Undercover

di Joy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Nata questa estate come One Shot, ho deciso di ripostarla e trasformarla in una serie. ^^

 

Ambientazione 4°stagione

What if

Alive!Marco

Hurt/Comfort

Dark

Sex after comfort

 

Scritta per la “Are You Kidding Challege” (dove il protagonista, a causa del contesto, mostra un comportamento diverso dal solito), indetta dal gruppo Facebook Hurt/Comfort Italia

 

 

 

 

UNDERCOVER

 

 

 

1.

 

 

 

“Eccomi, ci sono. Ci sono, Marco, ti ho trovato.”

“Rallenta Jean. Sto bene e tu stai facendo troppo rumore: qui i muri sono sottili.”

Nel buio pesto dei sotterranei del Palazzo di Giustizia di Marley, la voce di Marco è un suono nitido e cristallino.

È proprio la sua, Jean l'avrebbe riconosciuta anche se non avesse scorto la linea familiare del suo corpo contro la parete di mattoni, eppure contiene qualcosa di pungente e sfrontato che lo fa sussultare, e non è abituato.

Si avvicina, scruta con il cuore in gola l'immagine che ha di fronte, tagliata dalle sbarre della porta, e suo malgrado ridimensiona i toni.

“Stai bene, eh?” commenta sarcastico facendo scattare la serratura che chiude la cella. “Lo vedo. Hai proprio una bella cera: il blu principio di congelamento ti dona.”

Marco sorride solo con il lato sinistro del viso, quello destro è immobile: con la vascolarizzazione peggiorata dal tessuto cicatrizzato, Jean non fatica a catalogarlo come un brutto segno.

“Hanno solo provato ad intimorirmi, lasciandomi qui nudo” gli risponde tuttavia con noncuranza. “Stanno sondando il terreno. Non mi hanno fatto nulla.”

La paglia su cui Jean posa i piedi quando riesce a entrare è putrida e l'aria talmente densa d'umidità da affogare i polmoni.

Si toglie il cappotto e glielo posa sulle spalle, prima di far scattare anche la serratura dell'anello che gli blocca il polso.

“Lo faranno e lo sai” ribatte posandogli due dita sul collo. “Quando capiranno di non poter ottenere alcuna informazione utile ti useranno per il loro divertimento.”

Sposta la mano sul lato destro del suo viso e lo trova gelido, rigido: lo friziona piano con pollice.

“E non si cureranno di lasciarti sopravvivere alla festa” aggiunge.

Gli toglie la benda che copre l'occhio cieco e traccia i contorni del sopracciglio e dello zigomo, massaggiando piano. Marco si lascia sfuggire un sospiro, uno soltanto.

Se si fosse concesso anche solo un respiro in più, Jean vi avrebbe posato sopra le labbra, come ha fatto molte volte, impaziente di sentirlo gemere ancora, più forte.

Ma Marco non lo fa. Torna a respirare piano, in modo controllato, come se fosse concentrato nel farlo in modo corretto.

“Non succederà” lo corregge dopo quell'istante di silenzio. “Hanno guardato con disgusto le mie cicatrici.”

“Certo. E hanno pensato di aggiungerne altre” sbotta Jean, avvicinando con cautela le dita alla zona arrossata che spicca sulla pelle grigiastra del suo torace. “Questa con cosa te l'hanno fatta?”

“Sigaretta” risponde Marco. “Qualcuno ha trovato divertente convertire il mio ho freddo in un brucia. Sono stato incauto a lasciarmelo sfuggire, lo ammetto.”

Jean sente una rabbia dentro che lo consuma più di quanto faccia il fuoco con quelle cannucce di tabacco che vanno tanto di moda a Marley.

Marco scuote la testa come se non ne valesse la pena: “Non è niente, Jean. Sai bene che ho passato di peggio.”

Tenta di sorridere. Gli riesce male questa volta. E non si muove, Jean realizza che è rimasto nella stessa posizione adagiata contro il muro nonostante il suo polso sia ora libero dalle catene.

“Fatico ad accettare quello che stai facendo, Marco” inizia, “me ne faccio una ragione, ma ti prego, ti prego, non rendere queste crudeltà accettabili, solo perché ne hai subite di peggiori.”

Non risponde.

Jean osserva il suo sguardo diventare vacuo e la mandibola contrarsi; anche il suo respiro è cambiato, invece che regolare e cadenzato -da sembrare quasi finto- adesso esce a tratti dalle sue labbra alternando piccole apnee.

“Dove?” chiede risoluto.

Marco abbassa la palpebra e scuote appena la testa.

“Dove senti dolore?” insiste Jean, percorrendo con lo sguardo i suoi punti critici, quelli che ha accarezzato e massaggiato nelle notti in cui i crampi li hanno svegliati entrambi; quelli che ama baciare, perché il dolore di Marco gli appartiene, l'hanno condiviso fin dall'inizio.

Indugia sulle vecchie cicatrici che gli percorrono il fianco destro e parte del torace e vi poggia deciso entrambe le mani. Le scalda prima di farlo, le infila sotto la divisa nemica che indossa ormai senza più vergogna e aspetta che il calore vi si sia trasferito, prima di posarle sul costato contratto di Marco.

“È qui vero?” chiede, anche se sa perfettamente la risposta. La sente sotto le dita, gliela comunicano i muscoli stessi che si allentano sotto il suo tocco, la sente nello sciogliersi graduale di quel respiro dolorosamente congelato, la vede nello sguardo di Marco che torna lucido e pure un po' umido.

“Oh Marco...” mormora, spostando una mano per avvolgergli le spalle e tirarselo contro il petto.

“Non sono più un ragazzino, Jean” protesta debolmente per un istante, ma non si ritrae.

Jean pensa che in fondo non ha motivo di farlo, sono sempre stati parte l'uno dell'altro.

“Lo so” gli risponde tra i capelli. “Neanch'io lo sono più.”

“Voglio continuare la missione” mormora Marco a bruciapelo, senza neanche spostare il viso dall'incavo del suo collo e fa talmente male che Jean sente di non poter gettar fuori l'aria che gli gonfia i polmoni fino a scoppiare.

“Non succederà niente di grave, vedrai” aggiunge.

E Cristo Santo, Jean vorrebbe aver portato con sé uno di quei sedativi ad effetto rapido da iniettargli a tradimento, pur di trascinarlo fuori da quel posto di merda e da quell'incubo.

Se non succederà, sarà perché ti porterò via ora” sbotta Jean deciso. “E non voglio più scoprire che ti sei infiltrato nel continente al posto mio.”

Marco si scosta da lui e infila il braccio nella manica del cappotto che ha ancora sulle spalle.

“Era la cosa migliore da fare” ribatte. “La tua copertura era saltata ed io ero credibile come inserviente: un povero soldato marleano, menomato nell'adempimento dei suoi doveri al fronte...”

Tenta di chiudere i bottoni e non ci riesce, Jean posa le mani sulla sua.

“Un povero soldato marleano con un serramanico cucito nella fodera della manica destra” commenta, mentre infila i bottoni nelle asole per lui. “Come l'hanno presa quando l'hanno scoperto?”

“Non l'hanno scoperto” chiarisce Marco, adagiando la testa contro il muro, esausto. “Non lo porto sempre con me: sto studiando la situazione, valutando ipotesi. Lo userò al momento giusto.”

“Oh davvero?” lo canzona bonariamente, mentre scende con lo sguardo a verificare che non abbia lesioni importanti a gambe e piedi. “E quando sarebbe il momento giusto?”

“Dopo che avrò finito di avvelenarli poco alla volta con il mercurio.”

Non c'è inflessione nella sua voce, mentre pronuncia quelle parole, è freddo e sterile, lo sguardo fisso su una porta che lui non ha mai desiderato di veder aprire. Non prima del tempo, almeno.

“Se mi lasci qui, concluderò la missione” ribadisce.

“No” obietta secco, Jean. “Giuro su Dio, Marco, questa tua versione vendicativa e incosciente mi farà invecchiare prima del tempo.”

Si alza da terra e lo aiuta a mettersi in piedi.

“Mi accontenterei se tu sopravvivessi fino alla vecchiaia...” commenta Marco, barcollando incerto sulle proprie gambe. Jean gli avvolge un braccio intorno alla vita.

“Tu che parli di vecchiaia? Mi era sembrato di capire che fossi contrario ad una vita fatta di focolare domestico e pantofole ricamate.”

Marco sbuffa e si limita a sostenersi posando una mano sulla sua spalla.

“Sono stufo di riordinare archivi, Jean. Se tu sei sul campo, voglio esserci anch'io.”

Ed è qualcosa che Jean brama e teme da anni, perché gli è mancata la presenza costante di Marco al suo fianco, durante le lunghe giornate di allenamento, ma non sa come accettare i rischi che corre gettandosi in quel modo tra le braccia del nemico. Per causa sua, oltretutto.

“Vorrei che tu avessi ancora fiducia nelle mie capacità, Jean. Un tempo era così” ribadisce.

“La mia fiducia non è qualcosa che puoi perdere” gli risponde, “persino di fronte a...” solleva gli occhi verso l'alto, dove un soffitto di nude travi li separa da tre piani pullulanti di militari nemici, “situazioni disperate come questa.” Riporta lo sguardo su di lui e gli posa una mano sul viso, è ancora gelido, nota.

“Ma non mentirmi: è vendetta quella che stai cercando”

Marco non si sottrae al suo tocco né alle sue parole: “Sì, anche quella” ammette.

“Vai avanti” riprende dopo un istante, retrocedendo di un passo. “Mettiamo in scena 'guardia e prigioniero', no?” commenta scrutando apertamente la divisa marlena che ha indossato per intrufolarsi nelle prigioni. “Sarebbe strano vederti mentre mi sostieni.”

Jean vorrebbe fargli notare che per quelle persone sarebbe strano anche solo vedere il suo volto, considerato che sei mesi prima la sua copertura è saltata.

Ha controllato che fosse di guardia un novizio appena arruolato prima d'intrufolarsi nelle prigioni, ma immagina che il suo fascicolo sia stato mostrato a tutte le forze armate in essere.

Marco serra le labbra, e Jean è certo che sia consapevole dei rischi quanto lui.

Lo supera di qualche passo ed esce dalla cella.

“Andiamo” dice ostentando una sicurezza che non prova. “E speriamo che Teodor Gorski sia rimbambito quanto dicono.”

 

***

 

Se c'è una cosa che Jean ha imparato nel periodo in cui ha ricoperto il ruolo di spia infiltrata a Marley è che un silenzio ostentato, accompagnato da un'occhiata di gelida sufficienza con contorno di mostrina graduata da ufficiale di alto rango, sono in grado di aprire qualsiasi porta. A patto che la matricola addetta ai controlli sia sufficientemente giovane e influenzabile, ovvio.

Si concentra su quella labile certezza, mentre avanza a mento alto nei corridoi bui, fingendo che quella follia non sia un piano suicida.

Il passo strascicato di Marco alle sue spalle e il tintinnare delle catene che ha dovuto stringere attorno alle sue caviglie, gli ricordano che non avrà margine di errore: o recita bene -con il benestare, si spera, di poche oscillazioni da parte della fortuna- o moriranno entrambi, rimpiangendo di non avere, nascoste tra i denti, quelle capsule di cianuro che ha visto schiumare tra le labbra di quanti preferiscono arrendersi ad una morte rapida piuttosto che cadere nelle mani del nemico.

“Documenti, signore” lo ferma la guardia a presidio dell'uscita, mentre il suo sguardo si sposta con sospetto sul cappotto della divisa militare indossato da Marco.

“Perché il prigioniero indossa il suo pastrano, signore?”

Jean se l'aspettava. Il ragazzo sembra giovane come dice il suo fascicolo, ma non così imbranato come lo descrivono i racconti di taverna, nelle serate gioviali e cameratesche a cui ha fatto in modo di assistere ben nascosto dietro a un mazzo di carte.

“Da dove vieni, matricola Gorski?” chiede a sua volta impettito, avendo cura d'impregnare le parole d'un tono di comando.

“Dai territori ad est, signore.”

Jean gli lancia uno sguardo sprezzante.

“Forse nelle brughiere selvagge dove vivono gli zoticoni come te, è normale assistere a scene incivili” il ragazzo contrae la mascella, ma resta in silenzio, “ma gli onorevoli cittadini di Marley non sono abituati a vedersi sbattere davanti agli occhi le nudità di un prigioniero, mutilato per giunta.”

La sicurezza del ragazzo barcolla, ma non cede: ha ancora un guizzo di sospetto nello sguardo e la mano sull'arma da fuoco che porta alla cintura. Jean decide che è il momento di alzare il tiro.

“Qual è il nome della fanciulla che ogni giorno ti aspetta qui davanti, sul calesse, scortata dal padre e dalla governante?” sibila, ostentando un falso interesse.

“Harriet Jolie Mitchell, signore.”

“Secondo te” scandisce bene le parole, “la signorina Mitchell, merita di assistere ad una simile visione?” strattona il cappotto dalle spalle di Marco e lo lascia cadere a terra.

Si odia per quello che sta facendo, ma lo sguardo di Marco è fisso di fronte a sé e non lascia trapelare niente di ciò che gli passa per la testa, mentre quello della matricola tentenna.

“N..no, signore!” ne conviene e sembra finalmente convinto.

Jean respira.

“Se non fosse per l'inettitudine di voi soldati senza cervello, non avrei dovuto sacrificare il mio vestiario per proteggere il pudore dei cittadini di Marley” rincara.

“Tutto bene qui, soldato Gorski?”

La voce proviene dalla stanza attigua al blocco, Jean volge lo sguardo in quella direzione, dissimulando la tensione crescente che avverte nel petto.

Un militare dall'aspetto vissuto appare sulla soglia, la fronte contrita dalle rughe di un evidente malumore.

Jean cerca le mostrine con i gradi, sulla sua divisa: sottufficiale. La paura retrocede, lasciando a traccia del suo passaggio solo un lieve formicolio.

“Sissignore!” risponde Gorski accompagnando le parole al saluto militare. “Questo prigioniero deve essere trasferito, signore.”

L'uomo getta uno sguardo carico di disprezzo alla figura nuda di Marco e non tenta nemmeno di nascondere la smorfia di disgusto che gli increspa le labbra: ha una fila di denti ingialliti dal fumo e dalla scarsa igiene. Jean glieli farebbe saltare tutti.

“I documenti sono in regola?” domanda ancora.

Jean gli porge il plico di fogli e deve rammentare a se stesso che non corre rischi -a meno di non fare qualche cazzata sul finale-, perché il suo grado è superiore, e poco importa se ha sul volto un'espressione da ribelle pronto a far saltare in aria l'intero Palazzo di Giustizia.

Il colpo di tosse attutito, proveniente da Marco, non sembra un espediente finalizzato alla loro fuga, ma lo ammonisce sulla necessità di tenere i nervi saldi.

Attende paziente che i documenti tornino nelle sue mani e sceglie di non commentarne i tempi.

“Procedete” dichiara infine il sottufficiale. Poi si avvicina a Marco e lo colpisce sul fianco con il calcio del fucile “E tu, santo cielo, copriti” sibila sprezzante. “Non abbiamo bisogno di una simile visione raccapricciante.”

Jean rivaluta l'ipotesi di far implodere l'edificio su se stesso, seduta stante.

Si trattiene solo perché l'uscita dista solo due metri da loro, hanno a tutti gli effetti superato il blocco e una camionetta militare li attende nel piazzale per portarli in un luogo sicuro.

Si trattiene perché Marco ha bisogno della sua fiducia, non della sua compassione: lo ha chiesto lui stesso, e perché nonostante l'abrasione che Jean ha visto comparire sul suo fianco mentre si piegava su se stesso, Marco sembra comunque in grado di rimettersi in piedi e infilarsi di nuovo il cappotto.

Tiene la bocca chiusa e gli occhi aperti sull'uscita, aspetta con mani bramose di aiutarlo, che Marco sia di nuovo in grado di camminare e varca con decisione la soglia.

Se Marley voleva intrattenersi con lo spettacolo delle loro teste nel cappio di una forca, dovrà sfogare i suoi pruriti su qualcun'altro: lui e Marco se ne tornano a casa.

 

 

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Capitolo 2
*** 2. ***


2.

 

 

 

La stanza si è riscaldata in fretta; sono bastati un paio di ciocchi nel camino, un braciere colmo di tizzoni sotto l'infuso dolciastro che ha scovato rovistando tra le scorte stantie e il vapore dell'acqua calda che s'innalza dai bordi della vecchia vasca in ottone.

“Non ho mai utilizzato questo rifugio” chiarisce Jean, estraendo dalla cassapanca ai piedi del letto una scatola colma di bende e boccette. “È sicuro.”

Marco, in piedi di fronte al camino, annuisce appena dandogli le spalle.

È chiuso nel suo silenzio da quando hanno varcato la soglia, dopo aver viaggiato fino a sera inoltrata in direzione del porto e nell'ultimo tratto di strada, che hanno percorso a piedi nella sterpaglia, Jean lo ha visto vacillare più volte.

Lo ha preso per mano, di più Marco non gli ha concesso.

“Lascia che controlli il fianco e quelle bruciature” tenta con tono leggero, “poi potrai immergerti nella vasca e non ti disturberò...”

“Non è necessario” taglia corto deciso. Solleva il braccio fino a posarlo sulla mensola del camino e vi adagia la fronte sopra.

Sospira.

La pelle nuda della sua schiena si tende.

Il cappotto, umido della guazza serale, è abbandonato sulla spalliera della sedia più vicina, dove Marco lo ha gettato quando la legna nel camino ha cominciato a scoppiettare riscaldando l'aria del rifugio.

Non sembra far caso alla propria nudità.

Jean lo osserva su uno sfondo di fiamme guizzanti: non vi sono cicatrici evidenti sulla sua schiena, e se l'angolazione lascia in ombra la spalla destra, Jean ha la sensazione di avere di fronte agli occhi il ragazzo che era.

Quello che si era scoperto a sbirciare, la sera nei bagni comuni e che legava i suoi sguardi e ogni suo desiderio ad un sorriso costellato di lentiggini.

Non gli manca quell'innocenza, nessuno di loro la merita più, con quelle mani ormai grondanti di sangue, ma nemmeno è disposto a lasciarlo dilaniare da una rabbia che lo consumi come le fiamme su quei ciocchi inariditi dal tempo.

Posa la scatola dei medicinali sul tavolo e si porta alle sue spalle.

“Marco...” sussurra. Posa una mano lieve sui muscoli contratti della sua schiena e quello sussulta.

“Se non fossi venuto a salvarmi, avrei portato a termine la mia vendetta” snocciola in fretta, come se quelle parole gli pesassero. Non la chiama missione, questa volta ha il coraggio di dare a ciò che desidera il nome corretto.

Continua a mostrargli la schiena e a Jean fa male.

Fa talmente male che non riesce nemmeno a stare in piedi, si piega in avanti e gli avvolge entrambe le braccia attorno alla vita, china la testa sulla sua spalla e chiude gli occhi.

La sua pelle sa di fumo, polvere e sudore.

“E saresti finito sul patibolo o a marcire in qualche prigione sotterranea... per colpa mia?” biascica. “Non abbiamo già sacrificato abbastanza?”

Marco non risponde.

Le sue spalle vibrano, però. Un gemito strozzato gli muore in gola, Jean ne sente la vibrazione più che il suono.

Marco non è mai stato uno dalla lacrima facile, nonostante tutto quello che ha passato; e di pianti sostenuti, come quello ora gli scuote la schiena, Jean ne ricorda solo un altro, molti anni prima: quello di un ragazzo che non riusciva a mostrarsi nudo con la pelle graffiata dalle cicatrici.

“Marco” lo chiama e afferra una coperta dalla sedia più vicina, perché sospetta che questa volta non riesca a coprirsi, deciso com'è a fare a meno di ogni emozione.

Gliela avvolge attorno alle spalle e torna ad allacciargli le braccia al petto.

Lì in piedi, di fronte al camino, con le lacrime che ormai gli bagnano il braccio e colano sulla mensola, Jean aspetta che abbia finito; e quando finalmente alza la testa, lo costringe a voltarsi.

“Vieni qui” gli dice, tirandolo contro il suo petto.

Non fa resistenza questa volta, chiude nel pugno la stoffa della sua camicia e posa la guancia sulla sua spalla.

“Sono stanco” mormora, e il suono della sua voce è ancora umido di lacrime.

Certo che lo è, pensa.

Vivere per settimane in una condizione di allerta costante, con la mente su due fronti, passando dalla recita alla realtà fin quasi a distruggerne il confine, è estenuante, Jean lo sa bene.

“Vieni” gli dice di nuovo guidandolo verso il letto. “Siediti qui.”

Lo tiene tra le braccia. Jean sa che lo farà finché non sarà lui a ritrarsi. Non gl'importa se non è più un ragazzo, del resto l'ha cullato talmente tante volte, quando il dolore dell'amputazione lo teneva sveglio, che gli viene naturale.

E in fondo non sono passati poi così tanti anni, da quelle notti.

Quando sedeva sul suo letto d'infermeria e lo abbracciava dondolando fino all'alba; canticchiava per lui ogni sorta di filastrocca ricordasse dall'infanzia, finché non sentiva il suo peso aumentare contro il petto e sulla spalla, e la sua mano allentare la presa sui suoi vestiti; le uniche volte in cui Hanji non lo rimproverava se si sedeva con la divisa ancora indosso, sulle lenzuola pulite.

Lo fa anche adesso, perché Marco ha lo stesso sguardo di allora: quello che sembra guardare già oltre.

Oltre cosa, Jean ha sempre avuto paura a pensarlo.

Solleva la coperta che continua a scivolargli dalle spalle, e stringe la presa intorno a lui, lo farebbe per tutta la notte, ma Marco non si lascia andare come faceva un tempo, continua a fissare il vuoto, rigido e sofferente.

“Rimani con me, Marco” gli mormora contro l'orecchio.

E non si aspetta una risposta, ma la mano di Marco si sposta sul suo braccio e stringe.

“Ci sono, Jean” sussurra.

L'aria torna a fluire dentro e fuori i suoi polmoni,

“Eccolo qui” commenta nascondendo un sorriso triste tra i suoi capelli, “il mio Marco.”

Poi gli prende il volto tra le mani e cancella via le tracce lasciate dalle lacrime: “Non mi lasciare più” sussurra sulle sue labbra.

 

***

 

“Non l'ho fatto solo per te, sai?” confessa Marco, la mano intrecciata alla sua che dalla sommità del ginocchio sfiora il pelo dell'acqua e la schiena contro il suo petto.

“Volevo...” si sforza.

Sembra difficile. Jean gli elargisce un paio di carezze, strusciando le nocche tra l'orecchio e la gola, e sorride dei brividi che gli irruvidiscono all'istante il braccio.

“Avevo bisogno...” esita ancora.

“Ho capito, Marco” lo rassicura.

Registra distrattamente che avrebbe dovuto lasciarglielo dire, che voleva sentirsi di nuovo indipendente, autonomo; permettergli di trovare le parole, buttarle fuori e sentirle risuonare in luoghi che non fossero solo le pareti della sua testa. Ma Marco è stanco, ogni fibra del suo corpo lo grida, e ha crampi frequenti sul lato destro del corpo: Jean se ne accorge anche se non parla, sente i muscoli irrigidirsi intorno alle vecchie ferite, sente l'immobilità dei suoi polmoni congelati dal dolore contro il suo petto.

Scende con la mano a massaggiare ogni sua cicatrice, le scorre piano una alla volta dal torace al fianco, per poi tornare indietro e ripercorrere la stessa strada.

“Sai che farei qualsiasi cosa ti faccia stare meglio, vero?” mormora contro il suo orecchio, non appena sente la rigidità dolorosa concedergli una tregua.

Marco tira su col naso e sospira stancamente.

“Forse non dovresti” risponde.

 

***

 

“La tua temperatura sembra tornata normale. Hai ancora freddo?”

Sulla mano che Jean gli ha posato sul collo vibra il no della sua risposta.

Tra i lembi aperti della camicia, recuperata dalla cassapanca del rifugio, le bruciature spiccano infiammate sul suo petto; Jean può immaginare le fitte di dolore, ravvivate dal calore dell'acqua calda in cui è stato immerso, quasi fossero sue.

Avvicina le punte delle dita senza toccarle.

“Posso occuparmene, ora?” chiede senza alzare lo sguardo: le lentiggini superstiti sono esattamente dove le ricorda.

“Puoi farlo se vuoi, ma non sono molto dolorose” gli risponde Marco. “Lo è di più rinunciare.”

La presa delle sue dita sul vasetto dell'unguento che ha recuperato si allenta, non gli sfugge di mano per miracolo: “A cosa stai rinunciando, Marco?” gli chiede sollevando il viso, e questa volta non riesce ad epurare il tono dall'amarezza che sta provando. “Alla vendetta? Oppure stai rinunciando a me?”

Fa male. E Jean è sicuro che sia così anche per lui, perché non riesce a sostenere il suo sguardo

“Non perdi molto se me ne vado” è la risposta, borbottata a capo chino, che ottiene.

È come un soffio gelido che gli immobilizza il petto.

La crema nel barattolo è dura e pastosa: gli blocca le dita.

Tutto si ferma, anche il respiro.

Vorrebbe dirgli che perderebbe tutto senza di lui, che non può davvero credere una cosa simile e-

“Scusa, Jean” sente insieme alla mano che improvvisamente gli sfiora la guancia; si rifugia in quel contatto: è passato troppo tempo dall'ultima volta che Marco lo ha accarezzato.

“Sei proprio un cretino” mormora a occhi chiusi.

“Sì, lo sono” ne conviene Marco, un mezzo sorriso complice a tagliare la tensione del momento.

Jean resterebbe immobile e in silenzio sotto il suo tocco per tutta la notte.

“Questa roba è piuttosto datata” commenta invece, estraendo le dita dal contenitore e spalmandone il contenuto sulle zone arrossate.

I muscoli di Marco si contraggono. Non si lamenta, però Jean si scusa lo stesso.

“Sopporta solo per qualche istante” aggiunge continuando piano, poi scosta il lembo della camicia per scoprire il fianco: ha un livido fiorito sotto pelle, sfiorato da un'abrasione superficiale.

Non è una gran ferita in mezzo alle cicatrici crudeli che dal petto si allungano al fianco destro, posa il palmo aperto sulla sua coscia ed estende la crema fino a coprire anche quella zona.

“Ti sto facendo male?” chiede, quando sente la gamba irrigidirsi sotto la sua presa.

Marco non risponde se non alzando lo sguardo sul suo volto: Jean lo sente formicolare sulla pelle, mentre srotola le bende attorno al suo torace. Sente anche un respiro lieve, seguito dal calore della sua mano sul collo.

E dopo un istante, il tocco lieve delle sue labbra sulla bocca.

 

***

 

Marco è nato con le costellazioni del cielo sulla pelle.

Quando guarda quei puntini, Jean non sente limiti al trasporto che prova: loro si chiudono in forme geometriche e lui si perde fuori dai loro confini.

Lo sente ridere quando traccia con l'indice le linee immaginarie che li uniscono e l'eco di quel suono riecheggia all'infinito.

Una volta ha fatto la stessa cosa con le sue cicatrici e Marco ha pianto.

Ha fatto di tutto purché quel suono si spegnesse subito.

Ha dato un nome ad ogni galassia puntiforme, ad ogni frastagliato cratere su una pelle ancora più simile alla luna, e gli ha detto che l'universo intero era tutto disegnato sul suo corpo.

Marco l'ha baciato con le guance bagnate e gli ha allacciato le gambe attorno alla vita, perché non ci fossero barriere a dividerli.

A volte Jean pensa che sul proprio corpo, quei confini non siano serviti a molto: li ha sentiti crollare miseramente contro la sua volontà, in una cella fetida, con l'ausilio di un po' di saliva scivolosa.

Non ha potuto asciugarsi le lacrime quella volta, con le mani legate.

Marco lo fa ora, con le labbra.

“Siamo proprio una bella coppia di disperati” gli dice, la fronte contro la sua.

A Jean basta che siano una coppia, perché quell'amore, se lo prova da solo, diventa un'agonia.

E non c'è niente che gli faccia più paura.

Posa la bocca sulla sua, gli avvolge le braccia attorno e lo spinge indietro tra i cuscini.

Si sdraia e la pelle calda di Marco, finalmente a contatto con la sua, lo commuove di nuovo: lo fa sentire a casa.

Lo sente muoversi sotto di lui, insinuare la mano tra i loro corpi e l'avvolgerla attorno alle loro erezioni: lo bacerebbe, ma ha le labbra paralizzate appena sopra la sua bocca, mentre assorbe un respiro lieve che troppe volte ha avuto il timore di aver perso per sempre.

Chiude gli occhi e trema.

La mano di Marco scivola avanti e indietro troppo lentamente: lo fa impazzire.

“Non durerò a lungo...” lo avvisa con un filo di voce.

“Nemmeno io” gli risponde Marco in un soffio.

Ed è così naturale provare piacere con lui, che Jean nemmeno prova a trattenersi per fare di più.

Si lascia travolgere, perché non ha bisogno che sia memorabile, vuole solo che sia abitudine, normalità.

E che Marco lo segua, nell'orgasmo e sul sentiero, come ha sempre fatto.

Vuole la vita per la quale hanno combattuto entrambi fin da quando erano poco più che bambini.

Vuole la pace e sapere che quel piacere che gli esplode in grembo, potrà averlo per sempre.

Esala un sospiro appagato e rotola di lato, afferrando dal tavolino a fianco del letto un panno per pulirsi.

Vuole una vita dove Marco può rubarglielo dalle mani, quel panno, per pulirsi a sua volta, con le guance gonfie di una risata che sta tentando di trattenere.

Una in cui può baciargli le labbra, intrecciare le gambe alle sue e sollevare le coperte fino a coprirli entrambi.

E dove può addormentarsi quasi all'istante con la testa sul suo petto.

 

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Capitolo 3
*** 3. ***


Autore: Joy Inblue

Fandom: Attack on Titan

Personaggi: Jean/Marco.

Tag: Ambientata a Marley.

 

Scritta per la The Conception Challenge, gruppo facebook Hurt/Comfort Italia.

 

Prompt: Regalo inaspettato

 

 

3.

 

 

 

“Quel bambino rannicchiato sul marciapiede...” mormora Jean, il cappello calato sugli occhi e la fascia eldiana in bella mostra sul braccio sinistro. “Dove sono i suoi genitori?”

Porge una manciata di monete alla proprietaria di uno dei banchi più scarni del mercato del ghetto, e quella gli rivolge uno sguardo mesto, prima di abbassare gli occhi sul cesto di provviste

“Morti” alita. “Sono stati giustiziati due settimane fa con l'accusa di aver cospirato contro Marley.”

Sposta lo sguardo inquieto da un lato all'altro della strada con fare guardingo: “Avrebbero fatto meglio a prendersi anche il bambino” aggiunge in un soffio. “Morirà lo stesso, solo più lentamente.”

Non può permettersi il brivido che mina la fermezza della sua mano mentre afferra il resto, ha già abusato anche troppo della fortuna, trascinando Marco fuori dal Palazzo di Giustizia, ma quel bambino sembra così piccolo, troppo persino per mendicare da solo, e Jean non riesce a ricordare un solo momento della sua infanzia in cui non fosse terrorizzato da qualcosa e aggrappato alla gonna di sua madre.

“C'è qualcuno che può occuparsene?” domanda, sforzandosi di deglutire anche se si sente la gola improvvisamente asciutta.

“È figlio di traditori, nessuno ha il coraggio di prenderlo con sé” replica la donna, abbassando ancor più il tono.

Jean non stenta a crederlo: ha letto sui volti della gente, come la sottomissione, nel ghetto di Marley, sia stata ottenuta con una spietata politica di terrore.

Si allontana dal banco per raggiungere il bambino.

Trema e ha le ginocchia nude e sbucciate.

“Ehi...” sussurra Jean, chinandosi su di lui e quello si ritira ancor più nel suo cantuccio.

“Non voglio farti male” tenta, di fronte a quella posa chiusa che non lascia spiragli, “ma solo darti questo” seguita porgendogli la bottiglia di latte che ha appena comprato. “Sarai affamato...”

Svita il tappo per lui e la tiene sollevata all'altezza del suo viso, finché il bambino non si decide a sbirciare da sopra le braccia incrociate.

“Prendilo” insiste Jean “serve più a te che ha me, e non voglio niente in cambio.”

Il bambino solleva su di lui uno sguardo spento, tanto che Jean si chiede se abbia capito una sola parola di ciò che gli ha detto, e gli mostra un musetto pallido e scavato, occhi scuri e una spruzzata di lentiggini.

Il cuore di Jean perde un battito.

Sbriciola un'imprecazione tra i denti, si scorda pure della bottiglia a cui il bambino ha d'istinto portato la bocca e realizza che non riuscirà mai a lasciarlo lì.

Una sirena suona sul margine della recinzione e Jean sa che quello è il miglior diversivo in cui possa sperare per lasciare inosservato il ghetto.

“Vieni” gli dice e sottolinea l'urgenza con un gesto della mano, ma il bambino si è già rintanato nel suo angolo, schiacciato contro la parete fin quasi a sparire nelle crepe del muro, le mani premute sulle orecchie e in viso l'espressione più terrorizzata che Jean abbia mai visto.

Intorno a lui esplode la frenesia, Jean sa che se perde il momento non riuscirà a uscire da lì e a tornare al rifugio, da Marco.

“Va bene” decide risoluto, inginocchiandosi di fronte a lui e aprendo i bottoni della giacca. “Vieni qui, ti porto io. Starai al caldo e non vedrai nulla.”

Non ha tempo di convincerlo, lo guida direttamente contro il suo petto, chiude le falde sostenendolo e si alza senza esitare un istante di più.

Pesa meno di una piuma e se non fosse la ciocca di capelli scuri che ti tanto in tanto gli solletica il mento, non si noterebbe neanche sotto l'indumento largo, piccolo com'è e schiacciato contro il suo petto.

Però è caldo.

E quel piccolo pugno che sente appoggiarsi al lato sinistro del petto, sembra implorare la stessa dedizione che ha dedicato alla causa molti anni prima, sotto giuramento, dall'altra parte del mare.

Sembra quasi un segno.

Ma destino o meno, Jean deve ammettere -con un pragmatismo di cui, è sicuro, Marco sarebbe fiero-, che in definitiva quella piccola mano sta meglio aggrappata alla sua camicia piuttosto che premuta a forza sulle orecchie in un angolo sudicio di marciapiede.

 

***

 

Quando varca la soglia del rifugio, Marco è seduto al tavolo intendo a medicarsi le bruciature sul petto.

Solleva la testa al cigolio dei cardini e il suo sguardo intercetta subito l'anomala sporgenza del giaccone che ha indossato quella mattina per confondersi alla folla ed entrare nel ghetto.

“Jean, cosa...”

“Ho parlato con l'informatore” tenta di sviare la sua attenzione. “C'è una nave in partenza domani mattina all'alba. Forse.”

“Forse...?” il sopracciglio di Marco si inarca, Jean finge di non notare come il suo sguardo si sia concentrato sul ciuffo di capelli scuri che spunta dalla sua giacca.

Si avvicina al letto, con movimenti delicati sfila i bottoni dalle asole e scosta le falde dal bambino pesantemente addormentato contro il suo petto.

“Non sanno se il porto sarà sicuro all'alba” spiega, adagiandolo lentamente sul materasso e coprendolo con una coperta. “E partire in piena notte è rischioso.”

Quando trova il coraggio di sollevare lo sguardo, il volto di Marco è chino sul bambino, perfettamente impassibile.

“Bene” commenta semplicemente, “e sembra che questo non sia nemmeno l'unico dei nostri problemi.”

 

***

 

Il Marco che ha conosciuto il giorno in cui si è arruolato nel corpo dei cadetti e che riceveva ogni settimana l'immancabile plico di corrispondenza, timbrata da impronte digitali di marmellata e inchiostro da parte dei suoi fratelli e sorelle minori, si sarebbe precipitato al fianco del bambino, pienamente consapevole di cosa fare, di dove mettere le mani e una volta ascoltato il resoconto di come era finito nascosto sotto il suo giaccone, avrebbe valutato ogni ipotesi e scovato la soluzione migliore per tutti.

Invece adesso Jean lo vede esitare, spostare lo sguardo triste sulla sagoma addormentata, senza sfiorarla e non ha idea di cosa gli passi per la mente.

L'unica cosa che sospetta non gli piace per niente.

“Jean, la vita che conduciamo non è adatta ad un bambino, lo sai...” conferma la voce soffusa di Marco.

Lo sa.

Ma non riesce a dirgli che forse è il momento che lo diventi.

Non riesce a parlare e basta.

Lo fa il bambino al posto suo, mormorando un flebile mamma e rannicchiandosi sotto la coperta in cerca di calore.

Marco sospira e si china sul letto, allunga la mano per scostargli le ciocche scure dalla fronte, poi passa il dito sulle lentiggini che gli punteggiano gli zigomi e solleva su di lui uno sguardo indecifrabile.

Forse vorrebbe essere un rimprovero, ma la sua espressione dolce lo smorza un po'.

“Jean...” mormora piano.

E c'è qualcosa di grave adesso nella linea decisa e serrata delle labbra: non commenta, lo osserva serio mentre torna con la mano sulla fronte del bambino.

“Non è solo per la somiglianza” sputa fuori sulla difensiva .

“Jean...”

“So quello che stai per dirmi” lo blocca. “È una follia. Non siamo ancora riusciti a trovare un imbarco sicuro per tornare a Paradise, abbiamo la milizia marleana alle costole e questo bambino complica ancor di più la situazione” prende un respiro profondo. “Ma credimi, credimi Marco, sarebbe morto e io non potevo, non p-”

“Jean.”

“Ti chiedo di avere pazien-”

“Jean.”

“Lo so che no-”

“Ha la febbre.”

La voce di Marco è limpida e decisa. Si volta con le ultime -inutili- giustificazioni ancora in bilico sulle labbra.

“Cosa...?” chiede scioccamente.

“Ha la febbre, Jean” ribadisce quello calmo, spostando la mano sul collo del bambino. “Ed è alta.”

Si avvicina e non deve neanche posare la mano sulla fronte del bambino per rendersi conto che sì, Marco ha ragione, brucia come il fuoco.

“Pensi che potremmo usare l'antifebbrile di Hange?” domanda.

Marco posa lo sguardo pensieroso sulle boccette poggiate sul tavolo e annuisce: “Dovremmo però ricalcolare il dosaggio in base al peso.”

Non impiega molto tempo a prelevare dal flacone quella che reputa la giusta dose e a versarla in un bicchiere; Jean a stento la vede, il liquido copre a malapena il fondo.

“Il calcolo è approssimativo” si giustifica Marco, mentre glielo porge. “Preferisco dargli un quantitativo minore, siamo sempre in tempo ad aumentare se la febbre non scende. Pensi di riuscire a farglielo bere?”

Non lo sa. Non ha mai avuto tra le mani un bambino di cui occuparsi.

Lo solleva, ancora avvolto nella coperta e se lo porta in grembo mentre si siede sul letto.

Non apre gli occhi, ma un mugolio gli sfugge dalle labbra, poco prima che la sua bocca s'imbronci in un principio di pianto.

Jean lo stringe a sé d'istinto, lo preme contro il suo petto come ha fatto quando lo ha portato via dal mercato del ghetto, nascosto sotto il suo giaccone e sente di nuovo la familiare stretta delle sue piccole dita sulla stoffa della sua camicia.

“Non piangere, ti prego” mormora più vicino al panico di quanto vorrebbe ammettere. “Va tutto bene.”

E non sa se sta dondolando sul bordo del materasso per cullare lui o per rassicurare se stesso.

Va avanti così finché la mano di Marco sul suo ginocchio lo costringe ad alzare lo sguardo.

“Proviamo prima con questo” gli dice, recuperando una tazza di latte caldo e avvicinandola alle labbra del bambino. “Tienigli la schiena ben sollevata.”

Non apre gli occhi nemmeno questa volta, ma beve e Jean non riesce a credere che sia stato così facile. Marco gli rivolge un sorriso incoraggiante, poi cambia il bicchiere e gli avvicina alla bocca l'antifebbrile: le sue labbra questa volta rimangono chiuse.

Jean sospira deluso, ma Marco non ritira il bicchiere.

“Toccagli la guancia” gli dice piano.

“Cos-”

Ma Marco evidentemente sa qualcosa che a lui sfugge, perché non si scompone davanti al suo sguardo perplesso, non alza neanche lo sguardo.

“Toccalo sulla guancia, delicatamente” replica.

E Jean lo fa, picchietta la guancia morbida e bollente con la punta del dito e lo osserva stringere gli occhi e schiudere le labbra: due sorsi che ingoia d'istinto prima di crollare di nuovo, sono sufficienti a assumere tutto l'antifebbrile.

Marco si alza soddisfatto e Jean non riesce a trattenere lo stupore.

“Come lo sapevi?” chiede.

“Ho visto mia madre farlo con i miei fratelli” risponde. Poi si lascia cadere sulla sedia di fianco al letto: “Sono passati molti anni, ormai.”

E l' adesso è tutto diverso, rimane sospeso in mezzo a loro.

 

***

 

“J..Jean...”

Le nocche che gli scorrono lievi sulla guancia lo ridestano prima delle parole.

Apre gli occhi e la sagoma in controluce di Marco riempie il suo campo visivo.

“C'è il segnale” gli dice.

E Jean impiega qualche istante prima di realizzare che sì, è ancora buio, ma verso oriente il blu del cielo è un po' annacquato e il segnale gli fa sapere che la nave dei volontari, alle prime luci dell'alba, lascerà il porto.

“Sei sicuro che sia quello?” mormora, scostandosi lentamente dal bambino rannicchiato al suo fianco e afferrando i calzoni dalla sedia vicina al letto.

“Vieni a vedere tu stesso.”

Marco lo precede varcando la soglia del rifugio e quando lo vede sparire, nella penombra che anticipa l'alba, Jean sente la paura attanagliarli lo stomaco: non vuole vederlo inghiottito dalle tenebre quasi fossero le fauci di un gigante, come nei suoi incubi peggiori. Ma Marco non si allontana, raggiunge la piccola altura sgombra dalla vegetazione e indica il porto.

Il segnale luminoso alterna due accensioni rapide e una lunga, prima di rimanere spento per due minuti esatti e ripetere la sequenza.

Annuisce.

“Da quanto sei sveglio?” gli chiede, cercando un profilo che nell'oscurità rimane perfettamente immobile. “Non sei mai andato a letto, vero?”

Marco sospira e si passa un paio di volte la mano tra i capelli, indeciso

“Avevo bisogno di pensare” ammette infine.

C'è qualcosa che stringe la presa dentro il suo petto, Jean ne sente ogni artiglio che affonda crudele nella sua carne e non si ferma alla prima stilla di sangue. Oh no, quel senso di colpa lo dilania fino a renderlo incapace persino di respirare.

“Non ti ho dato la possibilità di scegliere, è per questo vero?”

Riesce a dirlo, a volte migliora, se da voce alle sue colpe, ma Marco scuote la testa.

“Non siamo mai stati nella posizione di scegliere alcunché, lo sai” chiarisce semplicemente. “Gli imprevisti fanno parte del nostro lavoro, possiamo solo sperare che non siano troppo crudeli.”

Jean lo osserva chinare lo sguardo sull'unica mano che gli resta: lui ne sa qualcosa.

“E questo lo è?” domanda incerto.

Glielo chiede lo stesso, anche se ha paura della risposta.

Sente ancora sul petto il peso del bambino.

“No” risponde Marco deciso. “Questo è un regalo inaspettato” e volge la testa verso la porta del rifugio, rimasta socchiusa. “Un regalo che probabilmente non meritiamo.”

Perché nella sua esperienza le mani dei soldati portano morte, non vita.

Jean vorrebbe potergli dire che non è così, che ognuno di loro si è arruolato per servire e proteggere, ma la verità è che nel profondo anche lui pensa la stessa cosa.

Ingoiare quelle giustificazioni, rinunciando al loro blando conforto, fa più male di quanto si aspettasse; la mano di Marco che si posa calda al centro della sua schiena non riesce a scacciare del tutto il dolore.

“Dobbiamo andare” gli rammenta Marco dopo un istante. “Da qui al porto c'è almeno un'ora di cammino.”

Non aggiunge che devono anche riuscire a gestire le esigenze un bimbo malato, ma Jean può vederle nella piccolo ruga di concentrazione che gli attraversa la fronte, mentre rientrano nel rifugio.

Quella stessa che si trasforma in un'increspatura marcata, nel momento in cui una nuovo fitta di dolore gli coglie il costato.

Jean lo vede irrigidirsi e portarsi la mano al fianco, lasciando addito a pochi dubbi.

“Da quanto tempo li hai così frequenti?” gli chiede, mentre lo guida sulla sedia più vicina.

Prende un panno di lana dagli alari davanti al caminetto, gli solleva la maglia e glielo posa sul lato del petto ricoperto di cicatrici.

Marco soffia un sibilo doloroso tra i denti, prima che il calore riesca a sciogliere i nodi contratti dai crampi. Sospira, prende fiato e posa la mano sul suo polso quasi avesse bisogno di un appiglio.

“Da quando ho ricominciato a fare il soldato” mormora con un filo di voce.

“Hange lo sa?”

Aspetta di sentire i muscoli rilassarsi sotto il suo palmo, prima di cambiare il panno e azzardare un lieve massaggio in punta di dita.

Marco annuisce, dopo un primo sussulto, e Jean finge di non sentirsi di nuovo tanto inadeguato

“Tieni qui” gli dice, guidando la sua mano nel punto più contratto prima di allontanarsi brevemente per recuperare l'unguento dalle loro scorte.

“E cosa ne pensa?” gli chiede una volta tornato, esercitando una breve pressione sulla sua spalla per farlo adagiare contro la spalliera della sedia.

Marco si lascia guidare, docile come creta nelle sue mani. Sospira di nuovo.

“Pensa che i miei muscoli, sotto sforzo, non reagiscano come dovrebbero.”

Doveva aspettarselo, Jean lascia scivolare le dita su quella pelle segnata e rimane in silenzio: non riesce a trovare parole adatte. Forse non ce ne sono.

“Avresti dovuto dirmelo” sussurra infine chinando la testa.

“Sai che non potevo” ribatte quello in un sussurro. “Non mi avresti lasciato combattere.”

“È vero.” Gli costa ammetterlo, ma glielo deve. Ha le sue colpe e Marco merita la verità.

“Forse è qui che dovevamo arrivare” constata d'un tratto Marco, lo sguardo ancora arrossato dal dolore, dritto dentro il suo. “In quel mercato, al momento giusto.” Getta un breve sguardo al letto, alla piccola sagoma addormentata sotto le coperte e poi torna a guardare lui. “Forse dovremmo davvero appendere le divise ad un chiodo” conclude.

 

 

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Capitolo 4
*** 4. ***


4.

 

 

 

Il sentiero che scende verso il porto è sconnesso, Jean non lo ricordava così. Sarà che non vede nemmeno dove mette i piedi, con il bambino che gli gonfia le falde della giacca coprendogli la visuale.

“Posso portarlo io per un po'” si offre Marco dopo che per la seconda volta il suo stivale slitta sul terreno ghiaioso rischiando di fargli scendere quel che resta del viottolo con le chiappe.

La mano del bambino stringe più forte la sua camicia.

“Non è necessario, posso farcela.”

Quello annuisce e lo precede in un equilibrio anch'esso precario e Jean scoppierebbe a ridere se non avesse la gola presa nella morsa dall'ansia, perché di tutte le situazioni disperate o assurde in cui si sono ritrovati, quella è senza dubbio la più inaspettata.

E c'è del ridicolo -e del patetico- in quella carovana sgangherata, formata dal soldato che ha scoperto di non voler più combattere, quello che ha ricominciato per vendetta sfidando il suo stesso corpo e un orfano febbricitante raccolto per strada, eppure, pensa Jean, niente di tutto ciò sembra davvero fuori posto. Tranne forse il mugolio sommesso e gli improvvisi spasmi che stringono le gambe del bambino attorno ai suoi fianchi.

“Marco...” sussurra piano fermandosi sul sentiero. “Penso che sia giunto il momento di una pausa per necessità impellenti.”

Lo sguardo che riceve è avvolto di stupore solo per un istante, si sposta dal suo volto alla forma del bambino sotto la sua giacca, mentre retrocede verso di lui di un paio di passi.

“Va tutto bene, Jean” gli dice. “È normale urinare spesso nelle tue condizioni, succedeva anche a mia madre.”

Ed è così serio che Jean lo guarda cercando di capire di cosa stia parlando, prima di comprendere e sbuffare un mezzo ghigno.

“Sei proprio un cretino” gli risponde, ma è così tanto tempo che non lo vede scoppiare a ridere in quel modo che non riesce ad essere davvero arrabbiato.

“Pensi di aiutarmi o resti lì impalato?”

Marco ride ancora: “Sono sicuro che saprai gestire la situazione.”

 

***

 

Quando arrivano al porto, il sole è sorto da un paio di minuti e la vedetta sul pontile della nave, ha il binocolo puntato su di loro.

“Siete in ritardo” mormora Onyankopon quando percorrono a passi spediti la passerella, “la prossima volta partiremo senza di voi.”

“Abbiamo avuto dei... rallentamenti.

Jean vede il suo sguardo posarsi sulla testa del bambino che ora spunta dalle falde della sua giacca.

“Spero non vi siate cacciati nei guai” borbotta, mentre li guida al coperto.

“Nessun rapimento, Onyankopon, stai tranquillo” spiega Marco. “Il bambino era un orfano abbandonato a se stesso nel getto di Marley.”

“Bè sono felice che non lo sia più” ribatte quello, “ma mi riferivo a te, quando alludevo al cacciarsi nei guai.”

“Oh bè, Marco stava benone quando l'ho trovato.”

Jean se la concede quella punta di sarcasmo, la butta fuori prima che possa esplodere insieme alla tensione che ha trattenuto fino a quel momento. “Era incatenato nei sotterranei del Palazzo di Giustizia.”

Se ne pente, quando scorge l'espressione vuota e distante che è di nuovo calata sul volto di Marco.

“Adesso sei qui, ragazzo” l'aiuta Onyankopon, aprendo per loro la porta di una cabina. “Ci hai fatti preoccupare.”

Si sforza di sollevare gli occhi e rivolgere all'uomo un abbozzo di sorriso, e per Jean è talmente evidente il dolore sotto quella maschera che si sente anche più idiota del solito.

“Vi faccio portare qualcosa da mangiare.”

Registra distrattamente la voce di Onyankopon e riesce a rivolgergli un cenno d'assenso e un grazie, prima che la porta si chiuda dietro di lui, lasciandoli soli.

“Mi dispiace, Marco” sputa fuori senza esitazione. “Non intendev... So che sei in grado di cavartela.”

E spera davvero di sentire il suo sguardo gentile sulla pelle e il “Va tutto bene, Jean” con cui l'ha perdonato ogni volta che ha fatto il cretino, ma l'unico occhio di Marco questa volta resta rivolto verso il basso mentre si siede su una delle cuccette per sfilarsi gli stivali.

“Forse non quanto vorrei” commenta semplicemente sdraiandosi.

Non dorme da giorni, Jean lo realizza in quell'istante; posa il bambino sull'altro letto e siede nello spazio rimasto libero finché non avverte il respiro di Marco farsi profondo.

 

***

 

Il grido con il quale Marco si sveglia sobbalzando fa sussultare anche lui.

Ha dormito poco, appena un paio d'ore, e Jean l'ha sentito mugugnare parole incomprensibili per tutto il tempo; non si è calmato neanche quando gli ha posato una mano sulla fronte accarezzandogli piano i capelli, come faceva quando erano ragazzi, nelle lunghe ore di dormiveglia dopo l'incidente.

“Marco...” lo chiama piano.

Ha gli occhi vuoti e la maglia sudata, Jean si sposta sul suo letto e gli posa una mano sul collo.

“Marco, sei al sicuro.”

È la prima cosa che gli dice. Lo fa abbassando la testa e cercando di catturare quello sguardo ancora immerso nelle memorie oniriche che continuano ad accanirsi nella sua testa. Sono anni che accade.

Siamo al sicuro” aggiunge. “Siamo sulla nave dei volontari, ricordi?”

Marco solleva il volto e il vagare inquieto della sua pupilla si placa, si concentra su di lui.

“Stiamo tornando a casa” ribadisce Jean, posandogli entrambi i palmi sulle guance, e riesce a vederlo, l'istante in cui riemerge dall'oscurità sbattendo la palpebra libera dalla benda e annuendo piano.

Socchiude le labbra, ma non esce alcun suono.

“Con calma” gli dice, “con calma, Marco” e lo guida contro di sé.

Sente il suo respiro addolcirsi contro il sul collo e il torace rallentare il ritmo del suo espandersi.

Rimane immobile finché non lo sente rilassarsi del tutto, finché la mano di Marco non si solleva fino a posarsi sul suo fianco, dove lo accarezza appena un paio di volte, in un muto grazie.

Jean sorride e lo scosta leggermente da sé.

“Vieni” gli dice, “togliamo questa maglia bagnata.”

Sa che può farcela da solo e che dovrebbe lasciargli i suoi spazzi, ma qualcosa nelle movenze lente di Marco gli richiama alla mente i primi tempi, quando il dolore dominava ogni suo movimento.

Ne scopre la causa quando riesce a sollevargli il tessuto dal petto, rivelando delle bruciature umide e molto più infiammate di quanto ricordasse.

“Perché non mi hai detto che erano così peggiorate?”

Marco scuote la testa, ma ancora non parla, e c'è quella ruga al centro della sua fronte che sembra implorarlo a non insistere e Jean non è mai riuscito ad ignorare quello sguardo.

“Non importa” decide in fretta, “qui sulla nave ci sono tutte le scorte mediche di cui abbiamo bisogno.”

Quando l'aiuta a sdraiarsi di nuovo, lo sguardo di Marco fatica a lasciarlo, Jean gli copre il petto con il lenzuolo e si china per posargli le labbra sulla fronte.

“Tu resta qui calmo e tranquillo” sussurra, “vado a farmi dare qualcosa.”

 

***

 

“L'unguento è solo lenitivo, mi dicono, ma se si è sviluppata un' infezione, queste fiale dovrebbero riuscire a tenerla a bada fino a Paradis.”

Aspira con una siringa il contenuto di una di esse e senza indugiare si siede sul letto di Marco sollevando il lenzuolo in prossimità del fianco.

“Sopporta solo per un secondo” gli dice disinfettando l'area prima di affondare l'ago.

Il gemito che sfugge dalle labbra di Marco gli dice che probabilmente non se lo aspettava.

“Non aveva senso attendere oltre” si giustifica Jean, consapevole di essersi sbrigato più per se stesso che per Marco: non è mai stato troppo disinvolto con le iniezioni. “Abbiamo fatto passare fin troppo tempo.”

“Va tutto bene” lo rassicura quello.

E diamine, Jean aveva bisogno di sentirglielo dire, di sapere che nemmeno quelle ferite lo hanno ucciso e che, in fondo, neanche la sete di vendetta l'ha cambiato.

“Adesso lasciami medicare queste bruciature” mormora.

Ma lo sguardo di Marco è fisso nel suo e sembra voler comunicare qualcosa di più profondo e difficile da tradurre in parole.

La mano adagiata sul lenzuolo all'altezza del petto non accenna a scostarsi, Jean la copre con la sua.

“Mi dispiace di essere un tale cretino, Marco. M'illudo di essere forte” ammette, “ma la verità è che ho paura di rimanere solo.”

Stringe le dita contro il suo palmo e le labbra di Marco si muovono appena: sospira piano.

“Non te ne andare più” aggiunge, e non vorrebbe sembrare così patetico e debole, ma davvero non esiste niente che lo terrorizzi di più di perderlo, ed ha già provato quella paura più volte.

“Jean...”

È un sussurro appena udibile, ma a Jean basta per sentire il sollievo irradiarsi dentro. C'è anche una traccia umida intorno al suo occhio e sotto la benda; gliela toglie delicatamente e asciuga le sue lacrime con il pollice.

“Ora posso stendere un po' di crema su quelle bruciature?” chiede.

Al suo cenno d'assenso guida la mano, ancora allacciata alla sua, sul materasso e abbassa il lenzuolo.

“Faccio piano” assicura afferrando il vasetto di vetro. “Dimmi se ti faccio male.”

Ma lo sguardo di Marco rimane immobile nel suo, la mano si sposta sul suo avambraccio e dietro la linea tirata delle sue labbra questa volta riesce a scorgere un accenno di sorriso.

A Jean basterebbe anche solo quello: l'ombra di un sorriso, lontano dalla guerra.

Sta ancora ricoprendo d'unguento le zone arrossate, quando un mugolio flebile lo distoglie dal torace di Marco.

Dal bozzolo di coperte sul letto accanto, tutto quello che Jean riesce a vedere è una chioma arruffata, un barlume di fronte pallida e una piccola mano chiusa a pugno.

“Ti sei svegliato?” chiede al bambino e quello abbassa la mano rivelando due occhietti assonnati e confusi.

“Hai sete?” ritenta, e questa volta il bambino fa forza sulle braccia e si siede a gambe incrociate sul materasso, annuendo appena.

La mano di Marco blocca la sua: “Pensa a lui” gli dice, “io finisco da solo.”

Ed è il tono, più che le parole, a sollevarlo da quella tensione ansiogena che lo spinge ad essere così protettivo nei suoi confronti; quella sicurezza decisa che Marco riesce a tirar fuori in ogni momento -anche e soprattutto nei peggiori- e che lui non possiederà mai.

Posa l'unguento sul letto, dove Marco può facilmente raggiungerlo e si sposta sull'altro lato della cabina.

Quando si siede sul materasso con un bicchiere colmo d'acqua tra le mani, il bambino si aggrappa al suo braccio e beve tutto d'un fiato.

“Ancora?” gli chiede quando la presa delle sue piccole mani si allenta, ma quello scuote la testa e

rimane immobile guardando avanti a sé.

“È c..caduto?” mormora dopo un istante.

Jean non si rende conto che è la sua voce fin quando abbassando la testa, scorge lo sguardo del bambino fisso su Marco.

“Oh” esclama ancora stupito, “s..sì, direi di sì. È caduto.”

Balbetta un po', non sa come dosare le parole. Lo fa Marco per lui.

“Sono caduto tante volte” gli dice con un sorriso bonario. “Ma non avere paura, ho imparato a rialzarmi.”

E forse quest'ultima parte, pensa Jean incrociando il suo sguardo, è rivolta a lui più che al bambino.

 

***

 

“Come ti chiami?”

La voce allegra di Marco nella quiete del primo pomeriggio lo riscalda più di quel sole che li ha attirati fuori dalla cabina, spingendoli a trovare un angolino riparato dal vento a poppa della nave.

Jean ha bisogno di entrambi, dopo il freddo che la guerra gli ha lasciato addosso.

Il bambino china il viso intimidito e lo avvicina di più al suo petto: anche quello lo riscalda.

“Non te lo ricordi?” ipotizza Marco tranquillo. “Non importa, tornerà.”

Ha un'espressione serena, che Jean non gli vedeva sul volto da mesi.

“Tra non molto saremo a Paradis” mormora rilassando le spalle contro la paratia.

Se guarda dritto davanti a sé può vedere la costa comparire in uno sfocato azzurrino sulla linea dell'orizzonte. Anche il bambino solleva la testa, staccandosi volontariamente da lui per la prima volta da quando hanno iniziato a navigare, tre giorni prima; gattona sul ponte tra le sue ginocchia e si alza in piedi scrutando il mare prima di voltarsi di nuovo verso di loro.

Continua ad avere qualche linea di febbre verso sera, ma è più vispo e reattivo di quando l'ha raccolto dal marciapiede di quel mercato.

“Vieni” gli dice, “non allontanarti.”

E quello torna sui suoi passi andandosi a rannicchiare esattamente al centro tra loro due: la risata che strappa a Marco quando si fa spazio come il cucciolo che è, lo distoglie da qualsiasi altra cosa lo circondi, ed è per questo che non si accorge della piccola mano che si è sollevata a sfiorare le lentiggini sul volto di Marco.

Lo realizza quando lo sente premere contro la sua spalla e alzarsi di nuovo in piedi, sussurrando un flebile “mamma”.

Lo sguardo di Marco si fa dolce mentre il bambino gli si arrampica in grembo: è la prima volta che trova il coraggio di farlo.

“Sono sicuro che anche tua madre le aveva, sì” gli dice. “Anche la mia le ha. Se vuoi potrai conoscerla una volta a terra.”

Il bambino annuisce con vigore, poi con rinnovato coraggio solleva di nuovo la mano, questa volta verso la benda che gli copre l'occhio destro.

Questo a Marco non piace, Jean può vedere tutta la sua figura irrigidirsi; lui stesso ha impiegato mesi se non anni a fargli capire che le sue cicatrici per lui non erano un problema.

“N..non...” s'interrompe e lascia che il bambino infili le dita sotto la benda, scostandola, ma Jean riesce a vedere il fremito dei suoi muscoli, mentre s'impone di non reagire.

Completamente voltato verso di loro, Jean è pronto a raccogliere i pezzi di chiunque tra i due finisca col crollare, ma le dita del bambino vagano incerte sui bordi ruvidi della cicatrice, mentre la sua espressione muta da stupito a triste, poi si sporge con il viso e posa le labbra sulla pelle raggrinzita.

“Passato?” chiede con vocetta flebile.

Marco spalanca l'occhio, deglutisce a fatica e posa la mano sui capelli del bambino.

“Sì” gli dice. “È passato.”

E c'è un luccichio umido nello sguardo che ha improvvisamente fissato sulla linea dell'orizzonte, Jean non riesce a trattenersi: si sposta più vicino a lui, gli passa un braccio sulle spalle e gli schiocca un bacio sulla tempia.

Ed è quello per cui è disposto a barattare tutto ciò in cui ha creduto fino ad allora: lacrime di sollievo al posto del dolore.

 

***

 

Il luccichio delle banchine sotto i raggi del sole che illuminano il porto di Paradis lo ha sempre commosso: di ritorno da ogni missione sotto copertura, è quello il momento in cui si sente di nuovo libero di tornare se stesso. Anche a Marco è mancato, riesce a capirlo dalla sua espressione rapita, mentre socchiude gli occhi respirando i profumi dell'entroterra.

“Avevo giurato che sarei tornato solamente dopo aver compiuto la mia vendetta” mormora tra sé.

Jean solleva gli occhi al cielo.

“Adesso scendiamo da questa nave e raggiungiamo il nostro alloggio. E tu” gli punta il dito contro, “ti farai passare questa vena omicida, o giuro che t'incatenerò al letto.”

Glielo dice perché sa che Marco si è già lasciato alle spalle quell'ossessione, perché nel loro rocambolesco sopravvivere sono inciampati nella promessa di un futuro felice e sono entrambi troppo grati e troppo increduli per lasciarsela sfuggire.

Il sorriso che Marco gli rivolge è attraversato da un'ombra fugace: “Dubito che riuscirei a fuggire di nuovo, anche volendo” ammette, strofinando il palmo sul proprio fianco destro.

“Con un po' di riposo tornerai come nuovo, vedrai” lo rassicura, mentre la nave attracca al pontile. “Hange ti rimetterà in sesto.”

La nave vibra rumorosamente e si ferma, due piccole mani si aggrappano con forza alla stoffa dei suoi calzoni, si china nel momento in cui il bambino vi affonda anche il viso.

“Qui non abbiamo bisogno di nasconderci” gli dice prendendolo semplicemente in braccio. “Siamo a casa.”

 

***

 

“Bene, bene” commenta Hange con un sorriso radioso sulla faccia. “Sei partito solo e disperato e torni con compagno e bambino. Questa sì che è stata una missione riuscita!”

Mettere piede sulla terra ferma è una bella sensazione; lo sono anche le braccia amiche che li accolgono.

“Non la definirei proprio così” la corregge Jean, ricambiando il breve abbraccio, “abbiamo avuto momenti... non facili.”

“Bè, adesso siete qui” commenta Hange, scrutandoli dalla testa ai piedi. “È questo che conta.”

La sua espressione bonaria non cambia quando sposta lo sguardo da lui a Marco, annuisce soltanto, con un lieve cenno d'intesa.

“Vieni” gli dice, “ti do un'occhiata in infermeria.”

Non perde il suo fare allegro e Jean gliene è grato. Ne hanno avute fin troppe di tragedie.

“E magari controlliamo anche questo piccino” aggiunge, arruffandogli i capelli. “Ci sono un sacco di cose buffe nel mio studio, sai?”

Il bambino scosta il suo dall'incavo del suo collo, dove si era rifugiato per lanciargli uno sguardo curioso e un lampo di stupore attraversa l'espressione di Hange; non domanda però.

“Poi mi spiegherete questa cosa della somiglianza” commenta semplicemente mentre gli fa strada verso il quartier generale.

“Non è qualcosa che posso spiegare, Hange” risponde. “So solo che era abbandonato a se stesso e che non potevo far finta di niente.”

Quella annuisce tranquilla e prosegue sulla via.

Sembra strano, adesso che gli occhi di tutti sono puntati su di loro, attraversare l'avamposto con un bambino stretto al collo.

“È stata una scelta imprevista, per la quale dubito ancora del mio buon senso.”

“Sciocchezze!” esclama Hange risoluta, volgendo la testa verso di loro. “Come ti chiami, tesoro?”

“Sembra non ricordarlo” interviene Marco.

“Non importa” scrolla le spalle Hange. “Nel frattempo ti chiamerò Ben. Ti piace?”

Jean vorrebbe obbiettare che forse dovrebbero deciderlo insieme, quel nome provvisorio, ma il bambino annuisce convinto e accenna un sorriso vergognoso. Marco ride al suo fianco, tanto che deve tenersi il petto dolorante con la mano, e di tutti i rientri i patria che Jean ha vissuto negli ultimi anni, quello gli sembra senza ombra di dubbio il più propizio.

 

 

 

Fine.

 

 

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