Kaleido

di niard
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Beauty ***
Capitolo 2: *** II. Face the truth ***
Capitolo 3: *** III.Monster ***



Capitolo 1
*** I. Beauty ***


Buongiorno! Data la mia incapacità di scrivere long (forse in generale di scrivere, nell’ultimo periodo) ho deciso di sfidarmi e scrivere delle OS con personaggi diversi giusto per avere una rinfrescata. Spero possiate apprezzare çç

Prompt: Beauty
Characters: Hinata Hyūga/Naruto Uzumaki
!! Verde, AU

 

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I.

 

 

 

Nella grande sala il discorso del daimyō colmava i cuori dei presenti, elogiando la valorosa impresa dei samurai lì chinati ed esaltava, da quando il sole era tramontato, la vittoria di quei guerrieri che fedelmente si erano schierati al suo cospetto per difendere la propria terra.
Ancora con il capo chino, Naruto spostò lo sguardo oltre la sontuosa veste del daimyō, scovando una piccola fessura tra i pannelli riccamente decorati della stanza - assottigliò lo sguardo per intravedere un groviglio di ombre muoversi, rincorrersi l'un l'altra e fermarsi tutt'un tratto, allineandosi ordinatamente. Non un rumore di quella lunga e complessa preparazione arrivò alle orecchie dei presenti, neanche lo scalpiccio dei piedi sui tatami. Dallo spiraglio, Naruto riuscì a scorgere la manica di un kimono oscillare e un ventaglio comparire da essa; alzò ancora di poco gli occhi, incuriosito, incrociando quelli di una geisha. Quest'ultima sobbalzò appena e velocemente chiuse lo spiraglio.
Il samurai abbassò lo sguardo, mordendosi le labbra.
Quando il daimyō terminò e prese posto a fianco dei funzionari e alle alte cariche dell'esercito, solo allora, i pannelli si aprirono e Naruto rimase stupito quando le ombre delle artiste si delinearono e la Geisha entrò oscurando le altre donne - il tessuto scuro, finemente decorato con trame variopinte, fasciava perfettamente ogni suo passo e l'obi cremisi riprendeva le labbra truccate di quella sublime creatura.
Naruto spalancò gli occhi, semplicemente estasiato.
La Geisha non sembrò accorgersi dello sguardo colpito del giovane, forse abituata a tali adulazioni, ed elegantemente, come una foglia che danza col vento, si inchinò al daimyō poggiando delicatamente le dita sui tatami. Le labbra fini dell’artista bisbigliarono poche parole e, successivamente, si intrattenne con la facoltosa cerchia di uomini.


Anche in compagnia dei propri compagni e delle altre intrattenitrici, Naruto continuava a osservare senza pudore il collo niveo della Geisha, la quale saltuariamente faceva vagare gli occhi fintamente divertiti per la stanza, ma, apparentemente, senza incontrare quelli rapiti del samurai.
Solo in seguito a un interminabile lasso di tempo, Naruto notò il daimyō bloccare la conversazione con un gesto improvviso della mano e, a quel punto, la Geisha si inchinò un'ultima volta, congedandosi; sempre caratterizzata da un'innata eleganza, si diresse nella direzione del samurai e dedicò un breve inchino al gruppo lì riunito, per poi prendere posto a fianco di Naruto.
Il cuore del samurai prese a battere furiosamente nel petto.
«Sake, Uzumaki-sama?» sussurrò con voce sottile la Geisha.
Il giovane rimase sgomento nell’essere apostrofato così direttamente, ma capì che la Geisha doveva aver appreso il suo cognome precedentemente, come tipico di quelle figure ammaliatrici. Naruto sapeva da compagni più anziani, che le geisha conoscevano tutto riguardo alle presenze nella stanza – vi era un fitto intreccio di chiacchiere, che li aveva messi a nudo ancor prima dell’evento.
Naruto rispose con un cenno del capo, sorridendo fin troppo apertamente, gli occhi brillanti e rapiti, e la Geisha prese tra le dita affusolate il collo della bottiglia presente sul tavolo.
Da vicino, Naruto constatò con infinito stupore di come il volto della Geisha apparisse ancora più perfetto, di una bellezza non comune. Naruto era talmente estasiato dalla presenza al suo fianco, tanto da dimenticarsi di chiudere le palpebre, tanto da perdere le azioni della Geisha intenta a versargli il liquore - l’artista fece scivolare sapientemente la manica del kimono, mostrando una piccola porzione dell'avambraccio latteo al samurai. Naruto trattenere il respiro, facendo scivolare lo sguardo oltre la manica e ammirò la pelle che la Geisha gli concesse di guardare.
Ne rimase senza fiato.
«Quale è il tuo nome?» chiese impulsivo e la voce fece trasparire il rivolo d’impazienza che lo attanagliava. Il volto della donna s’illumino e arricciò le labbra in un delicato sorriso all'udire la voce affrettata del guerriero pronunciare quelle parole. Sempre con lo sguardo chino, le guance piacevolmente imporporate, l’artista tolse dall'intricata acconciatura un piccolo fiore e lo mostrò a Naruto; rigirò tra le dita i petali, per poi lasciarne scivolare uno nel sake. La Geisha porse il bicchierino, chinando di poco il capo e intrecciando, finalmente, le iridi pallide, imperscrutabili ed enigmatiche, a quelle ammaliate del samurai.
«Uzumaki-sama mi ha onorato delle sue attenzioni per tutta la serata» sussurrò Hinata. «Non posso che esserne grata».
La domanda di Naruto svanì nella fragilità di quell’attimo, letteralmente incantato dalla bellezza di quella voce - Naruto dimenticò il desiderio di conoscere il nome dell’artista nel momento in cui sfiorò con le proprie dita, rovinate dalle armi, quelle fredde e sottili della Geisha. A Naruto bastò quel contatto, tanto proibito quanto indelicato, gioì nel vedere come il volto della Geisha si tinse di sconcerto e, ancora, di un marcato rossore, per scordare definitivamente la sua domanda.

Naruto ringraziò gli Dei per la fortuna lasciata ai suoi occhi, solitamente feriti dall’orrore delle battaglie, di poter ammirare tanta bellezza. 

 

 

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Capitolo 2
*** II. Face the truth ***


Prima OS dell’anno - inaspettata, strana, poco popolare, scritta di getto, ma a cui tengo molto. Forse un po’ ci speravo in qualcosa di simile. 

Prompt: Face the truth
Characters: Yamanaka Ino/Sabaku no Kankuro
!! Verde, crack

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II.

 

 

 

Ino osservava con sguardo spento il fondo del bicchiere dove il ghiaccio andava a sciogliersi nelle ultime gocce di rum, in cui un liquore di ciliegia tentava di addolcire i pensieri, che le inondavano la mente. Certo, non era da lei abbandonarsi nel desolante bruciore dell’alcol, soprattutto un qualcosa di così forte, sebbene ci fosse quel tocco fruttato, che le accarezzava la gola, rincuorandola. Ino si sentiva vuota, quella sera, malinconica nella sua solitudine, lì seduta su uno sgabello al bancone della locanda, ma al contempo era sollevata che nessuno fosse lì con lei – ringraziava che Sakura non l’avesse torturata con scomode domande al rifiuto di un’uscita al femminile o che Chōji non avesse organizzato una delle sue amate cene in compagnia dei propri amici, naturalmente con rispettivi compagni.
A quel pensiero, Ino sentì la testa più pesante e, con un gesto meccanico, portò alle labbra il bicchiere, finendo ciò che rimaneva di quel cocktail improvvisato – era ghiaccio, insapore e inconsistente ghiaccio sciolto, con un nauseante retrogusto di ciliegia. Ancora peggio, il sapore di quello che stava bevendo le ricordava lei e Sai, la loro apparente relazione perfetta, ma che da qualche tempo stava mettendo in dubbio.
Ino premette una mano al viso, le labbra strette tra i denti e le dita strinsero il bicchiere ormai vuoto. Il cuore batteva velocemente appena la sua mente si concentrava sulla sua relazione con Sai – quel giorno, Ino gli aveva detto che avrebbe preferito stare a casa, perché si sentiva spossata e voleva riposare. Lui le aveva sorriso con spensieratezza invalicabile, poi le braccia pallide l’avevano abbracciata. Un po’ si era sentita in colpa per avergli mentito, perché era uscita da sola, in quel locale squallido e rumoroso; ma aveva bisogno di spazio in quella relazione idilliaca che comunque era stata ferita da molti – non era una novità che lingue acide spargessero dicerie, sottolineando di come Ino si fosse accontentata di una triste copia di Sasuke, ma che Sai comunque non era in grado di reggere il confronto. Sakura stessa gliel’aveva detto, forse scherzando o forse no, e Ino aveva risposto nel modo brusco che contraddistingueva i loro battibecchi, ma non poteva negare che era stata una freccia schioccata nel centro del cuore ferito. Anche se pareva forte, troppo superiore per abbassarsi a certi commenti, Ino risentiva di quei commenti e si sentiva afflitta, anche se in cuor suo sapeva che non aveva mai considerato Sai come un rimpiazzo.
Sai era indiscutibilmente un ragazzo affascinante, con le sue labbra carnose e dalla forma particolare, i capelli che sembravano seta quando li stringeva tra le dita; ma le relazioni erano anche una lista di compromessi e non solo puro estetismo e loro due ci stavano provando seriamente – Ino aveva fatto un passo indietro vedendo come il suo essere al di sopra delle righe mettesse in difficoltà Sai. Le era costato molto, a essere sincera, ma lui da quel momento aveva tentato di aprire un minuscolo varco in quel muro che erano le sue emozioni e per Ino questo era stato abbastanza, si era sentita felice, anche se non poteva negare che molte volte Sai sembrasse solo assecondarla con frasi di circostanza per farla sentire al sicuro. Questo la stordiva, perché non capiva dove finisse la realtà e iniziasse la menzogna.
Ino si sentiva male e devastata dai dubbi, conscia che la sua metà fosse ancora un mondo sconosciuto ai suoi occhi, che solitamente erano così attenti da poter leggere l’anima – però quelli di Sai erano troppo profondi, neri come il nulla, in grado di inghiottire qualsiasi luce.
In un barlume di chiarezza, Ino allungò una mano per richiamare l’attenzione dell’uomo al di là del bancone.
«Un altro» secca fu la voce che lasciò la sua gola e alzò appena il bicchiere per rincarare il messaggio, mentre il barista non poté fare molto per contrastare il sopracciglio inarcato che lo sfidava a non esaudire il suo ordine. Infatti, in pochi attimi un nuovo cocktail era tra le sue mani e, senza mormorare mezzo ringraziamento, si girò a osservare il locale ancora pieno per l’ora tarda; storse il naso guardando quelle persone felici: amici, coppie e ancora coppie. Tutti chiacchieravano, chi animatamente e chi meno; c’era chi ancora brindava, chi alzava la voce in una battuta che scatenava ilarità, ma soprattutto c’era un tavolino dove un uomo beveva in solitaria, la mano libera a sfogliare un libro. Ino non riusciva a vedere molto da quella distanza, se non che la presenza era completamente vestita di nero, i capelli castani erano scomposti attorno al volto – sembrava anonimo, come se ne vedevano tanti per le strade di Konoha.
Come sentendosi osservato, il suddetto ruotò il capo incrociando per più di un effimero attimo quelli cerulei di Ino, la quale lo vide irrigidirsi e il libro quasi scivolò dalla sua mano; ma quegli occhi scuri, dalla forma sottile e affusolata, scavarono tra i ricordi della donna e, benché non avesse avuto occasione di incontrarlo di frequente, capì chi fosse.
«Kankuro…» mormorò, gli occhi limpidi ora più attenti.
In pochi secondi, seguendo l’impellente bisogno di staccarsi dalle turbe mentali che la stavano logorando, si allontanò con gambe leggermente instabili, forse intorpidite dalle troppe ore che aveva passato seduta o, probabilmente, per il pizzico di alcol che le aveva sciolto anche la più piccola insicurezza – non che solitamente ne avesse alcune che le impedissero di agire, aveva sempre ottenuto quello che voleva.
Anzi, quasi sempre.
Ino mise a tacere quella fastidiosa voce interna e, ancheggiando tra i tavoli con il bicchiere tra le dita, raggiunse quello che come mai prima d’allora aveva iniziato a considerare amico. La donna ripeté il suo nome, forse con troppa enfasi, prendendo posto al suo fianco e accavallando lascivamente le gambe – giurò di aver visto gli occhi di Kankuro scivolare oltre lo spacco della sua gonna, lungo la coscia e se ne compiacque.
«È da moltissimo tempo che non ci vediamo» esordì raggiante la donna.
Kankuro, dal canto suo, si limitò a un sorriso impacciato, tramutandolo in una smorfia irritata.
«Cosa ci fai qui tutto solo, mh?».
«Potrei dire la stessa cosa di te» e Ino incassò il colpo, ancora quel senso di colpa che le martellava nelle tempie. «Sai ti ha dato buca?».
Kankuro era un guscio di spine apparentemente inavvicinabile, ma Ino aveva imparato a conoscerlo nell’ultimo anno. Forse, più sinceramente, avrebbe dovuto confessare che l’aveva osservato durante le cene a casa di Shikamaru e Temari; nonostante non si fosse mai lanciata a capofitto in una conversazione con lui, poteva dire che si discostava molto dall’aria algida tipica dei fratelli di Suna.
Ma in ogni caso quell’atteggiamento aggressivo la infastidì parecchio.
«Stare con un ragazzo non implica abbandonare la propria libertà, posso anche uscire da sola. Nessuno me lo vieta» replicò Ino, al contempo chiedendosi se significasse davvero quello stare con qualcuno, ovvero l’essere messa sotto accusa ogni volta che non usciva insieme a Sai. Più probabilmente, la sua faccia contrita non lasciava dubbio sul fatto che fosse angosciata.
La risata di Kankuro lasciò la sua gola in modo piacevolmente ovattato e Ino non perse nessuna sfumatura di quei tratti ora maturi – le labbra erano carnose, in armonia con il volto che era distante da quello fine, androgino, di Sai e stranamente non le dispiacque. Sembrava così diverso rispetto a quando le linee viola gli delineavano il volto, alternandone i lineamenti e Ino si trovò a pensare che Kankuro fosse a suo modo affascinante.
«Almeno la mia scusa è più credibile» il guscio dell’uomo iniziò a sgretolarsi. «Konoha è così umida che non mi sono ancora spiegato come facciate a superare la notte. Invidio Temari che si è ambientata così velocemente». Uno sbuffo e Kankuro aveva preso un ultimo sorso di liquore, concludendo teatralmente con un nuovo sospiro e lasciando il bicchiere in mezzo a loro.
«Anche io non riuscivo a dormire…» s’affrettò lei, come per non lasciare cadere la conversazione. Effettivamente a Kankuro poteva anche non interessare la sua motivazione e ora si sentiva leggermente in imbarazzo per essere piombata con tanta sicurezza al suo tavolo, in cerca di distrazione.
«Quello che ti sta succedendo dev’essere davvero grave se sei venuta a parlare con me, Ino» ennesima mossa scorretta, ancora una volta colpita nel vivo.
Il rum accarezzò nuovamente la gola della donna prima di parlare, il ghiaccio arrivò ancora a toccarle le labbra – il capolinea. Chissà per quanto ancora avrebbe retto.
«Siamo amici, Kankuro. Non vedo dove sia il problema».
«Lo siamo da quando Temari e Shikamaru si sono fidanzati? Non ricordavo. Pensavo odiassi incondizionatamente sia me, sia Gaara, perché siamo fratelli di Temari e mia sorella si è presa il tuo migliore amico, se non sbaglio» puntualizzò, lo sguardo affilato sempre piantato in quello ora indurito di Ino.
«Io non odio proprio nessuno e poi Shikamaru è libero di stare con chi vuole» sibilò appena sotto quelle accuse, per poi alzarsi bruscamente – la sedia sarebbe rovinata a terra se non fosse stato per la mano pronta di Kankuro che la bloccò per lo schienale, ma lei non ci fece caso e fulmineamente lasciò uscire parole che mai avrebbe voluto ammettere.
«Mettiti bene in testa che Temari non si è presa Shikamaru e Sakura non mi ha rubato Sasuke e, soprattutto, ho interesse per Sai! Cosa c’è che non capite, me lo vuoi spiegare tu?» alzò la voce Ino, il corpo che vibrava per la rabbia. In quel momento, non notò gli sguardi che aveva attirato su di sé, ma non le interessava; che parlassero tutti e dicessero quello che volevano sul suo conto, era al limite. Lanciò un ultimo sguardo a Kankuro, il quale non sembrava aver intenzione di liberarla dalla sua muta analisi, e si girò pronta per uscire da quel posto.
Si sentì ridicola per essersi illusa di trovare un minimo conforto in quell’odioso uomo, ma dopotutto cosa poteva pretendere da uno come lui, che probabilmente dell’amore aveva solo sentito parlare.
«Che fai, adesso torni da quell’apatico di Sai?» e Ino si fermò a quelle parole, scontrandosi ancora con invasivi occhi indagatori, che lasciavano leggere tanto della loro vita, a differenza di quelle del suo compagno. Kankuro aveva riacceso in lei il carattere che si era appena sopito negli ultimi tempi, appiattendola e rendendola schiava di tutte le dicerie che, involontariamente, pochi istanti fa aveva messo nero su bianco proprio davanti all’uomo di Suna.
Strinse le mani irosamente, perché sentiva connessione con lui, che invece di passare attimi tranquilli aveva a suo modo messo a nudo i mostri di Ino.
«Shikamaru ti ha portato via Temari, forse è questo che volevi dire prima, Kankuro…» si mise un’ultima volta sulla difensiva mentre puntava un dito nella direzione di lui, leggendo tra le righe il vero significato delle parole dette – era il suo punto forte e avrebbe scommesso qualsiasi cosa di aver centrato, finalmente, la questione.
Notò un sorriso storto piegare le labbra di Kankuro.
In quel momento poté scorgere tante cose nelle iridi scure come la sabbia bagnata – dolore, una ricerca d’affetto continua che per anni aveva soffocato in mutismo e spine. La vita complicata che avevano passato, i pomeriggi trascorsi nella silenziosa compagnia di Karasu e Kuroari, le notti di paura con solo l’acerba maturità di Temari a confortarlo e poi la riconquista di quella famiglia che sembrava andare per il verso giusto, per una volta, ma che ora si era ancora spezzata e Kankuro era diventato l’appoggio principale di Gaara – proprio lui che inizialmente non ne voleva sapere del fratello minore. Avevano dovuto cominciare nuovamente da capo, creando una sorta di normalità nel continuo spostarsi da Suna a Konoha e viceversa, per non perdersi più.
«Non solo la tua fantastica storia d’amore ha problemi, Ino, ma io mento per il bene di Temari. Se la merita questa vita…» replicò. «Tu invece per cosa stai mentendo?».
Ino sentì la testa girare probabilmente per l’alcol, a cui non era certo abituata, ma principalmente per il turbine di emozioni che le vorticavano al centro del petto.
Uscì a passo sostenuto dalla locanda, non reggendo più quello scontro, non potendone più di reprimere le lacrime che stavano per tracimare – chi era Kankuro per sputare sentenze, chi era per aver capito in così poco tempo cosa la stava distruggendo.
Con quei pensieri si fermò nel mezzo del vicolo poco illuminato e deserto, a quell’ora di notte, un luogo perfetto per lasciare cadere lacrime amare. Neanche si curò di reprimere il singhiozzo che si era arrampicato prepotentemente per la gola, perché si meritava di dar sfogo alla sua sofferenza.
Per chi stava mentendo? Era certa che la risposta sarebbe stata: perché Ino non è una perdente.
Si coprì il volto con le mani, conscia di stare mentendo principalmente a se stessa. Odiava quella vanagloria che le scorreva nelle vene.
Quando sentì delle braccia forti stringerle le spalle, senza remore si lasciò andare nel petto ampio, dove al di sotto percepiva il calore rassicurante di un corpo. Ne strinse la stoffa, bagnandola di lacrime e sporcandola con parole che le cozzavano in testa, ribadendo che lei non era una perdente, lei non era seconda a nessuno.
La stretta di Kankuro si fece appena più forte e rassicurante, ma lei lo spinse con mani tremanti, aggrappandosi al briciolo d’orgoglio che aveva – l’uomo non si scompose, lasciando che le azioni scorressero naturalmente.
«Quando io e Sai camminiamo, le persone si fermano a guardarci e sento i loro commenti e sai cosa dicono? Che siamo perfetti, ma poi parlano alle spalle! Invece, se andassi in giro con te…» prese una grossa boccata d’aria, i polmoni che chiedevano pietà sotto quello sforzo. «Se uscissi con te, non ti riconoscerebbero neanche conciato così!».
Kankuro non seppe se prendere come offesa quel commento, dato che di solito le persone si lamentavano del contrario, quando era vestito e truccato come in missione – Ino doveva essere sicuramente molto confusa, ma continuò a lasciarla sfogare, osservando, ora che si era allontanata di qualche passo da lui, come le lacrime seguissero il viso ovale e arrossato per le urla.
Invece, Ino avrebbe avuto altre mille cose da dire a squarciagola, ad esempio perché ora Kankuro se ne stava zitto a guardarla, come se non fosse anche colpa dei suoi ingiustificati attacchi che le avevano permesso di crollare. Avrebbe anche voluto svegliare tutti per far sapere di quanto la sua storia stesse venendo a galla per la falsità con cui l’aveva condita. Però Sai non aveva colpe, se non quella di essersi lasciato trascinare da lei e continuare in quella corsa, nonostante avesse quel sentore spiacevole di non comprendere a pieno la loro relazione. Probabilmente, Sai non sapeva neanche cosa provasse realmente o trovava difficoltoso definire i dettagli di una relazione amorosa, perché lui si adattava, come aveva da sempre fatto in vita sua, e provava una piacevole sensazione a compiacerla.
Ino non ci capiva più nulla e stremata, tornò a lasciarsi sorreggere da Kankuro, quella sorta di amico un po’ indelicato che l’aveva umiliata; però il suo appoggio era paradossalmente fondamentale in quel momento. Ino si riscoprì felice di aver ricevuto delle attenzioni, per una volta, non richieste apertamente e capì, tra i fumi di un rum e ciliegia, di aver sbagliato fin dall’inizio, che l’amore non si controllava o nasceva forzatamente e che non importava se un giorno sarebbe arrivato con un uomo più grezzo, dalla pelle appena abbronzata o le mani non perfette, ma intaccate da schegge di legno. Non era essenziale avere l’approvazione del villaggio, sapere che tutti idolatravano la loro coppia e li riempivano di falsi complimenti.
«Faccio parte del Clan Kazekage, non ti basta?» disse serio Kankuro, ma una venatura di ironia tradì la voce.
Sicuramente delle scuse per il suo comportamento sarebbero state più appropriate, ma Kankuro non era una persona che riusciva a tornare sui suoi passi e sapeva che da lì sarebbe riuscito a districarsi in un modo o nell’altro. Dopotutto anche lui provava pena per la sorte che Ino si stava scegliendo, in un certo senso la capiva. La donna era indubbiamente bella, con la sua pelle nivea e i capelli chiarissimi, anche Kankuro non poteva negarlo, ma prima o poi la tristezza l’avrebbe rovinata.
In quella notte estiva, Kankuro si limitò a lasciar scendere le mani, così grandi a confronto della vita sottile della donna, sulla schiena scoperta e assaporò come la colonna vertebrale si rilassasse sotto i suoi palmi - se Ino aveva bisogno di calore umano, Kankuro avrebbe continuato per tutta la notte a stringerla in quella specie di abbraccio.
Si chiese se quell’arrendevolezza fosse dettata unicamente dall’alcol, che Ino aveva consumato, o perché era scesa a patti con la sua coscienza; ma sembrava troppo anche per lui chiedere un qualcosa di così indelicato. Poi, le disse solo poche parole all’orecchio, accostando appena le labbra e inspirando il profumo fresco della sua pelle, totalmente nuovo rispetto alla sabbia che gli riempiva quotidianamente i polmoni. 
«Non prendere decisioni affrettate questa volta» e Ino scosse la testa ancora immersa nel suo petto, incapace di lasciarsi osservare così distrutta.
Smise di piangere solo quando iniziò a dare un senso alle parole dette, sentendo realmente le dita callose dell’uomo che le scaldavano la pelle - si avvicinò maggiormente come per essere inglobata, scoprendosi incapace di staccarsi da quell’inusuale calore umano.

Non avrebbe preso decisioni affrettate quella notte, Ino lo giurava, ma nella sua testa già percepiva il sentore della chiamata che avrebbe fatto a Shikamaru, annunciandogli che era giunto il momento di dire la verità e cambiare.

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Capitolo 3
*** III.Monster ***


Oggi pubblico questa sciocchezzuola per festeggiare che sto realmente scrivendo una storia più lunga. Spero di poter pubblicare almeno un capitolo prima che cambi totalmente idea; ma nell'attesa, un po' di dolcezza. 
Ah, adoro i fratelli della sabbia, è sempre bello quando me ne ricordo. 

Prompt: Monster
Characters: Nara Family 
!! Verde, Slice of life, OOC

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III.



 

Il clima in casa Nara era prevalentemente tranquillo o quasi. L’atmosfera era calda come il deserto di Suna e fresca, frizzante come il vento primaverile di Konoha.
Talvolta però, tra gli shōji di fine carta di riso la voce di Temari risuonava andando a riprendere quel, quasi sempre tipicamente pigro, marito che ultimamente aveva indetto una guerra contro un ospite sgradito.
Anche in quel momento, gambe incrociate davanti alla scacchiera e mento mollemente appoggiato a un palmo della mano, Shikamaru osservava il nemico placidamente accoccolato tra le braccia di Shikadai - il suo tenero bambino con la testa sormontata da un piccolo ciuffo di capelli neri, che ciondolava a ogni movimento. Era così bello e carino, adorava dormire di giorno per rimanere sveglio la notte, gli occhi grandi a perlustrare le ombre curiose, ma rimanendo sempre in divino silenzio. Non era uno di quei bambini chiassosi che si sentivano urlare dalle case a fianco – no, Shikadai aveva ereditato la pacatezza del padre e questi n’era immensamente grato.
C’era solo una strana ossessione che si era impadronita della sua tenera mente.
Shikamaru allungò la mano verso il piccolo mostro che si era fatto spazio nella sua famiglia – Shikadai lo trascinava nel proprio futon prima di dormire, sedeva al suo fianco durante i pranzi e non aveva disdegnato l’idea di portarlo con sé quando usciva con Temari la mattina.
Ormai sembrava un suo prolungamento tanto si era affezionato. Temari, dal canto suo, non dava troppa importanza a questo atteggiamento, probabilmente già abituata a un comportamento simile.
Quando Shikamaru afferrò lentamente la testa del suddetto mostro, i lineamenti del bambino si contrassero in un’espressione seriosa, conscio di quello che il genitore era in procinto di fare – Shikamaru tentava sempre di staccarlo da quel coso auspicando di farlo sparire in un qualsiasi scatolone, ma con scarsi risultati.
Prese il burattino poggiandolo sulla scacchiera, insofferente alla partita solitaria che stava portando avanti da una buona ora, osservando cosa potesse trovarci Shikadai in quell’ammasso di legno – quattro braccia che si estendevano mollemente dal corpo tozzo coperto da una tunica, semplici arti snodabili, che penzolavano mollemente creando un sinistro suono ogni volta che cozzavano tra di loro. Shikamaru scrutò i tre occhi del coso, che ricambiavano vacuamente, non riuscendo proprio a comprendere come quella testa dai capelli tanto radi, rispetto alla versione originale, e il sorriso inquietante potesse anche solo lontanamente risultare apprezzabile. Soprattutto da un bambino.
Shikadai tirò più volte la manica del genitore in una muta richiesta di restituirgli l’amico. Però, quando capì che il padre non sarebbe stato propenso ad accogliere la supplica, utilizzò le sue forze per mettersi in piedi e dilettarsi in un acuto urlo capace di richiamare non solo la sua attenzione, ma anche quella della madre.
«Shikamaru restituisci immediatamente baby Karasu!» tuonò Temari, comparendo spazientita sulla soglia della stanza, una versione ridotta del suo amato ventaglio puntato contro il compagno.
Pensò che Kankuro si fosse veramente sbizzarrito con mini-versioni di tutto quello che gli balzava per la testa e di questo Shikamaru iniziava a soffrire – già, colpa di quello zio che da un momento all’altro avrebbe varcato la soglia di casa loro. Pregò solo non portasse un’altra fantastica invenzione.
«Seccature…» uno sbuffo, la mano che concedeva il piccolo mostro a Shikadai.
Ancora una volta la sua missione era fallita in una manciata di minuti.
Temari, dopo aver riposto il ventaglio nell’obi del kimono, scosse la testa mentre un sorriso intenerito le illuminava le labbra – non poteva far nulla, la sua vita era decorata da quei piccoli teatrini che facevano capire quanto il genio di Konoha fosse un bambino troppo cresciuto. Poi la divertiva attendere la vendetta che Shikadai avrebbe architettato, come appoggiare non proprio delicatamente baby Karasu sul volto del padre in un momento di distrazione di quest’ultimo – dopotutto, era anche suo figlio ed era orgogliosa della velata determinazione che aveva ereditato da lei. Sperava solo che la conservasse in futuro e non si trasformasse nell’indolente versione di Shikamaru. 

Shikadai, dal canto suo, occhieggiò il padre con quei maledetti occhi di Temari che gli scavavano nel centro del cervello, facendolo sentire infinitamente in colpa – il giovane Nara capiva tutto anche se aveva un vocabolario condito da vocalizzi, tipico della tenera età. Era indubbiamente una fusione d’intelligenza e determinazione che sicuramente in futuro gli avrebbe dato filo da torcere. Aveva raccolto il meglio o il peggio dei genitori, dipendeva dai punti di vista, e Shikamaru non si era ancora sbilanciato ad analizzare quali sfumature caratteriali avesse ereditato da una particolare branca della famiglia – già il fatto che avesse un’inusuale attaccatura per baby Karasu, gli dava da pensare, ma continuava a sperare fosse una fissazione passeggera.
Poi, estremamente compiaciuto dall’aiuto ricevuto dalla madre, Shikadai fissò nuovamente l’attenzione di quelle iridi verdi, profonde e accusatorie, in quelle plastiche del burattino stretto tra le mani paffute.

Immaginava già il ghigno vittorioso tipico di Temari, delle labbra carnose che si piegavano lentamente verso l’alto, disegnarsi su uno Shikadai ormai adolescente e si ritrovò a sospirare sconsolato, anche se gli occhi affusolati tradirono affetto nell’osservare Shikadai sereno, intento a sistemare baby Karasu seduto sui tatami

 

 

 

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