Hanji's Lab

di Claire DeLune
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il barista bendato ***
Capitolo 2: *** Profumo di lillà ***
Capitolo 3: *** Salsedine ***



Capitolo 1
*** Il barista bendato ***


Ciao a tutti e grazie per aver scelto di leggere questa storia!
È la mia prima fanfiction in questo fandom e la prima che scrivo dopo almeno un paio d'anni di pausa, perciò siate clementi anche se sono un po' arrugginita.
Come avrete intuito dall'intro, i fatti narrati avranno luogo dopo la fine dell'ultimo arco narrativo, perciò potrebbero essere contenuti spoiler per chi sta seguendo solo la serie animata. 

Ringrazio la mia cara amica Federica per la pazienza che sta mostrando nel leggere e redarre i capitoli di questa storia, che prevedo non supererà i cinque capitoli. 

Non voglio farvi indugiare oltre. Vi lascio nelle mani del nostro amato Levi.
Buona lettura!
Claire DeLune

HANJI’S LAB

 

1.
Il barista bendato

   Era una notte buia, l’aria gelida di fine inverno stava mutando in temperature più miti e primaverili, insieme alla ciclicità delle costellazioni che cedevano il passo a un cielo meno ricco di stelle ma più luminoso, grazie all’allungamento delle giornate. La volta celeste sarebbe stata meravigliosa in assenza della pallida luna, se non fosse stata velata da una fitta coltre di nuvole scure e cariche di pioggia. Il vento soffiava forte, i suoi ululati si scontravano sulle spesse pareti in pietra del borgo e, in lontananza, si udiva lo scrosciare violento dell’acqua salmastra che s’infrangeva sui frangionde e l’oscillazione delle imbarcazioni attraccate nel porto.
   È in arrivo una tempesta, pensò Levi, stringendosi nella coperta che gli avvolgeva le spalle, mentre attraversava silente il corridoio addormentato. C’era solo una candela a rischiararlo; la fiammella tremolava ad ogni suo passo, illuminandone di una fioca e calda luce il volto diafano e proiettando inquietanti ombre sulle pareti. Levi le osservò appena, aveva visto scene ben più spaventose nei suoi anni da soldato, immagini che difficilmente abbandoneranno i suoi occhi e i suoi sogni. Gli incubi ricorrenti ancora lo affiancavano come compagni fedeli, convogliando in un’incurabile insonnia che nemmeno con la ritrovata pace sembrava affievolirsi.
   Non era stato facile, per Levi, adattarsi alla nuova situazione. Acclimatarsi con la vita spensierata di Marley, così caotica in confronto alle realtà ancora rurale di Pardis. Si ritrovava spesso perso nei propri pensieri a domandarsi cosa avesse fatto per meritarsi quell’ennesima opportunità di vivere, sereno stavolta.
 
  Sereno si fa per dire.
   Per quanto non fosse minacciato da evidenti nemici, rimaneva comunque un uomo che aveva fatto della guerra il suo mestiere e che ora, come sopravvissuto in terra straniera, era costretto a reinventarsi.
   Era proprio restare a Marley la parte più difficile. Più delle dolorose ferite che lo avevano segnato nel corpo e nello spirito, più della cecità all’occhio destro, era abituarsi all’esilio - perché infondo questo era - che lo affliggeva maggiormente, e alla solitudine che ne derivava.
   Pe merito del sacrificio di Eren i giganti erano svaniti, nelle vene degli eldiani non scorreva più sangue di demone, solo sangue umano, ma le vecchie abitudini, le vecchie paure, le stigma trascinate per secoli, i sospetti, gli asti erano sempre lì, pronti a farsi avanti, ad approfittare di una minuscola scintilla per riappiccare il fuoco dell’odio e trovare nuova vita. Non si potevano cancellare duemila anni di conflitti in un battito d’ali di farfalla.
   Ma a Levi non era rimasta altra scelta se non quella di accettare l’asilo che gli era stato offerto, nonostante in molti avrebbero preferito vedere la sua testa conficcata su una picca. In primis a Paradis, caduta nelle mani degli Jeageristi, per i quali l’ex-soldato non rappresentava altro che un traditore. Qui non gli era rimasto nessuno per cui valesse la pena combattere all’infuori della sua unica consanguinea ancora in vita, ma Mikasa avrebbe solo sofferto se lui fosse ritornato in patria. In quanto entrambi Ackerman, la presenza di Levi avrebbe messo in serio pericolo la giovane e la famiglia che si stava costruendo con Jean.
   Perciò sopportava.
   Per proteggerla.
  Perché teneva a lei.
   Vedeva questa fase della sua esistenza come un’espiazione dei propri peccati: per non aver mantenuto la promessa fatta a Erwin fino a quando non era stato troppo tardi, per aver perso i suoi commilitoni, la sua squadra, per aver lasciato andare Hanji incontro al suo infausto destino.
   Levi, intento a scaldare il bollitore sul fornello, sentì una fitta all’altezza del cuore, portò in un movimento automatico il pugno destro al petto, «Offrite i vostri cuori», mugugnò in un flebile respiro. Non aveva mai pronunciato quelle parole prima dell’ultimo saluto alla sua cara amica. Un gesto solenne il suo, che tuttavia non fu indirizzato solo a lei, ma a tutti coloro che aveva perso lungo la via, pronto a ricongiungersi a loro una volta adempiuto al proprio dovere. Da allora in più di un’occasione si era ritrovato, spesso inconsapevole, in quella posizione così rigida e cerimoniosa, così al di fuori della sua persona, lui che era sempre stato sprezzante delle formalità e delle gerarchie; però suscitava qualcosa in Levi portare la mano stretta a pugno sul proprio cuore e recitare quella frase, come se gli confermassero che lui aveva fatto parte di un disegno più grande, che nonostante la perdita, il vuoto, i sacrifici, lui aveva onorato i suoi compagni nelle sue gesta, aveva dato loro giustizia e un degno riposo.
 
  Una cosa che soltanto le Mura potevano sapere, era quanto il capitano desiderasse trovare la stessa pace che avevano trovato Erwin e l’annientato Corpo di Ricerca, ma la vita aveva in serbo altro per lui. Come Dante uscito dall’Inferno, anche Levi doveva attraversare il Purgatorio prima di poter giungere in Paradiso.
   Sospirò, versando l’infuso alle erbe nella tazza, poi la prese in entrambe le mani, andò in salotto, si sedette sulla poltrona accanto alla finestra che dava sul porto e, nel suo solito modo sgraziato, se la portò alle labbra sottili.
   «Capitano, beve troppo tè, per questo non dorme», lo rimproverò bonaria Petra una mattina in ufficio, accortasi che il superiore era rimasto in piedi tutta la notte a compilare rapporti. Affermazione cui a suo tempo rispose con un grugnito, ma in quel momento il ricordo fece comparire l’ombra di un sorriso sul suo viso provato. Era proprio questo il punto. La teina lo teneva vigile ma lo sapeva anche rilassare, era l’unica cosa che lo aiutasse ad azzerare almeno per un’irrilevante frazione di tempo la mente. E se la conseguenza era l’allontanamento dal sonno e dai visi dei suoi cari che tornavano a perseguitarlo, tanto meglio, ne avrebbe abusato quanto più possibile, perché per quelle due o tre ore in cui effettivamente dormiva, era così distrutto da riuscire a bearsi di un riposo privo di sogni.
   Privo di rimorsi.
   Guardò fuori dalla finestra, il suono della pioggia che picchiettava sul vetro lo distrasse dal suo rimuginare incessante e apparve stranamente rivelatore, come se gli stesse ricordando che era ormai tempo di concludere un lungo oscuro capitolo della sua storia, di mettere da parte i sensi di colpa, in favore della costruzione di una neonata armonia, insieme alla nuova famiglia che lo aveva adottato.
   Certo c’era molto lavoro da fare, per i marleyani, così come per le altre popolazioni. Non sarebbe stato facile non guardare più agli eldiani come a dei mostri, ma le mura dei quartieri di internamento erano state abbattute, le fasce al braccio gettate e questo era già un gran passo avanti per il genere umano.
   Lo scricchiolio delle assi del pavimento fecero scattare la testa di Levi in direzione della porta, sulla soglia trovò un ancora mezzo addormentato Falco, ma abbastanza sveglio da grattarsi nervosamente la nuca in un gesto impacciato di scuse.
   L’uomo arcuò scocciato un sopracciglio. Una conseguenza dell’essere in esilio a Marley era l’essere costretto a convivere con i due mocciosi dell’ormai sciolto Corpo degli Aspiranti Guerrieri, unica sua consolazione in questa esistenza di solitudine lontano da casa - cosa da cui ben si guardava dal rivelare -, custodia che condivideva con un terzo coinquilino ben più maturo e sopportabile: Onyankopon.
   Eppure in quel periodo era proprio quest’ultimo ad irritarlo più di ogni altra cosa.
   Erano giorni che l’uomo alto e slanciato passava il tempo blaterando su un locale in affitto nella zona portuale, che a suo dire sarebbe stato perfetto come negozio da tè e bar, e quella mattina non era stata diversa. Erano le otto, ma era già da più di un’ora che lo pressava e, stranamente, per una volta la sua idea aveva trovato l’approvazione e l’entusiasmo della lamentosa Gabi. Il loro chiacchiericcio aveva ovviamente disturbato il prezioso rituale mattutino con cui Levi cominciava la sua giornata: sorseggiare in tranquillità il suo tè  - ironia della sorte che a rovinare il suo tè fosse un discorso sul tè.
   «Pensaci, Levi», si rivolse nuovamente a lui Onyankopon, gli occhi neri lucidi come biglie di onice, «Un bel locale diviso in due stanze, in una metteremo dei tavolini dove i clienti potranno degustare le tue creazioni e nell’altra un negozio ben assortito».
   «Sì, Levi! I tuoi infusi sono i migliori che abbia mai assaggiato, farà sicuramente successo!», rincarò la ragazza, «Potremmo anche mettere dei tavoli all’aperto nelle belle stagioni. I clienti faranno a cazzotti per potersi rilassare guardando il mare».
   L’ex-soldato sospirò pesantemente, portandosi la tazza ormai freddata alla bocca; fece un sorso, una smorfia di puro disgusto storpiò le sue labbra sottili, mentre analizzava con stizza il suo povero tè ridotto a della mera acqua sporca. Una volta freddo diventava troppo amaro persino per lui che aveva fatto dell’amarezza uno stile di vita.
   «L’odore di salsedine non si sposa col profumo del tè», si rifiutò debolmente. Era al limite della sopportazione, non ce la faceva proprio più ad ascoltarli.
   Gabi sollevò un sopracciglio dubbiosa. Era la prima volta che Levi non riusciva a trovare la giusta scelta di parole per zittirli, Sta cedendo?, si ritrovò a chiedersi speranzosa, O forse è solo stanco?, pensò poi, valutando che probabilmente fosse poco propenso a inutili discussioni, considerando quanto lo estenuassero le intense sessioni di fisioterapia a cui si stava sottoponendo.
   «Già sono cieco da un occhio, non ho nessuna intenzione di farmi trascinare in giro da voi su questa stramaledetta sedia per il resto dei miei giorni!», affermò il giorno in cui comunicò loro di aver trovato un medico disposto a rimetterlo in piedi.
   La convalescenza post-operatoria non fu affatto semplice, se possibile Levi diventò ancora più insostenibile con le sue manie del pulito. Non potendo metterci mano lui stesso alla faccende domestiche, comandava a bacchetta i suoi coinquilini rumorosi, ricordando ancora terribilmente a tutti il capitano del Corpo di Ricerca che viveva in lui e, quando il risultato finale non rispecchiava i suoi standard, il suo sguardo ricordava fin troppo vividamente anche il criminale che era stato nella Città Sotterranea.
   Nessuno osava respirare difronte a quegli occhi affilati come coltelli.
   Come se già di suo non fosse un uomo difficile con cui avere a che fare, il dolore bruciante che la gabbia avvitata alla gamba gli provocava lo rendeva ancora più imprevedibile.  Sapevano che era per il bene di tutti loro se aveva preso quella sofferta decisione, perciò passavano sopra alla sua connaturale scontrosità; Gabi mandava già il boccone anche quando avrebbe voluto sputarglielo dritto in faccia, conscia che non lo facesse per orgoglio, bensì per indipendenza.
   Da un paio di settimane a questa parte la gabbia era stata rimossa, ma la fisioterapia si era intensificata per aiutare le ossa a guarire nel modo corretto. I risultati erano straordinari. Benché ancora necessitasse di una stampella per reggersi, Levi aveva ricominciato a camminare. A passo incerto, ma camminava.
   «Stai bene?”, gli chiese finalmente lei, “Vuoi un analgesico?».
   L’uomo comprese subito a cosa si stesse riferendo e il fatto che la ragazza stesse imparando, giorno dopo giorno, a decifrarlo, da una parte lo emozionò e dall’altra lo irritò, ovviamente prevalse la seconda. Le sopracciglia sottili di Levi si avvicinarono in un profondo cipiglio.
   «No», disse semplicemente alzandosi e poggiando la tazza nel lavello.
   Stava già preparando l’occorrente per lavare le stoviglie quando Gabi commentò, «Non ti troverai mai una donna se continui a fare così».
   Nella stanza calò un silenzio tombale. La ragazza stava entrando in un campo minato in cui nessuno osava mettere piede. Le altre due persone presenti si assestarono sul posto, paralizzati come sentinelle, le braccia anchilosate lungo i fianchi e la paura di chi sa che al minimo passo falso, la bomba sarebbe esplosa sotto di loro, dipinta in faccia.
   «Gabi», sussurrò Falco in un chiaro segnale alla giovane di tacere. Segnale che evidentemente non arrivò.
   «Hai trentotto anni, sarebbe anche ora che ti sistemassi».
   Onyankopon e Falco osservavano la scena in assoluto ammutoliti, le mandibole persero controllo dell’articolazione ritrovandosi inesorabilmente divaricate, i loro occhi rimbalzavano dalla schiena di Levi al viso della ragazza come palline da tennis impazzite, terrorizzati dalla brutta piega che quella conversazione stava prendendo.
   C’erano volte in cui la schiettezza di Gabi superava l’umana comprensione. Quella era una di quelle volte.
   La mano destra insaponata di Levi chiuse l’acqua del rubinetto, la sinistra ripose la tazza sul fondo del lavabo, poi le sistemò entrambe sul bordo del lavello, appoggiando sulle braccia il proprio peso, la schiena rigida e leggermente incurvata in avanti. Era troppo tardi, ancora un paio di secondi e Levi si sarebbe girato come una furia e li avrebbe inchiodati lì sul posto, sempre con quel suo sguardo acuto e sferzante, gli occhi fini ridotti a due fessure e un sinistro lampo omicida ad animarli.
   Tuttavia il capitano fece qualcosa che sorprese tutti. Grugnì e voltò leggermente il viso nella loro direzione, sebbene non abbastanza per poter scrutare la sua espressione. Si strinse nelle spalle e se possibile sembrò ancora più minuto di quanto non fosse già.
   Ripensò a sua madre, a Isabel, a Petra.
   Ad Hanji.
   Alle donne che aveva perso e si disse che non era disposto a perderne un’altra.
   Non gli importava se il lignaggio degli Ackerman si sarebbe estinto con lui, tanto era stato maledetto fin dall’inizio. Non gli importava di invecchiare da solo, in tutta onestà non sarebbe dovuto vivere così a lungo tanto per cominciare.
   «Gabi», la chiamò solenne, «Non c’è nessuna per me».
   «Certo che c’è!”» si affrettò a dire, «C’è qualcuno per chiunque». I suoi occhi castani si posarono timidi sulla figura del giovane biondo poco distante da lei, pronto a farle da scudo dalle grinfie del loro tutore se fosse stato necessario.
   «No, mocciosa, per me non c’è più nessuno».
   La ragazza si azzardò ad avvicinarsi all’uomo che mai come in quel momento si era mostrato così distrutto, così vulnerabile, e gli mise una mano sulla spalla. In un primo momento Levi s’irrigidì ma accettò il contatto.
   «Là fuori c’è qualcuno che sta aspettando di incontrarti. Qualcuno a cui non importerà del tuo passato, da dove vieni, delle cicatrici o se sei basso», marcò quelle ultime parole come se fossero davvero il suo unico grande difetto e incredibilmente gli strappò una risata soffocata, «Meriti di essere felice, Levi».
   «Gabi ha ragione», s’intromise Onyankopon, «Aprire quel locale potrebbe rivelarsi il luogo ideale per trovare la tua persona».
   Quanto è furbo, pensò Levi squadrandolo dalla testa ai piedi.
   Non poteva prevedere quanto le parole dell’uomo fossero propiziatorie.
   «A cosa stai pensando?», osò chiedergli Falco all’improvviso, riportandolo a quella notte buia e piovosa, la voce ridotta a un flebile sussurro per non svegliare gli altri e, per un attimo, credette l’avesse fatto perché il ragazzo lo temeva.
   L’uomo riportò l’attenzione sulla finestra, mentre Falco prendeva posto davanti a lui sul divano, così da poter osservare meglio la sua espressione apparentemente distante.
   «Com’è posizionato il locale?».
   Falco gli lanciò un’occhiata confusa. Aveva sentito bene?
   «Come?».
   Levi schioccò la lingua, «Non costringermi a ripetermi», minacciò come suo solito.
   «Ehm, beh, l’ingresso è nella piazza portuale, proprio davanti alla statua di Helos, con una veranda che dà sul lungomare. Lì c’è abbastanza spazio per mettere dei tavoli durante le belle giornate», fece una piccola pausa, in risposta il capitano gli fece cenno di proseguire, «Il locale è piuttosto grande per allestire una sala ristoro e un negozio, come diceva Onya, c’è anche un laboratorio sul retro, visto che in origine era una pasticceria».
   Levi sorseggiò la sua tisana assorto prima di decidersi a parlare, «Hai impegni domani?».
   «E’ il mio giorno di concedo».
   «Accompagnami a vedere il posto».
   Le iridi verdognole del ragazzo si strabuzzarono piacevolmente sorprese nell’osservare quello che un tempo era stato il suo nemico, ora sua figura di riferimento e modello, «Vuoi andarci davvero?».
   Levi annuì, «Ma non dire niente agli altri, non voglio che rimangano delusi se decido di non imbarcarmi in questo progetto».
   Falco sorrise comprensivo. Si sentiva sempre avvolto da uno strano calore quando Levi mostrava il suo lato protettivo, sebbene a giudicare dall’inflessione con cui parlava poteva apparire semplicemente disinteressato alle opinioni e ai sentimenti altrui.
   «Torna a dormire, moccioso», proruppe dopo un po’ l’altro.
   «Sissignore».

 

✯✯✯

 

   Le procedure burocratiche e l’allestimento del locale rubarono più tempo di quanto potessero immaginare, scoprirono loro malgrado che l’amministrazione maleyana era piuttosto ostica e frustrante, a tratti disfunzionale, ma, quasi a quattro mesi da quando avevano cominciato questo percorso, finalmente potevano dirsi soddisfatti di aver firmato il contratto d’affitto.
   Si erano divisi i compiti in base alle qualità specifiche di ognuno. Onyankopon e i ragazzi, quando non erano all’accademia, si sarebbero occupati del servizio al tavolo, Levi invece della cassa, della vendita dei prodotti e della creazione delle miscele in laboratorio.
   C’era stato qualche battibecco sul nome, ma erano giunti di comune accordo di intitolarlo Hanji’s Lab, in onore della grande donna che aveva cambiato le loro vite.
   Con loro grande sorpresa, nonostante la scontrosità di Levi e il suo aspetto non propriamente accogliente a primo impatto, il locale prese piede velocemente e non era raro che i clienti tornassero a casa con scatoline in latta, dopo aver assaggiato il loro ricco assortimento di tè.
   L’idea di Onyankopon si era rivelata geniale, il tenebroso capitano Ackerman si era riscoperto avere un talento per questa sublime arte. Le foglie triturate e sminuzzate accuratamente erano sempre della perfetta tostatura e il fiuto di Levi, da buon intenditore, riconosceva la giusta composizione floreale, fruttata, agrumata o speziata da abbinare alla qualità di tè scelta, creando connubi inediti dai bilanciamenti impeccabili, tanto che ormai l’Hanji’s Lab era sulla bocca di tutti in città, così come lo era il suo enigmatico proprietario. Tutti a Marley, e non solo, erano curiosi di incontrare l’autore di tali armonie, al punto da guadagnarsi il soprannome Il Poeta, perché questo rappresentava l’esperienza di bere un tè preparato da Levi: pura poesia che solo il palato poteva accogliere.
   Una donna fra tutte era particolarmente intrigata dal capitano stoico, di poco parole e chiaramente a disagio di ricevere tante attenzioni, totalmente estraneo all’effetto che aveva sugli altri. Non la comprendeva quella stima e ammirazione che la gente nutriva nei suoi confronti quando lo denominarono Il soldato più forte dell’umanità e non la capiva tutt’ora che lo chiamavano Il Poeta, anzi, se possibile gli era ancora più impossibile in questa sua nuova veste da barista.
   Ella non perdeva occasione di presentarsi al locale e lanciare qualche occhiata fugace all’uomo di bassa statura dietro al bancone, per nulla intimidita dalla sua postura severa, dal viso impassibile e dalla benda nera che gli copriva l’occhio destro, al contrario se ne trovò affascinata, tanto da essere disposta a comprare tutto il tè del negozio pur ti parlare con lui. Si convinse che doveva pure aver fatto delle figure poco lusinghiere in certe circostanze, con domande banali pur di non interrompere la conversazione che altrimenti sarebbe stata piuttosto stringata.
   «Quanto deve stare in infusione?», gli chiese una volta, alzando un scatola quadrata all’altezza della sua testa che faceva capolino da dietro la spalla, la stampa dell’etichetta ocra riportava lo schizzo di fiori di gelsomino e semi di cardamomo. Anche senza alzare le iridi di nuvola su di lei, Levi avrebbe riconosciuto il profumo delicato e impercettibilmente dolciastro a chilometri. Ma lui la guardò comunque, o meglio la fissò. Fissò dei piccoli frammenti di foglie che abbandonavano l’interno della confezione aperta e cadevano sul pavimento immacolato, mentre lei si girava verso di lui.
   Un sopracciglio di Levi scattò appena e irritato rispose: «Dai tre ai cinque minuti, come tutti i merdosi tè».
   La donna non si aspettò quella rispostaccia, glielo si leggeva dall’espressione meravigliata, ma ciò nonostante abbozzò un sorriso divertito, richiuse la scatola e attraversò lo spazio che separava gli scaffali espositivi al bancone con la cassa.
   «Questo, per favore».
   «A posto così?».
   Ci pensò su un attimo, «Fate tisane per uso terapeutico?».
   «Dipende dall’utilizzo che ne deve fare».
   «Ultimamente fatico a dormire».
   «Posso consigliarle una tisana a base di tiglio e verbena, con rooibos, camelia, liquirizia, cannella e pera».
   «Rooibos?», domandò lei curiosa, il capo leggermente piegato di lato.
   
Levi sbuffò, «È  un tè rosso che arriva dalle terre desertiche, privo di teina per favorire il rilassamento insieme al tiglio e alla verbena», le diede le spalle, aprì uno dei tanti cassetti lungo la parete e con un setaccio raccolse una polverina colorata che rinchiuse in filtri sfusi, «Lo provi per qualche giorno, se non funziona proverò a modificarlo».
   La donna fece per prendere il portafogli dentro la piccola borsetta che le pendeva dal polso, ma con un gesto della mano il capitano la bloccò, «Offre la casa».
   Questo sì che la stupì.
   «Ho sofferto per anni di insonnia, so come ci si sente», chiarì.
   «Ne soffre ancora?».
   Levi annuì.
   «Immagino non si possa scappare dai nostri demoni», rispose lei mesta e per la prima volta il corvino notò un’ombra velarle i solitamente allegri occhi ambrati.
   «Grazie», spezzò il silenzio lei, l’ex-soldato rispose con un cenno del capo.
   La donna si incamminò, i tacchi picchiettavano sicuri sul legno scuro del pavimento. Quando la mano guantata prese la maniglia, si girò e lo guardò dritto negli occhi senza esitazione, i capelli cioccolato incorniciavano il viso di porcellana e labbra color lampone, «Lyra, il mio nome è Lyra», e se ne andò.
   Levi non ebbe il tempo di presentarsi a sua volta, ma non potè fare a meno di pensare che quel nome le si addicesse.

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Capitolo 2
*** Profumo di lillà ***


2.

Profumo di lillà

 

   «Allora?», lo incalzò Gabi all’ora di chiusura, le mani poggiate al bordo del bancone e il busto chino parallelo alla superficie per avvicinarglisi il più possibile.
   Levi ruotò su se stesso, tra le dita stringeva un bicchiere di vetro e il panno con cui lo stava asciugando, lo sguardo gli cadde sul mobile che lo divideva dalla ragazza e schioccò la lingua: lo aveva appena finito di pulire e già glielo stava lerciando con quelle manacce.
   «Allora cosa?», l’apostrofò, lanciandole un’occhiata annoiata.
   La testa di lei si piegò in direzione della veranda e, con un cenno eclatante, indicò la donna ben vestita e dal portamento elegante che sorseggiava il suo tè. Gli occhi, allungati in un taglio felino, correvano frenetici sulle pagine che teneva strette in una mano, di tanto in tanto le sopracciglia dritte e angolate verso l’alto scattavano in un quasi impercettibile tremolio, insieme alle labbra a bocciolo che s’imbronciavano appena, accentuando la lieve sproporzione del labbro inferiore rispetto a quello superiore; quando riponeva la tazza sul piattino, lasciava leggera delle annotazioni ai margini, oppure tracciava cerchi e sottolineature ed era in questi frangenti che la sua fronte si aggrottava in un’espressione corrucciata di pura concentrazione.
   «Non dovresti dirle che stiamo per chiudere?», gli lanciò un ghigno furbo Gabi, le iridi castane scurite dall’ombra delle ciglia lunghe che calavano sugli occhi come drappeggi di un teatro, un angolo della bocca inarcato all’insù, visibilmente compiaciuta.
   «Sta lavorando».
   «Che lavoro fa?».
   «Dottoranda e insegnante all’università qui vicino», dal tono di Levi non traspariva alcuna emozione, ma la giovane sorrise comunque: se non gli importasse, non avrebbe badato a raccogliere informazioni su di lei.
   Tornò ad osservarla, scrutandola da capo a piede piacevolmente sorpresa. Lyra era indubbiamente una bella e giovane donna, dai tratti delicati, l’aria gentile e comprensiva, il fatto che fosse una persona professionalmente impegnata e di cultura erano sicuramente qualità ulteriori che gliela fecero apprezzare ancora di più.
   Perlomeno il nanetto ha buon gusto.
   Ridacchiò sotto i baffi. Non le erano sfuggite le occhiatine argute e allusive con cui spesso spiava Levi, ben accorta dal non farsi notare, non dal diretto interessato per lo meno.
   Arrivava al locale più o meno alla stessa ora, quasi tutti i giorni, da ciò Gabi ne dedusse che venisse dopo il lavoro, probabilmente per rilassarsi. A ogni modo, era sotto gli occhi di tutti che, col tempo, aveva cominciato a trattenersi sempre di più, arrivando addirittura, come quella sera, a rimettersi a lavorare. Inizialmente, la giovane considerò l’eventualità che non avesse uno studio o un luogo adatto dove rintanarsi, tutto, però, cambiò un tardo pomeriggio di qualche mese prima.
   Quel giorno, improvvisamente, il cielo si oscurò, le onde, imbizzarrite, colpivano vigorose il lungomare, e, contro ogni previsione, iniziò a piovere a dirotto, le raffiche di vento erano così poderose da trasportare qualche goccia fino al patio coperto su cui erano disposti i tavolini all’aperto. Onyankopon e Falco sfrecciavano tra i clienti, affrettandosi a chiudere le vetrate, scusandosi costernati per l’imprevisto, e fu proprio in quella circostanza che lo porta-finestra dell’ingresso sbatté e sulla soglia si presentò Lyra. I capelli increspati dall’umidità, l’orlo della gonna, dello stesso rosa delle tuberose, infradiciato, le scarpe zuppe e l’ombrello rotto gocciolante che sporcavano il pavimento d’acqua e terriccio, gli occhi d’ambra liquida ridotti in uno sguardo affranto, le labbra rosee schiuse e piegate all’ingiù, il respiro affannato le faceva alzare e abbassare il petto veementemente. La poveretta doveva aver corso sotto all’inclemenza della pioggia battente.
   «Levi», fu l’unica parola che riuscì a pronunciare, la voce spezzata dal fiato corto.
   Al suono del suo nome, il capitano sollevò l’alzata del bancone e la raggiunse in ampie falcate con un asciugamano immacolato, «Guarda come ti sei conciata», la rimproverò, ma Gabi potè riconoscere un’inflessione inedita nel modo in cui l’ex-soldato modulava la voce. Il tono, che ad orecchie sconosciute poteva suonare aspro, in realtà velava qualcosa di diverso; una sorta di melodia, una morbidezza che non corrispondeva all’immagine che l’uomo dava di se stesso, all’apparenza così spigoloso e scostante, quasi a sfiorare un’aridità di sentimenti, come se avesse rinunciato all’incanto e all’imprevisto in favore di una funzionale vuota efficienza.
   Non era un segreto che Levi trascurasse i rapporti umani - il vero mistero era se lo facesse volutamente o meno - e non lo era neppure che fosse difficile averci a che fare, richiedeva un’enorme pazienza, una comprensione pressoché infinita, ma, se si scavava abbastanza in profondità, se gli si concedeva del tempo per aprirsi e lasciarsi andare, egli era una sorpresa continua, un intero universo da esplorare. Levi divenne il freddo calcolatore che era per necessità, per annichilire la sofferenza, ma sotto sotto conservava ancora un cuore vivo e pulsante, e di ciò nutriva una grandissima paura.
   Se sei privo di sensibilità, niente può ferirti.
   «Scusami, ti ho sporcato tutto il pavimento».
   «Non fa niente», asserì lui, tamponandole il viso per poi toglierle il soprabito, «Accomodati. Ti preparo qualcosa di caldo», tornò dietro al bancone e cominciò a trafficare con bollitori, colini, foglie triturate e fiori sminuzzati.
   Non fa niente…?, rimase di stucco Gabi. Sussultò quando l’uomo la chiamò, ancora stordita da quello scenario così surreale. Per una persona con un evidente disturbo ossessivo-compulsivo quel pavimento non poteva essere niente, era sicuramente qualcosa.
   «Prendi lo straccio», una frase che non ammetteva repliche.
   Ecco appunto.
   A un tratto, il rumore breve e sottile di una penna che, cadendo, toccava terra, strappò Gabi dalle sue elucubrazioni mentali, le iridi castane si scontrarono con quelle di miele dal lato opposto della stanza. Si rese conto soltanto in quell’istante di aver fissato la giovane docente per tutto il tempo e subito si sentì profondamente a disagio sotto a quegli occhi indagatori, il viso le andò letteralmente in fiamme; distolse lo sguardo in tutta fretta e, schiarendosi la gola, proferì: «Noi il nostro dovere lo abbiamo fatto, è ora di tornare a casa».
   «Se vuoi andare a casa, vai. Tra non molto hai gli esami, dovresti studiare».
   La ragazza sbuffò sonoramente, stendendosi sulla superficie lignea al punto da strofinarci sopra una guancia. Levi non poté evitare di digrignare i denti e bofonchiare un’imprecazione di sdegno, le dita strinsero così forte il bicchiere che sarebbe bastato premerlo ancora un poco per romperlo. Il fatto che si fosse trattenuto dall’esternare ciò che gli ribolliva dentro, era tutto merito della presenza di Lyra: in sua assenza il capitano si sarebbe lasciato andare a termini ben più coloriti di un semplice borbottio. Gabi l’avrebbe ringraziata per questo, se alla sola idea di buttarsi sui libri, dopo un estenuante pomeriggio di lavoro, non si fosse sentita drenare di qualsivoglia energia rimastale.
   Però, in un secondo momento, sentì il suo corpo scuotersi frizzante, come se avesse appena preso la scossa, si risollevò di colpo, le palpebre divaricate e la bocca schiusa a formare una O, «Non è che vuoi rimanere da solo con lei?».
   Levi la squadrò per un attimo che parve interminabile prima di decidersi ad aprir bocca, «Non parlare di cose che non capisci, ragazzina».
   «Dovresti invitarla a uscire», proseguì imperterrita l’altra, ignorando totalmente l’occhiata bieca che le stava riservando.
   «E tu dovresti deciderti a dare una risposta a Falco».
   Quelle parole colpirono Gabi dritta al petto con la precisione di un abile arciere e, per la seconda volta in poco tempo, le gote le si tinsero di porpora. Bofonchiò qualcosa d’incomprensibile, le guance gonfie d’aria e le labbra piene strizzate tra loro, mentre oltrepassava la porta che collegava il negozio con lo spogliatoio riservato al personale. Quando se la fu richiusa alle spalle, a Levi sfuggì un sorrisetto vagamente divertito.
   Stavolta fu il turno del barista di occhieggiare la donna, per quanto cercasse di non farlo, distraendosi con altro, non riusciva a farne a meno, si sentiva come calamitato nella sua direzione e, prima ancora che ne fosse conscio, il suo sguardo metallico si era già riposato su di lei.
   Gabi lo salutò in malo modo uscendo, ancora impermalosita dallo scambio di battute di poco prima. Falco l’aspettava fuori come tutte le volte in cui la ragazza aveva il turno serale.
   Non so proprio come fa a sopportarla, si domandò bonario Levi, guardando i due giovani farsi inghiottire dai colori caldi e avvolgenti del tramonto, che già sfumavano nelle prime nuance della notte. Il giovane si assicurò di posizionarsi sul lato di marciapiede che confinava con la strada, come per farle da scudo, in un gesto protettivo e premuroso; di tanto in tanto le sue dita si allungavano a sfiorare quelle dei lei che, istintivamente, rispondevano al tocco ma poi si ritraevano. Gabi era più timida di quel che si poteva pensare guardandola. Poteva essere una vera spina nel fianco alle volte, in più di un’occasione aveva dimostrato mancanza di disciplina e incapacità di leggere l’aria che tirava, ma doveva concederle che fosse una giovane piena di risorse: coraggiosa, tenace, forse un po’ troppo impulsiva, ma l'energia che metteva in ogni piccola cosa era sinonimo di un gran senso del dovere e responsabilità.
   Se Levi l’avesse conosciuta in un contesto diverso, gli sarebbe stato più facile ammettere di aver imparato ad apprezzarla, sia per il suo lato impetuoso sia per quello goffamente affettuoso. Sicuramente la grande somiglianza caratteriale con l’Eren che preferiva conservare nella sua memoria, non lo aiutavano a mettere da parte il rancore che, più sovente di quanto desiderasse, ancora provava nei suoi confronti. Poteva conviverci, tollerarla, giustificarla con la scusa del lavaggio del cervello che le era stato impartito, ma aveva pur sempre ucciso Sasha, un membro della sua squadra, e ciò era imperdonabile.
   La mano di Falco si avvicinò abbastanza da stringere quella di Gabi, in un movimento sicuro a cui, nonostante le proteste, la ragazza si arrese, il viso rivolto altrove per non farsi guardare in faccia.
   L’ex Gigante Mascella doveva amarla davvero tanto.
   Il fischio del bollitore riempì la stanza. In una serie di azioni automatiche lo tolse dal fornello e rovesciò l’acqua fumante in una teiera, in seguito, prese un infusore pulito, lo riempì, lo chiuse per bene e immerse la pallina nell’acqua calda, poggiò il tutto su di un vassoio insieme a due semplici tazze di porcellana bianca, delineate sul bordino da una sottile linea dorata, e s’incamminò. Una volta difronte a Lyra, sistemò le chicchere sul tavolino, ben attento dal macchiare i fogli sparsi per buona parte della superficie, abbandonò il vassoio su un altro tavolo e si sedette.
   Avvertendo il movimento, la testa della donna si sollevò istintivamente, le iridi abbandonarono la carta stampata scribacchiata e oscillarono tra quella ardesia di Levi e la sua mano che avvicinava il tè verso di lei. La labbra le si scucirono in un ampio bianco sorriso. Non erano particolarmente carnose, erano modeste, ma era proprio quel sorriso, così caldo e accogliente, che le illuminava il viso e spingeva gli zigomi alti a sollevarsi, quel tanto da chiuderle delicatamente le palpebre fino a formare due mezzelune, cosicché anch’esse sorridessero, ad ammaliarlo.
   Era dolce il suo sorriso, lo faceva sentire stranamente a suo agio, quasi a casa e questo sì che era bizzarro. Di un bizzarro bello, però.
   Come poteva uno straniero in esilio sentirsi a casa in uno Stato che non era il suo?
   Ma non era solo dolcezza che rivedeva in lei, perché essa si scontrava e mescolava con il taglio dei suoi occhi a mandorla, di quel colore indefinito e con quel guizzo sagace e serafico che, in contrapposizione al sorriso, gli metteva addosso quel genere di disagio piacevole e stuzzicante.
   Attraente era l’aggettivo perfetto per descrivere l’acume che le riempiva lo sguardo.
   Sentiva che Lyra, nonostante non si fosse spinta in gesti eclatanti, gli fosse entrata sotto pelle come nessuna prima di allora era riuscita a fare, a prescindere da quanto ci provasse.
Per la prima volta in vita sua Levi provò quel tipo d’interesse verso qualcuno e, con suo sommo stupore, ne era… Felice?
   Gli piaceva come due parti tanto discordi trovassero una loro armonia in quel volto così trasparente.
   La mimica gioviale di Lyra mutò in una più amareggiata, «Mi sono di nuovo trattenuta oltre la chiusura», si portò le unghie curate a grattarsi una guancia, «Mi dispiace».
   Levi scosse il capo, «Non c’è problema».
   «È che qui mi trovo così bene», spiegò prendendo il manico della tazza, «Quando sono nel mio ufficio è un continuo via vai di colleghi e di studenti che chiedono un colloquio fuori orario. E a casa ho mille distrazioni», prese un sorso poi si umettò le labbra, attirando irrimediabilmente l’attenzione di Levi su quel gesto involontario, «Qui mi sento così… libera», concluse.
   Libertà. Quante volte il capitano aveva avuto a che fare con questo concetto e ogni volta, per ognuno, aveva un’accezione differente. Per Isabel e Farlan era abbandonare i Sotterranei; per Erwin e Hanji le risposte fuori dalle Mura; per Armin era il mare.
   Fu inevitabile ripensare ad Eren, a che cosa l’aveva portato la sua interpretazione del termine e, senza che lo volesse, l’uomo cambiò espressione, di poco, ma abbastanza perché un’acuta osservatrice come Lyra se ne accorgesse.
   «Forse è meglio che vada. Ti ho disturbato già abbastanza per oggi».
   Non ricordava quando i due avessero abbandonato le formalità e cominciato a parlarsi in maniera così colloquiale. Non era l’unica cliente con cui ciò accadeva, ma con nessuno aveva una reale confidenza come con lei, abbastanza da prenderle il polso e invitarla a finire almeno il suo tè prima di andarsene.
   L’ex-soldato si raddrizzò sulla sedia, portandosi la gamba danneggiata perpendicolare al ginocchio dell’altra e afferrò la tazza dal bordo.
   Lyra seguì incuriosita quella serie di movimenti che le parvero non consoni ad un uomo distinto come Levi.
   «Che c’è?», chiese lui per spezzare il silenzio.
   «Mi stavo chiedendo perché bevessi in quel modo. Sembra terribilmente scomodo».
   «È un’abitudine», lei lo fissò come per spronarlo ad argomentare ulteriormente quell’affermazione, di rimando Levi sbuffò ma l’accontentò comunque, «Nel luogo in cui sono cresciuto era difficile procurarsi beni di prima necessità, figurati di qualità. Un giorno stavo bevendo del tè, mi era costato un occhio della testa…», si indicò la benda, «Non letteralmente», scherzò amaro, «Quando sollevai la tazza dal manico, questo si ruppe, la tazza cadde a terra e si frantumò in mille pezzi e il mio prezioso tè si sparse su tutto il pavimento».
   «Un vero spreco», convenne lei.
   «Infatti», annuì di rimando, «Da allora tengo la tazza direttamente dal bordo, così sono sicuro che, anche se si dovesse rompere, non ricapiterebbe di nuovo», bevve e quel suo modo inusuale di farlo lo rese, se possibile, ancora più interessante agl’occhi della docente, «Col tempo ho perfezionato la tecnica per bere senza rovesciarmelo addosso».
Lyra gli riservò un debole sorriso, «È  la prima volta da che ti conoscono che sei così loquace».
   Levi schioccò la lingua sul palato, «È la seconda volta che mi sento dire una cosa simile», affermò, guadagnandosi una risatina cristallina di rimando.
   «Evidentemente gli altri erano troppo spaventati da te per dirtelo».
   «Molto probabile», sorrise sghembo.
   «Cos’hai risposto a quella persona?».
   «La loquacità fa parte della mia personalità». A quelle parole, lei si lasciò andare ad una risata piena e spontanea. Il capo le cadde lievemente all’indietro e qualche ciuffo sfuggì dallo chignon ordinato, rovesciandosi sulla nuca. Tutto di lei era così curato, osservò il corvino, c’era così tanta attenzione nel modo di porsi, nella scelta dell’abbigliamento, nella misura in cui parlava, eppure non dava mai, nemmeno per un istante, l’impressione che stesse fingendo con lui, di fingere in generale, lei era così: genuinamente diligente. Una perfezionista. L’aveva già intuito quando, una delle tante sere in cui si era trattenuta oltre la chiusura, gli aveva raccontato del suo dottorato di ricerca e di come lo stesse svolgendo. La sua meticolosità, la passione che ci metteva nel suo lavoro erano ammirevoli.
   «Avrei dovuto aspettarmelo. È così da te», sentenziò e ciò lo stupì, e non di poco. Come poteva essere riuscita a leggerlo così facilmente se si conoscevano appena? Infondo, la loro conoscenza era basata su piccoli stralci di conversazione tra un tè e l’altro, seduti sempre a quello stesso tavolo. Eppure lo fece sorridere. Di un sorriso vero. Sentì la cicatrice che gli attraversava l’angolo destro della bocca tirare, ricordandogli che da quel lato la sutura gli aveva storpiato il labbro, ma incredibilmente non ci badò, forse perché non vide quei suoi due bei fili di perle spegnersi a sua volta.
   Avvertendo comparire un inizio di rossore a colorargli l’incarnato esangue, Levi si girò e notò, suo malgrado, il cielo volto all’imbrunire. Lyra seguì il percorso del suo sguardo e sospirò impercettibilmente, alzandosi in piedi intenta a riporre i fogli sparsi alla rinfusa dentro una cartelletta.
   «Si sta facendo tardi, è meglio che vada».
   «Ti accompagno», si propose lui.
   La donna rimase bloccata sul posto, gli occhi fissi su Levi che andava a recuperare i soprabiti, «Non ce n’è bisogno, abito qui vicino», sorrise.
   «Insisto», lapidò semplicemente, posando la giacca sulla sedia, «Non è sicuro a quest’ora», aprì bene il trench ciclamino davanti a lei, la quale, ancora sorridente, gli diede le spalle accettando la carineria. Lo allacciò stretto in vita e sistemò la morbida pashmina tutt’intorno al collo sottile. Una volta pronta, il capitano le aprì la porta, la lasciò passare, poi uscì e fece scattare la serratura tre volte.

✯✯✯



   Il tragitto fu relativamente breve. Proprio come aveva detto, Lyra abitava nei pressi dell’Hanji’s Lab, il suo appartamento rimaneva esattamente a metà strada tra il porto e il centro città, dove era situato il polo universitario, giusto un paio di isolati a nord-ovest rispetto al bar.
   Le giornate si erano fatte più calde negli ultimi giorni, con notevoli sbalzi di temperatura, la mattina presto e la sera ancora permaneva un flebile ricordo della frescura primaverile, piacevole nonostante, per quanto ci si stringesse nei cappotti, penetrasse all’interno delle ossa sotto forma di centinaia di microscopici aghi invisibili. Quel tardo pomeriggio, in particolare, era più tiepido del solito, complice la leggera brezza marina che alitava tra le strade di Marley, calpestate solo dai lavoratori che rincasavano.
   Lyra prese una via secondaria sulla sinistra e lo condusse ad un complesso residenziale di recente costruzione, lo si capiva dal perfetto stato dell’intonaco crema e dai profili grigio chiaro intrecciati tra loro a ricreare figure floreali e fitoformi, quasi a ricordare un’edera rampicante che si faceva strada lungo le pareti del palazzo, qua e là farfalle stilizzate riposavano tra le foglie tratteggiate. Anche le finestre riprendevano le medesime linee geometriche in ferro battuto e modellato a disegnare cerchi e ovali concatenati tra loro.
   Per quanto Levi ne riconoscesse la magnificenza dell’ingegno umano dietro a quei ghirigori tanto decoratavi quanto naturalistici, non riusciva ad apprezzare appieno quel nuovo stile che stava prendendo piede in città, soppiantando a mano a mano quello più sobrio ed eclettico che la caratterizzava. Non vedeva armonia in quell’intreccio di fili e fiori, al contrario gli rimembrava quanta poca natura ci fosse a Marley, così fortemente industrializzata e uggiosa, se non fosse per il giogo del mare che ripuliva l’aria viziata e donava un cielo sempre limpido - maltempo permettendo - e per i parchi disseminati in punti strategici, al fine di donare colore a una capitale che altrimenti sarebbe tristemente monocromatica.
   Uno di questi si trovava proprio accanto all’edificio, recintato da una raffinata ringhiera nera, che ancora richiamava a quella semplicità che il capitano tanto agognava. Al suo interno la recinzione era costeggiata da aiuole in fiore dalle quali si alzava un soave profumo di lillà.
   Levi lasciò che gli riempisse le narici: amava quell’aroma. Era per lui un rimando tangibile a uno dei rari momenti in cui si era detto sereno durante l’interminabile assedio dei giganti naturali fuori dalle Mura.
   Gli rievocava un ricordo nello specifico.
   Era entrato a far parte del Corpo di Ricerca da qualche mese ormai, e in quell’insignificante lasso di tempo aveva già perso le uniche persone che fino ad allora avrebbe potuto definire fratelli, e con loro anche tutte le certezze che aveva su quel mondo impari e crudele lo avevano abbandonato. Al seguito di Erwin aveva dovuto fare inesorabilmente i conti con una realtà straordinariamente infausta, tale che, in paragone, le condizioni della Città Sotterranea sembrano quasi impallidire, ma che, se possibile, colmarono il cuore di Levi di un maggiore odio verso l’élite politica infantile, opportunista ed egoista che li guidava. Il degrado dei sotterranei era esclusivamente colpa dell’indifferenza dei grassi porci che li governavano, ma lì fuori c’era qualcosa che andava oltre l’umana comprensione, qualcosa di più grande e misterioso nascosto dietro a quelle espressioni buffe e quegli sguardi assenti, qualcosa che faceva sentire la giovane recluta nel posto che gli spettava nel mondo.
   Dentro le Mura, sebbene sopra di sé ci fosse un cielo infinito al posto di un soffitto di roccia, Levi si sentiva soffocare, una morsa gli si chiudeva lungo la trachea, come se una mano gliela stringesse con tale impeto da impedire all’aria di entrare nei polmoni e irrorare il sangue d’ossigeno; ma quando era là fuori, in groppa al suo nero destriero che galoppava fino quasi allo stremo, con il paesaggio che gli scorreva intorno in scie confuse di verde, marrone, azzurro e bianco, e i rumori della natura si confondevano con lo scalpiccio degli zoccoli, finalmente smetteva di sentirsi oppresso e nemmeno la minaccia dei giganti poteva privarlo di quella precaria beatitudine. Nonostante sapesse che ogni volta sarebbe tornato indietro col lutto nel cuore, non poteva evitare di provare quella trepidazione farsi spazio a gomitate nel suo animo all’idea di varcare il portone di pietra del Wall Maria.
   Athena correva all’impazzata sul terreno scosceso in prossimità di un lago, ad ogni falcata dava forti colpi al bacino di Levi, che faticava ad armonizzarsi con l’andatura incontrollata della sua purosangue in preda al terrore. Avevano scampato l’imboscata di ben tre giganti anomali per pura fortuna, decine di suoi commilitoni erano stati divorati, le loro urla ancora rimbombavano nella mente del giovane che, schivando una titanica mano che tentò di afferrarlo, scivolò giù per una scarpata, ritrovandosi, così, separato dal resto della formazione e senza alcun punto di riferimento a cui appellarsi per rientrare al quartier generale.
   Era salvo, come sempre, ma per l’ennesima volta non era riuscito a salvare i suoi compagni.
   Raggiunse lo specchio d’acqua, smontò da cavallo e lasciò che Athena si abbeverasse e calmasse, mentre egli si guardava intorno alla ricerca di impronte o segni fisici che qualcuno fosse passato di lì prima di lui, sfuggendo ai giganti.
   Nulla.
   Nemmeno una spada spezzata o un brandello di mantello strappato.
   Senza volerlo si doveva essere allontanato parecchio dal campo di battaglia - di sterminio forse calzava meglio alla realtà dei fatti.
   Si accucciò in riva al lago, proprio accanto alla giumenta, e si lavò con veemenza viso e mani, sfregò via quel poco che rimaneva del sangue, in gran parte già evaporato ma che comunque lo faceva sentire sporco. In seguito rimontò in sella, tirò le briglie verso destra e calciò piano i fianchi di Athena, la quale in risposta ruotò fino ad avere la sponda sulla sinistra e trottò, polvere e pietrisco si sollevavano ad ogni colpo di zoccoli.
   Costeggiarono la riva fino a quando i costoni di pietra non si appiattirono nei margini di un’ampia radura, tagliata su un lato dal fiume che alimentava il lago, e che, molto probabilmente, era quello che, all’interno delle Mura, veniva percorso dai battelli. Se la sua ipotesi si fosse rivelata corretta, risalendolo, esso l’avrebbe condotto al sicuro.
   Non vi erano alberi idonei al movimento tridimensionale. Constatarlo diede a Levi un’amara certezza: pur avendo la bombola del gas ancora piena e le lame intatte, senza appigli utili, aveva scarse possibilità di uscirne vivo da quello spiazzo lussureggiante.
   Tuttavia, in quel momento, il pensiero di essere prossimo alla morte non lo attanagliò. I suoi occhi di nuvola, spesso ridotti a due fessure, si strabuzzarono dall’incredulità, al punto che persino Erwin avrebbe a stento trattenuto una risata, se fosse stato presente per assistere alla scena. Un’immensa distesa di migliaia di fiorellini purpurei disposti a grappolo si estendeva a perdita d’occhio, l’intera radura ne era invasa.
   Malva, magenta, pervinca, glicine, viola.
   Le sfumature accese dei fiori in piena fioritura si mischiavano alle tonalità più spente di quelli che avevano già fatto il loro corso e ora volgevano alla fine della loro bellezza. Il profumo dolce e carezzevole lo avvolse, inebriandolo di un’armonia e una pace interiore che mai, dopo la dipartita della madre, era riuscito a trovare.
   Non che ci avesse provato, in ogni caso. Levi era un uomo pragmatico, cinico, che non si illudeva nell’esistenza di un futuro migliore, roseo, e con una marcata predisposizione alla violenza - doveva ringraziare Kenny per questo. Eppure, dinnanzi all’infinita magnificenza della natura, anche lui si dovette arrendere. Qualcosa di bello esisteva per compensare alla crudeltà di quel mondo, un equilibrio.
   Da vero incosciente - aggettivo che mal si sposava con ciò che era Levi - serrò le palpebre, inclinò il capo all’indietro e inspirò a pieni polmoni. Trattenne il respiro più che poté per non lasciarsi sfuggire quell’aroma, poi espirò fino a sentirsi leggero e per la prima volta in vita sua smise di pensare e cominciò a sentire. Quella solitudine aveva il sapore dolceamaro della consapevolezza, della Natura che si rende manifesta nel suo essere contemporaneamente madre e matrigna, e lì, in quella radura, in comunione con ciò che lo circondava, il soldato comprese che non sarebbe più stato lo stesso, che non avrebbe più guardato il mondo con gli stessi occhi di prima.
   Non avere rimpianti, soltanto adesso capiva cosa volesse dire Erwin.
   Per un breve istante accarezzò l'idea di rimanere così, fermo immobile in groppa ad Athena, immerso in tutto quel viola, e che avrebbe potuto farlo per il resto dei suoi giorni, o forse attimi, ma il rumore di uno sparo lo costrinse a tornare coi piedi per terra. Di scatto si voltò in direzione di quel suono, una striscia verde squarciò fumosa il cielo terso.
   Un fumogeno.
   Sembrava distante, ma non così tanto da non potersi ricongiungere alla formazione. Istintivamente mosse i talloni e Athena partì lesta.
   Era salvo per davvero.
   Il cadetto non raccontò mai a nessuno di quel luogo. Per qualche ragione sconosciuta persino a se stesso, preferì conservarlo gelosamente nel suo cuore spezzato, nel suo animo dilaniato, suo unico conforto nelle notti insonni.
   «Un helos1 per i tuoi pensieri», lo richiamò Lyra, scrutandolo da sotto le ciglia lunghe e curve.
   «Mm?», si trovò in contropiede Levi.
   «Eri perso da qualche parte qui dentro», gli picchiettò una tempia, nessuna traccia di fastidio nella voce. Pensò che per un militare doveva essere inevitabile avere momenti in cui la mente vagava nella nebbia di ricordi sconnessi e nefasti. Puoi togliere il soldato dalla guerra, ma non puoi togliere la guerra dal soldato.
   «Mi dispiace».
   La donna scosse la testa accondiscendente, «Non scusarti. Spero un giorno vorrai condividerli con me questi pensieri».
   Lui sorrise e distolse lo sguardo imbarazzato, mentre rifletteva su come formulare il quesito che da un po’ gli passava per la mente. Stare in sua presenza, sotto i suoi occhi attenti di certo non aiutava a spronarlo.
   A un certo punto, però, riprese a guardarla in quei luminosi specchi dorati, la postura dritta e la voce ferma, prese un bel respiro come per raccogliere il coraggio e chiese: «Quand’è il tuo giorno libero?».
   Le palpebre di lei sbatterono un paio di volte, smarrita dalla domanda, «Il lunedì».
   Levi le lanciò un sorrisetto soddisfatto, «Bene, è il giorno di riposo al bar. Ti andrebbe un picnic in spiaggia?».
   Il sorriso che gli riserbò fu abbagliante, «Molto volentieri».


[1] Helos: moneta totalmente inventata da me, ispirata al nome del famoso eroe marleyano.

Note d'Autore
Riciao a tutti quanti!
Questo capitolo è stato sofferto. L'ho riletto e riletto un sacco di volte prima di decidermi a pubblicarlo, ogni volta aggiungevo, tagliavo, poi riaggiungevo e ritagliavo, mi sembrava sempre mancasse qualcosa e allo stesso tempo non fosse mai abbastanza (sicuramente destreggiarsi tra università e lavoro non aiuta LOL).
Nonostante abbia infine deciso di caricarlo, ancora ho qualche dubbio, perciò fatemi sapere cosa ne pensate, ogni feedback sarà prezioso.


A presto, 
Claire DeLune  

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Capitolo 3
*** Salsedine ***


3.
Salsedine

 

   Quel fatidico lunedì arrivò prima del previsto e, altra cosa imprevista, Levi era agitato.
   Non gli fu così semplice capire che fosse nervoso, non era uno stato d’animo a cui era abituato. Una sensazione di malessere lo investì ancor prima che si svegliasse; un mugolio gli sfuggì tra le labbra secche e impastate, la fronte e la nuca gli dolevano terribilmente e, quando riuscì finalmente ad aprire gli occhi, una luce abbagliante baluginò tra le persiane, accentuando il fastidioso mal di testa che minacciava di fargli compagnia per tutta la mattinata.  
   Levi si portò indice e medio a premere sulla tempia, tentando di mettersi a sedere, ma un’improvvisa vertigine lo ricacciò supino sul letto. Grugnì, più per lo stupore che per il mancamento, e si voltò ancora appannato dal sonno in direzione della finestra. Strabuzzò gli occhi nell’osservare i raggi del sole tracciare righe oblique, parallele tra loro, che penetravano nella penombra della stanza. Sebbene non lo colpissero direttamente in viso, se lo protesse con una mano, la vista ancora impreparata a tutto quel chiarore, la bocca distesa in un linea retta.
   Non era certo per quanto avesse dormito, sicuramente più del solito e ciò lo stranì. Non era assolutamente normale per lui che sonnecchiava, sì e no, tre ore per notte.
   Si alzò ancora intorpidito, un macigno allo stomaco e un’inizio di nausea. Toccandosi la fronte, appurò di non avere la febbre e che l’influenza fosse un’opzione da accantonare. Ma allora cos’era?
   Lievemente intontito, lo sguardo gli cadde sul telo piegato con cura e poggiato sopra al coperchio del cestino in vimini da picnic ancora vuoto; il parasole écru in macramè, con motivi dorati e un design esotico, riposto in un angolo.
   Levi chiese più volte a Onyankopon dove lo avesse trovato, ma l’uomo si limitava a fornirgli risposte vaghe circa la provenienza dell’oggetto. L’unica informazione certa che gli fornì fu sulla manifattura, tipica della sua terra natia, ma non volle aggiungere altro; un velo di tristezza gl’incupiva i grandi occhi scuri, divenuti improvvisamente spenti.
   Doveva essere un ricordo doloroso per lui che, come aveva raccontato in uno dei loro primi incontri, quando ancora il capitano era il secondo in ordine di comando nel Corpo di Ricerca, venne prelevato e arruolato nell’esercito marleyano contro la proprio volontà. Il corvino fu abbastanza sensibile da non insistere oltre con le domande, avrebbe concesso a Onyankopon il beneficio di scegliere lui dove, come e, soprattutto, quando confidarsi. Anche se il momento non fosse mai giunto, Levi lo avrebbe accettato; infondo, lui per primo non aveva un carattere propenso alla condivisione, preferendo tenersi le cose dentro e lasciarsi consumare da esse.
   Si costrinse ad alzarsi dal letto, non aveva ancora molto margine di tempo prima del suo appuntamento con Lyra. Indossò velocemente una vestaglia leggera e andò in bagno per prepararsi. Mentre il pennello a setole larghe di tasso si ammorbidiva nell’acqua tiepida, si lavò con cura il viso, picchiettando un olio per preparare la pelle alla rasatura; poi spalmò la schiuma da barba in movimenti circolari, rendendola ricca e piena, infine iniziò a far scivolare la shavette delicatamente, ma con decisione, sulla cute.
   I movimenti meccanici, dettati dall’abitudine, permisero alla sua mente di vagare indisturbata e fu solo allora che cominciò a sospettare che la sua indisposizione fosse, semplicemente, riconducibile a una forma di somatizzazione della piacevole apprensione che aveva all’idea di dover vedere la persona per cui, ormai era palese, nutriva un trasporto sempre più profondo e viscerale, in un crescendo che sembrava non intenzionato ad arrestarsi.
   Era il loro primo incontro al di fuori dell’ambito lavorativo. Un contesto totalmente nuovo per Levi che, in passato, aveva scelto coscienziosamente di non imbarcarsi mai in situazioni che potessero legarlo di nuovo a qualcuno. Questa spinta ad aprirsi, sebbene ora le circostanze lo permettessero, lo spaventava terribilmente, ne era terrorizzato, ma ciò non l’avrebbe ammesso mai, neanche sotto tortura. Aveva una reputazione da difendere.
   Come devo comportarmi?, si domandò, la lama del rasoio sospesa a mezz’aria; lo ripose nel lavandino e, ancorandosi ad esso, si osservò insistentemente nello specchio. Ondeggiava la testa da un lato e poi dall’altro, constatando lo stato di guarigioni delle cicatrici che gli solcavano il volto: le tre sullo zigomo sinistro, così come la linea che gli attraversava la guancia destra per la lunga, giungendo quasi al mento, si erano ormai ridotti a dei segni sottili, visibili perlopiù in controluce. Tutt’altra storia era quella che gli divideva di netto il viso a metà: una riga obliqua che, partendo dal sopracciglio destro tagliava la palpebra e proseguiva la sua corsa a colpire le labbra fini.
   I bulbi gli si inumidirono di lacrime traditrici pronte a scorrere, ma che Levi asciugò immediatamente, quasi graffiandosi dalla brutalità con cui lo fece. In verità si stava trattenendo. La nervosità con cui si era destato quella mattina lo rendeva emotivo, facendo vacillare la pace di spirito con cui aveva accettato il suo nuovo aspetto che, dentro di sé, credeva di meritare. Una sorta di prova fisica e tangibile del suo vissuto. Ma oggi, mosso dalla volontà di mostrarsi al meglio difronte a Lyra, sembrava essersi dimenticato del fatto ch’ella lo conoscesse già, che lo accettasse e apprezzasse per quello che era e, pur sapendolo, desiderava essere diverso, desiderava non essere un uomo malconcio e distrutto dalla guerra. E non per una mera questione estetica, non gliene importava assolutamente nulla di essere piacente. A farlo tentennare era il timore che un giorno la docente avrebbe potuto non tollerare più i suoi sbalzi d’umore, la sua scontrosità, il suo essere rotto.
   Lei è così bella, confessò, ripensando al sorriso contagioso, alla luce che emanavano i suoi occhi ambrati. Lyra era così energica, brillante, così vitale e allo stesso tempo sapeva lasciargli i suoi spazi, fare un passo indietro se necessario e placare il tumulto nel suo cuore martoriato.
   Non merito tanta bellezza, constatò, Non ho niente di buono da offrirle, strinse il pugno sull’elsa del rasoio libero, reprimendo l’impulso di sfogarsi sullo specchio. Poi chiuse gli occhi per qualche secondo, concentrandosi a regolare il respiro e, una volta calmo, riprese a radersi, deciso a relegare quei pensieri oscuri nell’angolo più remoto del suo inconscio.
   Indossò la benda, uscendo dal bagno, e andò in cucina. Quando varcò lo soglia della stanza trovò già tutti disposti intorno al tavolo con un’abbondante colazione, un unico posto vacante.
   «Buongiorno, Levi», lo salutò Onyankopon, mentre versava il fumante liquido brunastro nella tazza vuota già posizionata ad aspettarlo.
   Si sedette facendo un cenno del capo, ringraziando muto l’uomo per la cortesia. Si allungò a prendere una fetta di pane tostato, sentendosi addosso lo sguardo dei presenti che lo scrutavano curiosi. Due occhi in particolare lì percepì più insistenti degli altri; sapeva che se avesse sollevato i propri dal tavolo, essi si sarebbero bruciati nei suoi. E così fece, soffiando leggero sul tè caldo, la cui superficie si infrangeva ad ogni sbuffo.
   Le iridi cannella risplendevano come tizzoni ardenti, un sogghigno vivace e affettato perfettamente visibile sul viso che ancora conservava qualche ricordo d’innocenza, nonostante, lentamente, stesse assumendo sempre più i tratti che l’avrebbero contraddistinta da adulta.
   «Ti sei alzato tardi», fu l’unica cosa che disse, intenta a non staccargli quell’occhi di dosso, l’espressione di chi la sapeva lunga.
   «La tua insonnia è scomparsa?», chiese Falco, il sollievo era palpabile nella sua voce.
   «Non ne sono sicuro, ma dormo meglio negli ultimi tempi».
   «Hai cambiato qualcosa nella tisana serale?».
   Ci rifletté un po’ prima di rispondere, «Niente di rilevante».
   «Allora dev’esserci qualcos’altro che ti sta aiutando», alluse l’unica ragazza presente, frase che il capitano decise deliberatamente di ignorare, spalmando della marmellata fatta in casa sul toast e addentandolo posato.

 

✯✯✯

 

   «Levi!», si sentì chiamare, una voce chiara sovrastata appena dal rumore del vento e dal fragore del mare. Vide in lontananza una figura slanciata che si sbracciava per rivelare la propria posizione, con una mano si teneva il cappello di paglia per impedirgli di volare via. I capelli sciolti, fatta eccezione per le ciocche laterali, libravano nell’aria, occupandole il viso altrimenti sgombro. Lo raggiunse per togliergli di mano la cesta, un paio di teli coricati sottobraccio. «Lascia che ti aiuti».
   «Ce la faccio», s’imbronciò, strattonando il paniere.
   Lo sguardo scrutatore passò su di lui, sull’ombrellone appoggiato al torso e bloccato tra la guancia e la spalla, sulla cesteria - un manico trattenuto dalle forti di dita dell’uomo, l’altro da quelle esili della donna -, sul piede sinistro su cui ancora l’ex-soldato si reggeva malamente. «Levi, per favore, non essere testardo. La gamba non è ancora guarita completamente».
   «Non dire caz—».
   «Non è un attacco alla tua virilità se ogni tanto ti appoggi agli altri», lo interruppe, «Capitano», aggiunse infine con un sorriso conciliante ma beffardo a scucirle le labbra. Un’espressione a cui il corvino non seppe come replicare; ben consapevole fosse inutile darle contro, ché la sua ostinazione sorpassava di gran lunga la caparbietà del militare. Lasciò correre e allentò la presa quel tanto da far oscillare la cesta tra i due, «Portiamolo insieme allora», sbuffò.
   Un compromesso.
   Un primo spiraglio di cedimento che Lyra accolse di buon grado. Le guance imporporate.
   Si avviarono lungo il molo, in direzione della scaletta laterale che scendeva alla spiaggia e scelsero un buon punto dove srotolare i teli. Abbastanza lontano dal bagnasciuga per evitare gli schizzi di qualche onda mascalzona, abbastanza vicino per godere del panorama e dell’avvolgente odore di salsedine che si mischiava a quello del sole sulla loro pelle.
   Si accomodarono tra i cespugli di gramigna che punteggiavano qua e là il litorale di verde, ondeggiando ad ogni folata. Levi fissò gli angoli dei teli con delle piccole rocce, poi l’ombrellone, mentre Lyra estraeva dei cuscini dalla capiente borsa e una coperta. Dopotutto, era pur sempre una giornata di fine estate, il clima era imprevedibile.
   Infine si tolse le scarpe e si sedette, abbracciandosi le gambe, mentre l’osservava prendere posto al suo fianco. La guancia schiacciata contro le ginocchia e un sorrisetto sornione.
   «Devi dirmi qualcosa?», sorrise lui, velatamente incuriosito dalla sua espressione furba. Le si avvicinò, il volto inclinato quel tanto da dover sollevare lo sguardo per guardarla negli occhi. Un tentativo di intimidirla, mentre arcuando un sopracciglio chiedeva: «Allora?».
   Lei si morse il labbro divertita, ma non disse nulla. Lo stava stuzzicando.
   «Dunque non vuoi parlare». Sembrava meditabondo, come se stesse architettando qualcosa. Una minaccia per farla arrendere. «Cosa devo fare per toglierti quel sorrisetto dalla faccia e farmi dire cosa ti passa per la testa, mm? Buttarti in acqua magari».
   Un leggero rossore attraversò le gote di Lyra, al pensiero di stare tra le braccia forti di quell’uomo così insolito e misterioso, di vedere gli abiti intrisi d’acqua salmastra appiccicarsi lungo tutto il suo corpo.
   «O magari dovrei semplicemente andarmene e lasciarti qui». Interruppe il suo fantasticare.
   Il sorriso s’allargò ancora di più, «Mi abbandoneresti in balia delle onde e dei pirati?».
   Sbuffo una risata compiaciuta: l’aveva fatta parlare.
   «Dei pirati? Credo non esistano più da qualche secolo», affermò divertito, «ma se esistessero ancora, li capirei se volessero rapirti», le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Il pollice indugiò giusto un poco sull’angolo della sua bocca, mentre aggiungeva: «Peccato che ti butterebbero in mare un secondo dopo averti sentita blaterale senza sosta».
    Assunse una finta espressione offesa e lo spinse lontano da sé, che lasciandosi cadere sul telo scoppiò a ridere. Una risata così spontanea e genuina da farle morire qualunque frase piccata sulla punta della lingua. Era così bello sentirlo ridere, vedere lo stoicismo lasciare il posto alla beatitudine.
   Si sdraiò a sua volta, girandosi sul fianco, l’orlo della gonna si sollevò quel tanto da esporre i polpacci. Cosa che non passò affatto inosservata agli occhi dell’uomo che provvide a risistemarlo. Era sconveniente per una signora. Però la galanteria venne interrotta a metà, quando la mano dell’insegnante sciolse il nodo che affrancava la benda dietro la testa del barista. Istintivamente Levi bloccò il tessuto dal cadere per terra e si voltò a lanciare un’occhiata di rimprovero alla donna.
   «Il vento là riempirà di sabbia», si giustificò, «Non devi nasconderti da me, Levi», aggiunse poi per riempire il silenzio lasciato dal suo accompagnatore, accarezzandogli una guancia. I polpastrelli percorrevano i solchi sul suo volto uno ad uno.
   Il capitano sospirò, annuendo con un colpo secco della nuca, chiuse gli occhi e piegò la benda nel palmo di Lyra, la quale, sorridente, la ripose in borsa, sibilando un flebile grazie.
   Si concesse il suo tempo per riaprire gli occhi e decidersi a guardarla, rendendosi conto solo in quel momento quanto valore avesse dato ad uno stupido lembo di stoffa. Era come un’armatura, senza si sentiva spoglio ed impotente.
   Ma lei sorrideva. Il suo dolce sorriso non aveva abbandonato il suo viso nemmeno per un istante, né s’era incrinato ora che poteva vedere il suo occhio spento. Il colore sbiadito dell’iride, la pupilla tinta di bianco incapace di reagire alla luce. Temeva l’avrebbe guardato con disgusto - o peggio, con pena -, il giorno in cui finalmente l’avrebbe visto in tutto il suo orrore, e che il sogno si sarebbe infranto.
   Ma non fu così.
   Lo sguardo di Lyra non era mutato. La mano sulla sua guancia non s’era ritratta. La caviglia sotto le sue dita - che involontariamente avevano preso a sfiorare - non s’era allontanata.
   Lei era ancora lì, con lui. E non sembrava intenzionata ad andarsene.
   Sentì come una scarica fluirgli lungo tutto il corpo quando, preda da un impulso che aveva ingabbiato per fin troppo tempo, gettò le sue labbra su quelle della donna, così morbide contro le proprie.
   Le loro bocche si incastrarono, Levi avvertì la testa farsi più leggera, i pensieri spegnersi. Sentiva solo il calore del fiato di Lyra mischiarsi al proprio, delle sue mani che si intrecciavano tra i suoi capelli, avvicinandolo di più a sé; per nulla preoccupata di ciò che li circondava. Dgli sguardi di rimprovero che avrebbero potuto attirare, delle malelingue che quel gesto così plateale di affetto potenzialmente avrebbe creato.
   Una stimata dottoranda marleyana sorpresa in effusioni romantiche con un eldiano originario dell’isola dei demoni impuri. Come se essere vista con un comune eldiano non fosse già sufficiente per fare scalpore in un ambiente ancora fortemente nazionalista e razzista come quello di Liberio e del resto del continente. Quello era un vero e proprio scandalo.
   La puttana del nemico.
   Il barista si staccò e si guardò intorno compunto, rifiutandosi di posare lo sguardo su di lei che, per contro, cercava in tutti i modi di incrociarlo. Incredula e confusa da quell’improvviso raffreddamento.
   Lo tempestò di domande, «Qualcosa non va? Era troppo presto? Ho forse esagerato?».
   «Come?».
   «Non farmelo dire apertamente, sono pur sempre una signorina», si morse il labbro in imbarazzo, «Non era mia intenzione metterti a disagio».
   Le strinse il fianco, incapace di trattenersi dal toccarla, dal volerla sentire vicina, «Non sono a disagio, non hai niente da rimproverarti». Lyra sentì gli occhi del corvino bruciarle addosso, «Ma come hai detto tu stessa, sei una giovane donna. Tutto questo non è appropriato».
   «Cosa vorresti dire?»
   «Una nubile che amoreggia in pubblico è già di per sé mal visto. Per te che ricopri un ruolo di rilievo in un rinomato ateneo equivale a un suicidio sociale. La vita per voi donne è già abbastanza difficile per il bigottismo e il maschilismo che ci trasciniamo dietro, non puoi permetterti di infangare il tuo buon nome. Con me soprattutto». L’uomo non aveva mai parlato così a lungo e con tanto accoramento. Ella si sentì stordita.
   «Ma—».
   «Lyra, non credo di essere la persona giusta per te. Sono molto più grande, sono eldiano, di Paradis, un militare per giunta».
   «Non mi interessa».
   «Dovrebbe! Ho ucciso centinaia di persone, ero nella missione che ha distrutto il distretto d’internamento. Facevo parte dell’esercito nemico alla tua nazione».
   «E hai combattuto il Gigante Fondatore, ti sei alleato con Marley perché sapevi che il tuo governo era caduto in mano agli estremisti, che Jaeger stava sbagliando. Ti siamo tutti debitori per questo, hai contribuito a fermare la guerra. Sei un eroe, Levi».
   «No, non lo sono. Sono un assassino e un traditore. Non posso macchiare la tua reputazione dei miei peccati».
   «La mia reputazione?», si stava innervosendo.
   «Cosa pensi che diranno quando sapranno della tua relazione con un eldiano? Con il famigerato Capitano Ackerman?».
   «Alcuni saranno contenti per noi, altri ci biasimeranno, come succede sempre».
   «Potrebbe influire sulla tua carriera».
   «Non accadrà e anche se fosse la cosa non mi tange».
   «Lo dici adesso. Non puoi sapere come sarà in futuro. Potresti anche finire per odiarmi un giorno».
   «Potrei», lapidò. Il capitano non le aveva mai visto quell’espressione prima di allora: pura risoluzione. «Ma non lo sapremo mai se rinunciamo a tutto adesso», gli prese il volto fra le mani, «Ci aspettano momenti duri, potremmo perdere tutto, ma non mi farò indietro. Voglio te», gli occhi di Levi si strabuzzarono, «Voglio il famoso Capitano Levi Ackerman, il Soldato più forte dell’umanità. Sì, conosco il tuo soprannome», terminò con un mezzo ghigno conciliante.
   «I mirini del mondo puntano sulla mia fronte, aspettano solo un mio passo falso. Stando con me potresti diventare un bersaglio».
   «Sia».
   «Mio Dio, Lyra», la strattonò per entrambe le braccia, i pollici affondavano nel tessuto in brevi movimenti cadenzati, più simile a una carezza che a un gesto d’irritazione, «Proprio non vuoi capire», i suoi occhi si indurirono come acciaio temprato. Una leggerissima sfumatura violacea si disegnò intorno alla pupilla, mescolandosi al grigio dell’iride che si colorò d’un pallido blu. «Non ho intenzione di perdere anche te!», il suo respiro si fece incerto, «Ho perso tutti coloro che amavo».
   La giovane incassò il colpo, trattenendosi dal sorridere per il significato nascosto dietro alle parole dell’uomo.
   Levi l’amava.
   Teneva a lei a tal punto da essere disposto a rinunciare a lei pur di saperla al sicuro.
   Avrebbe voluto gioire di questa verità rubata, felice che i suoi sentimenti fossero ricambianti da così tanta intensità. Ma non poteva ignorare quanto le buone intenzioni dell’ufficiale stessero minando il loro rapporto sul nascere. Desiderava proteggerla, era disposto a sacrificare la propria felicità per questo, tuttavia non la stava rendendo partecipe di ciò. Stava decidendo tutto da solo. Lasciando che la paura prendesse il sopravvento e controllasse il suo metro di giudizio e le sue scelte personali, che mortificasse il loro legame.
   Lyra non l’avrebbe mai permesso.
   «Quindi preferisci perdermi in partenza», disse sferzante, «Privarti di me subito, così nessun altro potrà farlo».
   Non seppe come replicare. Una sequela di atroci ricordi si susseguirono veloci sul fondo dei suoi occhi; scorrevano come scene di un film senza colonna sonora, senza apparente senso cronologico, ripetendosi ancora e ancora in un flusso di coscienza inarrestabile. Episodi di un passato macabro e inesorabile, che il semplice odore ferroso del sangue faceva riemergere tutte le volte. E l'unica cosa che sentiva era il pianto muto del suo povero cuore che aveva giurato di non avere rimpianti.
   Era la condanna dei forti vedere le persone intorno a sé perire. E la morte fuori dalle mura sapeva di ruggine, del puzzo maleodorante di interiora, di bruciante vapore, di nitriti e ruggiti cavernosi.
   Lo sguardo di Levi si perse lontano, oltre l'orizzonte. Aveva indosso la divisa dell'Armata Ricognitiva, inginocchiato sotto la fioca luce del sole che trapelava le nuvole non più cariche di pioggia; un braccio intorno al collo del biondo fratello e la testa dell'irriverente sorella in grembo. I capelli rossi, arruffati e sporchi, sparsi sui suoi pantaloni bianchi, umidi di terra e acqua. Le iridi smeraldine, che ammiravano l'azzurro cielo, erano strabuzzate come quelle di un tarso, riempiendosi di riflessi chiarissimi; tante, troppe tonalità di verde si contendevano il possesso di quelle due piccole superfici convesse, facendo apparire i suoi occhi ancora più grandi e lucidi, malgrado lo sguardo vitreo.
   Le chiuse per sempre le palpebre, poi strinse Isabel a sé, serrando le proprie.
   Quando le riaprì, il vento gli spazzava l'ordinata capigliatura all'indietro, mentre si spostava frenetico fra mastodontici alberi di conifere. I cigolii del movimento tridimensionale accompagnavano il fruscio degli aghi e lo scricchiolio dei rami spezzati, il ronzio insistente che emettevano le bombole a gas come unico costante suono sordo a fargli da sottofondo.
   A un certo punto, ancorata a un tronco diversi metri più in basso, vide Petra. Il volto tumefatto, sangue raffermo le incrostava le labbra spaccate e il naso rotto in una striscia brunastra. La donna era quasi irriconoscibile, se non fosse per i singolari capelli rossi, che tiravano sull’arancione, smossi dal vento. Il corpo sfondato, spiaccicato come quello di un insulso insetto contro la corteccia dell’albero in una posa d’innaturale contemplazione. I gioviali occhioni nocciola, ora a mezz’asta come in preghiera, spenti.
   Richiuse di nuovo i propri, soffocando il bisogno di piangere e tutto cambiò una seconda vola. Si ritrovò seduto sul tetto fatiscente di una casa diroccata; i talloni incastrati laddove le tegole erano venute a mancare. Accanto a lui Erwin sdraiato a bearsi i pallidi raggi del giorno. L'unico braccio rimastogli riposava sull'addome.
   Non parlava Levi - non che fosse il suo forte conversare -, si limitò a perscrutare lo scenario apocalittico dinnanzi a sé. Le mura distrutte, le abitazioni che stavano pian piano venendo inghiottite dalla vegetazione. A guarnizione dei muri in rovina di quella città fantasma, licheni, edera rampicante si alternavano ai tappetini di bellissimi fiori bianchi e rosa dai riflessi argentati, il cui profumo si mescolava al soffocante odore dei fumogeni che ancora si disperdevano in aria. La vita si contrastava crudelmente con le membra dei caduti, disseminati ovunque il suo sguardo afflitto potesse posarsi.
   Con la coda dell'occhio osservò l'abbraccio in cui si strinsero Eren e Mikasa ad Armin, quasi soffocandolo in uno stato confusionale. Nello shock della prima trasformazione, ancora non sapeva cos'era accaduto.
   Tornò a guardare Erwin stavolta incapace di trattenere la contrizione, e per un attimo indugiò sull'idea di sfiorargli la chioma baciata dall’aurora, perfettamente pettinata. Era un gesto che non aveva mai potuto permettersi di compiere, e quella sarebbe stata la sua ultima occasione di realizzare il desiderio di sentire le sue ciocche lisce scorrergli tra le dita. Di scoprire come fossero al tocco. L'estremo saluto al suo compagno d'arme, al suo mentore, amico e confidente fidato, eppure ritrasse la mano. Represse l'impulso e guardò nuovamente l'arcata celeste sopra la sua testa, come se stesse vedendo qualcuno.
   Qualcuno che ricambiava l’occhiata.
   Lasciò andare Erwin con la dignità con cui era vissuto, privato di sentimentalismi e piagnistei. Questa era la fine che il Comandante Smith aveva scelto per se stesso. Nessun rimpianto.
   Per un attimo intravide il volto di un altro comandante sovrapporsi a quello dell’uomo, adesso castano, dai tratti somatici più morbidi e una benda simile alla propria, ma speculare. Tuttavia non riuscì a lasciare che quel ricordo lo sovrastasse.
   «Dovevi pensarci prima, Levi».
   Il respiro che violò la linea dei suoi denti tremò e sapeva di pianto, «Non è troppo tardi per tornare indietro. Hai ancora tantissime possibilità—».
   «Invece è troppo tardi», lo sguardo della donna era adamantino. Lo inchiodò sul posto, trapassandolo da parte a parte, più tagliente di una spada. «Se vuoi tirarti indietro perché tu non hai il coraggio di stare con me, con una marleyana, fallo. Scappa. Ma non rigirare la frittata con la scusa che lo fai per me». Detto ciò si alzò, incamminandosi a passo spedito verso la riva. Non si arrestò finché la gelida acqua del mare non le ricoprì i piedi, trascinando qualche granello di sabbia che si incastrò tra le sue dita.
   Sentì alle sue spalle l’incespicante andatura del corvino che la raggiungeva, ma si rifiutò di voltarsi anche quand’egli le circondò le spalle con un braccio e la incollò a sé. Schiena contro petto. L’alito tiepido si impigliò tra i suoi capelli, mentre Levi vi poggiava delicatamente sopra le labbra.
   «Perdonami», supplicò direttamente sulla sua nuca, «Sono un idiota».
   «Sì, lo sei», confermò lei, non nascondendo la stizza pur accettando il contatto.
   «Sono sincero quando dico che mi preoccupo per la tua incolumità e per la salvaguardia della tua posizione». La presa sulle spalle di Lyra si strinse, «E che penso di non essere alla tua altezza».
   L’insegnante si girò tra le sue braccia, allacciando le proprie dietro la vita del barista, «Questo lascialo decidere a me».
   I due si guardarono a lungo senza parlare. Giacchio che si scioglieva nel fuoco. Le mani di uno indugiavano sul corpo dell’altro, mentre i loro visi si avvicinavano sempre più, come trascinati da una forza invisibile. Un magnetismo incontrollabile e che esisteva solo tra loro. Levi non si era mai sentito così connesso ad una persona prima di allora. E fu in quel preciso istante, con lei che lo fissava a un soffio da suggellare un bacio, che la verità lo investì.
   Quella era la sua ultima opportunità di amare. Di essere amato. Di costruire qualcosa al posto di distruggere.
   Di essere felice.
   Un incommensurabile senso di colpa si fece beffa di lui, incapace di annullare la sensazione che egli sarebbe stato la disfatta di quella ragazza. Una straordinaria giovane donna che non si meritava il fardello che Levi si portava appresso. Ma accanto a ciò si fece largo un altro sentimento, ben più intimo e potente, in grado di annichilire il suo tormento. Forse era egoista aggrapparvisi, ma, per una volta, scelse di seguire il cuore e non la testa. Di mettersi al primo posto e lasciarsi andare a qualcosa che non poteva controllare e di cui non poteva fare a meno.
   La guardò col cardio che sembrava volesse uscirgli dal petto; i polpastrelli le sfiorarono la guancia andandosi ad sistemare dietro l’orecchio, e il pollice tracciò prima il contorno della bocca, poi il profilo dello zigomo. Infine annullò la distanza fra loro, le labbra s’incastrarono come due tessere d’un puzzle perfetto, modellandosi l’une nel tepore delle altre in un affamato segno di venerazione.
   Le loro bocche, i loro respiri, i loro nasi, le loro mani, tutto dei loro corpi e delle loro anime era destinato ad essere un tutt’uno.
   Con ancora i volto appiccicati, Levi portò le braccia a circondarle i fianchi, le mani ben affrancate al costato la sollevò in aria. Lyra soffocò un sussulto di sorpresa che presto diventò una risata piena e spontanea, ben salda alle sue spalle. La fece volteggiare come se danzassero, giravano affondando nella sabbia soffice e bagnata; la brezza scompigliava loro i capelli, qualche brivido gli percorse la schiena. Non seppe dire se per la spuma di mare o per la piacevole sensazione di avere la dottoranda avvinghiata a sé.
   La scortò ai teli e la adagiò con cura, prima di avvolgerla nella coperta e baciarla di nuovo.
   «Cosa c’è nella cesta?», smorzò lei mordendosi il labbro inferiore. Un sorrisetto furbo stampato in viso e un guizzo ad animarle lo sguardo, ora luminoso e denso come miele. All’ombra dell’ombrellone, pagliuzze dorate punteggiavano le iridi altrimenti uniformi.
   «Un semplice aperitivo», la bozza di un sorriso mentre le porgeva un sandwich che la castana addentò con gusto. Un mugugno di soddisfazione la tradì, assaporando la zuccherosità del mango e la corposità dell’avocado che, tagliati a listarelle, furono insaporiti da zenzero e coriandolo, scontrandosi con la consistenza delicata dell’anatra bagnata nella soia.
   «È fantastico», ammise in un sospiro, «Levi, è la cosa più buona che abbia mai mangiato».
   Il corvino ridacchiò, «Mikasa sarà felice di saperlo».
   Un sopracciglio si arcuò quasi impercettibilmente, «Mikasa?».
   «Mikasa Ackerman, una mia lontana parente. Non sappiamo nemmeno noi quale sia il nostro preciso grado di parentela. Discende dal ramo cadetto, da quel che so. Non ho mai conosciuto nessuno della mia famiglia a parte mia madre e mio zio».
   La sua espressione s’incrinò, «Capisco. Comunque il suo nome mi è familiare», deviò il discorso.
   «Era una soldatessa invincibile. A quanto pare è una caratteristica del nostro sangue», sbuffò, «Ma il suo giudizio è spesso stato compromesso».
   «Compromesso?».
   «Dall’amore», si schiarì la gola, «Tuttavia, ha saputo prendere la decisione giusta, alla fine. Seppur rinunciando all’amore della sua vita».
   «Eren Jaeger», intuì l’altra, «La ragazza che gli tagliò la testa era la sua innamorata. Mikasa Ackerman».
   L’uomo annuì, «Una vera tragedia. Li ho visti crescere, sai? Erano solo dei ragazzini di quindici anni quando l’incontrai la prima volta, ma l’orrore d’essere assediati da quelli li aveva già derubati della loro innocenza. Ho assistito a come il loro sentimento cresceva giorno per giorno. Mikasa non l’ha mai nascosto», sogghignò cupo, «Eren d’altro canto…».
   La docente gli accarezzò l’avambraccio, «Immagino abbia imparato da qualcuno», si morse la punta della lingua giocosa, scatenandogli una sommessa risata. Quanto aveva ragione.
   «Può darsi», convenne, «Ad ogni modo, Mikasa è un’Azumabito da parte di madre. Quello che stai mangiando sono ingredienti originari di Hizuru».
   Lei s’illuminò, «Hizuru! Mi piacerebbe tanto andarci. Dicono sia un luogo magico». Prese un altro morso, gustandolo appieno, «Se si mangia così bene, potrei anche non voler più tornare a casa», ghignò, «Ma qui dentro c’è il tuo zampino, quindi è fuorviante». Vederla mangiare con così tanto appetito era uno spettacolo per gli occhi. Sapere che era merito suo lo inorgoglì come in poche altre occasioni era accaduto. Anche con un gesto insignificante come apprezzare la sua cucina (uno stupido tramezzino per di più) sapeva farlo sentire completo.
   Lyra era la sua persona.


 
Con questo capitolo si conclude il breve racconto su come un tenebroso soldato in esilio si ricostruì una nuova vita, una nuova serenità lontano dalla propria patria e dai propri affetti. Di come riuscì a trovare la bellezza in un mondo fin troppo crudele e fragile.
Spero vi sia piaciuto leggere come è sbocciato l'amore tra Levi e Lyra, a cui un giorno mi piacerebbe dare un seguito (sempre se vorrete saperlo).

Un ringraziamento a tutti coloro che hanno inserito questa FF nei preferiti/seguiti/ricordati, a chi è stato così gentile da lasciarmi un feedback. Mi auguro di non avervi deluso e che la lunga attesa di quest'ultimo capitolo sia stata ben ripagata.
Grazie mille, cari lettori e care lettrici.

Un caldo abbraccio,
Claire DeLune

PS: Per chi vorrà, ci sentiremo ancora con Unspoken e con un paio di storie che ho in programma!

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