno blu. Eterocromia: i serpenti potevano soffrirne? Era una licenza artistica? Significava forse qualcosa?

“No, i serpenti non soffrono di eterocromia, e no, nessun altro gioiello della maison ha quel particolare,” Jane le rispose, anticipando la domanda. Il suo tono era divenuto improvvisamente freddo e serio, indicazione che stava per arrivare al punto. “Quindi l’opera è stata realizzata in quel modo volutamente, probabilmente per ordine del committente. Credo che le pietre possano permettere di decifrare la mappa contenuta nel diario del bisnonno di Jonathan e Cameron, portando chi è in possesso di entrambi ad individuare dove il vecchio Black avesse nascosto i soldi in nero di quei nababbi, e magari anche cosucce compromettenti... prove di omicidi, ricatti, estorsione, figli illegittimi, mogli rinchiuse in manicomi, questo genere di affari.” 

La donna che ha incastrato Jonathan… la notte del presunto omicidio indossava lenti a contatto, una azzurra e una verde... Kay guardò Jane, che le fece un segno di assenso col capo: aveva letto i rapporti del caso, le dichiarazioni di Jonathan sulla donna che lui asseriva l’avesse drogato, ed avevano pensato la stessa cosa, arrivando alla medesima conclusione.

D’altronde, Jane lo aveva sempre pensato, che nella vita nulla succedeva per caso.

“Le coincidenze non esistono, nulla avviene per caso. Chi lo aveva detto, Jung?” Kay si lasciò cadere sulla sedia di fianco a Jane, e sbattè la foto sul tavolo, nervosa ed irritata. “Quindi? Continuiamo a non sapere dove andare e come muoverci, esattamente come ieri e l’altro ieri ed il giorno prima ancora!”

“Beh, in realtà io so esattamente dove andare: in Giappone – a Tokyo, per essere esatti.” Jane rispose con estrema nonchalance, quasi stesse enunciando il più banale dei concetti e non capisse come il suo interlocutore non ci potesse arrivare da solo. “Per essere ancora più precisi, quartiere speciale di Chūō, distretto di Ginza, numeri da 2 al 12.”

“Mi arrendo: cosa c’è a quell’indirizzo?” La donna gli domandò, sbuffando leggermente. Il suo volto celava un sorriso che desiderava ardentemente scappare, farsi vedere, richiamato dal tono giocoso che Jane metteva in tutto quello che faceva.

“A quell’indirizzo, mia cara, c’è semplicemente la Torre Bulgari, in cui, tra pochi giorni, inizierà una mostra dal titolo Serpentiform: Il rettile divino, in cui Serpenti verrà messo in mostra come pezzo forte della collezione, ed io credo che la nostra amica ne approfitterà per cercare di rubarlo con l’aiuto di Cameron e Jonathan. Ma non ci riuscirà.”

“Sei molto ottimista, Jane. Credi davvero di poterla fermare?” Kay sollevò un sopracciglio, con fare allusivo, senza mai staccare gli occhi  dall’amico e quasi collega.

“Chi, io? Oh, assolutamente no!” Jane scoppiò a ridere, mentre si batteva l’indice destro sul labbro, soddisfatto e sorridente. “Però, a Tokyo, c’è qualcuno che ci deve un favore… e credo che lui ed i suoi amici siano le persone più adeguate per questo lavoro.”

Kay si raddrizzò, e sorrise, quasi luminosa: Ryo Saeba. Jane aveva ragione, loro lo avevano aiutato a tirare fuori dai guai il cognato, dandogli accesso al caso… e adesso era giunto il momento che ripagasse quel debito. 

“Saeba.” Affermò senza ombra di dubbio.

“Già, Saeba e la sua cricca!” Jane fece scioccare la lingua contro il palato, poi si alzò in piedi, afferrando la giacca grigia e poggiandola sull’avanbraccio. “Prepara il passaporto, Kay – scommetto quello che vuoi che la nostra misteriosa manipolatrice è proprio a Tokyo che si sta dirigendo, per prendersi quella collana…”

Da qualche parte…

Sull’aereo privato, la donna misteriosa teneva una mano appoggiata sulla spalla di Jonathan, chinata su di lui mentre gli mostrava qualcosa sullo schermo del telefono. 

Seduto nelle retrovie, Cameron deglutiva, stringendo i pugni, occhi sgranati mentre sentiva il disgusto crescergli dentro, sempre di più, col passare di ogni momento. 

Lei sorrise a Jonathan, e si allontanò lentamente, passandogli una mano sul braccio, un tocco quasi delicato e casuale, ma che non lo era per nulla. Ormai Cameron l’aveva capita: lei calcolava tutto, al millimetro, al millisecondo. 

Si sedette accanto a lui, e accavallando le gambe lunghe, avvolte in un vestito di cashmere bianco, si allacciò la cintura. Si voltò ad osservarlo, sorridendo maliziosamente, picchiettando con lunghe unghie smaltate di nero sul bracciolo della comoda poltrona.

“Di solito non sei così silenzioso, Cameron…  un tempo mi avresti chiesto come ho fatto a procurarmi questo aereo o dove stiamo andando….” Gli disse, ridacchiando. Prese dalla pochette dorata che teneva in grembo un rossetto di Chanel, giocherellò un po’ con l’astuccio nero su cui spiccavano le due C incrociate e poi, senza bisogno di uno specchio, se ne passò un velo sulle labbra.  “Devo preoccuparmi?”

Cameron non le rispose – non aveva bisogno di porre domande, poteva benissimo immaginare come quella donna avesse ottenuto ciò che voleva. Chiunque lei fosse, lavorava per la criminalità: far sparire persone, prove, rubare opere d’arte su commissione, per lei non era un problema. Cameron non osava nemmeno immaginare quali genere di criminali potessero doverle dei favori. E comunque, poco importava dove stavano andando: presto o tardi lo avrebbe scoperto da solo.

Non lasciò vincere la paura; la penetrò con occhi freddi, carichi di odio, stringendo i denti, affondando le corte unghie dentro alla pelle del bracciolo, con una tale forza che aveva male alle dita.  

Lei mantenne quello sguardo, beffarda. Sembrava quasi che volesse sfidarlo, rammentandogli che non avrebbe mai potuto vincere: la partita ormai era già finita, e lui era stato sconfitto in partenza. Ed era vero – Cameron ormai aveva perso tutto, a causa di quella donna. 

La sua casa: per convincerla della sua buona volontà, che era sincero nel suo proposito di seguire il fratello in qualsiasi impresa avesse deciso di tuffarsi, l’aveva distrutta. 

I suoi amici: aveva voltato loro le spalle, dicendo che gli anni passati a cercare di far uscire di galera Jonathan erano serviti a nulla, uno spreco di tempo ed energie, e che loro non gli servivano più.

Ma ciò che lo opprimeva di più era la consapevolezza di cosa doveva aver pensato Kay. Quando Jonathan l’aveva abbandonata – fingendosi lui – lei aveva retto il colpo, rendendosi conto di chi si trovava di fronte? E adesso, avrebbe capito il perché delle sue azioni? Sarebbe stata in grado di seguire la sua pista e tirare  lui ed il suo gemello fuori da guai?

Gettò un’occhiata rapida al fratello: Jonathan guardava fuori dal finestrino dell’aereo con assoluta tranquillità, una freddezza che poche altre volte Cameron gli aveva visto addosso nella loro vita… aveva dunque perso definitivamente il fratello, per colpa di rancori, gelosie, le imposizioni del loro ormai defunto padre? Davvero, come in una storia pulp di serie B, era stata una donna a mettersi tra di loro, a dividerli e distruggerli? 

“Non dovresti guardarmi così, Cameron…” La donna sospirò in modo melodrammatico, accettando un calice di quello che Cameron immaginava essere champagne dall’assistente di volo. Lo sorseggiò ad occhi chiusi, mugugnando di gusto e piacere, quasi quella fosse stata un’esperienza estatica. “Jonathan ed io siamo uguali: se odi me, odi anche lui.” 

“Tu non hai nulla a che fare con me e mio fratello….” Cameron affermò, la voce sibilante. Tuttavia, guardando Jonathan, non ne era più così certo. 

“Con te, no – eri uno dei migliori illusionisti del mondo, avevi uno show tutto tuo in pianta stabile in uno dei più famosi casinò di Las Vegas, facevi spettacoli in televisione, eri l’idolo delle folle, il David Copperfield della tua generazione… ma tuo fratello?” Sogghignò, scuotendo i capelli scuri, leggeri come fili d’erba mossi dal vento. “Tuo padre lo nascondeva, lo usava. Come lui e mia madre facevano con me.”

Mentre diceva quelle ultima parole, un ghigno disgustoso, carico di rabbia, rancore e dolore le di dipinse sul volto, trasfigurandola, rendendola non dissimile dalle creature infernali raffigurate in certe stampe antiche. Cameron ebbe un attimo di esitazione, per una frazione di secondo fu mosso a pietà da quella donna, ma poi sentì Jonathan schiarirsi la gola.

Uno sguardo al gemello, mentre sotto ai loro piedi il velivolo rollava, e fu abbastanza: il suo cuore tornò di pietra.

“Sarà uno shock, ma nonostante se la facesse con la tua mammina e usasse le sue abilità escapologiche per aiutarla a compiere furti in mezzo mondo, a noi, nostro padre, non ha mai insegnato a rubare. Ci ha insegnato ad essere fedeli a noi stessi, a credere e fidarci l’uno dell’altro.”

“Per questo quando il fratellino ti ha steso a pugni e si è sostituito a te per evadere hai fatto il bravo bambino e lo hai perdonato?” Lo canzonò, mettendo un broncio falso, esagerato, esasperato dalle labbra piene, carnose, della donna. “Ti sei perfino impegnato per ritracciarlo, e adesso lo stai seguendo come un bravo cagnolino. Cosa speri, di salvare la sua povera anima innocente? O vuoi la mia testa?”

“Non sono qui per te.” Le sussurrò avvicinandosi pericolosamente, fisandola in quegli occhi maliziosi che lo prendevano in giro, lo schernivano, quasi fosse stato il buffone di corte. “Sono qui per mio fratello.  Lui è l’unica persona di cui mi interessa veramente.”

L’hostess tornò, sfiorò la spalla della donna, sussurrandole che poteva slacciare la cintura di sicurezza, e lei eseguì. Si alzò in piedi e fece per andarsene, raggiungere un altro posto, quando tuttavia si fermò, e si voltò verso l’illusionista.

“Mi auguro di tutto cuore che tu davvero abbia tranciato tutti i legami con la tua amica poliziotta, sarebbe terribile se le dovesse capitare qualcosa. Ma sai come si dice, no? Gli incidenti capitano…”

Stringendo i pugni, Cameron raggelò, pregando che quella donna fredda e calcolatrice non scoprisse mai che stava facendo il doppio gioco: se fosse accaduto qualcosa a Kay, non se lo sarebbe mai perdonato.

  1. Il titolo è lo stesso di un film del 2001, con protagonista Simon Baker, alias Patrick Jane.

  2. La Torre Bulgari esiste: contiene un lounge bar, un ristorante stellato (il Luca Fantin della storia), una terrazza panoramica e un hotel a cinque stelle, ma non una boutique del marchio. 

  3. Howard Hughes e la moglie sono figure realmente esistite. Fu però Elle a lasciare il marito e chiedere il divorzio: Hughes era un donnaiolo, e la sifilide inoltre aveva causato problemi psichiatrici – a causa dei quali aveva sviluppato comportamenti ossessivo-compulsivi, era affetto da manie varie e credeva di essere controllato e perseguitato.

  4. Nella serie tv Deception (2018, 13 episodi) veniva rivelato che il bisnonno dei gemelli Black aveva aiutato a nascondere denaro, averi e prove per diversi ricchi magnati, a cavallo tra la fine degli anni 20 e gli anni 50.

  5. Questo Serpenti esiste davvero, ed è davvero della Maison Bulgari; gli occhi sono però entrambi verdi, e risale però agli anni settanta: è infatti dagli anni quaranta che la maison ha preso questo rettile come suo “stemma”. Esiste inoltre anche la mostra Serpentiform, che si è davvero svolta a Tokyo, non nella Bulgari Tower ma bensì all’interno di uno dei molti musei della città.

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Capitolo 2
*** XYZ ***


Tokyo, stazione di Shinjuku. 

“Ma non potevamo almeno andare in albergo prima?” Kay si stava trascinando dietro una valigia parecchio pesante, mentre Jane si era limitato a portarsi dietro una sacca, e aveva al braccio la sua immancabile giacca; fresco come una rosa ed eccitato come un bambino la mattina di Natale, non sembrava essere appena sceso da un aereo dopo un volo di oltre mezza giornata, ma  essersi appena svegliato dopo un lungo sonno ristoratore su di un comodo e caldo giaciglio – ma probabilmente, il fatto di essere riuscito ad ottenere con uno sguardo e due paroline un upgrade dalla classe economica alla business aveva decisamente aiutato. Kay lo aveva già immaginato la prima volta che si erano incontrati, ma adesso ne aveva la conferma: Jane era un animale sociale, il cui territorio era il mondo intero, ed era un vincitore nato.

“Se vuoi contattare Saeba è qui che dobbiamo stare, e fidati, il tempo stringe!” Jane incrociò le braccia, gongolando. I capelli risplendevano, illuminati dal sole, e sembrava quasi un folletto birichino delle fiabe – anzi, più lo guardava, più Kay pensava alle divinità dell’inganno e della manipolazione di tanti miti. “Mancano solo tre giorni all’inaugurazione della mostra, non abbiamo tempo da perdere!”

“E non potremmo telefonargli?” Kay spalancò le braccia, mentre avvertiva il tessuto di cotone della maglia aderirle alla pelle, impregnato di sudore. Era stanca, stufa e stressata, e le quattordici e passa ore di volo le aveva passate in Economica nel sedile centrale, strizzata tra un tizio con problemi di sudorazione e una vecchietta petulante che non aveva chiuso il becco per un attimo. Voleva solo farsi una doccia e chiudere per cinque minuti gli occhi, in un posto comodo e tranquillo, senza gente intorno che la rimbambisse. “O… O andare a casa sua?”

Ancora una volta Jane venne colpito da quanto ingenua quella donna fosse: ingenua, buona, innocente, al limite del naif. Comportamenti molto simili a quelli della sua adorata moglie, Teresa Lisbon, che con Kay condivideva la professione di agente FBI. 

“Kay, tu hai capito che Saeba è un fuorilegge, vero?” Le domandò a bassa voce, con un tono da professorino che non capiva come la sua allieva potesse essere così indietro, e non capire un argomento di una tale semplicità e banalità. “Capisci che non è esattamente sull’elenco telefonico, e che non va a sbandierare a destra e manca dove vive, giusto?”

Kay aprì la bocca per parlare, poi però fissò Jane dritto in volto, sconvolta ed oltraggiata. La bocca era aperta, eppure non le uscivano le parole: non sapeva cosa dire per descrivere quanto fosse furente verso di lui. 

“Il gatto ti ha mangiato la lingua?” Le domandò, sollevando un sopracciglio. 

“Tu lo sai.” La donna lo accusò, con voce sibilante, espirando dal naso. Denti stretti, pugni chiusi, Kay era certa che se fosse stata in un cartone animato avrebbe avuto il fumo che le usciva dalle orecchie. “Tu sai  esattamente dove trovarlo ma non me lo vuoi dire!”

“Lascia che ti dica che mi sento profondamente offeso da queste tue accuse e …..” Iniziò a dirle, sollevando l’indice destro in tono perentorio, ma tuttavia, prima che potesse aggiungere altro, gli occhi di lei lo gelarono. Jane si schiarì la gola, e prese un profondo sospiro, prima di cambiare radicalmente espressione: il pagliaccio era sparito, lasciando spazio alla verità, l’uomo sì tormentato, ma d’onore. “Se Lisbon ed io siamo ancora vivi lo devo solo a Saeba, e sebbene tu e Cameron siate due delle poche persone che annovero tra i miei amici, devi capire che tu ed io siamo persone fondamentalmente diverse. Saeba, al contrario… a volte credo che mi assomigli più di quanto non voglia ammettere, e se voglio portarti nel suo mondo, è giusto che lo faccia alle sue regole.”

“Ma io ci sono già dentro!” Lei obbiettò, esasperata. “Lui mi conosce, sa che può fidarsi!”

“Kay, tu per lui sei un federale, Ryo non sa se sei più fedele al tuo cuore o al tuo distintivo, ma tu puoi mostrarglielo. Dagli l’occasione di conoscerti. Per davvero.” Jane provò a spiegarle, la voce quasi supplichevole, bassa. Un sussurro: lui e Kay erano così vicini che nessun’altro avrebbe potuto carpire la loro conversazione. 

“Dammi il telefono.” Le offrì il palmo della mano aperta; Kay prese dalla tasca del jeans aderente lo smartphone, un Samsung di ultima generazione, e lo sbloccò con la sua impronta digitale, prima di porgerlo al mentalista. “Bene. Hai l’app per aprire un QR code?” 

“Sì ma, perché?” Gli domandò esterrefatta, non capendo dove volesse arrivare. Mordendosi le labbra, Kay si guardò davanti: c’era solo uno schermo attaccato al muro, al cui centro c’era, effettivamente, un QR code, ma la donna non riusciva a capire cosa quello centrasse con Saeba. 

Jane non rispose: inquadrò il codice, e sullo schermo apparì una lavagna verde, non dissimile da quelle delle scuole nei tempi andati. Kay sbirciò da sopra la spalla del biondo, e lo vide scrivere tre semplici lettere in una colonna vuota: col dito tracciò, in verticale, in stampatello, la X, la Y e la Z, prima di lanciarle in mano l’apparecchio. Kay tentennò quasi, facendo ballare il cellulare nell’aria, rischiando che le cadesse a terra, ma riuscì ad afferrarlo e lo mise di nuovo al sicuro nella sua tasca. 

“E adesso?” Gli Domandò. Preferì evitare di fargli altre domande: Jane, facilmente, avrebbe tergiversato per non rispondere, oppure l’avrebbe canzonata – anche avesse deciso di essere serio e onesto, lei forse non sarebbe stata in grado di credergli, perché con lui non si poteva mai dire. 

“Spero che tu non abbia nulla di caro in quella valigia, perché i bagagli abbandonati di solito spariscono nel giro di pochi minuti, rubati da qualche malintenzionato o, se li trova la Polizia, li fanno esplodere… sai com’è, il rischio terroristico… e non sono certo che potremo portarci dietro quell’affare.” Jane fissava davanti a sé, e parlava con assoluta tranquillità, il tono pacato; tuttavia, stava gettando l’occhio alle sue spalle, fingendo di controllare se ci fosse coda a uno dei tanti bar della stazione. Kay lo capì subito, ma immaginò fosse meglio far finta di nulla e dargli corda, tuttavia, alzando un sopracciglio, lei stessa si guardò intorno.

Due uomini si stavano avvicinando, fingendo di trovarsi lì per caso, che la loro fosse una camminata qualsiasi: vestiti di scuro, i visi coperti da mascherine sanitarie, come era uso fare in Asia quando si era allergici a pollini, polveri o si aveva magari tosse e raffreddore, per proteggere la comunità.  

Qualcosa a cui la gente lì non avrebbe normalmente posto attenzione: ma lei e Jane non erano esattamente persone comuni. Erano stati a contatto col marcio abbastanza a lungo da sentire la puzza lontano mille miglia. 

“Ti fidi di me?” Le domandò. Kay fece segno di sì col capo, le labbra strette in una morsa quasi dolorosa: d’altronde, che possibilità aveva? C’era scelta, forse? 

No – e poi, lei aveva chiesto aiuto a Jane, lo aveva trascinato a New York ad esaminare gli indizi lasciatole da Cameron, facendogli credere che si trattasse di un caso di omicidio, riconducibile alla Blake Society (1), e lui non solo l’aveva perdonata - ma capita, ed aveva accettato di darle il suo aiuto.

Kay doveva fidarsi di lui. 

“Prendi la valigia e cammina al mio fianco, con calma…” La istruì, fingendo di ridere e facendo cenno di sì col capo, e Kay eseguì. “Brava, così. Adesso ridi, fingi di trovarmi adorabile… tu mi trovi adorabile, vero?”

“Trovo adorabile che tu riesca sempre a cacciarti in un mare di guai ovunque tu vada…” La donna lo canzonò, sospirando. Fingeva di ridere, ed intanto, trascinandosi dietro il trolley, camminava. Il suo passo era apparentemente tranquillo, quello un po’ strascicato, pigro di certi turisti, ma ogni muscolo era teso come una corda di violino, pronto a farla scattare non appena Jane le avesse dato il segnale. 

Lasciarono la stazione, consapevoli della presenza minacciosa alle loro spalle; Jane le teneva una mano sulla spalla, le indicava questo e quell’altro, memore del suo precedente viaggio a Shinjuku, parlottava mettendo nelle frasi luoghi comuni e sporadiche conoscenze acquisite nelle più disparate maniere nel corso degli anni. 

Lei, annuiva, fingeva di ascoltare – ma i suoi sensi erano focalizzati su quei due uomini, che avevano aumentato il passo, riducendo la distanza che li separava gli uni dagli altri. 

Kay guardò fissa davanti a sé il semaforo pedonale che lanciava la sua luce rossa. Si fece forza, concentrandosi su cosa significasse ciò che stava loro accadendo.

Quella donna sapeva che erano a Tokyo, e aveva mandato loro incontro un comitato di accoglienza: Jane aveva avuto l’intuizione giusta,  quella era la pista da seguire, tutto portava a quella collana.

Ma… c’era una ma. Cosa significa questo per Cameron? La donna misteriosa aveva capito che era stato lui a lasciare una scia di indizi perché Kay lo potesse ritrovare, potesse salvare lui e Jonathan?

Cameron era forse in pericolo ora?

“Andiamo, adesso…” Jane si incamminò verso l’ingresso di un vicolo, stretto e scuro, lontano da occhi indiscreti. Fece finta di guardarsi intorno con circospezione, quasi avesse voluto appartarsi con la sua amante, ma Kay piantò i piedi a terra, irrigidendosi. Il panico si stava impadronendo di lei, e per quanto volesse fidarsi di Jane, quel gesto le sembrava sciocco, stupido, quasi quell’uomo fosse stato come un topo che desiderava essere divorato dal gatto. 

“Un vicolo? No!”  Gli sibilò contro con voce tagliente, l’istinto che le gridava di allontanarsi, scappare, fuggire - mettersi in salvo. “Loro sono armati, e solo io so un po’ di autodifesa. Ci metteranno con le spalle al muro!”

Kay cercò gli occhi di Jane: vi trovò non paura, ma solo serenità, tranquillità. 

Jane sapeva cosa stava facendo: aveva un piano. Ma quale? Farsi catturare? Il semplice fatto che la donna misteriosa sapesse che loro erano arrivati a Tokyo era già di per se grave, ma se quei due scagnozzi li avessero presi, non solo le loro vite sarebbero state in pericolo, ma la posizione di Cameron si sarebbe complicata e di non poco: lei avrebbe capito che il giovane illusionista l’aveva tradita.

Kay sapeva che la scelta migliore sarebbe stato fuggire, eppure… eppure c’era qualcosa nello sguardo di Jane che la teneva incollata a lui, che la rassicurava. Era una finta, lo sapeva bene Kay: quello era lo sguardo ammaliatore che Jane aveva usato sulle folle, quando aveva spennato soldi a vagonate a disperati fingendo di essere un sensitivo, di parlare con l’aldilà, di vedere il futuro. Lei in quel momento non era sua amica, sua collega: era sua vittima. 

E in quel momento decise che le andava bene. Che voleva credere che, come nelle fiabe a cui aveva smesso di credere fin troppo presto, ci sarebbe stato il lieto fine. 

Si stampò sul viso un sorriso, si avvicinò al consulente FBI e gli lasciò all’angolo delle labbra un bacio, che ai passanti indaffarati (e forse ai loro inseguitori) sarebbe apparso come vero, di passione. La mano lasciò la maniglia del trolley, e scivolò nell’apertura a V della camicia leggermente sbottonata, mentre lui la spingeva in fondo al vicolo,  tuffando il naso nei capelli di Kay.

Un flash, un ricordo, un brivido che percorse l’intero essere del mentalista, facendogli avvertire un senso di nausea e vertigine: il passato, un’altra messinscena. 

La seduzione della donna di John il Rosso, nella speranza che lei lo portasse al cospetto della sua nemesi, o che tradisse l’infame serial killer.

Lo sguardo della sua amata Teresa quando aveva capito cosa Jane fosse arrivato a fare per raggiungere il suo scopo. 

La delusione. 

L’amore, creduto non ricambiato, ferito. 

Il respiro gli morì in gola, mentre il cuore accelerava i battiti  ad un ritmo pazzo. Jane si portò una mano al petto: sarebbe fuggito dalla gabbia toracica, il cuore, scoppiato?

“Jane….” Kay avvertì il panico dell’amico e collega, e nonostante non capisse cosa lo stesse causando, perché fosse cambiato così nel giro di un attimo, gli posò una mano sul braccio, rassicurante, e gli sorrise, complice e serena.

Sarebbe andato tutto bene. Sarebbero tornati a casa – lui da Teresa, lei con Cameron. 

Poteva fidarsi di lui.

Jane si morse le labbra, strinse gli occhi e prese un profondo respiro, facendo cenno di sì col capo; si concentrò non sul passato, ma sul presente, sulle differenti situazioni, e permise al tocco delicato ma caldo e rassicurante di Kay di ancorarlo nel momento.

Raggiunsero il fondo del vicolo; spinse la schiena della donna contro i sudici mattoni, mentre l’olezzo di spazzatura lasciata lì troppo a lungo riempiva loro i polmoni, ed un gatto miagolava scappando, bottiglie di birra vuote che cadevano a terra frantumandosi al suo passaggio caotico. 

Sono qui, ora, adesso. 

Le mani di Kay gli strinsero gli avambracci fino a quasi fargli male mentre lei guardava oltre le spalle del mentalista: le due figure li avevano seguiti nel vicolo e si avvicinavano, minacciose. In mano, non pistole, ma taser che sfrigolavano con scintille luminose di energia elettrica. 

La schiena di Kay fu percorsa da un brivido, mentre ricordava esattamente cosa si provava nell’istante in cui venivi pungolato, e il tuo avversario schiacciava un bottone, permettendo alla scarica di percorrere tutto il corpo, bloccando l’intero sistema nervoso centrale – immobile ma presente, come una macabra bambola.

“Ehm. Disturbo?”

Uno dei due energumeni si voltò, quando sentì la voce venir schiarita alle sue spalle, qualcuno che gli picchiettava sulla schiena mingherlina. Sgranò gli occhi, mentre sotto alla mascherina la bocca si apriva in una malcelata espressione di terrore, che aumentò nell’istante in cui il nuovo venuto ghignò soddisfatto. 

Sapeva con chi aveva a che fare: bene.

Con le mani in tasca dei jeans neri, fischiettando nemmeno stesse facendo una passeggiata, alzò il ginocchio, colpendo nello stomaco l’energumeno. Mentre questi gemeva di dolore, il suo corpo si sollevò in aria, ed un altro calcio lo colpì: stavolta alla testa. La potenza e la velocità del calcio assestato lo mandarono a sbattere contro i mattoni, e l’uomo ricadde a terra, dolorante.

Occhi spalancati, dita tremanti, sangue caldo che colava dal naso, la testa che gli pulsava, non riusciva a muoversi, ma sapeva di doverlo fare. Era già grave che avessero fallito, ma se fossero stati catturati,  non ci sarebbe stata alcuna pietà per loro un volta che lei gli avesse trovati.

Lei non possedeva cuore, e forse faceva loro persino più paura dell’uomo che gli stava innanzi, la leggenda in carne ed ossa. 

Nemmeno mezza ciocca fuori posto, fresco come una rosa, l’uomo si voltò verso il secondo assalitore, che stava lentamente camminando all’indietro, verso l’uscita del vicolo, il corpo che tremava quasi fosse stato di gelatina. 

L’uomo sollevò un sopracciglio, interessato, e sghignazzò; tirò fuori dalla tasca una biglia di metallo, e come fosse stata una pallina da tennis o da baseball, la lanciò contro la testa dell’uomo. 

Lo colpì: forse la potenza del lancio, nonostante la grandezza dell’oggetto e la relativamente minima distanza, o forse per la sorpresa, il criminale perse l’equilibrio. Razzolò a terra, cadendo sulle ginocchia, mentre il taser gli scivolava via dalle mani.

Avvertì passi alle sue spalle: lui si stava avvicinando, con incedere minaccioso e deciso. L’uomo non attese altro, e fregandosene bellamente del compare, che a terra lo supplicava in silenzio di aiutarlo, allungando una mano tremante e debole verso di lui, scappò. L’adrenalina andò a mille, mentre l’aria gli bruciava i polmoni e cercava di mettere quanta più distanza  possibile tra di loro… anche perché se lui era lì, la sua socia non poteva essere troppo lontana. 

Mentre l’energumeno fuggiva, una Mini Cooper rossa fiammante si fermò lungo la strada, all’altezza del vicolo. Una donna si sporse dal finestrino, vestita con una camicetta bianca ed un giacchino di pelle rosso.

“Che faccio, lo seguo?” Domandò senza preamboli all’uomo che era giunto in soccorso di Kay e Jane. 

“Nah, lasciamolo andare. Facciamolo correre con la coda tra le gambe dal suo capo per dirle che di questa faccenda ce ne stiamo occupando noi… e poi noi abbiamo già questo qui da far cantare, ih, ih, ih!” Lui sogghignò, mentre premeva la suola della scarpa sulla schiena del malcapitato che aveva messo al tappeto, senza tuttavia metterci troppa convinzione. 

Era una messinscena. Anche quell’altro sbandato sarebbe fuggito, anche lui avrebbe raccontato la sua versione al loro capo… e sarebbe bastato il cliente a raccontare a lui e Kaori la sua storia. Ryo si sarebbe premurato di avere tutti i dettagli prima di accettare il caso, ma già sentiva che di qualsiasi cosa si trattasse, sarebbe stato decisamente interessante – e se erano fortunati, anche redditizio.

Ryo prese dalla tasca il cellulare, e puntò lo schermo in direzione della coppia appena salvata, mostrandoglielo: Kay riconobbe la stessa schermata che era apparsa sul suo telefono quando Jane aveva inquadrato il codice QR alla stazione.C:\Users\eli\Desktop\Downloads\city-hunter-xyz.jpg

XYZ.

“XYX… siete voi che avete chiamato City Hunter, vero?” Senza voltarsi a guardarli, parlò con voce matura, suadente, lo sguardo sì concentrato, ma che aveva un che di affabile, conturbante. Non sembrava un comune mortale, una persona normale, ma bensì l’eroe di un romanzo noir di altri tempi. “Sono Ryo Saeba e sono qui per…. Jane?!”

Ryo sgranò gli occhi, la mandibola che quasi gli toccava terra quando vide chi aveva davanti – chi gli aveva mandato quella richiesta d’aiuto. Patrick Jane: Ryo quasi perse l’equilibrio, fissando il mentalista, quasi sconvolto. Dovunque Jane andasse, c’erano guai, questo lo aveva già capito, ma l’ultima volta che l’ex truffatore era stato a Tokyo loro ci avevano quasi rimesso la pelle… loro, e anche la moglie di Jane, Teresa.

“No, no, no! Non se ne parla, nemmeno per sogno!” Lo sweeper gracchiò in tono minaccioso, puntando il dito contro l’americano. “Tu porti solo rogne, e  l’ultima volta che sei venuto in città mi sono ritrovato invischiato in una setta di pazzi assassini e a momenti io e Kaori ci siamo rimasti secchi, e tutto per la tua dannata boccaccia!”

“Ah, Ryo, è sempre un piacere incontrati!” Jane, quasi non avesse sentito una sola parola, scoppiò a ridere, divertito; dal taschino del gilet tirò fuori un paio di eleganti occhiali da sole, estremamente trendy nelle loro linee, e li indossò, alzando il viso verso il sole. “Proprio una bella giornata, eh? Non sembra nemmeno inverno!”

“Jane…” Ryo incrociò le braccia, e grugnì il suo disaccordo, lanciando sguardi carichi d’ira al biondo americano. “Arriva al dunque, che diavolo vuoi?”

“Beh, Ryo, punto primo, tecnicamente tu mi devi un favore, perché è grazie a me che hai tolto tuo cognato dai guai- per la questione di Visualize siamo pari perché è sempre grazie al sottoscritto se hai risvegliato la tua bella fidanzata da quel brutto trance ipnotico. Punto secondo…” Jane sorrise, compiaciuto, facendo schioccare la lingua, usando quel tono falsamente mellifluo che più volte gli aveva causato problemi con le forze dell’ordine. “Punto secondo, il cliente non sarei io, ma lei, e sarai pure accasato, vecchio volpone, ma tu, alle richieste di aiuto di una donna innamorata e disperata e per giunta bella, non hai mai saputo dire di no. E non mentirmi, che tanto lo sai che è inutile, ti conosco troppo bene!

Indicò Daniels, che contro il muro si era incurvata nelle spalle, facendosi piccola: quando aveva incontrato Ryo e Kaori, aveva immaginato che il loro mondo fosse uno in bilico tra la luce e l’ombra, ma adesso ne aveva la certezza. City Hunter: quel nome era una leggenda anche negli Stati Uniti – una leggenda che anche lei, come molti altri membri delle forze dell’ordine, aveva scoperto negli anni all’FBI. 

Molti lo credevano una leggenda metropolitana: lei, adesso, scopriva che non era così, che si trattava della realtà.

Ryo alzò gli occhi al cielo, e scrollò le spalle, sbuffando. “Tanto, conoscendoti, se non accettassi minimo mi ipnotizzeresti, peggiore dei casi arriveresti al ricatto per farmi fare quello che vuoi…”

“Che esagerato, sempre a pensare il peggio di me!” Jane gli rispose, ma in realtà stava gongolando; da quando lui e Ryo si erano incontrati per la prima volta, aveva scoperto di aver trovato in lui un compare – un uomo che gli era più simile di quanto loro stessi volessero ammettere, ed adoravano punzecchiarsi a vicenda. 

“Agente Daniels… qual buon vento la porta qui in Giappone?” Ryo si voltò verso di lei, abbandonando l’espressione frustrata ed annoiata che aveva riservato a Jane, e sorridendole affabile, con aria rassicurante; le offrì la mano in segno di fiducia, e lei fissò quel palmo aperto, quasi non sapesse come comportarsi, poi alzò lo sguardo verso Ryo prima, e Jane poi, ed il mentalista annuì, con un gesto pacato del capo. 

Kay prese un profondo respiro, e afferrò quella mano, stringendola nella sua mentre serrava gli occhi, che volevano ardentemente piangere: ma non lo avrebbe fatto, sapeva di dover essere forte. 

“Un mio carissimo amico si è messo in una marea di guai per salvare la vita di suo fratello, e credo che adesso potrebbe essere qui in Giappone, alle calcagna di una ladra, truffatrice e probabilmente anche assassina… e io….” Ingoiò a vuoto, mentre soffocava un singhiozzo. “Mi serve il suo aiuto per trovarlo prima che sia troppo tardi.”

“Beh, nessun problema, agente Daniels…” Kaori sorrise. “Lei è nel posto giusto!”

Si voltò verso Ryo, bella e luminosa come il sole, risplendente. 

Lui le sorrise di rimando, sospirando: ormai era chiaro che, tra di loro, a portare i pantaloni in casa era Kaori, e comunque, non sarebbe mai stato in grado di dirle di no. 

Lo sweeper sospirò, grattandosi il capo. 

“E va bene, accettiamo il caso…. Vediamo di recuperare il fidanzatino dell’agente Daniels! Ma sia ben chiaro, Jane…” Ryo sorrise, facendogli l’occhiolino. “Risolta questa, stavolta siamo pari!”

“Ah, per me va benissimo, tanto scommetto che prima che finisca questa storia sarai di nuovo in debito con me…” Il mentalista gli passò accanto, uscendo dal vicolo, dando una pacca sulla spalla di Ryo; poi prese nella sua la mano delicata di Kaori, e lasciò un delicato bacio sulla pelle delle nocche, facendola arrossire come fosse stata una ragazzina – mentre lo sweeper fumava di rabbia, grugnendo, e maledicendosi per aver detto di sì. “Kaori, sono felice di rivederti. Sei sempre bellissima – anzi, ad essere sincero hai un qualche cosa di diverso… non dirmelo, tu…”

Le sorrise in modo enigmatico, quando lei non gli rispose, e Jane scrollò il capo, comprendendo cosa stesse accadendo; si voltò verso Ryo, e borbottando qualcosa a denti stretti in inglese, gli diede una sonora pacca sulla schiena – lo sweeper si limitò a fissare quello strambo uomo, incapace di arrivare a cosa volesse dire. 

“Bene, allora direi che possiamo andare a discutere del caso, sì?” Jane batté le mani, e lasciò il vicolo, scavalcando il malcapitato che, ancora a terra, gemeva. “Che dite, andiamo a berci una buona tazza di the? Quella del tuo amico Falcon era una meraviglia!”

  1. In The Mentalist la Blake Society era la società segreta di cui faceva parte John il Rosso. Ne erano componenti agenti di polizia e figure governative, che la usavano per insabbiare le proprie nefandezze.

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Capitolo 3
*** Coincidenze ***


  1. Coincidenze

Cat’s Eye Cafè

“Falcon, amico mio, tu non la smetterai mai di stupirmi: non lo credevo possibile, ma il tuo the è addirittura migliorato dall’ultima volta che ci siamo visti!” Jane sogghignò, sorridendo compiaciuto. “Sei quasi ai livelli della mia Teresa!”

Falcon, in piedi a braccia incrociate dietro al bancone del Cat’s Eye, sbuffò, alzando gli occhi al cielo dietro alle spesse lenti scure; dei complimenti di Jane non sapeva che farsene, e di certo non lo incantavano: di quel tipo c’era da fidarsi di meno perfino di Ryo. Lo sweeper ed il mentalista erano una fonte di guai certi, ed il fatto che Jane fosse a Tokyo non rappresentava nulla di buono. 

“Grazie mille, Patrick!” Miki gli sorrise, radiosa, arrossendo lievemente – la reazione di default della maggioranza del gentil sesso davanti al consulente dell’FBI – mentre si inchinava leggermente a fianco dell’uomo, che sedeva ad uno dei tavolini del locale, ancora chiuso alla normale clientela. 

“Sì, sì, sì, lo sappiamo che ti piace il the.” Ryo sbuffò. Seduto davanti a Jane, si sporse verso l’amico/nemico, digrignando i denti. “La vogliamo smettere di fare il finto leccaculo ed arrivare al dunque? Si può sapere in che casino ti sei cacciato stavolta? Guarda che… AHIA!”

Ryo si morse la lingua, onde evitare di urlare, e prese a massaggiarsi il calcagno dolorante; Kaori, seduta a fianco a lui, lo fulminò, mostrandogli che, se fosse stato necessario, lo avrebbe di nuovo preso a calci più che volentieri. 

Ryo e Kaori presero a bisticciare in Giapponese. 

Miki e Falcon sospiravano, quasi fossero stati rassegnati. 

Jane se la stava ridendo sotto ai baffi, guardando con un sorrisetto beffardo ciò che gli stava accadendo intorno.

E Kay iniziava a rimpiangere di essersi lasciata trascinare in quella folle avventura, perché aveva la netta impressione di essere finita in un covo di matti. La donna chiuse gli occhi, scrollando lieve il capo, cercando di allontanare qualsiasi pensiero, facendo intorno a sé il vuoto, bisognosa di rammentare il perché fosse lì in quel luogo, in quel momento. Il suo obbiettivo. 

Cameron. 

Doveva salvarlo prima che fosse troppo tardi, che divenisse un’altra vittima- anche se iniziava a chiedersi chi sarebbe stato il carnefice, l’anima di Cameron oppure quella donna misteriosa, ancora senza nome?

“Tutto bene, agente Daniels?” La voce gentile di Kaori la riportò lì, nel presente, e per un attimo Daniels fu quasi confusa, quasi non avesse più percezione di dove si trovasse, come se avesse dimenticato cosa fosse accaduto fino a quel momento.

“Agente Daniels?” Kaori la richiamò nuovamente, coprendo la mano della donna con la sua, e stringendola. Kay sussultò: la sua mano era gelida, in confronto a quella della donna Giapponese. Reagì di scatto, in modo istintivo, senza riflettere, e ritrasse la mano, che posò in grembo; non aveva mai mostrato segni di debolezza, non aveva mai pianto, aveva imparato a stringere i denti ed andare avanti fin dalla più giovane età.  

Era sempre bastata a sé stessa: l’unico altro essere umano a cui si fosse mai appoggiata era stato Cameron, e adesso… adesso, era lui ad avere bisogno di lei. 

“L’Inglese va bene, vero? Il mio Giapponese è un po’ arrugginito…” Disse con una risata nervosa, facendo scioccare la lingua contro il palato. “E non è comunque mai stato ai livelli di quello di Jane…”

“Ah, per così poco!” Jane sminuì le proprie capacità, con la sua tipica  falsa modestia. “Basta un palazzo della memoria decente, ed in poche settimane chiunque può imparare qualsiasi cosa e poi riutilizzarla al momento opportuno!”

“Già, e Dio solo sa quanta spazzatura c’è nel tuo, di palazzo della memoria!” Ryo sospirò. Si lasciò andare sulla sedia, ed incrociò le braccia mentre guardava Kay dritta negli occhi.  “Allora, chi è il suo fidanzatino, esattamente, ed in che guai si è cacciato?”

“Non… Cameron non è il mio fidanzato!” Rispose con molta, forse troppa, veemenza, irrigidendosi mentre arrossiva, una reazione che Ryo trovò a dir poco adorabile e che lo fece sorridere: anche Kaori era stata così, in passato. “Lui… lui è un collega, un, un consulente in realtà. Ed un caro amico. Il mio migliore amico.”

“Sono innamorati pazzi l’uno dell’altra, ma lui non poteva dirglielo perché prima doveva trovare il modo di scagionare da una falsa accusa di omicidio il fratello e non voleva distrazioni, e lei temeva di essere respinta e rovinare una delle migliori amicizie che avesse mai instaurato in tanti anni.” Jane se ne uscì, tra un sorso di the e l’altro, parlando con completa nonchalance quasi stesse raccontando la trama di un romanzetto rosa da edicola o si fosse trattato di un normalissimo argomento di conversazione, come il tempo “Oh, naturalmente temeva anche  di essere ferita da qualcuno che amava per davvero, perché tutte le relazioni avute prima di Cameron erano state vuote e dio poco importanza, e le aveva chiuse senza ripensamenti o altro.”

Ryo scoppiò a ridere, una risata calda e profonda, quasi inarrestabile, fanciullesca, che spiazzò l’imbarazzatissima Daniels, e gli procurò un altro calcio da parte di Kaori, che lo guardò inviperita, quasi rabida. 

“Ryo, ma ti sembra il modo di comportarsi?!” Sibilò, stringendo i denti. “E anche tu, Jane, non vedi che metti l’agente Daniels in imbarazzo?”

“Scusate, scusate, è che il consulente che lavora per vendicarsi del torto subito e si innamora della bella poliziotta che non gli rivela i suoi sentimenti per paura del rifiuto, è, come dire…” Si chinò verso Jane, ridacchiando. “Non è esattamente una storia nuova, eh vecchio mio?”

“Va bene, va bene, siamo tutti un grande cliché Hollywoodiano, sei contento?” Jane sbuffò, asciugandosi con un tovagliolo di carta le labbra carnose. “Adesso, potremmo arrivare al punto? Spiegarvi bene cosa è successo?”

“Ci metterò un po’…” Kay li guardò, scusandosi non a parole ma con gli occhi limpidi.

“Già… il primo prologo di questa storia ha inizio negli anni venti del secolo scorso.” Jane prese a dire, con un pomposo eloquio. Sebbene quella fosse la storia di Kay, si sentiva che spettasse a lui narrare quei fatti: era un contastorie, un giullare, quello era sempre stato il suo compito. “… Quando gli uomini più ricchi degli Stati Uniti d’America ingaggiano due illusionisti e maestri dell’escapologia per costruire un luogo segreto in cui nascondere le loro ricchezze ed i loro segreti. I due però fanno un lavoro talmente eccellente che nessuno ha mai scoperto dove questa stanza si trovi, ed il segreto della sua esistenza si perde, divenendo poco più di un mito, una leggenda metropolitana a cui nessuno crede.”

“E se nessuno sapeva che esisteva com’è che voi lo avete scoperto?” Lo sguardo ed il tono di Ryo lasciavano capire che era recalcitrante a credere alle parole di Jane. 

“Perché uno dei due illusionisti era il bisnonno di Cameron.” Kay continuò per il “collega”, sospirando. “Il mio consulente. Suo bisnonno aveva scritto di questo tesoro in un diario, racchiudendone l’ubicazione in un testo cifrato. Probabilmente credeva che sarebbe sopravvissuto a tutti gli altri, e che avrebbe potuto impossessarsi di quelle ricchezze.”

“Quindi…” Kaori si portò un dito al mento e sollevò leggermente lo sguardo. “Cameron ha scoperto di questo tesoro dal bisnonno?”

“Oh, no, in realtà qui arriva la parte piccante della storia: In punto di morte, il bisnonno di Cameron lo raccontò al figlio, che fece lo stesso con il suo, di erede, il quale lo raccontò alla sua amante, una ladra che lui aiutava di tanto in tanto, e lei lo ha raccontato alla figlia e la figlia l’ha raccontato a Cameron e suo fratello Jonathan.” Jane ridacchiò. “In pratica è una storia di ricatti, denaro, torbido sesso, passioni malcelate e sindrome di Elettra.”

Kaori sgranò gli occhi, e balbettò. “Ehm… credo di essermi persa un paio di passaggi….”

Jane alzò gli occhi al cielo; in modo esagerato, teatrale, sospirò, comportandosi quasi stesse facendo loro un favore graziandoli della sua presenza. “Per farla in breve: per convincere Cameron ad aiutarla, la nostra giovane ladra ha incastrato Jonathan per omicidio, ma quando ha capito che lui era comunque riluttante a tradire la qui presente Kay ha pensato bene di mettere i due fratelli l’uno contro l’altro. La mia teoria è che abbia detto a Johnny che Cameron avrebbe preferito aiutare Kay piuttosto che rischiare il posto di lavoro di lei per un nulla di fatto.”

“E così si è beccata Jonny come aiutante e Cameron li ha seguiti comunque, perché vuole tirare fuori dai guai il fratello.” Ryo terminò per l’amico, lo sguardo serio e cupo. Famiglia, amore  e tradimenti: era un argomento che lui conosceva fin troppo bene. “Quindi, cosa devo fare, recuperare Cameron?”

“No, Cameron e Jonathan devono capirlo da soli che io voglio solo il loro bene.” Kay puntualizzò, battendo l’indice destro sul tavolo di formica. “Ho solo bisogno che lei faccia in modo che Cameron non si metta in guai da cui non potrà mai uscire.”

“Quindi, salvargli la pellaccia?” Ryo sollevò il sopracciglio. “E comunque, niente formalismi, che mi fanno venire l’orticaria… Ryo o Saeba va benissimo, senza bisogno di darmi del lei!”

Kay si limitò ad annuire, grata quando fu Jane a riperdere la parola.

“Salvargli la pelle è solo metà dell’opera. Ciò di cui abbiamo bisogno è che tu impedisca che il trio rubi quella che credo essere la chiave di codifica del diario del bisnonno Black, ovvero… questo!” Jane sbattè sul tavolo ciò che fino ad un attimo prima aveva avuto in tasca; si trattava di una fotografia di Serpenti, il collier che era certo celasse la risposta a tante, troppe domande. “Si tratta di….”

“Serpenti, un collier di Bulgari della metà degli anni venti del secolo scorso, appartenuto alla moglie di Howard Hughes, il primo modello della casa realizzato in questo modo…” Kaori sorrise compiaciuta, mentre  prendeva in mano la foto e la studiava meglio, più da vicino. “Tra pochi giorni verrà messo in mostra all’interno della gioielleria di Bulgari, nella loro torre qui a Tokyo.”

“Ah, ma vedo che siete informati, non ditemelo…” Jane sorrise sornione, estremamente compiaciuto. “Bulgari ti ha assegnato il controllo della sicurezza su consiglio dell’Ispettrice Nogami!”

“Bella coincidenza, eh?” Ryo sorrise, guardando Kaori prima e Jane poi. “Anche se, potrei sbagliarmi, ma tu alle coincidenze non ci hai mai creduto troppo…”

“Sai, credo che tu stia già avendo un’idea…” Jane si illuminò, mentre Kay guardava i due uomini sentendosi quasi di troppo, inutile in tutta quella faccenda di cui si sentiva in parte responsabile, mentre la sua mente si affollava di se e ma. “Hai un piano?”

“Diciamo che ho un abbozzo di piano, per adesso!” Ryo ridacchiò, dita intrecciate dietro la testa. “Anche perché per stasera possiamo starcene tranquilli. I due bastardelli saranno tornati a casa da mammina che adesso sa che noi sappiamo…”

“Quindi colpirà da domani in poi, quando crederà che la nostra guardia sarà più bassa!” Kaori  lo anticipò, radiosa per quell’intuizione frutto di anni passati al fianco di Ryo. 

“Già…. Secondo il mio modesto parere colpirà dopo l’apertura della rassegna. Ora che i gioielli sono nel caveau, e che sappiamo che la signorinella ha intenzione di impossessarsi del collier, rubarlo sarebbe molto più complicato, aumentando così il rischio di essere scoperti. Quindi ci restano un paio di giorni…”

“Per individuare Cameron e Jonathan?” Kay domandò. 

“No, Tokyo è grande, e dovrei fare un giro di tutti i miei informatori per scoprire qualcosa, e non è nemmeno detto che accada. No, io direi di giocare al gatto e al topo, e far venire la nostra bella ladra da noi…” Ryo prese dalle mani di Kaori la foto di Serpenti, e la guardò mentre la teneva sollevata in aria. “E per farlo… dovremo rubare Serpenti prima di loro!”

La porta d’ingresso del caffè si aprì, con un lieve scampanellio, e prima ancora che un viso,  un corpo, udirono una voce squillante  e allegra, giovane, che sprizzava spensieratezza.

“Buongiorno a tutti, e scusate il ritardo!” La donna si bloccò quando nessuno ricambiò il saluto, e sbattè le palpebre quando avvertì quattro paia di occhi concentrarsi su di lei – occhi che sogghignavano. 

Ingoiò a vuoto, tentata di tornare da dove era venuta, poi però i suoi occhi si fermarono su Ryo ed il suo cuore prese a battere forte, mentre le gote le si imporporavano… certo, sapeva che non aveva speranze con lui, e che forse non era mai stato realmente interessato, però c’erano giorni in cui era davvero complicato ricordarsi perché doveva farsi passare quella colossale sbandata senza speranza alcuna. 

E Ryo questo lo sapeva: e capitava che se ne approfittasse. 

“Kasumi, proprio la donna che fa al caso nostro!” Esclamò lui facendole l’occhiolino. “Ti va di aiutarci a rubare un gioiello unico al mondo?”

Lei, che aveva notato l’uso della prima persona plurale, si avvicinò al tavolo, mano sul fianco, e osservò i due sweeper, sentendo puzza di fregatura. 

“Dove sta l’inghippo?” Gli domandò lei, scettica, ormai conscia che la regola numero uno per sopravvivere in quel mondo era dubitare, sempre dubitare, delle idee di Ryo Saeba.

“Che me lo dovrai dare perché altrimenti Kaori ed io non verremo pagati, e tu non vuoi farmi questo torto, vero?” Lui le rispose con un leggero broncio, sbattendo le ciglia nemmeno fosse stato una ragazzina petulante che cercava di convincere il fidanzatino a darle quello che lei voleva.

Kasumi sospirò, ben conscia di cosa sarebbe successo: ormai lo sapeva con certezza assoluta, avrebbe aiutato Ryo… col risultato che si sarebbe messa in un mucchio di guai. Ma chissà: forse, glielo doveva. 

Kasumi borbottò qualcosa tra sé e sé, abbassando le spalle mentre sentiva salire il rancore verso Ryo, che sfruttava il suo charme, e sé stessa, che ci cascava sempre: allo sweeper era bastato un nonnulla- praticamente una sola domanda – per convincerla ad aiutarlo. Non che andasse poi così male…. Kasumi adorava punzecchiare Kaori, flirtando in modo esagerato con il di lei socio, e comunque, ultimamente si stava annoiando un po’, e non voleva assolutamente arrugginirsi: quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva fatto irruzione da qualche parte? Troppo, decisamente.  “Allora, sentiamo.”  Gli domandò con un sorriso smagliante, sfiorandogli con un indice la fronte e tenendo gli occhi beffardi fissi su Kaori. “La tua bella testolina  ha già prodotto un piano?”

“Che razza di domanda, certo che sì!”

Da qualche parte, a Tokyo…

Cameron stava seduto in un angolo buio dell’umido salone scuro, da solo, braccia conserte. Da lontano, osservava tutto, e ascoltava i rumori dei mondo esterno, alla disperata ricerca di qualche indizio che gli potesse far capire dove fossero – dove, in quel van dai vetri oscurati, quella donna li avesse condotti. 

Nulla: quella realtà gli era completamente aliena. 

La mascella serrata in una morsa dolora, si alzò lentamente, e si avvicinò quatto, silenzioso, nemmeno fosse stato un cucciolo ferito, al centro dell’enorme spazio industriale, quasi totalmente vuoto – lì, lei, la donna ancora senza nome, stava controllando le planimetrie di un qualche edificio insieme a Jonathan, giocherellando intanto col tubetto di rossetto Chanel.

Guardami, Cameron pensò, dirigendo il pensiero al fratello gemello, quasi questi avesse potuto percepire cosa gli stava passando per la testa.  Perché la aiuti? Perché le credi? Un tempo eravamo noi contro il mondo: cosa è cambiato?

“Fratellino, tornatene al tuo posto e lasciaci lavorare.”  Jonathan si voltò, e Cameron si sentì raggelare, non riconoscendo chi aveva davanti. Alzò gli occhi e vide lei, sorridere quasi malvagia, sinistra…. Soddisfatta. 

Era riuscita nel suo intento: li aveva messi l’uno contro l’altro, tranciando una volta per tutte il legame che li aveva tenuti insieme dal giorno del loro concepimento. Aveva conquistato un Black e distrutto l’altro: ciò che aveva sempre desiderato fare, il suo obbiettivo principale. 

La sua vendetta.

Il portone in ferro e vetro si apri con un cigolio sinistro, scorrendo nella sua base, e odore di fumo e polvere entrò nello stanzone, insieme ad un raggio di luce. Il portone venne sbattuto, facendo perfino muovere il lampadario appeso al soffitto- una singola lampadina che da sola dava l’illuminazione, fioca, necessaria.

“Si può sapere perché diavolo ci avete messo così tanto?!” La donna sbottò, in quello che poteva sembrare un perfetto giapponese, sbattendo la penna che teneva in mano sul tavolo, sopra alle cartine, facendo uscire dal pennino dell’elegante stilografica rivoli di inchiostro nero. 

Mentre i passi si avvicinavano, lenti e strascicati, lei lasciò la sua postazione e andò loro incontro. Il suo sguardo era freddo e crudele, quello di una donna che non permetteva errori o dubbi, e che trattava i suoi subordinati senza pietà: dato che nulla le era stato donato, lei era divenuta intransigente, aspettandosi di avere il mondo ai suoi piedi. 

Per lei, le cose potevano andare soltanto in un modo: secondo i suoi piani, e finora non aveva mai fallito. Certamente non lo avrebbe fatto ora, quando era a tanto così dal raggiungere quello che era stato l’obbiettivo della madre, e che col tempo era divenuto il suo.  

“Cosa diavolo avete combinato, brutti incapaci?” La donna sibilò quando si trovò davanti i suoi uomini; uno di loro era sporco di sangue, il rosso liquido si era ormai seccato sul mento e sul petto, permeando l’aria di un puzzo ferroso che le fece storcere il naso quando provarono ad avvinarsi troppo. “Allora? Dove sono quei due??” Abbaiò. 

I due uomini si scambiarono sguardi impauriti, al limite dell’impacciato; nella loro bassa statura, sembravano ancora più piccoli ed inutili; Cameron si avvicinò titubante, cercando di ricordare quelle quattro parole in croce che conosceva di Giapponese, ma l’unica cosa che gli sembrava di caprie era che lei era delusa e furibonda. 

“Avevamo la poliziotta e l’Americano in pugno, ma loro hanno chiesto aiuto…. Hanno ingaggiato City Hunter per difenderli…”

“City Hunter.” La donna sentenziò. “Loro avrebbero ingaggiato una leggenda metropolitana.”

 La mente di Cameron prese a viaggiare alla velocità della luce. Cosa aveva capito di quel discorso?

Una parola simile a polizia: che stessero parlando di Kay? Evidentemente, doveva aver capito dove erano diretti dalla copia del diario che lui le aveva fornito, ma rimaneva comunque un dubbio: chi era l’americano di cui i due parlavano?

E soprattutto…. Cosa centrava City Hunter in tutta quella faccenda? 

Cameron ricordava le parole sussurrate  quando era stato solo un ragazzino, le chiacchiere da bar dello staff di suo padre. 

Nei locali fumosi, sussurravano quel nome con reverenziale terrore. 

Nelle strade della perdizione, lo imploravano quasi fosse una preghiera. 

Per anni, Cameron aveva creduto che quel nome fosse solo una favola, una leggenda: ma adesso scopriva la verità. City Hunter, l’incubo dei criminali, dei senza onore, esisteva – ed aveva preso Kay sotto la sua ala protettrice. 

Cameron sorrise di nascosto, soddisfatto e fiero di lei: nonostante quella donna pericolosa, era ormai certo che Kay sarebbe sopravvissuta. 

“Fate i bagagli in fretta, dobbiamo andarcene da qui!” Lei sentenziò, voltandosi e tornando al suo tavolo. Le planimetrie erano ormai rovinate, inservibili, illeggibili, e lei le appallottolò, lanciandole contro un muro, contro cui rimbalzarono prima di cadere a terra. “Il colpo è rimandato. Aspetteremo l’inizio della mostra per agire!”

Jonathan fece come gli venne detto, mentre invece Cameron, titubante, rimase indietro, quasi una forza sconosciuta, sovraumana, lo stesse tenendo immobile i quel preciso punto: lei aveva parlato in inglese, nonostante fosse chiaro che i due uomini non ne capissero una sola parola. 

Perché?

E perché la cosa faceva raggelare il sangue all’illusionista? 

La donna lesse la titubanza sui visi dei suoi scagnozzi, e si avvicinò loro; sulle labbra scarlatte aveva dipinto un ghigno sinistro, crudele, che ricordava quello pazzo del Joker di Batman, in certe storie truculente e terribili che impaurivano anche gli adulti.

Ho detto ai miei amici di andare a fare i bagagli. Ora che City Hunter sa dove siamo, questo posto potrebbe non essere più sicuro…”

Offrì la mano ad uno dei due uomini, che sorridendo e facendo cenno di sì col capo la afferrò, stringendola. Lei azzerò la distanza che li separava, e fece come per abbracciarlo, ma quando Cameron vide il rivolo di sangue uscire dalla bocca, ed il corpo accasciarsi a terra, capì che il suo era stato tutt’altro che un gesto d’amicizia. 

La donna pulì la lama del coltello sulla camicetta bianca, con lucida freddezza, poi si voltò verso il compare della sua vittima. L’uomo prese a correre all’indietro, ma cadde ed inciampò, e lei, impassibile, continuò la sua marcia. 

Dalla cintola dei pantaloni estrasse una pistola: sparò un solo colpo, in fronte, e poi dette un calcio al cadavere.

Cameron teneva una mano sulla bocca, mentre sentiva il sapore di acido riempirgli la gola, la bocca, e lo stomaco si chiudeva, in una morsa quasi dolorosa.

Non aveva avuto dubbi, incertezze. 

Loro avevano fallito, avevano messo a repentaglio il piano – e per questo erano stati puniti. 

Come tanti altri prima di loro. Come sarebbe potuto succedere anche ai gemelli Black. 

Cameron si voltò verso il fratello, gli occhi enormi, pozze in cui si rifletteva il mondo. Jonathan non fece nulla, non rispose, non guardò il fratello. E poi, avvenne.

I loro sguardi, dopo tanto, troppo tempo, si incrociarono di nuovo, solo per un attimo, una frazione di secondo appena – e Cameron vide la paura ed il dubbio insinuarsi in lui.

Li stava usando? 

Davvero provava affetto profondo e vero per lui?

Lo aveva manipolato fin dal primo momento in cui i loro occhi si erano incontrati, quel giorno a New York, oltre le transenne? 

Lo ha capito, Cameron si disse. E se non lo aveva capito… lo avrebbe comunque fatto, presto. 

Nel cuore sentì irradiarsi un calore profondo, mentre prendeva spazio la consapevolezza che non era stato tutto vano, tutto inutile.

Jonathan non era ancora perduto- e lei era destinata a cadere, vittima della sua stessa tracotanza. 

La partita non era ancora finita: il bello dei giochi doveva ancora venire.

 

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Capitolo 4
*** Cuori Di Strada ***


Casa Saeba- Makimura, Shinjuku

“Quindi, questo sarebbe il piano?” Kay chiese nuovamente, occhi sgranati per lo scetticismo. “Rubare la collana? Tutto qui?”

“Rubare la collana per primi,”  Jane le spiegò. “Mettendola così al sicuro. Ed assicurandoci così anche l’attenzione della nostra ladruncola assassina.”

“L’ideale è farlo prima dell’inaugurazione della mostra,” Ryo rifletté, mentre studiava i lucidi del sistema di sicurezza del negozio Bulgari dove sarebbero stati esposti quei tesori, fornitegli dalla ditta stessa. “In questo modo prenderemo in contropiede la vostra donna del mistero, che sono certo vorrebbe aspettare invece l’inizio dell’esposizione.”

“Perché pensa che noi siamo qui pronti ad attenderla!”  Kaori lo interruppe, quasi leggendogli nel pensiero. La donna verse percorsa nel profondo dell’animo da un brivido, mentre Ryo le lanciava un sorriso pigro: quella conversazione aveva il sapore di un déjà-vu, le riportava alla mente quando Kaibara era entrato nella loro casa, e loro aveva deciso di attendere il giorno dopo per attaccare la nave su cui aveva installato il suo quartier generale, per coglierlo di sorpresa.

”Certo!” Ryo fece un cenno di assenso, sempre impressionato dall’ottimo istinto di Kaori, che nel corso degli anni si era rivelata stranamente portata per quel lavoro, specie le parti organizzative e investigative. “Ma anche perché mi sono letto un po’ di rapporti dell’FBI sulla vostra amichetta. Potrà essere brava quanto volete, ma alla fine dei giochi è solo una sempliciotta a cui piace la strada più facile.”

Ryo gettò sul tavolo della cucina i fogli freschi di stampante che aveva appoggiato fino ad un attimo prima sulla panca su cui era seduto. Stupefatta, Kay prese a sfogliare i fogli, uno per uno, la fronte aggrottata. “Cartine dell’intero edificio… queste non le ha solo chi si occupa della sicurezza di un evento…”

“Scommetto che c’è lo zampino del Professore… quel vecchietto pazzerellone!” Jane ridacchiò. Il mentalista stava sorseggiando da una tazza azzurra un the fumante, rimescolandolo in bocca per far arrivare meglio alle papille gustative il retrogusto di spezie; socchiuse gli occhi mentre emise un gemito di piacere, e sul suo volto spuntò un sorriso compiaciuto: per quanto fosse un estimatore di Earl Grey, i classici The Invernali avevano sempre avuto un posto speciale nel suo cuore, nonostante li avesse potuti gustare appieno solo durante le poche occasioni in cui il padre lo aveva trascinato a fare spettacoli nel nord degli Stati Uniti. 

“In realtà, no.” Ryo ridacchio, ed indicò col pollice Kasumi, che stava in piedi, rigida, in un angolo, le guance arrossate quasi fosse in imbarazzo. “Kasumi le aveva salvate sul suo computer. Secondo me la nostra ladruncola progettava qualcosina…”

Quattro paia di occhi si voltarono verso di lei, stupefatti e irriverenti quelli degli uomini, colmi di giudizio quelli delle donne.

“Stavo solo…. Lo stavo solo studiando in teoria!” La ladra/cameriera/studentessa rispose, sbattendo i piedi come fosse stata una bambina petulante. “e comunque, irrompere lì dentro è praticamente impossibile, seppiatelo! Nessuno potrebbe mai rubare nulla da quel caveau, né noi né l’amichetta della poliziotta!”

Federale, cocca, Kay pensò a denti stretti, stringendo gli occhi. Decise però di rimanere zitta: aveva la netta impressione che fosse meglio averli come amici, quel gruppo strampalato che a Jane piaceva tanto, invece che avversari, e ci mancava solo che si facesse prendere in antipatia passando per una perfettina petulante.

Ryo sorrise, sollevando un sopracciglio, poi si voltò nuovamente sulle planimetrie e prese a studiarle, mostrandole ai partecipanti a quella curiosa riunione, mentre Kasumi li raggiungeva e si metteva in piedi dietro ai proprietari dell’appartamento, le braccia incrociate come se fosse ancora arrabbiata. 

“Il caveau sotterraneo è raggiungibile da un sistema di tre camere stagne, ed in ognuna di esse c’è un tipo di controllo differente…” Kasumi iniziò a spiegare, facendo scorrere il dito lungo la mappa. “Controllo dei documenti nel primo, biometrici il secondo e terzo.”

“Perché due controlli biometrici?” Kaori domandò, onestamente perplessa. Bulgari aveva affidato loro la sicurezza della mostra, ed il loro incarico, in teoria, sarebbe partito solo nel momento in cui le porte della boutique fossero state aperte, con i gioielli esposti nelle loro teche.

“Sono probabilmente di tipo diverso,” Jane si morse il labbro, grattandosi il mento. “Direi… fisiologico il primo, comportamentale il secondo. Analisi della camminata?”

Kasumi fece cenno di sì. “Il primo controllo scannerizza iride, impronta della mano ed impronte digitali, il secondo analizza la deambulazione attraverso un sistema di sensori posti lungo il corridoio, in questo modo, in caso di incongruenze con i dati presenti nel database, si viene fermati all’ultima camera stagna.”

“Dove, se sei un piantagrane, ti trattengono degli agenti con mitra puntato alla testa fino all’arrivo della polizia…” Ryo sbuffò. Prese a guardare tutte le cartine, alla ricerca di indizi, di capire come arrivare a rubare la collana prima della donna del mistero, ma ci vedeva davvero poco da fare. “E se usassimo un condotto di areazione?”

“No, impossibile. Non c’è un solo condotto, ma una serie di micro-condotti in cui non passerebbe nemmeno un topo.” Kasumi sospirò, sentendosi leggermente affranta. “E lavorano in entrambe le direzioni: forniscono ossigeno al caveau sotterraneo ma possono anche succhiarlo fuori.”

“Giusto perché voi lo sappiate, il coma non è nei miei piani futuri. Ho una moglie ed un figlio. E una nipote che mi adora sebbene io sia solo uno zio acquisito.” Jane scherzò, tuttavia, la conformazione della struttura lo preoccupava. “Se non sei nel database non entri. Voi siete nel database?”

“No, noi siamo stati solo contattati per quel che riguarda la mostra all’interno della gioielleria. Anche se…” Ryo incrociò le braccia, ed alzò il capo verso il soffitto. “Tanta sicurezza per dei gioielli, mi sembra strano…”

 “Se fossero gioielli antichi non me ne meraviglierei, ma per quanto preziosi questi non sono certo pezzi di interesse archeologico…” Jane sorrise, radioso, scuotendo leggermente il capo. “Anche se questo mi fa tornare indietro nel tempo, ad un caso a cui Teresa ed io lavorammo ai tempi in cui eravamo al CBI… dei ladri avevano svuotato l’intero contenuto del caveau di una banca per nascondere l’unica cosa a cui fossero veramente interessati: un hard disk con dati sensibili.”

“Che dici, sevizi segreti?” Ryo domandò, tuttavia, la sua domanda sembrava quasi avere già in sé la risposta. Jane scrollò le spalle, senza mai cessare quella sua espressione beffarda. 

Sì, lo credeva anche lui: in quel caveau dovevano esservi dei piccanti segreti di stato. 

“O magari qualche ricco nababbo. Non certo segreti compromettenti o denaro sporco,” Jane rifletté, sbuffando, pensando a quanto fosse quasi ironico tutto questo. “Ma hard disk, copie di back up delle banche dati, elenchi clienti completi con coordinate bancarie e codici di accesso… non mi meraviglierei se facessero ai clienti più affezionati questo servizietto.”

“A casa mia i servizietti sono tutt’altra cosa, Jane.” Ryo ridacchiò stupidamente, facendo schioccare la lingua contro il palato, mentre si spaparanzava sulla panca con le mani incrociate dietro al capo. “Anche se questa cosa ci potrebbe tornare utile. Sarebbe molto più semplice infiltrarci!”

“Sicuro? Perché chiunque entra deve essere schedato, se non lo hai capito, amico mio. A meno che….” Jane si picchietto con l’indice sul labbro, poi si voltò verso Kasumi. “Mi dica, signorina Kasumi, sa anche dove si trova il server su cui sono contenuti gli indici biometrici?”

“In realtà, sì…” La ragazza rifletté, pensierosa. “Il primo controllo, quello dei documenti, avviene incrociando gli archivi anagrafici con il registro dei clienti contenuto sul computer del direttore della boutique. Invece i dati biometrici sono inseriti in un server che si trova fuori Tokyo. Per la precisione… qui!” Mostrò un punto su una mappa sul cellullare, dove era pressappoco ubicata la server farm

“Sì, sì, sì, fantastico, ma come facciamo, comunque?” Kaori lo interrogò, apparendo sempre più scoraggiata. “Non possiamo passare dai condotti, non possiamo certo entrare dalla porta principale, con tutti questi controlli… non potremmo semplicemente dire a Luca di ritirare la collana dalla mostra, magari portarla in un luogo sicuro?”

Ryo alzò un sopracciglio, leggermente innervosito: da quando Silvestri era diventato Luca? Quel tizio si stava prendendo troppe confidenze con Kaori… l’antipatia immediata che aveva provato a pelle per l’uomo non faceva che crescere. Impedire alla donna del mistero di prendere la collana equivaleva a salvare il posto, probabilmente, a Silvestri, e a Ryo tutto sommato non sarebbe dispiaciuto vedere quel tipo andare a gambe all’aria…

“Neanche per idea!” Abbaiò, incrociando le braccia e mettendo il broncio, sotto lo sguardo divertito di Jane – che sembrava aver capito che ci fosse un leggero astio tra i due- e quello sbigottito di Kay e Kaori. “E poi, non sappiamo se la donna del mistero abbia una qualche talpa nell’organizzazione! Se Silvestri, ammesso e non concesso che non sia lui a darle informazioni, sposta la collana, potrebbe benissimo rubarla mentre la stanno spostando da una location all’altra!”

“Però… sarebbe più semplice anche per noi, no?” Kasumi provò a spiegargli. L’idea di fallire un colpo – ancora prima di averlo messo in atto – non le piaceva per nulla, ma quello era davvero impossibile, anche per lei. “Assaltare un blindato con i giusti agganci non è cosa complicata. Falcon potrebbe occuparsi di un assalto frontale, fermando con un colpo di bazooka il veicolo, mentre noi tre assalteremmo il blindato…”

“No, troppo rischioso, quella donna potrebbe anticiparci, o peggio, potremmo trovarcela tra i piedi, e questa tizia mi sembra abbastanza spietata da non farsi troppi problemi ad ammazzare la gente…” Ryo sghignazzò. “E comunque, chi lo ha detto che non possiamo entrare nel caveau dalla porta principale?”

Da qualche parte…

Aveva guidato per ore, mentre loro erano stati nel retro del van oscurato, occhi bendati per non vedere, tappi alle orecchie per non sentire rumori che avrebbero potuto rendere il tragitto distinguibile; Cameron era quasi certo che avesse anche girato in tondo, per confondere loro ancora di più le idee. Jonathan era stato soggetto allo stesso trattamento – segno che lei iniziava a vederlo alla stregua del gemello, qualcuno da temere, di cui non fidarsi. E se lei avesse smesso di fidarsi di lui, lui avrebbe smesso di credere in lei.

Cameron, mani nelle tasche die pantaloni di velluto, prese a girare per il salotto dell’elegante villa, guardando fuori dalle finestre alla ricerca di un qualcosa che potesse indicargli la loro posizione, ma era inutile: la casa era circondata da una fitta vegetazione, rendendo impossibile trovare punti di riferimento precisi, e le porte erano chiuse a chiave. Avrebbe potuto scappare? Sì, ma poi? Sarebbe riuscito a trovare una via di fuga, o avrebbe finito per incappare in guai ancora più grossi? Seguire Jonathan era stata una mossa azzardata, ma gli era parsa la più intelligente – peccato che nella fretta, nella frenesia di riallacciare i rapporti col gemello non avesse considerato che avrebbe finito con l’essere solo. 

Senza appoggi. 

Senza rinforzi. 

“Non puoi prenderti un libro e sederti? Mi fai venire il mal di testa!” Stravaccato sul divano dallo stile ottocentesco, i piedi sul tavolino da caffè, Jonathan, vestito con una maglietta bianca ed i jeans, capelli spettinati come un novello James Dean, sbuffò mentre faceva pigramente passare le pagine di una rivista scandalistica Giapponese – o almeno, immaginava che lo fosse, date le fotografie, dato che in quella lingua conosceva forse quattro parole in croce. 

“Andiamocene!” Cameron lo incitò, avvicinandosi al fratello, palando a bassa voce quasi temesse di essere udito da qualcuno, o credesse di poter usare quel tono come scusante. Se fosse sembrato insicuro o spaventato, il fratello lo avrebbe preso meno sul serio?

“Johnny, hai visto cosa ha fatto a quegli uomini. Davvero credi che una volta che avremo smesso di servirle ci lascerà andare?” Cameron lo pregò. Si fissarono negli occhi, che chiunque avrebbe definito identici, se non per cosa era riflesso in essi: paura per Cameron, rabbia e frustrazione e rancore per Jonathan. 

Jonathan non gli rispose. Richiuse la rivista e la gettò con noncuranza sul tavolino, mancandolo, e la carta patinata finì sul tappeto persiano. Non disse una sola parola, ma mantenne il contatto visivo col gemello, senza nemmeno battere le ciglia una sola volta, quasi la loro fosse stata una gara a chi avrebbe ceduto per primo. 

E Jonathan sapeva chi lo avrebbe fatto: Cameron. Era sempre stato il più debole, il più fragile. Quello che i bulli prendevano di mira. Quello che, spaventato dalle ire del padre, finiva pe assecondarlo in qualsiasi cosa, rimanendo in silenzio e chinando il capo davanti ai soprusi del genitore. Jonathan era stato il custode di suo fratello, lo aveva protetto, supportato, aveva vissuto nella sua ombra, ed ora lei gli aveva fatto dire basta.

Pregare per le proprie vite non sarebbe servito a nulla. Non con come stavano le cose in quel preciso istante, ma forse c’era ancora una speranza, una possibilità. Jonathan aveva sempre avuto tanti difetti quanti pregi, ma non era mai stato crudele per il semplice gusto di esserlo.

Forse, se qualcun altro fosse stato in pericolo… allora… Cameron poteva davvero sperarci?

Non ne era certo, ma decise comunque di provarci, e sospirò, con un nodo in gola, il cuore che gli batteva a ritmo folle nel petto, quel nome che da ormai tanto tempo accendeva fantasie di ogni tipo nella sua mente, casti ed innocenti sogni di un domani con una famiglia, oppure folli desideri di brucianti notti passionali.

“Kay.” Bisbigliò il nome a bassa voce, gli occhi chiusi, quasi dirlo gli procurasse un dolore tanto al corpo quanto all’animo, sentendo di averla tradita quando si era unito, senza dirle spiegazioni, sparendo, a Jonathan. “La ucciderà. Lo sai anche tu.”

“Magari allora avresti fatto meglio a lasciare la fidanzatina fuori da questa faccenda.” Jonathan lo ammonì, in tono piuttosto cinico e freddo. Prese dalla tasca dei jeans un pacchetto di sigarette, e ne accese una, sputando il fumo in faccia al fratello. “Anche se mi chiedo  perché abbia deciso di venirti dietro dopo quello che il suo caro, dolce Cameron le ha detto…”

 Terminò la frase, colma di scherno, ridacchiando, ed intanto spense nel posacenere di cristallo la sigaretta. 

“Di cosa stai palando?” Cameron gli domandò, la voce tremula. Quasi temendo la risposta del fratello, fece un passo indietro, mentre il suo corpo, in preda all’angoscia, si irrigidiva. “Cosa hai fatto, Johnny?”

Jonathan spalancò le braccia, appoggiandole allo schienale del divano, e continuò a fissare Cameron, guadandolo quasi fosse una creatura sconosciuta- o peggio, che gli causava disgusto.

“Presente quando ho preso il tuo posto mentre tu ti facevi un pisolino?” Cameron strinse i denti, furente, alla menzione dell’episodio: era andato a trovare il fratello in carcere nella speranza di convincerlo a dargli ancora un po’ di tempo per tirarlo fuori dai guai, e la risposata di Jonathan era stato un destro ben piazzato che aveva steso Cameron, che si era svegliato due ore dopo nell’infermeria della prigione con addosso la divisa del carcere e tutti che lo credevano Jonathan. Per togliersi dai guai aveva dovuto chiamare un avvocato, perché, e adesso cominciava a capirne il motivo, Kay non aveva accettato la telefonata.

“Cosa hai fatto, Jonathan?” Cameron ripeté, scandendo le parole – stavolta usando il nome del fratello per intero. Non a caso: il solco che li divideva diventava sempre più profondo. 

Che si fosse sbagliato? Johnny era dunque davvero perduto?

“Mettiti comodo che te lo racconto, fratellino…”

“Te ne vai?” Jonathan si voltò non appena sentì la voce di Kay provenire dall’ingresso della casa che era passata di padre in figlio, di generazione in generazione, dal loro bisnonno fino a loro. Il giovane prese un profondo respiro, mordendosi il labbro mentre si apprestava ad andare in scena, consapevole che se non avesse fatto più che attenzione Kay avrebbe capito di avere davanti il gemello sbagliato.

“Beh, rammenti che avete lasciato andare la nostra donna del mistero?” Senza guardarla negli occhi, raccolse da terra la sua sacca. Addosso aveva i vestiti del fratello, ma lì aveva messo cose che sentiva più sue, molto più casual ed informali di ciò a cui Cameron era abituato e che amava indossare.

Le dava la schiena: meno si guardavano, meglio era. Meno  scrutava i suoi occhi, più facile sarebbe stato vendere l’inganno.

“Quella donna è sotto protezione. Ed intanto potremo cercare un’altra strada…” Lei lo supplicò, con voce flebile; tuttavia, il tono sembrava suggerire che nemmeno lei stessa credesse alle sue stesse parole. 

Johnny ebbe un sussulto al cuore, provando infinita pena per lei - anche Kay si sentiva tradita dalla stessa istituzione a cui aveva deciso di dedicare tutta la sua stessa vita – ma la pietà ebbe vita breve, e immediatamente il suo cuore tornò ad indurirsi: lo spettacolo doveva continuare come aveva  pianificato. 

“Oh, per favore.” Ridacchiò, aprendo le braccia in modo drammatica, mentre la sua voce conteneva una nota di disgusto. “Davvero credi che non vi scapperà?”

“Ehy, guarda che io non ho rinunciato ad aiutarvi!” Si avvicinò all’amico, collega, e le afferrò per la spalla, forzandolo a voltarsi ed a guardarla negli occhi. 

“Puoi pure smetterla con la tua sceneggiata, Kay, tanto io ho smesso di credere a te ed in te, e dato che nemmeno più mio fratello mi vuole vedere…” Lei era impaurita e disperata – emozioni che Jonathan conosceva fin troppo bene – ma lui si fece forza ancora una volta. Si morse il labbro, ed ingoiò a vuoto, mentre le si avvicinava così tanto che Kay poté avvertire il suo respiro sulla pelle. “Io faccio le valigie e cambio aria.”

Il giovane fece un passo indietro e le voltò le spalle. Riprese in mano il borsone che aveva lasciato scivolare a terra e si incamminò verso l’ingresso della casa, mentre lei guardava la sua schiena divenire sempre più piccola e lontana. 

Poi, quando lui era ormai giù, al fondo della rampa di scale, lo raggiunse. E lo chiamò: con tutte la disperazione che aveva in corpo.

 “Cameron, aspetta… guardami in faccia!” Lo pregò, tra le lacrime. “Se pensi di dovertene andare, lo capisco. E se hai un modo per aiutare Jonathan di cui non mi puoi parlare, capisco anche questo. Perché se potessi tornare indietro e salvare mia sorella, farei qualsiasi cosa. Ogni cosa. Perciò non ti fermerò. Non sarò quella persona. Se lo facessi sarei soltanto l’agente dell’FBI con cui lavori, e io… io non voglio essere solo questo.”

Jonathan prese un profondo respiro: quella donna stava testando tutte le sue migliori capacità recitative, e si dimostrava molto diversa da cosa aveva sempre creduto. Scosse il capo, e si voltò verso di lei, un’ultima volta. Senza dire nulla.

“Voglio solo sapere che ti rivedrò ancora.” Lei sussurrò, dopo averlo raggiunto e aver poggiato la mano sulla guancia di lui. Jonathan godette di quel tocco, ma poi strinse il pugno, intorno alla maniglia del borsone: quel tocco non era per lui, ma per Cameron.

Come ogni altra cosa: lui aveva sempre e solo avuto le briciole.

“Spiacente tesoro, ma ho chiuso con le promesse…. Soprattutto a te!”

Le sue parole, acide e velenose, furono come una pugnalata in pieno petto, e Kay sentì le forze venirle meno. Cadde sulle ginocchia, mentre perfino al forza di piangere le veniva a mancare.*

“Il fatto che l’ultima volta che vi eravate visti tu l’avessi scansata a malo modo mi ha aiutato a vendere il fatto che a me, di lei, non importasse nulla.” Jonathan fece schioccare le dita, quasi quel suo comportamento fosse stato un colpo di genio, e intanto Cameron sentiva montare la rabbia – non per ciò che Jonathan aveva fatto a lui, ma per come si era comportato con Kay. Cosa le aveva fatto credere. “Aggiungi la sparizione del diario e della mappa del bisnonno Alistair dal magazzino prove dell’FBI, e farle credere che io fossi te è stato come rubare caramelle ad un bambino. E anche quando tu sei stato scarcerato… ormai lei in testa aveva quell’idea fissa, di non potersi più fidare di te.”

Cameron si allontanò; stringendosi a sé, si appoggiò contro il camino, dove un fuocherello scoppiettava allegro, trasmettendo pace – il contrario di come Cameron si sentiva in quel momento. 

Jonathan lo raggiunse, e gli pose una mano sulla spalla, stringendola. La mascella serrata, Cameron alzò il capo verso il fratello.

“Fratellino, è andata meglio così.” Jonathan lo ammonì. “Non ci servono gli sbirri per complicarci la vita, no?”

“Ha tentato di ucciderla, Johnny. Quella donna voleva uccidere Kay, e se non fosse stato per City Hunter….”

“City Hunter è solo una leggenda metropolitana, come l’uomo nero!” Jonathan scoppiò in una fragorosa risata. “Se Kay se ne starà buona, non le capiterà nulla. Deve solo fare le valigie.”

“Già, ma la sai una cosa? Kay non si fermerà, non finché non mi avrà riportato a casa, e non avrà ripulito la tua fedina penale!” 

“E allora? Io cosa dovrei farci?” Jonathan scrollò le spalle, e fu allora che a Cameron ritornò in mente cosa il fratello gli avesse detto mentre lo stendeva in galera. 

Non è che non voglio fuggire, è che non voglio farlo con te. 

Aveva pensato che lo avesse detto perché non voleva metterlo in pericolo, ma si sbagliava: a Johnny, della sua famiglia, non importava più nulla. 

Lei aveva vinto, alla fine: lo aveva reso uguale a lei. 

Cameron alzò lo sguardo verso la mensola di legno grezzo sopra al camino, e lo vide, luccicare alla luce del lampadario.

“Mi spiace, Johnny.” Sussurrò, scuotendo il capo. “Mi spiace davvero.”

Jonathan strinse gli occhi, quasi non capisse di cosa stesse parlando Cameron, e poi…poi fu risucchiato dal buio, mentre una sola goccia di sangue gli usciva da una piccola ferita al capo.  Cameron lasciò cadere con un tonfo il pesante candelabro di ottone, poi si chinò: il cuore batteva, e respirava – aveva solo perso i sensi. Prese a cercare nelle tasche del fratello fino a che non trovò le chiavi, e poi spalancò la porta, trovandosi in un enorme parco. Corse a perdifiato, mentre sentiva in lontananza il latrato di cani da guardia. 

Corse, cadendo più volte, rovinando a terra, nel freddo terreno melmoso, le unghie che si rompevano mentre cercava di salire sugli alberi per capire dove fosse, cercare aiuto, una via di fuga. 

Alle sue spalle, gli ululati si facevano sempre più vicini, ma a Cameron non importava: voleva solo raggiungerla. Voleva solo salvarla. Solo Kay era importante. Se l’avesse potuta salvare… allora, avrebbe accettato anche di morire, per lei.

Si lasciò scivolare già dall’albero su cui era salito per cercare di capire dove potesse essere, coi polmoni che bruciavano per il freddo, ormai senza più sentire le gambe e le mani, sentendo sempre di più la stanchezza.  Ma non voleva cedere, Non poteva farlo. 

Solo un attimo, si disse, mentre si appoggiava contro un tronco e chiudeva gli occhi. Solo un minuto.

Uno sparo riecheggiò all’imbrunire, mentre il vento sibilava ed i cani si acquietarono. 

*Questa scena riprende quasi del tutto fedelmente l’ultima del finale di serie della serie Deception.

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Capitolo 5
*** La grande rapina ***


Non era a suo agio con i capelli lunghi, sebbene quel colore fosse così simile al suo castano ramato naturale, ed anche il vestito ed i tacchi alti la facevano sentire impacciata. Nonostante camminasse dritta e sicura lungo i corridoi che portavano al caveau di Bulgari, Kaori si sentiva come un cerbiatto che camminava sulle proprie zampe per la prima volta.

Ed il trucco non aiutava di certo. Era quasi come se avesse una maschera sul viso, tale era lo strato di cerone che le era stato messo sul viso, per gentile concessione di Jane che, a quanto sembrava, era anche un maestro del trasformismo. 

Socchiuse gli occhi e cercò di evitare di sospirare, onde evitare di attirare inulti attenzioni, e riportò alla mente le istruzioni del mentalista per controllare il suo bioritmo – cuore, respiro, sudorazione – sperando che nulla la tradisse: finire in carcere era l’ultima cosa che voleva, specie adesso, con tutto quello che era successo e che sarebbe successo presto. 

Gettò una rapida occhiata all’orologio che portava al polso, sottile ed elegante, raffinato, e sistemò dietro all’orecchio una ciocca della parrucca che Eriko le aveva prestato – su gentile ordine di Ryo – ed era la stessa che Kaori aveva indossato anni prima quando si era trasformata per una notte nella moderna Cenerentola di Tokyo. 

“Ti stanno davvero bene I capelli lunghi! Che dici, ti è venuta voglia di farteli crescere?”

Nonostante i complimenti dell’amica, e gli sguardi ammirati di tanti uomini, Kaori faceva fatica a sentire sua quella nuova pelle. Osservò il suo riflesso nella vetrina di un negozio, quasi tentata di allungare la mano e sfiorare la superficie di vetro, chiedendosi se fosse davvero lei, quella donna. 

“Non so, così, con la parrucca…. Non credi che sembri un travestito? E poi, non lo so… non penso che con il mio lavoro sarei comoda…”

Kaori aveva vissuto per anni col sospetto che lui lo avesse saputo fin dal principio, e adesso, che ne aveva la certezza, era quasi grata che lui quella notte non l’avesse baciata, lasciando quel soffice tocco delle labbra per quando lei fosse stata Kaori, ed il loro rapporto vero, e non una finzione nella vana speranza di togliersi uno sfizio.

Falcon quella volta aveva avuto ragione: ma non per il motivo giusto. Era stato un cuore, che non sapeva come amare e che aveva paura di farlo, a spingerlo a mentire, non il mero desiderio carnale di portarsela a letto senza che ci fossero troppe conseguenze. 

Si raddrizzò ulteriormente, e si diede una scrollata: doveva essere decisa, sicura di sé. Entrare in quel corridoio era facile, sarebbe stato altrettanto relativamente facile anche passare il primo controllo, ma il bello sarebbe arrivato quando fosse giunta al secondo e terzo step. 

Ce l’avrebbe fatta? Forse sì, forse no: ma la questione era che la cosa non dipendeva solo da lei, per farla arrivare lì sarebbe servito il miglior lavoro di squadra possibile, con un po’ di faccia tosta ed una buona dose di fortuna, perché se avessero sbagliato anche solo di una frazione di attimo, i servizi di sicurezza sarebbero arrivati lì sul posto. 

Ryo e Jane avevano avuto ragione: avere un primo accesso al caveau era stato più semplice del previsto. Una chiacchierata con un paio di informatori, qualche sakè con uno dei dipendenti della gioielleria che Ryo aveva scoperto amare gli stessi localini equivoci che un tempo aveva frequentato pure lui, e le loro teorie erano state provate corrette. 

Sì: nelle cassette di sicurezza del Caveau non c’erano solo i gioielli della maison, ma anche gli averi personali dei loro clienti più fedeli, più alcuni soggetti particolarmente abbienti che con un piccolo assegno mensile avevano la possibilità di sapere al sicuro i loro averi, all’interno di una cassaforte locata in un ex bunker militare venduto al migliore offerente durante gli anni della Guerra Fredda.

Kaori continuò a camminare, cercando di mascherare la sua ansia, nonostante quell’ambiente non sembrasse fatto per quello scopo; asettico, era un’unica superfici bianca accecante, contro cui si riflettevano le luci che erano incassate nel soffitto; nonostante quel corridoio apparisse chilometrico, era quasi claustrofobico, come essere chiusi all’interno di una piccola scatola, senza via di uscita. 

La donna svoltò, e li vide, lì: il primo controllo. 

Una porta di acciaio, con uno spioncino di metallo con tanto di grata, come nelle prigioni; una guardia armata ad un lato della porta, e dall’altra, seduto ad un tavolino di metallo imbullonato al pavimento, un ometto in camicie bianco, con un computer portatile che sembrava d’avanguardia.

Seguendo le istruzioni che le erano state date, Kaori sporse il documento di identità all’uomo in camicie.  

“Signorina… Sayuri Tachici… mi faccia controllare un attimo…” 

“Eh? Vuoi che mi finga mia sorella? Ma perché?” Kaori gli domandò, mentre stavano discutendo il piano. 

“Perché è molto più semplice e veloce ottenere documenti di una persona reale, che falsificarli.” Ryo le spiegò, con un sorriso malandrino sulle labbra. “E con i capelli lunghi, sei identica a lei. Saeko falsificherà una denuncia per furto a nome di Sayuri, uno scippo, in cui lei ha purtroppo perduto tutti i documenti, ed in questo modo ne otterrai di nuovi… dovrai solo presentarti con la denuncia ed un autocertificazione ed il gioco sarà fatto. Ben trovassero delle foto in rete, con la qualità delle immagini che si trova in giro, vedranno la somiglianza. Peggiore dei casi penseranno che ti sei fatta qualche ritocchino e che il tuo chirurgo è un genio!”

Ryo ridacchiò mentre finiva la frase, mentre invece Kaori gli lanciò un’occhiata assassina. ”E sentiamo, perché Saeko dovrebbe aiutarci?”

“Ma perché ci deve tanti, tanti favori, e ormai sono finiti i tempi in cui io potevo pretendere pagamenti in natura… lo sai che quelli li accetto solo da te!”

Le fece l’occhiolino, e Kaori abbassò gli occhi, arrossendo timida…

L’uomo  si abbassò gli occhiali sulla punta del naso, guardò la foto, guardò la donna che aveva davanti, e poi si mise a smanettare al pc, battendo rapido i tasti, mentre Kaori sorrideva, tirata, ed intanto teneva le dita incrociate dietro la schiena, augurandosi buona fortuna, e che non si rendesse conto che quel nome era stato aggiunto al registro clienti solamente di recente – quando cioè il Professore, genio informatico nonostante la sua veneranda età, era entrato nel computer del povero Luca, utilizzando un particolarmente subdolo cavallo di Troia inserito in una mail da parte di Kaori, che quello, come Ryo lo aveva definito, non aveva potuto fare a meno di leggere.

“Sì, coincide, casetta B34F…” Lui le restituì i documenti, adocchiando con perverso interesse le forme della donna, che arrossì, non per timidezza ma per rabbia a quelle attenzioni al limite del perverso. “Il motivo della sua visita?”

“Intendo depositare nella cassetta con gli altri miei averi questo mio anello,” Si morse la guancia mentre mentiva, chiedendosi a chi fosse appartenuta quella cassetta e cosa ci potesse essere dentro, ed intanto giocherellava con il semplice anello che aveva scoperto essere appartenuto alla sua madre biologica, facendolo girare intorno all’anulare destro – ed intanto, sorrise, ricordando quando Ryo glielo aveva tolto da quello stesso dito, tanto tempo prima, quando erano stati pronti ad andare ad affrontare Kaibara…

“L’anello che ti ha regalato Makimura….sciocca, cosa volevi fare, portarlo con te? Cos’è, mica penserai di non poterlo mettere più! Se lo tieni sembra quasi che stiamo andando a morire!” Le sfilò, con delicata decisione, l’anello dal dito, e poi lo posò sul comodino, e la guardò negli occhi, la bocca socchiusa quasi stesse cercando le parole da dirle. “Te lo rimetterai quando torneremo a casa, Kaori…”

Flebile, le uscì dalle labbra un “Sì”, e Kaori ebbe la netta impressione che stesse accettando ben più di un vecchio anellino di poco valore, ma bensì, un futuro insieme, e la promessa di non lasciarsi, mai. 

“Sa, non ha molto valore, è un semplice rubino con un po’ d’oro, ma è un ricordo di famiglia, ed in questo momento mia sorella ed io ce lo stiamo contendendo… voglio essere certa che lei non possa entrare in possesso senza che io lo sappia, e so che di voi ci si può fidare ciecamente!”

L’uomo la guardò, viscido, ed intanto fece un cenno alla guardia, con un cipiglio che voleva far credere che avesse molto più potere ed importanza, all’interno dell’organizzazione, di quanto non fosse effettivamente vero. 

Con un sinistro cigolio, dopo due mandate, la porta si aprì, e Kaori trattenne un sospiro di sollievo mentre prese a percorrere l’ennesimo corridoio claustrofobico. Avanti. Girare. Avanti. Girare… sembrava quasi di trovarsi all’interno di un labirinto, e se ci fossero state deviazioni, Kaori era certa che si sarebbe persa. O chissà: forse era tutto studiato ad arte, per accrescere l’ansia di chi entrava all’interno della struttura che correva sotto Tokyo, senza che nessuno ne avesse la più pallida idea.

Arrivò all’ennesima porta chiusa. All’ennesima guardia. Uguale alla postazione precedente, ma qui vi era una donna, vestita in modo austero, con i capelli color topo legati in uno stretto chignon, ed era in piedi anche lei, come la guardia di sicurezza. Ai piedi, Kaori notò quasi casualmente, la donna indossava robuste ciabatte bianche, dello stesso tipo di quelle spesso utilizzate dal personale infermieristico.

La donna squadrò Kaori, senza dire una parola, con la bocca tirata in un ghigno colmo di giudizio – forse trovava i tacchi troppo alti, la gonna troppo corta, la scollatura troppo profonda, chissà – e allungò la mano. Kaori diede anche a lei il documento di identità, la donna lo controllò, la squadrò di nuovo con lo stesso sguardo della governate di Heidi (a cui assomigliava pure un po’, ora che ci pensava) e senza parlare indicò lo scanner accanto alla porta. 

Mentre appoggiava il palmo e posava l’occhio sulla piccola fotocellula, all’altezza del viso, Kaori trattenne il fiato. In teoria tutto sarebbe dovuto andare per il meglio… ma ce l’avevano davvero fatta? Lui aveva davvero fatto in tempo ad entrare nella server farm ed inserire i dati senza che nessuno se ne accorgesse? 

“In realtà, se si sa con cosa si ha a che fare non è poi così complicato…” Il professore spiegò, seduto dietro alla sua scrivania, nello studio nella sua villa. 

“E scommetto, vecchio volpone, che lei sa esattamente con cosa abbiamo a che fare….” Jane aggiunse, sorseggiando un sorso di The. L’aveva fatto Kazue (ai Giapponesi dovevano piacere davvero tanto i nomi femminili che iniziavano con la K) e non era dei migliori: non solo aveva usato una bustina, ma per giunta questa si era rotta ed adesso lui aveva dei pezzi di foglie tra i denti. 

“Beh, Jane, scansionare una mano, una retina, anche il modo di camminare di una persona ed inserirli in un file non è poi così complicato, se si conosce l’algoritmo preciso… e sì, io lo conosco.” L’uomo ammise, con falsa modestia. “Il problema potrebbe essere inserire all’interno del registro questo file, cosa che può essere fatta solo all’interno della server farm.”

“Scommetto che però lei sa come entrarci….”  Ryo sogghignò, cosa che fece pure il suo padre putativo. 

“Ryo, c’è un solo modo per entrarci: legalmente. Se forzaste quelle porte, tutti i sistemi ad esse collegate andrebbero in blocco. Incluso il caveau che vi interessa.” L’uomo alzò il sopracciglio. “Però, sapete, le server farm mettono i propri spazi a servizio di molti, servizi segreti inclusi. E se ci fosse qualcuno che vi dovesse un favore, che avesse fatto carriera grazie a voi… che magari col tempo ha più volte usufruito gratuitamente dei vostri servizi per cose non propriamente legali, ecco, probabilmente quell’uomo sarebbe molto propenso ad aiutarvi. Non lo credi anche tu, Baby Face?”

“L’ispettrice Nogami è entrata nei servizi segreti?” Jane domandò. 

“No, ma la nostra cara e bella ispettrice per anni ha fatto in modo che anche l’agente dei servizi segreti Makoto Shimoyamada usufruisse del nostro…ehm…” Ryo si grattò la testa, ridacchiando. “Ehm.. lo vogliamo chiamare expertise?” 

Jane praticamente si mise a brillare di gioia ed entusiasmo. 

“Oh, adoro ricattare i federali… specie se sono del tipo che si sporca le mani per un bene superiore…”

“Già, e quando se la prendono e si incazzano perché pensavano che, sotto sotto, tu fossi una persona decente, onesta, ed invece no, ih, ih, ih….” 

“Vedi, per questo andiamo d’accordo! Siamo praticamente identici!” Jane posò la tazza, ancora piena, sul piattino, e diede una pacca sulla schiena dell’amico. “Certo, io sono più elegante, più raffinato, e anche più colto, ma sì, in questi piccoli dettagli, siamo proprio uguali!”

“Uhm, sai, sento puzza di insulto!” Ryo sbuffò, incrociando le braccia. 

Una luce verde, una seconda. La porta si aprì con un sibilo, uno sbuffo d‘aria, quasi fosse stata sotto pressione, e la donna, sebbene apparisse riluttante all’idea di farlo, lasciò passare Kaori. 

Altro corridoio bianco: stavolta, si trattava solo di pochi metri, ma ad ogni passo che Kaori faceva raggi rossi che partivano dal muro la colpivano, scansionando il suo intero essere, analizzando ogni suo minimo movimento, ogni fluttuazione dei muscoli del corpo, le sue micro-espressioni… tutto. Non sapeva se fosse una mera impressione, ma le pareva quasi che tutto il corpo le solleticasse, ed avesse la pelle d’oca dove veniva colpita dalle fotocellule che la scansionavano.

Realtà, immaginazione, autosuggestione? Chissà. Non voleva pensarci troppo, perché avrebbe significato rischiare di dare a vedere delle debolezze che il sistema avrebbe potuto rilevare ed usare contro di lei. Il fatto di aver comunque passato il primo scanner biometrico senza problemi però la rilassava un poco: quindi, i suoi dati erano stati sovrascritti a quelli del vero proprietario della cassetta di sicurezza B34F – poveretto, avrebbe avuto una bella sorpresa quando fosse andato a controllarla, quasi le faceva pena…

Kaori riprese il controllo del respiro e continuò la sua marcia verso l’ultima porta: la luce sarebbe stata verde anche questa volta. Ne era certa. Doveva essere così. 

Vi arrivò davanti: stavolta, nessuno scienziato in camice, o altre stranezze, ma due guardie armate, ai due lati della porta. Senza mostrare segni del cedimento che invece sentiva dentro, Kaori si fermò davanti alla struttura, rimanendo immobile, ed apparentemente impassibile.

La luce accanto alla porta lampeggiava, di un alone bianco-giallastro, quasi fosse stata una vecchia lampadina sul punto di smettere di funzionare – ma non cambiava colore. 

I secondi, scanditi dal ticchettio del fine orologio che portava al polso, venivano scanditi dalle lancette in modo ineluttabile… eppure, era come se il tempo stesso si prolungasse, quasi all’infinito, mentre ogni battuto del suo cuore era un passo delle lancette.

Rubò una rapida occhiata guardinga ad una delle guardie, anch’essa impensierita, o forse irritata, da quella estenuante lentezza: la mano, distesa lungo il corpo, si muoveva in modo quasi impercettibile, come se prudesse, o agognasse qualcosa – o si stesse preparando ad afferrare il teaser e stenderla. 

La mano si mosse, mentre Kaori ingioiava a vuoto, scorreva lungo la gamba, su verso il fianco dove era legata la fondina, e la donna si preparò all’inevitabile, ad essere colpita dalla scarica, stesa…

Si morse la guancia, e si preparò a fare un passo indietro, nel vano tentativo di mettere un po’ di distanza tra lei e l’altro, quasi questo avesse potuto alleggerire il dolore che avrebbe provato. L’uomo aveva sul viso un sorriso cinico e malato, al limite del sadico, la sua mano stava già stringendo l’impugnatura del teaser ed era pronto a colpire…

Ding!

Con un leggerissimo scampanellio, la luce passò dal suo alone giallognolo ad un verde quasi accecante, e Kaori sorrise soddisfatta, camminando dritta e fiera, petto in fuori, mentre oltrepassava la porta che scattava, aprendosi per farla passare; si fermò giusto un attimo per guardare la guardia, che digrignava i denti, quasi delusa, fissandolo quasi fosse stato uno scarafaggio da calpestare, un rifiuto della società – e di quelli veri, non certo le persone che, nella povertà più estrema, popolavano i quartieri di Shinjuku, mantenendo tuttavia vivi il loro orgoglio e la loro dignità – e spesso e volentieri, il loro buon cuore. 

Entrò nella grande stanza, in cui le cassette erano incassate nella pietra in cui l’intera struttura era stata scavata, nella speranza (vana) di renderla più sicura, e una volta che la porta le si fu chiusa alle spalle, e lei rimase sola, Kaori si diresse verso dove Kasumi le aveva indicato essere la cassetta di sicurezza che il caso le aveva affidato. Digitò sul piccolo tastierino il codice che il Professore era riuscito a craccare dal computer di Luca, ed una volta che lo sportellino si aprì, estrasse il vassoio metallico, posandolo sullo sterile tavolo di metallo grigio che occupava quasi tutto il pavimento. 

Mentre guardava il contenuto di quella cassetta – astucci di velluto nero, verde e azzurro, con i loghi di celeberrimi marchi conosciuti da chiunque, documenti, mazzette di denaro – Kaori prese a giocherellare con il suo anellino, e lo sfilò, mettendolo sopra al vassoio, in mezzo a tutto il resto, sospirando – tutta una finta. 

“Capisco entrare nel caveau, ma poi comunque come faccio a prendere la collana, scusa?” Kaori domandò, scettica. 

“In realtà questa sarà la parte più semplice!” Kasumi ridacchiò. “Quei citrulli sono così certi che nessuno possa fargliela sotto al naso, che il sistema di telecamere si hackera in un attimo, basta collegarsi alla giusta scatola. Si manda in loop l’immagine di te che rifletti mentre guardi triste cosa c’è dentro la cassetta che hai aperto, ed intanto ti cronometri mentre apri l’altra e prendi la collana. Quando la registrazione ripartirà, vedranno dalla sala controllo solo uno sfarfallio, e penseranno ad un calo di tensione, o ad un’interferenza.”

“E se dovessero avere dei dubbi, loro avranno comunque i documenti di Sayuri in memoria, che sono veri, quindi è lei che cercheranno….” Ryo continuò, estremamente fiero del suo piano.

“E dato che mia sorella è dall’altra parte del mondo il suo alibi sarà a prova di bomba!” Kaori sentenziò. Poi però le venne in mente una cosa. “Però… come facciamo con le impronte digitali? Quelle sono mie, non vorrei che le collegassero a qualche caso di City Hunter.”

“Per questo, mia cara dolce Kaori, ci penso io…” Il professore sogghignò, sistemandosi gli occhialini mentre con una mano cercava di assaggiare le succulenti carne della donna, fermato solo dallo sguardo assassino del compagno di lei. “Eh, eh, eh…non lo sai? Io ero un grande fan di Missione Impossibile… ma la serie classica, sai, degli anni sessanta!”

Kaori sentì un piccolo allarme, un ping leggerissimo, e la luce posta sotto alla telecamera passò dal verde al rosso, e fece scattare il cronografo del suo orologio. Sorridendo compiaciuta, riprese l’anello e lo mise in tasca, e  poi si diresse verso un’altra cassetta di sicurezza, quella assegnata a parte dei gioielli della mostra, ed a Serpenti in particolare. La aprì, sistemandola accanto a quella che aveva preso in precedenza, e ne estrasse il contenuto. 

Sfilò dalla custodia di velluto il gioiello, e lo sollevò, osservandolo ammaliata: era di una bellezza rara ed accecante, ammaliante quasi, come i veri serpenti delle storie dei paesi arabi, o quelli dell’india, che danzavano sotto alla guida di mistiche musiche, incantando gli avventori di sperduti villaggi.

Sistemò la collana in un taschino schermato nascosto all’interno della giacca che indossava quel giorno, un elegante spolverino impermeabile color grigio perla, e guardò il tempo passato.

Mancava poco allo scadere del limite che Kasumi le aveva dato. 

Riprese la cassetta di Bulgari e la sistemò dentro la cassaforte, richiudendola, poi tornò al tavolo, cercando di rimettersi nella stessa posizione in cui era stata quando la luce aveva cambiato colore; l’orologio fece un tic, e la sweeper seppe di aver fatto giusto in tempo. 

Fece finta di asciugarsi con il dorso della mano delle lacrime che non c’erano, e sistemò la cassetta come l’aveva trovata, poi, con sguardo scuro ed occhi bassi, uscì, inchinandosi leggermente ogni qual volta incontrava qualcuno lungo il suo passaggio.

Uscì dall’edificio, e percorse alcuni isolati, fino a che non raggiunse un parcheggio incustodito. Si incamminò lungo le file di veicoli, fino a che non vide quello che le interessava: in mezzo agli altri, a macchine nuove e vecchie, modelli classici o moderni, c’era la Mini di Ryo. La raggiunse, e salì in macchina, e prima ancora che lei potesse dire qualcosa, dopo che si erano scambiati solamente un sorriso complice, partì, pronto a tornare verso casa. 

Coi finestrini abbassati, Ryo percorreva le strade del suo quartiere con sicurezza innata, tranquillo, e intanto fumava una sigaretta. Kaori ad un certo punto si stiracchiò, quasi pigramente, e si massaggiò i muscoli indolenziti delle spalle, irrigiditi dalla tensione dell’incarico. 

Erano fermi ad un semaforo quando lui le tolse la parrucca e la gettò sui sedili posteriori, chinandosi verso di lei per lasciarle un bacio a fior di labbra che, nonostante i tanti mesi passati l’uno accanto all’altra, e le notti di fuoco, le fece battere il cuore e venire uno sfarfallio incontrollato nella bocca dello stomaco. 

“E… e questo per cos’è?” Gli domandò, rossa in viso. 

Ryo scrollò le spalle, e riprese a fumare la sua sigaretta mentre intanto il verde scattava, e loro riprendevano la loro marcia. 

“La mia dolce Kaori mi mancava tanto, tanto… con quella parrucca davvero mi sembrava di avere tua sorella in macchina, o quella sexy assassina di Sara!” Scherzò, facendole l’occhiolino. “Allora, lo hai preso?”

“Che razza di domande, ma per chi mi hai presa? A volte mi chiedo se davvero mi vedi come la metà di City Hunter!” Lei sbuffò, facendo fintamente l’offesa, mentre intanto disfaceva il nodo della cintura dello spolverino e dalla tasca estraeva il prezioso contenuto, facendolo dondolare davanti agli occhi estremamente fieri di Ryo. “Allora, sono o non sono stata brava, socio?”

“La migliore, Sugar!” Le rispose, mentre afferrava il gioiello, fischiando mentre lo faceva. Non faticava a credere, ora che lo vedeva dal vero, che quella rarità valesse un mucchio di soldi – quello che faticava a credere era che davvero quelle gemme potessero svelare l’enigma dietro alla fantomatica mappa di cui Jane e Kay avevano parlato loro. “E adesso mettiamolo al sicuro!”

“Sì, però a me dispiace per Luca…. Quando scoprirà che Serpenti non è più al suo posto, rischierà il posto!”  Ryo alzò gli occhi al cielo, sbuffando irritato dalla dolcezza che Kaori sembrava provare per questo flaccido tipo che, più passava il tempo, meno gli piaceva. Ingranò la marcia, accelerò, quasi sgommando, e prese una traversa laterale- rimanendo sì a Shinjuku, ma dirigendosi da tutt’altra parte: verso la casa del Professore. Kaori lo fissò stupita, le labbra socchiuse e sbattendo le palpebre. “Ma…ma Ryo, perché andiamo dal professore?”

“Perché Serpenti sarà più sicuro a casa sua, nella sua cassaforte… ma soprattutto perché vuole farci conoscere una persona!”

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Capitolo 6
*** Batticuore Notturno ***


“Allora, Ryo, me lo vuoi dire chi siamo venuti a trovare?” Kaori gli domandò, curiosa, mentre entravano nella parte della casa del professore che il vecchio utilizzava come clinica personale, riservata a quei figuri del sottomondo a cui loro stessi appartenevano che, quando feriti o malati, non volevano sentirsi fare troppe domande.

“Eh, in realtà, Sugar, non lo so nemmeno io….” Le rispose, criptico, con quel suo sorriso malandrino stampato sulle labbra, che tante, troppe volte aveva mandato in bestia la sua socia, che un tempo aveva letto quelle mezze risposte come un sinonimo di mancata fiducia. Ryo avvertì quella vecchia emozione bussare nuovamente all’animo della sua compagnia, e le sorrise, mentre stringeva le dita intorno a quelle di lei, desideroso di tranquillizzarla. “Tranquilla, Kaori, aspettiamo solo l’arrivo di Jane e Kay, e poi sono certo che il vecchio ci spiegherà tutto!”

Lei, rinfrancata, sentì un calore profondo irradiarsi in tutto il suo essere, che partiva dal punto in cui Ryo la stava toccando. Strinse le dita di lui, guardandolo negli occhi, e fece segno di sì, col capo, certa che la sua non fosse stata una presa in giro, o peggio, una dimostrazione di mancanza di fiducia. 

Fiducia, rifletté la donna, aprendo la bocca per parlare, ma prima che potesse dire una sola parola fu interrotta dall’arrivo di Jane e Kay dalla stessa porta da cui erano entrati loro, e dall’uscita da una delle stanze del professore, che sembrava gongolare dietro a quei suoi occhialini che gli ricadevano sul naso, una cartella clinica azzurrina sotto al braccio. 

“Oh, bene, vedo che ci siete tutti!” Il professore sorrise, mentre guardava bene l’agente Daniels, che con quegli stivaletti col tacco era ancora più sensuale di come potesse già probabilmente essere di suo. “Eh, Jane, certo che sei fortunato tu, figliolo, ti circondi sempre di belle figliole! Eh, eh, eh!”

“Sì, beh, non si faccia sentire a dirlo da mia moglie.” Il mentalista rispose sistemandosi il gilet grigio. “Allora, cosa ci facciamo qui? Lo sapete?”

“Il grande Patrick Jane che non sa qualcosa? E io che non ho registrato questa tua domanda!” Ryo ridacchiò. “Almeno lo potrò raccontare in giro!”

“Non ho detto che non lo so,” Jane petulò, le mani in tasca dei pantaloni eleganti. “Anzi, il fatto che il tuo professore abbia insistito per la specifica presenza di Kay qui mi da un’idea di cosa potremmo essere qui a fare. Solo, mi mancano alcuni tasselli del puzzle.”

“Sì, sì, certo, come no, tante parole per dire che non sai cosa sta succedendo!” Ryo sbuffò. “Ti rode così tanto ammettere che magari io potrei saperne più di te, eh?”

“Eh, eh, ragazzi, voi vi assomigliate davvero parecchio, sapete?” Il Professore disse loro, con tono malinconico. “Più di quanto voi stessi vogliate ammettere!”

Le voci dei due uomini si coprirono a vicenda, mentre andavano ambedue in escandescenza e rispondevano all’anziano, le parole che si intrecciavano, si aggrovigliavano in un miasma senza senso fonetico, ma il cui senso logico era ben facile da intuire: non volevano ammettere che ciò che il vecchio aveva detto – e che ben più di una persona che li aveva incontrati entrambi pensava- fosse vero. 

“LA VOLETE SMETTERE?!” Kaori li rimproverò, alzando la voce e stringendo i denti, mentre combatteva contro l’innato istinto di prendere a botte Ryo per farlo rinsavire, ma desiderosa di fare bella figura con Kay, che ancora non aveva visto il peggio di loro. Si schiarì la gola, e con le braccia incrociate, battendo il piede a terra, si voltò verso l’anziano. “Allora, si può sapere cosa sta succedendo?”

“In realtà, per saperlo con certezza, avrò bisogno dell’assistenza dell’agente Daniels…” rispose, per vie traverse, volgendo lo sguardo verso Kay; gli occhi erano gentili, carichi di affetto, e Kaori tirò un sospiro di sollievo che, per una volta, il vecchio mentore di Ryo stesse tenendo a bada gli ormoni. 

“Kay,” la donna tossicchiò, mentre si sistemava una ciocca dietro l’orecchio, tenendo gli occhi bassi e mordendosi le labbra. “Kay va bene.”

“Bene, come vuole, Kay, allora, seguitemi…” Con agognante lentezza, prese il pomello in mano, e lo girò, aprendo la porta che emise un flebile cigolio nel silenzio generale, quasi tutti quanti avvertissero la gravità di ciò che stava accadendo. Il professore entrò, seguito ad alcuni passi da Kay, mentre il resto del gruppo rimase nell’ingresso della stanza. La coppia si mosse verso un letto, posto nella penombra, in un angolo dello stanzone, e fu allora che lei lo vide.

Kay ingoiò a vuoto, mentre l’uomo nel letto si voltava verso di lei, e digrignando i denti per il dolore lancinante che sentiva pervadere il suo corpo, cercava di sedersi per vederla meglio. 

Kay percorse lentamente gli ultimi passi che la separavano da lui; con labbra tremanti, appoggiò le mani sulla pediera del letto, ed alzò lo sguardo, perdendosi in quelle pozze blu che la guardavano come se lei fosse la cosa più meravigliosa ed incredibile sull’intero pianeta… eppure, c’era anche altro, una piccola ombra, che macchiava la purezza che vi aveva sempre visto. 

“Cameron…” Sospirò il nome, la parola che le uscì dalle labbra come musica, senza alcuna incertezza, mentre gli occhi minacciavano di riempirsi di lacrime. 

Lui le sorrise, cercando di allungarsi verso di lei, prima di digrignare i denti in preda al dolore e ricadere pesantemente sul materasso. “Ah! Non sono nella mia forma ideale per salutarti a dovere, Kay…”

Lei scoppiò a ridere – nonostante sapesse che in tutta quella faccenda ci fosse ben poco da ridere – e scosse il capo, nascondendo le labbra dietro una mano.

“E com’è che siamo assolutamente certi che questo sia Cameron e non Jonathan? Quei due sono assolutamente identici!” Ryo le domandò, sollevando un sopracciglio, guadagnandosi una gomitata nel costato da parte di Kaori, che trovava l’intera faccenda molto romantica.

“Eh, vecchio mio, lo sai come si dice, no? Il cuore ha delle ragioni, che la ragione non conosce.” Jane sospirò, mentre guardava la coppia riunirsi dopo tante settimane  passate divisi, lontani; la sua voce era colma di malinconia, e rimpianto. “Amore, Ryo. Il fatto che nessuno dei due abbia ancora dato un nome a quel sentimento non lo rende meno vero. E credo che sia una cosa che capiamo bene entrambi. Anche noi eravamo così, dopotutto.”

Ryo non rispose: la sua bocca però si piegò in un leggero sorriso, mentre lanciava un’occhiata colma di significato alla sua Kaori.

“Jane!” Cameron esclamò, prima di lamentarsi per un altro dolore improvviso. “Allora era con te che Kay era venuta qui! Avrei dovuto capirlo!”

“Già, e visto quanto è simpatica l’amica tua e di Johnny, ho pensato bene di chiedere aiuto ad uno specialista..." Jane ” Ryo si avvinarono al letto, il primo con sguardo grave, il secondo senza mai far cadere la sua aria scanzonata. “Ryo, ti presento Cameron Black, ex illusionista ed ex consulente dell’FBI, Cameron, Ryo Saeba, lui è.”

“City Hunter.” Cameron si schiarì la voce, mentre si massaggiava una mano dolorante, che era fasciata da bende che si erano già macchiate di flebili macchie rosa; osservava Ryo con un mix di ammirazione e curiosità, lo stesso sguardo che aveva riservato a Jane quando si erano conosciuti anni prima, lavorando entrambi allo stesso caso, ognuno con i rispettivi agenti di riferimento dell’FBI- Jane con Lison, e lui con Kay. “Lei ha detto qualcosa sul fatto che Kay era sotto la sua protezione.” 

“Immagino che lei sia la donna del mistero….” Ryo fece schioccare la lingua mentre raggiungeva il letto di Cameron, e si appoggiava al muro, di fianco al capo del giovane uomo. “Dì un po’ maghetto da strapazzo, la tua amica ce l’ha un nome o no?”

“Beh, sono certo che ce l’abbia, e magari il mio caro fratellino lo conosce pure, ma io non sono stato ritenuto all’altezza di saperlo.” Cameron grugnì, mentre si massaggiava il braccio. Rimase in silenzio un attimo, poi, quasi avesse solo capito in quel momento cosa stesse accadendo, si schiarì la gola. “Ehm, potrei sapere dove sono esattamente al momento? Sono leggermente confuso su cosa è successo…. Ultimamente.”

Non aggiunse altro, perché non sapeva dov’era, ma nemmeno quanto tempo fosse passato. 

Sapeva solo una cosa: era sollevato che lei fosse lì, con lui – e che gli stesse sorridendo. 

“Qual è l’ultima cosa che ricordi?” Jane gli domandò, prendendo dalla tasca l’orologio che vi teneva dentro, ed iniziando a giocherellarci, aprendolo e chiudendolo, inconsciamente attirando l’attenzione di Cameron che fissava, come incantato, i gesti ritmati del mentalista.

“Non sono così facile da ipnotizzare, Jane…” Cameron gli disse, senza tuttavia smettere di fissare quell’aprire e chiudersi incessante. “Non so nemmeno come ci sono finito, qui…. o dove qui sia!”

jane e Ryo si voltarono verso il Professore; l’anzaino si sistemò gli occhiali sul naso, occhi sfuggenti rivolti verso l’alto. 

“Me lo hanno scaricato qui davanti alcuni miei…conoscenti.” Si schiarì la gola, sapendo che tutti avevano ben compreso se non l’identità, almeno il tipo di persone a cui l’uomo si riferiva. “Se ne sono andati prima che potessi fare loro troppe domande. Non che io sia il tipo da chiedere troppo a quel tipo di gente.”

Jane emise un suono gutturale, senza parlare, ma sembrava che la sua mente avesse improvvisamente fatto degli strani collegamenti, che a tutti loro stavano sfuggendo. Riprese il pendolo in mano, e nuovamente lo passò davanti agli occhi di Cameron, che lo allontanò con un gesto stizzito, le labbra tese in una linea dura.

“Piantala!” Lo intimò, stringendo i denti, sibilando quando avvertì un forte dolore al capo; subito kay fu al suo fianco, silenziosa, ma con gli occhi colmi di affetto e preoccupazione. “Ti ho detto che non funzionerà mai con me!”

“Non ne sono così convinto. Con tuo fratello sono certo avrei dei problemi, ma con te…” Emise una leggerissima risata. “Ragazzino, tu non sei duro nemmeno la metà di quello che vorresti far credere!”

Cameron non rispose. Si limitò a seguire i movimenti di Jane con gli occhi, col capo, senza dire una sola parola.

“Cosa ricordi, Cameron?” Gli domandò, tenendo l’orologio aperto, improvvisamente freddo e duro come il ghiaccio. “Ripensa ai suoni, agli odori.”

“Non lo so…. Dopo che ha ucciso i suoi scagnozzi, mi ha bendato prima di caricarmi in macchina, e ha girato in tondo per confondermi. Credo abbia volutamente girato a vuoto….” Cameron rispose, lo sguardo fisso nel vuoto. “Siamo scesi dalla macchina dopo diverse ore, ma non so quanta strada abbiamo fatto davvero. Però credo fossimo fuori Tokyo. La casa era circondata da un parco enorme, con alberi altissimi…”

“E com’è che sei scappato….” Ryo gli domandò, un po’ scettico, per poi voltarsi verso il Professore, con il suo immancabile cipiglio cinico. “E soprattutto, come è arrivato qui?”

Cameron non rispose; il che fece sbuffare Ryo e ridere Jane, che incalzò il ragazzo.

“Cameron, rispondi  a Saeba.”

“Ho steso Johnny con un candelabro e sono scappato dalla casa in cui lei ci aveva rinchiuso – mi aveva rinchiuso, a lui aveva dato una chiave. Ho corso per il parco, cercavo una via di fuga, ma avevo freddo, e poi sono arrivati i cani, ed ho sentito uno sparo e… e credo di aver perso i sensi. Non so come sono arrivato Qui. O dove qui possa essere.”

Jane richiuse con uno scatto il coperchio dell’orologio da taschino, e Cameron sbattè le palpebre, mentre lo sguardo cessava di essere vacuo. Prese un profondo respiro, sollevato quando avvertì una mano coprire la sua: alzò gli occhi, e vide che era lei a farlo, Kay, e con sguardo sognante ricambiò il sorriso che lei gli stava donando.

“Certo che ne hai avuto di fegato, stendere tuo fratello… anche se lo capisco, considerato che lui ti aveva lasciato a marcire in carcere al posto suo.” Jane scherzò, ma Cameron strinse i denti, ed i suoi lineamenti si indurirono, marcati da una rabbia che gli era impossibile nascondere.

“Quando lo ha fatto, mi ha detto che non voleva scappare con me, che sarebbe stato complicato se entrambi fossimo stati fuori. Credevo volesse proteggermi,” Cameron ammise, la voce bassa, pesante, la rabbia velata da una sottile vena di tristezza. “Invece intendeva dire che gli serviva avermi in carcere per non destare sospetti. Per far credere che Cameron Black fosse in giro deluso da tutti, e Johnny in carcere a marcire per qualcosa che non aveva fatto.”

“Ma non è stato questo a farti scattare…” Jane lo interruppe, usando il suo classico tono saccente da persona che sapeva di tutto e di più, il più intelligente della stanza. “Cosa ti ha detto, cosa ha fatto?”

Cameron non rispose: si limitò a voltarsi verso Kay, che capì – o forse, ammise quello che aveva sempre saputo. Dopotutto, le era bastato uno sguardo in quel letto per capire che aveva davanti Cameron e non Jonathan, perché sarebbe dovuto essere stato differente in un’altra circostanza? Certo, quando poi Cameron era stato scarcerato, aveva capito con chi aveva avuto a che fare, però… però, Jonathan aveva messo il tarlo del dubbio nella sua mente.

Jane sorrise, voltandosi verso la donna. “Oh, oh, oh, piccoli problemi di cuore….cosa ti ha detto Johnny, facendosi passare per il suo fratellino?”

“Le ha lasciato credere che non mi importasse di lei,” ammise Cameron, parafrasando le parole del fratello, parlando con Jane ma rivolto a Kay, nel cui animo scrutava, attento. “Che non mi fosse mai importato nulla di lei. Che avevo solo usato l’FBI per liberare Johnny.”

“Ti ha messo il dubbio in testa.” Jane capì, guardando dall’uno all’altra. “Anche dopo che Cameron è stato scarcerato, tu non sapevi a chi credere. Anche perché erano sparite le prove dal magazzino dell’FBI, lui non è tornato, casa sua è andata a fuoco… quando ti ha mandato quel fascicolo, ti sei chiesta se ti volesse usare, o se lo avesse fatto per mantenere il legame che vi univa. Per questo mi hai chiamato. Non volevi solo il mio aiuto nel risolvere l’enigma, volevi capire cosa aveva spinto Cameron ad agire così.”

Kay si limitò ad abbassare gli occhi, mentre Cameron intrecciò le loro dita, e strinse la mano della donna. 

“So benissimo cosa lo ha spinto ad agire così.” Lei, alzò gli occhi verso di lui, infuocati e determinati come mai prima di allora, e strinse con altrettanta forza. “La stessa cosa che spingerebbe me a fare qualsiasi cosa per salvare mia sorella, se solo potessi farlo.”

“Sì, beh, era quello che avevo pensato di fare,” Cameron ammise, dopo un attimo di silenzio carico di emozioni, di detti e non detti che però non necessitavano di nessuna parola. “Ma non sono certo di quanto mio fratello se lo meriti dopo tutto quello che ha fatto.”

“Già…” Jane rifletté ad alta voce, con quel suo maledetto sorriso enigmatico sulle labbra. “Ma chissà. Noi esseri umani siamo creature molto semplice, eppure estremamente complicate…”

“Sì, sì, va bene, ma possiamo lasciare i discorsi filosofici a dopo?” Ryo li interruppe. “Cosa facciamo adesso? Il piano cambia o no?”

“Piano? Quale piano?” Cameron li interrogò, guardando da uno all’altro. “Avete un piano per prendere quella strega e mio fratello? Posso aiutarvi? Vi prego, ditemi di sì!”

Con un sorriso canzonatorio, Ryo tolse dalla tasca della giacca la collana appena rubata, facendola dondolare con nonchalance davanti agli occhi sbigottiti del giovane. 

“La collana!” Allungò una mano per sfiorarla, ma Ryo ritrasse l’oggetto, mettendolo fuori dalla sua portata. “Avete rubato la collana con le pietre che servono a quella strega per decifrare la mappa del bisnonno!”

“Già. L’idea era di anticiparla, in modo da poterla poi attirare in una trappola, anche se mi chiedo come potremmo fare…” Jane prese a picchiettarsi con un dito sul mento. “La questione è, come attirare la sua attenzione senza che Bulgari ci denunci tutti per furto? Avremmo bisogno di portarla in un determinato posto, in modo da poter avere una parvenza di controllo e non essere presi contromano…”

“E se…” Cameron si strofinò il polso, su cui era caduto dall’albero; strinse gli occhi, mentre sul viso si materializzò un sorriso malandrino. “Forse un’idea ce l’ho, ma potrebbe servirci del tempo. Ed un completo blu. E anche l’aiuto della…” guardò Kaori, incerto su come descriverla, chiamarla, dato che non gli era stata presentata. 

“Kaori, Kaori Makimura. Sono…” Gli rispose lei col sorriso, facendo un piccolo inchino, mentre tuttavia arrossiva leggermente, anche lei un po’ in crisi in quella situazione, in certa sulla sua posizione – anche se ce n’era una di cui era sicura al 100%. “Sono la partner di Ryo. Lui ed io, insieme, siamo City Hunter.”

“Ehm…” Ryo si schiarì la gola; sguardo crudo, mascella tirata, posò una mano sul fianco di Kaori, attirandola a sé, il suo gesto una chiara dichiarazione d’intenti: Donna, mia. Kaori lo guardò stupita, mentre gli altri uomini presenti nella stanza sembravano ridacchiargli dietro, soprattutto Jane ed il Professore. Ma a lui non importava: voleva chiarire le cose fin da subito. Non sapeva cosa stesse succedendo, ma ultimamente Kaori era come sbocciata, e gli uomini, tutti, indistintamente, pendevano dalle sue labbra e le morivano dietro.

“C’è ancora all’FBI quel ragazzino che era nostro fan? Me lo avevi presentato quella volta che abbiamo lavorato insieme a quel caso, quello della finta casa infestata, in cui avevano ucciso un membro dello staff del governatore… ” Cameron domandò a Jane, gesticolando un po’ quasi quei movimenti potessero aiutarlo a fargli comprendere di chi parlasse. “Dai, sai di chi parlo, palliduccio, dava l’idea di essere un personaggio di Twilight ma non altrettanto sexy come i fratelli Cullen… com’è che si chiamava? Walt? Willies?”

“Wylie – e sì, lavora ancora con me!.” Jane sospirò, ed alzò gli occhi al cielo. “Perché vuoi che venga qui?”

“Non sarà necessario che venga qui, se è bravo anche solo la metà di quello che dici, potrà esserci d’aiuto senza alzarsi dalla sua sedia!” Con un sorrisetto, si sfregò le mani, già pregustando il futuro; Jane si illuminò, quasi beato, convinto di aver capito cosa il ragazzo avesse in serbo; ridacchiando, tirò fuori il telefono, lo sbloccò e lo tirò a Cameron.

“Beh, il problema è che è di tempo che non ne abbiamo...” Ryo rifletté, riportando la discussione sul giusto binario, senza però mai smettere di fissare Cameron in modo ostile. “Quando la mostra avrà inizio, tra un paio di giorni, la nostra ladruncola scoprirà che Serpenti è sparito, e non mi meraviglierei se decidesse di alzare le tende.”

“Non lo farà…” Cameron asserì senza nemmeno alzare gli occhi dal telefono. “Serpenti le serve troppo. Cercherà di capire dove possa essere finito…”

“E noi faremo in modo che scopra che ce l’abbiamo noi…” Jane capì al volo il piano del giovane, terminando al volo la frase di Cameron. “O comunque, le facciamo venire questo dubbio…. Sarà lei a venire da noi, e faremo in modo che venga incriminata.”

“E se vorrà avere salva la pelle, dovrà fornirci le prove per scagionare Jonathan…” Kay sorrise, con rinnovata determinazione. 

“Già… e finalmente capirò da che parte sta mio fratello.” Cameron fissò Kay negli occhi: temeva di avere la risposta a quell’interrogativo, ma non voleva ammetterlo. Non era ancora pronto a farlo, dopotutto.

Come aveva detto lei, la famiglia veniva prima di tutto, e se avesse avuto anche solo mezza possibilità per scagionare Johnny, per salvarlo, cambiarlo, farsi perdonare anni e anni di torti subiti da parte del padre, allora avrebbe agito di conseguenza. Avrebbe fatto tutto il possibile.

Avevano perso una battaglia, forse due, ma la guerra non era stata ancora vinta da nessuno, e Cameron non si sarebbe fermato fino a che non fosse stata sua.

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Capitolo 7
*** Ta-da! ***


“Senti, ma perché ti serve proprio Kaori come assistente?”  Ryo domandò a Cameron, mentre si stavano incamminando verso l’uscita della stazione di Shibuya. Lo sweeper camminava leggermente curvo, mani in tasca dei jeans neri e un leggero broncio sul viso, ad indicare quanto fosse scettico riguardo l’intera vicenda. “Non potevi chiederlo alla tua ragazza?”

“Punto uno, Kay non è la mia ragazza, per l’ennesima volta. Lei è la mia partner. La mia collega. Noi non stiamo insieme.” Cameron arrossì, mentre si schiariva la voce, leggermente imbarazzato mentre Jane rideva di gusto, fingendo di interessarsi a tutt’altro lungo la strada, mentre invece nella sua mentre ricordava tutte le volte che lui stesso aveva usato quella stessa ed identica frase per parlare di quella che poi era diventata sua moglie- e non faticava a pensare che anche Ryo stesse pensando qualcosa del genere. 

Quasi avesse capito cosa stavano pensando i due uomini, Cameron decise di non dar loro corda, lasciò cadere delicatamente a terra il borsone che portava con sé e si sistemò la giacca, già di per sé perfetta, che quasi sembrava cucita su misura per lui, e prese  un profondo respiro, e continuò il suo discorso come se nulla fosse. 

“Punto due, Kaori è perfetta come assistente. Ha il corpo, la grazia, il portamento da modella che ne fanno la persona più adatta a ricoprire questo ruolo. E con quei capelli color mogano,  quelle gambe lunghe e le curve naturali, è impossibile che passi inosservata.” Il ragazzo continuò, facendo un leggero inchino a Kaori che arrossì, mentre invece Ryo si innervosì, e prese a brontolare nemmeno fosse stato un cavernicolo: c’erano troppi uomini in giro che la facevano arrossire, ultimamente, e quella era stata sempre prerogativa sua. Sembrava quasi un paradosso, ma era da quando non era più single che Kaori aveva preso ad attirare di più l’attenzione maschile, quasi il fatto che lui avesse finalmente ammesso di considerarla donna le avesse donato una sicurezza che, automaticamente, la rendeva più femmina

Però…. Lo sweeper si morse il labbro rubando un’occhiata furtiva alla sua compagna, di vita e lavoro, effettivamente era vero - Kaori era davvero bella, sembrava risplendere, ultimamente, e le sue forme erano ancora più appetitose del solito.

E poi, vestita in quel modo delizioso, con quel cappottino bianco sotto cui indossava un vestito rosso con orlo asimmetrico, e stivali neri col tacco alto… Ryo si mise a ridacchiare ed intanto si portò le mani alla bocca, mentre la immaginava sfilare per lui e lui solo con quella mise per casa. Già se la vedeva, scendere le scale, una mano sul corrimano, l’altra al fianco, come una modella professionista, lo sguardo ammaliatore, i fianchi sculettanti, il seno florido…

“Santo cielo, Ryo, un po’ di contegno!” Kaori lo rimproverò, usando uno di quei suddetti tacchi che a lui piacevano così tanto, piantandoglielo nel piede: la sua faccia - ed il suo amichetto festaiolo -  stavano infatti mostrando a tutto il mondo cosa stesse passando per quella che lei, molto amorevolmente, chiamava testa bacata

“In realtà, Kaori, io non me la prenderei. Il comportamento del tuo uomo dimostra esattamente perché Cameron ti ha scelta come assistente. Beh, uno dei motivi per cui l’ha fatto.” Jane scrollò le spalle, parlando con quel suo tono saccente. “Vedete, il vero compito di un’assistente non è quello di aiutare l’illusionista, ma quello di distrarre il pubblico, spostando l’attenzione da ciò che sta davvero succedendo verso sé stessa, cosicché la gente non veda un trucco che è platealmente sotto agli occhi di tutti.”

“E sentiamo, quale sarebbe l’altro motivo?” Ryo brontolò, stringendo i denti e resistendo all’istinto di massaggiare il piede dolente, che flesse dentro alla scarpa.

“Beh, semplice. Kaori è la nostra distrazione, ma sarà anche la nostra esca. La sua allure generale, come tu ed io sappiamo,  è quella di una donna fragile ed indifesa. Chi la incontra per la prima volta immagina che sia al massimo la tua segretaria; la nostra donna misteriosa non la vedrà come un minaccia e cercherà di usare lei per arrivare a noi.” L’uomo continuò, fermandosi in mezzo alla piazza davanti alla stazione e appoggiando a terra un pesante borsone, non dissimile da quello di Cameron. “Invece noi sappiamo che se la sa cavare benissimo da sola, e che è pericolosa tanto quanto Kay o Teresa.”

“Bah, rimane il fatto che a me quest’idea non piace…" Ryo sospirò, alzando gli occhi al cielo. Tuttavia, sapeva anche che l’idea era, di per sé, buona… ma questo non toglieva nulla al fatto che non potesse fare a meno di preoccuparsi per lei, e detestasse l’idea di non averla accanto ventiquattr'ore su ventiquattro. 

La guardò ridere e scherzare con Cameron, e si chiese come avesse fatto lei a sopportare di saperlo in pericolo, dopo essersi innamorata di lui. Quante notti, quanti giorni aveva passato preoccupata per lui, quando non sapeva dove fosse, cosa stesse facendo? Adesso, a ripensarci, si sentiva un mostro, e si chiedeva come facesse Kaori a stare con uno come lui.

Si sistemò accanto a loro, e con le nocche sfiorò la mano di Kaori, facendola sorridere, timida e bellissima. 

“Quindi. Kaori è la distrazione perfetta, Kaori è l’esca perfetta… ma perché hai scelto proprio questo posto?” Ryo, nonostante la bruciante curiosità, ridacchiò, guardando il luogo che aveva davanti, mentre la mente vagava indietro nel tempo: quanti anni erano passati, dodici, tredici? Tanti, comunque: non ricordava nemmeno più il nome di quel killer sgangherato che aveva mandato lì ad aspettarlo invano, con una cravatta rosa, un mazzo di fiori in mano, ed il tutto condito dalla richiesta più assurda di tutte, quella che avrebbe dovuto far scattare un campanello di allarme ed invece non aveva suscitato nessuna reazione…

“Perché migliaia di persone passano qui davanti alla statua di Hachiko, e questo ci darà una visibilità assicurata…” Jane spiegò, alzando gli occhi al cielo, quasi non capisse come non ci si potesse arrivare da soli.

“In più la statua è piccola e quindi posso fare benissimo da solo. Una volta avrei potuto far sparire la Torre di Tokyo, facendomi aiutare da tutta la mia squadra.” Cameron continuò, ed intanto si chinò, aprendo il suo borsone ed estraendone tubi sottili di metallo e teli scuri. La gente si fermava e lo guardava, incuriosita, gente scattava foto, ragazzine in divisa scolastica ridacchiavano, ma Cameron si limitava a fare solo dei leggeri cenni col capo, e sorridere, al massimo talvolta faceva un inchino verso le giovani studentesse, che, arrossendo, ridacchiavano emozionate, nemmeno il giovane fosse stato il perfetto Principe Azzurro. “Ehi, voi due, credete che mi sia portato dietro due omaccioni grandi e grossi così, tanto per fare?” Domandò, sbuffando, facendo scoppiare a ridere Kaori.

Iniziarono a montare dei cavalletti ai quattro lati della statua, incastrando i tubi l’uno dentro l’altro, poi, ad un certo punto, Cameron e Jane controllarono l’orologio ed i loro telefoni: era ora, in quel momento, la mostra di Bulgari apriva i battenti, e la donna del mistero e Jonathan erano probabilmente in sala per farsi un’idea di come rubare Serpenti, solo per scoprire che Serpenti, lì, non c’era più.

Cameron rise sotto ai baffi: poteva già immaginarsi la sfuriata che la belle dame sans merci (e senza nome) avrebbe fatto, quando avesse capito che l’avevano fregata! 

Il telefono di Jane emise un suono di notifica, e subito l’uomo controllò, nonostante avesse una vaga idea di cosa avrebbe potuto vedere. La sua recluta dell’FBI preferita gli aveva mandato un link, che rimandava a un profilo seguitissimo in tutto il mondo ma soprattutto in Giappone,  quello del giovane, aitante ed affascinante calciatore Kojirō Hyūga. Peccato che, Jane lo sapeva bene, l’ultimo tweet fosse stato in realtà inviato da Wylie, che entrando in quel profilo si era garantito la viralità, e gli occhi di Tokyo puntati su di loro. 

Sorrise compiaciuto, facendo schioccare la lingua contro il palato: il ragazzo aveva decisamente stoffa… e fegato.

“Sei sicuro che il numero ti riuscirà?” Jane gli sussurrò, con tono cospiratorio, mentre fingeva di aiutarlo a montare l’impalcatura intorno alla statua del cane più famoso del Giappone, se non del mondo intero. 

“Certo che sono certo che mi riuscirà, mica è la prima volta che faccio questo trucchetto!” Fu la risposta stizzita di Cameron, che per poco non strillò come una ragazzetta. Si ricompose però velocemente, schiarendosi la voce e sorridendo ai curiosi. Alcuni stavano controllando i loro telefoni: molto probabilmente, avevano visto il tweet di “Kojirō Hyūga”. “E poi, chiudi il becco. Tu e Saeba fate schifo in quanto a discorsi di incoraggiamento.”

“Cameron, voglio solo, per una volta, essere onesto.” Jane lo redarguì, sotto voce, ricevendo un’occhiataccia dal ragazzo, a cui jane non era mai sembrato il tipo che addolciva la pillola. “Lo hai detto tu che quando facevi questi numeri avevi con te tutta la tua squadra, mentre adesso ti sei ridotto ad avere noi come aiutanti. E non parlarmi del numero di Copperfield, che lo sanno tutti che il pubblico alla Statua della Libertà era suo complice!”

“Non ti preoccupare, andrà tutto secondo il piano… non avrò dalla mia la notte o la piattaforma rotante di David Copperfield, ma so esattamente come fare.” Cameron fece schioccare la lingua contro il palato; si allontanò un po’ dalla statua, e osservò, compiaciuto, ciò che avevano fatto: una struttura di tubolare metallico circondava la statua di Hachiko, praticamente ingabbiandola.

Sorrise compiaciuto, sentendo l’adrenalina corrergli in corpo... gli mancava quella vita, non tanto i teatri di Las Vegas, Los Angeles e New York, ma fare numeri da baraccone in strada, per la gente, racimolare qualche spicciolo, far felice la gente normale.

Lui e Johnny avevano vissuto per quei momenti, scappando a volte anche dai teatri di posa per esibirsi in strada – ed il risultato era sempre stato lo stesso. Ogni volta, punizioni, sempre più severe. Fino a che non lo avevano più fatto, piegandosi al gioco del genitore. 

Mai più, si disse Cameron, stringendo i denti, risoluto. Nessuno li avrebbe più usati.

“Si va in scena!” Sussurrò, più a se stesso che ai presenti.  Con un gesto cavalleresco aiutò Kaori a togliersi il cappotto, facendola rimanere solo con quel vestito mozzafiato sì, ma che non era per nulla volgare ma metteva in risalto il suo corpo; poi, tenendola per mano, le braccia alzate, si voltò verso il pubblico che circondava la statua lasciando loro lo spazio, quasi sapessero che qualcosa stava per accadere. 

Telefoni, macchine fotografiche, telecamere, risate, sorrisi e bisbigli: Cameron sentiva l’attenzione della gente su di sé. Ed era meraviglioso. Si voltò verso Kaori, e la vide, felice ma leggermente timida, e le fece l’occhiolino. “Rilassati, sarete perfetti!” le sussurrò, prima di tornare a dare la sua attenzione all’adorato pubblico.

Lasciò la mano di Kaori, fecero entrambi un piccolo inchino e poi Cameron si schiarì la voce, prima di iniziare a recitare in Giapponese le battute che aveva imparato a memoria.

“Signore e Signori, sono Cameron Black, dal vivo per voi dalla stazione di Shibuya, a Tokyo!” Proclamò ad alta voce, muovendosi da una parte all’altra di quel palco che era solo nella sua immaginazione. 

“Oggi replicherò qui per voi lo stesso numero che anni fa David Copperfield eseguì a New York… ma invece di far sparire Lady Libertà, io mi accontenterò…” Saltò dietro la barriera, e prese ad accarezzare il cucciolo, dandogli delle leggerissime pacche sulla testa, quasi fosse stato un cane vero. “… di questo cucciolone! È con me oggi la bellissima Kaori… fatele un applauso, gente! Ah, e non preoccupatevi… Hachi sparirà solo per un attimo, Tokyo ed il mondo amano troppo questo cagnolone perché io me lo tenga tutto per me!”

La folla proruppe in un fragoroso applauso, mentre i flash partivano. Cameron e Kaori afferrarono il telone nero che era per terra, e lo issarono , nascondendo la statua agli occhi dei presenti su tutti  quattro i lati. 

“Bene, e adesso, conterò fino a tre, e quando abbasserò nuovamente il sipario, Hachiko sarà sparito!” Cameron si voltò verso la statua, e prese a gesticolare con le mani. “Uno, due… e tre! Kaori, abbassa il telo!”

Kaori afferrò il telo ed eseguì; centinaia di occhi presero a fissare la scena, mentre cadeva il silenzio più assoluto. Poi, un mormorio, sempre più forte, fino a che non divenne un vociare indistinto, e alla fine, l’applauso, e fischi di apprezzamento. 

“Grazie, grazie, ma non è ancora finito!” Fece schioccare la lingua contro il palato, e si guardò intorno. Camminava intorno alla piazzetta, facendo attenzione di essere ripreso, per assicurarsi che lei e suo fratello capissero, sapessero che lui era lì, e che la collana era nelle sue mani. “Per finire per davvero il numero, gente, devo far ricomparire il vostro cucciolo!”

Si avvicinò a Kaori, la prese per mano e le baciò le nocche, portandosele alle labbra, guardandola negli occhi. Lei abbassò lo sguardo, ed arrossì, tenendo una mano sul cuore, emozionata e deliziata da quell’attenzione, per quanto calcolata e fasulla, ma che agli occhi di tutto – Ryo compreso, che stringeva i denti geloso e portava la mano tremante alla fondina quasi avesse potuto sparare all’illusionista - sembrava onesta.

 “Kaori, mi dai di nuovo una mano?” Le domandò, mettendole il braccio intorno alle spalle.

Col sorriso, Kaori fece cenno di sì col capo, e tirò nuovamente su il telo color blu notte; con lo sguardo cercava Ryo, che nelle retrovie, con la schiena appoggiata contro un albero, la guardava con un sorriso dolce e sornione, lo sguardo da pesce lesso tipico di tanti innamorati sdolcinati che nemmeno si rendevano conto di esserlo.

Uno, due… e tre! “ Cameron esclamò, mentre muoveva nuovamente le mani. Il telo si abbassò, rivelando, nuovamente, la presenza della famosissima statua. “Ta-da! Grazie mille per essere stati con me questa mattina, sono Cameron Black, per voi alla stazione di Shibuya! Cercatemi nelle strade della città nei prossimi giorni, chissà che non appaia a Rapponigi… o magari a Shinjuku!”

Abbracciò nuovamente Kaori, dandole un bacio sulla guancia, poi si voltarono entrambi verso la folla e fecero un inchino; agenti in divisa uscirono dalla stazione e corsero verso di lui, pronti a fermare quello spettacolo non autorizzato, ma una violenta rissa scoppiata nelle retrovie li distolse dal loro scopo. Pugni volavano, calci, anche un paio di colpi di arma da fuoco risuonarono nell’aria, mentre Kaori e Cameron afferravano le loro cose e correvano verso un’auto che, sgommando, li raggiungeva- una Jeep Cherokee verde militare.

“Lo sa che una macchina del genere non passerà facilmente inosservata in città, vero?” Cameron domandò a Miki, sporgendosi verso di lei.

“Ragazzino, nessuno si muove come mia moglie e me in questa città!” Falcon grugnì, imbronciato nel sedile passeggero. Si voltò verso Kaori, grugnendo il nome dell’amico/nemico. “Quel pivello di Saeba dove si è cacciato?”

“Ryo e Jane dovrebbero essere già sulla Mini ora- Ryo l’aveva parcheggiata vicino al parco.” Kaori gli rispose. “La rissa serviva per distogliere l’attenzione da noi e permetterci di scappare, senza lasciare indietro l’equipaggiamento del numero.”

“Ho visto il vostro numero live… Kaori, tu eri davvero bellissima!” Miki cinguettò voltandosi verso di loro, mentre prendeva in modo molto creativo una curva - eppure, con estrema sicurezza, quasi avesse conosciuto quelle strade da sempre. “Non me lo sveli come hai fatto a far sparire la statua, Cameron?”

“Ah, ecco…” il giovane arrossì, e si grattò il capo, leggermente imbarazzato. “Un mago non svela mai i propri segreti, mi spiace, signora Miki!”

“A proposito del numero di magia…” Falcon grugnì. “Cos’era questa buffonata? Il ragazzino aveva bisogno di giocare al primo della classe?”

“Signor… Falcon.” Cameron esitò, quasi incerto se usare quel nome- e se fosse vero. “Sono molto bravo, ma quello che ho fatto non è stato certo per egocentrismo.”

“E allora, perché?”

“Perché voglio che quella donna sappia che io sono ancora qui… e volevo che assistesse al mio ultimo numero di magia.” Cameron si lasciò cadere contro lo schienale del sedile, e sospirò compiaciuto, incrociando le mani dietro al capo, gli occhi fissi sul cielo di Tokyo, che guardava attraverso il tettuccio di vetro del veicolo.

“Far sparire una statua?” Falcon grugnì. “Cosa le viene dal sapere che tu hai fatto sparire quel cane?”

“Oh, ma non è stato quello il trucco. Quello è ciò che hanno visto tutti, ma per quella strega e Johnny, ho avuto in serbo ben altro…” Rispose sibillino. Aveva giocato la sua mano: adesso toccava a Johnny e alla sua amichetta rispondere.

Bulgari Tower

“L’hai vista?” La donna misteriosa domandò a Johnny, mentre camminavano tra i corridoi della Boutique di Bulgari, fingendo interesse per ogni teca contenente quelle opere d’arte di fine gioielleria; aveva indossato una parrucca bionda, lenti colorate ed una notevole quantità di trucco per alterare il più possibile il suo aspetto, scegliendo capi tipici di ricche ragazze annoiate che in quel luogo non avrebbero attirato l’attenzione; Johnny invece aveva una parrucca, lunghi capelli legati in una coda spettinata, occhiali da vista ed un naso prostetico.

“Non c’è.” Le sussurrò la risposta all’orecchio. “Ho sentito il responsabile parlare con la guardia di sicurezza. Qualcuno è entrato nel caveau e l’ha rubato.”

“Impossibile!” Sibilò, indignata, sbattendo il piede a terra. “Nemmeno io potrei forzare quella cassaforte!”

Jonathan si limitò a scrollare le spalle, e fece finta di ammirare l’anello esposto, appartenuto ad una diva del cinema muto. I telefoni di parecchi avventori presero a trillare con le notifiche, che sembravano susseguirsi, e si alzò un forte mormorio, e risate ed espressioni di meraviglia. Johnny prese il suo smartphone, e controllò gli aggiornamenti di Twitter ed Instagram, per capire cosa fosse così di tendenza nell’area in quel momento. 

Prima strizzò gli occhi, quasi volesse studiare meglio quelle inquadrature, poi rise, beffardo, e scosse il capo. 

“Beh?” Gli domandò. “Cosa c’è da ridere?”

“A quanto pare ho appena scoperto chi è più bravo di te, dolcezza.” Ridacchiò. Alzò il telefono, e lo mostrò alla giovane donna, facendo ripartire il video dell’esibizione dall’inizio, affinché lei potesse capire con chi avevano a che fare.

“Credi davvero che sia stato lui?” Lei domandò, con tono irriverente, quasi lo ritenesse impossibile. Cameron era bravo, ma da solo, poteva davvero riuscire in qualunque impresa? Ne dubitava.

“Non lo credo, lo so.” Le sussurro. Le mise sotto agli occhi il video, e attese che lei vedesse cosa aveva catturato la sua attenzione – un particolare che ad una persona comune poteva passare inosservato, ma che per loro, maestri dell’inganno, che con cose come quelle si erano guadagnati il pane, era cose di tutti i giorni. 

Un attimo prima, il collo della bellissima donna dai capelli e dall’abito rosso era nudo; poi Cameron la toccava, per invitarla ad aiutarlo - ed eccola lì, la collana. Un solo fotogramma – perché nel frame successivo Cameron le toccava la schiena, la copriva per un attimo, e quando il collo della donna ritornava nell’inquadratura, la collana era di nuovo sparita.

E non era certo una collana qualunque, ma quella che stavano cercando loro: Serpenti. 

Cameron aveva capito a cosa stavano mirando, e li aveva anticipati. E adesso, li stava sfidando. 

Venite a prenderla se ne avete il coraggio, sembrava dire. 

“E io che credevo che fossi tu quello bravo con le mani…” La donna borbottò, irritata, mentre, senza mai perdere la sua eleganza, prendeva un calice di spumante da un vassoio servito da eleganti camerieri in livrea da gala, nemmeno fosse stata un serata politica.

“Beh, fossi in te aspetterei a dirlo, non le hai mai provate…” Jonathan la canzonò, guadagnandosi uno sguardo acido e rancoroso. L’uomo alzò gli occhi al cielo e sbuffò, mettendosi le mani in tasca dei pantaloni. “Cosa facciamo, adesso, cambiamo il piano?”

“No, il piano è sempre quello di impossessarsi di Serpenti, Dovremo solo improvvisare un po’....” La donna rifletté, fissando le teche colme di gioielli. Se avesse voluto, non le sarebbe servito chissà che per impossessarsi di tutto quanto, ma a lei non importava: c’era solo un tesoro a cui ambiva, quello custodito dalla famiglia Black. 

Il padre di Cameron e Johnny l’aveva ferita, illusa, fatta sentire piccola e inutile, e lei quella notte si era ripromessa di sentirsi così mai più. Ormai c’era quasi, ed una volta ottenuti quegli averi, avrebbe finalmente esorcizzato, una volta per tutte, quel ricordo. “E se non l’avremo con le buone, allora ce la prenderemo con le cattive.”

“Cioè?” Jonathan deglutì a vuoto, irrigidendosi, guardando la donna con terrore. Aveva una vaga idea di cosa volesse dire, ma aveva troppa paura ad ammetterlo: quando l’aveva incontrata, aveva creduto che lei fosse come lui, un’anima alla ricerca del suo posto. Aveva davvero creduto che lei desiderasse aiutarlo, liberarlo. Esorcizzare la pesante figura del padre, che ancora incombeva sui gemelli Black, anni dopo la sua morte.

Ma si era sbagliato. Lei non era solo senza cuore: lei era crudele, e gioia della sofferenza degli altri.

“Non farmi ridere, Johnny. Hai capito benissimo cosa voglio dire. Arrivare a Cameron potrebbe essere complicato, ma tuo fratello è un cavaliere.” posò su un tavolo il calice, e si diresse verso l’uscita della gioielleria: non c’era nulla di cui le importasse, nulla che valesse la pena rubare. “Cameron farebbe qualunque cosa per salvare una fanciulla in difficoltà, incluso tradirti, e questo lo sai bene.”

“E come credi poterla trovare, eh? Tokyo ha decine di milioni di abitanti!” La schernì, accelerando il passo per starle dietro.

“Oh, ma io so esattamente dov’è Kaori… è stato Cameron a dircelo. Non hai sentito come lo ha detto… come lo ha sottolineato… ci ha lanciato una sfida, a Shinjuku….” Uscirono, nella fredda notte invernale, e la donna si alzò il colletto della giacca, socchiudendo gli occhi compiaciuta, quasi provasse piacere per il vento freddo che le sferzava il viso. “Shinjuku restringe parecchio l’area, e comunque, una donna come quella, non passa certo inosservata. Fidati: troveremo Kaori in men che non si dica, e una volta che avremo lei, Serpenti sarà nostra!”

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Capitolo 8
*** Fantasmi (di un Natale passato) ***


Kaori affondò il naso dentro alla sciarpa gialla, regalatale anni prima da Ryo per sostituire una che lui aveva inavvertitamente reso inutilizzabile, mentre, nel tardo pomeriggio, dopo essersi regalata una cioccolata calda con panna ed una chiacchierata con la sua migliore amica, usciva dal Cat’s Eye, le mani in tasca del cappotto rosso dall’aria festiva. 

Il Natale era ormai alle porte, e nonostante il piccolo numero di cristiani che il Giappone contava, la città di Tokyo era agghindata a festa come e più di certe capitali europee e americane. Privata del suo significato religioso, la celebrazione era vissuta in modo ambivalente: celebrazione consumistica sì, ma soprattutto momento da passare in famiglia, con i propri cari, con gli amici, da vivere con gioia e spensieratezza. 

Concentrandosi su cosa le stava accadendo intorno, senza tuttavia renderlo troppo palese, Kaori si permise di fantasticare un po’: come lo avrebbero celebrato quell’anno Natale, lei e Ryo? Lei aveva già in mente il regalo per lui, ma non poteva fare a meno di chiedersi cosa avrebbe pensato al riguardo, se gli sarebbe piaciuto… parte di lei pensava di sì, ma c’erano stati stralci di conversazioni, frasi buttate così che le lasciavano credere che invece lui avrebbe preferito ben altro…

Sospirò, dirigendosi verso il parco a passo piuttosto veloce, per riscaldarsi, dimentica delle coppiette che erano intente a fare acquisti per le loro rispettive dolci metà… chissà se Ryo le aveva preso qualcosa, dato che stavano lavorando non ad uno ma  a ben due casi contemporaneamente – che, però, paradossalmente, avevano finito per essere collegati l’uno all’altro.

Kaori si fermò quando, ad una lavagna, vide appeso il manifesto della mostra di Bulgari, e sorridendo scosse il capo, quando notò nel manifesto un bracciale molto simile al Serpenti in loro (momentaneo) possesso: era quasi incredibile quanto un gioiello potesse muovere i destini di così tanti esseri umani, come l’avidità ed il rancore potessero spingere le persone a compiere atti che anche lei, nella sua professione di sweeper, considerava solo come ultima risorsa estrema.
C:\Users\eli\Desktop\Downloads\bvlgari-serpentiform-tokyo-virtual-tour-800-400.jpgDalla tasca  della giacca la giovane donna estrasse il telefono e controllò l’app di messaggistica che avrebbe dovuto segnalarle la presenza di eventuali messaggi sulla lavagna elettronica della stazione; con il compenso di Bulgari avrebbero potuto stare tranquilli per un po’, ma chissà, magari avrebbero potuto passare qualcosa a Mick, o magari prendere il caso per lavorarci da Gennaio, se fosse stato qualcosa di poco importante: dopotutto, mancava poco, ormai, alla fine dell’anno.

Anno nuovo, vita nuova!

“Getta il telefono a terra, Kaori.” Kaori si morse la lingua quando sentì la voce di donna alle sue spalle; fece per fare un passo indietro a voltarsi, ma decise di non farlo, quando avvertì la canna di una pistola puntare direttamente contro il suo cranio, con forza, e ascoltò il rumore della sicura che veniva disinserita. 

Chiunque ella fosse, quella donna faceva sul serio.

“Sei tu, vero?”  Karoi le domandò, senza dare il minimo segno di cedimento o di paura. “Sei la donna del mistero di Cameron e Jonathan.”

“Più di Jonathan che di Cameron, in realtà…” La donna ridacchiò, avvicinandosi col viso così tanto a Kaori che prese a sussurrarle nell’orecchio, facendo rabbrividire la giovane donna – c’era qualcosa di pericoloso ed inquietante, in quell’essere. “Cameron preferisce i distintivi, nel caso non te ne fossi accorta. E adesso muoviti, senza dare nell’occhio.”

“Difficile, con una pistola puntata alla testa….” Kaori osò scherzare, sollevando leggermente un sopracciglio.

“Per questo lascia fare a me.” La donna abbassò per un attimo la pistola, poi strattonò Kaori; fece finta di prenderla a braccetto, quasi fossero state due amiche complici che ridevano e scherzavano, rivendendosi dopo tanto, troppo tempo, e continuò a tenerla sotto tiro da quella posizione. “E adesso muoviamoci.”

Le due donne si incamminarono verso l’uscita del parco, verso una delle arterie principali di Shinjuku; parcheggiato lungo la strada, ad attenderla in macchina con la visiera di un cappellino da baseball verde abbassata sugli occhi, c’era un giovane che Kaori lì per lì scambio per Cameron.

Jonathan- Johnny. 

Quando salì sulla vettura, una piccola utilitaria gialla,  sedendosi nei sedili posteriori, con la donna che teneva in grembo la pistola pronta a spararle, Kaori quasi sussultò, quando lo vide per bene: ad un occhio meno attento, i gemelli sarebbero effettivamente passati per la stessa persona, non c’era da meravigliarsi se per anni il padre li aveva usati per mettere in scena numeri di sparizione e simili.

“Lei che ci fa qui?” Jonathan domandò alla donna misteriosa, piuttosto seccato. 

“Lei sa dov’è la collana- e ci serve come merce di scambio.” Lei rispose, sorridendo in modo malefico a Kaori, che studiò con occhio attento e clinico, il viso inclinato sulla spalla. Portò la mano libera al viso della sweeper, e lo sfiorò con le nocche. “Sei molto bella, Kaori, forse troppo. E poi, con questi capelli, non passi certo inosservata. Il tuo capo dovrebbe insegnartelo, ad essere un po’ più modesta…”

 “Non ho certo bisogno che quel maiale mi dica cosa devo o non devo fare!” Kaori, stizzita, volse il capo dall’altra parte, ed incrociò le braccia, rispondendo in modo quasi automatico all’insinuazione, per quanto corretta, che tra lei e Ryo ci fosse qualcosa. “E comunque, gradirei sapere almeno il nome di battesimo di chi mi tiene in ostaggio!”

“Non perdere tempo, non lo ha detto nemmeno a me…” Jonathan le interruppe, la sua voce poco più di un sussurro, quasi non stesse parlando con nessuna di loro ma il suo fosse poco più di un pensiero. Ingranò la marcia, e si innestò nel convulso traffico cittadino dell’ora di punta, guidando in modo fluido e controllato, quasi avesse vissuto lì da tempo immemore.

Il giovane illusionista si fermò ad un semaforo rosso, e alzò gli occhi, cercando quelli della donna del mistero nello specchietto retrovisore. “I patti erano di interrogarla al parco, non portarcela dietro.”

“Che c’è, prima pianti un coltello nella schiena di tuo fratello e adesso ti fai dei problemi morali?” La donna lo rimproverò, alzando gli occhi al cielo. 

“Potrebbe avere una trasmittente addosso.” Lui la avvertì, con tono da professore, cercando lo sguardo di Kaori nello specchietto, per saggiare le sue reazioni.

“Lei?” La donna del mistero sbuffò. “Per favore. È una segretaria.” Sibilò l’ultima parola con disgusto, facendo venire a Kaori una gran voglia di prenderla a calci negli stinchi per la stizza. “Al massimo il suo capo se la spupazza… una vergogna per il genere femminile.”

“Certo, molto meglio andare in giro a rubare ed ammazzare la gente, no?” Kaori rispose, stizzita, ma in realtà fremendo con ogni particella del suo essere per cosa quell’affermazione in realtà significasse: lei era debole ed indifesa, quindi il punto debole di Ryo- e costantemente in pericolo perché collegata a lui. 

“Se avessi una famiglia da accudire, non potrei difendere delle persone dai pericoli… e da quelli che mi odiano… non posso avere una famiglia come le persone normali…”

Gli occhi di Kaori si strinsero, umidi di lacrime mentre pensava. Sapeva che Ryo si fidava di lei, che era diventata, col tempo, una sweeper capace, ma a volte quella frase che lui le aveva detto quel giorno le tornava in mente.

Quando aveva capito di essere innamorata di Ryo, quelle parole  le erano servite da monito per non abbandonarsi ai sentimenti che nutriva per il suo socio, e trovare il coraggio di almeno provare ad immaginare un futuro a fianco di qualcun altro –  magari Uragami.

Quando avevano poi compiuto il grande passo, quelle stesse parole l’avevano perseguitata, facendola cadere vittima della paura che Ryo, con i suoi timori, la potesse abbandonare, credendo di fare il suo bene.

E adesso? Ryo non era stato troppo felice del piano che Jane e Cameron avevano sviluppato, ma si era trovato a dover dare loro ragione – ma rimaneva il fatto che non gli piacesse affatto metterla in pericolo. 

Ma sapeva che anche lei era City Hunter, e non era certo una ragazzina inesperta… quindi, alla fine si era convinto a lasciarla fare. 

Ma la cosa non mi piace per nulla. 

Jane però aveva visto lungo: la donna, proprio come lui aveva dedotto, l’aveva mal giudicata – e stava giudicando male anche Ryo. Lo credeva uno stupido maiale, un investigatore da quattro soldi, pensava che ciò che si diceva in giro fossero solo leggende, fandonie di cui i criminali si riempivano la bocca per giustificare la loro incapacità.

“Dove devo andare, comunque?” Jonathan sbottò. Dal tono di voce, Kaori poteva quasi vederlo, che digrignava i denti, seccato. La sweeper nascose il suo compiacimento. C’era aria di maretta tra il giovane Black e la donna del mistero, il che andava tutto al loro beneficio, perché se anche lei lo aveva percepito, sarebbe stata più incerta e vulnerabile. “Gradirei evitare di girare a vuoto per una città che conosco poco o nulla, grazie mille.”

“Iniziamo ad andarcene da qui,” La donna si voltò indietro, mantenendo però Kaori sotto tiro; controllava dal lunotto che nessuno li stesse osservando,  e che non ci fossero agenti in uniforme – o persone che fosse palese appartenessero alla polizia – intorno. “Prima ci muoviamo meglio è. Non voglio attirare troppo l’attenzione. Dopotutto, se ci fosse una sparatoria ed un colpo partisse per errore e facesse male alla nostra amica sarebbe davvero terribile, non lo credi anche tu, Kaori?”

Kaori non aprì bocca: ma il suo sguardo faticava a celare l’odio ed il rancore che nutriva per quella donna, e che col passare dei minuti non faceva altro che crescere: una volta aveva detto a Ryo che odio e vendetta rendevano la vita inutile ed indegna di essere vissuta, ma in momenti come quello faticava lei stessa a convincersi delle sue stesse parole.

“Non avevamo parlato di…” Jonathan fece per dire, obbiettare a quella violenza che riteneva assurda; non si era mai considerato perfetto, né tantomeno un uomo d’onore. Non credeva in nessun tipo di giustizia, divina o umana, ma era ricorso all’inganno, alla violenza, alla forza solo in casi eccezionali, quando la vita sua o di suo fratello si erano trovate in pericolo – ma non lei. Lei, cercava il sangue, la lotta, la guerra, ne era attratta come una regina guerriera di una favola antica, di cui si è ormai perso il nome. 

Continuando a puntare la pistola su Kaori, dallo stivale la donna del mistero produsse un coltello a serramanico, e con un movimento veloce ed armonioso, poggiò la lama sul collo del giovane illusionista. Tagliò la pelle, facendo uscire una sola goccia di sangue: Jonathan non provò alcun dolore, ma quel gesto semplice gli fece capire dove stava con quella donna, che lui era carne da macello, di cui lei, se voleva, poteva liberarsi in qualsiasi momento.

“Suvvia, Johnny, non farmi rimpiangere di aver scelto te invece di Cameron….” Sussurrò, maliziosa, mettendo il broncio, senza mai tuttavia smettere di assicurarsi che Kaori non tentasse mosse azzardate. 

“Lascialo stare,” Kaori si voltò a guardarla, determinata come poche altre volte, risoluta, la sua voce calma e pacata – quasi fosse in totale controllo del suo intero essere. “Vuoi la collana? Te la darò. Dopotutto, nessun gioiello vale una vita umana…”

“Che animo romantico…” La donna alzò gli occhi al cielo, schernendo la giovane giapponese. “Ma fidati, questo gioiello vale tutte le vite umane che potrei decidere di togliere…”

“La tua vita deve essere davvero vuota e triste se è questo ciò che pensi….” Kaori sentenziò, volgendo lo sguardo fuori dal finestrino, verso il panorama ben conosciuto e familiare di Shinjuku. 

“Non prendo lezioni da una ragazzina viziata…” la donna le sibilò, premendo con maggiore forza la canna contro il costato di Kaori, fino quasi a farle male. I muscoli le tremavano, tanto erano tesi. Stava perdendo il controllo.

Jane aveva ragione, Kaori si disse, mascherando il sorriso soddisfatto. 

“Se ti fossi informata su di me, sapresti che sono tutto tranne che una ragazza viziata, o una figlia di papà,” Kaori le rispose, con risolutezza, fiera e determinata, voltandosi per guardare negli occhi la sua assalitrice. “Non so cosa sia successo a te nella vita, ma credimi, so esattamente cosa siano le difficoltà e le sofferenze.” Nessuno lo sa meglio di me e Ryo, e Miki…

La donna sbuffò. Scuotendo il capo, seccata, la pistola perennemente puntata al ventre di Kaori. “Allora, la collana?”

Kaori strinse i pugni, ed abbassò gli occhi sulle proprie ginocchia. Chiuse gli occhi e serrò la mascella, quasi dire quelle parole le costasse fatica o, peggio, le avvertisse alla stregua di un tradimento del proprio compagno, e dei loro amici. 

“A casa mia.” Kaori le rispose. “L’abbiamo nascosta nella cassaforte di casa.”

“Sarà meglio per te che sia così,” La donna sogghignò, e prese a giocherellare con la sicura della pistola, quasi volesse incutere maggiore timore a Kaori, che tremava, e certamente non solo per il pungente freddo invernale.  “Perché se così non fosse, troverò modi molto interessanti per me, e poco piacevoli per te, di farti ammettere dove avete nascosto la mia collana.”

Senza mai distogliere gli occhi dallo specchietto retrovisore, Jonathan si incamminò verso la casa di Ryo e Kaori, serrando la mascella, le nocche che stringevano il volante con tale forza da essere diventate bianche. 

Tutto quello che stava accadendo, lui non lo aveva mai voluto.

 

    La notte era ormai scesa sul quartiere quando Kaori fece scattare la serratura della porta d’ingresso dell’appartamento che occupava da ormai un buon decennio. Perennemente sotto la minaccia della pistola della Donna del Mistero, che ostinata si rifiutava di dare loro anche un solo nome, allungò la mano alla sua sinistra, facendo scattare gli interruttori della luce, che una ad una, illuminarono i due piani su cui si sviluppava la casa che divideva con Ryo. 

“Come mai non c’è nessuno?” La donna domandò, guardandosi intorno circospetta. “Prega per te che non sia una trappola!”

“Ryo a quest’ora è sempre in giro per locali.” Kaori sentenziò freddamente. Si tolse giacca e sciarpa e le gettò su una poltrona di velluto rosso, comportandosi quasi non fosse stata minacciata da quella pazza. “Raccoglie informazioni, si fa vedere, coltiva le sue amicizie.”

“Scommetto che le sue migliori amiche sono tutte molto poco vestite…” La donna sospirò. Si avvicinò a Kaori, soffiandole sul collo, e prese a giocare con una ciocca di capelli della sweeper. “Non sei gelosa? Tutte quelle donne, intorno a lui… e lui magari nemmeno si rende conto di quanto tu sia bella. Di quanto vali.”

Con ferrea ostinazione, Kaori voltò il capo altrove repentinamente, mentre sentiva la bocca dello stomaco bruciarle, ed il sapore amaro della bile salirle in gola. Per il presente, quelle cose erano false, erronee: ma nessuno sapeva meglio di Kaori stessa quanto in passato fossero state vere – e quanto entrambi, sia lei che Ryo, rimpiangessero il tempo sprecato.

“Dì un po’, vuoi la collana o farmi psicoterapia?” Kaori rispose sprezzante, mettendo quanta più distanza possibile tra lei e l’altra, mentre Jonathan le seguiva a breve distanza, studiando cosa gli stava intorno con circospezione ed un vago presentimento che lo metteva a disagio e lo preoccupava.

Kaori raggiunse l’enorme stanzone che, riempito fino al soffitto, fungeva da biblioteca e libreria, contenente di tutto un po’, dai romanzi ai saggi ai manuali di balistica fino ad una discreta raccolta di quotidiani. Kaori tolse una decina di volumi da uno scaffale, posandoli per terra, rivelando dietro di essi la presenza, abbastanza ben celata, di una cassaforte a muro. 

“Sai di non dovermi fare scherzi, vero dolcezza?” La donna le intimò, mentre con dita veloci Kaori  muoveva il primo dei tre combinatori a disco presenti su quel modello.

Il primo meccanismo era appena scattato, quando sentirono un rumore, come di porte sbattute, che cigolavano, mobili che venivano spostati. 

“Cosa è stato?” La donna ringhiò, afferrando Kaori per il colletto del vestito e puntandole la canna dell’arma contro la tempia destra. “Credevo non ci fosse nessuno!”

“Viene dal piano di sopra…” Jonathan si staccò dal gruppo, e si incamminò verso il piano superiore, seguito da Kaori e dalla donna, che teneva la giovane sweeper sotto tiro. Sotto ai loro piedi, sinistramente, gli scalini cigolavano, quasi fossero stati decrepiti, e le luci si accesero e spensero, da sole, ancora e ancora e ancora.  “Ma che diavolo…”

“Ti avevo detto di stare lontano dai miei ragazzi…”  Una corrente d’aria fredda li colpì, mentre una voce, quasi un'eco proveniente da lontano, rimbombava, ovattata, tra i muri dei corridoi dell’abitazione, e sia Jonathan che la donna presero a rabbrividire. Lei ingoiò a vuoto, e fece un passo indietro, mentre prese a tremare: quella voce, lei e Jonathan la conoscevano bene.

“Ti avevo avvertita…”  I mobili presero a muoversi, le porte a sbattere da sole, mentre la luce si spense e un gelido vento ululò tra le mura chiuse, ed intanto la voce sembrava sempre più vicina, sempre più minacciosa.  

La donna sobbalzò, quando avvertì qualcosa sfiorarle il collo, ma quando si voltò nella penombra, non vide nessuno, nulla. Chiuse gli occhi, prese un profondo respiro. Doveva controllarsi, rammentandosi gli insegnamenti del padre di Cameron e Jonathan – la magia non esisteva, era tutta un’illusione a cui la gente voleva credere… e lei, a quelle cose, non voleva crederci, assolutamente. 

“Perché sei così ostinata? Non capisci che non puoi battermi? Non puoi battere loro- i miei figli? Loro sono meglio di te!” La voce la schernì. La donna del mistero si voltò, e fu allora che lo vide, e si lasciò quasi cadere a terra. 

Stava camminando verso di lei, alto, imponente, bello e affascinante proprio come lo ricordava, impeccabile nel suo costume di scena, con un sorriso furbo stampato sul viso, a prendere in giro chi gli stava intorno, la figura non definita, vaga, quasi fosse avvolto dalla nebbia. 

Sebastian Black: il padre dei gemelli. L’uomo che l’aveva rifiutata, che l’aveva scacciata. Che l’aveva fatta sentire piccola, inutile. Indegna. 

L’uomo che ormai da molti anni era passato a miglior vita, stroncato da un infarto sul palco, nel bel mezzo di un numero.

“Ma cosa diavolo…” Lei lo minacciò, denti stretti mentre faceva un passo verso di lui, che camminava nella direzione della giovane donna a braccia spalancate, con quel maledetto sorriso sul volto – un sorriso falso come una banconota da quaranta Yen, un sorriso che l’aveva illusa.

Lo sappiamo tutti, no? Lo spettacolo, dopotutto, deve continuare…” Lui ridacchiò, incombendo su di lei come un feroce predatore assetato di sangue. “E chi meglio di me per farlo? L’erede di Alistair Black, membro di Corpus Vale(1) per diritto di nascita… “ 

Mentre Jonathan si irrigidiva, la donna prese a guardarsi intorno, in preda al panico e alla rabbia. Era impossibile, però… quello che lui stava dicendo, la portava indietro nel tempo, a quando era stata solo una ragazzina, e le riaprì ferite mai del tutto rimarginate nel cuore, che ripreso a sanguinare copiose.

“Sei solo una ladra, figlia di ladri, ed il tuo posto è in galera, non in Corpus Vale con i miei figli!” 

Ormai, lo spettro era lì, davanti a lei, etereo nella sua macabra apparizione, crudele con le sue parole, pugnali che la ferivano con ogni singola sillaba.  La donna strinse i denti, ed alzò la pistola, il braccio che tremava, quasi fosse stato scosso da convulsioni, quando capì cosa lei volesse fare, Jonathan si staccò dal muro, e fece un balzo nella direzione di lei, afferrandole l'avambraccio. 

“Ma sei impazzita?!” La redarguì, ringhiando come un cane inferocito, strappandole la pistola di mano. “Vuoi ammazzarci con un colpo di rimbalzo?”

“Ridammela, ragazzino!” Lo rimproverò, nonostante Jonathan avesse pressappoco la sua stessa età, riprendendosi con un gesto stizzito la pistola, che prese a muovere nell’aria, verso Jonathan e la sorridente figura spettrale del di lui padre. “Voi Black siete tutti uguali, col cuore tenero. E vostro padre diceva a me che ero indegna! Io! Voi non valete un decimo di lui, come illusionista e come ladro!”

“Hai ragione, noi non siamo come nostro padre, anche se ho seguito troppo a lungo il suo esempio.” Sentì una voce dire dietro di lei, e quando si voltò, trovò Cameron, in piedi, nel bel mezzo del corridoio, apparso dal nulla, con la collana che gli ciondolava dalla mano destra, la sinistra che stringeva quella di Kay, che guardava Jonathan quasi lo volesse sfidare; Cameron evitava gli occhi della donna che lo aveva messo contro il suo gemello, specchiandosi nello sguardo di Jonathan, perdendosi in esso, quasi loro due fossero gli unici due esseri presenti lì, in quel momento. “Ho sbagliato Johnny, in tante cose. Ma di una cosa non mi pento: di essermi fidato di Kay, della squadra. Dei nostri amici.”

Lasciò andare la mano della donna amata, e percorse i pochi passi che lo dividevano dal fratello. I due Black si fissavano, andandosi incontro, camminando in modo quasi speculare, i due lati opposti della stessa medaglia, fino a che non si trovarono l’uno davanti all’altro, così vicini da essere indistinguibili, così vicini da poter avvertire l’uno il respiro dell’altro, vedere le pagliuzze dorate dei loro occhi azzurro-verdi.

“Non mi pentirò mai di essermi sempre fidato di te, fratellone. Di averti creduto. Sempre.”  Sorridendo, Cameron alzò la collana, la mano sollevata davanti agli occhi. “Anche adesso.”

Jonathan aprì il palmo, posizionandolo davanti a Cameron, attendendo che il gemello vi lasciasse scivolare sopra il cimelio, continuando a fissarsi negli occhi, senza battere un solo ciglio. La donna misteriosa sorrise compiaciuta, un sorriso tirato e folle, enorme, isterico e innaturale, e si mise tra i due, la pistola puntata contro la tempia di Cameron.

“Finalmente,” rise, mentre gli strappava il gioiello di mano, senza mai abbassare l’arma- facendo, anzi, scattare la sicura, il tamburo del revolver che girava, facendo entrare il colpo in canna, pronto per essere sparato. “La chiave per decifrare la mappa di Alistair… nelle nostre mani!” 

“Abbassa la pistola,” Jonathan soffiò, ringhiando a denti stretti mentre, lentamente alzava il braccio per strapparle nuovamente l’arma di mano, e stavolta una volta per tutte. “Non erano questi i patti,  dovevi lasciare in pace Cam!”

“Tuo fratello si è messo in mezzo, io non sono certo andata a puntargli una pistola alla testa di mia iniziativa.” Lei sbuffò, senza dare ascolto al partner, avvicinando il dito al grilletto. “Se l’è cercata. E se non vuoi fare la stessa fine…”

“Fossi in te, non lo farei…”  Sebastian la avvertì, ma lei rise. Non era sciocca, aveva capito che quello era solo un trucco, che avevano cercato di destabilizzarla, o anche solo guadagnare tempo. E aveva funzionato, almeno per un po’, ma adesso non avrebbe permesso che le facessero perdere tempo: a mente lucida, aveva capito quale fosse il trucco - era un’illusionista anche lei, dopotutto.

“Giochi di specchi e luci, registrazioni di vecchi spettacoli del paparino per l’immagine, magari un computer per la voce… come se non avessi fatto lo stesso numero decine di volte…” Lei alzò gli occhi al cielo, il dito che lento avanzava, inesorabile, verso il suo obbiettivo. “Ti direi che è stato un piacere, Cameron, ma avere a che fare con te e la tua amichetta è stata solo una noiosa perdita di tempo.” 

Cameron chiuse gli occhi, preparandosi per l’inevitabile, mentre Kay, terrorizzata, si sentiva bloccata, incapace di muovere un solo muscolo per andare in soccorso dell’uomo che amava, conscia che quello stesso destino avrebbe atteso anche lei, una volta partito quel primo colpo – e forse, anche Jonathan stesso. 

Il grilletto scattò, e nel corridoio il rumore dello sparo echeggiò sinistro, forte, quasi fosse stato un tuono in una tempesta tropicale; Kay si lasciò cadere a terra, piangendo, urlando il suo dolore, nello stesso istante in cui, a pochi secondi dal primo colpo- o forse solo una frazione di secondo dopo che era partito – un secondo proiettile veniva sparato, e poi un altro ed un altro ancora.

Kay si aspettò il freddo abbraccio della morte. 

Credette che la calda presenza della sorella l’avrebbe accolta nell’aldilà.

Quello che però accadde fu un altro urlo di dolore- quello della donna del mistero, che, accasciata a terra, si stringeva al petto la mano destra, sanguinante, il liquido rosso che gocciolava a terra ritmico, goccia a goccia a goccia.

Si guardò intorno: a pochi centimetri dal capo di Cameron, due fori di proiettile, ed un altro era nel pavimento; alzò gli occhi, e vide, accanto alla figura di Sebastian, vicino a Kaori, Ryo, che puntava all’indirizzo della ladra e assassina una colt Python fumante.

Kay sgranò gli occhi, ancora inginocchiata, la bocca aperta: Ryo aveva deviato il proiettile che quella donna aveva sparato a Cameron col primo colpo, col secondo colpo l’aveva disarmata, e col terzo aveva allontanato la pistola - era davvero degno della sua fama, della leggenda di City Hunter.

“Ti avevo avvertita…” Lo sweeper sussurrò, con voce determinata, la voce che pareva venire da lontano, identica a quella di Sebastian, mentre Kay con uno scatto si gettava sull’arma a terra e la afferrava, puntandola verso la ladra che li guardava sprezzante, gli occhi carichi di odio.

“Non male, eh?” Ryo ridacchiò, con la sua voce, schiarendosi la gola e facendo l’occhiolino alla sua compagna, senza mai smettere di tenere sotto tiro anche lui la criminale. “Me la sono sempre cavata con le imitazioni!”

“Ebbene sì, maledetto City Hunter(2), hai vinto la battaglia” La donna rivolse lo sguardo a Jonathan, che stava in piedi a fissarla, la mascella rigida, quasi da sembrare una linea retta.  “Ma noi abbiamo la collana, e la mappa… la guerra sarà nostra.”

“Io non ci conterei troppo, dolcezza…” Jonathan sospirò, scuotendo il capo, mentre prendeva dalla tasca un foglio ingiallito, ripiegato, e lo apriva davanti a lei, tenendolo sollevato. Da bravo giocoliere, da ottimo illusionista, Jonathan fece un movimento con le mani, chiuse il palmo e quando lo aprì, vi aveva dentro un accendino.

“Ti avevo detto o no che sono molto bravo con le mani o no, dolcezza?” Fece schioccare la lingua, facendo l’occhiolino.

“Non oseresti…” Lei sibilò, furibonda, gli occhi rossi di rabbia. “Quella mappa è la strada per qualcosa che è tuo di diritto!”

 “Guarda ed impara…” Senza distogliere gli occhi da lei, vedendo il terrore crescere negli occhi di quella donna, la rabbia, diede fuoco ad un angolo del foglio di carta che in un attimo fu solo fumo, nemmeno più la cenere sembrava rimanere.

La mappa del tesoro, delle ricchezza nascoste di quei magnati senza scrupoli, non esisteva più, era sparita, e con lei ogni speranza di mettere le mani su quel tesoro.

“No!” Lei gridò, mentre Kaori correva verso di lei, e afferrava la collana, nascondendola nella tasca della gonna. “No!”

“Oh, sì, invece…” Jonathan le sorrise, estremamente compiaciuto con sé stesso. “Ti avevo detto che Cam doveva rimanerne fuori, e che non dovevi nemmeno pensare di torcergli un capello. Non mi hai ascoltato… e io ti ho portato via quello che volevi di più. L’unica cosa che tu avessi mai davvero desiderato.”

“Lo sapevo, Johnny.” Cameron scosse il capo, sorridendo complice al gemello, e lo raggiunse; gli mise una mano sulla spalla, la strinse, poi i due si abbracciarono, quasi avessero passato un’intera vita separati. “Sapevo che mi avevi lasciato indietro per difendermi, come sempre. Scommetto che sei stato tu a farmi portare dal vecchio!”

Jonathan alzò gli occhi al cielo, sbuffando: che Cameron non avesse capito che la sua era stata tutta una finta lo feriva, ma solo un po’ - voleva dire che era degno figlio di suo padre, un grande attore ed illusionista, capace di ingannare chiunque, anche il sangue del suo stesso sangue, il suo stesso gemello.

Nella stanza di Ryo, Jane spegneva il riflettore, facendo sparire l’immagine del padre dei ragazzi, l’uomo che la donna del mistero tanto odiava, e tenendosi a braccetto, Ryo e Kaori si allontanavano, lasciando i fratelli da soli, donando loro quell’attimo di pace, mentre, lungo le scale, si sentiva lieve un ticchettio di tacchi, ed il profumo fiorito, deciso, di Saeko, giunta ad arrestare i colpevoli, si faceva già notare.

“E voi tre, dove credete di andare?” Saeko domandò loro quando li trovò davanti alla porta d’ingresso, apparendo nel medesimo istante in cui Ryo la stava aprendo, occhi sgranati; mani sui fianchi, sembrava parecchio seccata.

“Ispettrice Nogami, che piacere rivederla!” Jane la avvicinò, stringendole la mano destra con entrambe le sue, sorridendole con quella faccia furba e malandrina che sapeva di manipolazione lontano dieci chilometri. “Nessun problema, il caso è chiuso. Se vuole resto, però, sa…”

“Tu non sei qui ufficialmente, lo immaginavo…” Saeko sospirò, riprendendosi con forza la mano e massaggiandosela leggermente – Jane, a dispetto dell’abbigliamento e delle maniere, quando voleva era davvero abbastanza forte. “E voi due, invece? Tagliate la corda così?”

“Non prendertela Saeko, è solo che, sai…” Kaori le fece la linguaccia, sorridendo e scrollando le spalle. “Se dovessero arrivare dei tuoi colleghi, preferiremmo non essere qui…”

“E poi, c’è l’agente Daniels con la tua ladruncola assassina!” Ryo scrollò le spalle con nonchalance, sorridendo con quel suo sorriso grande, disarmante, che a tante donne aveva fatto battere il cuore. “Ti aspettano al piano di sopra!”

Saeko sospirò, ed alzò gli occhi al cielo mentre saliva la scala interna, e percorreva quei corridoi in cui era passata negli anni decine, forse centinaia di volte, cercando l’aiuto ed il supporto di Ryo a volte per un caso a volte per il suo cuore che non sapeva mai bene dove andare.

Arrivata davanti alla donna del mistero, si sistemò una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio, soddisfatta, battendo il tacco sul pavimento, risoluta; incontrò lo sguardo di Daniels, e le fece un cenno di saluto, che l’americana ricambiò, mentre faceva dondolare le manette davanti al viso della sospettata, ancora a terra. 

“Niente nome, quindi, eh? Pazienza, ne faremo a meno…” Saeko sospirò, in modo volutamente esagerato. “Jane Doe(3), in base ad un mandato di cattura internazionale, la dichiaro in arresto con l’accusa di furto con scasso, violazioni multiple della proprietà privata, omicidio, ed immigrazione clandestina. E per quanto riguarda lei, signor Black…” Confusa, prese a guardare tra i due gemelli, incerta su chi fosse quale. “Per quanto riguarda lei, invece, Signor Jonathan, la sua posizione è attualmente al vaglio delle forze dell’ordine, quindi per favore eviti di scappare di nuovo…”

Jonathan e Cameron si scambiarono uno sguardo complice, un sorriso. “Non ci penso nemmeno, agente…. Rimango qui, col mio fratellino.”

(1)Il gruppo di ricchi industriali che, nella storia (e nella serie Deception) assume Alistair Black per nascondere i loro “panni sporchi”.

(2)Citazione (più o meno) di Stanislao Moulinsky, abile trasformista  che nella serie Nick Carter di Bonvi veniva regolarmente smascherato dal protagonista, chiudendo ogni volta l’episodio con la frase Ebbene sì, maledetto Nick Carter!

(3) Jane e John Doe sono i nomi con cui vengono normalmente chiamati nella legislazione statunitense i soggetti senza nome ed identità, siano questi corpi privi di documenti, soggetti che rifiutano di fornire le proprie generalità oppure soggetti colpiti da amnesia. Essendo nella storia il mandato rilasciato dagli Stati Uniti, per la ladra senza nome ho scelto di lasciarle questa identità.

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Capitolo 9
*** Aurora Boreale ***


“Ho una notizia buona ed una cattiva…” Saeko proclamò, con tono civettuolo ed un sorriso smagliante, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, appena entrata dalla porta di casa Saeba-Makimura, dove Jonathan si trovava ai domiciliari in attesa dell’estradizione. "Il magistrato con cui la vostra amichetta ha parlato l’ha presa talmente tanto in antipatia che non ne vuole sapere di scendere a patti con lei… le ha detto che noi Giapponesi non abbiamo certo bisogno di soffiate da sciacquette americane per chiudere i casi!

“Certo, per quello poi venite a chiedere aiuto a quelli come me, perché siete la migliore forza di polizia del pianeta… ma se senza me ed Umibozu nemmeno lo scoprivate che la vostra bella dama senza cuore si chiama Dana Litauer!” Ryo, appoggiato contro il muro a braccia conserte, scoppiò a ridere – ma smise subito, quando scese un tale gelo nella stanza che l’uomo iniziò ad avere i brividi. C’era chi lo guardava stupito, e chi invece, come Saeko e Kaori, che lo stavano polverizzando con lo sguardo, offese e furibonde, nonostante non capisse il perché: aveva solo detto la verità.

Era stato solo grazie al network ufficioso degli sweeper (che bene o male finivano per conoscersi tutti o quasi) e alle dritte della famiglia di Kasumi (che era ben inserita nel giro del crimine a livello internazionale) che, con l’aiuto di quel poco che Jonathan ricordava del suo primo incontro con quella donna (avvenuto quando erano solo due bambini, nella città di Reykjavik) e le scarse informazioni che Dana stessa aveva dato all’FBI quando erano riusciti ad incastrarla la prima volta,  che i pezzi del puzzle erano finalmente andati a posto, e l’intera immagine aveva preso una parvenza di senso.

Dana era nata in quella che sarebbe poi divenuta la Bielorussia sul finire degli anni ottanta,  ed era figlia di Yelena Litauer, ultima erede di una famiglia che aveva fatto del crimine, e del furto in particolare, il lavoro che si tramandava di generazione in generazione. Yelena però era riuscita  dove tutta la sua famiglia aveva fallito prima di lei: aveva creato ed organizzato una banda che colpiva in tutto il Vecchio Continente. E, spesso e volentieri, si era fatta aiutare da Sebastian Black, il padre dei gemelli, per mettere a segno alcuni dei colpi più difficili e spettacolari. 

Sebbene la loro collaborazione fosse stata sempre e solo occasionale, Yelena si era invaghita di Sebastian, e quando avevano intrecciato un breve idillio amoroso, aveva creduto che l’uomo si sarebbe unito alla sua famiglia, che avrebbe fatto da padre a quella bambina, coetanea dei figli, a cui sembrava tenere molto, con cui era dolce e gentile. Yelena si era illusa- e con lei, se non di più, Dana.

Sebastian le aveva raggiunte a Reykjavik, e Dana aveva deciso di parlargli, chiedergli di rimanere con loro. Lo aveva seguito, e solo allora aveva scoperto la verità: Sebastian non aveva bisogno di farle da padre, perché padre lo era già. Lui era andato in città per rubare: ma la scusa, la copertura, era uno spettacolo di magia – in cui i protagonisti indiscussi erano lui ed il suo adorato figlio. 

Dana era uscita di casa per tutte e cinque le serate dello spettacolo, rimanendo dall’inizio alla fine; l’ultima sera, poi, aveva  raggiunto il giovane Black nel backstage, e avevano parlato. Giocato. Guardato il cielo illuminato dall’Aurora Boreale. Fino a che non era arrivato Sebastian, che invece di accoglierla a braccia aperte come Dana aveva creduto, l’aveva scacciata, buttata fuori dal teatro come fosse spazzatura. 

“Questo non è il tuo posto. Non sei mia figlia. Non sei un’illusionista, o una maga. Nel migliore dei casi, sei una futura criminale, e se non vuoi che ti faccia finire in galera come il resto della tua famigliola, uscirai dalla mia vita e da quella di mio figlio.”

Con poche parole, Sebastian le aveva fatto odiare tutto – la sua famiglia, se stessa, suo figlio – e lei si era ripromessa di non permettere mai più a nessuno di farla sentire così. Di fargliela pagare.

E così, si era messa d’impegno, era diventata una ladra brava come sua madre. Un’illusionista all’altezza del grande Sebastian Black. E intanto aveva architettato il suo piano: rovinare la vita di Cameron e Jonathan, fare capire loro che nonostante le belle parole del padre anche loro erano solo degli scarti, che alla prima occasione avrebbero tradito coloro che dicevano di amare, e l’un l’altro.

Ed il resto, come si soleva dire, era storia.

“E la cattiva notizia?” Kaori riportò tutti al presente e alla spinosa situazione in cui, bene o male, ancora si trovavano, ponendo la fatidica domanda a Saeko, sporgendosi verso di lei, che nel frattempo si era accomodata sul divano, accavallando le gambe avvolte in un tubino color lavanda. 

“Senza accordo non parla, ” Saeko si lamentò. “E non ha intenzione di dire dove tiene le prove per scagionare Jonathan.”

“Ci deve essere qualcosa che possiamo fare…” Kay si lamentò, alzandosi a sua volta dalla poltrona su cui si era seduta, mentre camminava a passo spedito e nervoso per la stanza. Si fermò, e fissò, disperata, i gemelli Black. “Perché non ce ne andiamo? Cerchiamo un qualche posto senza estradizione! Jane lo ha fatto…”

“Non è una bella vita, Kay….” Il mentalista intervenne. “Mi guardavo comunque le spalle, ogni momento, e non avevo nessuno – e non facevo che pensare a Teresa, perché quando sono scappato sapevo che non avrei mai potuto portarla via dalla sua famiglia o dal suo lavoro e di seguirmi.”

“La mia famiglia? Cameron è la cosa più simile ad una famiglia che ho, e sinceramente, dopo che il mio capo ha preferito aiutare una ladra e assassina piuttosto che la persona che le stava permettendo di fare carriera, beh, non sono nemmeno certa di volerlo ancora, quel lavoro!” La cadenza dei suoi passi si era fatta più frenetica, il passo pesante, il tono feroce – eppure certo. Cameron la guardò con dolcezza ammirazione, cogliendo quanto in quel momento Kay fosse onesta. Come avesse appena ammesso di amarlo, che lui era tutto ciò che lei aveva - di cui le importava-  seppure usando altre parole. “Se Cam e Jonathan vogliono scappare… io sono con loro!”

“No, senti, avevate ragione voi. Io sono abbastanza duro e furbo da sopravvivere in galera,” Johnny continuò, mettendosi in piedi davanti a Kay e guardandola negli occhi. “Troverai un modo. Stavolta voglio fidarmi di te. E di Cameron.” Camminando, si massaggiò la mascella, leggermente gonfia, ancora arrossata.

“Lo sapevo, Johnny.” Cameron scosse il capo, sorridendo complice al gemello, e lo raggiunse; gli mise una mano sulla spalla, la strinse, poi i due si abbracciarono, quasi avessero passato un’intera vita separati. “Sapevo che mi avevi lasciato indietro per difendermi, come sempre. Scommetto che sei stato tu a farmi portare dal vecchio!”

Mentre Cameron lo stringeva in un caloroso abbraccio, a cui il più freddo Jonathan rispose con delle timide ed impacciate pacche sulla schiena, il galeotto alzò gli occhi al cielo, sbuffando: che Cameron non avesse capito che la sua era stata tutta una finta lo feriva, ma solo un po’ - voleva dire che era degno figlio di suo padre, un grande attore ed illusionista, capace di ingannare chiunque, anche il sangue del suo stesso sangue, il suo stesso gemello.

Cameron si scostò, e prese un profondo sospiro prima di lanciare un gancio al fratello, che neppure provò a difendersi o a farsi da parte. 

“Ma che…” si limitò a dire, massaggiandosi la mascella dolorante.

“Ehy, vuoi trattare male me? Nessun problema, me lo merito. Ma Kay avresti dovuta lasciarla fuori da questa storia.” Con aria truce, ma letalmente seria, offrì la mano a Jonathan, che la accettò, stringendola nella sua.

Ridendo e sorridendo, i due fratelli si abbracciarono, quasi fino a diventare un tutt’uno.

Di nuovo il silenzio cadde tra quelle mura, mentre i presenti riflettevano su come aiutare il ragazzo, cosa fare – e se il suo gesto fosse dettato da senso di colpa o effettiva fiducia, non tanto verso le istituzioni quanto verso il fratello e la donna che questi amava.

“Siamo certi che il video esista davvero?” Jane urlò dalla cucina, dove, come era suo solito, si era accomodato per prepararsi una tazza di the, incurante di essere un ospite. “Lo avete mai visto o le credete sulla parola?”

“Visto,” I gemelli Black risposero all’unisono, prima che solo Jonathan prendesse la parola. “Lo teneva su un computer portatile, ma lo ha cancellato appena me lo ha fatto vedere. Ma diceva di avere altre copie.”

Si voltarono verso Saeko, che scrollò le spalle: non avevano trovato nulla sui dispositivi della donna. 

“Troppo semplice e banale per una come lei tenere tutto sul computer….. no, alla nostra Dana piace avere il controllo della situazione. Secondo me….” Jane iniziò, mentre faceva decantare la bustina nell’acqua calda, quasi bollente, che aveva versato nella tazza di ceramica azzurra su cui svettava, a grandi lettere, il nome del padrone di casa. “Secondo me, lei se le teneva vicine, le informazioni a cui teneva di più, le più preziose.”

“Pensateci bene…” Si sedette sul divano, davanti ai gemelli Black, e prese a tuffare a ritmo cadenzato la bustina nell’acqua, una, due, tre volte. “C’era un posto in cui avrebbe potuto nascondere quelle informazioni? Qualcosa a cui Dana teneva, da cui non si separava mai…”

Cameron e Jonathan si scambiarono uno sguardo carico di significati, in silenzio, poi Jonathan guardò nuovamente Saeko. 

“Gli oggetti personali di Dana, li conosce, li ricorda?” La incalzò.

“Meglio, ho questo.” Saeko tirò fuori il telefono, e richiamò alcune foto fatte sulle scene del crimine; in una, appoggiati su un tavolo di metallo ed etichettati uno ad uno, gli effetti personali di Dana, ciò che le avevano trovato addosso.  “Qualche idea?”

“Ma come, Saeko, davvero non lo sai?” Ryo ridacchiò, mentre si avvicinò ai due gemelli e scrutava, da dietro le loro spalle, lo schermo del cellulare dell’amica. “I ragazzi hanno capito esattamente dove stanno le prove!”

“Le prove dell’innocenza di Johnny, insieme a chissà quanta altra roba appetitosa… chissà a quanti altri ha tirato lo stesso giochetto…” Cameron sorrise, compiaciuto; sollevò il telefono ed ingrandì la fotografia, zoomando su uno degli oggetti trovati addosso alla ladra. 

Apparentemente, una cosa semplice, comune, che si trovava ovunque: un rossetto di Chanel, l’astuccio nero, lucido, su cui brillavano in vernice bianca le due C intrecciate. 

“È qui,” Cameron le disse, soddisfatto, volgendo gli occhi verso il fratello che sentiva finalmente, dopo tanti mesi, dopo quasi due anni, la speranza rinascergli nel cuore, e faceva cenno di sì col capo. “Non si separava mai da questo rossetto, ci giocherellava di continuo. Scommetto quel che volete che c’è una penna USB nascosta lì dentro!”

“Già, e magari ci sarà non solo quello…..” Ryo ridacchiò soddisfatto, e si voltò verso Saeko, che giocherellava fintamente annoiata con una ciocca di capelli. “Scommetto che aveva materiale ricattatorio contro parecchie persone, e magari ci trovi pure qualcosa che la possa inchiodare a qualche altra cosuccia interessante…”

Saeko si alzò in piedi, col sorriso sulle labbra, raggiante ed energetica, e si riprese il suo telefono. Con voce squillante e un gesto da diva, salutò tutti, prima di dirigersi verso la porta d’ingresso. Ryo però la fermò, bloccandola davanti la porta, prima che potesse uscire. “Neanche per idea! Tu da qui non esci fino a che…”

“Fino a  che, cosa?” Gli rispose lei mettendogli un broncio seduttivo, sfiorandogli i pettorali enfatizzati dalla maglietta color salvia, riprendendo quel gioco che avevano fatto per tanti anni, e che ancora ogni tanto lei faceva, nonostante Ryo fosse di un'altra. “Vuoi forse farmi pagare tutti i miei debiti passati?”

“Voglio che quando troverai tutte quelle informazioni, ti ricordi che il vero merito della riuscita della tua operazione è stato nostro, quindi….” Ryo sollevò un sopracciglio, sorridendole sornione. “Quando deciderò di chiederti qualcosa, lo dovrai tenere bene a mente, hai capito?”

Saeko scoppiò a ridere. “Va bene, stallone, come vuoi tu… stavolta vedrò di pagarti tutti i debiti passati, e magari pure con gli interessi!”

Si ricompose, e lo salutò facendogli l’occhiolino, e Ryo scoppiò a ridere: aveva la netta sensazione che sarebbero stati tutti soddisfatti di come le cose sarebbero andate a finire - sempre che tutto fosse andato secondo il piano di Ryo.

Adesso, però, aveva ancora una cosa da fare, un'ultima tappa: una cosa da riconsegnare al legittimo proprietario.

Bulgari Tower

“Dì un po’, com’è che ti sei voluto aggregare, ragazzino?” Ryo prese a schernire, leggermente, Cameron, che,  terribilmente a suo agio all’interno della boutique, si sistemava i gemelli mentre guardava, con un misto di finta noia ed onesta curiosità, le vetrinette. 

“Ti svelerò un segreto, Saeba.” Il ragazzo soffocò una risata, parlottando a bassa voce, in tono cospiratorio. “Dubito fortemente di essere tanto più giovane di te.”

“Davvero? Eppure dimostri parecchio di più di vent’anni!” Ryo scoppiò a ridere, una risata forte, resa ancora più forte dall’espressione corrucciata e scettica di Cameron. "Lascia stare, è una cosa tra Kaori e me, non potresti capire. Comunque, non hai risposto alla mia domanda…”

Cameron scrollò le spalle, quasi lui stesso non avesse esattamente la risposta. Si grattò il collo, a disagio, e prese a guardarsi intorno.

“Allora, cosa vuoi fare, comprarle un regalo di Natale o fare il grande passo?” 

“Io nemmeno lo sapevo che venissi qui!” Cameron arrossì, indisponente, quasi battendo i piedi, mentre Ryo sollevava un sopracciglio, ad indicare che, secondo lui, Cameron lo aveva capito eccome che era da Bulgari che lui stava andando- dopotutto, la collana era ancora in loro possesso, ed era giunto il momento che il gioiello tornasse al suo posto.

“Senti, ragazzino, le cose sono due.” Ryo iniziò, parlando con tono sfacciato e saccente. “O mi sei venuto dietro perché a startene a casa con tuo fratello e la tua ragazza ti senti in colpa, perché pensi di aver deluso tutti, oppure vuoi comprare alla fanciulla qualcosa, ma non sai se farlo perché hai paura che lei pensi che ti devi far perdonare qualcosa…. Ho indovinato?”

Cameron borbottò qualcosa, che Ryo non comprese. Lo sweeper scosse il capo, sospirando rassegnato all’idea che Cameron fosse troppo simile a lui, e che come lui fosse destinato a sprecare gli anni migliori della sua vita lontano dalle conturbanti forme della donna amata, quando intravide, nell’ufficio nel retro, una figura china su stessa, mogia, che non si capiva se si stesse mangiando le unghie o stesse piagnucolando come un poppante – ciò che era lampante per lo sweeper era che il povero cristo se la stava facendo addosso dalla paura, tarchiato com’era da due omaccioni che sembravano usciti da un film di spionaggio di serie C.

Sogghignando, Ryo bussò alla porta, lasciata aperta, e subito Silvestri sobbalzò, tentando di riprendere il suo contegno, grato dell’intrusione.

“Oh, Signor Saeba, ehm….” L’ometto lo raggiunse alla porta, e gli strinse le mani, mentre le pseudo-spie (probabilmente security interna della maison) si allontanavano, anche se di poco, rimanendo a portata d’orecchio. “Eh, ecco, la mostra è stata un successo, la desideravo ringraziare. Grazie ai suoi suggerimenti non abbiamo avuto problemi durante l’esposizione …”

Silvestri abbassò il capo, e sospirò in un modo così plateale che ben più di una testa all’interno del negozio si voltò nella sua direzione.

“Forse che è successo qualcosa, signor Silvestri?” Ryo domandò, più falso di una banconota da quattro dollari, una falsità talmente lampante che Silvestri prese a fissarlo strabuzzando gli occhi. “Cos’è, le hanno rubato qualcosa prima della mostra?”

Silvestri non rispose; si limitò a strabuzzare gli occhi. Non era che non capisse, era solo che gli sembrava quasi irreale ciò che stava accadendo. Nessuno al di fuori dello staff sapeva cosa fosse successo a Serpenti, eppure Saeba lo sapeva, eccome… Ci era arrivato da solo? Aveva sentito delle voci?

“Signor Saeba, io…” si schiarì la gola, e con un fazzoletto si asciugò il sudore dalla fronte. “Ecco, io non so come lei faccia, ma…”

“Una pericolosa ladra ricercata dall’FBI  e dall’Interpol era sulle tracce di Serpenti, ed aveva intenzione di rubarla il giorno dell’inaugurazione!” Ryo bisbigliò, chinandosi verso l’ometto. Gli fece l’occhiolino, poi si mise dritto e si schiarì la gola, e prese a parlare, con un tono di un paio di decibel più alti del necessario, affinché tutti i presenti sentissero cosa aveva da dire. “Eh, signor Silvestri, lei e l’ispettore Nogami siete stati davvero dei geni… far credere a tutti che serpenti fosse stata rubata in modo da far uscire allo scoperto l’organizzazione che l’aveva presa di mira… sì, sì, davvero eccezionale! I ladri la cercavano chissà dove ed invece la collana è sempre stata al commissariato, chiusa in una cassaforte, al sicuro da tutto e da tutti!”

Così dicendo, senza farsi vedere dalle guardie, Ryo tirò fuori dalla tasca dello spolverino il prezioso monile, e lo lasciò cadere nelle mani del gioielliere. Silvestri afferrò Ryo per la manica, lo trascinò dentro lo studio e chiuse la porta forte, facendola sbattere con forza contro il muro, così tanto che scricchiolò.

“Signor Saeba…. Non so come abbia fatto, ma lei mi ha salvato il lavoro! Cosa dico…la vita!” Silvestri piagnucolò, prendendo le mani di Ryo nelle sue e stringendole con forza. “Mi assicurerò che la maison le paghi il giusto, con l’aggiunta di un piccolo bonus, e… e sono in debito con lei! Di qualsiasi cosa avesse bisogno, conti pure su di me Anzi, sa cosa le dico? Scelga un oggetto dal negozio, non importa il valore, offriamo noi, anzi, offro io!!” 

Ryo sghignazzò, soddisfatto, dando delle  potenti pacche sulla schiena di Silvestri, che fecero perdere l’equilibrio all’uomo.  “Beh, di già che me lo dice,  una cosuccia che mi servirebbe ci sarebbe… anzi, ci avevo già messo gli occhi addosso. Avevo pensato di comprarla, ma dato che lei insiste nel volermela regalare…” 

Quasi due ore dopo, Ryo usciva finalmente dall’ufficio di Silvestri, con espressione soddisfatta, e notò che Cameron era ancora lì ad aspettarlo. Aveva messo gli occhiali da sole, e si era stravaccato su un divanetto di velluto verde, dormicchiando mentre le commesse gli passavano intorno, ed i clienti gli lanciavano occhiatacce colme di sdegno. 

“Ehy, ma sei ancora qui?!” Ryo sbottò, dando un calcio alla gamba del divano e facendo traballare l’uomo. “Spero almeno che tu abbia fatta un po’ di shopping o ti sia rifatto gli occhi con le commesse… sono davvero dei bei bocconcini le ragazze qui dentro!”

“Ehm…” Cameron arrossì, mentre si alzava e si sistemava la giacca, camminando a fianco di Ryo al suo stesso passo, nonostante lo sweeper fosse molto più alto di lui. “Ci ho pensato. Insomma, ho riflettuto. Su cosa mi hai detto.”

“In realtà, io ti ho solo fatto una domanda.” Ryo scrollò le spalle, con nonchalance, quasi gli costasse ammettere di essere più profondo di quello che voleva ammettere. Si fermarono ad un semaforo, la luce rossa fissa, e le macchine e le biciclette che gli sfrecciavano davanti a folle velocità. 

Cameron si morse le labbra, e fece cenno di sì col capo. 

Ryo era un tipo ermetico, da pochi sentimenti: non gli piaceva parlare, e non gli piaceva ascoltare, ma sapeva arrivare al nocciolo della faccenda con un solo sguardo, e sapeva indagare l’animo umano come e meglio di Jane, forse. 

“Ho fatto tutto il possibile per far uscire Johnny di galera, quindi con lui ho la coscienza a posto. Per quello. Certo, poi ci sarebbe tutta la faccenda degli anni di abusi psicologici di nostro padre, ma mi piace pensare che quando lui ha provato a farmi finire in galera al posto suo siamo stati pari. Ma Kay…” scosse il capo, quasi non credesse nemmeno lui a cosa aveva fatto. “Ero pronto a farle rischiare tutto per tirarlo fuori, quando ho capito che l’FBI preferiva quella donna a mio fratello, a me, e a lei sarebbe andato bene. Lei mi capiva. Mi appoggiava.” Fece una pausa, e si voltò verso Ryo. “… e lo farebbe ancora oggi.”

“Quindi, il nocciolo della faccenda è….”

“Il nocciolo della faccenda è che mio fratello ed io siamo pari.” Ryo lo guardò, scettico. “Davvero. Io non l’ho difeso da papà e lui mi ha… metaforicamente parlando, piantato il coltello nella schiena.”

Il sopracciglio di Ryo raggiunse nuove altitudini, mentre lo sweeper scrollava le spalle. “E con Kay come la mettiamo?” 

“Ho una mezza idea di passare il resto dei miei giorni a farmi perdonare da Kay.” Cameron scrollò le spalle e sorrise: il tono era così pacato, normale, sembrava quasi parlasse del tempo, e non del rivoluzionarsi la vita. “E avrò molto tempo per riflettere su come fare. Considerato che nemmeno l’FBI mi vorrà più dopo la bravata di Johnny, e che il pubblico ci ha messo tipo tre secondi a dimenticarsi della mia esistenza, il tempo non mi mancherà.”

“Io non ci conterei troppo,” Ryo lo stuzzicò. “Il giochetto del cane ha fatto parlare parecchio di te, e comunque, peggiore dei casi, puoi sempre chiedere a Jane di mettere una buona parola per te con i federali… quello potrebbe perfino vendere ghiaccio agli eschimesi!”

Cameron scrollò le spalle; con le mani in tasca, giocherellò con le scatole che vi custodiva, gli acquisti effettuati da Bulgari. La più lunga e sottile era per Johnny, una penna stilografica per rimpiazzare quella del bisnonno, andata persa, mentre l’altra, un cubo, era per Kay: non un anello, perché per quello era presto, ma due portachiavi – per la casa, o l’appartamento, che sperava avrebbero presto condiviso. Quello di Kay? Magari - di certo, per cominciare sarebbe andato bene, soprattutto visto che, prima di partire alla ricerca di Johnny, Cameron aveva avuto la brillante idea di dare fuoco alla dimora ancestrale della sua famiglia.

“Un consiglio da uomo a uomo su come procedere….” Ryo gli diede una gomitata nel costato. “Appena arrivati a casa, falle avere un vestito da urlo, i suoi fiori preferiti, la inviti a cena in un bel posticino e le apri il tuo cuore… e vedrai che andrà tutto bene!” Gli fece l’occhiolino, sperando che seguisse il perfetto consiglio di Jane, che con entrambi aveva funzionato – più che bene.

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Capitolo 10
*** Una nuova alba ***


Epilogo

“Sai, quando pensi la tua mente fa così tanto rumore che mi sembra quasi di sentire gli ingranaggi che girano…” Kaori rimase così spiazzata dall’affermazione di Ryo che subito smise di fare ciò che stava facendo- ovvero far scorrere le lunghe dita affusolate tra i capelli neri di lui, che aveva posato il capo sul grembo della compagna. 

“Eh?” La donna sbatté le palpebre, boccheggiando quasi fosse stata un pesce, e lui si girò nell’abbraccio di lei. Era la mattina di Natale, loro erano nudi a letto, si erano appena svegliati dopo essersi addormentati affaticati ma appagati per il lavoro svolto, per la soddisfazione di aver portato a termine con successo un altro incarico – e dopo essersi amati con intensa dolcezza, e reverenziale ardore.

“Sì,” Ryo si mise seduto davanti a lei, gambe incrociate, e le sfiorò la fronte con l’indice destro. “Sento le rotelle che girano, proprio qui. Allora, mi vuoi dire cosa c’è, ciccina?”

Al sentire quel soprannome, lei scoppiò a ridere; teneva il lenzuolo aderente alle sue forme, a proteggere il suo corpo, che veniva scosso dalle risate al ricordo di quando Ryo aveva preso a chiamarla proprio così… tanti anni prima, lo aveva fatto per prenderla in giro, atteggiandosi in quel modo sciocco e ridicolo per mascherare un’attrazione che sentiva sempre più forte, giorno dopo giorno, e adesso…

Adesso, lo faceva perché non c’era nulla di più bello di sentire il suono della risata di Kaori che risuonava tra le pareti della loro casa. 

La donna si appoggiò contro la testa del letto, e Ryo le prese i piedi tra le mani, massaggiandoli; non era in grado di staccarle gli occhi di dosso, era come se il suo sguardo fosse incatenato a quello di lei. 

Sorrise: Jane aveva ragione. Era da qualche giorno che Kaori aveva qualche cosa di speciale, che la rendeva più bella, luminosa, e non solo alla vista, ma anche al tatto, se n’era reso conto lui stesso la notte precedente, mentre facevano l’amore. Perfino le risposte della donna erano divenute più intense….

“Beh, allora, non me lo vuoi proprio dire cosa c’è?” Le domandò, avvicinandosi a lei con il viso, fingendo di metterle il broncio. “Faresti davvero un tale torto al tuo amato Ryuccio?”

Le si avventò addosso e prese a farle il solletico. Il suono delle loro risate, che si coprivano, mischiavano, reverberò tra le pareti, fino a che non sparì nel nulla, nel momento in cui i tocchi si fecero più arditi, più mirati, ed il posto di quel suono fu preso da singulti di piacere, languidi  sospiri e baci.

“Non me lo vuoi proprio dire a cosa pensavi?” Ryo le domandò nuovamente più tardi, quando erano tornati nella medesima posizione in cui si erano trovati quella stessa mattina, appena svegli, e Kaori gli stava baciando la fronte, mentre lui assaporava ad occhi chiusi l’intensa fragranza del profumo naturale di Kaori, che gli annebbiava i sensi e lo faceva sentire vivo e amato e protetto.

“In realtà…” Kaori si morse la lingua, incerta se proseguire o meno; però lo sguardo curioso di Ryo la spronò a finire la frase. “In tutta onestà, stavo pensando a Saeko…”

“Ah!” Ryo scoppiò a ridere. “Devo preoccuparmi perché hai scoperto di essere segretamente attratta dalla nostra bella ispettrice, oppure devo eccitarmi perché hai deciso di provare una cosa a tre?”

“Ma vuoi smetterla di fare il cretino? Guarda che io sono seria!” Kaori ringhiò, spingendolo giù dal letto. Seduto per terra, Ryo prese dal cassetto del comodino un pacchetto di sigarette, e si accese una bionda, inspirandone il fumo ad occhi chiusi – un’azione che fece sbuffare Kaori, che detestava vederlo fumare in giro per casa. “Ieri, quando siamo andati all’aeroporto, vi ho visti che complottavate qualcosa! Allora, cosa c’è, un altro dei suoi casi? Un altro favore? Cosa vuole, stavolta?”

“A dire il vero, stavamo parlando del fatto che ha saldato tutti i suoi debiti passati, e intendo dire proprio tutti, tutti!” Ryo sogghignò. 

“Spero vivamente che lo abbia fatto in denaro e non le sia nemmeno passato per l’anticamera di quel suo cervello da gallina di chiedere altre forme di pagamento!” Lei grugnì, irritata. Per quanto nel corso degli anni la sua opinione di Saeko fosse migliorata, e sapesse quanto la poliziotta fosse stata importante per Hideyuki, c’era un pizzico di rancore per le libertà, gli atteggiamenti che nel corso degli anni aveva tenuto con loro, il modo in cui aveva usato il suo sex appeal per manipolare Ryo – che tanto innocente non era, perché lui ci era sempre stato al gioco di lei, nonostante sapesse sotto, sotto, che Saeko non si sarebbe mai concessa per davvero.

“Eh, no, niente denaro, Sugar- la nostra cara Saeko ha pagato in natura!” 

 “Quella stronza poco di buono!” Esclamò senza mezzi termini. Si alzò in piedi, una furia, dimentica della propria nudità, il suo viso una maschera di rabbia che non pareva volersi sopire. “Cosa ti ha promesso? Sesso? Palpatine? Di farsi vedere nuda? Foto porno? Dimmelo!”

Il gruppo di sweeper e Saeko guardarono l’aereo, su cui erano saliti i fratelli Black e Kay, alzarsi in volo, destinazione New York, dove  avrebbero passato il natale con le persone care, ripreso in mano le redini della propria vita -  tutti, tranne Dana, ancora ospite delle carceri Giapponesi, in attesa di essere estradata per i crimini le cui prove erano state trovate all’interno della pen drive nascosta all’interno del rossetto di Chanel che lei aveva custodito gelosamente.

“E così, Jane se ne va di nuovo… e stavolta si porta dietro tutti e tre i suoi amichetti… quasi non ci credo che sia riuscito a ripulire la fedina penale di quei due!” Saeko scoppiò a ridere mentre lo diceva, celando le labbra imbellettate dietro a un’apparente delicata mano dalle unghie smaltate di accattivante rosso.

“Già…” Ryo sospirò, mani in tasca dei pantaloni. “E Cameron e Jonathan si stanno riavvicinando… e se il mio istinto non mi tradisce, presto verremo invitati ad un matrimonio...o magari ad un battesimo!” Ryo scoppiò a ridere, mentre Saeko sorrise; stavano uscendo dall’aeroporto, e Ryo, come spesso accadeva in quel luogo, era piuttosto pacato, molto silenzioso, ma tuttavia era chiaro quanto fosse teso;  guardava Kaori che, davanti a lui, che scherzava e rideva con Miki e Kasumi. “Sai, sei meno loquace del solito…. Le altre volte che hai messo piede in aeroporto normalmente eri un tantino più agitato!”

“Uhm.” Ryo sbuffò, tirando un sospiro di sollievo appena le porte automatiche si chiusero alle loro spalle, e loro si ritrovarono davanti alla fila di taxi gialli in attesa di clienti. “Pensavo…”

“Ah! Questa è nuova!” Saeko scherzò, guadagnandosi una leggera gomitata nel fianco. “Dai, Ryo, stavo solo scherzando! Allora, cosa ti preoccupa?”

“In realtà, non è proprio una preoccupazione… è solo una cosa a cui ultimamente ho pensato parecchio….” Ammise lo sweeper, grattandosi il collo. Lungo il marciapiede, Kaori aveva afferrato il palloncino rosso che era sfuggito dalle mani di una bambina, e glielo stava restituendo, un gesto che fece sorridere Ryo, che si perse a contemplare quella visione, e non più segretamente, come a lungo aveva fatto con Kaori in passato.

“Ti ricordi quando ti ho detto di tenere bene a mente che se avevi preso Dana il merito era mio, e che avrei preteso un favore in cambio?” Ryo si fermò, e si voltò verso l’amica di lunga data, ostentando una pacata sicurezza che lei non gli aveva mai visto addosso, una tale pace dei sensi che sembrava addirittura irradiarla. “Beh, cara la mia ispettrice, mi duole dirti che pretendo immediatamente il pagamento di tutti i debiti arretrati… e sono certo che la formula di pagamento che ho scelto ti piacerà parecchio!” 

A ricordare la faccia che aveva fatto Saeko, e a vedere Kaori come si stava comportando, e cosa andava a pensare, Ryo scoppiò a ridere – una risata che aumentò a dismisura quando vide quanto Kaori fosse furibonda. Stringeva i pugni, digrignava i denti, gli occhi le brillavano con il fuoco della vendetta, ogni muscolo era pronto a lanciarsi all’attacco di quella che vedeva come una rivale. 

Ere gelosa e possessiva, come era sempre stata, e bellissima.

“Beh, diciamo che centrano delle foto, ma non quelle che dici tu!” Ryo ghignò, mentre allungava il braccio verso il cassetto semi-aperto del comodino e ne estraeva una busta gialla, di quelle solitamente usate per le spedizioni, e guardava Kaori leccandosi le labbra, incapace di distogliere lo sguardo dalla V tra le lunghe gambe da modella, celata da appetitosi riccioli bruni, ed i seni, alti, sodi, dai turgidi capezzoli scuri.

Ma soprattutto, gli occhi, grandi, da cerbiatta: com’era possibile, si era sempre chiesto  Ryo, che un uomo come lui, che nella vita tanto aveva riposto nel sesso, che aveva messo l’attrazione prettamente fisica davanti a tutto, amasse così tanto una donna per quegli occhi, per la porta della sua anima?

Perché è lei, unica e sola, diversa da tutte.

Con espressione dolce ed intensa, Ryo aprì la busta, prelevandone parte del contenuto, e lo offrì a Kaori. Lei prese quegli oggetti in mano, senza proferire parola, sfiorando il tessuto ruvido e la plastica fredda con tocco leggero e titubante, ed il cuore a mille. 

Nella sua mente, tante domande. 

Nel suo cuore, altrettante risposte.

Ritornò a guardare Ryo, col cuore in gola per l’emozione, e lui coprì le mani di Kaori con la sua mano sinistra, grande e calda, che sembrava nata per proteggerla da tutto e da tutti, e strinse le dita fragili della sua compagna intorno a quegli oggetti che per quanto fossero comuni per tante persone, per lui erano speciali ed eccezionali.

Nessuno dei due disse nulla: non c’era bisogno di parole, quel gesto ne valeva per mille, un milione, forse persino di più.

Un certificato di nascita. Un passaporto. Una patente. Una carta di identità. Tutti veri, tutti appartenenti alla stessa persona: Ryo Saeba, nato ad Osaka, di anni 33, residente a Tokyo.

Era così che Saeko aveva ripagato anni e anni di lavoro svolto fino a quel momento gratuitamente: dando a Ryo un’identità, e con essa, la possibilità di costruirsi un vero futuro – di sposarsi, avere figli a cui dare il proprio nome -  al fianco della donna che amava, Kaori.

“Oh, Ryo…” sussurrò lei con le lacrime agli occhi, mentre sentiva il cuore esploderle nel petto per la gioia e per l’amore. 

Questo è il punto di partenza di cui Miki ha sempre parlato.

“In realtà, c’è anche un’altra cosa…. Silvestri era così contento che avevamo salvato il Serpenti e che non avrebbe perso il posto, che si è offerto di darmi qualunque cosa volessi oltre al compenso che avevamo già pattuito, ed io ne ho approfittato, dato che è Natale, anche perché avevo visto una cosina molto carina nel loro negozio, che mi aveva fatto pensare alla mia ragazza preferita…”

Senza alzarsi da terra, Ryo afferrò l’ultimo oggetto contenuto in quella busta – una scatola da gioielleria, marrone, su cui erano impresse in oro le lettere che componevano il nome del loro ultimo cliente. Con un gesto rapido del polso, la aprì, sfilandone il contenuto: un anello. 

Oro giallo, sottile, cinque piccole gemme rosa ovali - pietre dure ma probabilmente non eccessivamente preziose- sempre che lo fossero mai state - erano montate intorno ad un piccolo diamante centrale, a rappresentare un fiore… e Kaori non aveva dubbi che non si trattasse di un fiore qualsiasi. Un fiore di ciliegio: la pianta che fioriva quando entrambi celebravano i propri compleanni. Quello non era certo l’anello più grosso, più particolare o più prezioso che Kaori avesse mai visto, eppure lo sentiva perfetto, suo.

Mentre Ryo le infilava con nonchalance il piccolo anello al dito, senza bisogno di chiedere con parole, senza bisogno di avere risposta a voce, Kaori lasciò cadere quegli oggetti sul materasso, e portò le dita tremanti al viso di Ryo, che accarezzò lentamente, facendo scorrere i polpastrelli sull’accenno di barba.

Ryo si alzò; prese le mani di lei nelle sue, le strinse, le baciò e poi le portò al cuore, senza mai smettere di affondare negli occhi di Kaori. Rimasero così, in silenzio, per molto tempo, semplicemente guardandosi, e beandosi della rispettiva presenza. 

E poi, lei sussultò, quasi avesse ricordato improvvisamente qualcosa, e scosse il capo. Sempre col sorriso. Solo col sorriso. 

“Che c’è?” Le domandò, quasi incerto, con il tono di un ragazzino spaventato e impaurito. “Qualcosa non va?”

“No, no, stavo solo pensando… Eriko ha fatto una linea di abiti da sposa e ce n’era uno davvero bello che mi piaceva.” Kaori arrossì leggermente, quasi ammettere di aver guardato un abito da sposa significasse ammettere che aveva davvero pensato a sposare Ryo, per davvero – un argomento che avevano sì intavolato in passato, ma alla fine mai ripreso, troppo presi dal lavoro, dagli amici, e dalla vita in generale. 

“Però, ecco, insomma…” Dopo una lunga, lunghissima pausa che fece impazzire il cuore di Ryo, Kaori alzò gli occhi al cielo, sospirando rammaricata.

“Però, cosa?” Ryo ridacchio, cercando di capire quali potessero essere le obbiezioni della sua socia. “Guarda che se è una questione di prezzo, Eriko ci deve talmente tanti favori che l’abito se vuoi te lo regala… Anzi, magari riesce pure a far passare la cosa come una manovra pubblicitaria e guadagnarci qualcosa!”

“Ma no, no, non è mica questo, lo so che il costo non è un problema, me lo aveva anche detto che se, insomma, se avessimo mai deciso di, insomma, farlo, lei me lo avrebbe regalato il vestito, ma…” Kaori arrossì, e distolse lo sguardo da Ryo. Si morse le labbra, ed iniziò a farfugliare, le parole che si intrecciavano, impastavano le une alle altre in una sequela apparentemente senza senso. “Ecco, non credo mi cadrà come dovrebbe, quello che mi piaceva tanto, intendo. Non vorrei che non mi stesse bene!”

“Guarda che sei bellissima, Kaori, qualsiasi cosa ti sta da urlo, hai un corpo da modella!” Sguardo da predatore, Ryo si alzò in piedi, e prese a far viaggiare gli occhi scuri, affamati, sul corpo della sua donna, leccandosi le labbra in un modo esagerato, osceno, al limite del pornografico.  Accarezzava i soffici capelli ricci, dal colore tendente al rosso, gli occhi grandi, la bocca piena, carnosa, il lungo collo d’avorio,  il seno sodo, la pancia piatta, la vita sottile, le gambe lunghe e dai muscoli definiti ma senza essere esagerati…

Qualsiasi cosa le avesse mai detto in passato, la verità era e sarebbe rimasta sempre e solo una: nessuna donna lo aveva mai eccitato quanto faceva lei, perché oltre a far ardere il suo corpo, Kaori sola era riuscita ad infiammare il suo cuore. 

“Ehm, no, non è quello che intendo, è che, come dire…” Kaori prese un profondo respiro. Stava cercando le parole, il modo giusto. Il cuore le batteva all’impazzata, per l’emozione sì, ma anche per il timore che lui potesse reagire male all’idea che le cose potessero cambiare tra di loro, oppure che Ryo decidesse che forse lui aveva avuto ragione quando le aveva fatto quel discorso, che un futuro per loro era impossibile, troppo pericoloso, e decidesse di lasciarla, abbandonandola al proprio destino. 

No, si disse. Ryo era cambiato, rispetto ad allora: si era aperto a nuove possibilità, era maturato, cresciuto, e questo perché aveva affrontato i fantasmi del suo stesso passato. Ne era certa: sarebbe stato felice. 

Col sorriso sulle labbra, un sorriso malandrino, da ragazzina, guardò Ryo, mordendosi le labbra. “Potrebbe, ecco, tirare un po’, diciamo.”

“Tirare?” Ryo si grattò il capo: cosa voleva dire? Non riusciva ad arrivarci. Non la capiva- un evento, più unico che raro.

“Credo… anzi, so che la stoffa di quel preciso capo tirerebbe sul seno e sulla pancia.” La voce di lei era forte e chiara, il tono deciso, ma dolce. Carico di amore.

Ancora, Ryo non capiva.

“Ma se sei magra come un chiodo! E ok, il seno è grande, ma non esagerato, insomma, è giusto, proporzionato….” Iniziò a dirle, facendo nuovamente vagare gli occhi, ma stavolta con cognizione di causa, con attenzione. E allora, se ne rese conto, e ne rimase incantato, estasiato. 

Kaori era sempre bellissima, sempre dolce, armoniosa, perfetta, ma… il seno era più florido, e la linea del ventre si era addolcita, anche se solo di poco. 

Gli tornarono in mente le parole di Jane, di qualche giorno prima, e si dette dello stupido: come aveva potuto non capirlo? Come aveva fatto a non accorgersi del miracolo che stava avvenendo sotto ai suoi stessi occhi?

Sei sempre bellissima, Kaori– anzi, ad essere sincero hai un qualche cosa di diverso… non dirmelo, tu…

Sorrise felice, emozionato, il cuore che batteva all’impazzata, ed una sensazione di pace e gioia riempì il suo intero essere: per la prima volta, Ryo pensò che davvero la vita potesse essere bella, degna di essere vissuta.

Soffermò lo sguardo sul ventre della sua compagna – la sua fidanzata, la sua futura moglie – e sfiorò, quasi avesse paura di romperla, la pancia di Kaori, all’altezza dell’ombelico. 

Si sentì come percorso da una scarica elettrica, adrenalinica, forte e determinato come mai era stato fino a quel momento.

“Vuoi dire che tu…. Noi…” Era così emozionato, come un bambino che trovava un regalo sotto all’albero, che non riusciva nemmeno a parlare, le parole non gli uscivano di bocca. 

Un bambino: se glielo avessero chiesto due anni prima, quando lui e Kaori non erano ancora una coppia, Ryo non avrebbe mai concepito la possibilità di desiderare la paternità. Non avrebbe mai creduto che fosse fattibile per qualcuno che apparteneva al loro mondo. 

Un bambino: Ryo lo aveva desiderato, quel figlio, quando aveva visto quanto Kaori fosse felice per la gravidanza della sorella, quanto fosse stata partecipe nel breve tempo che era stato loro concesso, prima che Sayuri decidesse di tagliare i ponti con loro dopo ciò che era accaduto al compagno.

Un bambino: Ryo lo aveva voluto quando aveva visto quei padri che, nelle strade di New York dove avevano passeggiato, aspettavano i loro figli, e giocavano con loro, e Ryo aveva capito che lui sarebbe stato così, e non avrebbe mai trattato un figlio suo e di Kaori – biologico o adottivo – come Kaibara aveva fatto con lui.

Un bambino: un bambino loro, suo e di Kaori.

Lei non gli rispose: si limitò a dirgli di sì, con un cenno del capo, finalmente sollevata da quel peso che si era portata sulle spalle negli ultimi giorni. Dopo che Jane le aveva fatto quel curioso complimento, lei aveva riflettuto su cosa l’uomo avesse voluto dire, e all’improvviso si era resa conto di avere un ritardo. Aveva acquistato due test di gravidanza in due farmacie dalla parte opposta della città, e poi aveva atteso di essere sola a farli, nascondendoli per bene una volta che entrambi avevano dato esito positivo. 

Un bambino loro, suo e di Ryo: nulla avrebbe potuto renderla più felice. Ma lui? Non aveva fatto altro che chiedersi come lui, l’uomo che non voleva una famiglia, che asseriva che non avrebbe mai potuto avere figli, avrebbe reagito alla notizia. Kaori aveva inizialmente previsto anche scenari infausti, litigate, paure, forse anche fughe e rotture, ma alla fine si era ricreduto, ed aveva visto giusto: Ryo era felice. Come non lo era mai stato prima di allora. 

“Avresti dovuto dirmelo…” le disse, gli occhi colmi di malinconia, velati dalla preoccupazione e dalla paura - e dal rimorso. 

Kaori aspettava il loro bambino - eppure, aveva accettato di fare da esca, seguendo il piano di Jane. Le parole del mentalista continuavano a tornargli alla mente, in modo incessante, ripetitivo, e Ryo strinse i denti, quasi incapace di contenere la rabbia: Jane aveva capito. Lo sapeva. 

Eppure, nonostante lui stesso avesse affrontato la sofferenza e la tragedia del perdere la propria compagna, ed il sangue del proprio sangue,  li aveva messi in pericolo, entrambi- Kaori, ed il bambino. Era fortunato ad essere già lontano, perché diversamente, avrebbe assaggiato la collera di City Hunter.

“Ryo, no!” Kaori gli posò una mano nel cuore; lo guardò negli occhi, leggendo esattamente tutto quello che stava passando per la mente dello sweeper, e fece cenno di no col capo, supplichevole. “Non prendertela con Jane, lui non era certo che fossi incinta e comunque sono io che ho accettato di seguire il piano. E comunque…” Abbassò gli occhi, mordendosi le labbra, le gote arrossate, sembrando ancora più giovane dei suoi anni.

Poi, di nuovo, posò lo sguardo su Ryo, occhi negli occhi. Le guance erano ancora arrossate, ma sorrideva, timida, o forse imbarazzata, e il cuore dello sweeper perse un colpo, tanto fu emozionato da quello che vedeva nelle iridi di Kaori. 

“E comunque, ho accettato solo perché sapevo che tu non avresti mai permesso che succedesse nulla. Mi fido di te, Ryo- sempre.”

Ryo le sorrise, e con l’animo in subbuglio, si chinò su di lei. Non condivideva la scelta della compagna- ed era certo che nei mesi a venire avrebbero avuto molte discussioni, perché lui mai e poi mai le avrebbe permesso di rischiare alcunché, anche solo spezzarsi un’unghia ora che sapeva che stavano per diventare genitori, ma per stavolta avrebbe lasciato correre. 

Solo stavolta, però. 

“Grazie, Sugar…” sussurrò mentre le baciava la fronte, ringraziandola con quel gesto per avergli dato un futuro. “Mi hai fatto un bellissimo regalo di Natale…”

Ryo la prese tra le braccia, e la fece volteggiare nell’aria, piroettando nemmeno fosse stato un perfetto ballerino. La strinse a sé, piangendo lacrime di gioia, e le baciò la fronte, come aveva fatto quel giorno tanti anni prima, quando gli aveva imposto il ventisei marzo come suo compleanno. Lei gli aveva dato un nome, un compleanno, un’identità – ed il suo cuore. Adesso… adesso, gli donava il futuro.

Ora era tutto perfetto. la sua vita era arrivata al punto in cui, si sentiva, era sempre stato destinato ad arrivare. Full circle, come avrebbe detto Mick- anzi, come avrebbe detto Jane. 

Strinse Kaori tra le braccia, scoppiando a ridere, mentre il sole sorgeva dando il benvenuto ad una nuova giornata.

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