Skam Cornovaglia

di Lady Warleggan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Angolo dell’autrice.
Ciao a tutti, e piacere di conoscervi!
Io sono Lady Warleggan! Forse qualcuno già mi conosce in questa sezione di EFP: sono l’autrice della ff L’istitutrice, che al momento è ancora in corso. Forse è un po’ folle cominciare un’altra ff parallelamente ad un’altra storia, ma sentivo proprio l’esigenza di buttare giù questa AU di Poldark e farvela leggere.
Il titolo della storia riprende il nome di una serie tv molto famosa, Skam, di cui io ho visto ed amato la versione italiana. Tuttavia, il mio intento non è quello di riprendere gli eventi di quella serie e trasportarli nel contesto di Poldark, ma dato che essa parlava di tematiche giovanili e di adolescenti, ho pensato potesse essere un buon titolo per la mia ff, dato che i personaggi iniziano la storia proprio da adolescenti!
Riprenderò alcune dinamiche della serie di Poldark e cercherò di inserirle all’interno della ff. George in questa storia sarà un po’ diverso: non sarà malvagio come nell’originale, ma di lui ho mantenuto il sarcasmo, la battuta affilata e il cinismo, oltre che la sua perenne espressione da musone (su cui verrà particolarmente in giro).
So che può risultare difficile immaginarvelo, ma lui e Ross in questa storia saranno amici: ho comunque voluto costruire un rapporto di cane-gatto fra loro, di due persone che non sanno come fanno a stare sempre assieme pur battibeccando di continuo, cercando così di tenere “fede”, anche se alla lontana, al rapporto nella serie di Poldark.
Isla Wood, che è un nuovo personaggio, è la protagonista della mia ff L’istitutrice e sono talmente tanto affezionata a lei che ho voluto inserirla anche in questa storia.
Un’ultima cosa prima di lasciarvi alla lettura: ci tengo a precisare che la ff L’istitutrice avrà la mia priorità rispetto a questa nuova storia, perciò non aggiornerò con tanta frequenza. Questa nuova ff diverrà una sorta di confort, proprio perché mi sono divertita un mondo a scrivere questo primo capitolo.
Bene, allora non vi scoccio più e vi lascio alla lettura. Se avete consigli e pareri, ne sarei molto felice e vi ascolterò volentieri.
Vi abbraccio forte,
Lady Warleggan.  

 
Capitolo 1
 
"Giuro che potrei spararmi."
Ross Poldark sbadigliò sonoramente. Aveva ancora la faccia smunta di sonno a causa della levataccia mattutina e suo padre era dovuto venire a tirarlo giù dal letto dato che la sveglia era suonata da un quarto d'ora buono e lui aveva invece continuato a ronfare beatamente.
Si passò una mano sul volto, provando a nascondere alla sua vista l'edificio scolastico, nella speranza di riaprire gli occhi e di rendersi conto che quello fosse in realtà il primo giorno d'estate, che poteva riavvolgere il nastro e tornare indietro nel tempo a godersi la bella stagione come qualsiasi altro adolescente della sua età, senza avere la malsana idea di partirsene per un lavoretto estivo in Italia e tornare una settimana prima dell'inizio del suo ultimo anno e scoprire che la ragazza di cui era stato innamorato per un anno, ora aveva iniziato ad uscire con Francis, suo cugino. Che per inciso, tanto per rincarare la dose, era pure il suo migliore amico ed era pienamente consapevole dei suoi sentimenti.
Il suo primo ultimo giorno di scuola faceva già tremendamente schifo. Già era stato terribile tornare dall’Italia e sapere cosa fosse capitato in sua assenza, ma ci si era messo pure suo padre Joshua che gli aveva ricordato che di certo la vita non sarebbe finita per quella so tutto io della figlia dei Chynoweth (a suo padre non andava molto a genio la sua famiglia, la trovava spocchiosa) e che lui doveva continuare ad andare a scuola e prendere il diploma. Che aveva fatto bene a fare quell'esperienza all'estero e che non doveva certamente pentirsene, che era stata una nuova opportunità per imparare una nuova lingua e una nuova cultura, e che sicuramente si sarebbe innamorato nuovamente.
E in effetti quel viaggio era stato meraviglioso.
Ma anche Elizabeth era speciale. Era vero, proveniva da una famiglia altolocata che all'apparenza sembrava davvero molto snob. Inoltre era probabilmente la ragazza più bella del suo anno o forse di tutta la scuola, con una lunga cascata di riccioli scuri che le adornavano il volto sottile e un paio di splendidi ed espressivi occhi dello stesso colore. Era magra, alta e slanciata e studiava danza classica nel tempo libero, e con lui era sempre stata gentile ed affabile; ed era certo che, anche lei, avesse provato qualcosa per lui durante l'anno precedente.
Ma non si era fatto avanti al momento giusto e non poteva avere pretese su di lei, nonostante fosse incavolato nero perché Francis conosceva i suoi sentimenti e ci aveva provato comunque! Quel codardo non aveva avuto nemmeno il coraggio di dirglielo direttamente e aveva rimandato tutto fino al momento in cui era tornato, costringendolo a dover affrontare ogni cosa di fronte all'evidenza di un social network: Instagram. Per Ross, una foto che li ritraeva assieme sul profilo di Elizabeth, in un abbraccio piuttosto intimo, valeva più di qualsiasi altra parola.
Il giorno in cui era stata pubblicata, Francis aveva provato a contattarlo in tutti i modi senza successo, ma quella foto non era stata comunque tolta dai social della ragazza e Ross si era fatto sempre più male andando a riguardarla ogni minuto, sperando ogni volta di essersela soltanto immaginata.
Chissà se suo cugino aveva almeno avuto la decenza di dirle di toglierla: forse lei doveva essersi opposta. In fondo non c'era niente di male. Era col suo fidanzato e voleva mostrare quella fotografia al resto del mondo e tra lei e Ross non c'era mai stato più di qualcosa che andasse oltre il flirt o qualche parola sottointesa.
"Che hai detto?" George si era appena tolto le cuffie e lo fissava come se non avesse capito.
"Ma mi stavi ascoltando?!" gli chiese Ross, sconvolto.
"Bla, bla, bla, Elizabeth. Sì sì" brontolò George, ficcando il cellulare in una delle tasche.
Ross lo guardò: ancora non capiva come lui e il giovane figlio dei Warleggan potessero essere ancora amici. La zona di Truro in cui abitava era abbastanza piccola e rurale e tutti frequentavano gli stessi posti, così Ross e George, sin da bambini, si erano ritrovati a frequentare assieme scuole elementari, medie e superiori.
Erano sempre stati agli antipodi: Ross era bruno e con gli occhi scuri; George aveva invece capelli biondi e occhi azzurri; il primo aveva un viso più rotondo e amichevole; il secondo ne aveva uno più rigido e spigoloso. Ross amava gli sport; George prediligeva la musica e si era unito all'orchestra scolastica come violoncellista; Ross era esuberante e ciarliero; George invece più pacato e schivo, anche se la timidezza era l'ultima delle caratteristiche che gli si sarebbe potuta attribuire: era un tipo che parlava poco, ma che quando lo faceva, beccava duro e senza avere paura di dire la propria.
Assieme a Francis e Dwight avevano formato un gruppetto piuttosto insolito di individui tanto differenti; ma per quanto diversi, George avrebbe faticato ad immaginare una cricca di cui Ross non facesse parte. Ora che però quel vigliacco di Francis aveva iniziato ad uscire con Elizabeth, non sapeva cosa ne sarebbe stato di quelli che poteva definire i suoi amici di sempre e doveva ammettere che la cosa lo preoccupava.
Per carità, anche lui per un periodo aveva subito il fascino di quella ragazza. Era oggettivamente bella e graziosa nell'aspetto e nei modi di porsi, l'anno precedente si era candidata a rappresentante di istituto e aveva fatto un ottimo lavoro. Ross era stato votato a sua volta e quella collaborazione li aveva avvicinati, tanto che lui stesso, ma un po' tutti, erano certi che prima o poi si sarebbero messi insieme.
Ross era il capitano della squadra di calcio e lei la più bella della scuola: sarebbe stato scontato che diventassero una coppia. Tuttavia, il suo amico non era stato abbastanza veloce a fare la propria mossa (il che per George era sorprendente, perché Ross era un tipo molto intraprendente) e tutto si era arenato durante l'estate: Francis aveva colto la palla al balzo e... ora era il nuovo ragazzo di Elizabeth.
"Ho detto" riprese Ross spazientito, alzando un tantino il tono di voce. George lo guardava annoiato. "Giuro che potrei spararmi."
L'amico alzò un sopracciglio. "A-ha. Ti prego di lasciare a me l'onore di farti fuori."
A Ross venne istintivamente da sorridere. Era la prima vera risata da giorni. Ed era stato George il musone a farlo ridere.
"Mi chiedo ancora come sia possibile che siamo amici."
George annuì fissando l'edificio scolastico davanti a sé. Anche lui sembrava provato dall'essersi svegliato troppo presto.
"È quello che mi chiedo spesso anche io."
Ross sospirò. Per quanto George potesse risultare antipatico o musone, era stato un amico più vero di quanto Francis lo fosse mai stato. Lo aveva chiamato non appena aveva visto quella fotografia su Instagram (anche se non era un tipo molto social) e lo aveva lasciato sfogarsi senza fiatare, ritrovandosi a parlare soltanto per dargli ragione ogni volta che gliene chiedeva conferma.
Ross infilò le mani nelle tasche dei jeans: affrontare lui ed Elizabeth, quel giorno, sarebbe stato un vero strazio.
Tra parentesi, nemmeno George e Dwight sapevano cosa stesse succedendo in assenza di Ross. Il primo era stato per tutta l'estate in Scozia in una vecchia casa di suo zio, ed era addirittura tornato soltanto un paio di giorni prima; Dwight invece era rimasto a Truro a studiare come un matto per le domande di ammissione all'università e aveva visto Francis soltanto un paio di volte per un caffè, e in quelle due uniche occasioni, il ragazzo non gli aveva mai fatto cenno alla sua relazione con Elizabeth.
Dwight arrivò proprio qualche minuto dopo. Ross non conosceva nessun altro dopo di lui che fosse così diligente. Lo aveva incontrato alle superiori, alle selezioni per la squadra di calcio e dopo una semplice chiacchierata negli spogliatoi erano diventati inseparabili. Quando Ross lo aveva presentato agli amici, era entrato automaticamente nella cricca.
Era di un anno più piccolo di lui, biondo e con occhi chiari come quelli di George, ma a differenza sua era timido e gentile e sempre con un sorriso radioso stampato in volto. Ross lo trovava un bravo calciatore, ma Dwight sperava soltanto che i risultati sui campi da gioco gli permettessero di ottenere una borsa di studio per università prestigiose in cui avere l'opportunità di studiare medicina.
"Ciao ragazzi!" esclamò, con uno dei suoi soliti sorrisi. Seppur stanco, sembrava stare meglio di lui e George messi insieme. "Come state?"
"Il ragazzo qui dice che vuole spararsi" fece George, indicando con un dito Ross al suo fianco.
"E lui vuole avere l'onore di premere il grilletto" ridacchiò invece il giovane Poldark dall'altra parte.
Dwight rise a sua volta, ma poi il suo sguardo si fece più serio e preoccupato. Gettò un'occhiata al cortile della scuola.
"Sono già arrivati?" domandò, alludendo evidentemente alla nuova coppietta.
"No" tagliò corto Ross.
"Sembri una spia di un pessimo film di spionaggio" commentò George, rivolgendosi a Dwight. "Comunque, parlando del diavolo..."
Ross non poté credere a quello che vide quella mattina fuori scuola. Non poté credere che Francis fosse così meschino da entrare dal cancello della scuola e camminare mano nella mano con Elizabeth davanti a lui, davanti a tutti! George e Dwight gli lanciavano occhiate nervose, come se temessero che reagisse impulsivamente, ma lui aveva ben altro a cui pensare per accorgersi di entrambi.
Francis non ebbe il coraggio di alzare gli occhi su di lui: erano parenti, ma non avevano niente in comune. I suoi capelli, di un biondo cenere tendente al castano chiaro, si intonavano alla perfezione con gli occhi chiari e bisognava ammettere però che, visivamente, sia lui che Elizabeth, formassero una coppia abbastanza ben assortita.
Elizabeth si trascinava in spalla lo zaino e con un cenno, aveva fatto segno a Francis del suo gruppetto di amici. Probabilmente anche lei era consapevole che lui fosse troppo codardo per parlare direttamente a Ross dei suoi sentimenti per lei.
Prima che quest'ultimo potesse rendersene conto, la coppia era già vicina. Elizabeth era ancora più bella di quanto ricordasse, avvolta in un abito estivo floreale che approfittava ancora delle belle giornate in Cornovaglia. Gli lanciò un'occhiata molto lunga ed incerta, abbassando poi gli occhi imbarazzata. Fu piuttosto strana e Ross non riuscì ad interpretarla.
"Ciao ragazzi" salutò Francis timidamente. "Vi ricordate di Elizabeth?"
Ross non poté credere a cosa le sue orecchie stessero sentendo. Non riuscì a fare altro che fosse più di un cenno del mento a mo' di saluto. Anche Dwight fece lo stesso. In un'altra occasione avrebbe urlato contro il cugino, ma non quella mattina, non in cortile e davanti a tutti.
Qualunque altra cosa volesse azzardarsi ad aggiungere Francis, la campanella che avvisava dell'inizio delle lezioni suonò in quel preciso momento e tutto il gruppo sembrò tirare un sospiro di sollievo per quella fortuita interruzione. C'era troppa tensione nell'aria quella mattina.
Il commento di George si sentì a malapena nel frastuono.
"Che pagliacciata."
* * *
Se la giornata si preannunciava tremenda, Ross fu lieto di sapere di avere ben altro a cui pensare. La prima lezione fu quella di matematica e Ross si voltò istintivamente verso George quando vide entrare la professoressa Tegue dalla porta dell'aula.
"Ora puoi spararmi" gli sussurrò mentre l'insegnante andava a sedersi dietro la scrivania e poggiava la sua solita tracolla nera. Quella borsa doveva aver visto la guerra di indipendenza americana, a giudicare da quanto fosse malridotta. La Tegue la portava con sé dal primo anno delle superiori, da che Ross ricordasse.
Era una donna alta e anche di bell'aspetto, se non fosse stato per il suo carattere acido e l'espressione arcigna che ne imbruttivano i begli occhi chiari e la forma morbida del viso. Non si accontentava mai e pretendeva la perfezione dai propri allievi. L'unico per cui avesse una discreta predilezione era George, che aveva una certa predisposizione alla sua materia, ma in generale non si esimeva mai dal fare commenti sgradevoli e cattivi quando se ne presentava l'occasione.
"Oh santo cielo Poldark, non sono neanche entrata e stai già parlando con tuo cugi..."
La professoressa Tegue si bloccò quando si rese conto che al fianco di Ross non c'era suo cugino come sempre: erano soliti non separarsi mai di banco, ma ora Francis, alla luce degli ultimi avvenimenti, sedeva in un'altra fila, di fianco a John Treneglos, un tipetto piuttosto arrogante e saccente, ma tutto sommato innocuo. Ross e Francis lo avevano sempre preso in giro, ma ora la situazione era diversa.
"Oh, non siete vicini tu e tuo cugino, stavolta..." disse, forse più a se stessa che a lui, come se stesse riflettendo a voce alta. Poi scosse vigorosamente la testa. "Ma comunque no. Assolutamente no, Poldark."
Ross sembrò non comprendere. Probabilmente il suo sguardo confuso incitò l'insegnante a proseguire.
"Non avrai una cattiva influenza sull'unico allievo promettente di questa classe!" brontolò come una vecchia pentola e parecchi volti della classe si guardarono indignati per capire se avesse davvero pronunciato quelle parole.
Fece segno all'intera classe di mettersi all'in piedi.
"Quest'anno sarò la vostra coordinatrice" spiegò risoluta. "Sceglierò i vostri posti con cura!"
"Seriamente?" commentò George sottovoce, che non credeva davvero di dover assistere a quella pantomima. "Neanche avessimo dodici anni..."
"Dì la verità..." Ross gli diede una gomitata in una costola per attirare la sua attenzione. "Non vedevi l'ora di passare tutto l'anno accanto a me."
George gli lanciò un'occhiataccia. "Per l'amor del cielo, non vedo l'ora che mi cambi di posto allora!"
La professoressa Tegue iniziò ad assegnare le file di banchi a una coppia per volta. Francis capitò di fianco a Monk Adderley, un tipo talmente pieno di sé con cui Ross aveva quasi sfiorato la rissa l'anno precedente; George era capitato invece di fianco a Keren Smith, e il solo pensiero gli fece immediatamente rimpiangere Ross che, da lontano, gli lanciò un bacetto ironico. Keren era una ragazzina minuta dai capelli scuri e ondulati, che aveva la fama di essere una piantagrane: il suo carattere petulante, con quello forte di George, non prometteva certo una "convivenza pacifica".
Ross invece era stato spostato al terzo banco sulla destra, accanto alla finestra. Accanto a lui, c'era una ragazza di cui scordava spesso la sua esistenza per quanto fosse invisibile.
Demelza Carne era arrivata da Londra l'anno precedente ed era sempre stata, da allora, una tipa molto taciturna e tranquilla, come se non volesse disturbare nessuno. I suoi capelli, di un rosso acceso, erano coordinati a un paio d'occhi verdi.
Ross aveva scambiato poche parole con lei da quando l'aveva conosciuta: era studiosa il giusto, ma non la conosceva abbastanza da capire come fosse per davvero e quali fossero i suoi interessi al di fuori della scuola. Tuttavia, gli era sempre parsa una brava ragazza.
Demelza non aveva tanta confidenza con i membri della classe, e anche Ross doveva ammettere che, a parte George e Francis, trovava gli altri compagni di classe piuttosto indifferenti. Di solito aveva beccato Demelza di sfuggita in mensa assieme ad un'altra ragazza, Isla Wood, che faceva parte dell'orchestra scolastica assieme a George ed era arrivata dalla Scozia anche lei l'anno precedente. In realtà non ci aveva badato poi più di tanto, ma non poteva fare a meno di rendersi conto di quanto lui e i suoi compagni fossero stati pessimi con lei in termini di accoglienza quando era arrivata l'anno precedente.
"Ciao Demelza" le disse sorridente.
Ross pensò che in effetti gli sarebbe potuta andare molto peggio. Avrebbe potuto capitargli Treneglos, o quel pallone gonfiato di Adderley, o persino Keren. A giudicare da come George fosse scocciato, anche lui avrebbe fatto volentieri a cambio con Demelza.
"Ehi Ross" sorrise lei di rimando.
"Sei felice del tuo nuovo compagno di banco o avresti preferito qualcun altro?" le domandò scherzoso, scivolando nel posto affianco al suo.
Demelza puntò gli occhi su di lui e Ross restò stupito da quanto fossero ancora più verdi da vicino.
"Direi che non posso lamentarmi" fece divertita. "Sarebbe potuta capitarmi una come Keren Smith o uno come Treneglos o Adderley e penso che non avrei retto un anno intero. Forse Jinny Martin non sarebbe stata male, ma direi che va bene così."
Ross ridacchiò a sua volta, sorpreso dalla parlantina piacevole di Demelza e gli venne spontaneo buttare un'occhiata a Jinny, un'altra sua compagna di classe.
Anche lei, come Demelza, era piuttosto taciturna e sulle sue. Fortunatamente la professoressa Tegue non l'aveva spostata dal suo solito posto, quello di fianco a Jim Carter, un tipo alto e smilzo come una pertica, che tutti sapevano essere il suo migliore amico. Probabilmente, essendo entrambi abbastanza tranquilli di natura, la professoressa non aveva fatto una piega a vederli vicini.
Ross sistemò meglio lo zaino vicino al banco e ne tirò fuori un quaderno e il cellulare. Fu in quel momento che gli arrivò un messaggio.
Era George.
 
- Vorrei riformulare la tua proposta. Possiamo spararci a vicenda? Te lo chiedo come favore personale.
 
Ross si voltò e gli gettò un'occhiata. George era l'immagine della pietà fatta persona: Keren lo stava già mettendo a dura prova con le sue cianfrusaglie sparse sul bordo del banco. Non riuscì a trattenere una risata silenziosa a vederlo così seccato.
Gli arrivò un altro messaggio. Il mittente era sempre George.
 
- Che diamine hai da ridere?!

 
Anche Demelza aveva involontariamente buttato un'occhiata al suo cellulare e sorrideva sotto i baffi. Ross la guardò.
"Scusami, non dovevo" disse umilmente. "Ma George mi fa troppo ridere."
Ross le fece cenno di non preoccuparsi. "Posso assicurarti che solitamente è un musone, ma oggi è davvero uno vero spasso."
In quel momento il telefono vibrò ancora una volta.
 
- Ross Poldark, giuro che interrompo la lezione e ti prendo a sberle davanti a tutta la classe se non la smetti di ridere assieme alla tua nuova amichetta!
- Se cercavi una ragione per cui non dovessimo essere più amici posso giurarti che l'hai trovata!

 
Ross continuò a sorridere assieme a Demelza. Quella giornata iniziava a fare già meno schifo del previsto.
* * *
"Dove stai andando George? La mensa è dall'altra parte."
"Devo fumare, Ross."
"Ma non avevi sme..."
"Lo so, lo so cosa ho detto, che avevo smesso quest'estate. Ma sono stato seduto quattro ore vicino a Keren Smith, direi che me la merito una sigaretta!" George inarcò un sopracciglio e guardò alle spalle dell'amico che, confuso a sua volta, si era voltato e si era ritrovato la diretta interessata dietro di lui.
Keren aveva uno sguardo talmente inorridito da rasentare il ridicolo.
"E tu non fingerti così sorpresa" sbottò George. "Lo sai che non ti sopporto."
Demelza, che aveva seguito Ross fuori dalla classe al suono della campanella, osservava poco distante da lui tutta quella scena con un sorriso mal trattenuto. Nel frattempo, anche Dwight era arrivato dalla propria classe, che era a pochi passi di distanza dalla loro.
"George Warleggan... tu sei... tu sei un cafone!" lo accusò Keren, stupita da quanto fosse stato diretto il suo compagno di banco.
George alzò un sopracciglio e incrociò le braccia. "Davvero? È tutto quello che hai da dire?"
Keren emise una sorte di lamento, non sapeva cos'altro replicare, così si voltò e marciò dall'altra parte, urtando Demelza con una spalla. Si girarono nuovamente tutti verso George che li fissava senza batter ciglio.
"Ma che succede?" domandò Dwight, confuso.
"Ci vediamo fra poco in mensa. Vado a fumare e poi vedo se riesco a buttarmi giù dalla scala di emergenza."
Dwight aprì bocca. "Ma non avevi detto che volevi smettere di..."
Ross lo interruppe, facendogli segno di non proseguire oltre. George dopotutto si stava già allontanando e non li sentiva più. Sembrava molto provato da quella mattinata e non osava immaginare cosa ne sarebbe stato di lui per tutto l'anno.
Aveva smesso di fumare quell'estate, a casa di suo zio in Scozia. Aveva iniziato all'età di quattordici anni, ma ora, compiuti i diciotto, aveva convenuto che sarebbe stato meglio sbarazzarsi il prima possibile di quel brutto vizio. Purtroppo era un tipo che per quanto schivo, si incavolava quasi subito e questo suo nervosismo lo incanalava nelle sigarette, talvolta fumandone decisamente troppe.
Per quella volta, Ross si era convinto che gliela si poteva pure far passare. Anche perché non ci sarebbe stato verso di fermare George Warleggan in ogni caso.
Così, dopo aver presentato Demelza a Dwight, gli aveva raccontato tutto quello che si era perso in quella mattinata. Dwight non aveva potuto fare a meno di sorridere. La sua era stata decisamente più monotona e tutt'altro che interessante.
"E Francis?" domandò cauto. "Ci hai parlato?"
Ross sembrò stranamente a disagio e Demelza non poté fare a meno di accorgersene. In effetti, ora che ci rifletteva, trovava strano che i due cugini Poldark non si fossero seduti l'uno di fianco all'altro, quel giorno: era vero, era arrivata in Cornovaglia soltanto un anno prima ma, aveva sicuramente intuito come funzionassero certe dinamiche all'interno della sua classe e fino a poco prima che l'anno scolastico precedente terminasse, Ross e Francis erano sempre stati inseparabili.
"No. Non so nemmeno dove sia finito" ammise con calma. "Iniziamo ad andare in mensa, e poi si vedrà."
Dwight annuì e Ross era certo che fosse lui quello ad esserci rimasto più male. George in fondo aveva la corazza dura, e lui pure, per il momento, poteva sopravvivere senza Francis, ma Dwight era quello più sensibile di tutti e risentiva molto del fatto che il suo gruppetto si stesse sfaldando.
"Tu ti fermi con noi al tavolo, vero?" chiese Ross a Demelza.  
La ragazza lo guardò con una certa sorpresa.
"Mh... a dire il vero, di solito pranzo con la mia migliore amica."
Ross sorrise. "Perfetto. Chiedile di sedersi con noi."
Demelza non poté fare a meno di annuire. L'intraprendenza di Ross non era una cosa nuova, ma lei non riuscì a fare a meno di acconsentire. Poi le faceva piacere sedersi accanto a lui in mensa: anche l'anno precedente, pur interagendo poco, Ross era sempre stato uno dei pochi membri della sua classe a trattarla con sincerità.
Era affascinata da lui.
Stava per scrivere un messaggio ad Isla ed avvisarla, ma la incontrò alle porte della mensa. La sua migliore amica era un vero e proprio raggio di sole, aveva sempre uno splendido sorriso ad adornale il volto rotondo.
Era una ragazza molto carina: aveva tagliato i capelli castani durante l'estate, accorciandoli fino alle spalle, e i suoi occhi azzurri erano risaltati da una sottile linea di eyeliner. Indossava una salopette di jeans molto particolare, con alcuni disegni di fiori cuciti qua e là, probabilmente da lei stessa. Demelza non conosceva nessun altro che potesse sfoggiare un look del genere con tanta sicurezza. E da che la conoscesse, non l'aveva mai vista muoversi per la scuola senza la custodia del suo violino in spalla.
Quel pomeriggio sarebbero sicuramente cominciate le prove dell'orchestra.
"Ehi, Dem!" la salutò allegramente, facendo "ciao ciao" con la mano.
Isla fu molto sorpresa che Demelza non fosse sola. Entrambe si erano trovate per puro caso quando i membri dell’orchestra e quelli del coro scolastico avevano collaborato per lo spettacolo di Natale. Erano arrivate tutte e due da poco in quella scuola, non conoscevano nessuno, e forse questo le aveva unite ulteriormente. Una mattina, veramente per una pura coincidenza, avevano iniziato a chiacchierare del più e del meno. Da allora, non si erano più separate, e l’una poteva considerarsi la migliore amica dell’altra.
“Isla” fece Demelza, indicandole i suoi nuovi amici. “Ti presento Ross e Dwight”.
“Piacere” sorrise Isla, stringendo con vigore la mano di entrambi.
“Vi sedete con noi, oggi?” domandò Ross, ma in realtà non si aspettava una vera e propria risposta. Sembrò voltarsi qua e di là per vedere se riusciva a trovare un tavolo libero, e lo indicò al suo gruppetto. Era uno dei tavoli all’angolo che non era stato ancora occupato: la mensa durante l’ora di pranzo era una vera e propria bolgia di studenti e spesso diventava alquanto improbabile accaparrarsi un posto a sedere.
“Se dovete prendere qualcosa da mangiare, vi conviene muovervi” disse Isla, indicando ai suoi due nuovi conoscenti la lunga fila che li aspettava per prendersi un boccone al banco della mensa. “Io e Demelza possiamo cominciare ad occupare i posti, non prendiamo mai niente da lì.”
Demelza mostrò a Ross la borsa che si era portata appresso: era praticamente il suo zaino, e lui non ci aveva neanche fatto caso. Di solito lui richiudeva tutto nel suo armadietto poco prima di andare in mensa e filava dritto a mangiare.
“Portiamo sempre il pranzo da casa” spiegò, con una certa soddisfazione.
Ross ridacchiò, sinceramente colpito. Non ebbe nient’altro da replicare e lui e Dwight si avviarono mogi verso l’enorme coda che avrebbero dovuto attendere per mettersi qualcosa sotto ai denti. Mentre si avviavano, Dwight si guardava attorno come se cercasse qualcuno. Ross non si sforzò nemmeno di capire chi fosse.
“Non lo vedo neanche io” commentò, incrociando le braccia. “Francamente, è meglio così. Credo che gli tirerei un pugno in faccia, ora come ora.”
Dwight sospirò, scuotendo il capo. “Ma prima o poi dovrete parlarne.”
“Già. Prima o poi” borbottò Ross. “Dwight, Francis ha avuto un sacco di tempo per parlarmi. Ero in Italia, non in Giappone. Sarebbe bastata una videochiamata. Certo, mi sarei incavolato comunque, ma lo avrei apprezzato di più. Ora, se permetti, sono io a non volergli parlare.”
Dwight fece un altro sospiro, l’ennesimo. Ma non gli diede contro: non dava mai contro a nessuno. Era la persona più dolce e più pacata che conoscesse.
“Hai perfettamente ragione. Ci sta.”
Mentre si accingeva a pronunciare qualcos’altro, come se volesse avvalorare l’ennesima tesi per cui nonostante tutto dovessero restare amici, Ross fu grato che stesse arrivando George. Teneva le mani nelle tasche dei jeans e sembrava ancora sfinito come quando lo aveva visto uscire dalla classe, con la sola differenza che, a mano a mano che si avvicinava, odorava sempre di più di tabacco. Conoscevano le abitudini da fumatore di George: doveva aver consumato due o tre sigarette molto velocemente, forse per il nervoso.
“Allora? Che c’è da mangiare oggi? Sbobba di bentornato?” domandò scocciato. “Vediamo quanto questa giornata può continuare a fare schifo.”
Ross non poté fare a meno di allungare le labbra in un sorriso. Lui e George avevano un rapporto di amore-odio, ma il sarcasmo del giovane Warleggan era imbattibile. “Sono sicuro che tu e Keren diventerete buoni amici. Magari devi solo imparare a conoscerla meglio.”
George osservò entrambi gli amici inarcando un sopracciglio.
“Sì, sì. E magari domani una telecamera viene a riprendermi e un giornalista viene a dirmi che ho vinto un milione di euro. Posso assicurarti che sarebbe decisamente più probabile” brontolò seccato. George cercò di allungarsi sulle punte per vedere cosa servissero in mensa, ma non riuscì a vedere altro che le spalle degli altri alunni della scuola. “A te invece è andata di lusso. Non ho quasi mai parlato con Demelza in classe, ma sono abbastanza sicuro che sarebbe stata comunque meglio di Keren Smith in ogni caso. Chiunque sarebbe stato meglio di lei, anche quell’idiota di Treneglos.”
Ross annuì. “E posso assicurarti che lo è.”
“Appunto.”
In effetti tra lui e Demelza c’era stata una simpatia istantanea, il che lo aveva portato a pensare a tutto il tempo sprecato l’anno precedente a non conoscerla.
“Sì, in effetti mi è andata bene. A proposito, oggi si siede al tavolo con noi assieme alla sua amica.”
“E di grazia” incalzò George, seccato. “Saresti così gentile da dire anche come si chiama?”
Ross ridacchiò.
“Isla Wood. Se non erro è nell’orchestra con te. Strano che tu non ti sia mai accorto che passano sempre il tempo assieme.”
L’espressione sul volto di George si fece decisamente strana. La sua faccia passò dal solito pallore ad un colorito rosso piuttosto acceso, come se oltre alla sorpresa di quella rivelazione, stesse andando in fiamme.
“Che ti prende?” gli chiese, confuso da quella reazione così inaspettata.
George scosse il capo e cercò di tagliare corto. “Niente.”
Nemmeno Dwight riuscì a starsene zitto, e di solito era uno che non si impicciava mai.
“Potrei dire che sembravi scioccato. Oh mio Dio.”
Il su sguardo incontrò immediatamente quello di Ross, come se si fossero improvvisamente letti nel pensiero.
“Hai una cotta per lei!” esclamò Ross, cingendogli le spalle in una morsa d’acciaio, che nelle sue intenzioni doveva essere affettuosa.
“Non dire stupidaggini!” replicò George, cercando di scrollarselo di dosso. In realtà sembrava che più tentasse di giustificarsi e più il suo corpo si fosse coalizzato contro di lui per contraddirlo.
“Oh sì, guardalo! Guardalo come arrossisce!” rincarò la dose Dwight, con un sorriso sornione. “Lei ti piace!”
“Da quant’è che va avanti questa storia?” domandò Ross, fingendosi offeso che non si fosse confidato con loro. “Oh mio Dio! George il musone si è finalmente innamorato! E di una che non sia quella super simpaticona di Ruth Tegue...”
George aveva poche volte raccontato le sue avventure amorose ai suoi compagni di sempre. Una delle poche ragazze a cui aveva fatto cenno era stata proprio Ruth: l’aveva conosciuta ad un club di lettura, due anni prima, e aveva commesso l’errore di non chiederle mai il suo cognome. Un paio di mesi dopo, mentre flirtavano alle riunioni del club del libro alla biblioteca di Truro, George aveva fatto un’amara scoperta: Ruth era la figlia della professoressa Tegue, la sua insegnante di matematica. Lui era il suo prediletto, ed era certo che se anche l’avesse scoperto, la docente sarebbe stata addirittura contenta che frequentasse la ragazza.
Ma lui non poteva reggere una cosa simile.
Si erano baciati soltanto una volta e da quel momento si portava quella faccenda sulle spalle come un vero e proprio fardello. E poi, dopo che l’aveva raccontato ai suoi amici, sembrava che quella storia fosse diventata motivo per prendersi ulteriormente gioco di lui: non tanto Dwight, ma Ross e Francis avevano saputo essere davvero terribili quando la cosa era più fresca.
Una volta che lui e Ruth avevano scoperto quel dettaglio, non ce l’avevano fatta ad andare avanti. Tuttavia, George era convinto che, seppure le cose fossero proseguite, non sarebbero comunque durati. Anche lui proveniva da una famiglia ricca, ma Ruth era una snob di prima categoria.
“Piantatela” sbottò.
Isla era diversa. Era diversa da Ruth Tegue sotto tanti aspetti: era timida, non aveva quella tipica riservatezza fasulla che Ruth metteva su per attirare la sua attenzione. Isla era così e basta: era goffa, solare, e aveva un talento naturale a suonare il violino che lui si sarebbe soltanto sognato. Era bravissima, e forse sprecata per un’orchestra scolastica.
Era talmente speciale che George non aveva mai parlato di lei a nessuno. Provava un sentimento che era ben lontano da quello che aveva sentito per Ruth Tegue. Si era accorto di essersi innamorato di lei poco a poco, ad ogni chiacchierata alle prove, ad ogni sorriso che gli aveva rivolto  con dolcezza, anche solo per salutarlo, oppure ogni volta che aveva suonato il violino di fianco al suo violoncello.
Perché era così. George si era innamorato.
Fortunatamente la fila aveva iniziato a muoversi e questo gli aveva permesso di cambiare argomento, ma anche di dare un’occhiata a quello che era rimasto in esposizione: qualche trancio di pizza, un pentolone di maccheroni e formaggio, fish and chips, e frittata di spinaci. A guardare quest’ultima, Ross dovette trattenere un conato di vomito perché aveva un aspetto tremendo.
George sembrò leggerlo nel pensiero.
“Sbobba di bentornato! Benvenuti al vostro ultimo anno, dannati.”
Ross e Dwight non poterono fare a meno di sorridere, mentre finalmente potevano servirsi il pranzo. Entrambi presero un trancio di pizza e George i maccheroni al formaggio.
“Tu guardi troppi anime, George” gli disse Ross, mentre si avviavano verso il loro tavolo all’angolo.
“Ti sbagli. Io guardo troppo Attack on titan”.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo due
 
"Sono a casa!" 
Joshua Poldark si ridestò di scatto dalla poltrona di fianco al camino, che in quel periodo dell’anno, era ancora troppo presto per essere acceso. Guardò l'orologio appeso alle pareti di casa e si accorse che erano le cinque del pomeriggio e che aveva dormito un'ora buona, ma non importava: quel giorno aveva deciso di prendersi una pausa, visto che si era svegliato con una terribile emicrania che non se n'era venuta via dopo due aspirine, così aveva saltato il lavoro e si era goduto del meritato riposo in casa propria. Nell'ultimo periodo era stato così stressato che gli era venuta anche una brutta gastrite, che aveva cercato di curare con un'alimentazione corretta e con le giuste medicine: tuttavia servivano soltanto a dargli un po' di sollievo, perché non riusciva a dare un freno ai pensieri che gli affollavano la testa.
Una manciata di secondi dopo, suo figlio Ross sbucò dall'ingresso del salotto. Era un giovanotto alto, riccioluto e bruno: c'era chi diceva che fosse la sua copia sputata da ragazzo, e Joshua voleva crederci, anche se aveva sempre saputo che quella somiglianza tra tutti e due potesse attenersi soltanto ad un legame di tipo fisico. 
Ross era tutto quello per cui un genitore sarebbe dovuto essere fiero: era intelligente, caparbio, si sapeva far valere, aveva un senso della giustizia innato, e anche se era spesso un po' attaccabrighe e fumantino, era consapevole che fossero lati del carattere che col tempo e l'esperienza necessaria avrebbe affinato. 
Joshua voleva che Ross avesse tutto quello che lui non aveva avuto da ragazzo: aveva fatto del proprio meglio per dargli una casa confortevole, un'istruzione rispettabile, e quando sua moglie Grace era in vita, aveva cercato di regalargli una famiglia che fosse più amorevole possibile. Tuttavia, lui aveva avuto un padre piuttosto severo e più accondiscendente verso suo fratello maggiore Charles, quindi Grace era sempre stata più brava di lui in quelle cose. Ross aveva preso gli occhi di sua madre e in fondo, anche la sua tenerezza. 
Da quando era morta, un paio di anni prima, Joshua si era chiuso nel proprio dolore e Ross si era caricato delle responsabilità della casa già a sedici anni; mentre lui si era buttato invece a capofitto nell'azienda agricola che aveva avviato all'età di venticinque anni.
Joshua non voleva che suo figlio si privasse delle opportunità più succulente, ed era per questo che lo aveva spinto a fare quell'esperienza all'estero durante l'estate per imparare una lingua diversa. In realtà, Ross era tornato a casa che sapeva a malapena formulare un discorso in italiano, ma con quel suo tipico savoir-faire, suo padre aveva capito all’istante che doveva essersela comunque cavata e che il suo viaggio era stato certamente utile ed istruttivo. 
Era anche certo che da adulto, dopo aver studiato all'università, Ross si sarebbe sicuramente sistemato nei dintorni: non avrebbe mai lasciato la Cornovaglia, attaccato com'era alle sue radici.
Ma se c'era una cosa che voleva assolutamente negargli era l'eredità di quella sua azienda che, negli ultimi mesi, non rendeva più come una volta. Ross adorava la sua impresa: era cresciuto in mezzo alla natura e lui non aveva fatto obiezioni quando aveva insistito per lavorare di tanto in tanto al suo fianco, e aveva capito immediatamente che quell'attività scorreva nelle vene di suo figlio sin dalla nascita.
"Ehi papà" lo salutò, e lui fece appena un sorriso per contraccambiare. "Già di ritorno?"
Joshua si fece leva sugli avambracci della poltrona e si mise più dritto in poltrona. Si guardò attorno alla ricerca di Jud e Prudie, i due domestici, ma come immaginava non li trovò. Chissà dov'erano andati a cacciarsi...
"A dire il vero non sono andato a lavoro, quest'oggi" spiegò al figlio. "Non mi sentivo molto bene e ho preferito restare a casa e riposare."
Ross aveva raggiunto la poltrona di fronte a lui e si era seduto gettando lo zaino della scuola ai suoi piedi.
"Ti fa male ancora lo stomaco?" domandò preoccupato. "Forse dovremmo chiamare il dottore e chiedergli di prescriverti qualche nuova medicina..."
"No, tranquillo. Avevo un po' di mal di testa, ma con del riposo è passato. Avevo solo bisogno di passare una giornata a casa" cercò di rassicurarlo Joshua. "Allora, raccontami. Com'è stato il tuo primo ultimo giorno di scuola?"
Ross iniziò a raccontare la propria giornata: gli spiegò dell'arrivo della professoressa Tegue, del cambio di posti, di Demelza, di George che si arrabbiava con Keren Smith e poi dell'inaspettata cotta dell'amico per una ragazza dell'orchestra. Joshua ascoltò con un sorriso in volto, ma si accorse anche di come suo figlio evitasse accuratamente di parlare di Francis.
Un po', doveva ammettere, Joshua si sentiva in colpa. Aveva insistito lui che Ross facesse quel viaggio in Italia che aveva poi portato i cugini ad allontanarsi, ma doveva anche ammettere che, per quanto gli dispiacesse che i due ragazzi si fossero allontanati, Francis non si era affatto comportato bene. Era suo nipote, e figlio di suo fratello maggiore Charles, ma quel ragazzo aveva ben poco in comune con l'irruenza del padre.
Francis non sognava certo di ereditare l'attività del padre. I Poldark erano sempre stati abbastanza famosi in zona per la raffinazione dei materiali minerari, fatta eccezione per Joshua che aveva deciso di intraprendere una carriera differente e incanalare i propri sforzi in un'attività più salutare all'aria aperta. Una volta Francis gli aveva confidato di voler iscriversi alla facoltà di scrittura creativa al Cornwall College: Joshua aveva provato ad intercedere a favore del nipote e in risposta dal fratello aveva ricevuto una sonora risata. 
Sperava soltanto che il nipote avesse abbastanza fegato, un giorno, per imporsi al volere degli altri.
"E Francis?" chiese a Ross. "Sei riuscito a parlarci?"
Suo figlio sospirò. "No. Ci siamo ignorati tutto il giorno."
Ed era vero. A parte quel breve momento all'ingresso dai cancelli, Ross aveva visto Francis soltanto in classe. In mensa si erano persi di vista e anche all'uscita dalle classi, così non si era nemmeno sforzato di avere un confronto con lui.
"Capisco."
Joshua non replicò altro. Aveva lasciato parlare Ross, ma quella non sarebbe stata la sede e il momento giusto per parlare dell'improvvisa "rivalità" tra i due cugini. Si era preparato quel discorso tutto il giorno, ma ancora gli sudavano le mani e non sapeva come affrontarlo.
"Ross, devo parlarti" cominciò. "È importante."
"Che succede?"
Joshua ingoiò il groppo in gola e si prese qualche istante di pausa prima di confessare.
"L'attività non sta andando bene, per niente" tirò fuori velocemente. "Purtroppo le vendite del nostro raccolto non hanno reso come gli anni precedenti e ora mi vedo costretto a prendere delle misure necessarie."
Ross reagì esattamente come si aspettava: non si fece prendere dallo sconforto e lo invitò ad andare avanti.
"Una delle cose più ovvie da fare, sarebbe quella di licenziare Jud e Prudie, ma non me la sento" ammise. "In casa, pur collaborando a modo loro, sono ormai della famiglia. E hanno accettato di restare anche alla metà dello stipendio precedente, avendo a disposizione una camera tutta loro qui a Nampara."
Jud e Prudie erano i due domestici di casa, anche se definirli tali sarebbe stato un parolone. Erano entrambi sulla cinquantina e sin da quando Ross aveva ricordi di loro, era certo che non avessero mai davvero faticato in tutta la vita. Sicuramente ai loro occhi cercavano di sembrare il più affaccendati possibili, ma quei due, che erano una coppia, sfruttavano ogni occasione disponibile per oziare più che potevano. Suo padre li considerava amici e visto che lavoravano poco era giusto che ora, il loro stipendio, si adeguasse alle nuove finanze della famiglia.
Ross annuì comprensivo. "Potrei chiedere al signor Pascoe di riprendermi a lavorare part-time."
Joshua sorrise. Sapeva che suo figlio non sarebbe riuscito a restarsene con le mani in mano. L'anno scorso aveva cominciato a lavorare presso lo studio di un commercialista locale, il signor Pascoe, occupandosi di registrare le scartoffie al computer o di tenere in ordine gli appuntamenti con i clienti. Tuttavia, era ovvio che la sua paga non avrebbe di certo contribuito di molto a salvare la situazione.
Perciò scosse il capo.
"No. Se vorrai lavorare per il signor Pascoe, voglio che lo faccia per conto tuo. Non mi interessano i soldi che guadagnerai."
Ross annuì ancora. "Allora per l'università tenterò di vincere una borsa di studio. Mi impegnerò di più. Sono sicuro che potrei riuscire ad ottenerne una con il calcio. Che ne pensi?"
Joshua lo invitò a prendere un respiro. "Ross, figliolo, ti prego di calmarti. Ho avuto un'altra idea. Come potrai vedere... Nampara è diventata un po' troppo grande per noi due."
Nampara era stata la casa di Ross sin da quando era bambino. In realtà, era proprio nato in quella dimora: Grace aveva insistito per un parto in casa e il figlio era venuto fuori dopo un infinito travaglio notturno. Era stata la notte più lunga di tutta la vita di Joshua.
Aveva ereditato quella proprietà dal padre, mentre a Charles era spettato il pezzo di terra più grande, quello a Trenwith, eppure non avrebbe fatto a cambio con nessun'altra casa al mondo. 
Si trattava di un cottage di mattoni scuri di media grandezza, con l'edera rampicante che vi cresceva attorno, e che donava alla casa un non so che di selvaggio. Senza contare che, durante la notte, si poteva ascoltare il suono del mare in lontananza. Aveva lasciato scegliere a Grace l'arredamento e la sua amata moglie lo aveva adeguato allo stile della casa: per questo, da anni, mantenevano un mobilio che oscillava tra il rustico e il moderno senza cozzare con tutto il resto.
"Non intenderai mica vendere la casa!" esclamò Ross, punto sul vivo.
Joshua si affrettò a scuotere vigorosamente il capo.
"Ovviamente no! Dico solo che... ci sono alcune stanze vuote. Non abbiamo spesso molti ospiti e quindi... pensavo che potremmo affittarle."
Ross si bloccò, come se quella rivelazione lo avesse lasciato di sasso. Nampara aveva ben quattro camere da letto: una era di Ross, l'altra era di Joshua e le altre due erano destinate agli ospiti. In realtà, molti anni prima, Joshua e Grace le avevano fatte costruire perché speravano di avere una famiglia numerosa. 
Purtroppo, però, quel sogno non si era mai avverato.
"Abbiamo anche il mio studio. La mia camera da letto è molto grande: se spostassi la scrivania e i miei documenti lì, potremmo usare quello spazio come un'altra camera da affittare. C'è poi uno spazio in cucina dove i coinquilini potrebbero farsi da sé i pasti senza darci fastidio. Che ne pensi? So che l'idea di condividere la casa non ti fa impazzire, ma mi sembra una buona idea per arrangiare."
Ross continuò a restare zitto.
"Ma se a te non andasse bene, non lo farò."
Il ragazzo sembrò riscuotersi dal torpore e si decise a rispondergli.
"No, va bene. In fondo potrebbe trattarsi di una soluzione temporanea, giusto?"
"Esatto" replicò subito Joshua. "Al massimo un annetto, dopodiché credo che potremmo anche smettere di affittare le camere se le cose ruotassero per il verso giusto." 
Ross annuì, e da quel momento, si occupò personalmente di aiutare il padre in alcuni lavoretti per sistemare dei difettucci tecnici di Nampara. Sgomberarono il vecchio ufficio e comprarono un nuovo letto, poi riverniciarono e piazzarono dei mobili che in realtà erano inutilizzati e in casa stavano facendo soltanto polvere. In questo modo, potevano mettere in affitto ancora un’altra stanza.
Nella settimana che seguì, si occuparono anche di scattare diverse foto della proprietà, dei giardini e delle stanze che avrebbero ovviamente messo in affitto, a cui Prudie, la domestica, aveva voluto aggiungere della biancheria nuova per fare bella impressione.
Dalle foto sul sito di affittacamere, ecco come Nampara doveva apparire: come un antico e adorabile cottage di mattoni scuri in una zona un po’ periferica di Truro, da cui però si poteva raggiungere facilmente il centro in macchina o con una linea di autobus, la cui fermata era proprio a pochi passi dall’abitazione. Joshua insistette per aggiungere che da quel punto della casa, il mare si trovava a pochi passi e che, sia di giorno che di notte, ci si poteva lasciar cullare dal suono delle onde.
Un paio di giorni dopo, all’insaputa di Ross, Joshua prese contatti con una signora di nome Annie Berry e la invitò, su sua richiesta, a visitare il cottage. Non aveva detto niente a Ross perché, impegnato già con la scuola e con gli allenamenti di calcio, non voleva caricarlo di qualche aspettativa che sarebbe andata vana.
Annie Berry arrivò puntuale davanti al vialetto di Nampara, all’interno di una jeep blu, come se conoscesse da sempre la strada. Era una donna della sua stessa età, sulla cinquantina, ma si portava benissimo i suoi anni: anzi, avrebbe giurato che ne dimostrasse anche qualcuno in meno.
Aveva un abbigliamento che avrebbe definito nella norma – un jeans, una giacca di jeans scura e una borsa grigia – se non fosse stato per un fermacapelli piuttosto bizzarro, a forma di cigno, che le teneva ordinati i ciuffi dei suoi capelli castani ad un lato della testa: probabilmente, fu la prima cosa che saltò all’occhio di Joshua, perché Annie si accorse che il suo sguardo era immediatamente finito lì.
“Le piace? Lo so, è un po’ bizzarro come accessorio per capelli per una donna della mia età. Ma sa, uno dei miei figli, me lo ha fatto con le sue mani alla festa della mamma e qualche volta non riesco ad uscire senza, altrimenti si offenderebbe!” spiegò velocemente. Aveva una voce molto melodiosa, ma anche pratica, come se non si perdesse in convenevoli.
“La capisco. Ho un figlio anche io e so che bisogna stare attenti a tutto con loro, soprattutto quando sono adolescenti” disse Joshua. “Prego, entri pure. Le faccio strada dentro, e le mostro le stanze.”
Come già gli aveva accennato al telefono, Annie stava in realtà cercando una casa in cui stabilirsi con i propri figli, - tre per la precisione, due maschi e una femmina – ma il centro di Truro sparava spesso prezzi astronomici anche per un appartamentino 3x4 e il proprietario dell’attuale casa in cui viveva aveva deciso di vendere l’immobile ad un’impresa straniera, che, a sua volta, voleva sfruttare lo spazio in cui si trovava il suo condominio per costruirvi un albergo.
Joshua non ebbe cuore di dirle che in realtà quella soluzione delle camere per lui sarebbe stata temporanea, soprattutto dopo aver visitato l’intera casa e aver notato, con suo sommo piacere, che Annie fosse rimasta sinceramente colpita dalla condizione delle stanze. Ognuna di loro aveva una bella disposizione, una di esse aveva anche un bagno privato; anche se Joshua spiegò che non c’erano problemi a condividere quello principale.
“Non ho grandi problemi di soldi, non sono in bancarotta, insomma” ammise, con una nonchalance che stupì lo stesso Joshua. “Ma ho bisogno che i miei figli abbiano una sistemazione confortevole. In realtà, non sono proprio i miei figli, ma io li considero tali. Sono la loro tutrice legale, al momento.”
Joshua rimase estremamente sorpreso. Dopo averle fatto fare il giro della seconda stanza che avrebbe potuto lasciare ai figli maschi di Annie, la invitò a sedersi nel salotto di Nampara. Prudie preparò un paio di tazze di tè e poi servì un vassoio con alcuni cookies che certamente non erano stati preparati dalle sue mani tozze, ma provenivano direttamente da una confezione del supermercato.
Annie così raccontò tutta la sua storia a Joshua Poldark. Si erano piaciuti sin dal primo momento: le era parso un uomo buono e gentile, incapace di approfittarsi di lei o di altri clienti, lo capiva anche dal fatto che le condizioni della sua casa fossero esattamente come le aveva descritte sul sito di affitta-camere. Era un cottage antico e l’arredamento forse necessitava di una svecchiata, ma sembrava abbastanza grande e confortevole, e l’ideale per sé e per i suoi ragazzi.
Raccontò al proprietario di Nampara una piccola, ma fondamentale parte della sua vita, forse la più importante di tutte: era un’avvocatessa di successo che un paio di anni prima aveva ricevuto una promozione e si era trasferita per iniziare a lavorare in uno studio legale di Londra. Aveva trovato un appartamento in centro, proprio a pochi passi dal Big Ben, e il caso aveva voluto che diventasse la salvezza di tre ragazzi: una ragazza di sedici anni e due maschi di undici e nove anni. Spesso, di sera, sentiva la ragazza urlare contro un uomo, uno sicuramente più grande di lei, ma Annie non arrivava mai a capire cosa si dicessero per quanto le grida fossero incomprensibili.
Un giorno l’aveva incontrata finalmente sul pianerottolo di casa propria: era una ragazzina alta, magrissima – come se non mangiasse da giorni – e rabbiosa, con i capelli rossi sparati dappertutto e con gli abiti più sgualciti e rovinati che avesse mai visto, come se qualcuno non si prendesse cura di lei da molto tempo.
Ci era voluto del tempo per conquistarsi la sua fiducia, quella ragazza sembrava avercela con tutto il mondo e francamente, non la biasimava. Annie, per il suo fiuto di avvocato, aveva capito immediatamente cosa succedesse dietro le mura di quella casa e cosa i suoi vicini avessero sempre finto di non vedere e sentire.
Il padre di quei tre ragazzi era violento e tornava spesso ubriaco e scaricava la propria vita pietosa sui figli: Demelza, così si chiamava la ragazza, era la maggiore. Soltanto dopo aver compreso di potersi fidare di Annie, mesi dopo, le confessò che era rimasta orfana di madre da piccola e che già molti assistenti sociali erano passati a casa sua e che nessuno aveva mai fatto abbastanza per loro. Che spesso, quando sbraitava contro suo padre, era per spostare l’attenzione su di sé ed impedire che si accanisse sui suoi fratelli più piccoli, Sam e Drake. Così, molto spesso, la maggior parte degli schiaffi e delle botte le prendeva lei.
Quando Demelza glielo confidò, aveva un’occhiaia violacea che non lasciava molto spazio all’immaginazione e che aveva tentato, piuttosto goffamente, di nascondere con tonnellate di correttore: a quel punto, Annie si era immediatamente attivata e, in un momento di assenza di Tom Carne, il padre dei ragazzi, aveva spostato il necessario e i tre fratelli in casa propria.
La notte stessa era venuto giù il finimondo: Tom Carne aveva iniziato ad inveire contro la porta di casa sua, accusandola di aver rapito i suoi figli; e Demelza, Drake e Sam avevano cominciato a tremare di paura, ma per quanto Annie fosse impaurita da quella voce grossa e violenta dall’altra parte, non si azzardò mai ad aprire la porta, ma si mobilitò senza pensarci due volte a far venire degli agenti sul posto. Fu quella notte ad unire per sempre Annie ai tre fratelli Carne: la donna capì che non sarebbe mai più riuscita a separarsi da loro.
Tom Carne invece, ebbe la presunzione di credere che se la sarebbe cavata come al solito, che avrebbe passato la notte al fresco e tutto sarebbe tornato come prima, ma in realtà non poteva sapere di essersi messo contro la persona sbagliata.
I suoi ragazzi furono spediti in orfanotrofio, ma la loro permanenza lì dentro durò poche settimane: grazie alle sue conoscenze, Annie riuscì ad ottenerne la custodia affidataria e si occupò personalmente del loro processo. Tom Carne non rivide mai più i suoi figli e fu spedito in carcere, e quel giorno, in tribunale, lei, Demelza e i suoi fratelli scoppiarono a piangere tutti insieme.  
Un paio di mesi dopo, Annie decise di accettare un lavoro più lontano in un altro studio legale in Cornovaglia, a Truro: in questo modo sperava che, lasciandosi alle spalle Londra e Tom Carne, potesse regalare una nuova esistenza ai suoi ragazzi. Con l’aiuto di medici professionisti, di amore e di cura, riuscì nel suo intento: Demelza si era ormai integrata abbastanza bene alla Truro High School; mentre Drake e Sam avevano ancora gli incubi di notte, ma lentamente, sembrava che gli episodi stessero diminuendo.
Certamente, una vita intera passata a subire violenze e soprusi da un uomo che invece avrebbe dovuto prendersi cura di loro, non poteva essere cancellata con un colpo di spugna. Annie però stava facendo del suo meglio, visto che aveva amato quei ragazzi sin dal primo giorno come se fossero propri.
Al termine di quel racconto così assurdo, Joshua Poldark capì che avrebbero potuto presentarsi alla sua porta tutte le persone più perbene della Cornovaglia, ma lui non sarebbe riuscito a trovare nessuno che ne avesse più bisogno di Annie Berry e dei suoi ragazzi. Per questo le annunciò che, una volta parlato anche con suo figlio Ross, l’accordo sarebbe divenuto una pura formalità e che avrebbero potuto presto trasferirsi a Nampara.
* * *
Nella settimana in cui Ross e suo padre si erano preoccupati di apportare piccole migliorie alla casa, il suo nuovo gruppo si era andato rafforzando. Lui, George, Dwight, Demelza ed Isla ormai sedevano sempre allo stesso tavolo in mensa e avevano creato anche una chat di gruppo in cui non mancavano di chiacchierare sulle ultime novità a scuola, ma anche di inviarsi semplicemente stickers e meme divertenti.
Anche la sua amicizia con Demelza era già diventata più stretta, e passare le giornate accanto a lei era davvero piacevole; tant’è vero che aveva persino voluto condividere una loro fotografia su Instagram, a cui George aveva lasciato un commento talmente tanto divertente che aveva però scatenato l’ira della sua nuova compagna di banco, Keren Smith, e la sua ennesima scenata isterica:

- Mi fareste un po’ di spazio, per piacere? Sono sicuro che in tre riusciamo ad entrare in quel banco.

In maniera un po’ egoista, Ross aveva anche sperato che Elizabeth vedesse quello scatto e si ingelosisse, ma poi si era sentito uno schifezza nei riguardi di Demelza e aveva cercato di dare immediatamente un taglio a quei pensieri. Senza contare che, sicuramente, Elizabeth non aveva la più pallida idea di chi fosse Demelza.
Lui e Francis, nel frattempo, continuavano ad ignorarsi bellamente e non facevano troppa fatica a nasconderlo: l’unico che avesse mantenuto una parvenza di rapporto con lui era stato Dwight, ma era una persona talmente dolce e gentile che era l’unico a cui suo cugino potesse appigliarsi per mantenere un contatto col suo vecchio gruppo.
Ogni tanto Ross doveva ammettere che riguardava la vecchia chat di gruppo, quella che aveva con Francis, Dwight e George ed era assalito dalla nostalgia. Era inattiva da agosto: nessuno trovava ovviamente il senso di tornare a scrivere al suo interno.
E poi era difficile ritrovare un rapporto con il suo ex migliore amico quando, in mensa, gli capitava di veder arrivare Elizabeth mano nella mano con lui; o quando, con occhi innamorati, Francis le scoccava dei bacetti sul naso e sulla bocca.
“Potrei vomitare” aveva commentato una volta George al suo orecchio, quando lo aveva beccato a fissarli più del dovuto al tavolo della mensa: fu grato che in quel momento Dwight, Isla e Demelza non li avessero ancora raggiunti, perché era certo che sarebbe morto di vergogna a trovare una motivazione plausibile che lo giustificasse per aver fissato così intensamente Elizabeth.
Ross aveva riso, il suo rapporto con George era così, senza filtri. Ma in realtà aveva anche capito che, a modo suo, il suo amico stesse tentando di riportare la sua attenzione da un’altra parte. George, a differenza di Dwight, si era schierato dalla sua parte, anche se non lo aveva detto esplicitamente.
Anche per lui si preannunciava un anno piuttosto particolare ed intenso. Aveva ripreso le prove dell’orchestra ed era consapevole che sin dalle prime battute si sarebbe già parlato dello spettacolo di Natale. Solitamente, ogni anno, orchestra e coro si preparavano senza sosta per due grandi occasioni: il concerto natalizio e lo show di fine anno, ma generalmente lo spettacolo invernale restava quello più importante tra i due.
Il professor Henshawe dirigeva l’orchestra da molti anni e teneva ai suoi ragazzi più di qualunque altra cosa al mondo. Si vedeva che svolgesse il suo lavoro con passione: era sempre a disposizione di tutti e cercava di intervenire qualora uno studente avesse delle difficoltà e il suo aiuto poteva essere anche in minima parte decisivo.
George e gli altri ragazzi del coro, sapevano anche che, grazie alle sue conoscenze, poteva permettersi di segnalare gli allievi più promettenti dell’orchestra per importanti borse di studio in scuole di musica del territorio o anche più lontane. Generalmente si rivolgeva a quegli studenti che, entro un anno o due, si sarebbero diplomati.
George non si aspettava certo di sentire il suo nome, tra le file di prediletti di Henshawe. Sapeva di essere un bravo violoncellista e che quello strumento sarebbe rimasto la sua passione per molto altro tempo ancora, ma aveva ben altri progetti dopo la scuola superiore: desiderava studiare economia all’università e poi prendere tra le redini la direzione della banca Warleggan, proprio come suo padre.
Il signor Warleggan era morto quando George aveva solo dodici anni, ma aveva fatto abbastanza in tempo a trasmettergli l’amore per il suo lavoro e per i numeri, e sin da quando era ragazzino, suo figlio non aveva mai desiderato fare nient’altro nella propria vita. Per ora, a gestire la direzione della banca, c’era sua madre Lily, una donna molto attiva nella comunità di Truro, intraprendente e caparbia, che non aveva niente da invidiare al marito. George aveva un buon rapporto con lei, se non fosse che era spesso fin troppo appiccicosa e affettuosa.
Quando aveva iniziato le prove quell’anno, era completamente sicuro che Isla sarebbe stata scelta da Henshawe come una delle allieve da segnalare agli esaminatori di importanti università di musica. Era certo che nella sua vita, quella ragazza, non potesse far altro che vivere di quello: suonava ogni brano come ne andasse della sua stessa esistenza e ormai si muoveva praticamente in simbiosi col proprio violino.
George aveva capito di essersi innamorato di lei quando, l’anno scorso, aveva suonato un assolo allo spettacolo di Natale. Subito dopo lo show, era dovuto correre nei camerini per asciugarsi gli occhi visto che si era commosso. Aveva sempre avuto una cotta per lei, forse già da prima, ma quell’evento lo aveva reso soltanto più consapevole.
Se non altro, doveva ammettere che da quando sedeva al tavolo con lei e Demelza in mensa, questo li aveva aiutati ad avvicinarsi. L’anno precedente erano sempre andati d’accordo e sembrava che Isla gradisse davvero chiacchierare con lui.
Una settimana dall’inizio della scuola, Henshawe fece il suo nome e quello di Isla e chiese che restassero anche dopo la fine delle prove per poter parlare. Di solito, quando diceva così, poteva significare due cose: o che avessero combinato qualche guaio e George ne dubitava; oppure che rientrassero, per così dire, tra i prescelti. Era questa la nomea che si appiccicavano addosso gli studenti che riuscivano ad ottenere delle raccomandazioni da parte di Henshawe.
Sia lui, che Isla, rientravano tra i pochi allievi dell’orchestra che si sarebbero diplomati alla fine dell’anno: la ragazza gli lanciò uno sguardo emozionato e felice e George rimase invece distratto per quasi la maggior parte del tempo, pur suonando abbastanza bene la sua parte in White Christmas.
L’aula per le prove si svuotò intorno alle cinque e mentre raccoglieva con calma i suoi spartiti, non si accorse che Isla gli si era avvicinata. Aveva già riposto velocemente le sue cose nel suo zaino e il violino all’interno della sua custodia.
“Non sei nervoso?” gli domandò fremente. Era chiaro che entrambi fossero consapevoli che il loro insegnante di musica volesse proporre ad entrambi una prospettiva post-diploma in ambito musicale.  
“A dire il vero non me lo aspettavo.” ammise George, ancora sotto shock.
Henshawe dava ad entrambi le spalle e le sue mani emettevano tutto un fruscio di fogli, segno che stesse cercando qualcosa all’interno della sua valigetta di lavoro.
“No? Davvero?” fece Isla incuriosita. Quel giorno indossava una maglietta a righe bianche e blu e una gonna scozzese, ed era così carina che a starci troppo vicino George correva il rischio di arrossire come quella volta che in mensa, una settimana prima, Ross aveva scoperto della sua cotta per lei.
In realtà non fece in tempo a risponderle perché Henshawe si voltò in quell’istante verso di loro e li raggiunse. Aveva un viso rotondo e gentile, capelli ricci e scuri e delle labbra abbastanza sottili che si aprivano quasi sempre in un sorriso cordiale. George lo conosceva dal suo primo anno di superiori, e non l’aveva mai visto davvero arrabbiarsi con qualcuno.
“George, Isla. Immagino sappiate perché vi ho fatto restare qui dopo la fine delle prove. Quest’anno vi diplomate, giusto?”
Entrambi annuirono, incapaci di aggiungere altro. George perché era sconvolto, Isla perché era nervosa ed emozionata.
“Bene. Sono riuscito ad ottenere un’opportunità incredibile per entrambi. Credo siate quelli che possano davvero ambire a questa borsa di studio, almeno voi dell’orchestra. Ho deciso di segnalare anche una persona del coro.”
“Una... borsa di studio?” domandò George, incerto.
Henshawe fece un cenno positivo con la testa e il suo sguardo si spostò da lui ad Isla.
“Vedila come una prima opportunità, Isla. Questa però è più diretta. Potresti dire a George dove ti sarebbe piaciuto iscriverti dopo il liceo?”
Isla rimase a bocca aperta, come se non potesse credere che avrebbe pronunciato quella parola ad alta voce.
“La... la Juilliard?”
George sgranò gli occhi. La Juilliard era una delle scuole statunitensi più importanti per le arti, la musica e lo spettacolo. Pochi eletti avevano l’onore di essere ammessi alle selezioni e certamente non dei ragazzi che abitavano addirittura in Cornovaglia.
“Sul serio? La Juilliard?!” sbottò George.
Henshawe annuì, stupito da quella reazione tanto inaspettata da parte di un suo allievo. Un altro, probabilmente, sarebbe esploso di gioia a quell’opportunità. Lui invece ne sembrava terrorizzato.
“Sì, la Juilliard, George. Ho dovuto faticare un po’, ma sono riuscito a mettermi in contatto con alcuni esaminatori e si sono resi disponibili per venire allo spettacolo di Natale e, se resteranno colpiti, offriranno una borsa di studio ad uno dei tre allievi che ho segnalato.”
George dovette sedersi di nuovo al suo posto, perché la notizia rischiava quasi di fargli perdere i sensi. Isla invece, eccitata, aveva iniziato a muovere freneticamente i piedi sul posto.
“Non ci credo professore, grazie! Che opportunità pazzesca! La Juilliard è il mio sogno sin da bambina.”
George lanciò uno sguardo ad Isla. Vederla quasi commossa, fino alle lacrime, smosse qualcosa in lui: eppure, nonostante l’incredibile occasione, non riusciva a reagire alla stessa maniera. Si sentiva invece profondamente confuso e sperava che Henshawe lo comprendesse e che non pensasse che fosse un ingrato. Non capiva perché il professore avesse fatto il suo nome, ma sicuramente doveva esserci una spiegazione.
“Perché io?” chiese, con una voce così bassa che quasi non si sentì.
“Perché?” ripeté l’insegnante, confuso a sua volta. “Perché sei bravo e te lo meriti. E questa è un’opportunità che non voglio che tu ti precluda.”
George fece per rispondere, per dirgli che non aveva mai sognato questo, ma fu grato che il professore lo interrompesse. Perché quello che disse successivamente, lo sconvolse ancora di più.
“Isla, George. Vorrei che portaste un brano assieme per lo spettacolo di Natale. Siamo un po’ tirati sulla scaletta, e la vostra audizione alla Juilliard si baserà su un vostro duetto musicale. Vorrei che foste voi a scegliere una canzone natalizia su cui lavorare e ad assegnarvi a vicenda le parti. Siete bravissimi e sono sicuro che saprete lavorare assieme perfettamente.”
Henshawe disse qualcos’altro, ma qualunque cosa fosse, George non riuscì ad ascoltare più niente. Uscì da quell’aula in fretta non appena il professore glielo permise, forse Isla lo stava persino chiamando, ma lui non la sentì. Quando rientrò in casa, sua madre non era ancora rientrata dal lavoro e tutto era silenzioso. Persino il suo respiro divenne rumoroso in quella enorme villa.
Salì al piano superiore, gettò lo zaino in un angolo della sua camera e si buttò sul letto a faccia in giù, come se non riuscisse a fare altro. Sarebbe riuscito a nascondersi tra le pieghe del suo cuscino?
Henshawe aveva appena spazzato via tutte le sue certezze, tutto quello in cui aveva sempre creduto. La sua proposta in effetti lo aveva spiazzato, ma come poteva rifiutare un’occasione simile?
Mentre mugugnava con la faccia nella federa, un miagolio lo costrinse a voltarsi dietro di sé. Ai suoi piedi, dopo essersi arrampicato sul letto, si era appollaiato il suo gattino dal pelo nero, Sirius. Era ancora un cucciolo e lui e sua madre lo avevano adottato appena due mesi prima.
“Ciao, Sirius” disse imbronciato, alzandosi quel tanto che bastava per lasciargli una dolce carezza sulla testolina. Il micino sembrò accorgersi del suo umore perché si rannicchiò di più a lui come a volerlo coccolare e consolare.
“Che casino questa giornata” sospirò.
Restò su quel letto per un buon quarto d’ora, accarezzando Sirius e riflettendo se trovare o meno un’occasione per chiacchierare con Henshawe di quella situazione, per vederci più chiaro, come se la situazione non lo fosse già abbastanza. Ma i compiti iniziarono a reclamarlo dal fondo del suo zaino, e anche il suo cellulare prese a vibrare in una delle tasche dei suoi jeans. George lo sfilò, pensando che fosse sua madre che volesse assicurarsi che fosse a casa, ma il suo cuore invece, per la cinquantesima volta in quella giornata, gli arrivò in gola.
Era un messaggio da parte di Isla.

- Ehi George, scusami se ti disturbo
- Possiamo parlare?


George sospirò.
Guardò per un attimo la foto profilo di quel mittente. Aveva già visitato tante volte il profilo Instagram di Isla e aveva scoperto delle passioni che avevano in comune: la lettura, gli anime, i fumetti e anche i cosplay. Nella sua foto profilo, però, Isla indossava soltanto una semplice camicetta azzurra, i suoi capelli erano stirati alla perfezione e le ricadevano morbidi dietro la schiena.
Era una vecchia foto perché ora, li portava più corti.
Ma lui non smetteva di trovarla comunque incantevole.

- Ehi, Isla.
- Certo che possiamo parlare.



 


 



Angolo dell’autrice
Ehilà! Eccomi di ritorno con questo secondo capitolo. Ho un po’ di tempo libero in questi giorni, quindi ne sto approfittando; e dato che sono ispirata, scrivo ogni volta che posso.
Devo sottolineare un po’ di cose, quindi me le appunterò per non scordarle:
  • Vi ho lasciato due collage: uno è con l’attrice che mi sono immaginata nel ruolo di Annie. Si tratta di Olivia Coleman, e quando l’ho vista recitare nella serie tv di Heartstopper, mentre mi frullava già in testa l’idea di questa ff mi sono detta... no, è proprio lei il prestavolto che sto cercando per Annie! Il secondo collage invece riguarda Isla, altro personaggio inventato da me (come vi ho già detto, si tratta della mia protagonista della ff L’istitutrice e mi era piaciuta talmente tanto che ho voluto inserirla anche in questa storia) e come prestavolto ho scelto invece la bellissima Jenna Coleman, attrice di punta della serie tv Victoria. Anche nell’altra ff me la sono immaginata con il suo volto. Vi annuncio che troverete spesso collage all’interno delle mie storie, mi piace proprio realizzarli!
  • In questa storia saranno presenti un po’ di personaggi inventati, ovviamente necessari ai fini della trama. Annie era fondamentale perché, al di là del passato tragico dei fratelli Carne, volevo che Demelza, Drake e Sam avessero finalmente la loro pace e la loro famiglia.
  • Ho voluto che in questa storia George avesse una mamma: ho un’idea ben precisa di lei, e vi assicuro che ci sarà da ridere, quando comparirà sulla scena!
  • Per quanto riguarda il post-diploma che ho immaginato per i personaggi, so bene che alcune borse di studio nella realtà coprono soltanto una parte delle spese, ma qui ovviamente, essendo una ff, possiamo anche cambiare un po’ le cose.
Sto cercando di fare del mio meglio per restare IC con i personaggi, soprattutto con George, che in questa mia ff non poteva essere malvagio come nella serie principale. Quindi ho cercato di mantenere il più possibile alcune peculiarità del suo carattere, e spero che non sia risultato troppo OOC nella seconda parte in cui risulta scioccato dalla prospettiva della borsa di studio o quando ammette a se stesso il suo ammmmore per Isla.
Vi abbraccio e aspetto i vostri pareri,
Lady Warleggan

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo tre
 
Isla non era mai stata una persona istintiva. 
Aveva sempre ponderato bene le sue scelte, sin da bambina: le veniva più facile riflettere che agire d'impulso, anche se sapeva che spesso e volentieri era l'istinto ad avere la meglio. Ma aveva sempre avuto troppa paura delle conseguenze per rischiare tutto.
Forse aveva preso quel lato del suo carattere da entrambi i genitori: sua madre era ora manager di una boutique di Truro, suo padre un commercialista. Di certo erano due lavori che richiedevano una buona dose di accortezza e buon senso.
Quel messaggio che aveva inviato a George si sarebbe invece potuto considerare una delle poche cose impulsive fatte di sua spontanea volontà. 
Nell'anno precedente, quando era arrivata dalla Scozia e si era trasferita a Truro, in Cornovaglia, George era stato una delle poche persone gentili dell'orchestra ad avvicinarsi a lei. Alcuni, i primi tempi, avevano persino deriso il suo accento scozzese molto marcato: all'inizio era stato difficile abituarsi a quella cattiveria gratuita - Isla aveva pianto tanto e spesso, abbracciata ad entrambi i genitori -, col tempo però aveva semplicemente imparato a lasciarsi scivolare di dosso le battute infelici e i bulletti della situazione, di fronte alla sua indifferenza, dovevano aver pensato che non fosse più divertente sfotterla e ci avevano dato finalmente un taglio.
Il suo accento non era certo qualcosa di cui dovesse vergognarsi: Isla era sempre stata fiera di essere scozzese, per lei quella caratteristica era motivo di orgoglio.
E poi, dopo Demelza, c'era George e lui era gentile. Quando quei bulletti avevano cominciato a prendersi gioco di lei, lui si era schierato in prima linea al suo fianco: ogni volta che erano assieme, giravano sempre a largo e la lasciavano in pace; mentre quando lui non era nei paraggi, ne approfittavano per prenderla in giro tutto il tempo. George le diceva sempre di venirgli a riferirgli tutte le volte che qualcuno la infastidisse, ma Isla non lo aveva mai fatto: voleva imparare a difendersi da sola e, qualche tempo dopo, anche lui lo intuì e questo sembrò consolidare ancora di più il suo interesse nei suoi riguardi. 
Isla aveva già notato George alla prima prova con l'orchestra, alla Truro High School: in primis perché era un bel ragazzo, e poi perché era uno di quelli che se ne stava sempre sulle sue, e quella era una cosa che sentì tanto affine al suo carattere. George non parlava molto, ma aveva l'abitudine di farlo soltanto quando la sua opinione era necessaria o quando ne aveva le scatole talmente piene da essere costretto ad alzare la voce. 
Era tutto fuorché una persona timida: sapeva infatti essere pungente. Riservato era un aggettivo che lo avrebbe sicuramente descritto meglio: non aveva nessun amico nell'orchestra, ma qualche volta lo aveva visto gironzolare per la scuola assieme ad altri tre ragazzi che conosceva soltanto di nome e di vista: Ross e Francis Poldark (probabilmente i cugini più popolari di tutta la scuola) e Dwight Enys, un ragazzo adorabile del penultimo anno che tutti sapevano essere un genio in ogni materia. Era anche per questo che Isla si era davvero stupita di vederli assieme a Demelza.
Buona parte dell'orchestra, almeno in principio, aveva accolto il suo arrivo come una ventata d'aria fresca: la Truro High School rientrava in una circoscrizione territoriale piuttosto rurale ed isolata, dove non accadeva quasi mai nulla di nuovo, e perciò avevano mostrato tutti un interesse per lei. Poi il clamore dell'inizio si era placato, ed Isla si era inaspettatamente trovata più sola di quanto si aspettasse.
Perciò non riuscì a capire perché George si fosse avvicinato a lei più degli altri, se lo stesse facendo per pietà o per un vero interesse nei suoi confronti. 
Isla però si sentiva troppo sola per permettersi il lusso di porsi quelle domande. Ai corsi non aveva stretto granché amicizia con nessuno e la rabbia nei confronti di suo padre era cresciuta a dismisura: era per colpa sua se si trovavano in quella situazione e se il suo lavoro li avesse costretti a lasciare una città e una scuola in Scozia che aveva amato molto. 
George le si avvicinò al termine di una prova, e con una nonchalance pazzesca, le chiese se le andasse di prendere un caffè assieme, o qualunque altra cosa volesse: da quel momento, fu sempre gentile e cordiale con lei, la difese spesso durante l'anno precedente dai gruppi di bulletti, e col passare dei mesi, poté persino ritenerlo un suo amico. 
Avevano molte cose in comune: l'amore per la musica, gli anime e i cosplay, e una volta si erano ritrovati a parlare per un'ora intera dell'ultima puntata di Attack on Titan senza rendersi conto che la campanella aveva suonato da cinque minuti buoni e che le lezioni erano riprese. Si erano beccati un pomeriggio in punizione, ma questo aveva soltanto rafforzato ulteriormente la loro amicizia.
E così, da un momento all'altro, anche Isla si era innamorata. E lo aveva confidato a Demelza, la sua unica amica in quella scuola: si erano trovate subito dopo aver scoperto di essersi entrambe trasferite da poco. 
Da quando poi le aveva confessato della sua cotta per George, la ragazza dai capelli rossi le aveva promesso di captare qualunque informazione possibile, dato che il ragazzo era nella sua stessa classe. L'unica cosa di cui sembrava abbastanza certa, era che fosse single, ma Isla non sapeva quanto esserne sicura visto che George era, appunto, una persona molto riservata. E non permetteva di capire granché della sua vita privata.
Da quando faceva parte dell'orchestra scolastica, non gli aveva mai scritto un messaggio in privato, ma ora che aveva trovato il coraggio per farlo, il suo cuore non le stava dando pace. Si sarebbe voluta sotterrare dall'imbarazzo e credette di restarci secca quando, sull'icona della chat con George, comparve la dicitura: sta scrivendo.
Isla si portò una mano al petto, come se quello potesse aiutarla a calmarsi. Le era venuto spontaneo mandargli quel messaggio: aveva visto tante volte quel profilo di George sui social, dove pubblicava molto poco, quasi come se non avesse nemmeno Instagram. Isla, invece, era molto attiva: le piaceva scattare fotografie, ma soprattutto immortalarsi con i suoi cosplay di fronte all'obiettivo. 
Il suono di una notifica la riportò con gli occhi allo schermo. George aveva risposto con due messaggi.
 
- Ehi, Isla.
- Certo che possiamo parlare.

 
Con le dita che tremavano, Isla cercò il numero del ragazzo in rubrica. Far parte del gruppo dell'orchestra scolastica aveva i suoi vantaggi: e poter salvare il numero del ragazzo che le piaceva senza fare alcuno sforzo, era sicuramente fra quelli. Anche in quella chat, George non scriveva praticamente mai. Isla pure: molti ragazzi dell'orchestra sapevano essere davvero degli idioti.
Schiacciò sull'icona della chiamata e portò il cellulare all'orecchio. Aveva pensato che sentire la sua voce fosse molto più semplice che parlare attraverso dei messaggi, ma, mentre sentiva squillare dall'altra parte del telefono, si era già pentita di quella scelta.
George rispose dopo un paio di squilli.
"Ehi, mi hai chiamato?" chiese, come se non se lo aspettasse.
Isla strinse le dita di una mano attorno al bordo della sua scrivania, come se avesse paura di cadere a terra.
"Ehi, George. Ho pensato che fosse molto meglio così che parlare con dei messaggi."
Lui non disse niente per qualche secondo.
"D'accordo. Che volevi dirmi?" domandò pratico.
Isla sospirò. "Va tutto bene? Oggi sembravi sconvolto dopo le prove."
George si prese un'altra pausa. Una pausa che però, a differenza di quella precedente, sembrava non finire mai: pareva quasi che dall'altra parte fosse caduta la linea.
"Ehi, ci sei?" domandò per accertarsi che fosse ancora lì.
"Sì, scusa" rispose in fretta. "Credo sia tutto a posto. È che... non mi aspettavo un'opportunità del genere da parte di Henshawe. Non mi era mai passato, neanche per l'anticamera del cervello, che potesse prendermi in considerazione."
"Non sapevo fossi interessato alla Juilliard anche tu."
"Non lo sono mai stato, infatti." E dal tono che usò, la ragazza capì che era sincero. George, in realtà, era sempre sincero. "Non che contro di te avrei comunque delle speranze."
"George..." mormorò Isla, stupita.
"Non sto mentendo. Sono un bravo violoncellista e non ho mai avuto dubbi che la musica resterà una delle mie più grandi passioni anche dopo la scuola, ma tu... tu hai semplicemente un dono." 
Accorgendosi che Isla non avrebbe replicato nulla, forse incapace di articolare una risposta di senso compiuto, George proseguì. "Hai un talento naturale. Una cosa che io, in nemmeno altri dieci anni di studio, riuscirei a comparare. Ho ancora in mente il tuo assolo di violino dell'anno scorso."
George arrossì al pensiero di aver davvero detto una cosa del genere. Per lui, quell'ammissione, era la cosa che più si poteva avvicinare ad una dichiarazione d'amore. Ovviamente non troppo esplicita da esporsi ed incappare in un rifiuto.
"George... " Isla sembrò sconvolta dall'altra parte della cornetta. Aveva capito che lui avesse parlato con sincerità, ma anche con l'intento di farle un complimento. Poco dopo, lui la sentì ridere un po' imbarazzata e la cosa lo sorprese. "Così mi farai arrossire."
"Ho solo detto la verità" ribadì, non riuscendo a trattenere anche lui un sorriso.
E non era un tipo che sorridesse molto.
"Anche tu sei molto bravo. Scusami se non te l'ho mai detto."
Anche se non poteva vederlo, Isla poté giurare di sentirlo scuotere il capo dall'altra parte. Lo pensava davvero: era una delle poche persone dell'orchestra per cui provasse non solo una stima personale, ma anche artistica.
"Hai ragione, sono bravo, ma non abbastanza da essere ammesso alla Juilliard. E comunque, anche se ci riuscissi, lascerei il mio posto a te."
"George, non puoi!" esclamò la ragazza contraria, dall'altra parte della cornetta. "Non sarebbe giusto."
"Isla... sta' tranquilla. Non si presenterà nemmeno una situazione simile, posso assicurartelo. Non so chi sia l'altra persona del coro che Henshawe vuole selezionare per l'audizione alla Juilliard, ma tu sei già uno scalino sopra di me. Non ho mai avuto intenzione di diventare un violoncellista professionista."
Isla sembrò sorpresa. "Davvero?"
"Sì. Ho sempre voluto diventare un banchiere, come mio padre. In molti considererebbero questo lavoro noioso, ma non io" rispose George.
Isla si era trasferita appena un anno prima, ma conosceva perfettamente il ruolo di spicco che aveva la banca Warleggan nella comunità di Truro. Era gestita da una donna incantevole, Lily Warleggan, sua madre la incontrava spesso per bere un caffè prima di recarsi a lavoro ed erano diventate in poco tempo buone amiche. Si vedevano per andare a messa assieme tutte le domeniche e Isla l'aveva sempre considerata una donna incredibilmente intelligente e caparbia.
Tuttavia, chissà perché, non aveva mai associato il fatto che potesse essere la madre di George. Si sentì una stupida per non essersene resa conto.
"Quando ero piccolo, mio padre mi parlava con talmente tanto entusiasmo del suo lavoro che non ho mai desiderato fare altro. Lui e mia madre sono sempre stati una coppia vincente e ho appreso tutto quello che potevo da loro."
"Capisco. E quindi... considerare un'altra prospettiva sarebbe come tradirli?" azzardò a chiedere Isla.
"Più o meno" fece George. "Mi sento solo incredibilmente confuso."
Isla si sedette alla sedia alla sua scrivania, più rilassata. Parlare con George era semplice.
"Credo di capirti. Sogno la Juilliard da quando sono bambina, e anche se ho considerato altre scuole di musica qui attorno, a cui ho già fatto domanda, non credo sarebbe la stessa cosa."
George prese la sua ennesima pausa dall'altra parte del telefono. Poi Isla, lo sentì sorridere.
"Ci entrerai, te lo assicuro. Fidati di me."
Mi fido. 
Ecco cosa Isla avrebbe voluto dirgli se avesse avuto più coraggio.
"Sei bravissima" aggiunse ancora.
"Ti prego. Sto diventando paonazza con tutti questi complimenti."
Lui rise dall'altra parte. Isla adorava che stesse sorridendo per merito suo.
"Vorrei vederti."
George si portò una mano alla bocca. Non poté credere che gli fosse davvero uscita una frase del genere. Si era esposto, anche fin troppo, persino con quella piaga di Ruth Tegue non si era mai spinto a tanto.
Isla dovette di nuovo aggrapparsi al bordo della sua scrivania.
"Anche io."
La seconda scelta impulsiva della giornata.
Un record, praticamente.
La linea si riempì di un silenzio assordante. I due si erano già detti tanto, senza dirsi niente. George fu animato anche da quella piccola speranza: doveva far qualcosa.
"Ascolta, venerdì prossimo si entra più tardi per l'assemblea dei professori" cominciò.
"Sì" mormorò Isla.
"Potremmo vederci al Red Lion verso le 8 e iniziare a discutere del brano che dovremmo suonare assieme. Che ne dici? Lo conosci il locale? Si trova a pochi passi dalla scuola."
"Sì, sì. Lo conosco. Ci passo sempre ogni mattina per colpa di Demelza" confessò Isla, con una nota divertita nella voce. "Quella ragazza si sfonda di paste al cioccolato senza mettere su un grammo."
George sorrise dall'altra parte. "Allora? Ci stai?"
"Va bene. Ci sto."
"Allora restiamo così."
"Senti..." 
"Sì?"
"Devi già andare?"
Il ragazzo guardò lo zaino da cui i libri lo stavano iniziando a pregare. Ma li ignorò. Non aveva molti compiti da svolgere e poteva recuperarli anche dopo cena. Accarezzò la testolina di Sirius, che nel frattempo, si era appisolato ai suoi piedi, sul letto.
"No."
"Allora ti va se parliamo dell'ultimo episodio di Attack on Titan? Perché credo che potrei sclerare se non ne parlo con qualcuno."
George rise. "Ok, va bene."
* * *
Ross Poldark ne aveva viste di robe assurde nella sua vita, ma quella, sicuramente, le batteva tutte: con la storia dell'affitto delle camere, suo padre gli aveva parlato di una madre single con tre figli che alla fine desiderava addirittura prendere tutte e tre le stanze (in pratica, in totale, la cifra era al pari di un normale affitto di un appartamento di Truro) e la sua storia era talmente inverosimile che Ross quasi aveva stentato a crederci.
Così, quando suo padre aveva fissato un nuovo incontro con Annie Berry e i suoi figli, Ross non aveva preso impegni per poter essere presente. In realtà, anche se aveva espresso delle perplessità sulla reale esistenza di una persona tanto incredibile come lei, aveva già capito dallo sguardo del padre che la decisione era stata presa da molto tempo: Nampara si sarebbe popolata di nuovi inquilini più presto di quanto si aspettasse.
Un sabato mattina, la jeep blu di Annie arrivò nuovamente a pochi passi dal vialetto principale. Ross studiò da lontano le figure che scendevano lentamente dall'auto, ma soprattutto una: difficilmente, da quelle parti, si vedevano chiome rosso fuoco come la sua. Demelza, altrettanto scioccata, studiava Ross con una faccia sbigottita. Si stringeva nella sua giacca di pelle a seguito di una giornata che si annunciava ventosa e piovosa.
Dalle portiere posteriori invece, vennero fuori due ragazzini: dovevano essere Drake e Sam, i fratelli minori di Demelza. Erano praticamente ancora due bambini.
Avevano colori completamente differenti da quelli della sorella: i capelli di entrambi erano di un color marrone scuro e solo uno dei due aveva degli occhi molto simili a quelli della sorella maggiore. Erano di corporatura mingherlina, ma sembravano preannunciarsi alti come lei.
"Annie, bentornata!" la salutò cordialmente Joshua, superando il figlio all'ingresso.
Ross e Demelza, nel frattempo, erano troppo impegnati a guardarsi. Mentre Joshua si presentava anche ai piccoli della famiglia, i due fecero la cosa più sensata che riuscissero a fare in quel momento: scoppiarono a ridere.
I presenti li fissarono senza capire.
"Che succede?" chiese Annie stupita.
Ross finalmente si decise ad avanzare verso di lei. Le porse la mano e il sorriso gentile che rivolse alla donna la conquistò all'istante: Annie Berry aveva già deciso che Ross Poldark le piaceva. E, viceversa, anche lui capì successivamente perché suo padre fosse rimasto così affascinato da una donna come lei: era cortese ed educata nei modi, aveva uno splendido sorriso coinvolgente, e quello che sembrava essere un carattere brillante e divertente.
"Io e Demelza ci conosciamo già" ammise. In effetti, non aveva senso omettere quel particolare. "Siamo compagni di banco."
Annie si voltò imbarazzata verso la ragazza, che annuì per confermare il racconto di Ross Poldark. In realtà non potevano permettersi, a quel punto della loro ricerca, di rifiutare Nampara. Era il meglio che avessero trovato a buon mercato e la scadenza per il trasferimento si stava pericolosamente avvicinando e loro dovevano muoversi a spostare gli scatoloni dal vecchio appartamento.
Tuttavia, osservando attentamente Demelza, Annie capì che quella convivenza non doveva per forza prendere una brutta piega. Sembrava scioccata di quanto piccolo potesse essere il mondo, ma in effetti, sarebbe potuta andare peggio. I Poldark non avevano neanche l'aria di due padroni di casa: sembrava che avessero, sin dall'inizio, l'intento di trattare Annie e i suoi ragazzi come membri della loro famiglia.
"Ah, quindi sei tu, la famosa Demelza!" esclamò Joshua, stringendole le mani.
Annie, in realtà, col suo racconto, gli aveva già parlato della figlia maggiore, ma nei giorni successivi aveva scordato quel nome e non gli era venuto da associare che quella ragazza potesse essere la compagna di classe di suo figlio. O anche soltanto che lui potesse conoscerla.
"Che bello incontrarti!" disse entusiasta. "Mio figlio parla sempre di te!"
"Papà!" lo ammonì Ross, tossicchiando a disagio.
Demelza continuò a ridere, non poteva farne a meno, e anche Annie sembrava godersela sotto i baffi. I due ragazzini sembravano gli unici ad essere i più confusi di tutti.
Quando entrarono all'interno della casa, dopo aver fatto fare un giro veloce anche ai tre fratelli, Prudie servì the e succhi di frutta per gli ospiti, e l'apple pie che Joshua aveva voluto preparare lui stesso: si trattava di una delle vecchie ricette della sua Grace, una delle poche che sapesse mettere in pratica senza mandare a fuoco l'intera cucina. La torta aveva un aspetto a dir poco delizioso e nel giro di un'oretta i padroni di casa e i suoi - presto - nuovi inquilini, ne divorarono più della metà.
Alla fine si decise che Drake e Sam avrebbero condiviso una delle camere matrimoniali in cui c'era abbastanza spazio per un paio di scrivanie e per i loro videogiochi (Ross aveva già scommesso con loro un paio di partite a Fifa); Annie aveva invece preso la stanza col bagno privato, promettendo a Demelza che avrebbe potuto usarlo ogni volta che ne avesse avuto bisogno.
La ragazza invece, scelse il letto ad una piazza e mezzo che si trovava nel vecchio ufficio di Joshua. La stanza aveva due cassettoni dove riporre i vestiti e un tavolo vecchio di fronte alla finestra che avrebbe potuto usare come scrivania. Amava già quella camera: affacciava su uno splendido campo di fiori che non vedeva l'ora di esplorare assieme a Garrick, il suo cagnolino.
Perché sì, se c'era una cosa che Annie aveva voluto mettere subito in chiaro era proprio quella: la presenza di quella creaturina che aveva adottato per i suoi figli l'anno prima. Aveva sentito dire che gli animali facessero miracoli per la terapia dei ragazzi, e da allora Garrick era diventato un membro della famiglia a tutti gli effetti.
Al momento non era con loro, ma Joshua aveva già annunciato che per lui non ci fosse alcun problema. 
Dopo la merenda, i Poldark accompagnarono i nuovi inquilini di Nampara a fare un giro nelle terre attorno alla sua proprietà, dove si svolgeva anche l’attività da imprenditore di Joshua. Quest’ultimo si divertì un mondo ad illustrare a Drake e Sam gli alberi da frutto e gli ortaggi che stava coltivando, promettendo ad entrambi che quando sarebbe arrivato il mese del raccolto, avrebbe permesso ad entrambi di aiutarlo.
Demelza e Ross si tenevano invece a distanza, chiacchierando sommessamente fra loro, divertiti e un po' scombussolati da tutta quella situazione.
"È... un po' imbarazzante" ammise il ragazzo con un sorriso sbilenco, camminando con le braccia dietro la schiena.
"Un po'?" Demelza lo guardò inarcando un sopracciglio. "È decisamente imbarazzante. Ma poteva andarci peggio."
"I tuoi fratelli sembrano simpatici" ridacchiò Ross. "Parlami un po' di loro."
Demelza annuì. Drake era il ragazzino con i capelli ricci e gli occhi scuri. Aveva nove anni. Era vivace, allegro e sempre sorridente: giocava a calcio, ma la sorella maggiore non aveva cuore di dirgli che il motivo per cui il coach della sua scuola non lo schierasse mai era che fosse un'autentica schiappa. Sam invece, che aveva un paio d'anni più di Drake, aveva preso lo stesso colore degli occhi di Demelza. Già a vederlo sembrava un ragazzino più mite e sulle sue rispetto al fratello minore.
"È molto credente. E mi rimprovera sempre, perché non vado mai a messa con lui" ridacchiò. "La prima cosa che ha fatto, quando Annie ci ha raccontato di Nampara, è stata quella di chiederle se nelle vicinanze ci fosse una chiesa. Dice di voler diventare sacerdote, da adulto.”
“C’è una cappella a pochi passi da qui” le disse Ross.
“Lo so” sospirò la ragazza, non riuscendo a trattenere un sorriso. “Ha insistito perché ne cercassimo una su internet.”
Ross sorrise a sua volta.
“Si è avvicinato molto alla chiesa da quando... ci siamo trasferiti. Pregare lo ha... aiutato tanto" continuò a spiegare Demelza.
Ross colse l'esitazione nella voce della sua amica. Suo padre lo aveva informato sulla sua storia e adesso si sentiva in colpa per non aver creduto fino in fondo all'assurdità di tutto quello che la sua compagna di banco avesse vissuto. Demelza era consapevole che lui fosse già a conoscenza di tutti i fatti, e anche se lo conosceva da poco, sentiva di potersi fidare. A scuola, a parte lui, Isla era l’unica persona che sapesse del suo passato.
Ross, invece, si sentiva male all'idea di cosa quei tre poveri fratelli dovessero aver patito per una vita intera.
"Mio padre mi ha raccontato... di quello che avete passato" disse lieve. "Mi spiace, Dem."
La ragazza fece un sorriso timido, ma non alzò lo sguardo per osservarlo, come se le costasse e avesse paura di scoppiare a piangere.
"Me la sono cavata. I miei fratelli se la passano peggio. Non si sono ancora ripresi del tutto."
Ross non riuscì a replicare. Fece soltanto una cosa che sarebbe riuscito a spiegarsi soltanto col tempo, visto che per quanto avesse legato velocemente con Demelza, non avevano ancora una confidenza tale da lasciarsi andare a gesti del genere: o forse quello fu solo il punto di partenza per consolidare un'amicizia che sarebbe diventata importante per entrambi.
Le prese la mano e gliela strinse, e Demelza, stupita e scioccata, si voltò per un attimo ad osservare se qualcuno vi avesse fatto caso: ma Joshua Poldark, i suoi due fratellini ed Annie, sembravano troppo impegnati a ridere di qualcosa per pensare a lei e Ross.
"Sono qui" mormorò il ragazzo dolcemente.
Non c'era niente di malizioso in quella stretta e Demelza si convinse a ricambiarla. Non aveva mai conosciuto la tenerezza del calore umano, se non un paio di anni prima grazie ad Annie: suo padre non era mai stato affatto propenso alle carezze, anzi, tutt’altro; e sua madre era morta quando era troppo piccola per ricordarsi se le avesse mai voluto bene. Per troppo e tanto tempo, era stata coraggiosa per i due fratelli, e si era impegnata e continuava a farlo per il bene di Drake e Sam, ma anche lei ogni tanto aveva bisogno di sapere di non essere sola e che, da quel momento in poi, avrebbe avuto qualcun altro al suo fianco a farle da spalla.
* * *
Nel giro di tre giorni, Annie e i suoi ragazzi spostarono velocemente la maggior parte delle loro cose a Nampara. Dopo aver sbrigato in maniera alquanto celere tutta la parte burocratica, tra scartoffie e documenti da firmare, Ross aveva deciso di chiamare a rapporto il suo nuovo ed esuberante gruppo di amici con l'intento di accelerare quel trasferimento e rendere le cose più semplici ai nuovi inquilini. Drake e Sam avevano già occupato la loro stanza, mentre quella di Demelza era praticamente un campo minato di oggetti da sistemare.
Nessuno si era posto grandi domande: Isla e Ross erano a conoscenza della verità sulle origini di Demelza; George e Dwight sapevano quanto bastava a comprendere le ragioni di quel trasferimento e furono talmente tanto discreti da non porre altri quesiti scomodi che potessero metterla in imbarazzo.
"Pensate a quanto piccolo è il mondo!" commentò Isla, riflettendo ad alta voce su tutta quella situazione e reggendo nel frattempo anche uno scatolone che aveva l'aria di essere molto pesante, e in effetti lo era: George lo capì dalla sua espressione tirata e dopo una breve insistenza, riuscì a farselo passare.
"Demelza, cosa diavolo c'è qui dentro?!" esclamò sconvolto, con la faccia tutta rossa, mentre passava dall'ingresso della casa.
La ragazza però sembrava non averlo nemmeno ascoltato, forse perché era troppo lontana: stava tirando fuori qualcos'altro dal cofano della jeep di Annie. Garrick, il famoso e delizioso bastardino dal pelo chiaro che avrebbe rallegrato presto le giornate a Nampara, la tampinava scodinzolando.
Ross invece, all'interno della casa, si godeva l'entrata di George. Un po' sudato sulla fronte e con una mano appoggiata ad un'anca, lo osservava con un'espressione squisitamente divertita.
"Cosa ne dici, Poldark? mi darai una mano o vuoi startene lì fermo come un palo della luce?" lo rimbeccò stizzito. "Dove cavolo devo appoggiare questo scatolone? Mi si stanno staccando le braccia!"
"Ah, George. Sei un vero spettacolo per gli occhi" commentò Ross schioccando la lingua e asciugandosi le goccioline di sudore che gli imperlavano il volto. Continuava a sorridere beato senza fare niente di concreto per aiutarlo.
"Senti" sbottò alla fine l'amico dai capelli biondi, poggiando con un tonfo lo scatolone a terra. "Non me ne frega niente di dove deve andare sta roba, se c'è qualcosa di prezioso o se Demelza ci ha nascosto un cadavere al suo interno. Non posso perdere l'uso degli arti."
Nel frattempo, Dwight entrava anche lui dalla porta di Nampara con un altro box di cartone. Lo appoggiò, con non poca fatica, accanto a quello di George.
"Ti vedo provato" disse all'amico, cingendogli le spalle con un braccio.
"Tu dici?" replicò George, inarcando un sopracciglio. "A giudicare da quanto pesa questo coso che ho appena messo a terra, deve esserci per forza un cadavere all’interno."
"Non c'è nessuno lì dentro, George, posso assicurartelo. Solo i miei libri" rise Demelza, entrando in quel momento anche lei dalla porta con un altro scatolone. Isla, alle sue spalle, stava facendo la stessa cosa. "E comunque questi due sono gli ultimi."
Mentre riprendevano fiato, Prudie li raggiunse all’ingresso. Aveva fra le mani un vassoio con delle merendine e dei succhi di frutta e sorrideva amabilmente.
"Venite, prendetevi una pausa" disse, facendo segno di seguirla. “Credo ve la meritiate.”
I ragazzi non ebbero niente da obiettare mentre si sistemavano nella sala da pranzo. I fratelli di Demelza si stavano già ambientando nelle loro stanze e Annie li stava aiutando a mettere a posto i loro vestiti; Garrick invece aveva seguito la sua padroncina e ora le scodinzolava accanto ubbidiente.
Il gruppo restò attorno al tavolo per una mezz’ora, commentando anche quanto accaduto durante la settimana di scuola.
La “condivisione” dello stesso banco con Keren Smith ormai stava già mettendo a dura prova George: aveva ripreso a fumare come prima e in effetti durante quei giorni i due si erano ritrovati a litigare spesso – fortunatamente non davanti agli insegnanti – e nonostante fosse un allievo modello, quando George aveva chiesto alla professoressa Tegue di cambiarlo di posto, quest’ultima gli aveva spiegato che non poteva permettersi di fare preferenze perché sicuramente poi tutti avrebbero voluto lo stesso trattamento!
“Ma se sei sempre stato il suo studente preferito!” protestò Ross, inorridito. “Uscivi con sua figlia e se gliel’avessi detto, avrebbe già organizzato le nozze.”
George spalancò gli occhi, non poteva credere che quell’idiota di Poldark lo avesse detto così platealmente al tavolo: ma poi davanti a Demelza e soprattutto ad Isla! Cercò lo sguardo di quest’ultima con la coda dell’occhio e se lo ritrovò davanti perplesso.
“Uscivi con la figlia della professoressa Tegue?!” chiese Demelza, sconvolta, ma non riuscendo a trattenere una risata. “E chi è questa tizia? E perché non la conosco? Voglio vederla subito!”
George la guardò malissimo. Aveva ragione di credere che Ross avesse una “cattiva influenza” su di lei, perché da quando erano seduti vicini erano diventati pappa e ciccia. E non osava immaginare ora che cosa sarebbe successo, visto che Demelza aveva iniziato a vivere a Nampara...
“Ruth Tegue” ridacchiò Ross, passando a Demelza il suo cellulare: la ragazza era seduta accanto a lui. Sullo schermo c’era ora in bella mostra il profilo Instagram della diretta interessata. Era una ragazza minuta, con dei capelli biondo cenere, che usava una quantità spropositata di filtri in ogni fotografia che postava.
Era carina. Demelza però non avrebbe mai osato immaginare che potesse essere il tipo di George.
“Poldark... sono a tanto così dal lanciarti la sedia su cui sono seduto adesso!” borbottò George.
“Uscivi... con Ruth Tegue?” domandò Isla con una nota di incertezza nella voce.
Il ragazzo si voltò quando sentì la sua voce e finalmente poté concentrarsi solo su di lei. “Sì. Uscivo. La conosci?”
Gli occhi di Demelza, Dwight e Ross saettavano da George ad Isla.
“Sì” annuì quest’ultima, sospirando scocciata. “Una boriosa so tutto io. Mia madre è manager della boutique di Truro dove lei lavora come addetta alle vendite. Ci avrò parlato per cinque minuti e quando mi ha detto di essere la figlia della professoressa, chissà perché, non ne ero stupita.”
“È finita molto tempo fa tra noi” ci tenne a specificare il ragazzo.
Isla non comprese perché ci mettesse tanta veemenza nel farlo, ma fu comunque felice di sentirglielo dire ad alta voce. Il suo cuore sembrò riempirsi di una grandissima leggerezza.
“Come mai?”
“Troppo diversi. Poi ho scoperto che era la figlia della professoressa, lei che ero un alunno di sua madre e... ci siamo ghostati a vicenda.”
“Oh, ma tranquilli” intervenne Demelza a quel punto, e in effetti George ed Isla la guardarono come se si fossero resi conto solo in quel momento della sua presenza, di quella di Ross e di quella di Dwight. “Continuate pure a chiacchierare tra voi.”
Ross addentò un pezzo della sua brioche e parlò con la bocca piena.
“Dai, Dem. Hai interrotto la cosa sul più bello. Erano così carini.”
“I popcorn dove sono?” incalzò Dwight divertito.
Il viso di Isla si era colorato di rosso, ma sorrideva. L’unico a non farlo era George.
Anche se non aveva mai ammesso agli amici la sua cotta per la ragazza ad alta voce, Dwight e Ross erano diventati il suo tormento in quei giorni e avevano cercato attraverso battutine e tecniche paradossali di creare una situazione in cui potessero entrambi ritrovarsi da soli.
George fece per replicare, ma, un silenzio assurdo, riempì la stanza qualche istante dopo. Presi dalle chiacchiere e dalle risate, nessuno dei ragazzi si era accorto che Prudie era andata alla porta ad aprire a qualcuno. Sull’ingresso della sala da pranzo, come se fosse a disagio (cosa forse non troppo lontana dalla realtà), si trovava ora Francis Poldark accanto alla tozza domestica di Nampara che ne annunciava l’arrivo.
I suoi capelli biondi, spettinati dal vento della Cornovaglia, formavano strane onde sulla sua testa.
“Ciao ragazzi.”
 
 
 
Angolo dell’autrice:
Eccomi di ritorno! Scusatemi se aggiorno dopo tanto tempo, ma scrivere questo capitolo mi ha richiesto più tempo di quanto mi aspettassi.
In realtà non succede molto, in quanto lo vedo più come un capitolo di passaggio: serve a cementare le fondamenta di alcuni rapporti della storia e a porre le basi per quello che succederà in futuro.
Fatemi sapere cosa ne pensate!
Vi abbraccio,
Lady Warleggan.

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