Lavinia-Baptised with a perfect name

di Lalani
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo/Epilogo ***
Capitolo 2: *** Atto Primo: Insomnia ***
Capitolo 3: *** Atto Secondo: Petrolio Bianco ***
Capitolo 4: *** Atto Terzo: Because my life without you in it is a life that's not worth living ***
Capitolo 5: *** Atto Quarto: Jillian, our dream ended long ago ***



Capitolo 1
*** Prologo/Epilogo ***


Eccomi, buongiorno a tutti!Questa fic si è classificata prima al “I can’t stay without music Contest” di Only_Me, che ringrazio infinitamente^^ assieme alle partecipanti!Spero di leggere presto le vostre storie.
Dunque, questa fic è angosciante, quindi se siete prossimi al suicidio vi consiglio di non leggerla, se no potrebbero incolparmi di avervi inflitto il colpo di graziaXD La fic, inoltre, è NaruHina, una coppia che io detesto cordialmente, quindi quando parlo di questi due poveracci devo per forza scrivere qualcosa di drammatico. Ma ora passiamo ai caratteri generali: la fic è ambientata negli anni novanta in Giappone e nonostante l’epoca moderna, ho deciso si rendere la famiglia Hyuuga(che sarà protagonista della fic) ancora molto severa e rigida, dato che sono di stirpe nobiliare.
Le altre note autore le ho inserite alla fine di ogni capitolo. Il titolo è la frase iniziale di Amaranth, una canzone dei Nightwish. Buona Lettura^^


Lavinia
Baptised with a perfect name



I've been stranded here and I'm miles away.
Making signals hoping they will save me
I lock myself inside these walls.


23 Maggio 1989


Hinata, annidata a capotavola, come un’aquila, come un’imputata, ascoltava la musica frammentata e frizzante; quest’ultima si insinuava timida nei suo lobi ammantati da enormi perle, che oscillavano lievemente, come se fossero terrorizzate dalla onnipresente forza di gravità. Alla ragazza ogni nota sembrava violenta e sadica, prepotente e crudele...o forse era lei che era diventata troppo fragile?
Villa Hyuuga, quella sera, era un trionfo di candore, perfettamente abbinata agli occhi puri dei suoi abitanti e alla luna eterea, appesa al cielo. Persino il ghigno di Hanabi sembrava più candido e innocente che mai, perfetto nella sua egoista soddisfazione.
Le tavolate, sistemate fra il giardino e la sala da pranzo, eccezionalmente comunicanti, permettevano agli ospiti di godere in contemporanea del profumo cristallino tipico della dimora e dell’amena temperatura serale.
I violini sfrigolavano e i flauti fischiavano note acute, da civette, tutte rivolte alla fragile figura di Hinata, seduta al posto d’onore, dopo anni di ombra. La ragazza avvertiva la stoffa morbida ma troppo, troppo larga, fasciarle il corpo minuto, come se fosse una neonata. Si sentiva proprio così: il respiro strozzato in gola, che vuole esplodere in pianto ma non sa come fare( d’altra parte, non gliel’ hanno insegnato). E poi le tracce ancora umide di sangue, come la macchia di rossetto che chiazzava il suo viso, reso evanescente dagli spruzzi dei fuochi d’artificio. E una mano, estranea e calda che ti stringe, ti abbraccia.
In realtà, la mano di Itachi Uchiha era fredda, quasi scheletrica, mentre stringeva(scorticava) la sua, in un mero gesto formale.
Un altro fuoco d’artificio morì, sacrificato per la gioia degli uomini.
“Leggete, Hinata?” chiese Itachi, poiché aveva notato un leggero movimento nella mano libera della giovane, che si era appigliata, angosciata, a una copertina di un libro color nocciola.
La luna, curiosa ed enorme, sembrava sporgersi dal cielo stellato per ascoltare la conversazione.  
“È-è l’Eneide, I-itachi” balbettò Hinata come un ladro esposto al pubblico ludibrio. “V-vi piacciono le opere l-latine e-e greche? I-io le ho studiate e-e-e…”. L’eco eterno del suo balbettio si perse tra le note del pianoforte, decisamente più sicure e squillanti.
Itachi condannò il libro con un’unica, infallibile occhiata: “Io invece ho conseguito studi più scientifici, Hinata. Non trovo appagamento nella lettura di queste favolette” mormorò mentre dalla bocca sgorgavano parole ottuse e glaciali.
“E neanche a voi dovrebbero interessare: se mi sarà concesso, amplierò la vostra biblioteca con tomi più idonei. La vita non è una fiaba, Hinata” sussurrò annoiato, prima di gettare il volume dietro il tavolo, dove il libro scivolò sotto il divano e fece fuggire mosche e moscerini, desiderosi di trovare qualche briciola di cibo perduto.
Hinata assottigliò gli occhi, e a questo movimento parteciparono le sopracciglia fini, le ciglia sottili e le iridi albine, prive di pupilla; se fosse stata più coraggiosa avrebbe disegnato sul suo volto uno sguardo di sfida, avrebbe sentito le iridi stringersi, doloranti, per esprimere l’odio nero in quegli occhi bianchi.
Ma l’assottigliamento del suo sguardo provocò soltanto un senso di impotenza che le punse lo stomaco come un ago e la nascita di lacrime codarde.
Forse erano proprio loro che le facevano vedere la luna così immensa e sfuocata, come se finalmente stesse precipitando sulla terra.
I fuochi d’artificio illuminavano e sporcavano il cielo con le loro scintille e il loro fumo: avrebbe voluto usarli come segnale, Hinata, come l’ SOS di un naufrago, nel mare sterminato che era la vita, un mare pieno di anime che la stavano soffocando. Avrebbe voluto, Hinata, che lui tornasse, allarmato dai suoi segnali, che percorresse i chilometri che li separavano, correndo. Avrebbe voluto risplendere e chiamarlo, non rintanarsi nei muri della sua vergogna.
Ma era Hanabi il Fuoco d’Artificio: la frigida bimba che esplodeva di forza innata, una forza così potente che le scappava dai polpastrelli soffici. Era lei la prediletta, colei che poteva esplodere e farsi ammirare nella sua effimera potenza.
Hinata si voltò lentamente, come se avesse un cappio intorno al collo, e i suoi occhi allenati ritrovarono le pagine scomposte dell’Eneide, l’ultimo libro che si potesse definire una favola; era la tomba senza fiori di un amore perduto.
La ragazza si voltò di nuovo verso la tavolata, mentre le lacrime si dissolvevano, e tornò a guardare lo strano spettacolo delle luna spiona e dei fuochi d’artificio scintillanti.
Hinata sbirciò Itachi, e quasi si sorprese di non vedere gli incisivi da Marmotta spuntare dalle sue labbra screpolate per poterle mordere il cuore.
E, per l’ennesima volta, si sentì una prigioniera in una gabbia di cristallo.
Proprio come lei, la principessa invisibile.
In fondo, a Lavinia non è stato permesso scegliere.




Dunque, questo è un mini-prologo. O meglio un epilogo, perché questa è la fine della fic^^. Infatti sotto l’atto primo ci saranno i giorni che dividono Hinata da questa cena. Il significato dei nomi dei personaggi sarà molto importante per il resto della fic. I riferimenti ai poteri degli Hyuuga sono voluti e velati, ma questo ovviamente non implica che ce li abbiano, dato che siamo in un’AU. Nella parte iniziale, ho usato il presente perché la similitudine della nascita è generica e non fa parte di uno specifico passato.
Lavinia è la principessa dell’Eneide, destinata a sposare Enea e a dare inizio alla stirpe romana. Di questa figura, fondamentale per i fini della storia, non abbiamo niente: non una descrizione fisica o psicologica, e, a parte qualche dettaglio, non si sa nulla di lei. Dato che io mi chiamo Lavinia(povera me=_=) ho deciso si analizzare la figura della principessa inesistente.
Grazie per la vostra attenzione,
LaLa

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Capitolo 2
*** Atto Primo: Insomnia ***


Eccoci al primo atto!
Un ringraziamento a:
Hinata_Dincht: grazie per la recensione^^, mi lusinghi fin troppo!Sono felice di sapere che ti piace il mio stile. Anch’io ho letto la tua fic, la recensirò al più presto!Bacioni!
Shatzy: che belle le tue recensioni, mi commuovono sempre(LaLa si inchina^^).Inutile dirti che adoro vedere i tuoi commenti e le tue impressioni, mi onorano^^. Naruto apparirà solo nell’ultimo capitolo…e sarà un finale a sorpresa, già già!E comunque il mio nome fa schifo=_= ogni volta che mi presento è un’agoniaXDBacioni!
Bene, signore, ora inizia l'angosciaXD
Buona Lettura!



Atto Primo: Insomnia
Four Days to Death



I'm stuck in my own head and I'm oceans away
Would anybody notice if I chose to stay?
I'll send an S.O.S. tonight


Hinata aveva trovato notevoli difficoltà ad abituarsi all’assenza della limousine alla mattina. Aveva dovuto abbandonare i pochi vizi che si concedeva: svegliarsi diversi minuti dopo gli ultimi squilli della sveglia, pettinarsi direttamente in macchina e indossare le zeppe, troppo scomode per lunghi tragitti a piedi.  
In fondo, era abbastanza alta, che senso aveva? Era un piccolo e frivolo capriccio, avere l’illusione di essere un po’ più alta, più libera, più vicina al cielo.
Ma, in fondo, non aveva senso; su questo rifletteva Hinata, mentre scivolava giù per la stradina ripida e verdeggiante che separava la diafana dimora degli Hyuuga dal resto della città.
Hinata abbassò il viso, nel vano tentativo di nasconderlo con la frangia corvina, quando vide la limousine sorpassarla in un lampo di luce metallizzata. Le sembrava quasi di sentire su di sé gli occhi di Hanabi bruciare e carbonizzare il suo volto.
“Sei diventata troppo pesante per la nostra lussuosa limousine, sorellina” le aveva ripetuto Hanabi quella mattina, come tutte le altre di quell’assurdo e afoso Maggio. Hinata scivolò fino alla scuola, sciogliendosi tra la folla colorata di monotone tonalità accese e metallizzate dal sole. Sfumature che mal si amalgamavano ai suoi colori tenui.
Quella mattina Hinata sapeva dove dirigersi, e invece di infilarsi nel suo banco all’estremità destra, accantonato al muro, corse nel cortile della scuola.
Nel prato prematuramente seccato dal sole fioriva un altro tipo di erba, accompagnata spesso dalle sue sorelle più potenti. Fin dal suo primo anno Hinata era venuta a conoscenza dell’illegale traffico sbocciato anche tra le mura protette della sua scuola, un istituto privato costruito per i soli benestanti.
Ma anche lì i disagi erano molti, e Hinata per prima sentiva che l’ambiente scolastico era terribilmente ipocrita: tanti fiori, tanti insegnati  programmati come computer, tante apparecchiature sofisticate per un futuro grottesco e racchiuso in una scatola fatta di mura plasticate. Il destino del padre, che poi discende al figlio. Almeno Hinata era consapevole che, data la sua situazione, la fabbrica di famiglia sarebbe passata interamente ad Hanabi e a Neji, e, almeno questo, le dava l’illusione di avere il cuore più leggero.
La ragazza scese nel cortile, non più contornato da viole e primule come in Marzo, ma smorzato dal caldo cocente, e intravide Temari che giocava, per l’appunto, con le Temari, le tradizionali palline giapponesi. Le faceva rimbalzare a suo piacimento e la seta colorata scintillava alla luce mattutina. Hinata rimase per qualche istante a fissare le palline color malva e lavanda solcare leggere le mani della ragazza, le sue unghie mangiucchiate, i calli, cicatrici di un passato tormentato. Temari giocava col suo stesso nome: aveva in mano la chiave del suo destino, se lo rigirava tra le mani sicure e nelle sue iridi verde chiaro già si intravedevano orizzonti futuri. Ora che aveva quasi ottenuto il diploma della maturità sarebbe potuta scappare dalla scintillante prigionia che il padre, sindaco della città confinante, aveva imposto a lei e ai suoi fratelli.
Il nome di Temari era un gioco, semplice ma colorato con frammenti di arcobaleno, e scorreva su un destino incerto ma pieno di sole.
Mentre il suo nome, Hinata, era vuoto. Il nome di un ennesima principessa senza trono.
Un’ennesima Lavinia.
La giovane Hyuuga raggiunse quasi di corsa la formosa figura di Temari contornata da un’aureola di paglia.
“Cercavo Gaara” chiese timidamente e lei la indirizzò nel cortile dietro il teatro, salutandola poi con sorriso affettato.
Hinata, per tutti la signorina Hyuuga, una dei tanti Hyuuga, si incamminò verso la sua meta su un sentiero adombrato di fantasmi. Molti ragazzi dell’istituto, durante le prime ore scolastiche, si rifugiavano in quel brullo eden e fumavano, con gli occhi impiastricciati di vapori tossici, rossi e gonfi. Sfiniti dalle responsabilità, scaricavano le frustrazioni sulla canna e sulla sigaretta di turno, imprecando e sputando. Anche i migliori dell’istituto si nascondevano lì per concretizzare le loro fantasie di libertà, esponendola agli altri o lasciandola marcire dentro di loro. Ma più Hinata avanzava nel cortile, più il livello delle droghe si alzava e più le fantasie si concretizzavano, fino a diventare vere e proprie allucinazioni. Nel cortile vicino al teatro scolastico e alla palestra circolavano polveri e pasticche sempre più pericolose, spesso fatte infiltrare da maggiorenni, che stordivano i ragazzi destinati a diventare il pilastro della società. Intravide la chioma color rubino di Gaara dietro il teatro dove spesso recitava suo fratello Kankuro; Hinata avanzò, incerta, e vide gli occhi perlacei e spenti del ragazzo appoggiarsi su di lei con sospetto, anche se i suoi lineamenti leggeri non mutarono. Teneva in mano una canna enorme e conservava le pasticche per il pomeriggio o per spacciarle; per il momento si limitava a farle tintinnare nella tasca come se fossero monete d’oro.
“Gaara, mi dispiace disturbarti…” pigolò Hinata, sempre imbarazzata: aveva cominciato a chiamarlo per nome solo per non creare troppa confusione, dato che aveva due fratelli nello stesso istituto, e non perché erano nella stessa classe da tre anni.
La ragazza si mordicchiò il labbro, sentendo il coraggio infiltrarsi nelle sue vene e appiccicarsi sulla sua pelle come caramello.
“Quanto vuoi per un ecstasy?”
Quanto vuoi per la mia salvezza?
Tutti sapevano che Gaara soffriva di insonnia, quella che ti mangia i piedi di notte, quella che ti assilla come un incubo. Non era solo una scusa per giustificare le spesse occhiaie che facevano capolino da sotto le lunghe ciglia.
E per dormire, per sognare, lui che i sogni non li aveva mai visti, fantasticava. Ma poi le semplici fantasie non erano bastate a riempire la totale assenza di sonno e di sogni: così, per dimenticare la morte della madre, pallida e innocente, e dello zio, per dimenticare l’aberrante odio del padre e l’indifferenza dei fratelli, si era spinto in una tomba fatta di fumi e di false promesse. Hinata, quando era entrata in contatto con quell’ universo sporco e confuso, si era ripromessa di non sprofondare mai nell’abisso della dipendenza. Forse per i precetti che sin da piccola, sin dalla nascita, si era ritrovata scolpiti nella mente, forse per le fantasie che riusciva a costruire senza bisogno di stupefacenti, forse per il suo intramontabile ottimismo nascosto sotto strati di timidezza. Ma ormai le poche certezze e i pochi affetti le erano stati tolti dalla sua famiglia, dal suo stesso sangue. E di notte non dormiva più: aveva bisogno di sognare. Di affondare ancora e ancora, per anestetizzarsi completamente dalla realtà.
Gaara non mostrò sorpresa davanti al pallore del volto angosciato della compagna, davanti alla fragilità dei suoi occhi sconvolti, davanti alla sua assurda richiesta.
“Non posso: ti distruggerebbe. Ti distruggerà sicuramente” sibilò il ragazzo, e si ritrovò a pensare che la sua compagna era già distrutta, da quando era stato ufficializzato l’improvviso fidanzamento con Itachi Uchiha. Non sapeva perché, nessuno sapeva perché, non aveva alzato un dito, nessuno aveva alzato un dito.
Hinata gemette, di dolore, di frustrazione. Il suo SOS era stato ignorato, un’altra volta.
“N-non capisci??Io h-ho bis-sogno di a-a-iuto!” singhiozzò, quasi gridando, mentre il balbettio, che sembrava essere stato estirpato tra i suoi difetti, era ricomparso. Perché nessuno capiva l’odio e l’angoscia che crescevano in lei? Aveva bisogno si sognare. Ancora e ancora. E anche di distruggere. Ancora e ancora.
Gaara avanzò, sul palmo una pasticca rosa, allegra e amichevole.
Hinata la osservò, terrorizzata, mentre lacrime invisibili precipitavano al suolo.
“Questa non ti può aiutare, e nemmeno io” sibilò Gaara con voce atona “Non realizzerà i tuoi sogni, ma li rovinerà ulteriormente. Ti rimane la tua mente, la tua sensibilità, la tua intelligenza, la tua passione, il tuo amore…e anche la cosa che vuoi distruggere. Non bruciarli”.
Hinata sobbalzò, e sentì il suo cuore, la sua mente, i suoi capelli e i suoi seni saltare e poi cadere di nuovo, mollemente.
Allora forse aveva capito, aveva intuito, almeno lui.
Parlava di amore, Gaara, quello che teneva solo per sé stesso, che nascondeva in angolo polveroso e mai pulito, e talvolta ne prendeva un pezzetto piccolo piccolo, e lo mangiava come se fosse zucchero e miele.
Forse anche lui lo avrebbe condiviso, quel suo amore meraviglioso, quando sarebbe uscito dalla scintillante prigionia, come stava facendo sua sorella Temari. Forse il suo nome sarebbe cambiato, assieme al suo destino
Hinata guardò l’immagine del ragazzo, offuscata dalle sue lacrime, bella come un ricordo dimenticato. E decise di rimanere nel suo universo, mentre Gaara rientrava nei suoi oceani lontani, ignorando il suo SOS.
Prese la pasticca dalla sua mano e la lasciò cadere.
Assieme alle ultime disperate lacrime. Il pianto prima della condanna.
Anche Lavinia aveva pianto, quando era stata divisa dal suo vero amore?

 


Anche qui abbiamo un’analisi dei nomi dei personaggi, spero che sia giustaXD Il motivo per cui Hanabi tratta con fredda superiorità la sorella e il motivo che ha spinto Hinata a chiedere a Gaara della droga, verranno spiegati a tempo debito. Nell’ultima frase, metto in evidenza la mia idea che Lavinia, innamorata di Turno, a cui era promessa sposa, sia stata costretta a sposare uno straniero appena arrivato. Questa è una mia interpretazione, in realtà nell’Eneide non ci sono prove di questo fatto.
Grazie per la vostra attenzione,
LaLa

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Capitolo 3
*** Atto Secondo: Petrolio Bianco ***


Atto Secondo: Petrolio Bianco
Three Days to Death



The time of my departure's near
I say a prayer please, someone saves me


“Che poi è tutta una gran fregatura”.
Ino si stava spegnendo(l’ultima fiamma di una candela), e le lacrime colavano come cera incandescente.
Sembrava che tutto il suo sottile corpo si sciogliesse in acqua oleosa; il generoso trucco scivolava via come un fantasma. Striature nere, da tigre disperata, graffiavano le guance candide, quasi albine, e scomparivano nella chioma bionda.
La parte interna guancia, tenera, venne imprigionata di nuovo dai denti.
“Quale destino bastardo mi tiene inchiodata qui? Perché, porca troia?” mormorò Ino, per niente adirata, ma assente, atona; si rigirava la sigaretta tra le mani, guardandola come se fosse un santo protettore o un’ancora che odorava di salsedine e di speranza. Difficile scegliere la similitudine adatta. Ma la sigaretta continuava a fumare e a morire un poco alla volta( maliziosa martire) e così uccideva le ultime speranze di Ino, il suo ultimo sollievo.
Forse, pensava Hinata, anche la bionda presto sarebbe andata a supplicare Gaara per una pasticca rosa shocking. Forse anche lei era debole. Lasciò libera la guancia dai denti affamati.
“Che vita è una vita che ti porta in cima e poi ti trascina giù, nel fango, nella merda?” continuò Ino, in una litania e una nenia di pensieri sfusi.
Si erano lasciate cadere nel corridoio davanti alla classe, la bionda e la bruna, l’attraente e la timida, le due antitesi, l’una trascinata dalla caviglia ferita, l’altra dal peso alla pancia.
Hinata non era mai stata amica di Ino, e le aveva sempre invidiato il sorriso perenne, la felicità smisurata; le aveva sempre criticato le gonne vergognosamente corte e la voce intenzionalmente acuta e civettuola. E soprattutto il fatto di appartenere ad una famiglia amorevole ed essere figlia di genitori sorridenti e sereni.
Eppure ora erano accumunate da un comune dolore.
“Prima il maestro Asuma, poi questo…Io sono sempre vissuta nel sole, io sono il sole. Perché ora è notte?” borbottò Ino, mentre evaporava via, come pulviscolo nella luce.
No, in fondo Ino non era debole, non sarebbe sprofondata negli abissi bluastri della droga. Sarebbe bruciata come una falena impazzita, imbevuta nel petrolio bianco, il petrolio che non brucia, e poi sarebbe rifiorita.
Perché anche adesso che era bagnata di dolore acre e forte come whisky, Ino sembrava risplendere come una cometa e il suo dolore era solo la terra bruciata dove ricostruire il suo cuore. Bastava cambiare un “h”: togliere da earth la lettere finale e metterla all’inizio, heart. Semplice, l’inglese.
Hinata, per l’ennesima volta, si sentiva una minuscolo puntino di inchiostro sbiadito in un immenso foglio bianco: Ino riusciva a sminuire il suo immenso dolore per far risaltare il proprio. Forse lo faceva apposta, forse no.
“Tu sei forte, Ino. Nonostante la ferita, ritornerai a ballare. E potrai rendere fiero il povero professor Asuma” sussurrò Hinata, per darle conforto e appoggio, gli elementi di cui lei era completamente priva.
“Non dire minchiate”
“Anche tu lo sai. Non ti sono ancora arrivati i risultati delle analisi: la tua caviglia non è perduta, non come il maestro Asuma”.
“Mi sembra tutta una montatura: che senso ha? La mia vita mi ha tradito” continuò Ino, mentre si tormentava la coda bionda e sfaldata “Ho sempre sognato di diventare in gamba come il maestro e una ballerina invidiabile. Perché mi hanno tolto i sogni? Questo dolore è troppo intenso…così forte che non riesco più a dormire, a sognare. Ho anche pregato, ma sembra che Dio mi abbia abbandonata, questa volta”.
Hinata comprendeva il suo dolore: Asuma era un fidato amico dei signori Yamanaka e tante volte era stato presente nella vita di Ino; tante volte, da imparziale professore o da fedele consigliere. La perdita della danza, l’hobby dell’infanzia che era diventata la passione dell’adolescenza, e del maestro Asuma, avevano tolto il significato di tutte le sue preghiere.
“Ce la farai” sussurrò nuovamente Hinata.
Ino era forte, pensava Hinata, come un Cinghiale che scavalcava le vette innevate e le radure fiorite. Certo, era strano vedere un cinghiale che si truccava gli occhi e si infilava i fiori dietro le orecchie; eppure i suoi genitori avevano dato il nome e il destino di una guerriera, a quella bellezza nordica e luminosa. Non era come Chouji, il bonaccione, la Farfalla fragile che si posava su fiori delicati, assetata e sempre ingorda di cibo, né come Shikamaru, che aveva ben poco dell’altero Cervo.
Ino avrebbe continuato a correre nei boschi bui, furibonda e vogliosa come faceva solo un animale guerriero: avrebbe continuato a danzare anche dopo la morte del caro maestro Asuma, con gli occhi rossi e il cuore sanguinante.
Era una bionda Didone, ma non disperata come quest’ultima. Ino non si sarebbe mai ferita, ma sarebbe riaffiorata dalla fiamme, dal petrolio bianco, una fenice ammantata di luce.
“Ma non credo di essere l’unica ad essere stata tradita”.
Gli occhi luminosi di Ino si insinuarono in quelli opachi di Hinata, alla ricerca del suo intimo dolore che tutti avevano tentato di sradicare da quella timidezza, assetati di pettegolezzi. Tutti volevano sapere cosa avesse finalmente combinato la santarellina Hyuuga per divenire la fidanzata di Itachi Hyuuga, dopo anni di balbettii e di silenzi: un’esistenza di apatia e castità.
La campana squillò in perfetta sincronia con l’ennesima rottura del cuore di Hinata. Un altro spillo, un’altra fitta alla pancia, sempre più pesante. La classe si riempì di nuovo di caldo, di camice scollate, di sorrisi timidi, di calze slacciate, di ormoni mal repressi. C’era troppo caldo per seguire la spiegazione sulle funzioni e Hinata sentiva sguardi annoiati e accusatori cadere su di lei come tante meteoriti che pungevano come il ghiaccio sulla pelle: troppi per la sua anima riservata, che si piegava sotto quegli sguardi, dolorante e afflitta.
Troppi pettegolezzi in troppi pochi giorni, sulla timida e silenziosa Hinata, che mai avrebbe pensato di poter diventare l’ artefice di uno scandalo, di diventare l’errore della famiglia Hyuuga. L’ora di matematica si trascinò fino all’agognato e stridulo canto della campanella,che segnava la fine dell’ennesimo giorno di studio. Stava per riporre i libri nella cartella, quando una voce familiare la chiamò.
“Hinata, posso parlarti un attimo?”
Hinata si voltò, e sentì tutte le sue ossa tendersi e scricchiolare, racchiuse in un manto gelido. Maggio sembrò sparito, ma per un solo istante. Si avvicinò alla cattedra e scrutò il volto della professoressa, nascosto da un manto di capelli color ebano.
Gli occhi della professoressa Kurenai Yuhi erano tramontati dietro le sue palpebre, e non scintillavano più con quella spensierata allegria con cui insegnava e con la quale aveva accolto il professor Asuma nella sua vita. Ora, come diceva il suo nome, il suo destino, il rosso rubino era svanito tra le coltri notturne. E con lui tutto il corpo ancora tonico ed attraente dell’insegnate sembrava sfaldarsi, prosciugato dal caldo, quello stramaledetto caldo di fine Maggio, di fine scuola, di fine.
La professoressa Kurenai si torse un boccolo sfatto e crespo, nero e cupo.
“Come sai, ho discusso con la preside in merito a quello che è successo” mormorò sfinita, dal caldo, da un cuore spezzato dissolto in cenere. La perdita di Asuma non era ancora stata lenita: era ancora lì, sul suo cuore, si vedeva bene.
Hinata strinse le palpebre, sperando che le lacrime si confondessero con il sudore. Si strinse le mani nel grembo pallido, dove le viscere si avviluppavano come una vipera velenosa che reclamava cibo.
Ormai era troppo tardi per ricamare cuori o estirpare demoni, professoressa.
“Non comprendo la decisione di tuo padre di ritirarti dalla scuola e di fidanzarti all’improvviso: so solo che è stata colpa anche del mio intervento. Non ho capito appieno quello che è successo, ma temo di aver compromesso la tua situazione…” continuò l’insegnante, incerta e dubbiosa “Sarà riunito il consiglio scolastico per discutere del fatto, e spero che tuo padre cambi idea: non può ritirarti dalla scuola e farti prendere lezioni private a sedici anni, e tutto per il matrimonio, è assurdo” continuò l’insegnante, anche se l’assurdo, mormorato tra labbra morsicate e screpolate, sembrava rivolto esclusivamente al suo dolore personale. A lei, al suo matrimonio sepolto.
Hinata si piegò leggermente, per nascondere la paura e l’angoscia che crescevano negli occhi, come uova che prima o poi si sarebbero schiuse. Una fitta alla pancia la stordì. Cosa ne poteva sapere, la professoressa Kurenai, del suo dolore, ora che era concentrata sul suo lutto e aveva abbandonato il suo sorriso smagliante con il quale li aveva iniziati ai dilemmi della matematica?
Hinata sapeva di essere egoista, ma davanti al suo dramma non riusciva a capacitarsi di essere stata tradita e abbandonata dalla sua insegnate preferita.
Kurenai sospirò e una scintilla di preoccupazione si accese nei suoi occhi.
“Hinata, devi dirmi cos’è successo veramente e come possiamo rimediare” mormorò concitata “il consiglio vorrà i particolari, e avrò bisogno del tuo aiuto…tuo padre non può importi questo, non lo puoi accettare. Riusciremo a fargli cambiare idea, insieme”.
Hinata si piegò di nuovo, per trattenere la rabbia, che colava con la bile nel suo stomaco; ancora una volta l’impotenza e la vergogna bruciavano nel suo animo, per il tradimento dell’insegnate. Perché le aveva fatto questo, se da quando era arrivata al liceo, quando era ancora una ragazzina con le lacrime agli occhi e i capelli da bambina, l’aveva accompagnata e consolata come la sua povera mamma non aveva potuto fare? Hinata credeva di aver trovato una stabile figura materna in Kurenai, dopo essere stata educata dalla freddezza del padre e dalle smancerie servili dei camerieri. La professoressa Kurenai era una figura autoritaria ma giusta, inflessibile ma stabile, fredda ma coscienziosa, una donna forte che solo di recente si era sciolta tra le fiamme dell’amore. Era una madre perfetta, la madre che ora si stava suicidando col suo soffocante dolore. La madre che non poteva aiutarla, che non poteva soccorrerla, anche se Hinata continuava a chiamare aiuto, nei suoi occhi perlacei. La madre che l’aveva condannata.
In fondo, anche Lavinia era stata abbandonata dalla madre, sparita tra i flutti  che l’avevano trascinata nell’Ade. Amata non era stata amata abbastanza.
Hinata spostò il suo sguardo sugli ultimi ritardatari che non erano ancora usciti dall’aula, sulla soglia della classe: il Cinghiale ferito che veniva sorretto dalla fragile Farfalla e dal pigro Cervo. Ino guardava verso il soffitto, nel tentativo di nascondere le lacrime ai suoi amici e di camminare meno goffamente sulla caviglia ferita. Sembrava un angelo che stava cadendo sulla terra, le ali bruciate e l’aureola perduta nel cielo infinito, e che stesse pregando per un perdono o una grazia. Un ultimo sprazzo di biondo e poi scivolò via, sorretta dai sue fedeli amici, che l’accompagnavano nella sua uscita di scena. Quello che Hinata aveva sempre e maggiormente invidiato ad Ino erano il carattere movimentato e allegro che le aveva permesso di trovare amici fedeli e la libertà che l’aveva portata a vivere una vita piena di sole, con i suoi due più cari compagni.
. L’unica persona di cui Hinata si poteva fidare, che era cresciuta in una meravigliosa prigione di cristallo, le era stata portata via. E ora non lo vedeva neanche, il Dio a cui rivolgere le proprie preghiere.
“Io non voglio ostacolare il volere di mio padre” sussurrò Hinata e prima che l’insegnate, furibonda, replicasse, continuò “Oltre a quello che sapete già, professoressa, si è aggiunta una complicanza imprevista, che non può essere nascosta o modificata”.
Kurenai sarebbe sopravissuta al petrolio bianco che le stava accecando i sensi e l’anima, perché non avrebbe carbonizzato le sue carni mature, come quelle snelle di Ino. Ma il corpo fragile di Hinata si stava liquefacendo nel petrolio nero, l’assassino. Lei e il dolore di Lavinia stavano bruciando vivi.
La rabbia di Kurenai si sciolse e il suo rossetto scivolò come una sbavatura di sangue, mentre comprendeva che lei e la sua allieva erano appesantite dallo stesso fardello al livello della pancia. E Hinata, negli occhi dell’insegnante, lesse sgomento, sorpresa, fiducia tradita, stupore, in quegli occhi attoniti. Gli stessi sentimenti che avrebbe provato una madre.


Allora: il petrolio bianco è un tipo di petrolio che, a differenza di quello nero, è usato come solvente; se te lo metti sulla pelle e poi le dai fuoco questa fa la fiamma ma non brucia la pelle. In questo modo ho analizzato il differente dolore di Ino( che bruciava di dolore ma sarebbe sopravissuta) e quello nero di Hinata. Ino è disperata per la morte di Asuma( che qui ho reso come un fedele amico di famiglia e insegnante) e per la ferita alla caviglia, che potrebbe compromettere il suo futuro di ballerina. In questo atto si fanno dei riferimenti a Didone, che, innamorata follemente di Enea, si è suicidata dopo la sua partenza, e ad Amata, madre di Lavinia e sposa di Latino, che si è suicidata buttandosi in un fiume perché non avrebbe sopportato che sua figlia sposasse Enea( e il suo odio fu una delle cause della guerra fra Enea e Turno).
Shatzy: ciao carissima!!*LaLa spupazza Shatzy^^*. Vedere i tuoi commenti è un’immensa gioia, immensissimaXD! Anche a te piace Gaaruccio??Io lo adoro, è il mio preferito! Adoro i cattivi redenti…ma anche i cattivi e basta!Mi dispiace, ma ogni capitolo tratta di un personaggio diverso e questa è l’ultima comparsa di Gaara(sorry!!)I capitoli sono cinque, quindi dovrai sopportarne solo altri dueXD bacioni, Flavia!(che bel nome*_*)
Damis: me si da una botta in testa, scusa ho sbagliato a scrivere il nome!*LaLa chiede venia*. Brava, cominci già ad intuire qualcosa??Poi mi dirai se i tuoi sospetti erano fondati! Anch’io adoro Gaara, è il mio amore^^. Attendo la tua recensione!Bacioni ,LaLa

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Capitolo 4
*** Atto Terzo: Because my life without you in it is a life that's not worth living ***


Atto Terzo: Because my life without you in it
is a life that's not worth living.
Two Days to Death



So while I'm sitting here
on the eve of my defeat
I write this letter
and hope it saves me


“Vi prego di concedermi la mano di vostra figlia”
Kiba aveva ripetuto il suo discorso ufficiale migliaia di volte, balbettando, sussurrando, con la sua voce rauca ma forte. L’aveva scritto a mano, sporcandosi le mani di inchiostro l’aveva scritto in una notte stellata, la mente che volava ad Hinata. Ancora e ancora.
Eppure Kiba balbettava di nuovo, e la sua richiesta divenne una preghiera sfumata in quella stanza troppo limpida. Troppo diversa dalla sua stanza buia e sicura, soffocante; quella stanza opaca e pallida sembrava riflettere migliaia di volte la sua timida richiesta.
Kiba alzò gli occhi vispi ma intimoriti per incontrare quelli impassibili e vitrei di Hiashi Hyuuga, che sembrava trasudare un’indifferenza sprezzante. Al suo fianco c’era la figlia fedele e scolpita nell’acciaio, Hanabi, quella bimba col ghigno da vecchia.
Hinata invece si era avvolta nell’enorme vestito candido e aveva abbassato lo sguardo pieno di lacrime.
Sbirciò il volto del ragazzo, il truce bullo che negli anni era diventato un ragazzo focoso e forte, con il volto magro e un sorriso forte, contagioso.
Quel ragazzo, Kiba, un giovane uomo ancora cosparso di scarsa peluria e di esagitati ormoni, che col tempo aveva conquistato la sua amicizia. Non era un rapporto straordinario o limpido come quello tra Ino e i suoi protettivi angeli custodi, ma Kiba sapeva infonderle allegria con un solo gesto, con una sola risata, che a sentirsi sembrava il latrato del suo fedele compagno canino, Akamaru.
La amava davvero? O era solo il disperato tentativo di una colomba di salvare il suo pulcino dalle spire del serpente, dalla stretta del demonio, dall’eventuale morte del suo amato pargolo?
Oppure Kiba aveva cominciato a respirare a fatica, a sentire le mani prudere e l’agitazione scorrergli nelle vene, ad ogni sguardo, ad ogni parola che si rivolgevano?
Perché l’amava? Per il suo nuovo fisico, che era esploso in un tempesta di ormoni, una crescita che ancora non aveva accettato e che a volte la spaventava? Era per i suoi nuovi centimetri, che la slanciavano verso le nuvole per i suoi setosi i capelli neri, era per il viso più sottile, più etereo, o per i seni cresciuti,  più morbidi e pesanti? Kiba era davvero così superficiale e freddo? Oppure l’aveva teneramente amata anche nell’epoca della timidezza e della giovinezza,quando il suo corpo ancora acerbo, come una mela non ancora nata dal fiore? Era stata così cieca da non accorgersi di nulla?
Due occhi ambrati e due di vetro si incrociarono e si trasmisero solo confusione e paura. Nessuno era sicuro dei propri sentimenti, ma in quel clima di angoscia e disperazione il senso del dovere di Kiba aveva sopraffatto la sua glaciale paura nei confronti della famiglia Hyuuga.
Hinata si strinse nei suoi scialli, come se volesse trattenere e ascoltare l’aiuto che le era giunto, la risposta al disperato e colorato SOS che ormai da giorni vagava nei suoi occhi stanchi. Ma, anche ora, sentiva che non avrebbe potuto approfittare di quel generoso aiuto. Possibile che non riuscisse ad appellarsi anche ai più miseri aiuti? Era destino che scivolasse sulle schiene che con tanta premura le stavano consentendo di salvarsi? Era destino che suo padre avesse sempre il sopravvento sui suoi desideri?
Kiba, un eroe ferito, eroso dalla stanchezza, divorato dalla paura, era riuscito a scrivere quel tremolante discorso, sull’orlo della rovina. Ci era riuscito. Aveva innalzato preghiere, dalla vetta della loro sconfitta.
E lei, invece, aveva fallito. Di nuovo. Ancora e ancora.
Hinata si sentì fremere quando sentì la voce elegante ma ferma del padre innalzarsi nella sala dei ricevimenti, la stanza degli echi.
“E in che modo, giovanotto, dovrei desumere che voi siate una candidato più adeguato a sposare mia figlia?”.
Il ghigno di Hanabi sembrava un diafano spicchio di luna.
Kiba alzò il capo e incrociò con timore reverenziale gli occhi gelati dell’uomo che lo separava da Hinata… amica e confidente, che doveva trarre dalle tenebre.
“Itachi Uchiha, come voi sapete, signore, è stato recentemente accusato di truffa e falsificazione di documenti. È emerso che ha sottratto considerevoli somme ai colleghi di suo padre, il senatore Fugaku Uchiha, ed è stato assolto per puro cavillo” sbottò Kiba stringendo i denti simili a Zanne, che fuoriuscivano come sangue candido dalle labbra “Come potete maritare la vostra primogenita con un criminale?”.
Hinata gemette, nel suo intimo dolore: Kiba aveva usato le parole sbagliate, aveva lievemente e involontariamente insultato la famiglia Hyuuga, la famiglia luminosa come vetro ma resistente come un diamante. Kiba non poteva sapere che Hiashi Hyuuga stesso aveva dovuto chiudere tutte e due gli occhi e accecare quelli di molti avvocati per liberare quel furfante deperito di Itachi Uchiha.
Era stato costretto a commettere quell’ingiustizia per lo scandalo commesso dalla figlia ormai sporca e contaminata da mani callose ed estranee.
“Io appartengo ad una famiglia borghese, ma economicamente meno ricca della vostra e della famiglia Uchiha” continuò con forza Kiba, senza sapere che già il fatto di avere un prestigio economico minore a quello della famiglia Hyuuga poteva diventare un motivo valido per essere sbattuto direttamente fuori dalla villa, “Eppure so di poter dare a vostra figlia amore e protezione, e tutto il resto di cui necessita una moglie”.
“E perché farebbe questo, signor Inuzuka?” chiese Hiashi Hyuuga, gli occhi glaciali e una velata minaccia nascosta nella voce sottile “Perché rinunciare prematuramente alla libertà e accettare a soli sedici anni un legame matrimoniale?”
Dopodiché, Hiashi, dopo settimane, scoccò alla figlia uno sguardo violento e omicida: possibile che quegli occhi di vetro avessero adescato anche quel giovane?
Hinata si nascose dietro la frangia per proteggersi dagli insulti paterni.
Possibile che anche Lavinia si sentisse così debole e inadeguata di fronte al padre, Latino, che, al contrario di Hiashi, l’amava e venerava come se fosse una stella inciampata e caduta dal cielo?  Forse era stato per assecondare l’amore paterno, e non l’odio, come invece faceva lei,  che si era ridotta a cercare l’amore in uno sconosciuto, prescelto dal destino.
Kiba assunse una sfumatura violacea e un’espressione confusa, mentre il sudore gli si annidava sotto i ciuffi eccezionalmente imbrattati di gel.
Hinata chiuse gli occhi, con un flash bianco che implodeva sotto le sue ciglia, un ronzio famelico che le perforò le orecchie: il senso del deja-vù era sempre stato fastidioso per lei, come un improvviso vuoto d’aria, quando i  polmoni raggiungevano la gola.
Gli occhi nocciola di Kiba si sostituirono per un istante a quelli perlacei di Neji, quelli seri e duri di quando erano venuti al corrente della decisione dello zio e delle condizioni della cugina. Ancora una volta Hinata, commossa e spezzata, aveva ricevuto un aiuto, il soccorso di due forti braccia che l’avevano stretta.
.Aveva sentito la salda morsa del rigido cugino, e la forza del suo soccorso. Il suo SOS era stato ascoltato.
Kiba sollevò di nuovo gli occhi( determinati come quelli di Neji), una scintilla di sfida gli attraversò come una fulgida stella cadente.
“Perché non potrei vivere senza Hinata” mormorò; la sincerità esplodeva dalle sue parole, come le lacrime mal celate di Hinata. Le stesse parole di Neji.
Hinata sentì i polmoni distendersi, con loro il suo stomaco attorcigliato, e anche i lineamenti che fin a quel momento erano contratti in una smorfia di agonia. Incrociò di nuovo lo sguardo di Kiba, coraggioso ed eroico, e comprese. Non era amore passionale quello che li univa, ma un filo intrecciato di amicizia, rispetto, fiducia; un legame a volte rosso di malizia, candido di amicizia, nero di preoccupazione. Ad occhi estranei quel legame poteva essere interpretato come volgare dipendenza, come semplice amore, come ingenua e ambigua tenerezza. Molte voci erano circolate sul loro particolare rapporto, ma non c’era amore tra di loro. Si erano donati la rispettiva intelligenza per affrontare la scuola, gli sguardi per dirsi “non ti preoccupare, va tutto bene, andrà tutto bene”, la rispettiva sincerità per litigare e poi riappacificarsi, le loro mani per asciugare lacrime mai versate, il loro odio per potersi arrabbiare con loro stessi, col mondo, con la famiglia, ed essere ascoltati il silenzio.
Si erano donati la loro amicizia per camminare mano nella mano senza vergogna o ambiguità. E alla fine, tutti quei piccoli, ancestrali gesti erano risultati inscindibili e insopportabilmente necessari. Hinata aveva costruito lo stesso rapporto tra lei e Kiba con il cugino. Chi aveva consolato Neji, quando teneva ancora il dito in bocca e i suoi genitori erano morti carbonizzati, strozzati dal relitto dell’auto che si era schiantata contro la loro? Era stato lo zio Hiashi, che l’aveva accolto come un militare appena giunto al fronte? Era stata la cugina Hanabi, viziata e supponente, che ancora adesso gli ricordava i “sacrifici economici” che dovevano sopportare per la sua superflua presenza? Hanabi, che negli occhi freddi aveva le stesse fiamme che anni prima avevano avvolto e strangolato la sua infanzia?
Per questo Neji, soltanto lui tra tutti gli Hyuuga, era venuto a salvarla, era accorso al suo terrorizzato SOS.
“Devi scappare, Hinata” le aveva imposto Neji, con una voce incerta che aveva la consistenza di un ordine.
“Ma non posso, Neji! Mio padre mi troverà, ribalterà il mondo per cercarmi!” aveva singhiozzato Hinata, senza celare le lacrime piene di angoscia.
“Ti nasconderai per pochissimo tempo!Cercherò un avvocato e lui porterà la causa in tribunale…tuo padre non può importi anche questo!” aveva mormorato Neji, con le labbra serrate dal nervosismo.
“Nessuno si metterebbe mai contro Hiashi Hyuuga! Neji, è una pessima idea, e tu rischi troppo…e poi come faremo a scappare??” aveva gridato Hinata, con le mani sul cuore, a difendere la sua vita.
“Chiamerò Rock Lee e Ten Ten, vedrai che con il loro aiuto usciremo dalla villa in un batter d’occhio” aveva esclamato il cugino mentre si aggrappava, concitato, al telefono. Rock Lee, il ragazzo imbranato con l’animo di un Guerriero, e Ten Ten la ragazzina che prima era Qua e in un attimo era La.
Hinata, attraverso lacrime di angoscia e gratitudine, aveva osservato Neji con il volto corrugato e ripiegato su se stesso, come un origami, che però manteneva il suo freddo autocontrollo. Anche le sue mani sottilissime sembravano lisce e curate come quelle di un bimbo.
Era incredibile che anche dopo le terribili privazioni affettive che aveva subito, almeno fisicamente si fosse mantenuto integro e perfetto: non una cicatrice, se non quella perennemente occultata sulla fronte, segnava il suo corpo giovane e virile, rilassato anche in quella sera infernale.
Le sciagure di Neji si erano avvitate su se stesse, in quell’anima ancora frastornata da tanto dolore; eppure Neji era la Vite, un fragile e minuscolo  pezzo di ferro che sosteneva palazzi e, con essi, vite e famiglie. Erano forse tutti quei dolori nascosti, avvitati nei suoi ricordi, ad averlo reso immune da ulteriori turbamenti?
Hinata non ebbe il tempo di chiederglielo, e c’erano tante domande che avrebbe voluto porgli, perché erano stati interrotti da un rumore alla porta. Hanabi era entrata, il ghigno deforme, gli occhi che esplodevano come petardi dall’eccitazione, mentre quasi si sfregava le mani. Hinata sospirò al ricordo: quella notte per Hanabi era stato un trionfo, la notte dove si era sbarazzata di quell’ingombrante e inetta sorella maggiore, una barriera di vetro che la divideva dalla direzione dell’industria di famiglia, e dell’ambizioso cugino, che aveva ricevuto fin troppi elogi per i suoi successi. Hinata e Neji erano sulla cima, sull’orlo della loro sconfitta, e Hanabi li aveva spinti giù, con un soffio.
Hinata non sapeva cosa provare nei confronti della sorellina, non sapeva trovare un nome all’odio di Hanabi: dopo anni a riverire quella bimba capricciosa, a riempirla di attenzioni, ad accompagnarla a scuola senza lasciarle mai, mai! la mano, chiedeva soltanto un minimo di misericordia e riconoscenza, in nome del loro eterno legame. Forse solo in quel momento, quando aveva visto Hanabi, trionfante come un Fuoco d’Artificio, bloccarle il passaggio e tarparle le ali della libertà, aveva capito quanto poco valessero i legami di sangue, rispetto alla generosità degli amici. Neji era stato punito e allontanato dalla villa per essere trasferito nella casa al mare, in attesa di un severo provvedimento, senza che lui e la cugina potessero scambiarsi un ultimo sguardo di speranza.
“Ho i miei motivi per ritenere Itachi Uchiha un candidato migliore di voi, signor Inuzuka. Ormai è ora di pranzo e la vostra presenza non è più gradita” concluse Hiashi Hyuuga, con un gesto appena visibile, stizzito. Solo il pallore e il terrore di Hinata convinsero Kiba a lasciare l’inarrivabile dimora Hyuuga. Ormai congedato, il ragazzo sparì dietro la villa, lasciando un buco nel cuore di Hinata e il discorso che aveva scritto per corrompere la decisione di Hiashi, una falsa dichiarazione per la salvezza della sua migliore amica( almeno Hinata aveva avuto la conferma di questo legame). Parole di poesia, parole perse.
Il ghigno di Hanabi era enorme. Riempiva tutta la stanza.





In questo atto ho messo in evidenza l’amicizia fra Hinata e Kiba e Hinata e Neji. Ho deciso di dare a Kiba una connotazione borghese perché nel manga fa comunque parte di un clan famoso, ma di certo non importante o ricco come il clan Hyuuga o Uchiha. Qui Neji è orfano e vive con Hinata, Hiashi e Hanabi. Quando Kiba e Neji dicono “perché non potrei vivere senza di lei” parlano di una rapporto di amicizia molto forte, e non sono innamorati di lei. Il nome del titolo è preso dalla canzone “Here I stand” dei Madina Lake. In questo atto c’è la figura di Latino, padre di Lavinia, che amava la figlia e la voleva dare in sposa all’uomo scelto dal fato, perché credeva che fosse il meglio per sua figlia, ma nell’Eneide non dice che ha chiesto il suo parere(ovviamente >­_<). In questo atto emerge la potenza degli Hyuuga: infatti possono corrompere la giustizia e pagare perché i loro misfatti vengano celati. D’altronde, succede anche qui da noi ù_ù.
Damis: scusa ancora per il nome cara^^’. Sei riuscita a leggere il capitolo due volte??Spero che tu non ti sia depressa troppo!Ecco, lo sapevo che si capiva troppo presto, ora ho rovinato tutta la sorpresaXD(me tapina._.)Allora alla prossima carissima!LaLa
Shatzy: è vero, questa fic è un minestrone, c’è troppa robaXD I tuoi commenti sono molto più toccanti della mia fic, carissima, sono sempre più commossaç_ç. Certo che al Cervo piacciono le palline, lo facciamo diventare un giocoliere??XD Guarda, a me il fatto che Hinata nello Shippuden portasse le zeppe mi è piaciuto moltissimo…non so, mi dà l’idea di essere già alta, eppure le porta, come un unico vezzo personale che le concede la sua timidezza. E senza di questo Hinata sembra veramente priva di qualsiasi forza…Attendo con ansia i tuoi bellissimi commenti!Bacioni,LaLa

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Capitolo 5
*** Atto Quarto: Jillian, our dream ended long ago ***


Atto Quarto: Jillian, our dream
ended long ago.
One Days to death


 Cuz out there I'm always wrong.




“Ma non sembrano anche te una coppia decisamente fastidiosa!Insomma, persino a livello cromatico sono inguardabili!”
“M-ma N-aruto, quando s-si ama n-non si pensa ai colori!”
“Si, ma almeno un po’ di rispetto per i nostri occhi! È come se mi tirassero un pugno!”.
Ma purtroppo Sakura e Sasuke erano troppo impegnati a coccolarsi nel loro nuovo mondo per preoccuparsi degli occhi altrui. In quei giorni, persino il freddo Uchiha sembrava più sereno mentre guardava ogni gesto della sua nuova ragazza. Alcuni dei loro compagni di classe gli rimproveravano di essere troppo taciturno e distaccato con Sakura, ma Hinata, che forse balbettava ma vedeva molto meglio di tanti chiacchieroni, vedeva gli occhi color ebano di Sasuke che si soffermavano su ogni leggera sfumatura di Sakura: di come si arricciava ai capelli, annoiata, durante le lezioni di storia; di come sorrideva impacciata ma soddisfatta ad ogni buon voto; dello scintillio che animava i suoi occhi di smeraldo, ogni volta che lo sorprendeva ad osservarla. Sakura, in quei giorni pieni di vento che avevano preceduto un apocalittico Maggio di intenso sole, era radiosa come l’estate che si avvicinava sempre più, di giorno in giorno. Hinata l’aveva vista uscire dal gelo dell’inverno, dell’infanzia e aprire le corolle verso il sole dell’amore, che le aveva dato l’energia e il calore per crescere, maturare. Hinata aveva sempre pensato a Sakura come un magro e nodoso Ciliegio; di quelli sottili come ciglia, ma ben radicati al loro suolo d’origine. Sakura non aveva mai permesso che le radici del suo amore lasciassero il cuore di Sasuke; né vento né pioggia l’avevano smossa, né sole né notte l’avevano convinta ad abbandonare il vero amore per un volgare sostituto. Sì, Sakura era sbocciata nella primavera della sua vita. E Sasuke, come uno Scoiattolo, si era rifugiato tra i rami accoglienti, pieni di fiori.
 “E poi la povera Sakura non sa in che guaio si è cacciata!Perdere la testa per quel mezzo emo…ma come si fa??” aveva mormorato per l’ennesima volta Naruto, digrignando i denti come se stesse cercando di non sputare veleno su i suoi due migliori amici. Hinata sapeva che Naruto ci avrebbe messo del tempo a smaltire la collera per il “tiro mancino” che gli avevano giocato il suo eterno amico/rivale e la ragazza che da tempo lo affascinava, con il suo sorriso sincero e le sue gote di pesca.
Così Hinata lo aveva accolto nel suo angolo isolato e timido, nel suo banco accantonato al muro, nel suo nido in cima alla classe, in modo che smaltisse la delusione lontano dai banchi dei neo-fidanzati; e ne aveva di astio da smaltire, sembrava una ragazzina alle prese con i chili di troppo. Per la prima volta, Hinata poteva osservare senza sforzo e senza pudore quegli occhi infantili che si stavano tingendo delle sfumature adolescenziali, più scure, più serie. Ma il suo carattere era ancora un frutto acerbo.
“Hinata, ma li hai visti? È disgustoso!” aveva mormorato durante l’ora di storia, mentre guardava con puro odio uno sguardo particolarmente intenso di Sakura e uno seccato ma compiaciuto di Sasuke che aveva attraversato metà classe.
Hinata aveva sollevato gli occhi madreperlacei dagli appuntì che svolazzavano impazziti al vento di Aprile e si era soffermata per un’eternità sul broncio di Naruto prima di rispondergli.
“è-è vero, Naruto: q-quando s-si ama, è difficile n-non essere amati” mormorò, imbarazzata, le dita che si intrecciavano convulse.
Naruto la guardò stupito, distogliendo gli occhi celesti dal suo bersaglio.
“P-però l-l’amore non muore m-mai…può a-accrescere e aff-f-f” sospirò, maledicendo quella lingua tremante “affievolirsi,  ma non muore. P-può mutare, ecco, c-cambiare sog-getto, ma non muore. Mai” concluse, con le gote imporporate di soddisfazione, come una bambina a Natale. Non poteva crederci: stava parlando con Naruto, cercava di fargli capire il desiderio impellente del suo cuore.
Hinata ricordava quel momento con amore ed eccitazione, perché sapeva che proprio da quella frase, in quel giorno pieno di vento, che spazzava via le sporcizie dell’inverno, era nata la scintilla del loro amore.
Loro, perché quella di Hinata era nata e cresciuta fin dai primi giorni di scuola: l’anno in cui lei, la ragazzina di cristallo, la luna cieca, aveva incontrato il re del cielo, il sole splendente. Aveva imparato a memoria le sua abitudini, le sue battute preferite, i suoi gesti, tentando di assomigliarli…finché la sua idolatria non si era tramutata in amore sofferto.
Quel pomeriggio, il pomeriggio della scintilla, Naruto, allo scoccare della campanella l’aveva affiancata, e assieme avevano camminato fino alle pendici della collina sormontata dalla villa Hyuuga. Frustati dal vento, erano riusciti a scambiarsi qualche parola e qualche sorriso; Hinata era imbarazzata ed estasiata, mentre vedeva i suoi desideri, pieni di speranza e paura, avverarsi.
“Se vuoi faremo la strada assieme più spesso” aveva detto Naruto, con il vento tra i capelli e gli occhi incerti, quasi timorosi: probabilmente si stava chiedendo cosa fosse quella nuova stretta al cuore, quanto fosse profondo l’affetto di Hinata nei suoi confronti, per quanto tempo li avesse covati per vederli schiudersi, se poteva esistere la possibilità di ricambiarli. Nei giorni seguenti erano circolati molti pettegolezzi circa le deviazioni di Naruto e le menti dei loro compagni di classe erano intasate dal perenne traffico di pensieri che potevano formulare su quella strana coppia: gli opposti, vetro e metallo, che camminavano assieme sotto il sole. Tutti spettegolavano, ma in fondo credevano che Naruto avesse cambiato strada solo per non incrociare la coppia che prima di lui era stata oggetto di scoop vari, Sasuke e Sakura. Ma Hinata sapeva che non centrava solo l’astio di Naruto verso la coppia o il suo amore tradito da Sakura, oggetto del suo cuore da tempo. Naruto, dietro i suoi scherzi e le sue battute, stava cercando di riordinare i suoi sentimenti: dove disporre un’amicizia perduta, un legame con Sasuke che voleva recuperare? In quale cassetto nascosto poteva pigiare il ricordo di Sakura? Voleva buttarlo o solo nasconderlo, per conservarlo? Dove appoggiare l’affetto infinito che aveva letto recentemente gli occhi limpidi di Hinata?
Alla fine aveva deciso di metterlo metaforicamente in primo piano, sul comodino, assieme all’unica foto dei suoi genitori, alla sveglia che non riusciva mai a destarlo, alla presenza del suo tutore Jiraya, che nonostante il suo modo duro era rimasto tante, troppe volte, era rimasto a vegliarlo quando era stanco o malato.
“E un giorno volerò proprio lassù” aveva esclamato Naruto, quell’innocente ventuno di Marzo, mentre tornavano a casa. Il suo viso arrossato era una maschera di gioia. “Non sai come sarà bello volare in mezzo alle nuvole!Certo non sarà facile, ma alla fine riuscirò a diventare il pilota più in gamba di tutti i cieli, proprio come mio padre!”. Hinata aveva continuato a guardarlo, concentrata e ammirata, mentre gli occhi di Naruto si confondevano con il cielo.
“Allora s-sei sicuro? Non h-hai paura di volare, di r-rischiare, di rimanere n-nel vuoto?Non h-ai paura di r-rimanere da solo?” gli domandò impensierita. Naruto si era voltato e l’aveva guardata confuso: non comprendeva la sua paura, non riusciva a capirla. Ma una cosa poteva farla: poteva salvarla, da quella paura ignota.
Le si era avvicinato e lei lo aveva aspettato, come sempre, nella realtà come nei sogni. Naruto le aveva sorriso, mentre entrambi stavano ringraziando di essere sotto lo stesso cielo, di respirare la stessa aria, di essere così uniti.
“All’inizio sarà difficile” cominciò, con il sorriso ammantato della solita, irrefrenabile allegria “ma dopo aver imparato sarà tutto più facile: la prima volta è sempre così: ci sentiamo soli e possiamo contare solo su noi stessi, mentre temiamo di cadere nel vuoto. L’assenza di aiuto può essere devastante all’inizio, ma poi si impara. Bisogna solo rischiare”.
Un altro dei suoi sorrisi splendenti…come poteva essere così imperfettamente giusto per lei?
“E poi, io non sarò mai solo quando volerò: i piloti di linea non volano mai senza il loro secondo” aveva riso con sicurezza “Io sono stato fortunato: in vita mia non sono mai stato solo”.
“N-neanche quando t-ti sei allontanato d-da Sakura e Sasuke??” aveva chiesto Hinata timida, ancora intimorita dalla presenza della ragazza rosata nel cuore di Naruto. Ma lui l’aveva guardata con sorpresa, come se si tesse seriamente chiedendo se l’amica avesse qualche problema di connessione.
“Bè, no!Ero con te” aveva risposto sicuro, con il sorriso spensierato di un bambino e sincero di un adulto. Si erano baciati lì, in mezzo alla strada falciata dal vento di quel Marzo festante, con il profumo dei fiori imprigionati nei vasi e qualche ciclista che li aveva guardati incuriosito e sereno, prima di affrontare la discesa dopo la curva. Aveva ragione Naruto, come sempre: era bello volare e lasciarsi andare, dopo aver imparato, dopo essersi tenuti per mano.
Sembravano passati secoli, dal quel Marzo pieno di sogni.
Hinata, rinchiusa nella sua stanza, allungò la mano, ma non trovò quella calda e forte di Naruto, come le aveva promesso.
 “Non ti lascerò mai, ti condurrò attraverso i tuoi passi. Se tuo padre non è capace di fare il padre e Hanabi di fare la sorella, io sarò entrambi” le aveva detto pochi giorni dopo il bacio, sempre su quella strada piena di vento.
Promesse sfaldate, distrutte.
Hinata allungò di nuovo la mano, ma tutto quello che riuscì ad afferrare fu un raggio di luce invisibile, che filtrava con intraprendenza nella stanza buia. Un'altra fitta di nausea, e l’esofago in fiamme. Hinata gemette, nel suo letto, tra le coperte sudate, agognando il sonno ma senza riuscire a raggiungerlo. Era stata troppo tempo chiusa in casa per ricordarsi cosa fosse la fatica e il godimento di un sonno ristoratore dopo di essa. Si sentiva gli occhi gonfi di una fatica confusa e i sensi intorpiditi dall’apatia.
Avevi promesso che mi avresti accompagnato sul cammino della vita, mano nella mano, senza lasciarmi, perché dovevo imparare a camminare davvero. Ma ora dove sei? Dovevi insegnarmi ad amare, a non balbettare, a vivere. Perché ti hanno mandato via?
Hinata aveva sempre pensato di essere stata più prudente di Sakura e di Sasuke, che mostravano il loro tenero amore con i gesti più disparati e sinceri. Alla fine erano giunte le prime problematiche, e Hinata non ne era rimasta sorpresa, anche se era stata colta dalla tristezza e dall’amarezza.
 Per loro fortuna, Fugaku Uchiha era troppo impegnato a combattere la causa di furto di cui era accusato Itachi per controllare il figlio minore, che usciva con una ragazzina di basso ceto e che aveva avuto accesso al prestigioso collegio solo grazie a una generosa borsa di studio. Anche Mikoto Uchiha, la madre di Sasuke, aveva accolto la presenza di Sakura senza repliche; aveva fatto un sorriso breve e con voce candida aveva mormorato: “Basta che non la sposi!”.
Hinata e Naruto, invece, erano costretti a percorrere chilometri e chilometri per trovare un piccolo paradiso riparato dove coltivare il germoglio del loro neonato amore. Ma Hinata vedeva sempre più spesso il paradiso, lucente e ameno, perché, fondamentalmente doveva avere due sole caratteristiche: essere lontano da Villa Hyuuga e nello stesso posto in cui si trovava Naruto. Era incredibile come ogni sciocchezza, ogni sorriso, ogni bambinata di quel ragazzo che cresceva, incostante e insicuro, in quel bagno di ormoni, riuscisse a renderla serena.  Si sentiva cullata e protetta, come se sua madre fosse finalmente tornata, e Naruto riuscisse a sbloccare i ricordi della sua infanzia: il sapore del latte caldo, le ninne-nanne della mamma, le labbra paffute di Hanabi che succhiavano dal suo seno. Ogni gita al parco, al mare,a un negozio, a un bar erano esperienze nuove che Naruto riempiva di allegria, chiacchiere e insegnamenti: Hinata gli aveva chiesto di aiutarla ad uscire dalla sua conchiglia di timidezza. All’inizio Naruto era rimasto spiazzato: gli sembrava una cosa innaturale, come dover estrarre un paguro dalla sua casa. Però alla fine si era convinto e, quando Hinata era riuscita ad eliminare quasi del tutto il suo balbettio( almeno con lui) ne era rimasto affascinato ed entusiasta.
“Bravissima! Allora le mie lezioni servono a qualcosa” aveva esclamato con il suo solito sorriso pieno di luce, e l’aveva baciata con impeto, anche troppo.
E Hinata aveva imparato ad amare, a volare, a dare un nome a quell’eccitazione che le esplodeva nel cuore e tra le mutande, anche se cercava pudicamente di nasconderla. Ma non era riuscita a controllare il suo desiderio: la voglia, il bisogno di essere amata nella sua interezza. Cosa ne sapevano i frigidi Hyuuga dell’amore passionale, degli sguardi che nascondono sogni segreti? Cosa ne sapevano dei desideri, della necessità psicologici e fisici di una ragazza cresciuta come una pianta in una serra, senza la vera luce, senza la vera pioggia? Cosa ne sapevano del suo cuore che batteva ogni giorno, furioso e frustrato, senza trovare una valvola di sfogo per riversare tutto l’amore che in anni di desolazione era rimasto imprigionato nel suo animo?
Hinata si era sempre sentita sbagliata, nel mondo degli Hyuuga: sbagliata, coi suoi voti mediocri e le interrogazioni farcite di balbettii, con la sua timidezza che sfociava nel vero e proprio terrore per le relazioni umani, dell’eccessiva bontà con cui trattava i suoi sottoposti. Solo tra le coperte di Naruto, solo fra le sua braccia forti che fasciavano il suo corpo maturo, solo con il cielo sopra la testa, tagliuzzato nel soffitto, si sentiva a casa. Ma bastava attraversare la porta e tornare in strada, perché si sentisse sbagliata, per gli Hyuuga, per la sua città, per la relazione con Naruto. Aveva sempre torto, nel mondo. Eppure non trovava nulla di scandaloso e vergognoso guardare il ragazzo che amava dormire e rigirarsi tra le coperte, accarezzare il suo profilo nella penombra, sfioragli la mano, stare abbracciati sotto il cielo splendente che si rifletteva nella finestra sul soffitto della camera. E ogni volta che passava un aeroplano, era una festa.
“Un giorno sarò lassù” esclamava Naruto, mentre indicava la scia candida che striava il cielo e Hinata osservava il lenzuolo leggero che mostrava gli addominali del ragazzo.
“Però mi lascerai da sola: tu sarai in cielo e io rimarrò a terra” aveva mormorato Hinata, impensierita.
“Bè, potrai sempre essere la mia hostess” aveva proposto Naruto, con appena un lampo di malizia negli occhi sereni, mentre guardava Hinata che, imbarazzata, si rifugiava sotto il lenzuolo che comunque non nascondeva il suo rossore.
Ma la profezia di Hinata si era rivelata esatta: lei era una figura terrena, condannata a rimanere ancorata al suolo, al fango, mentre Naruto poteva innalzarsi in cielo.
Una nuova fitta di nausea. Hinata sentiva la desolazione inondare quella stanza buia: quasi colava, dalle pareti in penombra. Era stata smascherata e tradita; era stata cacciata dal suo piccolo paradiso, come una schifosa peccatrice.
Non avrebbe mai dimenticato gli occhi carmini e infestati di spettri della professoressa Kurenai, quando li aveva sorpresi a baciarsi in aula vuota, durante l’intervallo, al riparo dai pettegolezzi e dalla furia che la loro relazione avrebbe scatenato. L’insegnante era rimasta avvilita e attonita: il suo viso e il suo copro florido in quei giorni erano stati sfasciati dal dolore per la perdita del marito e per l’inizio della gravidanza. Ogni parte di lei sembrava gridare, soffocata: i rimasugli del trucco, seccati sotto le palpebre, le labbra tirate e pallide, i capelli ingarbugliati, come vele nella tempesta. Eppure il suo improvviso e terribile lutto non avevano impedito al suo orgoglio di riportarla al suo dovere, e come i fili di una marionetta l’avevano riaccompagnata a scuola, dove non aveva mai permesso alla sua disperazione di evadere. Ma Hinata aveva riconosciuto la gelosia, affamata di rancore, l’ingiustizia che sentiva nell’animo al pensiero che mentre lei stesse vivendo l’inferno due suoi studenti potessero amarsi indisturbati.
Hinata, imbambolata, era tornata a casa con una vergognosa nota in cui era scritto che aveva avuto un comportamento irrispettoso e osceno in ambito scolastico. Ma cosa c’era di osceno, di peccaminoso, nell’amore semplice e puro, che aveva unito due anime opposte, come cielo e mare?
Cosa c’era di osceno in un bacio, manifestazione fisica della sua salvezza?
“Così mia figlia, la mia primogenita, discendente della nobile famiglia Hyuuga, si è fatta sorprendere mentre faceva la puttana con il protetto di quel maiale di Jiraya??” aveva urlato Hiashi, con le mani attaccate al tavolo e le nocche bianche, per trattenere la sua ira. Il mondo di vetro degli Hyuuga si piegò, sofferente, sotto quell’urlo pieno di ira. Hiashi era freddo, statico, glaciale, non urlava mai: eppure quella volta l’onta subita era troppo scandalosa.
“Pensi davvero che adesso potrai stare con lui, e passeggiare per strada come se fossi la sua sgualdrina gratuita??” aveva continuato, terribile nel suo odio “Te lo proibirò! Il protetto di Jiraya, ti rendi conto?? Quel pervertito che poggia il culo su cuscini comprati con gli incassi dei suoi libri…porcate, schifezze! E tu frequenti il suo teppista!”.
Hiashi era andato avanti per ore, ore che scorrevano lente e ansimanti, ore dove gli occhi terrorizzati di Hinata erano rimasti fissi sulle sue mani tremanti( sembravano così vuote senza quelle di Naruto intrecciate ad esse). Hanabi, dall’altra parte del tavolo, una statua di sale di fianco al padre fuori di sé, guardava la sorella con disprezzo e disgusto.
“Perché quel demente, Hinata??” urlò di nuovo Hiashi.
Perché, principessa, ti sei innamorata del drago, invece del cavaliere dall’armatura lucente?
Perché, Lavinia, ti sei innamorata di Turno, invece di Enea, il principe preannunciato dal fato?
Hinata sapeva la risposta: perché Naruto era il nome della rondellina del Ramen. Era il nome di un ingrediente fondamentale per quel cibo, il preferito di Naruto, con il suo succoso sugo di carne, gli spaghetti sottili e le verdure cotte. Naruto amava il suo nome perché aveva un sapore, una fragranza a cui essere associato; se lo poteva magiare, il suo nome. Era il nome di un cibo, caldo, dissetante, che poteva far esultare, che poteva attendere un lavoratore dopo un lungo giorno di fatica, che poteva salvare una vita. Hinata aveva potuto sentire il suo profumo, forte e speziato, e associarlo al suo amore, aveva potuto rammentarle i momenti di pace trascorsi con lui. L’avevano mangiato assieme, dopo che Naruto l’aveva contagiata con quella sua strana passione per la cucina orientale, e aveva dato un odore, un sapore fisico alla loro relazione. Naruto era un nome che dava sostentamento alla vita, al copro, e, nel caso di Hinata, alla sua anima. Lei era stata avvolta da quel Vortice di amore e speranza, che l’aveva risucchiata nel fiume dell’amore.
“Spero almeno che tu non ti sia spinta oltre! Che vergogna per la casata, sapere che sei davvero una puttana!” aveva detto Hiashi, un’altra ondata di insulti che non aveva mai pronunciato.
Gliel’avevano dovuto tirare fuori con le tenaglie, quel segreto prezioso, il sacrificio della sua verginità per il vero amore, e, per averne conferma l’avevano trascinata dal medico.
E lì Hinata aveva ricevuto un altro duro colpo.
“C-come sarebbe?” aveva domandato al ginecologo, che aveva frugato nel suo corpo come solo Naruto aveva avuto il permesso di fare. Maledetto balbettio, perché era tornato? Non era morto, seppellito, defunto, con il tremore alle mani?
“Non ci sono dubbi, signorina, mi dispiace. Ha avuto un rapporto non protetto?” chiese il ginecologo, un piccoletto con i capelli brizzolati incollati al cranio. Hinata scosse la testa, appena appena, come se fosse una sonnambula che si era svegliata sull’orlo di un dirupo.
“Allora suppongo che il vostro anticoncezionale fosse danneggiato. Lei è incinta di quasi un mese, signorina, e questo è quanto” concluse il ginecologo, senza sapere che aveva lasciato la corda della lama che stava ghigliottinando la vita di Hinata. La ragazza boccheggiò, avvilita, confusa, terrorizzata. Si portò una mano all’addome, ancora piatto, ancora intatto: era la sua creatura ad averle fatto venire gli attacchi di nausea qualche giorno prima? Non era stata la paura? Era un bimbo nato dall’amore a farla soffrire. Un mese prima…possibile che quel rapporto, intenso e magnifico, appena dopo il ciclo, avesse comportato la nascita di un seme che stava crescendo di giorno in giorno, riscaldato dal suo sangue innamorato e sfamato dal suo stesso cibo? Possibile che non avesse controllato il profilattico, lei che si era vantata di essere stata più prudente e scaltra di Sakura e Sasuke?
Lo sguardo del ginecologo fu l’unico pieno di comprensione e pietà che le fu rivolto in quei giorni. Mentre si avvolgeva le braccia attorno alla gambe tremanti, non sapeva ancora che Hiashi avrebbe girato in tutta la casa imprecando contro quella stramaledetta puttana della figlia maggiore, dopo aver ricevuto la notizia della gravidanza indesiderata.
Hinata era tornata a casa, segregata nella sua stanza troppo grande e vuota, senza poter vedere il cielo sul soffitto. Avrebbe abortito: al solo pensiero di uccidere la creatura concepita dal suo immenso amore, colei che era una parte di entrambi, colei che sarebbe nata e avrebbe potuto regalarle il sole, si era sentita morire ed era stata presa dal desiderio di seppellirsi nel suo dolore, ma non aveva altre alternative.
Hiashi tuttavia aveva altri progetti, e Hinata li aveva scoperti il mattino a dopo, che si era tinto di un silenzio orripilante.
“N-non potrò a-abortire?” sussurrò come una condannata durante la sua ultima confessione.
“Non permetterò che nella mia famiglia avvenga un ulteriore scandalo. Se si venisse a sapere, sarebbe un’onta che non potrei sopportare!Inoltre” continuò freddo Hiashi “potremmo volgere questo espediente a nostro vantaggio”.
Hinata guardò il padre, con gli occhi bollenti e gonfi di lacrime, l’ignoto che si spalancava sotto i suoi piedi. Stava per svenire, lo sentiva.
“Non posso fidarmi di te: non metterai più piede in quella scuola…con gli schifosi individui che ne fanno parte” piegò Hiashi, le labbra serrate dall’odio, come se volesse sminuzzare e distruggere quegli ultimi, scandalosi giorni. “Studierai a casa. E ovviamente dovremo trovare una giustificazione per la tua… situazione” continuò mentre indirizzava un’occhiata disgustata al ventre della figlia traditrice e ingombrante.
Sbagliata.
“Stai per sposarti”.
Hinata era avvolta in una lunga veste turchina, larga e sformata, come se ci fosse già stato qualcosa da nascondere.  Il suo viso era stato chiazzato di trucco: una luna inquinata da smog e fumi.
Dopo i suoi ultimi penosi giorni di scuola dove aveva cercato di inviare SOS disperati, quella sera, caratterizzata da un caldo atroce, avrebbe conosciuto Itachi Uchiha, suo futuro marito, il nuovo padre del bambino. Non aveva avuto scelta, quel ragazzo taciturno e apatico, dato che Hiashi Hyuuga aveva aiutato Fugaku a liberare il giovane dalle accuse che gravavano su di lui.
Hinata attendeva l’inizio della cena, ammantata di candore e lucciole appena nate, mentre le cameriere le appuntavano gli ultimi gioielli. Pesavano, la trascinavano verso il fondo, verso il buio delle iridi di Itachi. Poteva suo padre aver scelto uno sposo così diverso dal suo vero amore? Poteva aver dato sposa alla luna la notte invece che al sole? L’aveva fatto intenzionalmente, per vederla guardare quei lineamenti incavati e non trovare quelli marcati di Naruto?
Naruto…negli ultimi giorni di scuola l’aveva cercato invano, nei corridoi deserti e nelle aule accaldate, tra i mattoni roventi, e, per trovare un minimo di conforto, aveva alzato gli occhi al cielo e cercava, tra il sole incandescente, il cielo blu. Aveva pregato per il suo aiuto, per la sua spalla che le aveva sempre offerto, per le sue braccia protettive e i suoi impavidi sogni.
Il loro sogno era morto, assassinato, lasciato a marcire, ad affogare, nel suo sangue. Naruto era volato via, tra le nuvole, tra i suoi sogni: Hiashi aveva avvertito Jiraya che quel delinquente doveva sparire e non disturbare ulteriormente gli ultimi giorni di Hinata. Così la ragazza aveva dovuto sopportare in solitudine non solo i pettegolezzi ma anche lo sguardo preoccupato di Sasuke per l’improvviso fidanzamento del fratello, le domande di Ino, che aveva sentito la professoressa Kurenai sgridarle lei e Naruto per il loro comportamento indecoroso, gli aiuti vani di Kiba e Neji, e infine, la terribile decisione di assumere della droghe da Gaara, nel disperato tentativo di abortire.
“Il nostro sogno è morto” mormorò, terrorizzata e angustiata, mentre prendeva posto vicino ad Itachi, sotto gli sguardi perfetti degli Hyuuga.
Voleva Naruto, voleva il suo sguardo il suo sorriso…perché non le permettevano di vederlo?
La sensazione agrodolce dell’amarezza impastava la bocca di Hinata: si sentiva una bambola, una marionetta, che era stata manovrata per il prestigio della casata, e presto sarebbe stata usata da Itachi. Eppure Naruto non le aveva insegnato a volare, a non balbettare, ad amarsi nel sua imperfezione? Ma gli insegnamenti di Naruto, come l’orizzonte, si potevano ammirare, si potevano sognare, ma non erano fisicamente raggiungibili. Per uno sprazzo della sua lunga, troppo lunga, esistenza era vissuta in un sogno, un sogno dove l’inferno degli Hyuuga aveva lasciato il posto al paradiso dell’amore. Ma poi la sua anima dannata era stata richiamata negli abissi dei tradimenti e degli inganni: chi erano gli Hyuuga se non demoni falsi, che avevano stravolto il mondo per rimettere quella piccola anima dannata al suo posto? E solo perché la nobiltà e la ricchezza scorrevano nelle loro vene. Hinata aveva cercato di trovare un mondo alternativo, dove il valore di una persona si calcolava con l’amore e con sua perseveranza, con i suoi sogni e non con il nome o cognome. Ma nome e cognome erano i custodi del destino, scritto e ricopiato nella vita di ogni persona. Destino, infame destino, crudele parca che aveva reciso troppo presto la vita di Hinata. Naruto era lontano, oltre i monti e gli oceani, ma Hinata sapeva che non l’avrebbe mai lasciata sola: i suoi sogni, sogni concreti, sarebbero rimasti. Nostalgiche fantasie, e nulla di più. Sarebbe ritornato, o gli Hyuuga gli avrebbero impedito di giungere da lei? Avrebbe mai visto la sua creatura? L’avrebbe riportata nei suoi sogni infiniti? Ora ad Hinata rimaneva soltanto quella piccola creatura senza forma, nata dall’amore…avrebbe avuto i sogni e gli occhi coraggiosi di suo padre?
Gli occhi perlacei e spenti di Hinata volarono verso l’alto, nell’infantile tentativo di trovare il cielo blu
Ma il sole, con i suoi colori allegri, era tramontato. Era rimasta la luna, signora della notte.
La signora del nero. La dama eternamente sola.

A Hinata non era mai piaciuto veramente il suo nome: semplicemente non lo aveva accettato, e un giorno sperava di poterlo cambiare, per mutare il suo destino…anche perché il nome Hinata le faceva venire in mente sogni, immagini e colori in contrasto con il suo animo. Certo, le due “a” le davano un accento decisamente delicato e femminile, e la “i” iniziale sembrava il canto di un usignolo che celebrava il ritorno della primavera.
Hinata significava portatrice di grazia. Solo quello.
Altre donne portavano quel nome come una corona e avevano il riso negli occhi, le labbra sorridenti di quella grazia naturale che si prostrava ai loro piedi. Riuscivano a donarlo al mondo, l’eleganza e la grazia che le contraddistinguevano: regalavano gentilezza e timidezza, senza chiedere denaro o riconoscenza. Ma Hinata non era mai riuscita ad esternare la sua generosità senza sentirsi usata, senza sentire la terribile sensazione che i suoi sentimenti si prostituissero ai desideri altrui. Dalla famiglia e dai conoscenti, che interpretavano la sua sensibilità come segno di debolezza. Solo Naruto era aveva accettato con un sorriso sincero la sua grazia, la sua purezza, e aveva cercato di farla venire alla luce, al mondo.
Il suo nome, ormai, non aveva più significato. Era la portatrice di una grazia ormai defunta, inutile.
Era come Lavinia: etimologicamente, non voleva dire un  bel niente. Era un nome inventato da Virgilio, estratto a caso dalla sua mente piena di idee. Eppure il sommo poeta non aveva dato spazio o spessore alla caratterizzazione della principessa invisibile. Non si era mai chiesto cosa volesse dire essere destinati a sposare l’uomo scelto dal fato, ben sapendo che non era la persona con gli occhi celesti che aveva atteso per tutta la vita. Non si era mai chiesto se Lavinia avesse preferito Turno, ad Enea. Solo gli uomini, i maschi, con le loro imposizioni, con le loro guerre, con le loro violenze, con le loro ricchezze e con la loro superiorità ingiustificata potevano decidere la sorte di un amore sballottato dall’oceano dei sentimenti.
Alla fine, Hinata e Lavinia erano due gusci vuoti, abbandonati e sepolte come conchiglie nel cimitero del mare: la spiaggia.
Lavinia non voleva dire niente.




Eccoci alla fine^^.
Con la speranza che non vi sia venuta l’angoscia(improbabile^^’) eccoci all’epilogo. Dunque, non sono riuscita a capire in che anno sia stato legalizzato l’aborto in Giappone, ma dato che negli anni Novanta hanno istituito la pillola-anticontraccetiva, presumo che sia stato introdotto negli anni Ottanta. Hiashi Hyuuga però è di mentalità antica, e considerava l’aborto uno scandalo. Dato che si tratta di una famiglia potente non dev’essere stato troppo difficile per gli Hyuuga mettere tutto a tacere e a combinare un matrimonio( anche da noi succede!Quanti ragazze sono costrette dalle loro famiglie bigotte a tenere il bambino, e i loro fidanzati a prendersi le loro responsabilità?). Inoltre, Hinata solo con Naruto era riuscita ad essere forte…ma senza di lui è rimasta succube delle minacce paterne(anche se si fosse ribellata dubito che sarebbe finita bene=_=). Ho preferito dare a Itachi del criminale per avere una motivazione per il matrimonio(o ti sposi o finisci in galera…il succo è questo), perché non mi sembra un personaggio che si fa mettere i piedi in testa. Ho parlato anche dei problemi di Sakura e Sasuke perché non credo che a una famiglia nobile facesse piacere che il figlio stesse con una ragazzina di medio ceto, anche se erano gli anni novanta(l’ho visto in un film…ma non ricordo quale^^’).  Naruto in questo pezzo è orfano ed è stato allevato da Jiraya, il suo tutore, che è un uomo ricco(infatti Naruto è iscritto al college dei “ricconi”), ma solo perché scrive libri su un certo argomento^_-. E Hiashi, che fa parte della vecchia nobiltà, non avrebbe mai accennato un simile matrimonio. Naruto è stato allontanato da Jiraya, perché gli Hyuuga avrebbero potuto trascinarlo in tribunale, per violenza o altre accuse( false, ovviamente). Infine, ho analizzato il nome di Hinata e di Lavinia; quest’ultimo non significa davvero niente, è proprio un nome inventato. E Hinata sente che anche il suo nome è vuoto, se non riesce ad usare la sua grazia innata per sé e con gli altri. Il titolo è preso dalla canzone “Jillian” dei Within Temptation.
Spero che sia tutto chiaro^^
Ecco i significati dei nomi richiesti da Shatzy:
Naruto: il nome indica la rondellina del Ramen, un ingrediente fondamentale per questo piatto giapponese. Uzumaki invece significa vortice.
Hinata: significa “portatrice di grazia ed eleganza”.
Hanabi: significa “fuoco d’artificio”.
Itachi: significa “marmotta” o “faina”, animali di malaugurio.
Gaara: significa “amore per sé stessi”.
Temari: sono le palline di seta giapponesi, usate come gioco.
Ino: significa “cinghiale”, e Yamanaka “attraverso i boschi”.
Shikamaru: Shika significa “cervo”.
Chouji: Cho significa “farfalla”.
Kurenai: indica un colore identificabile con il rosso smagliante, mentre il suo cognome, Yuhi, significa “momento della giornata in cui tramonta il sole”
Kiba: significa “zanna”
Rock Lee: ispirato a Bruce Lee
Ten Ten: significa “qua e la”
Neji: significa “vite”…quella di ferro^^
Sakura: significa “fiore di ciliegio”
Sasuke: significa “scoiattolo”.
Grazie mille a:
damis: guarda, anche a me piacciono gli happy-ending^^…ma ho deciso di sottolineare il fatto che anche pochi anni fa                                                           (ma anche oggigiorno) e perisno nei paesi più moderni nelle famiglie possono avvenire dei fatti abominevoli. Io credo che si sarebbe potuto evitare tutto questo dolore, ma purtroppo Hinata non è stata abbastanza forte. Questo però non è per colpa sua, ma della famiglia Hyuuga. Credo che sia ancora più tragico il fatto che una persona sviluppi un certo tipo di carattere solo per paura o per costrizioneç_ç Grazie mille per avermi seguita!!!Bacioni!!
Shatzy: ciao carissima^_^ Sono felicissima di leggere il tuo commento^^!Comunque, hai ragione, ho deciso di descrivere prima i personaggi più lontani da Hinata e poi i più vicini!Spero che ti sia piaciuto il NaruHina(anche se drammatico) di questo capitolo! Mi piace che Kiba ti faccia tenerezza, io l’ho sempre visto come una persona leale e fedele sotto quella scorza da belva selvatica^^. Poi bè, io in questa storia parlo di lui e Hinata come due amici, ma in realtà sono una fervente KibaHina*_*. Guarda, in verità a me Hanabi piace molto( per quanto possa piacere un personaggio che abbiamo visto sì e no cinque minuti^^’) e mi dispiace trattarla in questo modo. Ai miei occhi però appare come una persona ambiziosa e orgogliosa, che farebbe di tutto per non avere rivali nell’azienda di famiglia.  No, Hiashi non vuole aiutare la figlia anzi>_> brutto schifoso! Ho messo l’elenco dei nomi, per qualsiasi dubbio basta chiedere!Alla prossima, bacioni!

Grazie per l’attenzione,
LaLa

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