Unstoppable

di GrumpyTrolla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Per due galeoni d'oro ***
Capitolo 2: *** L'Archivio del Serpente ***
Capitolo 3: *** Come una foresta di canne di bambù - Parte 1 ***
Capitolo 4: *** Come una foresta di canne di bambù - Parte 2 ***
Capitolo 5: *** L'acaro dei muri ***
Capitolo 6: *** Tutta la grazia crudele delle tigri bianche ***
Capitolo 7: *** Di una vergogna scarlatta e viscida ***



Capitolo 1
*** Per due galeoni d'oro ***


Unstoppable
 
 
 Capitolo 1: “Per due galeoni d’oro”

 
All smiles, I know what it take to fool this town
I'll do it 'til the sun goes down and all through the night time
(Tutto sorrisi, so cosa serve per fregare questa città
Lo farò fino al tramonto del sole e per tutta la notte)

 
 
Ripenso al primo settembre del 1965, al mio primo ricordo di te: avevo undici anni, per la prima volta potevo usare una bacchetta e fantasticavo di poter affrontare il mondo intero. Solo alla sera, mentre eravamo tutti in fila per lo Smistamento, ho potuto guardarti bene ed eri l’unico davvero a suo agio; come se il mondo reale e le persone che ci vivono dentro, per te, non fossero affatto spaventosi.
Non potei fare a meno di domandarmi come fosse possibile.
Poi mi hai parlato. Abbiamo fatto tutto insieme e quando, ancora una volta, molto tempo dopo, ho sentito paura, ti sei seduto vicino a me. Abbiamo bevuto burrobirra e mi hai detto che non c’era nulla da temere.
Da quel momento non ho più avuto paura di nulla. Perché ho te. Eccetto te.

 
 
 Settembre si avvicina e per i giovani maghi d’Inghilterra questo può voler dire una sola cosa: l’inizio di un nuovo anno alla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Il tempo, che in questi ultimi giorni di libertà sembra letteralmente volare, all’interno dell’angusto negozio di Nocturne Alley striscia invece più lento, scandito da un silenzio sinistro. È stata “La Faina” a trascinare di straforo il giovane Severus Piton in quel postaccio chiamato Ouroboros. Oh, già. “La Faina” è il soprannome che Severus ha inventato per Lucius Malfoy l’anno precedente, dopo un malriuscito tentativo di dare una lezione a suo cugino Sirius Black – nonché al gruppo di Grifondoro che capeggia assieme a James Potter. “La Faina” aveva incassato quel duro colpo con singolare dignità, per un tredicenne: 200 punti sottratti alla Casata di Serpeverde – con relativo scorno dei loro compagni – interminabili settimane di detenzione ed ultimo, ma non per importanza, lo scherno di Black.
Severus Piton lancia uno sguardo di sottecchi all’amico, che sta giocherellando con delle minuscole teste impagliate esposte in una piccola cesta su uno scaffale. Nella penombra del negozio, i capelli platinati di Lucius gli fanno venire in mente il faro del London Gateway.

Dai. – è il pensiero di Severus – non è nemmeno colpa sua.

Checché se ne dica – e se ne dicono tante – “La Faina” non ha ancora imparato il valore della concretezza; secondo il giovane Piton la colpa è di suo padre, che ha sempre avuto il vizio di giustificare, sminuire o perdonare ogni mancanza del figlio, convincendolo di poterla passare liscia sempre e comunque. Tutta questa permissività, oltre ad aver scombinato il senso della realtà di Lucius, sembra poi mandare letteralmente in bestia la sua nuova moglie, Zivelda Crow: quella povera donna ha sposato lo scapolo più ambito del Mondo Magico per poi scoprirlo asservito ad un preadolescente narcisista e viziato, che per di più ha diffidato di lei fin dal primo momento. Se a suo tempo Abraxas Malfoy non avesse osato sposarsi senza il permesso del figlio, oggi quest’ultimo non avrebbe lasciato la sicurezza di Diagon Alley, trascinando Severus con sé fino all’Ouroboros – un posto così palesemente losco, che neppure tutta la permissività di Abraxas sarebbe bastata per concedere a due adolescenti di entrarci da soli.

Per attirare l’attenzione dell’amico, il giovane Piton gli poggia la mano sul braccio, poi scuote il capo e gli sussurra «Ha proprio l’aria di una fregatura.»; lo vede stringersi nelle spalle e intanto fissarlo con due occhi color del ghiaccio. A quattordici anni, Lucius Malfoy ha quel modo di guardarti come se fosse sempre sorpreso, col fare ansioso e mansueto che trae tutti d’inganno, prima o poi.
«Magari mi serviva solo un portachiavi…» mormora distrattamente La Faina, rimettendo al suo posto la testolina impagliata, che vista da vicino ha un’espressione torva, con le palpebre chiuse e cucite. Severus inarca un sopracciglio e, in un sussurro impaziente, esclama «A parte che fa abbastanza schifo, a quel prezzo tanto varrebbe dargli il doppione delle chiavi di casa tua.»
«Di casa tua, vorrai dire.» ribatte con prontezza la minuta testa in questione, facendo sobbalzare entrambi e dando finalmente un senso al costante stupore nello sguardo di Lucius. Arretrano istintivamente di un passo e tutti i capini impagliati nella cesta esplodono in una risata irrispettosa e sguaiata. Dopo qualche attimo, il giovane Malfoy si volta per dispensargli una strizzatina d’occhio ed un mezzo sorriso. Severus gli lascia andare il braccio ed arriccia le labbra mentre iniziano ad allontanarsi: «È da quando ti conosco che sembri trovare buffe le cose più strane.» poi alza gli occhi al cielo e dice «Per non parlare di quel modo che hai di ammiccare, la dovresti smettere.»

L’Assurda Divinità di tutti i Canoni Infranti che è Lucius, ridacchia sommessamente ed il suo sguardo acquista nuove proporzioni di stupore mentre sussurra: «Il mio modo di ammiccare? Che modo sarebbe, scusa?»
Sbuffando, il giovane Piton copre un momento di esitazione prima di rispondere, con voce bassa: «È da quando avevamo undici anni che hai questo modo, di guardare le persone ed ammiccare… come se stessi facendo loro una foto. Solo che ora inizia a risultare fraintendibile.»
Quando Lucius scoppia a ridere è un vero e proprio colpo basso: dice «Ah, sì?» e intanto scuote il capo, coi capelli che catturano tutte le sfumature dell’argento e del platino ad ogni movimento. «Dai allora, fraintendimi tutto!» esclama sommessamente, ammiccando un’ultima volta, forse giusto per soddisfare il suo innato dispotismo. Ed è la cosa più attraente ed al contempo fastidiosa che Severus abbia mai visto.
Nonostante sia consapevole della scorrettezza di certi pensieri, ci sono momenti in cui Severus si ritrova a desiderare di ferire Lucius: quando sente il suo profumo da 800 galeoni a bottiglia, o lo vede tendersi verso gli scaffali più alti della biblioteca, o quando lo colpisce a tradimento con un sorriso avventato, come adesso. Sono questi dettagli a rendere davvero difficile stare vicino a Lucius Malfoy, soprattutto se ti chiami Severus e sai che al suo confronto sei un perfetto nessuno. Soprattutto quando l’oggetto della tua invidia non ha mai, di proposito, fatto nulla per farti pesare tutte queste incolmabili differenze. È come essere invisibili.
È in uno slancio malevolo dunque che, diviso tra irritazione ed imbarazzo, il giovane Piton incrocia le braccia al petto e sibila: «Ti senti tanto scaltro, eh? Proprio come una Faina

In un guizzo repentino, il volto di Lucius si reinventa in un’espressione che è assieme frustrata ed aspra, con le labbra strette e le sopracciglia aggrottate: è un compenso sufficiente, per Severus.  Sollevando l’indice affusolato, l’ultimo erede dei Malfoy traccia nell’aria una linea invisibile che, dal proprio petto, conduce ad un punto imprecisato alla sua destra. Dice: «Senti, io vado a vedere di là se c’è qualcosa.» poi ruota il busto ma, prima di voltarsi del tutto, dice «Magari quando ti passa il malumore me lo fai sapere.». Lasciandosi alle spalle una scia invisibile di Les Larmes Sacrées, il Sublime Guru dell’Alta Moda e del Platino scompare dietro ad una nuova fila di scaffali. Non per la prima volta, Severus si trova a domandarsi come abbia potuto sopportare quella Faina altezzosa per ben tre anni, ormai.
Una voce sconosciuta lo coglie poi di sorpresa, costringendolo a sobbalzare e voltarsi di scatto: «Due amici che litigano, che peccato.» dice la bizzarra ed inopportuna figura che il giovane Piton crede essere il proprietario dell’Ouroboros. «Pagare il prezzo delle proprie azioni, di parole spesso errate, sa essere un vero fardello.» continua l’uomo, con fare annoiato e vagamente legnoso.

Severus, con semplicità ed in tono tagliente, risponde «Dobbiamo farlo tutti.», poi si prende qualche momento per osservare meglio la persona che ha di fronte: alto e ben piazzato, sulla mezz’età, coi capelli castani ben pettinati ed una barba ad ancora perfettamente tenuta. I suoi occhi sono di un chiarore niveo ed innaturale, più limpidi perfino di quelli di Lucius, anche se in modo assai meno lusinghiero. Lo vede muovere la mano in un cenno di condiscendente diniego e riprendere a parlare.
«Ovvietà a parte, sottolineavo appunto gli innegabili vantaggi del poter conoscere il risultato delle proprie azioni in anticipo… ovvero, prima di compierle. In ogni caso, il mio nome è Chester il Magnifico.»
Mi pare lo rispecchi abbastanza. – il primo pensiero di Severus mentre lancia un’eloquente occhiata al completo blu notte, che l’uomo indossa sotto ad un vistoso mantello viola: tanto adeguato allo pseudonimo che si è scelto, quanto in contrasto con la sua espressione scocciata.
«So cosa vuol dire “in anticipo”.» ribatte il giovane Piton, col labbro superiore teso in una piega sdegnata: sembra esservi qualcosa di profondamente indecoroso nella mano che l’uomo offre in sua direzione ed istintivamente compie un passo indietro. «Il suo discorso vorrebbe arrivare da qualche parte, o cercava semplicemente qualcuno per chiacchierare?»

Chester il Magnifico non commenta e neppure sembra dar peso a quell’indietreggiare sospettoso: ritrae la mano ed accenna verso delle merci esposte, chiaramente alludendo ad una sfera, che è più piccola di un pugno chiuso e sembra fatta di sale di salgemma. Nonostante il distaccato contegno mantenuto, Severus avverte l’infantile desiderio di toccare quell’oggetto e sperimentarne la consistenza sotto le dita. Quando il commerciante riprende a parlare, nonostante le buone maniere, il suo tono è di un’arroganza urticante: «Ce l’ho in negozio da qualche mese… ponendo la giusta domanda, in essa si può vedere il futuro più immediato. Dicono inoltre, ma non ho potuto verificarlo oltre ogni ragionevole dubbio, che non menta mai.»
L’espressione diviene irrisoria sul volto del giovane Piton, con gli occhi neri come pece che si levano al soffitto prima di afferrare la sfera e fissare il signor Chester con aria di sfida: non lo vede scomporsi minimamente. «Cos’accadrà se compro quest’oggetto?» ma, nonostante il tono canzonatorio della domanda, nella sua mano la piccola sfera inizia a cambiare colore: per un attimo è come se al suo interno un fumo grigio e denso si agitasse nel tentativo di romperne la superficie e riemergere. Quando la nube si dirada, lascia il posto ad una trasparenza simile a quella delle bolle di sapone, rivelando un’immagine lievemente distorta di sé stesso mentre lascia il negozio con aria dubbiosa, in compagnia di una Faina annoiata. Poi tutto svanisce, come se nuovamente risucchiato dal centro della sfera.

La silenziosa penombra dell’Ouroboros sembra farsi improvvisamente insostenibile: era pronto a vedere sogni di gloria più comuni e mendaci, con ricchezze inimmaginabili, magari anche decine di ragazze ai suoi piedi e qualche coppa dorata del Quidditch. La banale accuratezza di quella scena invece, è tale da disorientarlo e Severus si trova a rimettere a posto la sfera con lentezza e cura. Con la coda dell’occhio vede Chester il Magnifico avvicinarsi di un paio di passi ed immagina, ancor prima di vederla, la sua espressione di condiscendente superiorità. L’uomo solleva l’indice ed il medio della mano destra, poi dice «Può essere tua, per due… duuuue… galeoni d’oro.» e tre sono i pensieri che si affacciano, all’unisono, nella mente del giovane Piton.
Prima di tutto non gradisce affatto la persona che ha di fronte, si scopre anzi a odiare il modo in cui tende il busto in sua direzione per mostrargli le dita alzate, nonché quel sorrisetto gongolante. Queste emozioni vengono tradotte, nella mente di Severus, in parole spicce: come se mi avesse preso per un deficiente. In secondo luogo, se inizialmente l’intero negozio è sembrato sospetto, l’offerta di un oggetto dalle capacità magiche tanto prodigiose a quel prezzo non fa che corroborare la tesi. In ultimo, anche volendo accettare, il giovane Piton non li avrebbe comunque due galeoni d’oro e ciò non fa che ricordargli quanto poco abbia davvero da gioire nella vita. O più letteralmente: io te lo brucio, questo buco che chiami negozio.

Severus arretra di qualche buon passo e, senza mai distogliere lo sguardo da Chester il Magnifico, gli bercia contro con assai poco garbo: «Rifilala a qualcun altro!». Quando con un rapido sguardo non riesce a rintracciare Lucius, esclama «Ti aspetto fuori, Faina!», ricevendo in risposta un epiteto alquanto colorito, pronunciato in tono leggiadro. Tanto gli basta: incrociando le braccia al petto in una posa difensiva, il giovane Piton torna all’aria aperta e la cosa sembra giovargli. Prende un bel respiro e lo rilascia, afferra la cinghia della propria tracolla con gli occhi chiusi, anche per non rischiare di incrociare lo sguardo di nessuno, in quella strada malfamata. Solo cinque minuti dopo si pente di aver lasciato Lucius da solo all’interno dell’Ouroboros ma, fortunatamente, lo vede uscire proprio un attimo prima di rientrare a cercarlo. Sul volto dell’amico, la delusione si mescola a quella strana, costante sorpresa che mai sembra abbandonarlo.

Lucius Malfoy gli sorride gentilmente, si risistema la borsa sulla spalla e strascica alcune parole: «Visto da fuori sembrava meglio.»
«Che ti aspettavi?» gli rinfaccia Severus, con tono più tranquillo ora che si stanno avviando per tornare a Diagon Alley. «Perfino quel subdolo di Sinister ti ha detto di tornare quando avessi compiuto diciassette anni, se in quel negozio ci fosse stato qualcosa di veramente pericoloso non ci avrebbero fatto entrare l’unico erede dei Malfoy.». A mezza bocca, in ultimo aggiunge: «Non senza tentare di rapirti o chissà che altra schifezza.»
L’Immotivatamente Stupita Divinità del Capriccio sembra sul punto di dire qualcosa ma, all’ultimo momento, richiude le labbra e si volta per incrociare lo sguardo di Severus; muovendosi, i capelli di Lucius intercettano un raggio di sole e per un attimo sembrano esplodere in ogni tonalità dell’oro. Poi sorride, con aria astuta: «Tu però mi salveresti. Se Sinister o qualche altro soggetto un po’ equivoco tentassero di rapirmi, avvertiresti subito mio padre o gli Auror. Potresti perfino cercare di affrontarli tu stesso.»

E come faccio a non ridere? – è il pensiero incredulo del giovane Piton, cui capita di farsi più o meno due risate all’anno ed a quanto pare ne ha appena bruciata una. «Scherzi?» domanda, con una vena sarcastica di tutto rispetto nella voce. «Correrei subito a denunciare la Faina scomparsa…! Poi mi precipiterei a sfondare personalmente la viscida porta di quei rapitori e li sgominerei tutti con la sola forza del mio sguardo. Alla fine, ti porterei a Diagon Alley per farmi offrire un gelato.»
Tra le risa tipiche di chi, più che condividere l’ilarità altrui se ne lascia semplicemente contagiare, Lucius dice «Perché anche la porta dovrebbe essere viscida?» poi, a malapena intellegibile tra una risata e l’altra, aggiunge «Secondo me moriremmo tutti e due molto male. L’importante però, ciò che in effetti cercavo di dire, è che ti conosco e so che a me ci tieni.»
Severus Piton preferisce non rispondere: molto meglio lasciare che le ultime risa ingoino le affermazioni di Lucius e lascino infine posto al silenzio, lungo le stradine umide ed acciottolate di Nocturne Alley. Perché nonostante i suoi giudizi drastici, l’invidia e le ingiustizie, Severus sa di conoscere Lucius Malfoy meglio di chiunque altro al mondo: il legame che li unisce è sempre stato inspiegabilmente intenso e nessuno, eccetto lui, è mai riuscito a vedere il molto-molto-altro celato dietro la maschera d’indefessa perfezione, per accettarlo completamente. Nel senso più innocente, licenzioso ed incondizionato del termine, lo ama. Talvolta, riesce perfino a sentirsi ricambiato.

Solo un paio di volte, durante il loro taciturno percorso, iniziano a temere di essersi smarriti ma quelle paure si rivelano infondate quando sbucano nuovamente a Diagon Alley. Al suo fianco, Lucius finge di sospirare nel tentativo di sfidare lo strano silenzio calato tra loro: «Che strazio, dopo tutta questa scarpinata, dovermi accontentare di una stupida palla di sale da venti galeoni.» dice, dissimulando la propria malinconia con la noia.
Severus aggrotta le sopracciglia, si volta di scatto e chiede in tono spiccio: «Posso vederla?», poi, nel momento in cui il compagno estrae dalla tasca la stessa, maledetta sfera fumosa che Chester il Magnifico aveva tentato di vendergli – ad un decimo del prezzo – scoppia a ridere. «Lucius…» esordisce, di fronte all’espressione genuinamente basita dell’amico: «Sei proprio una Faina!».

Paonazzo d’irritazione, Lucius Malfoy torna a farsi taciturno per tutto il cammino fino alla gelateria di Florian Fortebraccio.

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Capitolo 2
*** L'Archivio del Serpente ***


Capitolo 2: “L’Archivio del Serpente”
 
 
I'll tell you what you wanna hear, leave my sunglasses on
While I shed a tear; it’s never the right time
(Ti dirò ciò che vuoi sentire, lasciando su gli occhiali scuri
Mentre verso una lacrima; non è mai il momento giusto)
 
 
Ottobre sopraggiunge con frenesia quasi estenuante per le giovani menti di Hogwarts, ancora alle prese coi ricordi delle passate vacanze estive e ciascuno tenta di svagarsi occupando il proprio tempo libero in vari modi, con una speciale enfasi sul Quidditch. Complice l’influenza di Severus, che fin dal primo anno ha collezionato pessime esperienze al riguardo, Lucius ha sempre coltivato un ostinato disinteresse per lo sport in questione. Pur non avendo mai mancato una partita scolastica, nondimeno pronti ad acclamare e rammaricarsi assieme ai loro compagni, per entrambi si è sempre trattato di cameratismo, più che di passione. Quest’insolita mancanza di trasporto verso il gioco più popolare del Mondo Magico è una delle cose che lui e Severus hanno in comune, per questo il giovane purosangue ha imparato a nutrirla e curarla, proprio come ciascuna delle - pochissime - altre: la sua piccola collezione di brandelli d’intimità, riservati ed avvolgenti.

Durante il loro terzo anno, col segreto intento di coinvolgere l’amico ed alimentare questa rara comunanza, il giovane Malfoy ha deciso di fondare un club studentesco di lettura, che ha chiamato L’Archivio del Serpente. A suo tempo – molti mesi prima del Fiasco Faina – il preside stesso si era complimentato con lui per l’iniziativa, nonché per il simbolo scelto: un serpente con gli occhiali, pacificamente arrotolato dietro ad un libro aperto. Sempre in quel periodo, per una combinazione di successi accademici, condotta garbata, impegno extra scolastico, disponibilità economica e capelli biondi, aveva iniziato a diffondersi per lui il lusinghiero soprannome di “Ragazzo d’Oro”*.  Alla luce di ciò, non essendo mai stato uno stupido, Lucius si rende perfettamente conto di come a buona parte dei membri del suo club, della letteratura non importi un fico secco, più attirati dalla popolarità dell’unico erede dei Malfoy che dalla promessa di discussioni intellettuali.

Il mio club – si ritrova a pensare, sorridente mentre osserva le facce di ciascuno dei presenti a mano a mano che prendono la parola – dovrebbe chiamarsi l’Archivio della Vecchia Comare.

La cosa, in fondo non gli dispiace.

Nonostante il nome, l’Archivio del Serpente ha sempre raccolto studenti da ogni Casata, sebbene i Serpeverde ne rappresentino in effetti una quota preponderante ed i Corvonero continuino a scarseggiare. I membri del club, cui piace farsi chiamare Archivisti ed hanno perfino inventato un saluto speciale, si riuniscono con cadenza settimanale per sparlare del resto del mondo: sorseggiando ogni costosa miscela di tè che il Ragazzo d’Oro fa giungere appositamente via gufo, alleggeriscono l’aria con maliziosi pettegolezzi e perfidi commenti, adoperando i libri più che altro come sottotazze.

Severus Piton, che senza dubbio preferirebbe parlare delle applicazioni dell’Asfodelo o dello splendore di racconti quali La Dama Della Zanna, ha capito da tempo che in questo club non avverrà mai. Fortunatamente la loro concezione di amicizia, che è sempre stata sullo stampo noi-due-contro-il-resto-del-mondo, gli consente di partecipare alle futili riunioni degli Archivisti per poi sparlarne a loro volta, non appena rimasti soli.

Soprattutto se si tratta di Grifondoro. Soprattutto se si tratta di Remus Lupin.

Sorprendentemente infatti, nonostante le sue spregevoli frequentazioni, Remus Lupin è stato tra i primi a richiedere l’accesso al club, di cui resta tuttora il frequentatore più costante. Il ragazzo, che è un loro coetaneo e sembra possedere una quantità di informazioni assurda sugli studenti di Hogwarts, durante le riunioni degli Archivisti parla loro con educazione e tranquillità: una cosa che manda Severus letteralmente in bestia.

Pur non osando dirlo ad alta voce, col tempo Lucius Malfoy ha iniziato ad apprezzare la personalità riservata e cordiale di Lupin: non saranno mai amici ma, se preso da solo, a tratti il mezzosangue riesce a risultargli perfino brillante. È da lui infatti, che ha appreso di un certo corridoio dell’ultimo piano dove le coppiette tendono ad appartarsi, o che quegli strani segni rossi che sbucano talvolta dai colletti degli studenti più grandi si chiamano “succhiotti” e non sono un’irritazione presa ad Erbologia. Per non parlare della volta in cui gli ha fatto capire, con parole poco invasive, cosa sia l’autoerotismo: altra ragione per cui Severus è tutt’ora inferocito con Remus Lupin.

Al termine dell’ultima riunione, dopo aver salutato ciascun Archivista prima che tornasse al proprio dormitorio, il Ragazzo d’Oro di Serpeverde si attarda in compagnia di Piton, che dalla fine delle lezioni nel pomeriggio non ha mai tolto la divisa scolastica. Come sempre estraggono le proprie bacchette ed iniziano a ripulire la stanza che il professor Silente ha lasciato a loro disposizione per gli incontri del club: tazze, piattini, libri ed aloni di tè tornano lindi come se nessuno fosse mai stati lì.

La luce delle lampade si riflette a malapena negli occhi neri di Severus, che sembrano più liquidi mentre quei puntini chiari si agitano ad ogni movimento, sembrando quasi viandanti smarriti nel buio. Lucius Malfoy ha sempre amato gli occhi di Piton, li fissa così lungamente che finisce per incrociarne lo sguardo, quindi gli sorride; lo vede voltare il capo dall’altra parte e sbuffare ma è un suono divertito, forse perfino soddisfatto. Poi lo vede girarsi completamente per guardarlo, senza dire nulla.

Quando Lucius inizia a parlare, nonostante sia poco più che un sussurro, ha l’impressione che quella stanza vuota renda la sua voce assordante: «Ad un certo punto Evan Rosier ha poggiato la sua tazza su Il Maniero dei Gerani che, essendo un grande classico, mi pare costi un galeone d’oro.». Il tono della sua voce è velatamente sorpreso, continua dicendo: «Una tazza di Yellow Gold Tea dovrebbe costarne dieci, eppure uno dei due resterà eterno mentre l’altro, beh, va bevuto finché è caldo. Non ti sembra quasi morboso?».

Severus ha le sopracciglia aggrottate e resta immobile, fissandolo con inflessibile curiosità; dal fondo della stanza l’orologio del club, che al posto dei numeri ha i vari stadi dell’evoluzione di una scimmia ad essere umano, scandisce quattro secondi di silenzio, prima che Severus scuota il capo e risponda: «Sembra proprio la storia della tua vita, Faina. Sei morboso quando spendi centinaia di galeoni per una bevanda ma i tuoi ospiti sembrano formichieri che bevono dal naso.». Quel tono austero e spiccio sembra rispecchiarlo appieno, mentre la lancetta delle ore rintocca otto volte, quasi arrivata sull’Homo Sapiens.

Lucius pensa che quattro secondi siano un buon compromesso, perché sottintendono riflessione su quanto precedentemente udito ma restano inadatti ad una ricerca di parole false: Piton, che ha sempre avuto la lingua svelta, avrebbe preferito tacere, piuttosto che arrabattare una risposta tardiva. Ciò non di meno, il Ragazzo d’Oro non riesce a capire se sia il caso di offendersi e per un momento si lascia cogliere dall’imbarazzo, sentendosi inadeguato. Ridacchiando con delicatezza, gli dice «No Severus, sono morboso perché ci godo nel farlo.» e notando la perplessità dell’amico, aggiunge «Hai mai sputato nel tè di qualcuno prima di offrirglielo? È un po’ la stessa cosa, guardo dei formichieri trangugiare inconsapevolmente centinaia di galeoni e, non so… il mio universo torna in asse.»

La smorfia di disgustata perplessità sul volto di Severus Piton è impagabile: sarà per l’immagine mentale proposta, o per lo shock di sentire il suo migliore amico esprimere concetti come asse universale. Fatto sta che prende un bel respiro, piega le labbra in un mezzo sorriso e dice «Merlino, Lucius… la prossima volta sputaci dentro e basta. Piuttosto…» quindi solleva una mano per grattarsi la testa, impensierito. Severus ha mani pallide e secche che il giovane Malfoy, certamente in possesso di un’appropriata sensibilità verso le forme virili, ha comunque sempre trovato belle e mascoline. Vede l’amico umettarsi le labbra e ripetere «Piuttosto…», prima di continuare: «Questi ultimi due mesi sono stati divertenti, ci siamo dati alle grandi imprese grazie all’Oroscopo del Giorno

Oh, già. “L’Oroscopo del Giorno” è il simpatico nomignolo con cui Lucius ha ribattezzato la sfera di sale di salgemma acquistata lo scorso agosto. Al Ragazzo d’Oro sfugge un sorrisetto compiaciuto nel dire: «Alla fine si è rivelato un buon acquisto.», poi lascia cadere le membra esauste sulla medesima poltrona che ha occupato per tutta la sera. Lancia un’occhiata soddisfatta verso Severus, prima di punzecchiarlo con tono insolente: «Chi sarebbe la Faina adesso, mh?»

Piton, che con le sue espressioni ruvide ed i modi tacitiani è sempre stato l’unico punto fermo della sua vita, quel Severus Piton che è il suo migliore amico al mondo e per il quale darebbe via un braccio, non esita un istante prima di dire: «Sempre tu, Faina. Fidati.»

Lucius Malfoy si è abituato all’uso ormai quasi costante di quel nomignolo, che il compagno ha inventato e che non permette ad altri di utilizzare: brandelli d’intimità. Senza smettere di fissarlo, ruota pigramente il capo da una parte ed è con tono sorpreso che gli dice: «Abbiamo evitato brutti voti e lezioni anche peggiori, per non parlare di quando ci ha permesso di devastare l’ufficio di mastro Gazza per far ricadere la colpa su mio cugino ed i suoi amici! Diciamolo, sono anni che sogniamo cose del genere!».

Severus lo lascia parlare ed è una delle sue qualità migliori: perché contrariamente a molte altre persone, da quando si conoscono e perfino quando si trovano in disaccordo, nonostante la lentezza con cui Lucius tende ad esprimersi, Severus non lo ha mai interrotto. Gli lascia finire il discorso e intanto lo fissa con serietà, poi si siede sulla poltrona dirimpetto alla sua: «Non mi fido di quella palla.» gli dice, con tono calmo ma pensoso. «Non riesco a togliermi dalla testa che quel Chester sembrava star facendo di tutto per sbarazzarsene. Temo che ci saranno conseguenze, prima o poi.»

Il Ragazzo d’Oro alza gli occhi al soffitto prima di richiuderli, semplicemente stanco: essendo sempre stato un tipo molto mattiniero, gli viene difficile immaginare qualcuno che, alle otto di venerdì sera, non preferirebbe conversazioni più leggere o perché no, il proprio letto. Dice «Cosa ti aspetti che faccia? Che la getti via perché esiste una possibilità che forse un giorno farà qualcosa di strano?» e quando tenta di risollevare le palpebre quasi non ci riesce, la tentazione di addormentarsi lì, su quella poltrona improvvisamente invitante, è forte.

Accompagnato dal ticchettio dell’orologio in fondo alla stanza, Severus Piton si alza e lo raggiunge, si mette a sedere sul bracciolo della sua poltrona ed è quindi scontato il movimento con cui Lucius finisce per poggiargli la testa contro il braccio. Lasciandolo fare, Severus riprende a parlargli più sommessamente, neanche stessero complottando di intrighi illegalissimi: «Mi aspetto che fai la cosa più intelligente e smetti almeno di chiedergli cose sciocche. Ti ho sentito domandargli se il professor Lumacorno avrebbe mantenuto la promessa di coinvolgerti nei preparativi della “piccola seratina senza pretese” di domani.» e la sua imitazione è così straordinariamente frivola e somigliante, che Lucius si ritrova a ridacchiarne contro la manica della sua maglia. Sente l’amico soffocare la propria ilarità con uno sbuffo prima di proseguire, dicendo «Lumacorno ti adora e non hai bisogno dell’Oroscopo del Giorno per saperlo: potrebbero imbottigliarti ed esporti nella vetrina di un negozio di oggettistica di lusso e lui ti comprerebbe per tutti i suoi risparmi.»

Lucius smette di ridacchiare per scoppiare a ridere, cullato dalla voce calda di Severus, dall’odore di escolzia che gli è restato addosso dopo la lezione sulle pozioni antispasmodiche del pomeriggio. Col tono rilassato, tranquillo al punto da richiudere gli occhi alla ricerca di un momento di riposo, gli risponde «Una delle cose che ho sempre amato di te, è l’accortezza.»

Quando il compagno riprende a parlare, per lui è già diventato un suono indistinto: spossato, dietro alle palpebre chiuse iniziano a scorrergli le immagini più o meno insensate che sono tipiche del dormiveglia. Si risveglia di soprassalto proprio un attimo prima che l’orologio in fondo alla stanza inizi nove rintocchi, con la nettissima sensazione che qualcuno gli abbia appena sussurrato dritto all’orecchio. L’incubo fugace di uno sconosciuto dalla voce fastidiosa, che stride e raspa come se non venisse adoperata da anni.
Ti ha sempre creduto uno stupido… – questo, gli aveva detto.

Il giovane Malfoy aveva finito con l’addormentarsi sulla poltrona, col capo ancora riverso contro il braccio di Severus, che gli ha poggiato una mano sulla spalla come per impedirgli di cadere da un baratro; si lascia rassicurare dal calore di quel tocco energico ed intanto lo sente chiedere «Tutto bene, Faina?» con tono sorpreso, prima di allentare la sua presa ed aggiungere «Compiti e lezioni ci tengono già abbastanza occupati, dovresti smetterla di affaticarti per le feste di Lumacorno e queste stupide riunioni degli Archicazzari.».

Dal fondo della stanza, la lancetta dei secondi spezza il silenzio per sette volte.

Poi Severus Piton, il ragazzo meraviglioso ed irascibile che conosce da quando avevano undici anni e per il quale torcerebbe il collo a tutti i pavoni del suo giardino, si muove per scivolare nel suo campo visivo: lo vede accovacciarglisi davanti, cauto e silenzioso come un ragno, restando in bilico sulle punte dei piedi. Quegli occhi, di un buio sconfinato mentre lo fissano con serietà ed insistenza, gli ricordano pietre d’onice nera incastonate su una lastra di marmo; inchiodato sul posto da quel muto scrutare, Lucius Malfoy non riesce a dire assolutamente nulla, o tanto meno a distogliere il proprio sguardo.

Senza che alcuno dei due se ne fosse accorto, la lancetta in fondo alla stanza ha divorato altri nove secondi di silenzio.

La voce di Severus sembra più bassa e perfino gentile quando dice «Ne riparliamo un’altra volta.»; rimettendosi in piedi, il compagno gli offre la propria mano per aiutarlo a rialzarsi dalla poltrona. Nel momento in cui l’afferra, Lucius si sente divenire preda di un’inaspettata e quasi insostenibile malinconia.
Ti ha sempre considerato uno stupido… - è il pensiero, non suo, che tuttavia gli si riaffaccia alla mente.
 
 


*Ragazzo d’Oro, dall’espressione inglese “Golden Boy”: utilizzato per descrivere un giovane uomo ricco e di grande successo

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Capitolo 3
*** Come una foresta di canne di bambù - Parte 1 ***


Capitolo 3: “Come una foresta di canne di bambù – Parte 1”
 
 
I put my armor on, show you how strong I am
I put my armor on, show you that I am
(Indosso la mia corazza, ti dimostro quanto forte sono
Indosso la mia corazza, ti mostro che lo sono)
 
 
In fondo alla navata della cattedrale, un’immensa vetrata si erge a rappresentare come San Giorgio, frapponendosi tra la figlia del re di Silena ed il Drago, trafigga quest’ultimo con la punta della propria lancia. Nella desolazione sacrale di quel luogo, Severus Piton si rende immediatamente conto di star sognando: mentre il suo sguardo la percorre con lentezza, quella rappresentazione si contorce e si muove, sembrando letteralmente esplodere di sangue e vita propria.

In preda ad un sentimento soverchiante e indecifrabile, il cuore del Principe Mezzosangue batte fortissimo prima di riversarsi completamente sulla visione immobile di Lucius che lo fissa, seduto alla base di un altare imbandito come una cornucopia; molli ed intorpidite, le gambe sembrano iniziare a muovergli incontro di propria volontà. Quegli occhi lo imprigionano come lastre di ghiaccio mentre la distanza tra loro si accorcia, perfino quando vede il migliore amico alzarsi in piedi e slacciarsi i primi bottoni di una tunica bianca e disadorna.

Cingendogli i fianchi, Severus china il capo e gli affonda il viso nell’incavo del collo. Scacciando il gelo statuario della sua pelle con le proprie labbra, lo sente tornare a respirare con un gemito che è vita ed è passione, fino a divenire tiepido tra le sue braccia.

Lucius gli incornicia il volto con le mani e quel tocco vibra di un amore vasto e incondizionato che il mezzosangue mai aveva conosciuto prima, in cui da tempo si costringeva a non sperare. Lo sguardo del suo migliore amico torna ad imprigionarlo, non più col ghiaccio, bensì con lacci invisibili che uniscono insieme le loro stesse anime: stretto nell’incantevole morsa di quei sentimenti, il cuore sembra gonfiarsi fino ad esplodere.

Si lascia scivolare in ginocchio, serrando i pugni tra le pieghe della tunica di Lucius come se volesse strappargliela. Lascia che quelle lunghe dita bianche gli mappino il volto con carezze lungo la fronte, gli occhi, gli zigomi… si lascia stringere e baciare la sommità del capo.

Incrinata dal turbamento che solo l’estasi è in grado di portare, la voce del compagno graffia l’aria con un sussurro potente quanto un tuono.
 
«Multum plus quam tu amas me…»*
 
 
---
 
 
Gennaio sembra essere letteralmente franato sul giovane Piton che, per la prima volta da quando avevano undici anni, si è scoperto a detestare le separazioni che ogni festività impone alla sua amicizia con Lucius. I primi mesi di scuola sono stati tutto fuorché clementi col Monumento ai Caduti nel Cattivo Gusto, che a metà dicembre gli ricordava più il reduce di una battaglia tra bradipi, che non lo studente modello che tutti si ostinano a voler vedere. Nonostante ogni giorno finisse più volte col domandargli se fosse tutto a posto o cosa lo turbasse, la risposta era sempre un sorridente buco nell’acqua.

Solo il giorno prima di lasciare Hogwarts poi, La Faina – che da tempo non interroga più l’Oroscopo del Giorno sull’esito delle sue azioni – lo ha sbalordito con la proposta di ripartire insieme e trascorrere l’intero periodo natalizio al maniero della sua famiglia; per ragioni che successivamente gli sono parse insufficienti e ridicole, Severus ha rifiutato. La verità è che, incontrando il padre e la matrigna di Lucius, avrebbe smesso di essere il migliore amico di loro figlio per diventare quel poveraccio col nasone: piuttosto preferirebbe cospargersi di benzina, mettere un fiammifero in mano a Sirius Black e vedere cosa succede.

Nella solitudine successiva alla partenza dell’amico, preoccupazione e pentimento gli hanno avvolto il petto in spire soffocanti, guastandogli sia l’appetito che la voglia di alzarsi dal letto al mattino. Ne è valsa la pena? – ha continuato a ripetersi, perché con tutte le sue invidie, l’inadeguatezza e le risposte spicce, talvolta Severus fatica a sentirsi un buon amico.

Soprattutto quando la mattina di natale si sveglia con una copia de I Figli della Mezzanotte ai piedi del letto. Soprattutto quando il biglietto nascosto tra le sue pagine odora di marzapane e gli sbatte in faccia la calligrafia piena ed elegante di Lucius:
 
Mio cugino di due anni ha scambiato il fiocco del suo pacchetto per il regalo: è stato bellissimo. Dal canto mio, per non farmi riconoscere ho scritto la letterina a Babbo Natale coi ritagli di giornale e gli ho domandato un mantello di renna.
PS. Qualora non dovessi tornare, è stato il quattordicesimo antipasto di fila ad uccidermi.

   - La Faina.”**

Ma il momento peggiore doveva, tuttavia, ancora arrivare.

Verso metà gennaio Walden Macnair, un Archicazzaro del settimo anno che sfoga il proprio sadismo facendo il battitore nella squadra dei Serpeverde, si siede loro accanto durante la colazione; col garbo linguistico degno di un ippopotamo col mal di denti, invita Lucius a farsi due risate agli allenamenti di Quidditch dei Grifondoro, che si sarebbero tenuti quel pomeriggio. Di rimando, dopo aver accettato quella già di per sé ributtante offerta, Nostro Signore dell’Umorismo decide di invitare Remus Lupin ad unirsi a loro.

Hai mai sputato nel tè di qualcuno prima di offrirglielo? – riaffiora alla mente del giovane Piton quando, prendendo posto con apparente noncuranza, l’unico erede dei Malfoy sceglie di frapporsi tra lui ed il Grifondoro come un’arrogante muraglia di platino. – Si sta vendicando perché ho rifiutato di farmi ospitare al maniero.

Certo, avrebbe potuto tirarsi indietro ma sarebbe rientrato in quel genere di segnali che, nella sua ottica precocemente paranoica, Lucius avrebbe sicuramente frainteso; quando, l’attimo dopo, Remus Lupin ha la faccia tosta di salutarlo e domandargli se avesse passato buone vacanze, Severus avverte il fortissimo istinto di alzarsi e prenderlo a pugni. Reprimendosi, contraccambia quell’ipocrisia col silenzio e decide di affrontare il pomeriggio senza incrociare lo sguardo di nessuno, parlando solo lo stretto necessario.

Ben presto, l’Archivista di Grifondoro diviene bersaglio per le battute sarcastiche di Walden Macnair, che hanno quella finezza tipica solo dei gorilla di montagna. Senza alcun preavviso Lucius attira la sua attenzione con una gomitata leggera, per lanciargli un sorriso furtivo ed alzare gli occhi al cielo come a dire “hai visto che idioti”?

Ad un passo da loro, il leccapiedi di Potter perde le staffe ed inizia a rispondere a tono, dice «Le uniche palle che la tua squadra può vantare sono i bolidi sulla faccia.» e Lucius scoppia a ridere come se oh-proprio-non-riuscisse-a-trattenersi: per il giovane Piton è come passare dal gelo alle fiamme e poi viceversa, tutto in un solo momento. Certo che a vederli da fuori, tutti e quattro, in quel momento dovevano sembrare proprio uno spettacolo assurdo. Alzando lo sguardo infatti, Severus ha la nettissima impressione che gli stessi Potter e Black siano troppo distratti per allenarsi seriamente: troppo concentrati sul loro compagnuccio, quasi fosse stato rapito, nonostante questi si fosse volontariamente circondato di Serpeverde.

Ripescandosi un pelo del proprio cappuccio dalla lingua, Lucius coglie tutti di sorpresa quando dice: «Tra l’altro, dov’è il vostro amico? Quello che di solito vi tallona tutto il giorno… Peter Minor?», piantando quegli occhi sempre vagamente stupiti su Remus Lupin. Difficile dire se abbia sbagliato a pronunciarne il nome intenzionalmente o meno ma in entrambi i casi, a conoscerlo, non ci sarebbe da stupirsi.
«Sembra il nome di un concerto.» interviene Macnair «Sonata in Peter Minor
«È Peter Minus.» li corregge l’amico del suddetto. «Essendo rimasto piuttosto indietro in Trasfigurazione, ha preferito restare a studiare in Sala Comune.»

Bugia. – è il primo pensiero ad affiorare, fulmineo, alla mente di Severus. – Voleva tenersi alla larga, è stato più furbo di tutti noi… il lato positivo di non possedere un briciolo di dignità, suppongo.

Verso la fine degli allenamenti, poco prima che la squadra scenda di quota, gli spalti iniziano a svuotarsi dei pochi presenti; nel rialzarsi, con la coda dell’occhio il giovane Piton coglie una brusca frana al suo fianco, accompagnata dal suono di qualcosa che sbatte contro il metallo, e si volta di scatto. Nel tentativo di arrestare la caduta, Lucius ha stretto entrambe le mani attorno alla ringhiera ma non sembra essergli servito: guardare il suo volto pallido fa venire in mente una pozza di sangue che cola su una distesa di neve. Nonostante non possa trattarsi di una ferita grave, come se soggiogati da un qualche strano incantesimo, nessuno dei presenti si scopre in grado di muoversi o respirare per degli interi secondi.

Sarebbe davvero difficile spiegare l’effetto di quel momento, di quanto Lucius Malfoy sia sempre apparso quasi alieno ai loro occhi fino a quel momento: Il Ragazzo d’Oro dall’età indecifrabile, con modi composti e movimenti eleganti, che facilmente si ritrova spaesato dalla realtà del mondo al di fuori del maniero.

La Faina si porta la mano al volto per soffocare un tenue ed umiliato lamento e tutti sembrano riscuotersi nel medesimo istante, ciascuno seguendo gli impulsi dettati dalla propria indole: mentre Severus si china ad aiutare il suo migliore amico, Macnair afferra una spalla di Lupin e lo spinge da una parte, con violenza e del tutto immotivatamente. Evidentemente, archicazzate a parte, gli istinti reconditi di Walden devono aver gridato il Grifondoro non c’entra niente.

La scopa di James Potter scende in picchiata per poi fermarsi a mezz’aria vicino a loro: «Che dici, ce le infiliamo le mani in tasca Macnair?» dice, tirando fuori la bacchetta dalla divisa della sua squadra.
Poi, siccome il mondo non è mai buono e tanto meno giusto, ad imitarlo sopraggiunge subito dopo Sirius Black, che proprio-proprio non riesce a trattenersi in questi frangenti: «Tutto bene, cugino? Ce l’eravamo immaginato che ti piacessero i tipi sporchi, ma il pavimento non è un po’ troppo duro anche per te?»

Ed il mondo esplode.

«Sei stato tu, non è vero, traditore del tuo sangue?» urla Macnair.
«Ma che cazzo dici, se io ero lassù, specie di scimmia parlante!» grida Black.
«Tua madre ti doveva ingoiare!» abbaia di rinforzo Potter.
«A quello ci ha pensato la tua!» sbotta infine anche Severus.
Remus Lupin, come spesso accade quando ci sono di mezzo i suoi amichetti, perde improvvisamente la facoltà di parola e sembra visibilmente impallidito.

Attorno a loro, tutti i pochi presenti hanno deciso di restare ancora un po’, di fermarsi a guardare. Un forte vento prende a soffiare tra gli spalti e non c’è da stupirsi quindi se nessuno di loro si è avveduto dei tentativi di Lucius Malfoy di intervenire, fino al momento in cui si scrolla di dosso il suo migliore amico e pianta i piedi con caparbia: «Sono. Solo. Caduto!» scandisce, con gli occhi che lacrimano per l’urto subìto all’altezza del naso. Poi solleva l’indice, a sua volta insanguinato, della mano libera e lo punta dritto contro suo cugino: «Ma tu… tu te ne vai affanculo comunque, brutto coglione pieno d’acqua

E se mai fosse esistito il “momento giusto” per una ritirata strategica, è proprio quello. La Faina non si arrabbia di frequente ma quando accade, diventa un’altra persona: la sua voce solitamente bassa e lenta si fa dolorosamente lapidaria, gli occhi chiari si animano di tempesta mentre si lascia andare a linguaggi forti o perfino aggressioni vere e proprie.

Senza troppi complimenti, Severus afferra l’amico per un braccio, ma tirarlo via non è facile come potrebbe sembrare. A quattordici anni Lucius Malfoy è una stecca, sicuramente magro ma anche alto e mostruosamente riottoso: meraviglioso, flessibile e coriaceo come una foresta di canne di bambù. Insulti e grida continuano a volare da ogni direzione, tanto che perfino Walden Macnair sembra capire l’antifona e finalmente accorrere in soccorso del giovane Piton, letteralmente trascinando il Sacro Nume della Giusta Ira giù per le scalette degli spalti. Già più calmo a quel punto, Il Ragazzo non-più-tanto-d’Oro si irrigidisce e, con qualche strattone ben assestato, lascia capire quanto preferirebbe camminare per conto proprio, adesso. È sempre stato difficile per Lucius, scendere a patti con le proprie debolezze o con perdite di controllo di ogni genere per cui non c’è da stupirsi che ora tenti di scacciare perfino i propri compagni: una sorta di istinto di sopravvivenza che è molto simile a quello di un animale ferito.

Bucando quello che sembra un silenzio infinito, il primo a parlare è proprio Severus: «Ti…» ma s’interrompe bruscamente, poi ci riprova, col volto preoccupato ed il tono grave dice: «Ti si è scheggiato un dente.»

Vede il suo migliore amico annuire quasi sbrigativamente. «Lo rimetteranno a posto in un attimo, in infermeria.» ed il suo tono è secco, affatto incline a conversare.

Walden Macnair non dice una parola, mentre il giovane Piton si limita ad annuire, mantenendo la calma e la voce bassa; solo la sicurezza nata in tre anni di amicizia lo porta ad affermare «Ti accompagno.», perché dovrebbe essere ovvio.

Il «No.» di Lucius sopraggiunge invece inaspettato quanto un fulmine a ciel sereno: «È tardi e dobbiamo ancora fare i compiti… ci vediamo in sala comune tra un po’.» aggiunge, voltandosi subito dopo per dar loro le spalle.

Il disagio generale è talmente evidente a quel punto, che perfino Macnair inizia a lanciare occhiate nervose tutt’attorno, poi dice «Va bene.» verso la schiena di Lucius; col tono più colloquiale che riesce a mettere insieme, ancora gli dice «Se fai tardi in infermeria, al massimo Severus può passarti i suoi, no?»

L’unico erede dei Malfoy arresta il passo e si volta a guardarli; fulminando il loro compagno più grande con un sorriso insanguinato, scuote il capo. «Perché dovrebbe? Non penso che lui accetterebbe, al mio posto.» dice, ma è la frase più imbecille che Severus gli abbia mai sentito pronunciare in questi tre anni.

Il resto della giornata scorre come ovattato per il giovane Piton, che nel cuore della notte fissa ancora la cima del proprio baldacchino con gli occhi spalancati: per dirlo con le parole di Lucius, da un po’ di tempo a questa parte, sente il suo universo semplicemente fuori asse. Per quanto cercasse di combatterli, i pensieri continuano a raggomitolarsi attorno alla figura che sa distesa sul letto di fianco al suo ed è quindi la disperazione che lo porta ad alzarsi di scatto per raggiungerlo; chinandosi sull’amico addormentato, Severus inizia a scuoterlo e si ferma solo quando intravede il bagliore opaco di due occhi che si aprono nel buio. Sente la voce impastata dal sonno di Lucius articolare qualche sussurro indecifrabile, poi una mano pallida che si affaccia oltre le coperte e gli afferra una manica del pigiama.

Trascinandosi lungo il materasso fin quasi al bordo, l’ultimo erede dei Malfoy inizia a tirare mentre mormora, pianissimo: «Fa freddo, Severus… vieni sotto.» come se fosse normale, mentre l'unica volta in cui hanno dormito insieme è stata due anni prima. Quella volta era stato Lucius, devastato dall’improvviso matrimonio di suo padre, a cercare rifugio sotto le coperte del suo migliore amico.

Non è tuttavia di un nascondiglio che il giovane Piton ha bisogno, al momento.
 
 
 
* Il parlato finale è tratto dal brano di Richard Einhorn, Pater Noster, che ha ispirato la creazione dell’intera scena. Dal latino, si traduce in "Molto più di quanto tu ami me".

** Il biglietto di Lucius è stato composto con l’ausilio di buffi messaggi d’auguri suggeriti su internet. Perché l’autrice ha un senso dell’umorismo troppo greve, per queste finezze.

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Capitolo 4
*** Come una foresta di canne di bambù - Parte 2 ***


Capitolo 4: Come una foresta di canne di bambù – Parte 2
 
 
I’m unstoppable, I’m a Porche Nimbus with no brakes
I’m so confident, I’m unstoppable today
(Sono inarrestabile, sono una Porche Nimbus senza freni
Sono così fiducioso, sono inarrestabile oggi)
 
 
Sente la voce impastata dal sonno di Lucius articolare qualche sussurro indecifrabile, poi una mano pallida che si affaccia oltre le coperte e gli afferra una manica del pigiama. Trascinandosi lungo il materasso fin quasi al bordo, l’ultimo erede dei Malfoy inizia a tirare mentre mormora, pianissimo: «Fa freddo, Severus… vieni sotto.» come se fosse normale, mentre l'unica volta in cui hanno dormito insieme è stata due anni prima. Quella volta era stato Lucius, devastato dall’improvviso matrimonio di suo padre, a cercare rifugio sotto le coperte del suo migliore amico.
Non è tuttavia di un nascondiglio che il giovane Piton ha bisogno, al momento.
 
 
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Dopo qualche attimo di esitazione, il Principe Mezzosangue si infila in quel letto, distendendosi sulla schiena nello spazio che il compagno ha appena liberato per lui: solo un fruscio di lenzuola più tardi, avverte il peso di un braccio contro il petto e due gambe che si intrecciano alle sue con straordinaria familiarità. Per la prima volta si rende conto di quanto la presenza di Lucius sia solida, reale e dal calore quasi ustionante mentre gli si preme addosso, con la più estrema innocenza. Severus si volta e, per riuscire a guardare il compagno, costringe i muscoli del collo ad una tensione che ben presto sarebbe divenuta un crampo ma non gli importa. Le loro teste sono così vicine che ogni sussurro soffia caldo contro le labbra dell’altro; l’odore dei capelli di Lucius, di frutti di amla addolciti nella cumarina, lo colpisce così intensamente da confonderlo per un attimo.
Severus gli chiede «Hai tanto sonno?»
Sulla buona strada per riaddormentarsi, il Monumento ai Caduti nella Tentazione sussurra: «Tantissimo», con gli occhi già nuovamente chiusi, le labbra semiaperte e le membra pesanti laddove poggiano contro le sue.
Sgranando gli occhi contro il buio, col tono retorico di chi sta in realtà avanzando una pretesa, il giovane Piton mormora «Facciamo lo stesso un gioco, va bene?»; osserva il modo in cui il compagno si costringe a risollevare le palpebre per incrociare il suo sguardo, fissandolo con attenzione come se tentando di leggervi dentro.
«Che gioco?»
«Io ti dirò un mio segreto, poi tu mi rivelerai uno tuo.»

Lucius dice «Oh.» ed inizia a muovere le dita contro il pigiama di Severus, distendendole per poi tornare a stringerle in una strana sorta di massaggio, lentamente e con gentilezza. «E come vogliamo chiamare questo gioco?» domanda l’attimo dopo, riaccomodando il volto contro il cuscino e, forse inavvertitamente, sfiorandogli la punta del naso col proprio.
Nel lungo silenzio che segue, l’incertezza si mescola all’impazienza ed è con tono risoluto e sbrigativo che, infine, il giovane Piton dice «Prima Pagina?», poi fa una piccola pausa prima di aggiungere: «Perché devono essere segreti importanti, non basta aver rubato dei dolci o copiato dei compiti. Ci stai?»
L’unico erede dei Malfoy lo fissa senza parlare e sembra tutto fuorché spaventato: a dispetto del buio, Severus riesce a vedere le sue labbra distendersi lentamente, scoprendo i denti in un sorriso che sa di spontaneità e di qualcosa che è assai simile alla dolcezza. Una candida mezzaluna in grado di spezzare il suo mondo in due, se lo volesse.
Per un attimo, dall’altra parte della stanza Evan Rosier russa così forte che è come una sviolinata dritta sui nervi tesi di Severus. Sente Lucius ridacchiargli contro la guancia mentre, come anticipando le sue intenzioni, dice «Usa la mia, è vicino a te sul comodino.»

Il giovane mezzosangue trova a tentoni la bacchetta del compagno e l’adopera per chiudere le tende del baldacchino ed attutire ogni suono, dall’esterno e dall’interno; prendendo un bel respiro, dice «Comincio io.» e torna a gettarsi nella trappola che sono gli occhi grigi del suo migliore amico. «Mio padre è un uomo irascibile e violento per cui, quando ero molto piccolo, mia madre mi insegnò a nascondermi ogni volta che aveva uno dei suoi scatti.» inizia a raccontare, il petto stretto in una terribile morsa nonostante gli sforzi per mantenere un tono rapido ed asettico. «Una volta, avrò avuto forse quattro o cinque anni, li sentii iniziare a litigare e corsi a nascondermi sotto al loro letto, che era il più vicino. Poco dopo, spalancando la porta con violenza, mio padre trascinò la mamma in camera ed io mi coprii la bocca con le mani, terrorizzato all’idea che potesse sentirmi respirare.»
La voce non vacilla eppure, ad ogni parola pronunciata, quel ricordo sembra avvolgerlo in orrende spire, pronte a trascinarlo sul fondo del suo personalissimo abisso: tenta di concentrarsi sugli occhi color ghiaccio di Lucius, immaginandoli come una distesa di neve, silenziosa e deserta ma sicura. Il passato non può ferirlo in quel momento, non alla presenza viva e reale del suo migliore amico.
«C’era uno specchio sulla parete in fondo alla stanza, così vidi mio padre gettare la mamma sul letto per poi stuprarla. Ho sentito e visto ogni cosa.» continua a raccontare, prendendo in ultimo un bel respiro prima di aggiungere «Ad un certo punto, trovandosi a girare la testa, anche mia madre vide me ed i nostri sguardi si incrociarono attraverso lo specchio. Credo di aver visto la sua anima andare in frantumi, proprio in quel momento. Allungò un braccio verso il pavimento ed io le presi la mano… non ci lasciammo andare fino alla fine.»*

Al termine del racconto, il giovane Piton avverte la stessa sensazione lasciata dallo strappo di un cerotto o dall’estrazione di un dente malato; l’espressione di Lucius, tuttavia, è così simile a quella nel riflesso di sua madre allo specchio che sente il bisogno di urlare. Imbrigliando la propria voce in un mormorio, con tono secco gli dice «Guarda che tocca a te.» e lo sente sussultare lievemente.
Non più assonnata, la Sacra Icona della Compassione muove un paio di volte le labbra a vuoto, poi le preme tra loro mentre il suo sguardo si scioglie come neve; quando inizia a parlare, il suo tono è asettico ma la voce suona fievole ed incrinata: «Sono cresciuto credendo alle storie di mio padre, su pericoli innumerevoli e costanti fuori dalle mura del maniero. C’erano “il mannaro” sempre in cerca della carne dei bambini, “il babbano” che bruciava vivi i maghi su alte pire, “l’ibrido” che ti ammaliava per farti impazzire…».
Già si prende una pausa Lucius, aggrottando le sopracciglia mentre raccoglie le idee prima di continuare: «Molto presto, però, imparai a leggere e, nonostante mio padre scegliesse ogni libro da regalarmi, ero comunque sempre più curioso e lo tempestavo di domande sul mondo esterno; così, un giorno, mi raccontò che avevo un fratello e di come, lasciato il maniero, si trovò incapace di rientrare o di allontanarsi per via delle creature sempre in agguato. So bene che non è mai esistito alcun fratello ma, al tempo, ero convinto che si nascondesse giusto al di là dei più alti cespugli attorno al giardino e volevo aiutarlo.»

Quel lento ma incessante flusso di parole s’interrompe nuovamente ed il silenzio partorisce le sue mute grida mentre Lucius abbandona le ultime vestigia dell’esitazione; emette un sospiro contro le labbra di Severus, poi riprende a raccontare: «Non ho mai più parlato di lui con mio padre ma credevo davvero che, se lo avessi aiutato abbastanza, mio fratello sarebbe sopravvissuto e tornato infine a casa. Gli avevo dato un nome ed anche se non rispondeva mai, tentavo di parlargli ogni giorno… per anni continuai a lanciare giocattoli, cibo e saponette al di là del cortile. Mio padre doveva averlo notato, perché ad un certo punto venne da me e disse tuo fratello è morto, lo ha sbranato il terribile mannaro
Nonostante l’ennesima pausa del compagno, senza mai smettere di sfidare il buio per guardarlo negli occhi, Severus resta in silenzio. Qualche momento dopo, l’unico erede dei Malfoy riprende a parlare, sempre più stanco, sempre più desolato: «Quella mattina tenemmo una specie di veglia di fronte al grande cancello del maniero e parlammo in sua memoria: dissi che avevo davvero sperato che, col mio aiuto, ce l’avrebbe fatta a sopravvivere… perché avrei tanto desiderato conoscerlo.». Lucius abbassa le palpebre, poi con altrettanta lentezza le riapre: «Ero addolorato, spaventato, spesso iniziavo a piangere senza nessun preavviso e persi l’appetito per lungo tempo… eppure mio padre non mi rivelò mai di aver mentito. Tutt’oggi, non sono certo di capire. Non capisco perché.»**

Letteralmente svuotato nello spirito, Severus si volta lentamente su un fianco, dando sollievo ai muscoli del collo e poggiando una mano sulla vita del compagno; lo sente chinare il capo per infilargli la testa bionda sotto la guancia ed il mento, allagandogli il pigiama consunto con una cascata d’oro e platino. Soffocando una specie di singulto, l’unico erede dei Malfoy riprende a parlare con voce incerta e carica d’ansia: «Mi dispiace di aver perso la calma oggi, non volevo farti ripensare a tuo padre. Non accadrà mai più, te lo giuro, però ti prego non avercela con me.»
La prima reazione di Severus a quel palese fraintendimento è la sorpresa, qualcosa di affatto dissimile dal panico; trovandosi a stringere il compagno un po’ di più, gli dice «Non potrei mai, mai paragonarti a mio padre.» scandendo vigorosamente ogni parola. Rinsavendo, i cuori di entrambi prendono a rallentare i loro velocissimi battiti e solo a quel punto, il giovane mezzosangue chiede «Che cosa ti è successo, Lucius? Sembri sempre stanco e stai diventando… strano.» restando poi in paziente attesa di una risposta.

La Faina sembra necessitare di molti momenti per riflettere su quella domanda; lo spazio racchiuso tra le tende insonorizzate del baldacchino cala dunque nel silenzio più totale. Poi prende a mormorare: «Da un po’ di tempo a questa parte, mi capita di sognare cose strane e svegliarmi poco riposato. Non brutte di per sé, solo… bizzarre. In più…» esita per un attimo prima di continuare «In più, spesso mi vengono in mente pensieri tanto brutti. Pensavo potesse trattarsi di qualche effetto collaterale dell’Oroscopo del Giorno, così ho smesso di usarlo e l’ho riposto via… ovviamente non è servito, quindi immagino debba dipendere da me.»
Palesemente confuso, il giovane Piton aggrotta le sopracciglia e decide di optare per una risposta onesta: «Così non mi ci stai facendo capire niente, Faina.» dice, scuotendo il capo per poi aggiungere in tono calmo ma involontariamente inquisitorio: «Cosa intendi con strani sogni e brutti pensieri? Fammi almeno un esempio.» Sente Lucius prendere un respiro profondo e soffiarglielo, caldo, contro il collo ed il petto: qualcosa di talmente intimo da cogliere Severus alla sprovvista, costringendolo a reprimere un brivido.
La Suprema Divinità del Non-ti-ci-faccio-mai-capire-un-cazzo decide infine di parlar chiaro: «Una volta ad esempio, ho sognato che era notte e stavamo attraversando una foresta ma un lupo mannaro ci inseguiva per sbranarci. C’erano diverse persone con noi e allora per rallentare la bestia, mentre fuggivamo, gli abbiamo gettato in pasto Sirius Black.»

Beh – è il primo pensiero del Principe Mezzosangue – se ha il lieto fine non può essere davvero chiamato incubo, no?

Piegando le labbra in una smorfia, Severus fissa il soffitto del baldacchino nel tentativo di elaborare una risposta sensata alle affermazioni del compagno; è con spassionata onestà che, infine, dice «Merlino, spero proprio che sia un sogno premonitore.» sente Lucius ridere sommessamente, l’intero corpo che gli vibra addosso per qualche momento prima che riprenda a parlare.
«I brutti pensieri invece, mi capita di averli su un mucchio di persone, quando mi guardano o quando ci parlo ed immagino cosa potrebbero star pensando di me. Magari che sono strano, o che quando parlo sembro un cretino… forse che ho un aspetto sgradevole e non merito tutte le cose che ho.» dice, con un tono imbarazzato che non ha neppure bisogno di spiegazioni, nel timore – non ci vuole un genio per capirlo – di suonare inopportuno a fare un discorso simile proprio a lui: contrariamente al Ragazzo d’Oro infatti, il giovane Piton sa bene di apparire strano, sgradevole ed ingrato verso tutto e tutti.
Con una pazienza che non sospettava di avere, Severus si limita ad annuire alcune volte, strusciando la guancia contro la cascata di capelli che Lucius gli ha sparpagliato addosso; si umetta le labbra rapidamente, prima di chiedere «Questi pensieri li hai anche su di me?»
«Soprattutto su di te.»

Sto per commettere un Fainicidio. – è il pensiero immediatamente successivo del giovane Piton, mentre allontana la mano dal fianco del suo migliore amico per muoverla in cerca della sua; la rintraccia sul proprio petto e l’afferra con forza ma non dolorosamente, poi torna ad incrociare lo sguardo del compagno, con prepotenza e determinazione. Semplicemente, vuole che Lucius veda. Vuole che gliele legga dentro e che le senta sotto le dita, tutte le risposte che cerca. Riuscendo a mantenere una voce calma, in tono spiccio, Severus dice «Guardami. Ti reputo strano?»
Tornando a respirarsi a vicenda contro le labbra ed il volto, tacciono entrambi mentre l’unico erede dei Malfoy trapassa ogni difesa del compagno con una singola occhiata; in quel preciso momento, senza prezzo e senza tempo, Lucius Malfoy lo sta scrutando dritto nell’anima senza neppure bisogno della magia.
Dice «Sì.», poi in tono basso ma sicuro, aggiunge «Però non ti dispiace.»
«Continua a guardarmi. Penso che sei un cretino, quando ti sento parlare?»
Il tempo ed il silenzio non hanno più alcuna importanza, li lasciano scorrere indisturbati. Ancora una volta senza esitazioni, Lucius dice «Non hai mai conosciuto nessun altro con un tono basso e lento quanto il mio. Ti piace. Ci rende simili.»

Non è normale ciò che sta accadendo, non era mai capitato nulla di simile prima d’ora e se ne stanno rendendo conto. Sentono la paura attraversarli come una brezza e nel momento in cui il compagno fa per ritrarre la mano, Severus rafforza la presa su di essa e porta entrambe in mezzo a loro, come un ponte ad unirli all’altezza del petto. «Non smettere di guardarmi. Penso che hai un aspetto sgradevole?»
Con quella strana angoscia scritta in volto, Lucius continua a scavare: che lo voglia o meno, non riesce a smettere di vedere e di sentire. La sua voce trema e si alza quando dice: «No! No, no, no, no, no.», tanto che risulta davvero difficile capire se si tratti di un lamento o di una risposta.
Come presagendo che qualsiasi cosa stia accadendo stia per spezzarsi, come un elastico tirato troppo, il Principe Mezzosangue incalza immediatamente: «Penso che non meriti ciò che hai?» in un tono forse troppo duro.
Ancora una volta la risposta è «No…!», ma è quasi un grido; l’attimo dopo, con uno strattone, Lucius ha liberato la propria mano dalla presa del suo migliore amico, serrando gli occhi più stretti che può.

Ansimando, mormora «Severus…», con un tono praticamente terrorizzato: «Che cosa è successo?»



*Il primo racconto nei dialoghi si ispira ad uno dei flashback sull’infanzia di Norman Bates, nella serie tv Bates Motel.
**Il secondo racconto nei dialoghi si ispira al film Dogtooth (Kynodontas) di Yorgos Lanthimos.

 

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Capitolo 5
*** L'acaro dei muri ***


Prima di incominciare, l’autrice di questa fanfiction (cioè io), ci tiene a ringraziarvi: ad oggi si sono raggiunte le 350 letture, con otto recensioni, quattro inserimenti nelle storie preferite e tre in quelle seguite.
Grazie a tutti :*
 
 
Capitolo 5: L’acaro dei muri
 
 
Break down, only alone I will cry out now,
You’ll never see what’s hiding out, deep down
(Abbattuto, adesso piangerò solamente in solitudine,
non vedrai mai cosa si sta nascondendo, giù nel profondo)
 
 
Al centro della cantina, immerso nella più inquietante delle penombre, giace un corpo morto, ormai decomposto ed irriconoscibile; a giudicare dalle ampie, seppur quasi disintegrate vesti che indossa, in un passato assai remoto doveva essere stata una donna. Rannicchiato in un angolo, invece, Lucius Malfoy si sorprende a ricordare la prima volta che, guardandosi in uno specchio, si era trovato “carino”.
Ciò, ovviamente, non ha più alcuna rilevanza ora.
Giù nella foresta era sembrata davvero una buona idea gettare suo cugino in pasto ad un lupo mannaro, solo che “gli altri” adesso sono molto, molto arrabbiati. Non hanno esitato neppure per un attimo prima di attirare Lucius in quel claustrofobico scantinato e rinchiudercelo dentro. Ha colpito la botola per lungo tempo, spingendola e gridando sempre più disperatamente, arrivando a minacciare e perfino ad implorare, ma del tutto invano; stanco, sull’orlo delle lacrime e circondato dal puzzo della decomposizione, non ha neanche il coraggio di guardare la sua unica compagnia, eternamente appisolata solo qualche metro più in là.

Il soffitto è talmente basso, laggiù che non potrebbe alzarsi in piedi neanche volendo. Nel tentativo di alleviare l’ennesimo crampo, si distende su un fianco per accucciarsi in quel letto di terra e polvere. È in quel momento che, per la prima volta, nota i contorni poco distinti di un quaderno abbandonato, furtivamente sepolto dal tempo e dal silenzio. Proprio come è accaduto alla donna dalle vesti lacere.
Proprio come sta per accadere anche a lui.
Ripulisce accuratamente la copertina con una mano, poi inizia a curiosare tra le pagine ingiallite, colme di scritte e disegni infantili che sembrano raccontare una storia. Più continua a sfogliare, meno quel racconto gli piace: l’ultima pagina del quaderno è quasi completamente occupata da una figura mostruosa, con una donna – simile alla sua attuale, cadaverica compagna – scompostamente distesa ai suoi piedi. Due figure si abbracciano invece sullo sfondo, minute ed inconfondibilmente fanciullesche ma, per qualche strana ragione, completamente bianche.

D’improvviso fa più freddo ed il respiro rarefatto di Lucius, unico suono nell’interrato, inizia ad addensarsi in piccoli spettri di condensa di fronte al suo volto pallido. Colto da un lugubre presagio, lentamente si volta a guardare l’emaciata carcassa al centro della cantina: non più distesa nel riposo eterno, bensì seduta, con la schiena innaturalmente curva in avanti, perfettamente immobile. Seguono momenti di puro terrore, in cui il mondo intero sembra fermarsi; ansimando sempre più affannosamente, consumando più ossigeno di quanto potrebbe permettersi, Lucius inizia ad arretrare con cautela. Sa cos’è quella cosa morta in fondo al buio, suo padre glielo aveva spiegato molto tempo fa.
Ed è questo genere di cose ad avere tutta la rilevanza del mondo, ora.
L’Inferius si volta di scatto, come se riuscisse a vederlo, lo fissa attraverso orbite lattiginose e vuote quanto la disperazione; subito inizia a strisciare scompostamente, gli arti ripiegati come le zampe di un ragno, con le ossa che si spezzano e le carni che si sbriciolano mentre tenta di raggiungere la propria vittima.

Poi la luce finalmente, accompagnata dal suono della botola che viene riaperta e dalla sensazione di un paio di mani che lo afferrano, aiutandolo a risalire in superficie. Terrorizzato, sconvolto ma finalmente in salvo, Lucius finisce con l’intrufolarsi prepotentemente nello spazio vitale del suo migliore amico e salvatore. Gli getta le braccia al collo, gli affonda il viso sporco contro la spalla e dice «Severus…», con tono sempre meno tremante, mentre lo stringe con ogni forza che gli è rimasta: «Formidable, marveilleux, fiable Severus…»
Stringendolo di rimando, il giovane Piton sembra tuttavia impaziente e distratto; lancia un’occhiata incerta alla botola ormai nuovamente chiusa, poi torna a guardare il compagno, gli tocca gentilmente il volto e gli dice «Il faut partir d'ici, Lucius.». Lo aiuta a rimettersi in piedi mentre aggiunge «If faut partir tout de suite.»*
 
 ---
 
Seguendo il ritmo naturale del mondo, gennaio se n’è andato ed ha portato via con sé le ultime nevi dell’inverno; nonostante il freddo ancora pungente, già molti tra gli studenti di Hogwarts approfittano di ogni giornata serena per passeggiare o chiacchierare all’aperto.
Energico estimatore del caldo ma tenero amante del freddo, Lucius Malfoy ha comunque, a prescindere dalla temperatura, sempre esercitato una potente orbita sociale sui propri compagni: trattasi, a detta di Severus, di un affatto raro fenomeno che insieme hanno poi ribattezzato le olimpiadi dell’arrampicata sociale. È in compagnia di alcuni Serpeverde, dunque, che il Ragazzo d’Oro è uscito nel cortile interno per sedersi su un muretto, proprio sotto al colonnato; senza avvedersene, si è ritrovato affiancato su entrambi i lati dalle sorelle Black, con cui ha sempre avuto in comune solo un certo status e poco altro.
Bellatrix, che frequenta il penultimo anno e sporadicamente si diverte a tormentarlo, appare matura per la sua età: col portamento altero ed arrogante che è tipico di quasi tutti i Black, sa essere una compagnia simpatica se presa a piccole dosi. Quando non è presente, invece, a causa della ragguardevole altezza e dell’atteggiamento, Severus le ha sempre riservato il poco lusinghiero appellativo di spocchiosa ippopotama.

D’un tratto, senza guardare nessuno in particolare, Bellatrix scuote il capo e dice «Povero piccolo…» in un soffio sconsolato, che sboccia come un fiore velenoso quando aggiunge «Non so proprio come fai.».
Narcissa, taciturna tredicenne costantemente invidiosa delle forme e del fascino di sua sorella maggiore, non dice nulla e questo getta La Faina in una sorta di strana tensione. A meno di star parlando da sola, l’Ippopotama doveva avercela proprio con lui ma, per assicurarsene, il giovane purosangue lancia una lunga ed infruttuosa occhiata attorno a sé: erano rimasti solo loro.
L’unico erede dei Malfoy, che oggi ha raccolto i capelli in una lasca treccia sulla spalla destra, concede al proprio volto la libertà di mostrarsi sorpreso e si volta per osservarla: lunghe membra arricchite di quella floridità che è tipicamente femminile, sta in piedi, con la schiena poggiata contro una colonna e gira il capo per incrociare il suo sguardo. Lucius, che avrebbe tanto preferito non confrontarsi con quei grandi occhi implacabili, dice «Chi, io?» e la vede annuire, quindi aggiunge «Cosa intendi?»

Bellatrix, il cui volto chiaro ricorda una magnolia fiorita in un sipario di capelli corvini, storce il naso, sdegnata, prima di rispondergli: «Sto parlando del tuo mastino mezzosangue.» con tono appena cantilenante. «L’ho visto uscendo, parlava fitto fitto con quella sua amica di Grifondoro… la nata babbana che sembra un acaro dei muri.» gli dice, con disgusto sempre crescente; «Si sta avvicinando San Valentino e scommetto che ha invitato quella lì ad Hogsmeade, il prossimo fine settimana. Non ti manda in bestia
All’improvviso, il Ragazzo d’Oro si sente semplicemente stanco.
Ti mentirà e ti abbandonerà, proprio come ha fatto tuo padre… - è il pensiero che gli si affaccia alla mente, familiare ed al contempo estraneo, come il sussurro di chi conosce ogni suo peggior timore.
Fissa Bellatrix in silenzio ma più tenta di riflettere su quella bizzarra domanda, più ha l’impressione di sentirsi male da qualche parte all’altezza dello stomaco. Decide di sorriderle, perché è ciò che suo padre gli ha consigliato di fare: quando si trova in una situazione che non comprende, quando gli capita di dire o fare qualcosa che agli altri suona strano, dovrebbe sempre sorridere. Il più delle volte, le persone diventano tanto più comprensive nei suoi confronti. Con tono misurato dice «Stai parlando di Lily Evans.», giusto per guadagnare tempo, per mettere insieme una risposta che abbia una parvenza di senso: «Anche se a me non è mai piaciuta, so che sono sempre stati ottimi amici. Inoltre, se anche fosse come dici, suppongo di non correre il rischio di ritrovarmi da solo.». Sul punto di aggiungere altro però, come spesso accade, viene interrotto.

Con tono mortifero, L’ippopotama esclama «Appunto!», poi si stacca dalla colonna contro cui era appoggiata e gli si para di fronte: «Nonostante essere Lucius Malfoy ti lasci tutta la scelta di questo mondo, hai voluto diventare amico di Piton. Se ci pensi, quindi, ogni singola volta in cui va a parlare con quella sanguesporco lo rende un ingrato bastardo.».
Non hanno mai smesso di fissarsi negli occhi, comportamento che all’unico erede dei Malfoy è sempre venuto naturale quanto respirare: per molti autorevole, per alcuni altri invadente ma complessivamente bizzarro – alieno addirittura, stando ai commenti che sa circolare sul suo conto. La maggiore delle Black, invece, riesce puntualmente a trasformarlo in una sfida.
Contraccambiando il suo silenzio con l’insistenza, Bellatrix riprende a parlare: «Piton dovrebbe capire che ci sono cose che si fanno ed altre, invece, che non si fanno. Soprattutto quando vieni accolto a braccia aperte da persone nettamente migliori.».
Da qualche parte al di sotto dell’affaticamento, Lucius sente l’irritazione che inizia a ribollire, proprio come il mese scorso al campo di Quidditch: quello sbotto di grida e parolacce, una volta riferito agli insegnanti da chissà chi, gli era costato un’ingente perdita di punti per Serpeverde, che non vuole ripetere.
Involontariamente, la giovane Narcissa soffoca quello scatto d’irritazione quando si aggiunge alla discussione dicendo, con tono confuso: «Sì, ma… così facendo Lucius non rischierebbe di passare ancor più per possessivo?». I suoi occhi s’ingrandiscono come due cieli sconfinati quando sua sorella la zittisce con un sibilo feroce, quasi avesse appena pronunciato qualcosa di proibito.

Aspetta… cosa? – è il pensiero del giovane Malfoy mentre si volta di scatto per guardare la più giovane delle Black come se la stesse vedendo per la prima volta solo ora: «Che vuol dire “ancor più possessivo”?» esclama, aggrottando le sopracciglia e dardeggiando occhiatacce su entrambe le ragazze, impallidendo tanto quanto Narcissa è invece arrossita. In una sorta di verdetto che non ammette repliche, infine aggiunge «Non sono possessivo!» e vede Bellatrix poggiarsi una mano su un fianco, con in volto un’espressione rassegnata. Sua sorella d’altro canto, dopo qualche veloce parola di scuse, annuncia di dover andare a lezione e lascia il cortile con l’aria un poco intimidita.
Del tutto spiazzato, con l’intenzione di congedarsi e mettere quanta più distanza possibile tra sé e quelle due sorellastre insolenti, Lucius si lascia scivolare giù dal muretto su cui si era seduto. Nel momento in cui fa per parlare, viene tuttavia interrotto ancora una volta. Il tono di Bellatrix parrebbe riappacificante adesso, invoca complicità come solo tra Serpeverde e purosangue riesce ad accadere: «Non devi dar retta a mia sorella, lei è un po’ come te… non si può esattamente dire che sia sbocciata in fretta.». Poi sbuffa, serena ed imbronciata al tempo stesso nel dire «A mandarmi in bestia potrebbe essere il fatto che hai dormito con Piton e non sento nemmeno il bisogno di chiederti com’è stato, perché risponderesti “comodo e caldo”. Il che va bene, non fraintendermi, hai solamente quattordici anni… solo che mentre tu continui a dormire, l’acaro dei muri rischia di scipparti un bel fine settimana.»

Mezz’ora più tardi, tutte quelle stranezze assumono la forma di dubbi nella testa di Lucius, mentre prende posto al primo banco dell’aula di Storia della Magia. Appena pochi minuti dopo viene raggiunto da Severus, che è ancora il suo migliore amico e percorre una linea dritta e sicura per sederglisi accanto: il sollievo è tale che Lucius si trova a sorridergli in uno slancio tanto spontaneo ed inaspettato da cogliere il compagno alla sprovvista e costringerlo a contraccambiare. 
Il giovane mezzosangue china il capo, in un attimo sopprime quel buonumore che aveva rischiato di contagiarlo e dice «Che hai combinato stavolta?», ma con quella complicità intima e discreta che gli ha sempre riservato. «Ah no, scusa.» si corregge subito dopo, sollevando ambedue le sopracciglia per dissimulare sorpresa: «Intendevo che ti è successo, stavolta?».
Mimetizzato in un’espressione seria, lo sguardo sottilmente divertito di Severus riesce a farlo sentire come avvolto in una coperta mentre fuori impazza la bufera. Lucius scuote il capo, dice «Nulla.» ed attende che l’amico recuperi il libro dalla borsa e lo poggi di fronte a sé; più sommessamente poi, incrociando le braccia sul banco, gli chiede «Dov’eri, non ti abbiamo visto per niente dopo pranzo.» ma il compagno non risponde subito.
Lo vede strofinarsi un punto tra l’orecchio e la mascella mentre, da qualche parte al loro fianco, risuonano cinque passi di una Corvonero che si affretta a raggiungere il suo posto. Il sorriso di Lucius perde improvvisamente di vitalità, perché avrebbe anche potuto diffidare dei pettegolezzi dell’Ippopotama, ma cinque passi non sono affatto un buon compromesso: si tratta anzi di un’enormità di tempo per rispondere a una domanda che non richiederebbe alcuna riflessione.

Con tono calmo, Severus dice «Ho approfittato della pausa per scrivere a casa.» ma si rende subito conto di non essere risultato credibile e la sua espressione si fa innervosita.
Picchiettando l’indice contro il banco, l’unico erede dei Malfoy vorrebbe solo che la cosa finisse lì, svuotare il cervello e dimenticarsi dei brutti pensieri che l’affollano; non ha semplicemente la forza per continuare. Cercando di mantenere un’apparenza di serenità, senza alcun particolare slancio emotivo dice «A-ha.», e si rimette all’indulgenza del compagno.
Neppure volendo riuscirebbero ad ingannarsi a vicenda, ma il giovane Piton, che è sempre stato un ragazzo straordinariamente acuto, controbilancia il proprio buon senso con una mancanza impietosa e totale – almeno nei riguardi di Lucius – di condiscendenza. In tono spiccio dice «Non volevo mentirti.» e per un attimo, al Ragazzo d’Oro, viene voglia di tapparsi le orecchie urlando versi incomprensibili ma si limita ad ascoltare. «Siccome da molto non ci capitava di parlare, mi sono fermato a chiacchierare con Lily. Avrei semplicemente preferito evitare di alterarti, visto che non la sopporti… anche se non ne ho mai capito il motivo.» ed è la cosa più offensiva che Lucius gli abbia mai sentito dire in questi tre anni, il genere di argomentazione con cui si giustificano le bugie bianche dette ai bambini.
Mentre il professor Rüf inizia l’ennesimo monologo su questa o quell’altra guerra dei goblin, il giovane Malfoy aggrotta le sopracciglia e si stringe nelle spalle: «La trovo vuota e noiosa.» sibila sommessamente, con un tono colmo di fastidio.

Ed il cielo si aprì, disseminando fulmini e saette.

«Ohh, andiamo, non lo è!» ribatte Severus, in uno scatto spazientito.
«Una sanguesporco con la testa rossa, oh-oh! Scusami se non riesco a trovarla interessante, ma come avrò fatto a non pensarci prima!» soffia Lucius di rimando, in tono canzonatorio, prendendosi la soddisfazione di spiazzare il suo migliore amico e ridurlo al silenzio per molti, interdetti momenti.
Riprendendosi, con una lentezza che sa di diffidenza, il giovane Piton dice «Io ti avverto Faina: regolati.», poi smette di guardarlo per concentrarsi sul proprio libro. Non riesce tuttavia a trattenere un ultimo guizzo di rabbia, dardeggiando un lapidario commento: «Che stronzo di ghiaccio, sai essere.»

Chiudendo gli occhi, il Ragazzo d’Oro prende un bel respiro e cerca di calmarsi – di regolarsi, per dirla con le parole del compagno. Forse questo è uno di quei momenti in cui dovrebbe provare a sorridere solo che, ora come ora, preferirebbe farsi recidere tutti i nervi facciali. Ogni minuto libero dello scorso mese, lo avevano speso tentando di ricreare lo stesso fenomeno della notte in cui avevano dormito insieme: seduti uno di fronte all’altro a fissarsi, tenendosi le mani, rivolgendosi domande intime e collezionando un insuccesso dopo l’altro. In quei giorni era Severus ad insistere, inamovibilmente convinto che non si trattasse di una loro impressione, che doveva esserci dell’altro e che bisognava perseverare; lo stesso Severus che oggi, invece, dice di mentirgli per non alterarlo, neanche fosse un fantolino, convinto che il suo regalo sia il fiocco colorato sulla cima del pacchetto.
Quella notte è stata davvero solo un’impressione. – il nuovo, brutto pensiero ad invadergli la mente – Ti mente sempre, per imbonirti.
I minuti sono scorsi a decine senza che se ne avvedesse e, ormai del tutto sfiancato, riprende a sussurrare con un tono che spera suoni gentile, anziché fiacco: «Andrete ad Hogsmeade insieme, il prossimo fine settimana di gita?» chiede senza voltarsi, senza guardare nulla in particolare di fronte a sé. Nonostante il silenzio ad accoglierla, il giovane Malfoy sa che la sua domanda è stata udita, per cui si limita ad attendere.

Sorreggendosi una tempia con le dita di una mano, Severus fissa il proprio libro mentre dice «Lucius…» al contempo esasperato e rassegnato: «Noi seguiamo ogni lezione dallo stesso banco, no? Poi studiamo insieme, mangiamo insieme, dormiamo ad un metro uno dall’altro… non pensi sia già abbastanza
E che alludesse a questo la piccola Narcissa Black, giù in cortile? – finisce col domandarsi l’unico erede dei Malfoy prima di annuire una singola volta, con lentezza, mentre dice «Hai ragione.», cogliendo alla sprovvista perfino sé stesso. Si umetta rapidamente le labbra e, in tono sorprendentemente piatto, aggiunge «Non avevo idea di starti opprimendo e ti chiedo scusa. Tu però cerca di non mentirmi più, per favore… non ce n’è alcun bisogno.».
Con la coda dell’occhio vede Severus voltarsi e tentare, pazientemente ma invano, di incrociare il suo sguardo; rinunciandoci infine, si limita a mormorare «Sarebbe davvero difficile continuare a discuterne ora. Ne riparliamo stasera, dopo le lezioni.», che ha più l’aria di un’imposizione, che di una richiesta. Poi, più nulla.

Verso la metà della seconda ora, svogliatamente scorrendo le pagine del libro di Storia della Magia, Lucius aggrotta improvvisamente le sopracciglia: una piccola macchia scura inizia a germogliare su uno di quegli impronunciabili nomi goblin, finendo però assorbita dalla carta porosa. Non fa a tempo a meravigliarsene che, a qualche centimetro di distanza, ne sboccia subito un’altra. Poi un’altra, un’altra ed un’altra ancora. Confuso, perfino lievemente irritato, l’unico erede dei Malfoy alza gli occhi a osservare il soffitto ma nessun liquido sta gocciolando da esso.
Poi, all’improvviso, qualcuno si alza in piedi per gridare «Professore!», col tono sconvolto di chi ha appena visto qualcosa di terrificante.
Il loro insegnante, un fantasma dalle scarse capacità espressive e memoria ancor peggiore, solleva il capo di scatto e per un attimo pare come frastornato all’idea che vi fosse qualcuno – un’intera classe – lì con lui. I suoi occhi incorporei vagano spaesati per tutta l’aula, ma finiscono per soffermarsi sul volto di Lucius quando esclama «Oh, cielo!» con assai poco trasporto. «Signor Triton, forse è il caso che accompagni il suo compagno in infermeria.»

Disorientato da tutta quell’attenzione inaspettata, il giovane Malofy si volta per osservare il suo migliore amico, incontrandone gli occhi sgomenti ed il volto impallidito; atterrito dal silenzio e dall’immobilità che di botto sono calati sulla stanza, il Ragazzo d’Oro solleva la mano al volto in un gesto lento ed esitante. Sente le dita inumidirsi e, non fosse per quella sensazione viscida e sgradevole che inizia a rotolargli giù per la gola, avrebbe creduto di star piangendo. Ignaro di quanto stia accadendo, inizia a fissare la propria mano insanguinata con quella statica meraviglia che è tipica delle menti sconvolte; al suo fianco, Severus scatta in piedi tanto in fretta da ribaltare la sedia alle sue spalle, dice «Andiamo.» ed aggira il loro banco, pronto ad aiutarlo in qualsiasi modo.
E vorrebbe tanto andare Lucius, lo vorrebbe davvero, fosse anche solo per sottrarsi alla disgustosa umiliazione che quegli sguardi insistenti gli riversano addosso; continuando a fissare le proprie dita, gocciolandosi addosso quel liquido dall’oscena tonalità cremisi, scuote il capo e dice «No.».
Dissimulando l’angoscia con l’irritazione, in uno scatto, Severus dice «Non fare l’imbecille Faina, stai sanguinando!»
E accidenti se è vero, riesce a sentirlo adesso quel liquido imbarazzante che gli cola dagli occhi, dal naso e perfino dalle orecchie, sporcandogli i capelli in copiosi rivoli: per un folle attimo, il giovane Malfoy si sorprende a pensare che non vuole assomigliare ad un acaro dei muri.

«No, non hai capito.» risponde, con tono sorprendentemente pacato, al suo migliore amico: «Non riesco a muovere le gambe.»
 
 
*I dialoghi, tradotti dal francese (nonostante l’autrice sia ormai un po’ arrugginita in questa lingua): «Formidabile, meraviglioso, affidabile Severus.» «Dobbiamo andarcene, Lucius. Dobbiamo andarcene subito.»

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Capitolo 6
*** Tutta la grazia crudele delle tigri bianche ***


Anzitutto, anche se un po’ in ritardo, colgo l’occasione per augurare a tutti un buon Natale ed un felicissimo anno nuovo! Doverosamente, poi, mi scuso per il mostruoso ritardo di questo aggiornamento ma, come accennato nella sinossi, sono una persona brutta e lenta.
Ringrazio, pertanto, tutti coloro che continueranno a seguire questa storia e tutte le magnifiche persone che, durante la mia infame assenza, le hanno permesso di raggiungere le 750 letture!
Vi adoro, grazie a tutti, ed un grazie molto speciale a Uguatholu, il mio preziosissimo beta reader :* !
 
 
Capitolo 6: Tutta la grazia crudele delle tigri bianche
 
 
I know, I’ve heard that to let your feelings show
Is the only way to make friendship grow
(Lo so, ho sentito che mostrare i tuoi sentimenti
È l’unico modo per far crescere l’amicizia)
 
 
La città è nera e da ogni finestra, come ferite, discendono vessilli rosso sangue contro l’ossidiana delle pareti. Anche le persone che l’abitano sono nere: anime tumefatte, indifferenti e sbiadite, vagabondano per le strade umide senza mai rivolgersi la parola, in un’esistenza priva di significato. Dal cielo, nuvole scure promettono ogni sorta di cattivo presagio, mentre le strade sono spazzate da un vento inquieto e sibilante, poiché così vuole il Nero Signore; è ancora per sua volontà che nessuno degli abitanti ha un nome, così che la vita possa scorrere verso una disperazione sempre più profonda ed ineluttabile.
Tutt’a un tratto però, senza apparente motivo, il ragazzo-senza-nome inizia a udirla: una voce di bambina che canta una canzone, bella, leggera e risoluta come il battito d’ali di una farfalla. Per seguirla, decide di fuggire dalla Città Nera e, con sua somma meraviglia, scopre che nessuno aveva mai impedito alle anime oppresse di lasciare la loro prigione: non vi erano mai stati sorveglianti né carcerieri e le stesse mura non erano che fumo ed ombre. Giusto al di là di esse, al di fuori di quel tetro incubo, per la prima volta il giovane scopre l’esistenza di un intero mondo. I nuovi luoghi che gli si presentano innanzi agli occhi possono essere azzurri, verdi, viola e addirittura gialli!

Repentinamente, si trova a dover strizzare le palpebre per non lasciarsi abbagliare da quel nuovo sole, tanto cocente ed intenso da poter appartenere solo all’estate. Le braccia, nude oltre le maniche corte della maglietta, emanano quel profumo tipico della pelle scaldata e gli sembra di riconoscere il luogo in cui si trova: in quegli stessi giardinetti aveva conosciuto Lily Evans, diventandone presto un buon amico.
Abbassando gli occhi, ricorda di essere ancora un bambino e di dover correre. Sente il cuoricino battergli all’impazzata, felice finalmente; la bella, gentile ma agguerrita Lily Evans sta correndo appena qualche metro più in là, la vede voltarsi e gridare «Scappa!». Porta un vestito satinato blu e bianco e guardarla in volto fa venire in mente una nuvola contro il cielo del tramonto: ancora, Lily porta le mani attorno alla bocca e urla «Non puoi startene fermo!». La vede gettare in avanti il braccio, puntando l’indice in sua direzione. No, non su di lui, forse da qualche parte alle sue spalle mentre esclama «Attento!», ma troppo tardi.
Una mano lo tocca gentilmente tra le scapole, una voce allegra lo informa del fatto che «Ora ce l’hai tu,» e che deve chiamarsi «Severus!». Per la prima volta, proprio in quel momento, ciascun pezzo della sua vita si è incastrato con gli altri ed ogni cosa ha finalmente un senso: d’improvviso, del tutto inaspettatamente, l’ombra senza nome è diventata qualcuno, e quel qualcuno è Severus.

Voltandosi di scatto, però, fa giusto in tempo ad intravedere il sorriso di Lucius, quegli occhi che il sole d’agosto fa splendere come la neve sulla cima delle montagne. È più grande di loro, è un ragazzo, con gambe irragionevolmente lunghe e tutta la grazia crudele delle tigri bianche: quando inizia a correre, per il giovane Piton è come se l’intero mondo s’inclinasse sul proprio asse. Sentiva che non lo avrebbe raggiunto mai più.
Lily Evans scaccia le ombre di quell’ingiustizia con la sola vivacità della propria risata, lo prende per mano, dice «Andiamo!» ed inizia a trascinarlo all’inseguimento. Spavaldamente, abbandonano i giardinetti della loro infanzia, trovandosi a doversi districare in un paesaggio sempre più fitto ed inospitale; in quel luogo, che ricorda la Foresta Proibita di Hogwarts, solo sporadicamente il sole riesce ad affacciarsi fra gli alberi, gettando un perverso caleidoscopio di luci sul terreno.
Nell’animo del piccolo Severus, la gioia muta in frustrazione ed infine in terrore: col cuore spezzato, colmo dell’assoluta disperazione che solo i bambini possono provare, rallenta la propria corsa fino a fermarsi. Quando inizia a piangere, anche i grandi occhi verdi di Lily incominciano a strabordare di lacrime; si abbracciano, iniziando a singhiozzare all’unisono.

Dopo alcuni momenti che sembrano anni, le braccia di Lucius avvolgono entrambi, rincuorandoli con versi gentili e consentendo loro di affondargli le testoline contro le spalle. Severus gli getta le braccia al collo e, con voce spezzata, dice «Non voglio che mi lasci mai più
Tutta raggomitolata, come cercando di farsi sempre più piccola, la dolce Lily Evans dice «Se ci lasci da soli in questo brutto posto, moriremo sicuramente
Con la serenità desolata delle steppe innevate, Lucius risponde: «Era solo un gioco.», poi chiude gli occhi e dice «Giuro che non me ne andrò mai.», redimendo così di colpo tutte le disarmonie del mondo.
Eppure, subito dopo quella mareggiata di serenità, soggiunge il maremoto della realizzazione: esterrefatto, il giovane Piton si avvede improvvisamente di chi è, di chi ha davanti e, quindi, di star sognando visto che da tempo ha smesso di essere un bambino.
E si sveglia di soprassalto.

 
Proprio come sarebbe lecito pensare, non ci sono finestre nel sotterraneo in cui ha sempre alloggiato la Casata di Serpeverde; nonostante ciò, nel momento stesso in cui riapre gli occhi, Severus Piton capisce istintivamente che dev’essere ancora molto presto.
Oggi è venerdì. – ricorda subito dopo – Il professor Lumacorno ha organizzato una “festicciola informale”, poiché domani è san Valentino e ci sarà una gita ad Hogsmeade.
Questa nuova serie di informazioni gli esplode a catena nella mente, rovesciandogli lo stomaco e lasciandogli addosso una sensazione di pura angoscia. Lancia uno sguardo al letto accanto al suo, scoprendolo vuoto; prima ancora di rendersene conto, è già in piedi ad indossare la vestaglia sul pigiama. Se da una parte La Faina è sempre stata una bestiola spietatamente mattiniera, dall’altra la sua salute non ha fatto che peggiorare nelle ultime due settimane: un lento ma costante deterioramento cui nessuno è stato in grado di offrire una spiegazione.
Sirius Black, le cui sporadiche buone idee tendono a morire di solitudine in quella testa bacata, in quei giorni ha diffuso ogni sorta di dicerie sulla condizione del cugino; ad incarognire maggiormente il giovane Piton, però, sono state certe bizzarre allusioni – che non è certo di comprendere appieno – e che riguardano la nascita di Lucius. Nulla di tutto ciò avrebbe dovuto stupirlo, eppure la rabbia di Severus è tale da non riuscire neppure ad esprimerla.
Merlino, dammi la pazienza… – si è ritrovato più volte a pensare – perché se mi dai la forza, finisce con un’accusa di omicidio.

Raggiunge la sala comune, che è deserta a quell’ora del mattino. Solo per pura fortuna riesce a notare la figura della Faina, vestita di tutto punto e addormentata su uno dei divani più appartati. Luciu Malfoy è il suo migliore amico, la sua anima gemella, se mai ne è esistita una; guardandolo riposare nel silenzio di quell’enorme stanza vuota, tale pensiero gli pare, però, improvvisamente irrealistico. Lucius è sempre stato un ragazzo bizzarro, egocentrico e bisognoso, fin da bambino, di una quantità smodata di attenzioni. Molte volte Severus ha invidiato il suo bell’aspetto, le immense ricchezze della sua famiglia e quel carisma tanto inconsueto per la loro età – per ogni età. Non avrebbe mai immaginato che, dietro alla sua copertina patinata, il compagno potesse avere un solo problema reale e concreto.
Tuo fratello è morto, lo ha sbranato il terribile mannaro. – è quanto gli torna alla mente, gettandolo in preda ad una strana contrizione: il giovane Piton non è estraneo al senso di colpa, ma questo è di un genere diverso, che gli è del tutto ignoto.
Come se risvegliato dall’insistenza del suo sguardo, l’unico erede dei Malfoy apre gli occhi ed i loro sguardi si incrociano; senza dire una parola, si mette seduto per osservare la sala comune deserta. Con la voce impastata dal sonno dice «Severus…», ma non sa bene come continuare: non hanno parlato molto, dopo il litigio durante l’ora di Storia della Magia e l’imbarazzo è palpabile. Con aria insicura, nonostante per due settimane lo abbia evitato in favore degli Archicazzari, Lucius chiede «Severus, io ti piaccio ancora?».
La prima reazione del giovane Piton è aggrottare le sopracciglia con aria astiosa, perché certe cose, semplicemente, non potrebbe mai dirle a Lucius: immaginare che il compagno possa anche solo intuire il genere di pensieri che riesce a suscitargli lo spaventa e lo imbarazza a morte. È con tono di sufficienza, quasi stizzito che gli dice «Sei il mio migliore amico, Faina, non potresti mai non piacermi.»

Se io non fossi chi sono, e nemmeno tu fossi tu, avrei anche potuto trovare il coraggio di dirtelo. Forse perfino di colmare il misero vuoto tra le nostre labbra, quella notte di un mese fa. – è il pensiero immediatamente successivo, che lo riempie di sorda rassegnazione, della voglia di andarsene altrove e di restare al contempo. Ma questo è proprio il genere di cose da non dire a chi, con poche parole ben scelte, potrebbe strizzarti il cuore tra lunghe dita eleganti: perché l’animo di Severus resta diviso ed a Lucius Malfoy, che appende la luna in cielo con la sola meraviglia del suo sorriso, non è mai piaciuto condividere.
La risposta sembra comunque bastare alla Faina che, con tono insolitamente cauto, dice «Penso che dovremmo parlare.» ed appoggia le mani unite sulle proprie gambe. «Solo che non so bene da dove cominciare… ho fatto alcune cose un po’ brutte, in questi giorni.»
La notizia non sorprende affatto il giovane Piton, perché dopo due settimane di trattamento del silenzio era lampante che l’Iraconda Divinità delle Futili Vendette fosse arrabbiata. Convinto che nessuna di queste “rivelazioni” possa sconvolgerlo, Severus gli si siede accanto e dice «Prova a cominciare dall’inizio.», attendendo pazientemente che il compagno ritrovi il filo dei propri pensieri.
C’è un silenzio particolare nella sala comune, a quell’ora del mattino: quella strana sorta di stasi mistica che avvolge i luoghi affollati quando sono ancora vuoti. Lucius prende tre respiri profondi, nient’altro che tre vani tentativi di iniziare il discorso; inumidendosi e schiudendo le labbra, ci prova un’ultima volta. «Nella sua ultima lettera, mio padre ha scritto che vuole riavermi a casa.» esordisce, più atterrito e stanco che mai. «Penso che abbia ragione, qui nessuno capisce cosa mi stia succedendo e seguire le lezioni diventa sempre più imbarazzante e difficoltoso…» aggiunge, scuotendo il capo e sforzandosi, con scarso successo, di parlare più in fretta. «Ha già contattato diversi medimaghi e medistreghe di tutto rispetto perché vengano a visitarmi al maniero… nel frattempo, potrò continuare a studiare coi miei ritmi. Il professor Silente ha accettato di sottopormi alcuni piccoli test all’inizio dell’anno prossimo, così che possa accedere al quinto anno senza problemi.». Poi, proprio quando sembrava che il cuore di Severus non potesse sprofondare maggiormente, Lucius conclude dicendo «Non lo sa nessuno. Non volevo dirlo neanche a te, ma papà verrà a prendermi lunedì.»
 
E il mondo si rivoltò dall’interno, vomitando lava nell’universo.
 
Perché è di un’assenza di sei mesi che si sta parlando e per la stessa, egoistica ragione che lo spinge ad amare quel narcisista vigliacco che è la Faina, il giovane Piton si sente rapinato. Preda dell’ansia, il cuore prende a palpitargli nel petto sempre più rapido ed inclemente.
Eppure, Abraxas Malfoy ha ragione. Lui possiede i mezzi necessari a guarire il suo unico, adorato figlio ammalato. – è il primo di una rapida successione di pensieri, nella mente di Severus: un pensiero che fatica ad accettare come proprio e che, nonostante la sua lucida correttezza, semplicemente non gli appartiene. Eppure, lo adoro anch’io. – segue subito dopo, in una strana, intima ribellione nella sua testa. Poi, ancora: Quando mai è bastato?
Nonostante lo smarrimento, il giovane Piton inizia a sentir montare anche una rabbia cieca e cocente. Con la forza di un grido a pieni polmoni, pensa: Non voglio che mi lasci., finendo però annichilito dal successivo Non abbastanza da andare a trovarlo a casa sua, però, e questo è tutto dire.
Giusto un attimo prima che ogni buon sentimento di Severus venga inghiottito da un buco di nera depressione, l’Inclemente Nume del Tutto Perduto torna a parlare: «La verità è che volevo tenerlo segreto, scomparire e basta, solo per farti soffrire… perché, nonostante sappia benissimo che non ha alcun senso, sono arrabbiato.» gli dice, serrando tra loro le dita con maggiore forza, aggrottando le sopracciglia in un’espressione impertinente e testarda. «Di più: perché, a voler essere sinceri, sono veramente furioso. Sicuramente non sai che, nei primi giorni di febbraio, la tua amica è venuta a parlarmi. Non ho idea del perché credesse che ci avrebbe fatto bene, ma le ho detto cose molto brutte.» e mentre continua a raccontare, la sua voce lenta e stanca si tinge di rabbia crescente: «Non so bene da dove siano uscite, ma non me ne pento affatto, perché la odio, se possibile ancor più di prima e vorrei che sparisse

Agendo d’impulso, Severus chiede «Cosa vi siete detti, esattamente?»; stando allo sguardo dardeggiante che Lucius scocca in sua direzione, però, dev’essere stata la cosa più sbagliata da dire.
Ignorandolo, l’unico erede dei Malfoy riprende a parlare: «Ho usato l’Archivio del Serpente come scusa per invitare Remus Lupin ad Hogsmeade con me, solo per farti dispetto. Poi, domattina, progettavo di lanciare piccole maledizioni sulle tue cose… per renderti il san Valentino orrendo al punto da farti pentire di essere andato con lei.»
Chiuso nel proprio silenzio, Severus vorrebbe davvero potersi arrabbiare con Lucius per ciò che gli ha appena detto; il pensiero, però, di tutte le volte in cui lui stesso lo ha appositamente ferito, lo riempie di un’immensa empatia. È il problema di quando due persone si amano davvero-davvero molto: la facilità estrema con cui si può arrivare a ferirsi, sfruttando ogni confidenza, ammissione o debolezza come un’arma. Questo, il giovane Piton lo capisce fin troppo bene.
«Volevo che capissi di non aver bisogno di lei, visto che hai me… e tu lo sai, che sono più importante.» riprende Lucius, l’intero corpo che viene percorso da un leggero scatto nel pronunciare quelle parole. «Solo che stamattina mi sono alzato molto presto, come sempre… ma non avevo neppure finito di vestirmi che già mi sentivo stanco come a fine giornata. Così, ho capito che non potrò fare proprio nulla per mandarti fuori dai gangheri, né oggi né domani. Mentre ribollivo di rabbia, allora, qui da solo e nel dormiveglia, ho pensato… che forse mi sbagliavo.»

Fissandolo, Severus cerca di capire, di appellarsi a quella sinfonia fuori dall’ordinario che è sempre stata la loro amicizia, ma non ci riesce. La Faina non ammette mai i propri errori, poiché la superbia è il suo scudo e solo due volte, dall’inizio della loro amicizia, hanno abbassato le difese. In ambedue i casi, però, questa vulnerabilità era legittimata dal favore della notte e dall’intimità del baldacchino nel dormitorio.
Ripercorrendo le parole del compagno, uno strano misto di rassegnazione e terrore si impadronisce del giovane Piton: Volevo che capissi di non aver bisogno di lei, visto che hai me… poi ho pensato che forse mi sbagliavo. – ed improvvisamente, non riesce più nemmeno a ricordare come mai la gelosia della Faina fosse un problema, in primo luogo. In questo momento, in effetti, lo stesso Severus sente l’inesplicabile paura di venir lasciato indietro; puntualmente, ad essa si accompagna l’istinto di fare sciocchezze, come umiliare Lucius o fargli del male in qualche modo, così che non si avveda mai di poter avere di meglio, dimenticandosi di lui.
Era stata la Sempiterna Divinità del Protagonismo ad avvicinarlo, nei primi mesi del loro primo anno ad Hogwarts; l’ultima cosa che Severus avrebbe voluto, a quel tempo, era proprio trovarsi a tu per tu con la Piccola Perfezione Scolpita nel Platino. Eppure, alla fine Lucius aveva vinto: con la placida pazienza degna solo dei caimani era riuscito, un morso per volta, ad abbattere la sua reticenza.

Ora non puoi ripensarci all’improvviso. – è ciò che Severus vorrebbe dirgli. – Non puoi credere che sono stato solo uno sbaglio.
«Cosa volevi chiedermi?» è ciò che, invece, gli domanda.
Lentamente, Lucius chiude gli occhi e per un attimo è come se il mondo intero svanisse dietro le sue palpebre chiuse. «Due cose.», gli dice il giovane Malfoy, «E sono entrambe molto, molto importanti.».
 
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Succedeva, talvolta, quando ancora si trovavano ben lungi dal diventare amici, che i loro sguardi si incrociassero e che Lucius gli sorridesse senza alcun motivo apparente: in quei momenti, era come venire inghiottiti in una bolla d’ossigeno mentre tutto attorno non vi erano che abissi terribili.
È ancora il 13 febbraio, la sera prima di San Valentino, ed attualmente l’Abisso è la sala in cui il professor Lumacorno ha deciso di ospitare la sua festicciola a tema. Per sfuggire alle grinfie con cui il loro mentore vorrebbe sollevarli uno ad uno come trofei, Severus ha iniziato a saltare da un nascondiglio all’altro in quel salone affollato. Celato dietro la torta a strati più alta che avesse mai visto, il giovane Piton ha notato l’entrata di Lily Evans, accompagnata da Remus Lupin.

Di bene in meglio. – è il primo pensiero ad attraversargli la mente, perché certo, quei due sono amici, ma il ragazzo di Grifondoro è anche uno stronzo ributtante.
Quando, giusto un poco più tardi, anche Lucius fa il suo ingresso, i suoi occhi di ghiaccio lo intercettano a colpo sicuro dietro al suo nascondiglio glassato; l’unico erede dei Malfoy indossa una tunica in raso e cachemire, drappeggiata da un mantello nel medesimo rosso scuro, fermato sulla spalla destra da una spilla a forma di serpente. Il sollievo della sua presenza è però ben misero, poiché non vi è ombra di sorriso sul volto della Faina, evidentemente intenzionata a lasciarlo, solo e boccheggiante, come un pesce fuor d’acqua. Per un istante, Severus si sente attraversare da una strana fitta di fastidio.
«Non è bello, il modo in cui mi stai evitando…» lo sorprende, alle spalle, la voce di Lily; quando si volta, trovarsela davanti all’improvviso è come un pugno nello stomaco. È bella, nel suo abito da sera dal taglio babbano, un bicolore scampanato rosso e oro.
«Non ti sto evitando.» le dice, lentamente. «Siccome avevi dell’immondizia con te, aspettavo che la gettassi. A meno che non volessi una mano?», piccola parentesi retorica che gli frutta una gomitata, poco convinta ma puntigliosa, contro l’addome.
Blandamente astiosa, Lily aggrotta le sopracciglia. «Siamo quasi a san Valentino… non riesci ad essere meno acido?»; una smorfia incurva le labbra di Severus in un mezzo ghigno dall’aria spiacevole, una risposta più che sufficiente. Quando torna ad osservare l’ingresso, Lucius non c’è già più. Come leggendogli la mente, Lily riprende a parlare: «Quel vampiro succhia-esistenza del tuo amico si è andato a sedere vicino alla finestra. Remus voleva salutarlo. Sempre che riesca a scavalcare i groupies arraffasoldi di cui si circonda sempre.»
Severus aggrotta le sopracciglia, perplesso ma anche meravigliato dal modo in cui la giovane Grifondoro non appaia mai malevola, neppure pronunciando parole antipatiche. «Hai chiesto a Lupin di placcare Lucius, per venirmi a parlare?» le chiede, vedendola alzare gli occhi al soffitto e, con un sorriso spontaneo e sereno, riabbassarli nei suoi: per un attimo, è come venire catapultati su verdi distese di puro benessere.
«Malfoy è più spaesato di un cervo in autostrada. Ci hai mai fatto caso, che sorride sempre quando non sa cosa dire? Mi basterebbe iniziare a parlare di asciugacapelli o dei Teletubbies per ammansirlo, figurati se mi intimorisce.»

Severus apre la bocca per parlare, ma nessun suono ne viene fuori: sa che un buon amico prenderebbe le difese di Lucius, eppure tutto ciò che riesce a produrre è un sospiro rassegnato. «La mia esistenza è comunque ben lungi dal venir risucchiata… qualsiasi cosa significhi.» e senza alcun preavviso, subito dopo le dice «So che avete parlato. Qualsiasi cosa vi siate detti, ora dice di odiarti.»
Le labbra di Lily, rosse e lucide come ciliegie, si increspano in una smorfia riflessiva. «Hm.» mugola appena, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Avevo notato il vostro allontanamento e mi sono dispiaciuta.» inizia a raccontare, palesemente a disagio. «Gli ho detto che poteva unirsi a noi domani, che non era un problema visto che siamo solo amici. Nonostante non fossimo mai andati d’accordo, ho precisato di non avere niente contro di lui. Ha risposto che farà di tutto per rovinarmi la vita.»
La vede esitare e schiarirsi la voce prima di ricomporsi e dire, in uno strano slancio d’orgoglio: «Non parlava solo di scuola, Severus… intendeva proprio la mia intera vita

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Capitolo 7
*** Di una vergogna scarlatta e viscida ***


Fra distrazioni, difficoltà e la mia insicurezza cronica, ho lascito trascorrere più tempo di quanto desiderassi, dal mio ultimo aggiornamento. La vita va avanti, ma non sempre si mostra gentile con noi o col nostro tempo – questo bene che dovrebbe essere insostituibile, ma che sempre più viene svalutato.
Per questo capitolo ho dovuto fare a meno del mio beta reader, purtroppo, quindi non mi resta che arrossire e augurarmi di non aver fatto troppo schifo :P
Ringrazio tutti coloro che vorranno commentare, o anche solo leggere, questo nuovo capitolo.
 
 
Capitolo 7: Di una vergogna scarlatta e viscida
 
 
But I'm too afraid, now
(Ma ho troppa paura, ora)
 
È come un labirinto, solo che ogni parete, il pavimento e perfino il soffitto si compongono di serie interminabili di specchi, rozzamente incorniciati di bronzo e d’argento e del tutto incapaci di restituire la sua immagine.
È alienante, è crudele ed è semplicemente ingiusto.
Eppure, nonostante lo smarrimento e la vacuità di cui è caduto preda, il giovane Piton continua ad accanirsi nella sua avanzata. Non ne ricorda la ragione, ma dev’essere importante – la più importante di tutte, probabilmente. Però c’è quel vuoto, quello che lo accompagna da quand’è nato, e può sentirlo dilatarsi come l’oscurità delle pupille su due occhi chiari che non riconosce.
Poi si ferma. Un’illuminazione, forse un lampo di follia, e inizia ad interrogarsi sull’innocenza di questi specchi: e se non fossero loro a rifiutare il suo riflesso, bensì proprio quest’ultimo a disertarne le cornici in modo da poter raggiungere l’altra parte?
Cerca di seguirne l’esempio, proprio come il ragazzo-senza-nome aveva seguito il canto di bimba fuori dalla Città Nera, attraversa lo specchio più vicino.
Si sente trascinare, poi spingere ed infine cadere.
 
Nuovamente cosciente di sé, Severus ricorda che potrebbe essere ancora il giorno di san Valentino, o che sia comunque passato da poco. Il suo non-appuntamento con Lily Evans era stato proprio questo e nient’altro: un non-appuntamento. Ciononostante, non sembrava contenta quando le ha detto che sarebbe tornato al castello così presto, ma aveva capito: il padre di Lucius sarebbe venuto a prenderlo già dopodomani, quindi il tempo che ancora poteva ancora trascorrere assieme al suo migliore amico era agli sgoccioli – e per questo, Lily aveva capito.
Un altruismo che, a parti inverse, Lucius non le avrebbe riservato neppure in punto di morte.
Il pensiero gli scatena un brivido e lo investe con un senso di urgenza e pericolo: la sorda consapevolezza di doversi affrettare a riordinare i ricordi e le idee, a capire cosa stia accadendo e come riprendersi La Faina. Se solo riuscisse a ricordare da chi, o da cosa.

È grazie ad un misto di istinto e mera attenzione al dettaglio che si rende conto di trovarsi ora nel passato – un ricordo del passato per l’esattezza, di un pomeriggio freddo ma assolato del 1965. Era il suo primo anno ad Hogwarts ma, nonostante l’entusiasmo iniziale, a questo punto aveva già capito che quel formidabile castello, abitato da persone e creature formidabili, nonché difeso da formidabili incantesimi, poteva in realtà diventare inospitale quanto qualsiasi altro luogo. Parte del problema era che La Faina non esisteva ancora – c’era Malfoy, certo, ma Malfoy non era un bambino molto rassicurante.
Non aveva ancora scambiato che poche parole col Prodigio Platinato seduto un paio di banchi avanti al suo, quindi doveva essere un giorno fra settembre e novembre.
Si era attardato nelle serre al termine di un’atroce lezione di Erbologia, per cercare di ripulirsi il mantello da macchie di fango e sbuffi di polline violetto, nonché per sbollire l’imbarazzo – più per il sorriso che Malfoy gli aveva rivolto, che per l’incidente in sé. Era uno di quei sorrisi minimizzanti, che mirano a sdrammatizzare e tacitamente ti invitano a riderci sopra. Peccato, però, che il giovane Piton non aveva la minima voglia di ridere, mai.
Così come non aveva voglia di ridere la mattina della loro prima esercitazione di Volo, quando la scopa aveva deciso di imbizzarrirsi e disarcionarlo senza motivo. Anche allora, Malfoy gli aveva rivolto lo stesso identico sorriso, accompagnato dal primo di una lunga serie di ammiccamenti – gli stessi che aveva additato come fraintendibili appena sei mesi prima, che amava e per questo gli aveva chiesto di non mostrare mai più. 

Per questo (e per un milione di altri motivi) il mondo non è un luogo clemente o giusto, o non sarebbe stato intercettato da James Potter e dal suo branco di disagiati: se li rivede lì, tutti bambini ma non meno irritanti mentre si avvicinano ad un sé stesso undicenne per lanciargli qualche insulto quasi del tutto immotivato. Sotto ai suoi occhi, il diverbio degenera più in fretta di quanto ricordasse e qualcuno – forse Sirius Black, forse lo stesso Potter – decide di lanciargli un sasso.
Nonostante le nebbie e le sbavature di quel ricordo, solo ora, a tre anni di distanza, Severus saprebbe definire quanto provato in quel momento: è lo stesso misto di rabbia, umiliazione ed impotenza che fino ad allora aveva riservato solamente a suo padre.
Vede un rivolo di sangue scivolare dalla fronte del suo giovane sé stesso, gli riga il volto e gli macchia il colletto della camicia di una vergogna scarlatta e viscida. La consapevolezza del futuro lo trova già voltato altrove: sa di aver estratto la bacchetta a questo punto, con uno stuolo di maledizioni accavallate sulla punta della lingua, ma è su Malfoy che si concentra.


Il freddo gli aveva arrossato il naso, indossava il mantello pesante della divisa scolastica e il corredo sciarpa-guanti-cappellino nei colori del Serpeverde. Più basso ed esile ma non meno pallido di quanto non sia anche oggi - ed ancora, ma non ancora per molto, aggrappato alle ultime vestigia della goffaggine tipica dell'età infantile. Furtivo senza farlo apposta, arrogante senza rendersene conto, li sorprende tutti con un semplice «Che state facendo?», e con la pretesa assurda di avere il diritto di potersi immischiare in ogni faccenda. Fosse anche solo per dire che sì, lo sapeva già, e che no, in fondo non gli interessa poi tanto e che oh, se proprio non riesci ad essere interessante almeno impara il dono della sintesi.
Se la ricorda bene, Severus, la sensazione provata in quel momento: la mera possibilità che Malfoy, fra tutti, avesse assistito alla scena, che avrebbe potuto rivolgergli l’ennesimo sorriso minimizzante o "fotografarlo" a tradimento col suo ammiccamento migliore era bastata ad umiliarlo in modo ineluttabile e totale.
Il primo a riaversi e rispondere è Sirius Black, gli chiede «Che vuoi, cugino?» con quel tono particolare che gli ha sempre riservato nelle rare volte in cui si sono rivolti la parola. È come una sorta di difficoltà, un disagio vestito di nonchalance nel tentativo di mantenere la propria clandestinità.
«Aspetta», s’intromette James. «Il Folgorato è tuo cugino?»

Folgorato è un soprannome inventato proprio da Potter, che significa “bizzarro”, “alienato”, e che per un po’ aveva seriamente rischiato di prendere piede, visto che era vero. O meglio. A undici anni, l’umore di Malfoy oscillava fra l’inspiegabile disinteresse agli svaghi dei suoi coetanei ad altri di curiosità e divertimento eccessivi. Il suo comportamento si manteneva, in generale, sempre troppo adulto – una parentesi di discriminazione tutto sommato breve, nella vita di una creatura destinata ad arricchirsi di simpatie e di fascino fin dalla nascita.

Ed eccone una prova: in questo preciso momento, in questo preciso ricordo, è Sirius Black a cadere preda di tutto l’imbarazzo cui L’Immacolato Pezzo di Ghiaccio sembra immune. Sirius ignora la domanda di James Potter e continua a rivolgersi al cugino in tono sbrigativo: «Stiamo solo giocando, ma tu adesso te ne devi andare!»

Ma il Folgorato non se ne va, e anzi, si acciglia. Li passa in rassegna uno per uno con sguardo pigro, come se trovasse l’idea di venir tagliato fuori semplicemente indegna di nota. Senza che nessuno glielo avesse chiesto, men che meno il diretto interessato, fa notare che «A me non sembra che Piton si stia divertendo, a questo gioco».

Non ottiene risposta ma, ancora oggi, a Severus piace pensare che l’appesantirsi dell’atmosfera fosse solo colpa del fare incerto di Black, che doveva averli contagiati tutti. Non poteva esserci nulla di davvero sinistro attorno al bambino dal naso arrossato che di lì a poco sarebbe diventato il suo migliore amico. James Potter inizia a spingere un giovane Black verso il castello, dicendo «Va bene, senti, lasciamo stare. Ci divertiamo un’altra volta.» col tono di chi si crede spiritoso ma che, almeno per Severus, suona solo corrosivo. Come il costante gocciolare di un’acida oppressione.
Il suo sé stesso undicenne medita intanto di allontanarsi in silenzio, evitando ad ogni costo lo sguardo del Folgorato. Sapeva che se fosse rimasto ed avesse incrociato i suoi occhi anche solo per un attimo, l’umiliazione lo avrebbe costretto a blaterargli contro parole ostili ed offensive, che non pensava veramente. Parole che avrebbero potuto marchiare il suo nome sulla lista nera dell’unico erede di una delle famiglie purosangue più ricche, potenti ed influenti del mondo magico.

Mentre nessuno fa più caso a lui, Malfoy raccoglie un sasso da terra e chiama «Sirius?» per spingerlo a voltarsi. Prima ancora che possa capire cosa sia successo, il giovane Black viene centrato in volto da un sasso, che gli apre un taglio sul labbro, poco dissimile da quello sulla fronte di Severus. Segue uno stuolo di ingiurie e minacce che si confondono le une alle altre, cui Lucius replica con un accanimento (come sempre “un po’ troppo”) eccessivo. «La prossima volta, Sirius Black, pensaci bene prima di cercare di prendermi in giro!»
A questo punto si volta e, a tradimento, incastra lo sguardo in quello di Severus – quello vero, che lo conosce da anni – col proprio. Il mondo intero decide d’immolarsi alla vanità, di annegare negli occhi di Lucius solo per potervisi specchiare un istante e tutto attorno a loro si congela e scompare. L’aveva trovato: lì, su quelle iridi color dell’inverno c’era uno degli innumerevoli riflessi mancanti nel labirinto di specchi e, per la seconda volta, il giovane Piton si sente trascinare, poi spingere ed infine cadere.
 
L’attimo prima di riaprire gli occhi, altri ricordi della giornata appena trascorsa tornano ad affiorargli alla mente: proprio poco prima di lasciare il castello assieme a Lily Evans per il loro non-appuntamento, 
aveva incontrato Remus Lupin e lo aveva aggredito verbalmente. Alla notizia che quel giorno La Faina non avrebbe lasciato il castello, il Grifondoro aveva accennato alla possibilità di restare indietro a sua volta e di cercarne ugualmente la compagnia e questo aveva fatto saltare i nervi del giovane Piton come una molla.  
Al suo ritorno anticipato, sempre lo stesso Lupin gli era andato incontro per informarlo di come il suo migliore amico si fosse addormentato. Solo che i minuti erano diventati ore, i suoi tentativi di ridestarlo si erano rivelati infruttuosi e quelli dell’infermiera della scuola non avevano avuto maggiore successo.

Ecco perché sono venuto qui. si ritrova a pensare: Sono proprio dove volevo essere… solo che non so come ci sono arrivato, né dove sia davvero “qui”. 

Ad una rapida indagine, capisce di non aver mai visto quel luogo prima d’ora: una grande stanza da letto in stile provenzale, sulle tonalità dell’azzurro e del grigio, con pesanti tende ad incorniciare l’ampia vetrata – e oltre questa un paesaggio apparentemente sconfinato, imbiancato dalla neve. Severus è certo di trovarsi in un ricordo, solo stavolta non suo, e con un moto d’orgoglio realizza come quella connessione scoperta con Lucius nell’intimità del suo baldacchino ad Hogwarts non fosse frutto della loro fantasia. Altrimenti non gli sarebbe stato possibile accedere ad un ricordo che palesemente appartiene al suo migliore amico, no?
Un nuovo piacere gli cola sul petto, distruttivo, vasto e complicato quanto il vorticare di un buco nero, eppure anche dolce e caldo come miele. Decide di non indagarlo, di concentrare i propri sforzi sulla mai più conveniente necessità di ricordare di più e di capire. Attraversando una porta sapientemente intarsiata e dipinta di bianco, appare La Faina – o più precisamente un ricordo che La Faina ha di sé. Ha l’aspetto diverso, più opaco e uggioso di quanto non sia mai davvero stato ad occhi esterni e indossa una lunga veste da mago color blu notte. Deve trattarsi di un ricordo delle ultime vacanze di Natale, perché l’espressione infuriata di Lucius è slavata dalla stanchezza che già allora scoloriva i margini di questa effige fusa nel vapore e scolpita nel platino.
Nonostante la propria prigionia in un corpo sfibrato, però, negli occhi di Lucius restava incastonato tutto lo straordinario rigore dei fuochi fatui, poiché rabbia e rancore si collocano stabilmente fra i sentimenti più vivi e ardenti del suo animo serpentino.

Prima che la porta possa chiudersi completamente alle sue spalle, un uomo entra senza bussare: è alto, con le spalle mascoline in tensione ed i capelli biondi tagliati corti. Emana una solidità particolare, come un'energia accumlata e nascosta sotto la pelle, celata ed in agguato come una bestia a sangue freddo dietro al pallore gelido dello sguardo - quello sì, tanto simile a quello della Faina. Sembra, inoltre, possedere un volto senza tempo che solo il pizzetto pieno e le rughe espressive ai lati degli occhi suggeriscono sulla mezz’età, o anche oltre.

Questo è Abraxas Malfoy. è il pensiero graffia la mente di Piton come la crepa di un lampo contro il cielo tempestoso. Questo è lo stesso uomo che aveva convinto Lucius di avere un fratello, per poi inventarsi che è morto divorato da pericoli inesistenti, in agguato appena fuori delle mura del loro maniero. Si rende conto di odiarlo, non più come si possono odiare le forze misteriose del caso e del destino, bensì col livore più mirato e deliberato che si riserva a coloro di cui si conoscono il volto e le fattezze.
Lucius 
serra le mani fra loro per frenare chissà che moto d’ira, la voce che si alza per aggredire suo padre trema appena, come se divincolandosi da chissà che rimprovero o divieto. Gli dice che «Non va bene.» e che «Non puoi trattarmi così, che diavolo ti ho fatto stavolta?»
Ogni passo con cui il patriarca accorcia le distanze col figlio risulta attutito dal pesante tappeto disteso disteso sotto ai loro piedi e per un attimo Severus teme che Abraxas schiaffeggerà suo figlio, ma ciò non accade: le sue mani cercano le spalle di Lucius con prepotenza, poi ci ripensano e gli catturano il volto, avvicinandolo al proprio. «Che diavolo ti ho fatto io, piuttosto! Mi incolpi di tutto, mi chiedi cose solo per poi rinfacciarmele nel momento stesso in cui le ottieni e dici un mare di bugie… un momento sei mio figlio, quello dopo mi aggredisci con parole crudeli.»

C’è qualcosa di minaccioso e di profondamente inopportuno nella vicinanza imposta dall’uomo, nel modo in cui incastra lo sguardo a quello del figlio e tradisce, fra i toni bassi della voce, qualcosa di ossessivo. Ed è così, in un solo istante, che Severus si riscopre estraneo nella vita del suo migliore amico, cosciente che, qualsiasi cosa sia, quella scena non era fatta per i suoi occhi. Che non importa quale straordinario legame possa unirli, o quanto bene possano volersi, con quanto accanimento – nel modo più innocente e lascivo del termine – desiderarsi.
La rabbia sale a graffiargli la bocca dello stomaco ed è qualcosa per cui non vorrebbe incolpare Lucius, ma che gli ha sempre fatto desiderare di ferirlo e questo lo fa sentire tragicamente simile al proprio, di padre. Semplicemente, ci sarà sempre una parte di Lucius che per lui resterà completamente inaccessibile. Glielo legge in volto, nello sbigottimento e nello sconforto che hanno costretto la collera ad abdicare: emozioni, ambedue, cui il suo migliore amico si è sempre finto immune, soprattutto perfino con lui.

Sul punto di dire altro, Abraxas Malfoy si zittisce di colpo e lascia andare il volto del figlio come se avesse iniziato a bruciare, come se si fosse appena reso conto di aver fatto - o di essere stato sul punto di fare - qualcosa di orribile. Il suo «Riposa un po’, se vuoi.», ha il tono mesto che è tipico delle scuse e se le getta alle spalle mentre già oltrepassa la porta per richiudersela alle spalle. Un attimo dopo, il suono di diversi giri di chiave risuona dietro la serratura, ma la prospettiva di essere appena stato rinchiuso nella propria stanza non sembra rinverdire la collera di Lucius, né strappargli quel genere di apprensione che collocherebbe tale evento fuori dall'ordinarietà di Casa Malfoy.
Severus gli cerca lo sguardo nella speranza di trovarvi, come era accaduto nel ricordo precedente, un altro dei riflessi mancanti nel labirinto di specchi, ma l’inverno ha cessato di riempirgli le iridi. Il volto elegante ed affilato del suo migliore amico inizia a slavarsi e sbiadire, divenendo una superficie liscia e pallida fra le bionde tende di un sipario dimenticato aperto.
 
È alienante, è crudele ed è semplicemente ingiusto.
 

La stanza in stile provenzale inizia a perdere consistenza come tempera che cola lungo una tela umida; distinguere la vertigine dal cataclisma di una vita che si lascia drenare è ormai impossibile e anche Severus sente di stare iniziando a sbiadire, a dimenticare – di nuovo. In preda ad una vertigine, chiude gli occhi e respira, costringendosi a ricordare che «Mi chiamo Severus Piton e sono nato il 9 gennaio del 1954.» e che «Oggi è il giorno di San Valentino e non fa niente se la Faina si cancella la faccia, perché io me la ricordo ancora benissimo.»
L'essere senza volto che gli sta di fronte sembra fissarlo attraverso orbite inesistenti, le sue labbra si schiudono ma non ne esce che un rantolo informe; il pallore della sua mano sembra colargli fra le dita mentre le allunga in sua direzione. 
Sforzandosi con tutto sé stesso per non dissolversi, Severus continua a ripetersi che «Mi chiamo Severus Piton e sono nato il 9 gennaio del 1954. Oggi è il giorno di San Valentino e non mi importa quanti ricordi si laveranno via dalla nostra mente
». Allunga a sua volta la mano ed insinua le dita ormai sbiadite fra quelle mezze disciolte di Lucius. «Tanto non è nel tempo, che ci siamo trovati.»

Una cacofonia di suoni, di luci e di voci inizia a ribellarsi, come insofferente dinnanzi all’ostinazione con cui questo mago appena quattordicenne rifiuta di arrendersi allo smarrimento. In questo caos si affacciano il sorriso ammiccante di Lucius, il battito del cuore di Severus contro il suo orecchio, il ghigno ubriaco di Tobias, il bagliore scarlatto di un taglio aperto sulla fronte, il tocco fresco delle mani di sua madre – e poi una foresta in penombra, un parco giochi malandato, un giocattolo nuovo in un pacchetto argentato, una palla rossa su una spiaggia, il tocco di una mano che per la prima volta si avventura lungo il proprio corpo.

Una meravigliosa assenza di confini.
Un assalto, una divagazione in cui distinguere i propri flash da quelli di Lucius non è più possibile. 
Come se le loro vite, da separate che erano, fossero entrate in collisione e si fossero fuse insieme.

Poi, pur non sapendo se per proprio merito o per semplice, naturale decorso delle cose, per la terza volta si sente trascinare, poi spingere ed infine cadere.

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