Lavinia-Baptised with a perfect name di Lalani (/viewuser.php?uid=32632)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo/Epilogo ***
Capitolo 2: *** Atto Primo: Insomnia ***
Capitolo 3: *** Atto Secondo: Petrolio Bianco ***
Capitolo 4: *** Atto Terzo: Because my life without you in it is a life that's not worth living ***
Capitolo 5: *** Atto Quarto: Jillian, our dream ended long ago ***
Capitolo 1 *** Prologo/Epilogo ***
Eccomi,
buongiorno a tutti!Questa fic si è classificata prima al “I can’t stay
without music Contest” di Only_Me, che ringrazio
infinitamente^^ assieme alle partecipanti!Spero di leggere presto le
vostre storie.
Dunque, questa fic è angosciante, quindi se siete prossimi
al suicidio vi consiglio di non leggerla, se no potrebbero incolparmi
di avervi inflitto il colpo di graziaXD La fic, inoltre, è
NaruHina, una coppia che io detesto cordialmente, quindi quando parlo
di questi due poveracci devo per forza scrivere qualcosa di drammatico.
Ma ora passiamo ai caratteri generali: la fic è ambientata
negli anni novanta in Giappone e nonostante l’epoca moderna,
ho deciso si rendere la famiglia Hyuuga(che sarà
protagonista della fic) ancora molto severa e rigida, dato che sono di
stirpe nobiliare.
Le altre note autore le ho inserite alla fine di ogni capitolo. Il
titolo è la frase iniziale di Amaranth, una canzone dei
Nightwish. Buona Lettura^^
Lavinia
Baptised with a perfect
name
I've been stranded here and I'm
miles away.
Making signals hoping
they will save me
I lock myself inside
these walls.
23 Maggio 1989
Hinata, annidata a capotavola, come un’aquila, come
un’imputata, ascoltava la musica frammentata e frizzante;
quest’ultima si insinuava timida nei suo lobi ammantati da
enormi perle, che oscillavano lievemente, come se fossero terrorizzate
dalla onnipresente forza di gravità. Alla ragazza ogni nota
sembrava violenta e sadica, prepotente e crudele...o forse era lei che
era diventata troppo fragile?
Villa Hyuuga, quella sera, era un trionfo di candore, perfettamente
abbinata agli occhi puri dei suoi abitanti e alla luna eterea, appesa
al cielo. Persino il ghigno di Hanabi sembrava più candido e
innocente che mai, perfetto nella sua egoista soddisfazione.
Le tavolate, sistemate fra il giardino e la sala da pranzo,
eccezionalmente comunicanti, permettevano agli ospiti di godere in
contemporanea del profumo cristallino tipico della dimora e
dell’amena temperatura serale.
I violini sfrigolavano e i flauti fischiavano note acute, da civette,
tutte rivolte alla fragile figura di Hinata, seduta al posto
d’onore, dopo anni di ombra. La ragazza avvertiva la stoffa
morbida ma troppo, troppo larga, fasciarle il corpo minuto, come se
fosse una neonata. Si sentiva proprio così: il respiro
strozzato in gola, che vuole esplodere in pianto ma non sa come fare(
d’altra parte, non gliel’ hanno insegnato). E poi
le tracce ancora umide di sangue, come la macchia di rossetto che
chiazzava il suo viso, reso evanescente dagli spruzzi dei fuochi
d’artificio. E una mano, estranea e calda che ti stringe, ti
abbraccia.
In realtà, la mano di Itachi Uchiha era fredda, quasi
scheletrica, mentre stringeva(scorticava) la sua, in un mero gesto
formale.
Un altro fuoco d’artificio morì, sacrificato per
la gioia degli uomini.
“Leggete, Hinata?” chiese Itachi, poiché
aveva notato un leggero movimento nella mano libera della giovane, che
si era appigliata, angosciata, a una copertina di un libro color
nocciola.
La luna, curiosa ed enorme, sembrava sporgersi dal cielo stellato per
ascoltare la conversazione.
“È-è l’Eneide,
I-itachi” balbettò Hinata come un ladro esposto al
pubblico ludibrio. “V-vi piacciono le opere l-latine e-e
greche? I-io le ho studiate e-e-e…”.
L’eco eterno del suo balbettio si perse tra le note del
pianoforte, decisamente più sicure e squillanti.
Itachi condannò il libro con un’unica, infallibile
occhiata: “Io invece ho conseguito studi più
scientifici, Hinata. Non trovo appagamento nella lettura di queste
favolette” mormorò mentre dalla bocca sgorgavano
parole ottuse e glaciali.
“E neanche a voi dovrebbero interessare: se mi
sarà concesso, amplierò la vostra biblioteca con
tomi più idonei. La vita non è una fiaba,
Hinata” sussurrò annoiato, prima di gettare il
volume dietro il tavolo, dove il libro scivolò sotto il
divano e fece fuggire mosche e moscerini, desiderosi di trovare qualche
briciola di cibo perduto.
Hinata assottigliò gli occhi, e a questo movimento
parteciparono le sopracciglia fini, le ciglia sottili e le iridi
albine, prive di pupilla; se fosse stata più coraggiosa
avrebbe disegnato sul suo volto uno sguardo di sfida, avrebbe sentito
le iridi stringersi, doloranti, per esprimere l’odio nero in
quegli occhi bianchi.
Ma l’assottigliamento del suo sguardo provocò
soltanto un senso di impotenza che le punse lo stomaco come un ago e la
nascita di lacrime codarde.
Forse erano proprio loro che le facevano vedere la luna così
immensa e sfuocata, come se finalmente stesse precipitando sulla terra.
I fuochi d’artificio illuminavano e sporcavano il cielo con
le loro scintille e il loro fumo: avrebbe voluto usarli come segnale,
Hinata, come l’ SOS di un naufrago, nel mare sterminato che
era la vita, un mare pieno di anime che la stavano soffocando. Avrebbe
voluto, Hinata, che lui tornasse, allarmato dai suoi segnali, che
percorresse i chilometri che li separavano, correndo. Avrebbe voluto
risplendere e chiamarlo, non rintanarsi nei muri della sua vergogna.
Ma era Hanabi il Fuoco d’Artificio: la frigida bimba che
esplodeva di forza innata, una forza così potente che le
scappava dai polpastrelli soffici. Era lei la prediletta, colei che
poteva esplodere e farsi ammirare nella sua effimera potenza.
Hinata si voltò lentamente, come se avesse un cappio intorno
al collo, e i suoi occhi allenati ritrovarono le pagine scomposte
dell’Eneide, l’ultimo libro che si potesse definire
una favola; era la tomba senza fiori di un amore perduto.
La ragazza si voltò di nuovo verso la tavolata, mentre le
lacrime si dissolvevano, e tornò a guardare lo strano
spettacolo delle luna spiona e dei fuochi d’artificio
scintillanti.
Hinata sbirciò Itachi, e quasi si sorprese di non vedere gli
incisivi da Marmotta spuntare dalle sue labbra screpolate per poterle
mordere il cuore.
E, per l’ennesima volta, si sentì una prigioniera
in una gabbia di cristallo.
Proprio come lei, la
principessa invisibile.
In fondo, a Lavinia non
è stato permesso scegliere.
Dunque, questo è un mini-prologo. O meglio un epilogo,
perché questa è la fine della fic^^. Infatti
sotto l’atto primo ci saranno i giorni che dividono Hinata da
questa cena. Il significato dei nomi dei personaggi sarà
molto importante per il resto della fic. I riferimenti ai poteri degli
Hyuuga sono voluti e velati, ma questo ovviamente non implica che ce li
abbiano, dato che siamo in un’AU. Nella parte iniziale, ho
usato il presente perché la similitudine della nascita
è generica e non fa parte di uno specifico passato.
Lavinia è la principessa dell’Eneide, destinata a
sposare Enea e a dare inizio alla stirpe romana. Di questa figura,
fondamentale per i fini della storia, non abbiamo niente: non una
descrizione fisica o psicologica, e, a parte qualche dettaglio, non si
sa nulla di lei. Dato che io mi chiamo Lavinia(povera me=_=) ho deciso
si analizzare la figura della principessa inesistente.
Grazie per la vostra
attenzione,
LaLa
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Capitolo 2 *** Atto Primo: Insomnia ***
Eccoci
al primo atto!
Un ringraziamento a:
Hinata_Dincht:
grazie per la recensione^^, mi lusinghi fin troppo!Sono felice di
sapere che ti piace il mio stile. Anch’io ho letto la tua
fic, la recensirò al più presto!Bacioni!
Shatzy: che
belle le tue recensioni, mi commuovono sempre(LaLa si
inchina^^).Inutile dirti che adoro vedere i tuoi commenti e le tue
impressioni, mi onorano^^. Naruto apparirà solo
nell’ultimo capitolo…e sarà un finale a
sorpresa, già già!E comunque il mio nome fa
schifo=_= ogni volta che mi presento è
un’agoniaXDBacioni!
Bene, signore, ora inizia l'angosciaXD
Buona Lettura!
Atto Primo: Insomnia
Four
Days to Death
I'm stuck in my own head and I'm
oceans away
Would anybody notice if I
chose to stay?
I'll send an S.O.S.
tonight
Hinata aveva trovato notevoli difficoltà ad abituarsi
all’assenza della limousine alla mattina. Aveva dovuto
abbandonare i pochi vizi che si concedeva: svegliarsi diversi minuti
dopo gli ultimi squilli della sveglia, pettinarsi direttamente in
macchina e indossare le zeppe, troppo scomode per lunghi tragitti a
piedi.
In fondo, era abbastanza alta, che senso aveva? Era un piccolo e
frivolo capriccio, avere l’illusione di essere un
po’ più alta, più libera,
più vicina al cielo.
Ma, in fondo, non aveva senso; su questo rifletteva Hinata, mentre
scivolava giù per la stradina ripida e verdeggiante che
separava la diafana dimora degli Hyuuga dal resto della
città.
Hinata abbassò il viso, nel vano tentativo di nasconderlo
con la frangia corvina, quando vide la limousine sorpassarla in un
lampo di luce metallizzata. Le sembrava quasi di sentire su di
sé gli occhi di Hanabi bruciare e carbonizzare il suo volto.
“Sei diventata troppo pesante per la nostra lussuosa
limousine, sorellina” le aveva ripetuto Hanabi quella
mattina, come tutte le altre di quell’assurdo e afoso Maggio.
Hinata scivolò fino alla scuola, sciogliendosi tra la folla
colorata di monotone tonalità accese e metallizzate dal
sole. Sfumature che mal si amalgamavano ai suoi colori tenui.
Quella mattina Hinata sapeva dove dirigersi, e invece di infilarsi nel
suo banco all’estremità destra, accantonato al
muro, corse nel cortile della scuola.
Nel prato prematuramente seccato dal sole fioriva un altro tipo di
erba, accompagnata spesso dalle sue sorelle più potenti. Fin
dal suo primo anno Hinata era venuta a conoscenza
dell’illegale traffico sbocciato anche tra le mura protette
della sua scuola, un istituto privato costruito per i soli benestanti.
Ma anche lì i disagi erano molti, e Hinata per prima sentiva
che l’ambiente scolastico era terribilmente ipocrita: tanti
fiori, tanti insegnati programmati come computer, tante
apparecchiature sofisticate per un futuro grottesco e racchiuso in una
scatola fatta di mura plasticate. Il destino del padre, che poi
discende al figlio. Almeno Hinata era consapevole che, data la sua
situazione, la fabbrica di famiglia sarebbe passata interamente ad
Hanabi e a Neji, e, almeno questo, le dava l’illusione di
avere il cuore più leggero.
La ragazza scese nel cortile, non più contornato da viole e
primule come in Marzo, ma smorzato dal caldo cocente, e intravide
Temari che giocava, per l’appunto, con le Temari, le
tradizionali palline giapponesi. Le faceva rimbalzare a suo piacimento
e la seta colorata scintillava alla luce mattutina. Hinata rimase per
qualche istante a fissare le palline color malva e lavanda solcare
leggere le mani della ragazza, le sue unghie mangiucchiate, i calli,
cicatrici di un passato tormentato. Temari giocava col suo stesso nome:
aveva in mano la chiave del suo destino, se lo rigirava tra le mani
sicure e nelle sue iridi verde chiaro già si intravedevano
orizzonti futuri. Ora che aveva quasi ottenuto il diploma della
maturità sarebbe potuta scappare dalla scintillante
prigionia che il padre, sindaco della città confinante,
aveva imposto a lei e ai suoi fratelli.
Il nome di Temari era un gioco, semplice ma colorato con frammenti di
arcobaleno, e scorreva su un destino incerto ma pieno di sole.
Mentre il suo nome, Hinata, era vuoto. Il nome di un ennesima
principessa senza trono.
Un’ennesima
Lavinia.
La giovane Hyuuga raggiunse quasi di corsa la formosa figura di Temari
contornata da un’aureola di paglia.
“Cercavo Gaara” chiese timidamente e lei la
indirizzò nel cortile dietro il teatro, salutandola poi con
sorriso affettato.
Hinata, per tutti la signorina Hyuuga, una dei tanti Hyuuga, si
incamminò verso la sua meta su un sentiero adombrato di
fantasmi. Molti ragazzi dell’istituto, durante le prime ore
scolastiche, si rifugiavano in quel brullo eden e fumavano, con gli
occhi impiastricciati di vapori tossici, rossi e gonfi. Sfiniti dalle
responsabilità, scaricavano le frustrazioni sulla canna e
sulla sigaretta di turno, imprecando e sputando. Anche i migliori
dell’istituto si nascondevano lì per concretizzare
le loro fantasie di libertà, esponendola agli altri o
lasciandola marcire dentro di loro. Ma più Hinata avanzava
nel cortile, più il livello delle droghe si alzava e
più le fantasie si concretizzavano, fino a diventare vere e
proprie allucinazioni. Nel cortile vicino al teatro scolastico e alla
palestra circolavano polveri e pasticche sempre più
pericolose, spesso fatte infiltrare da maggiorenni, che stordivano i
ragazzi destinati a diventare il pilastro della società.
Intravide la chioma color rubino di Gaara dietro il teatro dove spesso
recitava suo fratello Kankuro; Hinata avanzò, incerta, e
vide gli occhi perlacei e spenti del ragazzo appoggiarsi su di lei con
sospetto, anche se i suoi lineamenti leggeri non mutarono. Teneva in
mano una canna enorme e conservava le pasticche per il pomeriggio o per
spacciarle; per il momento si limitava a farle tintinnare nella tasca
come se fossero monete d’oro.
“Gaara, mi dispiace disturbarti…”
pigolò Hinata, sempre imbarazzata: aveva cominciato a
chiamarlo per nome solo per non creare troppa confusione, dato che
aveva due fratelli nello stesso istituto, e non perché erano
nella stessa classe da tre anni.
La ragazza si mordicchiò il labbro, sentendo il coraggio
infiltrarsi nelle sue vene e appiccicarsi sulla sua pelle come
caramello.
“Quanto vuoi per un ecstasy?”
Quanto vuoi per la mia
salvezza?
Tutti sapevano che Gaara soffriva di insonnia, quella che ti mangia i
piedi di notte, quella che ti assilla come un incubo. Non era solo una
scusa per giustificare le spesse occhiaie che facevano capolino da
sotto le lunghe ciglia.
E per dormire, per sognare, lui che i sogni non li aveva mai visti,
fantasticava. Ma poi le semplici fantasie non erano bastate a riempire
la totale assenza di sonno e di sogni: così, per dimenticare
la morte della madre, pallida e innocente, e dello zio, per dimenticare
l’aberrante odio del padre e l’indifferenza dei
fratelli, si era spinto in una tomba fatta di fumi e di false promesse.
Hinata, quando era entrata in contatto con quell’ universo
sporco e confuso, si era ripromessa di non sprofondare mai
nell’abisso della dipendenza. Forse per i precetti che sin da
piccola, sin dalla nascita, si era ritrovata scolpiti nella mente,
forse per le fantasie che riusciva a costruire senza bisogno di
stupefacenti, forse per il suo intramontabile ottimismo nascosto sotto
strati di timidezza. Ma ormai le poche certezze e i pochi affetti le
erano stati tolti dalla sua famiglia, dal suo stesso sangue. E di notte
non dormiva più: aveva bisogno di sognare. Di affondare
ancora e ancora, per anestetizzarsi completamente dalla
realtà.
Gaara non mostrò sorpresa davanti al pallore del volto
angosciato della compagna, davanti alla fragilità dei suoi
occhi sconvolti, davanti alla sua assurda richiesta.
“Non posso: ti distruggerebbe. Ti distruggerà
sicuramente” sibilò il ragazzo, e si
ritrovò a pensare che la sua compagna era già
distrutta, da quando era stato ufficializzato l’improvviso
fidanzamento con Itachi Uchiha. Non sapeva perché, nessuno
sapeva perché, non aveva alzato un dito, nessuno aveva
alzato un dito.
Hinata gemette, di dolore, di frustrazione. Il suo SOS era stato
ignorato, un’altra volta.
“N-non capisci??Io h-ho bis-sogno di a-a-iuto!”
singhiozzò, quasi gridando, mentre il balbettio, che
sembrava essere stato estirpato tra i suoi difetti, era ricomparso.
Perché nessuno capiva l’odio e
l’angoscia che crescevano in lei? Aveva bisogno si sognare.
Ancora e ancora. E anche di distruggere. Ancora e ancora.
Gaara avanzò, sul palmo una pasticca rosa, allegra e
amichevole.
Hinata la osservò, terrorizzata, mentre lacrime invisibili
precipitavano al suolo.
“Questa non ti può aiutare, e nemmeno
io” sibilò Gaara con voce atona “Non
realizzerà i tuoi sogni, ma li rovinerà
ulteriormente. Ti rimane la tua mente, la tua sensibilità,
la tua intelligenza, la tua passione, il tuo amore…e anche
la cosa che vuoi distruggere. Non bruciarli”.
Hinata sobbalzò, e sentì il suo cuore, la sua
mente, i suoi capelli e i suoi seni saltare e poi cadere di nuovo,
mollemente.
Allora forse aveva capito, aveva intuito, almeno lui.
Parlava di amore, Gaara, quello che teneva solo per sé
stesso, che nascondeva in angolo polveroso e mai pulito, e talvolta ne
prendeva un pezzetto piccolo piccolo, e lo mangiava come se fosse
zucchero e miele.
Forse anche lui lo avrebbe condiviso, quel suo amore meraviglioso,
quando sarebbe uscito dalla scintillante prigionia, come stava facendo
sua sorella Temari. Forse il suo nome sarebbe cambiato, assieme al suo
destino
Hinata guardò l’immagine del ragazzo, offuscata
dalle sue lacrime, bella come un ricordo dimenticato. E decise di
rimanere nel suo universo, mentre Gaara rientrava nei suoi oceani
lontani, ignorando il suo SOS.
Prese la pasticca dalla sua mano e la lasciò cadere.
Assieme alle ultime disperate lacrime. Il pianto prima della condanna.
Anche Lavinia aveva
pianto, quando era stata divisa dal suo vero amore?
Anche qui abbiamo un’analisi dei nomi dei personaggi, spero
che sia giustaXD Il motivo per cui Hanabi tratta con fredda
superiorità la sorella e il motivo che ha spinto Hinata a
chiedere a Gaara della droga, verranno spiegati a tempo debito.
Nell’ultima frase, metto in evidenza la mia idea che Lavinia,
innamorata di Turno, a cui era promessa sposa, sia stata costretta a
sposare uno straniero appena arrivato. Questa è una mia
interpretazione, in realtà nell’Eneide non ci sono
prove di questo fatto.
Grazie per la vostra
attenzione,
LaLa
|
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Capitolo 3 *** Atto Secondo: Petrolio Bianco ***
Atto Secondo: Petrolio
Bianco
Three Days to
Death
The time of
my departure's near
I say a
prayer please, someone saves me
“Che
poi è tutta una gran fregatura”.
Ino si
stava spegnendo(l’ultima fiamma di una candela), e le lacrime
colavano come cera incandescente.
Sembrava
che tutto il suo sottile corpo si sciogliesse in acqua oleosa; il
generoso trucco scivolava via come un fantasma. Striature nere, da
tigre disperata, graffiavano le guance candide, quasi albine, e
scomparivano nella chioma bionda.
La parte
interna guancia, tenera, venne imprigionata di nuovo dai denti.
“Quale
destino bastardo mi tiene inchiodata qui? Perché, porca
troia?” mormorò Ino, per niente adirata, ma
assente, atona; si rigirava la sigaretta tra le mani, guardandola come
se fosse un santo protettore o un’ancora che odorava di
salsedine e di speranza. Difficile scegliere la similitudine adatta. Ma
la sigaretta continuava a fumare e a morire un poco alla volta(
maliziosa martire) e così uccideva le ultime speranze di
Ino, il suo ultimo sollievo.
Forse,
pensava Hinata, anche la bionda presto sarebbe andata a supplicare
Gaara per una pasticca rosa shocking. Forse anche lei era debole.
Lasciò libera la guancia dai denti affamati.
“Che
vita è una vita che ti porta in cima e poi ti trascina
giù, nel fango, nella merda?” continuò
Ino, in una litania e una nenia di pensieri sfusi.
Si erano
lasciate cadere nel corridoio davanti alla classe, la bionda e la
bruna, l’attraente e la timida, le due antitesi,
l’una trascinata dalla caviglia ferita, l’altra dal
peso alla pancia.
Hinata non
era mai stata amica di Ino, e le aveva sempre invidiato il sorriso
perenne, la felicità smisurata; le aveva sempre criticato le
gonne vergognosamente corte e la voce intenzionalmente acuta e
civettuola. E soprattutto il fatto di appartenere ad una famiglia
amorevole ed essere figlia di genitori sorridenti e sereni.
Eppure ora
erano accumunate da un comune dolore.
“Prima
il maestro Asuma, poi questo…Io sono sempre vissuta nel
sole, io sono il sole. Perché ora è
notte?” borbottò Ino, mentre evaporava via, come
pulviscolo nella luce.
No, in
fondo Ino non era debole, non sarebbe sprofondata negli abissi bluastri
della droga. Sarebbe bruciata come una falena impazzita, imbevuta nel
petrolio bianco, il petrolio che non brucia, e poi sarebbe rifiorita.
Perché
anche adesso che era bagnata di dolore acre e forte come whisky, Ino
sembrava risplendere come una cometa e il suo dolore era solo la terra
bruciata dove ricostruire il suo cuore. Bastava cambiare un
“h”: togliere da earth la lettere finale e metterla
all’inizio, heart. Semplice, l’inglese.
Hinata, per
l’ennesima volta, si sentiva una minuscolo puntino di
inchiostro sbiadito in un immenso foglio bianco: Ino riusciva a
sminuire il suo immenso dolore per far risaltare il proprio. Forse lo
faceva apposta, forse no.
“Tu
sei forte, Ino. Nonostante la ferita, ritornerai a ballare. E potrai
rendere fiero il povero professor Asuma” sussurrò
Hinata, per darle conforto e appoggio, gli elementi di cui lei era
completamente priva.
“Non
dire minchiate”
“Anche
tu lo sai. Non ti sono ancora arrivati i risultati delle analisi: la
tua caviglia non è perduta, non come il maestro
Asuma”.
“Mi
sembra tutta una montatura: che senso ha? La mia vita mi ha
tradito” continuò Ino, mentre si tormentava la
coda bionda e sfaldata “Ho sempre sognato di diventare in
gamba come il maestro e una ballerina invidiabile. Perché mi
hanno tolto i sogni? Questo dolore è troppo
intenso…così forte che non riesco più
a dormire, a sognare. Ho anche pregato, ma sembra che Dio mi abbia
abbandonata, questa volta”.
Hinata
comprendeva il suo dolore: Asuma era un fidato amico dei signori
Yamanaka e tante volte era stato presente nella vita di Ino; tante
volte, da imparziale professore o da fedele consigliere. La perdita
della danza, l’hobby dell’infanzia che era
diventata la passione dell’adolescenza, e del maestro Asuma,
avevano tolto il significato di tutte le sue preghiere.
“Ce
la farai” sussurrò nuovamente Hinata.
Ino era
forte, pensava Hinata, come un Cinghiale che scavalcava le vette
innevate e le radure fiorite. Certo, era strano vedere un cinghiale che
si truccava gli occhi e si infilava i fiori dietro le orecchie; eppure
i suoi genitori avevano dato il nome e il destino di una guerriera, a
quella bellezza nordica e luminosa. Non era come Chouji, il bonaccione,
la Farfalla fragile che si posava su fiori delicati, assetata e sempre
ingorda di cibo, né come Shikamaru, che aveva ben poco
dell’altero Cervo.
Ino avrebbe
continuato a correre nei boschi bui, furibonda e vogliosa come faceva
solo un animale guerriero: avrebbe continuato a danzare anche dopo la
morte del caro maestro Asuma, con gli occhi rossi e il cuore
sanguinante.
Era una
bionda Didone, ma non disperata come quest’ultima. Ino non si
sarebbe mai ferita, ma sarebbe riaffiorata dalla fiamme, dal petrolio
bianco, una fenice ammantata di luce.
“Ma non
credo di essere l’unica ad essere stata tradita”.
Gli occhi
luminosi di Ino si insinuarono in quelli opachi di Hinata, alla ricerca
del suo intimo dolore che tutti avevano tentato di sradicare da quella
timidezza, assetati di pettegolezzi. Tutti volevano sapere cosa avesse
finalmente combinato la santarellina Hyuuga per divenire la fidanzata
di Itachi Hyuuga, dopo anni di balbettii e di silenzi:
un’esistenza di apatia e castità.
La campana
squillò in perfetta sincronia con l’ennesima
rottura del cuore di Hinata. Un altro spillo, un’altra fitta
alla pancia, sempre più pesante. La classe si
riempì di nuovo di caldo, di camice scollate, di sorrisi
timidi, di calze slacciate, di ormoni mal repressi. C’era
troppo caldo per seguire la spiegazione sulle funzioni e Hinata sentiva
sguardi annoiati e accusatori cadere su di lei come tante meteoriti che
pungevano come il ghiaccio sulla pelle: troppi per la sua anima
riservata, che si piegava sotto quegli sguardi, dolorante e afflitta.
Troppi
pettegolezzi in troppi pochi giorni, sulla timida e silenziosa Hinata,
che mai avrebbe pensato di poter diventare l’ artefice di uno
scandalo, di diventare l’errore della famiglia Hyuuga.
L’ora di matematica si trascinò fino
all’agognato e stridulo canto della campanella,che segnava la
fine dell’ennesimo giorno di studio. Stava per riporre i
libri nella cartella, quando una voce familiare la chiamò.
“Hinata,
posso parlarti un attimo?”
Hinata si
voltò, e sentì tutte le sue ossa tendersi e
scricchiolare, racchiuse in un manto gelido. Maggio sembrò
sparito, ma per un solo istante. Si avvicinò alla cattedra e
scrutò il volto della professoressa, nascosto da un manto di
capelli color ebano.
Gli occhi
della professoressa Kurenai Yuhi erano tramontati dietro le sue
palpebre, e non scintillavano più con quella spensierata
allegria con cui insegnava e con la quale aveva accolto il professor
Asuma nella sua vita. Ora, come diceva il suo nome, il suo destino, il
rosso rubino era svanito tra le coltri notturne. E con lui tutto il
corpo ancora tonico ed attraente dell’insegnate sembrava
sfaldarsi, prosciugato dal caldo, quello stramaledetto caldo di fine
Maggio, di fine scuola, di fine.
La
professoressa Kurenai si torse un boccolo sfatto e crespo, nero e cupo.
“Come
sai, ho discusso con la preside in merito a quello che è
successo” mormorò sfinita, dal caldo, da un cuore
spezzato dissolto in cenere. La perdita di Asuma non era ancora stata
lenita: era ancora lì, sul suo cuore, si vedeva bene.
Hinata
strinse le palpebre, sperando che le lacrime si confondessero con il
sudore. Si strinse le mani nel grembo pallido, dove le viscere si
avviluppavano come una vipera velenosa che reclamava cibo.
Ormai era
troppo tardi per ricamare cuori o estirpare demoni, professoressa.
“Non
comprendo la decisione di tuo padre di ritirarti dalla scuola e di
fidanzarti all’improvviso: so solo che è stata
colpa anche del mio intervento. Non ho capito appieno quello che
è successo, ma temo di aver compromesso la tua
situazione…” continuò
l’insegnante, incerta e dubbiosa “Sarà
riunito il consiglio scolastico per discutere del fatto, e spero che
tuo padre cambi idea: non può ritirarti dalla scuola e farti
prendere lezioni private a sedici anni, e tutto per il matrimonio,
è assurdo” continuò
l’insegnante, anche se l’assurdo, mormorato tra
labbra morsicate e screpolate, sembrava rivolto esclusivamente al suo
dolore personale. A lei, al suo matrimonio sepolto.
Hinata si
piegò leggermente, per nascondere la paura e
l’angoscia che crescevano negli occhi, come uova che prima o
poi si sarebbero schiuse. Una fitta alla pancia la stordì.
Cosa ne poteva sapere, la professoressa Kurenai, del suo dolore, ora
che era concentrata sul suo lutto e aveva abbandonato il suo sorriso
smagliante con il quale li aveva iniziati ai dilemmi della matematica?
Hinata
sapeva di essere egoista, ma davanti al suo dramma non riusciva a
capacitarsi di essere stata tradita e abbandonata dalla sua insegnate
preferita.
Kurenai
sospirò e una scintilla di preoccupazione si accese nei suoi
occhi.
“Hinata,
devi dirmi cos’è successo veramente e come
possiamo rimediare” mormorò concitata
“il consiglio vorrà i particolari, e
avrò bisogno del tuo aiuto…tuo padre non
può importi questo, non lo puoi accettare. Riusciremo a
fargli cambiare idea, insieme”.
Hinata si
piegò di nuovo, per trattenere la rabbia, che colava con la
bile nel suo stomaco; ancora una volta l’impotenza e la
vergogna bruciavano nel suo animo, per il tradimento
dell’insegnate. Perché le aveva fatto questo, se
da quando era arrivata al liceo, quando era ancora una ragazzina con le
lacrime agli occhi e i capelli da bambina, l’aveva
accompagnata e consolata come la sua povera mamma non aveva potuto
fare? Hinata credeva di aver trovato una stabile figura materna in
Kurenai, dopo essere stata educata dalla freddezza del padre e dalle
smancerie servili dei camerieri. La professoressa Kurenai era una
figura autoritaria ma giusta, inflessibile ma stabile, fredda ma
coscienziosa, una donna forte che solo di recente si era sciolta tra le
fiamme dell’amore. Era una madre perfetta, la madre che ora
si stava suicidando col suo soffocante dolore. La madre che non poteva
aiutarla, che non poteva soccorrerla, anche se Hinata continuava a
chiamare aiuto, nei suoi occhi perlacei. La madre che l’aveva
condannata.
In fondo,
anche Lavinia era stata abbandonata dalla madre, sparita tra i
flutti che l’avevano trascinata nell’Ade.
Amata non era stata amata abbastanza.
Hinata
spostò il suo sguardo sugli ultimi ritardatari che non erano
ancora usciti dall’aula, sulla soglia della classe: il
Cinghiale ferito che veniva sorretto dalla fragile Farfalla e dal pigro
Cervo. Ino guardava verso il soffitto, nel tentativo di nascondere le
lacrime ai suoi amici e di camminare meno goffamente sulla caviglia
ferita. Sembrava un angelo che stava cadendo sulla terra, le ali
bruciate e l’aureola perduta nel cielo infinito, e che stesse
pregando per un perdono o una grazia. Un ultimo sprazzo di biondo e poi
scivolò via, sorretta dai sue fedeli amici, che
l’accompagnavano nella sua uscita di scena. Quello che Hinata
aveva sempre e maggiormente invidiato ad Ino erano il carattere
movimentato e allegro che le aveva permesso di trovare amici fedeli e
la libertà che l’aveva portata a vivere una vita
piena di sole, con i suoi due più cari compagni.
.
L’unica persona di cui Hinata si poteva fidare, che era
cresciuta in una meravigliosa prigione di cristallo, le era stata
portata via. E ora non lo vedeva neanche, il Dio a cui rivolgere le
proprie preghiere.
“Io
non voglio ostacolare il volere di mio padre”
sussurrò Hinata e prima che l’insegnate,
furibonda, replicasse, continuò “Oltre a quello
che sapete già, professoressa, si è aggiunta una
complicanza imprevista, che non può essere nascosta o
modificata”.
Kurenai
sarebbe sopravissuta al petrolio bianco che le stava accecando i sensi
e l’anima, perché non avrebbe carbonizzato le sue
carni mature, come quelle snelle di Ino. Ma il corpo fragile di Hinata
si stava liquefacendo nel petrolio nero, l’assassino. Lei e
il dolore di Lavinia stavano bruciando vivi.
La rabbia
di Kurenai si sciolse e il suo rossetto scivolò come una
sbavatura di sangue, mentre comprendeva che lei e la sua allieva erano
appesantite dallo stesso fardello al livello della pancia. E Hinata,
negli occhi dell’insegnante, lesse sgomento, sorpresa,
fiducia tradita, stupore, in quegli occhi attoniti. Gli stessi
sentimenti che avrebbe provato una madre.
Allora: il
petrolio bianco è un tipo di petrolio che, a differenza di
quello nero, è usato come solvente; se te lo metti sulla
pelle e poi le dai fuoco questa fa la fiamma ma non brucia la pelle. In
questo modo ho analizzato il differente dolore di Ino( che bruciava di
dolore ma sarebbe sopravissuta) e quello nero di Hinata. Ino
è disperata per la morte di Asuma( che qui ho reso come un
fedele amico di famiglia e insegnante) e per la ferita alla caviglia,
che potrebbe compromettere il suo futuro di ballerina. In questo atto
si fanno dei riferimenti a Didone, che, innamorata follemente di Enea,
si è suicidata dopo la sua partenza, e ad Amata, madre di
Lavinia e sposa di Latino, che si è suicidata buttandosi in
un fiume perché non avrebbe sopportato che sua figlia
sposasse Enea( e il suo odio fu una delle cause della guerra fra Enea e
Turno).
Shatzy: ciao
carissima!!*LaLa spupazza Shatzy^^*. Vedere i tuoi commenti
è un’immensa gioia, immensissimaXD! Anche a te
piace Gaaruccio??Io lo adoro, è il mio preferito! Adoro i
cattivi redenti…ma anche i cattivi e basta!Mi dispiace, ma
ogni capitolo tratta di un personaggio diverso e questa è
l’ultima comparsa di Gaara(sorry!!)I capitoli sono cinque,
quindi dovrai sopportarne solo altri dueXD bacioni, Flavia!(che bel
nome*_*)
Damis: me si da una
botta in testa, scusa ho sbagliato a scrivere il nome!*LaLa chiede
venia*. Brava, cominci già ad intuire qualcosa??Poi mi dirai
se i tuoi sospetti erano fondati! Anch’io adoro Gaara,
è il mio amore^^. Attendo la tua recensione!Bacioni ,LaLa
|
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Capitolo 4 *** Atto Terzo: Because my life without you in it is a life that's not worth living ***
Atto Terzo: Because my
life without you in it
is a life that's not
worth living.
Two
Days to Death
So while I'm sitting here
on the eve of my defeat
I write this letter
and hope it saves me
“Vi prego di concedermi la mano di vostra figlia”
Kiba aveva ripetuto il suo discorso ufficiale migliaia di volte,
balbettando, sussurrando, con la sua voce rauca ma forte.
L’aveva scritto a mano, sporcandosi le mani di inchiostro
l’aveva scritto in una notte stellata, la mente che volava ad
Hinata. Ancora e ancora.
Eppure Kiba balbettava di nuovo, e la sua richiesta divenne una
preghiera sfumata in quella stanza troppo limpida. Troppo diversa dalla
sua stanza buia e sicura, soffocante; quella stanza opaca e pallida
sembrava riflettere migliaia di volte la sua timida richiesta.
Kiba alzò gli occhi vispi ma intimoriti per incontrare
quelli impassibili e vitrei di Hiashi Hyuuga, che sembrava trasudare
un’indifferenza sprezzante. Al suo fianco c’era la
figlia fedele e scolpita nell’acciaio, Hanabi, quella bimba
col ghigno da vecchia.
Hinata invece si era avvolta nell’enorme vestito candido e
aveva abbassato lo sguardo pieno di lacrime.
Sbirciò il volto del ragazzo, il truce bullo che negli anni
era diventato un ragazzo focoso e forte, con il volto magro e un
sorriso forte, contagioso.
Quel ragazzo, Kiba, un giovane uomo ancora cosparso di scarsa peluria e
di esagitati ormoni, che col tempo aveva conquistato la sua amicizia.
Non era un rapporto straordinario o limpido come quello tra Ino e i
suoi protettivi angeli custodi, ma Kiba sapeva infonderle allegria con
un solo gesto, con una sola risata, che a sentirsi sembrava il latrato
del suo fedele compagno canino, Akamaru.
La amava davvero? O era solo il disperato tentativo di una colomba di
salvare il suo pulcino dalle spire del serpente, dalla stretta del
demonio, dall’eventuale morte del suo amato pargolo?
Oppure Kiba aveva cominciato a respirare a fatica, a sentire le mani
prudere e l’agitazione scorrergli nelle vene, ad ogni
sguardo, ad ogni parola che si rivolgevano?
Perché l’amava? Per il suo nuovo fisico, che era
esploso in un tempesta di ormoni, una crescita che ancora non aveva
accettato e che a volte la spaventava? Era per i suoi nuovi centimetri,
che la slanciavano verso le nuvole per i suoi setosi i capelli neri,
era per il viso più sottile, più etereo, o per i
seni cresciuti, più morbidi e pesanti? Kiba era
davvero così superficiale e freddo? Oppure l’aveva
teneramente amata anche nell’epoca della timidezza e della
giovinezza,quando il suo corpo ancora acerbo, come una mela non ancora
nata dal fiore? Era stata così cieca da non accorgersi di
nulla?
Due occhi ambrati e due di vetro si incrociarono e si trasmisero solo
confusione e paura. Nessuno era sicuro dei propri sentimenti, ma in
quel clima di angoscia e disperazione il senso del dovere di Kiba aveva
sopraffatto la sua glaciale paura nei confronti della famiglia Hyuuga.
Hinata si strinse nei suoi scialli, come se volesse trattenere e
ascoltare l’aiuto che le era giunto, la risposta al disperato
e colorato SOS che ormai da giorni vagava nei suoi occhi stanchi. Ma,
anche ora, sentiva che non avrebbe potuto approfittare di quel generoso
aiuto. Possibile che non riuscisse ad appellarsi anche ai
più miseri aiuti? Era destino che scivolasse sulle schiene
che con tanta premura le stavano consentendo di salvarsi? Era destino
che suo padre avesse sempre il sopravvento sui suoi desideri?
Kiba, un eroe ferito, eroso dalla stanchezza, divorato dalla paura, era
riuscito a scrivere quel tremolante discorso, sull’orlo della
rovina. Ci era riuscito. Aveva innalzato preghiere, dalla vetta della
loro sconfitta.
E lei, invece, aveva fallito. Di nuovo. Ancora e ancora.
Hinata si sentì fremere quando sentì la voce
elegante ma ferma del padre innalzarsi nella sala dei ricevimenti, la
stanza degli echi.
“E in che modo, giovanotto, dovrei desumere che voi siate una
candidato più adeguato a sposare mia figlia?”.
Il ghigno di Hanabi sembrava un diafano spicchio di luna.
Kiba alzò il capo e incrociò con timore
reverenziale gli occhi gelati dell’uomo che lo separava da
Hinata… amica e confidente, che doveva trarre dalle tenebre.
“Itachi Uchiha, come voi sapete, signore, è stato
recentemente accusato di truffa e falsificazione di documenti.
È emerso che ha sottratto considerevoli somme ai colleghi di
suo padre, il senatore Fugaku Uchiha, ed è stato assolto per
puro cavillo” sbottò Kiba stringendo i denti
simili a Zanne, che fuoriuscivano come sangue candido dalle labbra
“Come potete maritare la vostra primogenita con un
criminale?”.
Hinata gemette, nel suo intimo dolore: Kiba aveva usato le parole
sbagliate, aveva lievemente e involontariamente insultato la famiglia
Hyuuga, la famiglia luminosa come vetro ma resistente come un diamante.
Kiba non poteva sapere che Hiashi Hyuuga stesso aveva dovuto chiudere
tutte e due gli occhi e accecare quelli di molti avvocati per liberare
quel furfante deperito di Itachi Uchiha.
Era stato costretto a commettere quell’ingiustizia per lo
scandalo commesso dalla figlia ormai sporca e contaminata da mani
callose ed estranee.
“Io appartengo ad una famiglia borghese, ma economicamente
meno ricca della vostra e della famiglia Uchiha”
continuò con forza Kiba, senza sapere che già il
fatto di avere un prestigio economico minore a quello della famiglia
Hyuuga poteva diventare un motivo valido per essere sbattuto
direttamente fuori dalla villa, “Eppure so di poter dare a
vostra figlia amore e protezione, e tutto il resto di cui necessita una
moglie”.
“E perché farebbe questo, signor
Inuzuka?” chiese Hiashi Hyuuga, gli occhi glaciali e una
velata minaccia nascosta nella voce sottile
“Perché rinunciare prematuramente alla
libertà e accettare a soli sedici anni un legame
matrimoniale?”
Dopodiché, Hiashi, dopo settimane, scoccò alla
figlia uno sguardo violento e omicida: possibile che quegli occhi di
vetro avessero adescato anche quel giovane?
Hinata si nascose dietro la frangia per proteggersi dagli insulti
paterni.
Possibile che anche
Lavinia si sentisse così debole e inadeguata di fronte al
padre, Latino, che, al contrario di Hiashi, l’amava e
venerava come se fosse una stella inciampata e caduta dal
cielo? Forse era stato per assecondare l’amore
paterno, e non l’odio, come invece faceva lei, che
si era ridotta a cercare l’amore in uno sconosciuto,
prescelto dal destino.
Kiba assunse una sfumatura violacea e un’espressione confusa,
mentre il sudore gli si annidava sotto i ciuffi eccezionalmente
imbrattati di gel.
Hinata chiuse gli occhi, con un flash bianco che implodeva sotto le sue
ciglia, un ronzio famelico che le perforò le orecchie: il
senso del deja-vù era sempre stato fastidioso per lei, come
un improvviso vuoto d’aria, quando i polmoni
raggiungevano la gola.
Gli occhi nocciola di Kiba si sostituirono per un istante a quelli
perlacei di Neji, quelli seri e duri di quando erano venuti al corrente
della decisione dello zio e delle condizioni della cugina. Ancora una
volta Hinata, commossa e spezzata, aveva ricevuto un aiuto, il soccorso
di due forti braccia che l’avevano stretta.
.Aveva sentito la salda morsa del rigido cugino, e la forza del suo
soccorso. Il suo SOS era stato ascoltato.
Kiba sollevò di nuovo gli occhi( determinati come quelli di
Neji), una scintilla di sfida gli attraversò come una
fulgida stella cadente.
“Perché non potrei vivere senza Hinata”
mormorò; la sincerità esplodeva dalle sue parole,
come le lacrime mal celate di Hinata. Le stesse parole di Neji.
Hinata sentì i polmoni distendersi, con loro il suo stomaco
attorcigliato, e anche i lineamenti che fin a quel momento erano
contratti in una smorfia di agonia. Incrociò di nuovo lo
sguardo di Kiba, coraggioso ed eroico, e comprese. Non era amore
passionale quello che li univa, ma un filo intrecciato di amicizia,
rispetto, fiducia; un legame a volte rosso di malizia, candido di
amicizia, nero di preoccupazione. Ad occhi estranei quel legame poteva
essere interpretato come volgare dipendenza, come semplice amore, come
ingenua e ambigua tenerezza. Molte voci erano circolate sul loro
particolare rapporto, ma non c’era amore tra di loro. Si
erano donati la rispettiva intelligenza per affrontare la scuola, gli
sguardi per dirsi “non ti preoccupare, va tutto bene,
andrà tutto bene”, la rispettiva
sincerità per litigare e poi riappacificarsi, le loro mani
per asciugare lacrime mai versate, il loro odio per potersi arrabbiare
con loro stessi, col mondo, con la famiglia, ed essere ascoltati il
silenzio.
Si erano donati la loro amicizia per camminare mano nella mano senza
vergogna o ambiguità. E alla fine, tutti quei piccoli,
ancestrali gesti erano risultati inscindibili e insopportabilmente
necessari. Hinata aveva costruito lo stesso rapporto tra lei e Kiba con
il cugino. Chi aveva consolato Neji, quando teneva ancora il dito in
bocca e i suoi genitori erano morti carbonizzati, strozzati dal relitto
dell’auto che si era schiantata contro la loro? Era stato lo
zio Hiashi, che l’aveva accolto come un militare appena
giunto al fronte? Era stata la cugina Hanabi, viziata e supponente, che
ancora adesso gli ricordava i “sacrifici economici”
che dovevano sopportare per la sua superflua presenza? Hanabi, che
negli occhi freddi aveva le stesse fiamme che anni prima avevano
avvolto e strangolato la sua infanzia?
Per questo Neji, soltanto lui tra tutti gli Hyuuga, era venuto a
salvarla, era accorso al suo terrorizzato SOS.
“Devi scappare, Hinata” le aveva imposto Neji, con
una voce incerta che aveva la consistenza di un ordine.
“Ma non posso, Neji! Mio padre mi troverà,
ribalterà il mondo per cercarmi!” aveva
singhiozzato Hinata, senza celare le lacrime piene di angoscia.
“Ti nasconderai per pochissimo tempo!Cercherò un
avvocato e lui porterà la causa in tribunale…tuo
padre non può importi anche questo!” aveva
mormorato Neji, con le labbra serrate dal nervosismo.
“Nessuno si metterebbe mai contro Hiashi Hyuuga! Neji,
è una pessima idea, e tu rischi troppo…e poi come
faremo a scappare??” aveva gridato Hinata, con le mani sul
cuore, a difendere la sua vita.
“Chiamerò Rock Lee e Ten Ten, vedrai che con il
loro aiuto usciremo dalla villa in un batter
d’occhio” aveva esclamato il cugino mentre si
aggrappava, concitato, al telefono. Rock Lee, il ragazzo imbranato con
l’animo di un Guerriero, e Ten Ten la ragazzina che prima era
Qua e in un attimo era La.
Hinata, attraverso lacrime di angoscia e gratitudine, aveva osservato
Neji con il volto corrugato e ripiegato su se stesso, come un origami,
che però manteneva il suo freddo autocontrollo. Anche le sue
mani sottilissime sembravano lisce e curate come quelle di un bimbo.
Era incredibile che anche dopo le terribili privazioni affettive che
aveva subito, almeno fisicamente si fosse mantenuto integro e perfetto:
non una cicatrice, se non quella perennemente occultata sulla fronte,
segnava il suo corpo giovane e virile, rilassato anche in quella sera
infernale.
Le sciagure di Neji si erano avvitate su se stesse, in
quell’anima ancora frastornata da tanto dolore; eppure Neji
era la Vite, un fragile e minuscolo pezzo di ferro che
sosteneva palazzi e, con essi, vite e famiglie. Erano forse tutti quei
dolori nascosti, avvitati nei suoi ricordi, ad averlo reso immune da
ulteriori turbamenti?
Hinata non ebbe il tempo di chiederglielo, e c’erano tante
domande che avrebbe voluto porgli, perché erano stati
interrotti da un rumore alla porta. Hanabi era entrata, il ghigno
deforme, gli occhi che esplodevano come petardi
dall’eccitazione, mentre quasi si sfregava le mani. Hinata
sospirò al ricordo: quella notte per Hanabi era stato un
trionfo, la notte dove si era sbarazzata di quell’ingombrante
e inetta sorella maggiore, una barriera di vetro che la divideva dalla
direzione dell’industria di famiglia, e
dell’ambizioso cugino, che aveva ricevuto fin troppi elogi
per i suoi successi. Hinata e Neji erano sulla cima,
sull’orlo della loro sconfitta, e Hanabi li aveva spinti
giù, con un soffio.
Hinata non sapeva cosa provare nei confronti della sorellina, non
sapeva trovare un nome all’odio di Hanabi: dopo anni a
riverire quella bimba capricciosa, a riempirla di attenzioni, ad
accompagnarla a scuola senza lasciarle mai, mai! la mano, chiedeva
soltanto un minimo di misericordia e riconoscenza, in nome del loro
eterno legame. Forse solo in quel momento, quando aveva visto Hanabi,
trionfante come un Fuoco d’Artificio, bloccarle il passaggio
e tarparle le ali della libertà, aveva capito quanto poco
valessero i legami di sangue, rispetto alla generosità degli
amici. Neji era stato punito e allontanato dalla villa per essere
trasferito nella casa al mare, in attesa di un severo provvedimento,
senza che lui e la cugina potessero scambiarsi un ultimo sguardo di
speranza.
“Ho i miei motivi per ritenere Itachi Uchiha un candidato
migliore di voi, signor Inuzuka. Ormai è ora di pranzo e la
vostra presenza non è più gradita”
concluse Hiashi Hyuuga, con un gesto appena visibile, stizzito. Solo il
pallore e il terrore di Hinata convinsero Kiba a lasciare
l’inarrivabile dimora Hyuuga. Ormai congedato, il ragazzo
sparì dietro la villa, lasciando un buco nel cuore di Hinata
e il discorso che aveva scritto per corrompere la decisione di Hiashi,
una falsa dichiarazione per la salvezza della sua migliore amica(
almeno Hinata aveva avuto la conferma di questo legame). Parole di
poesia, parole perse.
Il ghigno di Hanabi era enorme. Riempiva tutta la stanza.
In questo atto ho messo in evidenza l’amicizia fra Hinata e
Kiba e Hinata e Neji. Ho deciso di dare a Kiba una connotazione
borghese perché nel manga fa comunque parte di un clan
famoso, ma di certo non importante o ricco come il clan Hyuuga o
Uchiha. Qui Neji è orfano e vive con Hinata, Hiashi e
Hanabi. Quando Kiba e Neji dicono “perché non
potrei vivere senza di lei” parlano di una rapporto di
amicizia molto forte, e non sono innamorati di lei. Il nome del titolo
è preso dalla canzone “Here I stand” dei
Madina Lake. In questo atto c’è la figura di
Latino, padre di Lavinia, che amava la figlia e la voleva dare in sposa
all’uomo scelto dal fato, perché credeva che fosse
il meglio per sua figlia, ma nell’Eneide non dice che ha
chiesto il suo parere(ovviamente >_<). In questo
atto emerge la potenza degli Hyuuga: infatti possono corrompere la
giustizia e pagare perché i loro misfatti vengano celati.
D’altronde, succede anche qui da noi
ù_ù.
Damis: scusa
ancora per il nome cara^^’. Sei riuscita a leggere il
capitolo due volte??Spero che tu non ti sia depressa troppo!Ecco, lo
sapevo che si capiva troppo presto, ora ho rovinato tutta la
sorpresaXD(me tapina._.)Allora alla prossima carissima!LaLa
Shatzy:
è vero, questa fic è un minestrone,
c’è troppa robaXD I tuoi commenti sono molto
più toccanti della mia fic, carissima, sono sempre
più commossaç_ç. Certo che al Cervo
piacciono le palline, lo facciamo diventare un giocoliere??XD Guarda, a
me il fatto che Hinata nello Shippuden portasse le zeppe mi
è piaciuto moltissimo…non so, mi dà
l’idea di essere già alta, eppure le porta, come
un unico vezzo personale che le concede la sua timidezza. E senza di
questo Hinata sembra veramente priva di qualsiasi
forza…Attendo con ansia i tuoi bellissimi
commenti!Bacioni,LaLa
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Capitolo 5 *** Atto Quarto: Jillian, our dream ended long ago ***
Atto Quarto: Jillian, our
dream
ended long ago.
One
Days to death
Cuz out there I'm
always wrong.
“Ma non sembrano anche te una coppia decisamente
fastidiosa!Insomma, persino a livello cromatico sono
inguardabili!”
“M-ma N-aruto, quando s-si ama n-non si pensa ai
colori!”
“Si, ma almeno un po’ di rispetto per i nostri
occhi! È come se mi tirassero un pugno!”.
Ma purtroppo Sakura e Sasuke erano troppo impegnati a coccolarsi nel
loro nuovo mondo per preoccuparsi degli occhi altrui. In quei giorni,
persino il freddo Uchiha sembrava più sereno mentre guardava
ogni gesto della sua nuova ragazza. Alcuni dei loro compagni di classe
gli rimproveravano di essere troppo taciturno e distaccato con Sakura,
ma Hinata, che forse balbettava ma vedeva molto meglio di tanti
chiacchieroni, vedeva gli occhi color ebano di Sasuke che si
soffermavano su ogni leggera sfumatura di Sakura: di come si arricciava
ai capelli, annoiata, durante le lezioni di storia; di come sorrideva
impacciata ma soddisfatta ad ogni buon voto; dello scintillio che
animava i suoi occhi di smeraldo, ogni volta che lo sorprendeva ad
osservarla. Sakura, in quei giorni pieni di vento che avevano preceduto
un apocalittico Maggio di intenso sole, era radiosa come
l’estate che si avvicinava sempre più, di giorno
in giorno. Hinata l’aveva vista uscire dal gelo
dell’inverno, dell’infanzia e aprire le corolle
verso il sole dell’amore, che le aveva dato
l’energia e il calore per crescere, maturare. Hinata aveva
sempre pensato a Sakura come un magro e nodoso Ciliegio; di quelli
sottili come ciglia, ma ben radicati al loro suolo d’origine.
Sakura non aveva mai permesso che le radici del suo amore lasciassero
il cuore di Sasuke; né vento né pioggia
l’avevano smossa, né sole né notte
l’avevano convinta ad abbandonare il vero amore per un
volgare sostituto. Sì, Sakura era sbocciata nella primavera
della sua vita. E Sasuke, come uno Scoiattolo, si era rifugiato tra i
rami accoglienti, pieni di fiori.
“E poi la povera Sakura non sa in che guaio si
è cacciata!Perdere la testa per quel mezzo emo…ma
come si fa??” aveva mormorato per l’ennesima volta
Naruto, digrignando i denti come se stesse cercando di non sputare
veleno su i suoi due migliori amici. Hinata sapeva che Naruto ci
avrebbe messo del tempo a smaltire la collera per il “tiro
mancino” che gli avevano giocato il suo eterno amico/rivale e
la ragazza che da tempo lo affascinava, con il suo sorriso sincero e le
sue gote di pesca.
Così Hinata lo aveva accolto nel suo angolo isolato e
timido, nel suo banco accantonato al muro, nel suo nido in cima alla
classe, in modo che smaltisse la delusione lontano dai banchi dei
neo-fidanzati; e ne aveva di astio da smaltire, sembrava una ragazzina
alle prese con i chili di troppo. Per la prima volta, Hinata poteva
osservare senza sforzo e senza pudore quegli occhi infantili che si
stavano tingendo delle sfumature adolescenziali, più scure,
più serie. Ma il suo carattere era ancora un frutto acerbo.
“Hinata, ma li hai visti? È disgustoso!”
aveva mormorato durante l’ora di storia, mentre guardava con
puro odio uno sguardo particolarmente intenso di Sakura e uno seccato
ma compiaciuto di Sasuke che aveva attraversato metà classe.
Hinata aveva sollevato gli occhi madreperlacei dagli appuntì
che svolazzavano impazziti al vento di Aprile e si era soffermata per
un’eternità sul broncio di Naruto prima di
rispondergli.
“è-è vero, Naruto: q-quando s-si ama,
è difficile n-non essere amati”
mormorò, imbarazzata, le dita che si intrecciavano convulse.
Naruto la guardò stupito, distogliendo gli occhi celesti dal
suo bersaglio.
“P-però l-l’amore non muore
m-mai…può a-accrescere e aff-f-f”
sospirò, maledicendo quella lingua tremante
“affievolirsi, ma non muore. P-può
mutare, ecco, c-cambiare sog-getto, ma non muore. Mai”
concluse, con le gote imporporate di soddisfazione, come una bambina a
Natale. Non poteva crederci: stava parlando con Naruto, cercava di
fargli capire il desiderio impellente del suo cuore.
Hinata ricordava quel momento con amore ed eccitazione,
perché sapeva che proprio da quella frase, in quel giorno
pieno di vento, che spazzava via le sporcizie dell’inverno,
era nata la scintilla del loro amore.
Loro, perché quella di Hinata era nata e cresciuta fin dai
primi giorni di scuola: l’anno in cui lei, la ragazzina di
cristallo, la luna cieca, aveva incontrato il re del cielo, il sole
splendente. Aveva imparato a memoria le sua abitudini, le sue battute
preferite, i suoi gesti, tentando di
assomigliarli…finché la sua idolatria non si era
tramutata in amore sofferto.
Quel pomeriggio, il pomeriggio della scintilla, Naruto, allo scoccare
della campanella l’aveva affiancata, e assieme avevano
camminato fino alle pendici della collina sormontata dalla villa
Hyuuga. Frustati dal vento, erano riusciti a scambiarsi qualche parola
e qualche sorriso; Hinata era imbarazzata ed estasiata, mentre vedeva i
suoi desideri, pieni di speranza e paura, avverarsi.
“Se vuoi faremo la strada assieme più
spesso” aveva detto Naruto, con il vento tra i capelli e gli
occhi incerti, quasi timorosi: probabilmente si stava chiedendo cosa
fosse quella nuova stretta al cuore, quanto fosse profondo
l’affetto di Hinata nei suoi confronti, per quanto tempo li
avesse covati per vederli schiudersi, se poteva esistere la
possibilità di ricambiarli. Nei giorni seguenti erano
circolati molti pettegolezzi circa le deviazioni di Naruto e le menti
dei loro compagni di classe erano intasate dal perenne traffico di
pensieri che potevano formulare su quella strana coppia: gli opposti,
vetro e metallo, che camminavano assieme sotto il sole. Tutti
spettegolavano, ma in fondo credevano che Naruto avesse cambiato strada
solo per non incrociare la coppia che prima di lui era stata oggetto di
scoop vari, Sasuke e Sakura. Ma Hinata sapeva che non centrava solo
l’astio di Naruto verso la coppia o il suo amore tradito da
Sakura, oggetto del suo cuore da tempo. Naruto, dietro i suoi scherzi e
le sue battute, stava cercando di riordinare i suoi sentimenti: dove
disporre un’amicizia perduta, un legame con Sasuke che voleva
recuperare? In quale cassetto nascosto poteva pigiare il ricordo di
Sakura? Voleva buttarlo o solo nasconderlo, per conservarlo? Dove
appoggiare l’affetto infinito che aveva letto recentemente
gli occhi limpidi di Hinata?
Alla fine aveva deciso di metterlo metaforicamente in primo piano, sul
comodino, assieme all’unica foto dei suoi genitori, alla
sveglia che non riusciva mai a destarlo, alla presenza del suo tutore
Jiraya, che nonostante il suo modo duro era rimasto tante, troppe
volte, era rimasto a vegliarlo quando era stanco o malato.
“E un giorno volerò proprio
lassù” aveva esclamato Naruto,
quell’innocente ventuno di Marzo, mentre tornavano a casa. Il
suo viso arrossato era una maschera di gioia. “Non sai come
sarà bello volare in mezzo alle nuvole!Certo non
sarà facile, ma alla fine riuscirò a diventare il
pilota più in gamba di tutti i cieli, proprio come mio
padre!”. Hinata aveva continuato a guardarlo, concentrata e
ammirata, mentre gli occhi di Naruto si confondevano con il cielo.
“Allora s-sei sicuro? Non h-hai paura di volare, di
r-rischiare, di rimanere n-nel vuoto?Non h-ai paura di r-rimanere da
solo?” gli domandò impensierita. Naruto si era
voltato e l’aveva guardata confuso: non comprendeva la sua
paura, non riusciva a capirla. Ma una cosa poteva farla: poteva
salvarla, da quella paura ignota.
Le si era avvicinato e lei lo aveva aspettato, come sempre, nella
realtà come nei sogni. Naruto le aveva sorriso, mentre
entrambi stavano ringraziando di essere sotto lo stesso cielo, di
respirare la stessa aria, di essere così uniti.
“All’inizio sarà difficile”
cominciò, con il sorriso ammantato della solita,
irrefrenabile allegria “ma dopo aver imparato sarà
tutto più facile: la prima volta è sempre
così: ci sentiamo soli e possiamo contare solo su noi
stessi, mentre temiamo di cadere nel vuoto. L’assenza di
aiuto può essere devastante all’inizio, ma poi si
impara. Bisogna solo rischiare”.
Un altro dei suoi sorrisi splendenti…come poteva essere
così imperfettamente giusto per lei?
“E poi, io non sarò mai solo quando
volerò: i piloti di linea non volano mai senza il loro
secondo” aveva riso con sicurezza “Io sono stato
fortunato: in vita mia non sono mai stato solo”.
“N-neanche quando t-ti sei allontanato d-da Sakura e
Sasuke??” aveva chiesto Hinata timida, ancora intimorita
dalla presenza della ragazza rosata nel cuore di Naruto. Ma lui
l’aveva guardata con sorpresa, come se si tesse seriamente
chiedendo se l’amica avesse qualche problema di connessione.
“Bè, no!Ero con te” aveva risposto
sicuro, con il sorriso spensierato di un bambino e sincero di un
adulto. Si erano baciati lì, in mezzo alla strada falciata
dal vento di quel Marzo festante, con il profumo dei fiori imprigionati
nei vasi e qualche ciclista che li aveva guardati incuriosito e sereno,
prima di affrontare la discesa dopo la curva. Aveva ragione Naruto,
come sempre: era bello volare e lasciarsi andare, dopo aver imparato,
dopo essersi tenuti per mano.
Sembravano passati secoli, dal quel Marzo pieno di sogni.
Hinata, rinchiusa nella sua stanza, allungò la mano, ma non
trovò quella calda e forte di Naruto, come le aveva promesso.
“Non ti lascerò mai, ti
condurrò attraverso i tuoi passi. Se tuo padre non
è capace di fare il padre e Hanabi di fare la sorella, io
sarò entrambi” le aveva detto pochi giorni dopo il
bacio, sempre su quella strada piena di vento.
Promesse sfaldate, distrutte.
Hinata allungò di nuovo la mano, ma tutto quello che
riuscì ad afferrare fu un raggio di luce invisibile, che
filtrava con intraprendenza nella stanza buia. Un'altra fitta di
nausea, e l’esofago in fiamme. Hinata gemette, nel suo letto,
tra le coperte sudate, agognando il sonno ma senza riuscire a
raggiungerlo. Era stata troppo tempo chiusa in casa per ricordarsi cosa
fosse la fatica e il godimento di un sonno ristoratore dopo di essa. Si
sentiva gli occhi gonfi di una fatica confusa e i sensi intorpiditi
dall’apatia.
Avevi promesso che mi
avresti accompagnato sul cammino della vita, mano nella mano, senza
lasciarmi, perché dovevo imparare a camminare davvero. Ma
ora dove sei? Dovevi insegnarmi ad amare, a non balbettare, a vivere.
Perché ti hanno mandato via?
Hinata aveva sempre pensato di essere stata più prudente di
Sakura e di Sasuke, che mostravano il loro tenero amore con i gesti
più disparati e sinceri. Alla fine erano giunte le prime
problematiche, e Hinata non ne era rimasta sorpresa, anche se era stata
colta dalla tristezza e dall’amarezza.
Per loro fortuna, Fugaku Uchiha era troppo impegnato a
combattere la causa di furto di cui era accusato Itachi per controllare
il figlio minore, che usciva con una ragazzina di basso ceto e che
aveva avuto accesso al prestigioso collegio solo grazie a una generosa
borsa di studio. Anche Mikoto Uchiha, la madre di Sasuke, aveva accolto
la presenza di Sakura senza repliche; aveva fatto un sorriso breve e
con voce candida aveva mormorato: “Basta che non la
sposi!”.
Hinata e Naruto, invece, erano costretti a percorrere chilometri e
chilometri per trovare un piccolo paradiso riparato dove coltivare il
germoglio del loro neonato amore. Ma Hinata vedeva sempre
più spesso il paradiso, lucente e ameno, perché,
fondamentalmente doveva avere due sole caratteristiche: essere lontano
da Villa Hyuuga e nello stesso posto in cui si trovava Naruto. Era
incredibile come ogni sciocchezza, ogni sorriso, ogni bambinata di quel
ragazzo che cresceva, incostante e insicuro, in quel bagno di ormoni,
riuscisse a renderla serena. Si sentiva cullata e protetta,
come se sua madre fosse finalmente tornata, e Naruto riuscisse a
sbloccare i ricordi della sua infanzia: il sapore del latte caldo, le
ninne-nanne della mamma, le labbra paffute di Hanabi che succhiavano
dal suo seno. Ogni gita al parco, al mare,a un negozio, a un bar erano
esperienze nuove che Naruto riempiva di allegria, chiacchiere e
insegnamenti: Hinata gli aveva chiesto di aiutarla ad uscire dalla sua
conchiglia di timidezza. All’inizio Naruto era rimasto
spiazzato: gli sembrava una cosa innaturale, come dover estrarre un
paguro dalla sua casa. Però alla fine si era convinto e,
quando Hinata era riuscita ad eliminare quasi del tutto il suo
balbettio( almeno con lui) ne era rimasto affascinato ed entusiasta.
“Bravissima! Allora le mie lezioni servono a
qualcosa” aveva esclamato con il suo solito sorriso pieno di
luce, e l’aveva baciata con impeto, anche troppo.
E Hinata aveva imparato ad amare, a volare, a dare un nome a
quell’eccitazione che le esplodeva nel cuore e tra le
mutande, anche se cercava pudicamente di nasconderla. Ma non era
riuscita a controllare il suo desiderio: la voglia, il bisogno di
essere amata nella sua interezza. Cosa ne sapevano i frigidi Hyuuga
dell’amore passionale, degli sguardi che nascondono sogni
segreti? Cosa ne sapevano dei desideri, della necessità
psicologici e fisici di una ragazza cresciuta come una pianta in una
serra, senza la vera luce, senza la vera pioggia? Cosa ne sapevano del
suo cuore che batteva ogni giorno, furioso e frustrato, senza trovare
una valvola di sfogo per riversare tutto l’amore che in anni
di desolazione era rimasto imprigionato nel suo animo?
Hinata si era sempre sentita sbagliata, nel mondo degli Hyuuga:
sbagliata, coi suoi voti mediocri e le interrogazioni farcite di
balbettii, con la sua timidezza che sfociava nel vero e proprio terrore
per le relazioni umani, dell’eccessiva bontà con
cui trattava i suoi sottoposti. Solo tra le coperte di Naruto, solo fra
le sua braccia forti che fasciavano il suo corpo maturo, solo con il
cielo sopra la testa, tagliuzzato nel soffitto, si sentiva a casa. Ma
bastava attraversare la porta e tornare in strada, perché si
sentisse sbagliata, per gli Hyuuga, per la sua città, per la
relazione con Naruto. Aveva sempre torto, nel mondo. Eppure non trovava
nulla di scandaloso e vergognoso guardare il ragazzo che amava dormire
e rigirarsi tra le coperte, accarezzare il suo profilo nella penombra,
sfioragli la mano, stare abbracciati sotto il cielo splendente che si
rifletteva nella finestra sul soffitto della camera. E ogni volta che
passava un aeroplano, era una festa.
“Un giorno sarò lassù”
esclamava Naruto, mentre indicava la scia candida che striava il cielo
e Hinata osservava il lenzuolo leggero che mostrava gli addominali del
ragazzo.
“Però mi lascerai da sola: tu sarai in cielo e io
rimarrò a terra” aveva mormorato Hinata,
impensierita.
“Bè, potrai sempre essere la mia
hostess” aveva proposto Naruto, con appena un lampo di
malizia negli occhi sereni, mentre guardava Hinata che, imbarazzata, si
rifugiava sotto il lenzuolo che comunque non nascondeva il suo rossore.
Ma la profezia di Hinata si era rivelata esatta: lei era una figura
terrena, condannata a rimanere ancorata al suolo, al fango, mentre
Naruto poteva innalzarsi in cielo.
Una nuova fitta di nausea. Hinata sentiva la desolazione inondare
quella stanza buia: quasi colava, dalle pareti in penombra. Era stata
smascherata e tradita; era stata cacciata dal suo piccolo paradiso,
come una schifosa peccatrice.
Non avrebbe mai dimenticato gli occhi carmini e infestati di spettri
della professoressa Kurenai, quando li aveva sorpresi a baciarsi in
aula vuota, durante l’intervallo, al riparo dai pettegolezzi
e dalla furia che la loro relazione avrebbe scatenato.
L’insegnante era rimasta avvilita e attonita: il suo viso e
il suo copro florido in quei giorni erano stati sfasciati dal dolore
per la perdita del marito e per l’inizio della gravidanza.
Ogni parte di lei sembrava gridare, soffocata: i rimasugli del trucco,
seccati sotto le palpebre, le labbra tirate e pallide, i capelli
ingarbugliati, come vele nella tempesta. Eppure il suo improvviso e
terribile lutto non avevano impedito al suo orgoglio di riportarla al
suo dovere, e come i fili di una marionetta l’avevano
riaccompagnata a scuola, dove non aveva mai permesso alla sua
disperazione di evadere. Ma Hinata aveva riconosciuto la gelosia,
affamata di rancore, l’ingiustizia che sentiva
nell’animo al pensiero che mentre lei stesse vivendo
l’inferno due suoi studenti potessero amarsi indisturbati.
Hinata, imbambolata, era tornata a casa con una vergognosa nota in cui
era scritto che aveva avuto un comportamento irrispettoso e osceno in
ambito scolastico. Ma cosa c’era di osceno, di peccaminoso,
nell’amore semplice e puro, che aveva unito due anime
opposte, come cielo e mare?
Cosa c’era di osceno in un bacio, manifestazione fisica della
sua salvezza?
“Così mia figlia, la mia primogenita, discendente
della nobile famiglia Hyuuga, si è fatta sorprendere mentre
faceva la puttana con il protetto di quel maiale di Jiraya??”
aveva urlato Hiashi, con le mani attaccate al tavolo e le nocche
bianche, per trattenere la sua ira. Il mondo di vetro degli Hyuuga si
piegò, sofferente, sotto quell’urlo pieno di ira.
Hiashi era freddo, statico, glaciale, non urlava mai: eppure quella
volta l’onta subita era troppo scandalosa.
“Pensi davvero che adesso potrai stare con lui, e passeggiare
per strada come se fossi la sua sgualdrina gratuita??” aveva
continuato, terribile nel suo odio “Te lo
proibirò! Il protetto di Jiraya, ti rendi conto?? Quel
pervertito che poggia il culo su cuscini comprati con gli incassi dei
suoi libri…porcate, schifezze! E tu frequenti il suo
teppista!”.
Hiashi era andato avanti per ore, ore che scorrevano lente e ansimanti,
ore dove gli occhi terrorizzati di Hinata erano rimasti fissi sulle sue
mani tremanti( sembravano così vuote senza quelle di Naruto
intrecciate ad esse). Hanabi, dall’altra parte del tavolo,
una statua di sale di fianco al padre fuori di sé, guardava
la sorella con disprezzo e disgusto.
“Perché quel demente, Hinata??”
urlò di nuovo Hiashi.
Perché,
principessa, ti sei innamorata del drago, invece del cavaliere
dall’armatura lucente?
Perché,
Lavinia, ti sei innamorata di Turno, invece di Enea, il principe
preannunciato dal fato?
Hinata sapeva la risposta: perché Naruto era il nome della
rondellina del Ramen. Era il nome di un ingrediente fondamentale per
quel cibo, il preferito di Naruto, con il suo succoso sugo di carne,
gli spaghetti sottili e le verdure cotte. Naruto amava il suo nome
perché aveva un sapore, una fragranza a cui essere
associato; se lo poteva magiare, il suo nome. Era il nome di un cibo,
caldo, dissetante, che poteva far esultare, che poteva attendere un
lavoratore dopo un lungo giorno di fatica, che poteva salvare una vita.
Hinata aveva potuto sentire il suo profumo, forte e speziato, e
associarlo al suo amore, aveva potuto rammentarle i momenti di pace
trascorsi con lui. L’avevano mangiato assieme, dopo che
Naruto l’aveva contagiata con quella sua strana passione per
la cucina orientale, e aveva dato un odore, un sapore fisico alla loro
relazione. Naruto era un nome che dava sostentamento alla vita, al
copro, e, nel caso di Hinata, alla sua anima. Lei era stata avvolta da
quel Vortice di amore e speranza, che l’aveva risucchiata nel
fiume dell’amore.
“Spero almeno che tu non ti sia spinta oltre! Che vergogna
per la casata, sapere che sei davvero una puttana!” aveva
detto Hiashi, un’altra ondata di insulti che non aveva mai
pronunciato.
Gliel’avevano dovuto tirare fuori con le tenaglie, quel
segreto prezioso, il sacrificio della sua verginità per il
vero amore, e, per averne conferma l’avevano trascinata dal
medico.
E lì Hinata aveva ricevuto un altro duro colpo.
“C-come sarebbe?” aveva domandato al ginecologo,
che aveva frugato nel suo corpo come solo Naruto aveva avuto il
permesso di fare. Maledetto balbettio, perché era tornato?
Non era morto, seppellito, defunto, con il tremore alle mani?
“Non ci sono dubbi, signorina, mi dispiace. Ha avuto un
rapporto non protetto?” chiese il ginecologo, un piccoletto
con i capelli brizzolati incollati al cranio. Hinata scosse la testa,
appena appena, come se fosse una sonnambula che si era svegliata
sull’orlo di un dirupo.
“Allora suppongo che il vostro anticoncezionale fosse
danneggiato. Lei è incinta di quasi un mese, signorina, e
questo è quanto” concluse il ginecologo, senza
sapere che aveva lasciato la corda della lama che stava ghigliottinando
la vita di Hinata. La ragazza boccheggiò, avvilita, confusa,
terrorizzata. Si portò una mano all’addome, ancora
piatto, ancora intatto: era la sua creatura ad averle fatto venire gli
attacchi di nausea qualche giorno prima? Non era stata la paura? Era un
bimbo nato dall’amore a farla soffrire. Un mese
prima…possibile che quel rapporto, intenso e magnifico,
appena dopo il ciclo, avesse comportato la nascita di un seme che stava
crescendo di giorno in giorno, riscaldato dal suo sangue innamorato e
sfamato dal suo stesso cibo? Possibile che non avesse controllato il
profilattico, lei che si era vantata di essere stata più
prudente e scaltra di Sakura e Sasuke?
Lo sguardo del ginecologo fu l’unico pieno di comprensione e
pietà che le fu rivolto in quei giorni. Mentre si avvolgeva
le braccia attorno alla gambe tremanti, non sapeva ancora che Hiashi
avrebbe girato in tutta la casa imprecando contro quella stramaledetta
puttana della figlia maggiore, dopo aver ricevuto la notizia della
gravidanza indesiderata.
Hinata era tornata a casa, segregata nella sua stanza troppo grande e
vuota, senza poter vedere il cielo sul soffitto. Avrebbe abortito: al
solo pensiero di uccidere la creatura concepita dal suo immenso amore,
colei che era una parte di entrambi, colei che sarebbe nata e avrebbe
potuto regalarle il sole, si era sentita morire ed era stata presa dal
desiderio di seppellirsi nel suo dolore, ma non aveva altre alternative.
Hiashi tuttavia aveva altri progetti, e Hinata li aveva scoperti il
mattino a dopo, che si era tinto di un silenzio orripilante.
“N-non potrò a-abortire?”
sussurrò come una condannata durante la sua ultima
confessione.
“Non permetterò che nella mia famiglia avvenga un
ulteriore scandalo. Se si venisse a sapere, sarebbe un’onta
che non potrei sopportare!Inoltre” continuò freddo
Hiashi “potremmo volgere questo espediente a nostro
vantaggio”.
Hinata guardò il padre, con gli occhi bollenti e gonfi di
lacrime, l’ignoto che si spalancava sotto i suoi piedi. Stava
per svenire, lo sentiva.
“Non posso fidarmi di te: non metterai più piede
in quella scuola…con gli schifosi individui che ne fanno
parte” piegò Hiashi, le labbra serrate
dall’odio, come se volesse sminuzzare e distruggere quegli
ultimi, scandalosi giorni. “Studierai a casa. E ovviamente
dovremo trovare una giustificazione per la tua…
situazione” continuò mentre indirizzava
un’occhiata disgustata al ventre della figlia traditrice e
ingombrante.
Sbagliata.
“Stai per sposarti”.
Hinata era avvolta in una lunga veste turchina, larga e sformata, come
se ci fosse già stato qualcosa da nascondere. Il
suo viso era stato chiazzato di trucco: una luna inquinata da smog e
fumi.
Dopo i suoi ultimi penosi giorni di scuola dove aveva cercato di
inviare SOS disperati, quella sera, caratterizzata da un caldo atroce,
avrebbe conosciuto Itachi Uchiha, suo futuro marito, il nuovo padre del
bambino. Non aveva avuto scelta, quel ragazzo taciturno e apatico, dato
che Hiashi Hyuuga aveva aiutato Fugaku a liberare il giovane dalle
accuse che gravavano su di lui.
Hinata attendeva l’inizio della cena, ammantata di candore e
lucciole appena nate, mentre le cameriere le appuntavano gli ultimi
gioielli. Pesavano, la trascinavano verso il fondo, verso il buio delle
iridi di Itachi. Poteva suo padre aver scelto uno sposo così
diverso dal suo vero amore? Poteva aver dato sposa alla luna la notte
invece che al sole? L’aveva fatto intenzionalmente, per
vederla guardare quei lineamenti incavati e non trovare quelli marcati
di Naruto?
Naruto…negli ultimi giorni di scuola l’aveva
cercato invano, nei corridoi deserti e nelle aule accaldate, tra i
mattoni roventi, e, per trovare un minimo di conforto, aveva alzato gli
occhi al cielo e cercava, tra il sole incandescente, il cielo blu.
Aveva pregato per il suo aiuto, per la sua spalla che le aveva sempre
offerto, per le sue braccia protettive e i suoi impavidi sogni.
Il loro sogno era morto, assassinato, lasciato a marcire, ad affogare,
nel suo sangue. Naruto era volato via, tra le nuvole, tra i suoi sogni:
Hiashi aveva avvertito Jiraya che quel delinquente doveva sparire e non
disturbare ulteriormente gli ultimi giorni di Hinata. Così
la ragazza aveva dovuto sopportare in solitudine non solo i
pettegolezzi ma anche lo sguardo preoccupato di Sasuke per
l’improvviso fidanzamento del fratello, le domande di Ino,
che aveva sentito la professoressa Kurenai sgridarle lei e Naruto per
il loro comportamento indecoroso, gli aiuti vani di Kiba e Neji, e
infine, la terribile decisione di assumere della droghe da Gaara, nel
disperato tentativo di abortire.
“Il nostro sogno è morto”
mormorò, terrorizzata e angustiata, mentre prendeva posto
vicino ad Itachi, sotto gli sguardi perfetti degli Hyuuga.
Voleva Naruto, voleva il suo sguardo il suo
sorriso…perché non le permettevano di vederlo?
La sensazione agrodolce dell’amarezza impastava la bocca di
Hinata: si sentiva una bambola, una marionetta, che era stata manovrata
per il prestigio della casata, e presto sarebbe stata usata da Itachi.
Eppure Naruto non le aveva insegnato a volare, a non balbettare, ad
amarsi nel sua imperfezione? Ma gli insegnamenti di Naruto, come
l’orizzonte, si potevano ammirare, si potevano sognare, ma
non erano fisicamente raggiungibili. Per uno sprazzo della sua lunga,
troppo lunga, esistenza era vissuta in un sogno, un sogno dove
l’inferno degli Hyuuga aveva lasciato il posto al paradiso
dell’amore. Ma poi la sua anima dannata era stata richiamata
negli abissi dei tradimenti e degli inganni: chi erano gli Hyuuga se
non demoni falsi, che avevano stravolto il mondo per rimettere quella
piccola anima dannata al suo posto? E solo perché la
nobiltà e la ricchezza scorrevano nelle loro vene. Hinata
aveva cercato di trovare un mondo alternativo, dove il valore di una
persona si calcolava con l’amore e con sua perseveranza, con
i suoi sogni e non con il nome o cognome. Ma nome e cognome erano i
custodi del destino, scritto e ricopiato nella vita di ogni persona.
Destino, infame destino, crudele parca che aveva reciso troppo presto
la vita di Hinata. Naruto era lontano, oltre i monti e gli oceani, ma
Hinata sapeva che non l’avrebbe mai lasciata sola: i suoi
sogni, sogni concreti, sarebbero rimasti. Nostalgiche fantasie, e nulla
di più. Sarebbe ritornato, o gli Hyuuga gli avrebbero
impedito di giungere da lei? Avrebbe mai visto la sua creatura?
L’avrebbe riportata nei suoi sogni infiniti? Ora ad Hinata
rimaneva soltanto quella piccola creatura senza forma, nata
dall’amore…avrebbe avuto i sogni e gli occhi
coraggiosi di suo padre?
Gli occhi perlacei e spenti di Hinata volarono verso l’alto,
nell’infantile tentativo di trovare il cielo blu
Ma il sole, con i suoi colori allegri, era tramontato. Era rimasta la
luna, signora della notte.
La signora del nero. La dama eternamente sola.
A Hinata non era mai piaciuto veramente il suo nome: semplicemente non
lo aveva accettato, e un giorno sperava di poterlo cambiare, per mutare
il suo destino…anche perché il nome Hinata le
faceva venire in mente sogni, immagini e colori in contrasto con il suo
animo. Certo, le due “a” le davano un accento
decisamente delicato e femminile, e la “i” iniziale
sembrava il canto di un usignolo che celebrava il ritorno della
primavera.
Hinata significava portatrice di grazia. Solo quello.
Altre donne portavano quel nome come una corona e avevano il riso negli
occhi, le labbra sorridenti di quella grazia naturale che si prostrava
ai loro piedi. Riuscivano a donarlo al mondo, l’eleganza e la
grazia che le contraddistinguevano: regalavano gentilezza e timidezza,
senza chiedere denaro o riconoscenza. Ma Hinata non era mai riuscita ad
esternare la sua generosità senza sentirsi usata, senza
sentire la terribile sensazione che i suoi sentimenti si prostituissero
ai desideri altrui. Dalla famiglia e dai conoscenti, che interpretavano
la sua sensibilità come segno di debolezza. Solo Naruto era
aveva accettato con un sorriso sincero la sua grazia, la sua purezza, e
aveva cercato di farla venire alla luce, al mondo.
Il suo nome, ormai, non aveva più significato. Era la
portatrice di una grazia ormai defunta, inutile.
Era come Lavinia: etimologicamente, non voleva dire un bel
niente. Era un nome inventato da Virgilio, estratto a caso dalla sua
mente piena di idee. Eppure il sommo poeta non aveva dato spazio o
spessore alla caratterizzazione della principessa invisibile. Non si
era mai chiesto cosa volesse dire essere destinati a sposare
l’uomo scelto dal fato, ben sapendo che non era la persona
con gli occhi celesti che aveva atteso per tutta la vita. Non si era
mai chiesto se Lavinia avesse preferito Turno, ad Enea. Solo gli
uomini, i maschi, con le loro imposizioni, con le loro guerre, con le
loro violenze, con le loro ricchezze e con la loro
superiorità ingiustificata potevano decidere la sorte di un
amore sballottato dall’oceano dei sentimenti.
Alla fine, Hinata e Lavinia erano due gusci vuoti, abbandonati e
sepolte come conchiglie nel cimitero del mare: la spiaggia.
Lavinia non voleva dire niente.
Eccoci alla fine^^.
Con la speranza che non vi sia venuta
l’angoscia(improbabile^^’) eccoci
all’epilogo. Dunque, non sono riuscita a capire in che anno
sia stato legalizzato l’aborto in Giappone, ma dato che negli
anni Novanta hanno istituito la pillola-anticontraccetiva, presumo che
sia stato introdotto negli anni Ottanta. Hiashi Hyuuga però
è di mentalità antica, e considerava
l’aborto uno scandalo. Dato che si tratta di una famiglia
potente non dev’essere stato troppo difficile per gli Hyuuga
mettere tutto a tacere e a combinare un matrimonio( anche da noi
succede!Quanti ragazze sono costrette dalle loro famiglie bigotte a
tenere il bambino, e i loro fidanzati a prendersi le loro
responsabilità?). Inoltre, Hinata solo con Naruto era
riuscita ad essere forte…ma senza di lui è
rimasta succube delle minacce paterne(anche se si fosse ribellata
dubito che sarebbe finita bene=_=). Ho preferito dare a Itachi del
criminale per avere una motivazione per il matrimonio(o ti sposi o
finisci in galera…il succo è questo),
perché non mi sembra un personaggio che si fa mettere i
piedi in testa. Ho parlato anche dei problemi di Sakura e Sasuke
perché non credo che a una famiglia nobile facesse piacere
che il figlio stesse con una ragazzina di medio ceto, anche se erano
gli anni novanta(l’ho visto in un film…ma non
ricordo quale^^’). Naruto in questo pezzo
è orfano ed è stato allevato da Jiraya, il suo
tutore, che è un uomo ricco(infatti Naruto è
iscritto al college dei “ricconi”), ma solo
perché scrive libri su un certo argomento^_-. E Hiashi, che
fa parte della vecchia nobiltà, non avrebbe mai accennato un
simile matrimonio. Naruto è stato allontanato da Jiraya,
perché gli Hyuuga avrebbero potuto trascinarlo in tribunale,
per violenza o altre accuse( false, ovviamente). Infine, ho analizzato
il nome di Hinata e di Lavinia; quest’ultimo non significa
davvero niente, è proprio un nome inventato. E Hinata sente
che anche il suo nome è vuoto, se non riesce ad usare la sua
grazia innata per sé e con gli altri. Il titolo è
preso dalla canzone “Jillian” dei Within Temptation.
Spero che sia tutto chiaro^^
Ecco i significati dei nomi richiesti da Shatzy:
Naruto: il nome indica la rondellina del Ramen, un ingrediente
fondamentale per questo piatto giapponese. Uzumaki invece significa
vortice.
Hinata: significa “portatrice di grazia ed
eleganza”.
Hanabi: significa “fuoco d’artificio”.
Itachi: significa “marmotta” o
“faina”, animali di malaugurio.
Gaara: significa “amore per sé stessi”.
Temari: sono le palline di seta giapponesi, usate come gioco.
Ino: significa “cinghiale”, e Yamanaka
“attraverso i boschi”.
Shikamaru: Shika significa “cervo”.
Chouji: Cho significa “farfalla”.
Kurenai: indica un colore identificabile con il rosso smagliante,
mentre il suo cognome, Yuhi, significa “momento della
giornata in cui tramonta il sole”
Kiba: significa “zanna”
Rock Lee: ispirato a Bruce Lee
Ten Ten: significa “qua e la”
Neji: significa “vite”…quella di ferro^^
Sakura: significa “fiore di ciliegio”
Sasuke: significa “scoiattolo”.
Grazie mille a:
damis:
guarda, anche a me piacciono gli happy-ending^^…ma ho deciso
di sottolineare il fatto che anche pochi anni
fa
(ma anche oggigiorno) e perisno nei paesi più moderni nelle
famiglie possono avvenire dei fatti abominevoli. Io credo che si
sarebbe potuto evitare tutto questo dolore, ma purtroppo Hinata non
è stata abbastanza forte. Questo però non
è per colpa sua, ma della famiglia Hyuuga. Credo che sia
ancora più tragico il fatto che una persona sviluppi un
certo tipo di carattere solo per paura o per
costrizioneç_ç Grazie mille per avermi
seguita!!!Bacioni!!
Shatzy: ciao
carissima^_^ Sono felicissima di leggere il tuo commento^^!Comunque,
hai ragione, ho deciso di descrivere prima i personaggi più
lontani da Hinata e poi i più vicini!Spero che ti sia
piaciuto il NaruHina(anche se drammatico) di questo capitolo! Mi piace
che Kiba ti faccia tenerezza, io l’ho sempre visto come una
persona leale e fedele sotto quella scorza da belva selvatica^^. Poi
bè, io in questa storia parlo di lui e Hinata come due
amici, ma in realtà sono una fervente KibaHina*_*. Guarda,
in verità a me Hanabi piace molto( per quanto possa piacere
un personaggio che abbiamo visto sì e no cinque
minuti^^’) e mi dispiace trattarla in questo modo. Ai miei
occhi però appare come una persona ambiziosa e orgogliosa,
che farebbe di tutto per non avere rivali nell’azienda di
famiglia. No, Hiashi non vuole aiutare la figlia
anzi>_> brutto schifoso! Ho messo l’elenco dei
nomi, per qualsiasi dubbio basta chiedere!Alla prossima, bacioni!
Grazie per
l’attenzione,
LaLa
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