Primo pensiero e ultima parola: il diario del maestro

di Joy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1° Entry ***
Capitolo 2: *** 2° Entry ***
Capitolo 3: *** 3° Entry ***
Capitolo 4: *** 4° Entry ***
Capitolo 5: *** 5° Entry ***
Capitolo 6: *** 6° Entry ***
Capitolo 7: *** 7° Entry ***



Capitolo 1
*** 1° Entry ***


Hurt/Comfort

Kid!Levi, Kid!Erwin, Professor Smith.

 

Scritta per il Diario di malattia, gruppo facebook Hurt/Comfort Italia

 

 

 

Primo pensiero e ultima parola: il diario del maestro

 

 

 

 

 

1° Entry

 

 

 

Mia cara.

Non riprendermi, ti prego, per il mio indulgere a parlarti attraverso questo diario, so che non volevi.

Ti ho giurato che sarei andato avanti, che ti avrei lasciata appartenere solo ai ricordi e al passato e guardato al futuro, ma sono debole. E come potrei relegarti ai giorni che furono, quando nostro figlio ha i tuoi occhi, il tuo sorriso e il tuo entusiasmo dirompente?

Non negarmi il conforto di cui ho bisogno, adesso che vedo in lui la tua vivacità, la tua compassione, la dolce testardaggine che devolve ad ogni causa ritenga giusta.

Ieri pomeriggio, mentre uscivo dall'emporio del signor Heinrich l'ho trovato chino, sul marciapiede opposto, le ginocchia immerse nelle pozzanghere, di fronte a un bambino malconcio, rannicchiato nei suoi stessi stracci.

Si è voltato, quando l'ho chiamato, e lo scintillio della sua chioma bionda, al primo arrossarsi del cielo al tramonto, mi ha riportato indietro. Ho visto te, mia cara, ho visto la tua fanciullezza che non è mai venuta meno, mentre io dedito ai miei studi, in un bozzolo di libri e inchiostro, trasformavo in puntigliosa anzianità anche gli anni della mia giovinezza.

Mi ha guardato con la stessa immeritata fiducia che tu mi riservavi, come se potessi cambiare il mondo con la mia sola presenza, perché altro non so fare, e mi ha detto solamente: “Papà...”

Ho sentito il tuo “Ludwig...” risuonare nella mia testa.

La stessa intonazione, decisa e supplice allo stesso tempo, di quando non potevi esimerti dal raccogliere per strada qualsiasi bestiola toccasse il tuo buon cuore, e credimi lo so, il permesso che mi chiedevi era una mera gentilezza nei miei confronti, non avresti accettato comunque un no come risposta.

E onestamente, non te lo avrei mai dato.

Né lo farei adesso con Erwin.

Ho chiesto informazioni, mi hanno detto che quel bambino mendica da giorni, ma si rifiuta di rispondere a qualsiasi domanda. Non è così piccolo da non saper parlare, per cui immagino che semplicemente non voglia.

Non si sa da dove provenga, anche se la sua pelle diafana mi fa pensare alla città sotterranea.

Si è ritirato ancor di più nel suo angolo, serrando gli occhi come se si aspettasse un colpo, quando ho allungato la mano verso di lui, ma si è lasciato convincere dalla voce di Erwin, che forse con troppo impeto -molte imposte si sono aperte scricchiolando sopra le nostre teste-, ha continuato a ripetergli che non gli avremmo fatto del male, che siamo buoni e -mia cara, avrei voluto tu lo sentissi-, che nella nostra casa, quando ci si ammala si riceve un dolcetto dopo ogni medicinale.

Non mi stupisce che il bambino l'abbia guardato incuriosito, penso che a quel punto chiunque sulla strada avesse gli occhi puntati su di noi.

Da Erwin si è lasciato anche accarezzare la guancia, prima di rivolgere a me uno sguardo confuso.

Gli ho sorriso, sperando di emulare il tuo: quello capace di sciogliere ogni cuore, e la fronte del bambino si è increspata di un cipiglio sospettoso.

Non mi aspettavo davvero che funzionasse.

Però ha funzionato la mia giacca, gliel'ho offerta perché stava tremando nei suoi miseri abiti, e quando gliel'ho avvolta attorno alle spalle non si è mosso.

Ha sospirato chiudendo gli occhi, immagino per il calore, e ha appoggiato la testa al muro retrostante.

“Ti porto a casa nostra” gli ho detto, restio ad allontanare le braccia dal suo corpo dopo aver finalmente conquistato quella vicinanza. “Stanotte farà molto freddo. Se non ti piace, potrai andartene.”

Ha sollevato appena le palpebre e ciondolato la testa, ma non si è irrigidito mentre lo sollevavo da terra; si è limitato ad emettere un sospiro e un piccolo gemito, prima di crollare inerme tra le mie braccia.

Ho preso la strada di casa, ed Erwin ha portato le borse della spesa, saltellandomi intorno come non faceva da molto tempo. Sono sicuro che si senta solo.


 

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Capitolo 2
*** 2° Entry ***


2° Entry

 

 

 

Il bambino ha la febbre.

Una febbricola persistente come quella che tante volte ha afflitto te, mio tesoro.

Non ho potuto fare a meno di preoccuparmi.

“Da quanto tempo ti senti così?” gli ho chiesto, memore dei lunghi periodi di debolezza che ti coglievano, ma lui ha scrollato le spalle senza emettere un solo suono.

Quando la sofferenza è costante, si confonde facilmente con la normalità, ne so qualcosa, anche se il malessere che ha riempito la tua assenza non ha sintomi esterni.

Il tepore della cucina gli ha tinto le guance di rosso, più di quanto abbia fatto la febbre durante il tragitto; l'ho depositato su una sedia discosta dal tavolo, ancora avvolto nella mia giacca e gli offerto un piatto della zuppa che avevo preparato per cena.

Erwin si è seduto al suo fianco per mangiare con lui e il bambino mi è sembrato più a suo agio: ho fatto la stessa cosa sedendomi dall'altro lato, dopo aver distribuito le stoviglie.

Il cucchiaio gli è scivolato di mano, finendo sul pavimento, e lui si è fatto immobile come una statua, teso e terrorizzato come se avesse appena commesso un crimine.

“Non importa” mi sono affrettato ad assicurare.

Si è rilassato, ma ho comunque evitato di avvicinarmi troppo mentre gliene porgevo uno pulito.

“Capita spesso anche a me” si è sentito in dovere di chiarire, per empatia, nostro figlio, e io non ho potuto che confermare, preso com'ero dall'affetto e dall'orgoglio che Erwin suscita nel mio cuore stanco, ogni giorno di più.

Ho confidato che succedeva anche a te, mia cara, e mi hanno guardato entrambi con occhi spalancati e labbra socchiuse.

Spero non ti dispiaccia se ho rivelato un segreto che sarebbe dovuto rimanere tra noi due; è un ricordo dolce, per me, la tua vivacità, e ho parlato a fin di bene: con entrambe le mani tumefatte dai geloni, non penso che avrebbe potuto tenere a lungo la presa, in ogni caso.

Mi sono offerto di aiutarlo a mangiare, ma lui ha scosso la testa con vigore, chiudendo le dita rosse e gonfie sul manico del cucchiaio. Gli ho dato, allora, due fazzoletti puliti in cui potesse avvolgerle, ma lui non ha saputo che farsene, né mi ha permesso di mostrarglielo.

È stato Erwin a fargli vedere come fare: ha preso quelle piccole mani tra le sue e le ha avvolte ognuna in un fazzoletto, annodando le cocche sui palmi con un esultante: “Ecco fatto!”

Ho evitato di fargli notare che in quel modo non sarebbe riuscito a mangiare lo stesso.

E mi compiaccio di aver tenuto a freno la lingua, perché mi avrebbe smentito all'istante, ingoiando velocemente metà della zuppa che aveva nel piatto.

Sono stati i brividi che hanno preso il sopravvento, tuttavia, a impedirgli di finire il pasto, non l'artistica fasciatura eseguita dal nostro bambino.

Lo hanno colto d'improvviso, con violenza: è quasi caduto dalla sedia.

L'ho afferrato prima che avvenisse, e lui ha emesso un tale pietoso pigolio, raggomitolandosi su se stesso e coprendosi la testa con le braccia, che non sono riuscito a pensare lucidamente per diversi secondi. Anche Erwin è rimasto pietrificato dalla scena.

Tu avresti saputo cosa fare, amore mio.

Ho pensato a te in quegli istanti, alla tua voce soffice, alle mani delicate in grado di carezzare la più fragile delle creature senza farle male: io sono sempre stato goffo il doppio di te e capace la metà.

“Non aver paura” gli ho detto.

E avrei voluto che suonasse rassicurante come quando hai pronunciato tu quelle stesse parole, la prima volta che mi hai preso per mano tra le lenzuola, conducendomi dove non ero mai stato.

Ho sentito così forte la tua mancanza da non accorgermi di averlo inconsciamente stretto tra le braccia.

Si è calmato, però.

Tu, mio unico amore, riesci a indicarmi la via anche attraverso il solo ricordo.

Guidi ancora le mie mani.

E io non

Se non fosse per Erwin

Ho notato solo allora che il bambino aveva i capelli umidi e i vestiti bagnati: un'altra delle tante cose che a te non sarebbero sfuggite.

“Un bagno caldo, sarebbe d'aiuto” ho borbottato, più per me stesso che per lui, e quello mi ha guardato con tale speranza negli occhi, prima di appoggiare la guancia al mio petto e sospirare, che non ho avuto bisogno di ponderare quel pensiero; l'ho adagiato sulla poltrona davanti al camino e sono andato a prendere la tinozza.

È più piccolo di Erwin e più magro di quanto lui sia mai stato. Mi è sembrato anche reticente a lasciarsi spogliare, così ho steso un lenzuolo tra le spalliere di due sedie, per creare un po' di riservatezza e nostro figlio si è opportunamente seduto dall'altro lato del paravento, con un risoluto: “Vi aspetto qui, papà.”

Il bambino mi ha guardato con volto concentrato e sguardo intenso, ma credo che alla fine sia stata la sua debolezza, più che la sua volontà, a permettermi di lavarlo; ha continuato ad osservarmi, però.

Il suo viso caldo nella mia mano, mentre lasciavo scorrere il panno insaponato sulla sua pelle, è stato l'esito di quell'esame, a cui non dubito, mi abbia sottoposto fin dal primo istante.

Il maestro scrutinato dal bambino.

Non sono altro che un paradosso, senza di te, amore mio.

 

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Capitolo 3
*** 3° Entry ***


3° Entry

 

 

 

Com'era prevedibile, la febbre è salita durante la notte, e si è accompagnata ad una tosse persistente che inizia a preoccuparmi.

Ha iniziato a peggiorare verso la mezzanotte, mugugnando nel sonno parole incomprensibili; ero con lui, non mi sono mai allontanato, ma se anche lo avessi fatto, quel lamento flebile mi avrebbe riportato al suo fianco all'istante: ho imparato quando Erwin era in fasce a porgere l'orecchio al pianto dei bambini, e non ho più smesso.

Nell'impeto di alzarmi, ho quasi ribaltato la sedia del tuo scrittoio, quello che hai utilizzato più volte per comunicare ad amici e familiari l'imminente arrivo di un bimbo, e che adesso è ingombro di appunti e teorie, per le quali, ne sono sicuro, mi biasimeresti.

Ti vedo ancora seduta lì, in certe mattine luminose, la mano bianca posata sul ventre arrotondato e il sole a ingioiellare i tuoi capelli sciolti...

Mi sono avvicinato a lui: un bozzolo rannicchiato e ansimante, non più grande di un cuscino.

Avrei voluto adagiarlo su di un letto vero, e non sul divano consunto della cucina, ma la mia stanza è fredda e gli abiti di Erwin su di lui sono troppo larghi, per tenerlo davvero al caldo.

Quando ho scostato le coperte nelle quale l'avevo avvolto, ha iniziato a tremare; m'illudo che sia solo per la febbre, non sopporto che abbia paura di me, anche se lo capisco...

Mia cara, se tu fossi stata con me, le mie mani enormi non sarebbero sembrate tanto inadeguate sulla sua piccola fronte. O su quella di Erwin.

Gli ho accarezzato i capelli, sperando di calmare la sua agitazione e le sue palpebre hanno fluttuato senza sollevarsi: è bollente e ha un respiro congestionato che non è migliorato neanche quando gli ho sollevato la schiena, sostenendola con un cuscino.

Ho posato la flanella calda sul suo petto e quello a dischiuso le labbra con uno schiocco e si è portato i pugni agli occhi sussurrando un flebile: “Mamma...”

Erwin, con le palpebre ancora gonfie di sonno è comparso sulla soglia proprio in quell'istante.

Sulle labbra di nostro figlio quella parola non si è mai affacciata; a volte ha chiesto di sua madre, ma non ha mai dato a quel termine l'accezione di mamma, invocandoti come se tu potessi raggiungerlo dalla stanza attigua.

È così crudele che non abbia potuto averti, se non per pochi istanti e lo è altrettanto che tu non abbia potuto avere lui.

Avevamo sognato di esserlo insieme, genitori di una nuova vita, ma io lo sono stato da solo.

Anche se in realtà ti sento qui.

“Papà...” ha mormorato Erwin ancora sull'uscio.

Gli ho fatto cenno di avvicinarsi, si è precipitato tra le mie braccia.

È ancora piccolo, sebbene a volte mi sembri più grande della sua età.

Ho cambiato la pezza di flanella con quella più calda stesa sugli alari del camino e gli ho chiesto di tenerla sul petto del bambino, mentre andavo a riscaldare un po' di latte e miele, e lui mi ha obbedito con entusiasmo scivolando dal mio grembo per sedersi sul divano.

Mentre riattizzavo i ciocchi nel braciere sotto le piastre di ferro ho ascoltato il suo quieto sussurrare.

“Non so cosa faccia una mamma” gli ha detto, “ma ho un papà che mi aiuta sempre e può farlo anche con te.”

La sua cieca fiducia ha scavato una voragine dentro di me, proprio là, dove germogliano i miei sensi di colpa.

Non ho aiutato te, mio amore. Non ho potuto nulla mentre le convulsioni ti portavano via.

L'attacco di tosse che ha scosso all'improvviso quel piccolo petto, me le hanno ricordate.

Erwin si è fatto indietro spaventato, ho versato una tazza di latte caldo anche per lui e l'ho raggiunto.

Ti confesso, mia cara, che ho provato paura anch'io di fronte agli ansimi sibilanti di quel respiro viscoso.

“Vieni qui” gli ho detto, passandogli la mano sotto la schiena e guidandolo contro la mia spalla, “adesso passa.”

Si è agitato quando un accesso di tosse ha premuto il suo volto bollente contro la mia camicia, bagnandola di saliva.

“Calmo” ho dovuto ripetergli più volte, massaggiandogli la schiena, prima che si concedesse l'abbandono di cui aveva bisogno, una volta placata la tosse.

E ho sentito la voce di Erwin tremare sul “Papà...” che gli è sfuggito dalle labbra.

“Va tutto bene” ho risposto, ma non saprei dire a chi fosse rivolta questa istintiva rassicurazione.

So che ne avrei bisogno anch'io, oggi, come tante altre volte in passato, da quando la tua mano tenera è scomparsa dal mio braccio, dove era solita posarsi nei momenti difficili, lasciando il fantasma di un'emozione che mi riscalda solo se la mia mente è tanto annebbiata da confondere la realtà con il sogno.

Ho scostato da me il bimbo quel tanto che bastava per posargli il bordo del bicchiere contro le labbra e lui non si è fatto pregare: ha mandato giù due sorsi incerti, prima di vuotarlo.

Quando l'ho adagiato di nuovo sui cuscini ha sollevato le palpebre e mi ha guardato a lungo con occhi arrossati; non ho idea di come sia stata la sua vita, prima di arrivare qui, ma sono sicuro che ci sia un incredibile stoicismo in lui, mescolato alla paura.

Il panno fresco che gli posato sulla fronte lo ha fatto sussultare e gemere impercettibilmente, ha chiuso gli occhi, però, voltando il viso di lato sul cuscino con un sospiro esausto.

“Starai meglio” mi sono ritrovato a sussurrare. “Non temere.”

E prego il fato, che non mi renda un bugiardo.

 

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Capitolo 4
*** 4° Entry ***


4° Entry

 

 

È venuto il medico.

E sebbene il dottor Lange sia affabile con tutti i suoi pazienti, soprattutto con i più piccoli, il bambino è stato teso per tutto il tempo.

Non ha opposto resistenza, penso che non ne avrebbe avuto le forze neanche se avesse voluto, ma credo che vedere Erwin intento a sbirciare curioso ogni sua mossa, senza destare in lui il minimo segno d'insofferenza, lo abbia convinto della sua innocuità.

È un grande osservatore.

Ha avuto paura solo quando ha visto lo stetoscopio, immagino non capiti spesso nel sottosuolo di essere visitati con strumenti d'avanguardia, e il dottor Lange ha confermato l'ipotesi che provenga da lì.

L'ho sollevato contro la mia spalla, sollevandogli lentamente la maglia, per permettere al medico di auscultargli la schiena e lui ha nascosto il viso nell'incavo del mio collo e non è riuscito a reprimere l'unico lunghissimo brivido che lo ha scosso.

“Va tutto bene” gli ho mormorato contro l'orecchio. “Va tutto bene.”

L'attenzione di Erwin si è spostata su di me e su di lui in silenzio; a volte mi chiedo cosa pensi del padre maldestro e improvvisato che sono.

A volte mi chiedo cosa ne penseresti tu.

Forse avresti dovuto accettare le rose bianche di Edmund Wagner, invece delle mie viole selvatiche, la sera in cui scegliesti di danzare con me, lasciando tutti in un attonito stupore.

Sono ancora tra le pagine del tuo ricettario, lo sai? Non ho voluto toccarle.

Quella primavera, tu me l'hai messa nel cuore.

Sento ancora il tepore di quell'aria profumata, anche adesso, che l'inverno inizia a imbiancarmi le tempie e il gelo della tua assenza fa stridere le mie ossa.

A detta del medico il bambino guarirà, a patto che non trascorra altre notti in strada: il freddo di questi giorni ha attaccato i suoi polmoni. Mi ha dato un unguento balsamico da spalmargli sul petto e un infuso per la febbre, prima di scompigliare i capelli di Erwin, dicendogli che era cresciuto, ed uscire dalla stanza.

Non me la sono sentita di aspettare, ho sollevato la schiena del bambino dal divano e avvicinato la boccetta alle sue labbra.

“Bevi tutto” ho sussurrato e lui non ha esitato, ha soltanto stretto le dita sulla manica della mia camicia quando il liquido amaro gli ha percorso la gola.

Ha tossicchiato leggermente tornando sui cuscini e quando ha strizzato le palpebre per mettere a fuoco lo sguardo febbricitante, una lacrima è sfuggita alle sue ciglia.

Gli ho messo tra le mani la zolletta di zucchero, premio per essere stato bravo, ma lui l'ha guardata senza sapere che farsene.

“Mettila in bocca” gli ha detto il nostro pragmatico figliuolo. “È dolce e si scioglie facilmente.”

L'ha ascoltato, seguendo il suggerimento, e ha spalancato gli occhi quando la dolcezza dello zucchero gli ha invaso la bocca: sono abbastanza sicuro che fosse la prima volta che assaggiava qualcosa del genere.

Erwin non ha commentato, ha solo sorriso, le ginocchia a terra come fa spesso, i gomiti sul bordo del divano e le guance ridenti tra le mani.

Ti somiglia, mia cara, al punto che certe volte guardarlo mi commuove.

Come adesso, che già indebolito dalle circostanze, il mio animo si rifugia nel tuo ricordo, traendo forza dal più grande dono che tu potessi lasciarmi.

Il bambino si è assopito con le dita sporche di zucchero ancora tra le labbra e le guance rosse per la febbre, e ha dormito fino al primo pomeriggio, quando con un mugugno indefinito si è sollevato di scatto dai cuscini.

“Sei al sicuro” gli ho detto, “stai tranquillo” e quando gli ho sfiorato la spalla per rassicurarlo, ho notato che era sudato: ha reagito bene all'antifebbrile.

Con la pelle fresca e una camicia asciutta indosso, ha mangiato con appetito fino a che la tosse glielo ha permesso; non ha voluto che lo aiutassi nemmeno questa volta: ha impugnato il cucchiaio quasi fosse un'arma e ha vuotato il piatto.

Non sono uno sprovveduto, so bene in quali condizioni di miseria verta il sottosuolo, ma vedere l'indigenza e la fame direttamente alla mia tavola, rinnova in me la volontà di andare oltre i rigidi schemi della nostra società, opportunamente chiusa da mura e ogni giorno più infetta.

Erwin mi osserva a lungo ultimamente, soprattutto quando mi perdo in questi pensieri, e ringrazio il nostro ospite, se in questi giorni ha di meglio a cui pensare, di un padre sospettoso.

Verso sera le condizioni del bambino sono di nuovo peggiorate.

Le prime avvisaglie sono stati i colpi di tosse soffocati nel cuscino e quando mi sono avvicinato, lo sguardo che mi ha rivolto era di nuovo vacuo; ha sollevato una mano nella mia direzione: l'ho afferrata subito, sussurrandogli un rassicurante “Sono qui”, anche se non sono sicuro che cercasse davvero me.

Forse invoca una mano che non può più tornare da lui, come faccio io, e si fa bastare il calore di chiunque abbia abbastanza cuore da accogliere la sua supplica.

Erwin è rimasto accanto a lui, mentre gli spalmavo il balsamo sul petto, raccontandogli una storia dal libro di fiabe che tu stessa comprasti e che gli è sempre piaciuta molto, ma nonostante i vapori decongestionanti, sotto il palmo della mia mano il respiro del bambino si è fatto sempre più viscoso.

L'ho avvolto bene nella coperta e l'ho preso in braccio: me lo lascia fare, adesso, senza ritrarsi. In genere mi guarda serio, analizzando ogni mio impercettibile movimento attraverso gli occhi lucidi, ma questa sera ha guardato solo Erwin, con le labbra schiuse e ansimanti, e le orecchie attente alle sue parole.

Mi sono alzato, depositandolo tra i cuscini, solo per attizzare le fiamme nel camino e mentre ero chino sui ciocchi accatastati, Erwin ha concluso la sua storia.

“Ti è piaciuta?” ha domandato con candore, alzando gli occhi dal libro.

Ho visto il bambino annuire con la coda dell'occhio ed Erwin sorridere compiaciuto.

“Come ti chiami” gli ha chiesto, poi

In mezzo ai respiri che gli rantolavano in gola e gli gonfiavano il petto, mi è giunto il sussurro in bilico sulle sue labbra: “L..Levi.”

 

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Capitolo 5
*** 5° Entry ***


5° Entry

 

 

Abbiamo avuto una notte difficile, mia cara.

Una di quelle in cui gli incubi sopraggiungono inarrestabili, fuorvianti, tanto da susseguirsi anche nel dormiveglia, in quello stato di confusione che rende tutto ugualmente angosciante: realtà e immaginazione, e che al risveglio lasciano addosso un terrore soffocante, incollato alla pelle, insieme al gelido velo del sudore.

Levi è stato il primo ad esserne colpito, debole e malato com'è.

Ha gridato nel cuore della notte, e quando l'ho raggiunto, mi ha guardato con occhi sbarrati, lo sguardo perso e terrorizzato e il respiro ansimante. Non mi ha riconosciuto.

Ho allungato la mano verso di lui per rassicurarlo e quello ha scalciato, si è raggomitolato contro la spalliera del divano con un no e un ringhio sommesso, sibilato tra i denti.

Mi ha pietrificato, amore mio, non ho saputo reagire.

Sollevando le mani in segno di resa, mi sono chiesto quante volte abbia dovuto difendersi digrignando i denti nel sottosuolo, se siano state più frequenti le mani intenzionate a colpirlo o quelle desiderose di aiutarlo e se abbia mai potuto concedersi il ristoro di sentirsi protetto.

Di essere cullato sul grembo morbido di una madre, quella che invoca solo nei momenti di maggiore sofferenza, lasciandomi intuire che non sia più presente a proteggere i suoi passi.

È un pensiero che mi ha attanagliato sovente, quando per ascoltare la sua risata contagiosa, facevo rimbalzare nostro figlio sulle mie gambe, sperando che non fossero troppo rigide in confronto alle morbide forme femminili, ma Erwin non ha mai avuto termini di paragone e si è fatto bastare il padre spigoloso che sono, come punto di riferimento.

Levi, invece, non ha più figure di tutela al suo fianco, l'ho capito dal modo in cui ha chinato il viso sulle proprie ginocchia raccolte, rinunciando a cercare istintivamente un aiuto attorno a sé.

Ha tremato per lunghi istanti, ricoperto di sudore, prima che ritornassi padrone di me e con movimenti lenti gli avvolgessi attorno una coperta calda di camino.

Vedere i suoi occhi serrarsi con forza all'avvicinarsi della mia mano mi ha fatto esitare di nuovo.

“Non avere paura” gli ho detto “sei al sicuro, qui con me... e con Erwin.”

Ho nominato nostro figlio perché ho notato che lo osserva spesso e perché penso che la sua presenza sia la variabile che fa la differenza rispetto alle relazioni che l'hanno coinvolto nel sottosuolo.

Tu mi diresti che sto pensando troppo. Hai ragione, ma manco del tuo istinto infallibile, del tuo senso pratico e della tua dolcezza: sono sempre stato più portato ad essere un maestro, un accademico, piuttosto che un padre.

È stata la tosse a portarlo alla resa, non le mie belle e inutili parole, amore mio: l'ha colto con impietosa potenza, piegandolo fino quasi a posare la fronte sulla seduta del divano.

Quando ho infilato la mano sotto il suo petto per sollevarlo e porgergli un po' d'acqua, è crollato di lato contro il mio torace, con le guance rigate di lacrime. Mi ha guardato, poi ha guardato il soffitto e questa volta a scuotergli il petto è stato un singhiozzo.

“Starai meglio” gli ho sussurrato. “Sii forte.”

E mia cara, ho sbagliato, perché la fronte del bambino si è contratta, la linea delle sue labbra è divenuta tesa e chiudendo gli occhi ha lasciato scorrere due rivoli interminabili di lacrime silenziose.

Come sono stato meschino, mia adorata, chiedendo a un bimbo così fragile di mostrarsi forte, quando io stesso, ben lontano dall'avere le sue stesse scusanti, ho odiato e maledetto chiunque avesse -giustamente- preteso da me che lo fossi dopo la tua morte che te ne sei andata.

L'ho stretto tra le braccia, avvolto nella coperta e l'ho portato nella mia stanza.

Lo scalpiccio dei piedini di nostro figlio ci ha raggiunto poco dopo, forse svegliato dal rumore: gli ho fatto cenno di raggiungermi sul nostro letto, dove mi ero già seduto con il bambino ancora tra le braccia, e quello si è arrampicato sul materasso come quando aveva appena imparato a camminare, accoccolandosi al mio fianco.

Ho avuto paura a chiedergli come si sentisse in mezzo ad una situazione così delicata.

Ha posato la guancia contro il mio braccio in silenzio, gli occhi umidi pure lui, e ha avvolto la sua mano attorno a quella di Levi, mentre io gli massaggiavo il torace dolorante con il balsamo decongestionante.

Sono andato avanti a lungo, anche quando la sua pelle era ormai asciutta e l'intero unguento ormai assorbito.

Mi sono appisolato mentre lo facevo, e ho sognato te, amore mio, ho sentito il grido che ti è uscito dalle labbra dando alla luce Erwin, il suo pianto da neonato sovrammettersi al tuo.

Ho rivisto la paura sul volto della levatrice, quando ha scorto il gonfiore delle tue gambe; ho provato di nuovo l'orrore, al pensiero che tu potessi leggere la verità sul mio, in quell'ultimo sguardo confuso che hai mi hai rivolto, prima di lasciarmi per sempre.

E nonostante il dolore che mi provoca, continuo a bramare il ricordo di quei pochi istanti in cui hai stretto tra le braccia la nostra creatura, con la camiciola slacciata e i capelli sciolti sulla pelle sudata, prima che la tua vita si perdesse in un tremito convulso.

Ma quella è un'immagine che non torna mai nei miei sogni.

È stata la mano di Erwin a mettere fine a quell'agonia: mi ha svegliato scuotendomi con quanta forza aveva.

Quando sono riuscito a metterlo a fuoco, mi sono accorto che aveva il volto rigato dalle lacrime.

“Erwin, va tutto bene” gli ho detto, ma lui, dopo un iniziale tentativo di mantenere il controllo, mi ha gettato le braccia al collo.

Non ha pianto, ma il suo respiro spezzato contro il mio collo, mi è sembrato quasi più doloroso, e mi ha spaventato di più: ho sentito il suo cuore, battere a ritmo serrato contro il mio petto

“Sto bene, Erwin” ho ripetuto. “È stato solo un incubo.”

Non ho saputo consolarlo meglio di così, sono stanco, amore mio.

Mentre ti scrivo inizia ad albeggiare.

I bambini dormono accanto a me, sul nostro letto, entrambi tranquilli finalmente.

E io sono qui, a bramare persino gli incubi, pur di avere l'occasione di rivederti.

 

 

 

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Capitolo 6
*** 6° Entry ***


6° Entry

 

 

Dopo la nottata terribile che abbiamo trascorso, oggi abbiamo avuto una mattina assolata e quieta.

Abbiamo sonnecchiato a lungo, fino a che il sole ha cominciato a tingere le imposte chiuse, spandendo una luce calda in tutta la stanza.

Erwin ha sbadigliato, sollevando le braccia dietro la testa e lasciandole ricadere sul cuscino, come faceva quando era solo un neonato, e dopo essersi accertato che fossi al suo fianco si è lasciato di nuovo vincere dalla sonnolenza.

Il suo odore mi ha calmato, come è successo ogni volta in cui ho cercato una ragione per proseguire senza di te affondando il viso tra i suoi capelli soffici.

Mi sono concesso d'immaginarti con me, come in quelle mattine, divenute estate dopo il tuo , quando rubavi i colori all'alba fresca di rugiada, seduta sul davanzale della nostra finestra con i piedi nudi e lo sguardo perso sulla città ancora addormentata.

Quando penso a te, mia adorata, la realtà sfuma in un dolce, soffuso e bellissimo niente, nel quale mi perderei, se non fosse per Erwin.

Certe volte sono i ragazzi delle mie classi, insieme a lui, a rendermi di nuovo entusiasta delle mie giornate: la loro vitalità, l'ingegno in divenire, la totale -o quasi- assenza di quei costrutti posticci che si formano successivamente nella mente degli adulti, mi fanno tornare a respirare, a credere, a sperare in un futuro in cui chiunque, dalla propria finestra, possa scorgere un orizzonte che non sia interrotto da mura grigie.

Sogni di cui non avrei bisogno, se tu fossi ancora con me: non c'è orizzonte che non adorerei se comprendesse ancora il tuo profilo.

Levi si è risvegliato lentamente e con serenità, ho visto le sue palpebre fluttuare e sollevarsi; non ho idea di cosa abbia pensato al suo risveglio, ma l'ho visto volgere lo sguardo confuso intorno alla stanza, per poi posarsi sulla figura di Erwin, addormentato accanto a lui.

Quel raggio di sole che filtrava dalla persiana chiusa, lui ha provato a toccarlo: ha sollevato la mano, l'ha girata su se stessa nel cono di luce e ha seguito la sua traiettoria, finché non si è posata sui capelli illuminati di nostro figlio.

È rimasto immobile per qualche istante, con quei fili dorati tra le dita, ed Erwin ha aperto gli occhi, le iridi blu scuro per la penombra, confuse solo per un unico istante.

“Ciao” gli ha detto, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

E mia cara, quello scricciolo di bambino ha sollevato un sopracciglio come se non fosse abituato ad un simile saluto e dopo qualche secondo, con voce esitante gli ha risposto allo stesso modo.

Il suo ciao è uscito rauco e impastato, ma era la prima volta che comunica volontariamente con noi: ha lusingato il mio orgoglio e accentuato la tenerezza, finché Erwin non ha relegato tutto in secondo piano, riportandoci con ilarità a questioni molto più pratiche con il suo squillante:

“Cosa aspettiamo a fare colazione?”

Mio tesoro, giuro che certe volte le sue uscite sono totalmente decontestualizzate, eppure, in un certo qual modo, salvifiche.

Levi sta meglio oggi. Ha ancora la tosse, sebbene non più soffocante come nei giorni scorsi, e una febbricola leggera che tende a salire verso sera, ma è chiaramente di nuovo in forze e questo sembra accompagnarsi ad una totale incapacità di stare a letto, a riposo.

Il suo sguardo mi ha seguito di sottecchi per quasi tutto il giorno, sebbene fosse preso dalle continue attività in cui Erwin non si è potuto trattenere dal coinvolgerlo, soprattutto quando mi sono seduto allo scrittoio per completare alcune note che avevo lasciato impolverare dopo la frenesia degli ultimi giorni.

Credo che fosse il frusciare del pennino sulla carta ad attirare la sua attenzione, tanto che Erwin ha riposto le stampe a colori che gli stava mostrando ed ha atteso paziente che voltasse di nuovo la testa verso di lui.

“Mio padre è il maestro del paese” ha detto poi. “Vuoi vedere cosa sta scrivendo?”

Ho evitato di rimarcare che probabilmente Levi non sa né leggere né scrivere.

Mi sono alzato, prima che potessero entrambi raggiungermi, incuranti del buonsenso che vorrebbe Levi ancora a riposo e al caldo, tra le coperte del divano, e mi sono seduto accanto a loro.

Ho portato con me i fogli su cui stavo lavorando, insieme a calamaio e pennino, ed è proprio su questi oggetti che si è posato il suo sguardo.

Avrei dovuto capirlo, mia cara, dalla tensione delle sue labbra e dalla serietà di quelle iridi taglienti, che il sospetto lo aveva già messo in allarme, e invece senza riflettere ho sollevato il pennino davanti al suo volto chiedendogli stupidamente: “Vuoi vedere come funziona?”

Si è ritratto all'istante, allontanandosi quanto più ha potuto, ed Erwin, più rapido di me nel reagire e sicuramente più istintivo, gli ha posato una mano sul braccio chiarendo immediatamente: “Non è pericoloso. Serve per scrivere.”

Si è incuriosito, ma ha continuato comunque a guardarci con sospetto, finché Erwin non ha afferrato carta pennino e inchiostro, posandoli sul tavolino davanti al divano, e con i ginocchi in terra gli ha mostrato come usarli.

“Ecco qua!” ha esclamato infine, sollevando il foglio su cui aveva appena compitato Levi. “Questo è il tuo nome” ha aggiunto. “Vuoi provare?”

Non gli ho ostacolati, amore mio, sebbene non ritenga assennato lasciare alzare il bambino dopo la febbre alta di ieri, ma quell'invito sembrava aver cancellato con tale rapidità il suo terrore che non ho potuto oppormi.

L'ho osservato, mentre lasciava che la mano di Erwin guidasse il pennino nella sua: ha sollevato il viso e guardato prima il suo profilo concentrato e poi il foglio, dove sotto la spinta delicata di nostro figlio andava formandosi un abbozzo di parola.

“Prova da solo ora” gli ha detto Erwin lasciando la sua mano, ma rimanendo comunque inginocchiato dietro di lui.

E Levi lo ha fatto, ha spostato di poco la mano e ripetuto le poche lettere del suo nome, grattando leggermente sulla carta.

Mi è sembrato stupito del risultato, affascinato anche: ha scrutato il foglio osservando quei tratti incerti asciugarsi in fretta e poi ha sollevato il pennino toccandone la punta.

Non gli è piaciuto l'inchiostro sulle dita. Ha provato a pulire, strusciandole sulla carta assorbente senza risultato e poi strofinandole con l'altra mano peggiorando la situazione.

Mi è sembrato sul punto d'innervosirsi, così ho afferrato la sua piccola mano tra le mie, pulendogli le dita con un pezzetto di stoffa intinto nell'olio.

Sono tornare pulite e lui ha sospirato, penso che abbia avuto una vita terribile nel sottosuolo, mia cara.

Ho lasciato il panno sul tavolino, in modo che potesse usarlo in autonomia senza interrompere le sue prove con carta e inchiostro, e mi è sembrato che questo lo tranquillizzasse; Erwin gli ha mostrato un'infinità di parole che lui ha copiato, fino a che non ha iniziato a socchiudere le palpebre e ciondolare la testa.

La tosse leggera, ma persistente che è tornata a farsi sentire, mi ha convinto della necessità di ricondurlo sotto le coperte; non mi ha ostacolato mentre lo guidavo di nuovo sul divano, però ha lanciato un ultimo sguardo al foglio su cui si era così impegnato a copiare le parole.

“Puoi continuare dopo, se vuoi” gli ho detto e lui mi è sembrato più propenso a lasciarsi sdraiare e avvolgere nelle coperte e riposare.

Penso che in questi giorni, potrei insegnargli i primi rudimenti scolastici.

 

 

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Capitolo 7
*** 7° Entry ***


7° Entry

 

 

La salute di Levi è migliorata molto negli ultimi tre giorni: non ha più febbre e la tosse è quasi scomparsa, però non dorme.

Passa la notte rigirandosi sul divano e l'altra mattina l'ho trovato addormentato sulla sedia con la testa sul tavolo.

Quando gli ho posato una mano sulla spalla per svegliarlo con delicatezza, è quasi caduto a terra per la fretta di allontanarsi da me.

Mi ha riconosciuto solo lunghi istanti dopo, nei quali il terrore ha sbarrato i suoi occhi e accelerato il respiro, finché non mi sono risolto ad alzare le mani in segno di resa e a chinarmi di fronte a lui come quel primo giorno in strada, mormorandogli:

“Sei al sicuro, ricordi?”

Si è guardato intorno, confuso, e si è rilassato solo quando ha individuato sul tavolino i fogli di Erwin e i suoi colori; ha comunque impiegato qualche istante prima di riuscire ad annuire e ad afferrare la mano che gli stavo porgendo.

Non ho potuto esimermi dal trascinarlo lentamente contro di me, avvolgendogli le braccia attorno: “Passerà la paura, come è passata la tosse, te lo prometto” gli ho bisbigliato.

Non ha replicato, si è lasciato abbracciare con un lieve sospiro. Era gelido di sudore.

La sera gli ho preparato un infuso di melissa, tiglio e passiflora, sperando che avesse su di lui lo stesso effetto benefico che ha sempre avuto su di me.

L'odore emanato da quel miscuglio di erbe nel bollitore mi ha commosso: lo associo ancora a te, all'insonnia annegata nei libri e scacciata dalla tua mano. Dalla morbidezza del tuo corpo contro la mia schiena, dal conforto delle tue braccia allacciate appena sotto il mio cuore e dal bisbiglio lieve della tua voce: “Lascia andare tutti questi pensieri Ludwig, lasciali qui sulla scrivania, li ritroverai domani...”

Forse non era quel tè che mi posavi davanti a farmi bene, forse eri tu.

Su di lui ha avuto effetto, comunque. Si è addormentato subito e ha dormito a lungo, anche se immagino che si sia svegliato in un momento imprecisato della notte, perché la mattina l'ho trovato accoccolato contro la schiena di Erwin, nel suo letto, e più tardi gli ho sentiti pigolare come passerotti nel nido.

Non li ho interrotti, li ho lasciati alle loro storie e alla loro immaginazione.

Quella di Erwin è fervente, difficilissima da imbrigliare -sebbene io non abbia mai desiderato farlo-, appassionata quanto la tua, ma credo che desideri un compagno: soffre di solitudine pur non essendone consapevole.

“Rimarrà con noi, non è vero, papà?”

Lo ha chiesto sottovoce, ieri sera, guardandomi negli occhi, serio come non lo era mai stato.

Non ho risposto, ho continuato a preparare la cena, ma lo sguardo di nostro figlio non mi ha mai abbandonato.

“Chi si prende cura di te, Levi?” ho domandato, una volta seduti davanti ai nostri piatti.

Mi ha risposto con un'occhiata scettica e un lieve fremito nel labbro inferiore; il cucchiaio ha oscillato nella sua mano anche se non ha più i geloni.

“Kenny” ha mormorato, spostando lo sguardo sulla sua zuppa, e lasciandomi intuire un seguito che forse non può pronunciare.

Erwin non ha commentato, ma ha osservato con attenzione e quando mi sono alzato per non lasciar spegnere il fuoco nella stufa, gli ha chiesto dove fosse la sua mamma.

“Morta” gli ha risposto Levi.

E sono sicuro, mia cara: nel momento in cui Erwin ha puntato gli occhi nei suoi sussurrando piano “Anche la mia”, è successo qualcosa tra loro.

È quella connessione che talvolta ho visto nascere tra i miei studenti, nello scoprire di non essere soli in una situazione di disagio.

È il sollievo di sentirsi compresi, senza che siano necessarie le parole, che spinge le mani a cercarsi al di sotto della linea dei banchi e a stringersi, come hanno fatto le loro, sotto il tavolo della nostra cucina.

Mia cara, ho deciso in quell'istante che avrei fatto il possibile per tenere con me il bambino e stamani il dottor Lange si è detto disposto ad aiutarmi a rintracciare Kenny.

Non m'illudo che sia facile, ma oggi è una giornata luminosa e la voce di Erwin non mi è mai sembrata tanto allegra, mentre ciarla di tutto ciò che potrebbero fare all'aperto.

Tanto che la sua domanda nemmeno mi sorprende.

“Possiamo uscire, papà? C'è il sole...”

Erwin è qui con me in questo momento, in piedi di fronte allo scrittoio, composto e attento, in attesa di risposta che non dubito sia per lui di fondamentale importanza.

Levi tende le orecchie, inclinando la testa verso di noi con le mani agganciate al davanzale, mentre cerca di scorgere attraverso il vetro quanto più possibile dell'esterno: gli piace il sole, è sempre stato al buio.

Sospiro, i fogli sotto le mie mani scricchiolano.

Lo so cosa mi stai dicendo, amore mio, e hai ragione, come sempre.

Ripongo la penna e vado con loro.

 

 

Fine.

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