The Mouse's Guardian

di YakiTheNameless
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Per il lettore ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1.1 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 2.2 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 3.3 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 4.4 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 5.5 ***



Capitolo 1
*** Per il lettore ***


Lascio qui alcune informazioni generali:

1. La storia è ambienta nell'universo di Stranger Thing, più precisamente nella quarta stagione, tra il 1985 e il 1986.
Alcuni eventi non seguiranno il corso della serie e alcuni elementi non saranno proprio presenti, se non siete in pari potreste comunque imbattervi in spoiler.

2. Benché ambienta negli anni '80 potrebbero esserci dei dettagli che, per necessità o per distrazione, potrebbero essere incongruenti. Ovviamente prima di scrivere ci sarà un lavoro di ricerca.

3. Le parti riguardandi Dungeons&Dragongs avranno dei contenuti di fantasia e non saranno storicamente accurate. Le regole base e i meccanismi di gioco rimarranno quanto più accurati possibili.

4. È una fanfiction e come tale ha dei contenuti puramente inventati, non presenti nella storia canonica, ma comunque coerenti sia con l'ambientazione che con i personaggi.

5. Scrivo per passatempo e questa è la prima fanfiction che pubblico. Mi scuso in anticipo per eventuali errori o incorrettezze.

MephiOfTheBonfire

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


«Dustin, non puoi sconfiggere uno stregone con quell’incantesimo.» Mike puntò l’indice sulla figura del libro aperto davanti a Dustin «Vedi, non hai il livello necessario.»
«Raggiungerò quel livello con il prossimo potenziamento. E poi la campagna è quasi finita, a Eddie non importerà se ho solo un livello in meno.»
Mike guardò Will esortandolo con un cenno della testa a sostenere la sua tesi. Will sospirò, appoggiò i gomiti sul tavolo e si avvicinò ai due dalla parte opposta.
«Dustin non puoi, lo sai. Le regole della campagna sono chiare.» disse Will guardando l’amico. Mike sorrise compiaciuto, prima che Will lo ammonisse con uno sguardo. 
«Tuttavia, possiamo trovare qualcosa per aggirare il problema. Un artefatto o un altro incantesimo che possa almeno indebolire Morfius.»
Dustin e Mike si guardarono e insieme concordarono implicitamente che l’idea di Will era un ottimo compromesso.
«Dobbiamo solo farci venire qualche idea. Non ci sono dei libri apposta qui dentro? È pur sempre una biblioteca.» Dustin si guardò in giro in cerca di un titolo che attirasse la sua attenzione. 
«È una biblioteca, non 'L’Antro della Conoscenza di Ognidove' Dustin. Qui è già tanto se trovi una copia de 'Il Signore degli Anelli' figuriamoci qualcosa su Dungeons & Dragons.» disse Mike stendendosi sulla sedia, allungando le braccia dietro la testa.
La biblioteca di Hawkins era una piccola struttura di mattoni rossi posta vicino alla scuola superiore che frequentavano i tre ragazzi. Non aveva certo una selezione di libri aggiornata ma era un ottimo luogo per studiare e leggere in santa pace, o incontrarsi per pianificare le prossime mosse di una partita a un gioco di ruolo.
«Sì, ma chiedere non costa nulla.» Dustin si alzò sistemandosi il berretto in testa «Morfius non si batte da solo.»
Prima che i due amici potessero aggiungere qualcosa, il ragazzino era già sparito oltre gli scaffali che li separavano dal corridoio principale. I due si guardarono e poi ripresero a sfogliare i loro manuali di seconda mano. Quei libri avevano visto giorni migliori ma erano sempre stati dei fedeli alleati, ancora oggi a distanza di anni. Mike si occupò di consultare le magie, mentre Will gli artefatti. 
Nel frattempo Dustin aveva raggiunto il banco informazioni. Un pezzo unico di massiccio legno scuro posto sotto a una fila di alte finestre a griglia. Il ragazzo scrollò le spalle e si avvicinò con fare sicuro a quella che doveva essere a logica la bibliotecaria. 
«Ehm, salve.» disse sussurrando.
«Ehi, salve a te. Come posso esserti utile?» chiese la ragazza dopo aver messo da parte il libro che stava leggendo. 
«Si, ecco, ai miei amici e me servirebbe un libro di magia.»
La ragazza storse la bocca, ma non sembrava affatto confusa da quella richiesta «Intendi trucchi di magia alla Houdini?» chiese.
«No no, magia alla Gandalf.» disse Dustin abbassando la voce, come le stesse confidando un segreto.
«Oh…» disse lei facendo altrettanto «Magia seria. Fammi pensare…» disse picchiettando l’indice sulle labbra «Forse… mh. Vi serve per una ricerca?»
«Ehm, si. Possiamo chiamarla così.» disse Dustin guardandosi alle spalle distrattamente. 
«Non ho niente di specifico sulla storia o… Sulle pratiche. Però ho qualcosa da cui potreste trarre qualche spunto.» disse la ragazza alzandosi in piedi per recuperare un volume dall’altra parte del bancone. 
«La congiura di Mandrigyn. È come Tolkien, ma meno prolisso.»
«C’è scritto come sconfiggere un potente nemico in quel libro?»
«Purtroppo no, i protagonisti non si perdono troppo nei dettagli.» disse sistemandosi gli occhiali sul naso «Lo sconfiggono sì, il cattivo, e anche brutalmente direi.» disse alzando le spalle «Ma a parer mio una maledizione sarebbe stata più efficace. Tipo una di quelle per soggiornare la mente.» concluse rigirando il libro per dare un’occhiata alla sinossi sul retro. 
Dustin spalancò la bocca stupefatto, come se davanti gli fosse apparso qualcosa di sovrannaturale, un ectoplasma alla Ghostbusters. 
La ragazza lo guardò perplessa. Quella reazione fin troppo esagerata le fece pensare che il ragazzino credeva di essersi rovinato il finale. Stava già per scusarsi e dargli spiegazioni che quella era semplicemente una sua considerazione; quando sul suo volto vide comparire il sorriso più ampio di sempre.
«Oh porca miseria. Tu sei un genio! Tu, ehm...» disse Dustin entusiasta sporgendosi verso di lei «Alice, si. Tu sei un maledetto genio. Grazie!»
Alice guardò la targhetta con il suo nome attaccata alla camicia, e quando alzò gli occhi il buffo ragazzino dalla singola parlata era già sparito dietro gli scaffali. Batté il libro sul palmo della mano e lo ripose nel carrello dietro di lei. Ne aveva vista di gente strana in quella biblioteca, ma quello era di uno strano quasi tenero. Uno di quelli a cui non puoi far altro che rispondere con serietà, non importa quanto assurda possa essere la richiesta. E forse lei l’aveva aiutato veramente a giudicare dalla fretta con cui si era dileguato.
Alice riprese la sua posizione dietro il bancone, aprì il libro che aveva lasciato da parte e si immerse nella lettura. Per un momento ripensò a quella domanda così assurda e le venne da sorridere. Chissà che razza di nemico dovevano fronteggiare, si chiese.
Fortunatamente anche quel giorno l'orario di chiusura sembrò arrivare prima del previsto. 
Le luci si spensero e le porte della biblioteca si chiusero, mentre quelle di una piccola stanza nel cuore della scuola si erano appena aperte.

«“Attenti a voi, avventurieri! È giunta l’ora di mostrarvi il vero oblio.” Lo stregone cammina lento, trascinando i piedi nella melma della palude, avvolto dal mantello che lascia scoperta solo la mano rachitica. Poco a poco iniziate a intravedere il suo volto. La pelle grigiastra e butterata, mangiata dai vermi. Ne vedete uno che scivola fuori dall’orbita vuota.»
Un coro di lamenti inorriditi e disgustati interruppe la narrazione.
«Lo stregone del Caos vi fa cenno di avvicinarvi. Tra di voi la palude bolle sulfurea. Allora avventurieri, affronterete il nemico o scapperete pagandone le conseguenze? Giocatori, dichiarate le vostre intenzioni.»
Eddie si appoggiò allo schienale del suo trono e guardò uno a uno i presenti. 
«Inizio io.» esordì Mike «Dunque, Holland sfila la spada dal fodero e la porta davanti a sé, pronto a un possibile attacco frontale da parte di eventuali scagnozzi, alleati dello stregone.»
«Frigg, lo fiancheggia con il suo arco.» disse Jeff prendendo il dado in mano «Tiro su intuizione per capire se c'è qualcun'altro oltre a noi.»
Eddie aprí una mano, acconsentendo alla mossa.
«10… Più 1 per la natura di elfo, quindi 11.» disse il ragazzo guardando il suo amico dell'altra parte del tabellone. 
Eddie prese un dato e lo lanciò nascosto alla vista dei giocatori. Guardò verso il basso e arricciò il naso «Nella landa non si vede e non si sente nessuno. Siete voi soli contro il nemico, la vostra unica compagnia sono gli avvoltoi pronti a fare banchetto delle vostre carni.»
A turno tutti i giocatori fecero le loro mosse. Alcuni ebbero fortuna altri accusarono i colpi di tiri sfortunati. In pochi turni il gruppo era ancora in piedi ma lo stregone nemico era messo meglio della maggior parte di loro. 
«Siete allo stremo. Il nemico non accenna ad arretrare, è lì di fronte a voi. Il viso contorto si trasforma in una maschera scomposta quando la bocca si piega in un ghigno malvagio.» Eddie, in piedi davanti al tavolo, imitò l'espressione del personaggio suscitando una risatina generale. 
«Ebbene, signori. Dichiarate nuovamente i vostri intenti.» disse aprendo le braccia verso di loro. 
Questa volta fu Dustin a prendere immediatamente la parola. 
«Cornelius prende il suo bastone incantato e...» disse prendendo tra le mani il dado a 20 facce «Lancia contro Morfius 'LegaMente' livello 3.» disse Dustin guardando il foglio davanti a sé.
«Sicuro Henderson?» chiese Eddie piegando il labbro in un mezzo sorriso «È rischioso.»
Dustin guardò i suoi compagni e loro guardarono lui. Tutti sapevano a cosa andava incontro: la vittoria o la morte. 
Il ragazzino espirò rumorosamente, un sospiro d'incoraggiamento per prendere una delle decisioni più difficili della sua vita. Quasi quanto decidere se dire alla sua ragazza Susie di quel D-. 
«Io tiro.» disse. Baciò le mani chiuse attorno al dado e sussurrò qualcosa d'incomprensibile, chiuse gli occhi più forte che poté e aprendo le mani lanciò il 20 facce sul tavolo. 
Nel silenzio generale il dado si fermò. Dustin si sporse e tirò un sospiro di sollievo. Un 12 bianco lo guardava e lui guardava quel numero come fosse la cosa più bella di sempre. 
«Non così in fretta amico mio. Ora tocca a Morfius.» Eddie da dietro il cartonato tirò i suoi dadi e fece i suoi calcoli. Quando alzò lo sguardo verso Dustin, tutti trattennero il fiato. Il master scosse la testa e schioccò la lingua «Peccato Cornelius.» disse alzando le spalle. 
Un 'no' generale si alzò e Dustin scivolò lungo sulla sedia, mettendosi le mani sulla testa, disperato.
Eddie appoggiò i gomiti sul tavolo, incrociando le dita davanti al viso «Cordelius il mistico, in un folle gesto usa la sua magia contro il grande Morfius. L'incantesimo scagliato è potente, ma non abbastanza per soggiogare la mente dello stregone. Morfius gli resiste e quasi riesce scagliare un contro attacco verso il povero mago stremato.»
I giocatori ascoltarono il racconto con attenzione e attesero con vana speranza la sua conclusione. Tutti si convinsero che l'esito fosse solo uno: la battaglia era persa. 
«Ma improvvisamente...» Eddie si alzò dal trono e rivolse i palmi verso il soffitto «Il corpo dello stregone si immobilizza. Fermo, come una statua, nel mezzo della palude. Solo i vermi sul suo viso sembrano ancora muoversi. 
L'incantesimo non ha legato le loro menti, ma ha comunque annebbiato quella di Morfius, rendendolo inerme!» concluse il master sorridendo compiaciuto; lasciando che i ragazzi davanti a lui esultassero e che Dustin potesse alleggerirsi dalla tensione vedendo il suo amato personaggio ancora in piedi.
«Ma per oggi direi che possiamo fermarci qui.» disse Eddie guardando l'orologio che portava al polso «Domani c’è scuola, per voi.»
«Dai Ed, non puoi lasciarci sul più bello amico.» Dustin protestò indicando la scena sul tavolo da gioco. Sia Mike che Will annuirono concordando. Lo stesso fecero Jeff e Gareth. 
«Anche per te c'è scuola domani, Eddie.» puntualizzò quest'ultimo. 
«Ragazzi, ho detto. Per. Oggi. Basta.» un ghigno complice comparve sul volto di Eddie.
Il tempo era passato troppo in fretta e le quattro ore di gioco non sarebbero mai state abbastanza. Avrebbero dovuto aspettare una settimana prima di riprendere la partita, ma ne sarebbe valsa la pena. 
Il master sapeva quando fermare l'avanzamento della campagna per creare tensione, e non sbagliava mai su questo.
Dopo poco il gruppo raccattò le proprie cose, dadi e schede furono messi al loro posto e il tavolo ripulito dalle briciole. Mike e Will uscirono insieme a Jeff e Gareth, i ragazzi che insieme a Eddie avevano fondato l'Hellfire Club un paio d'anni prima. 
Dustin rimase ad aspettare Eddie, poiché sarebbe stato lui a riaccompagnarlo a casa quella sera.
«Bella mossa Dust.» disse il ragazzo di spalle, intento a ricollocare gli ultimi raccoglitori sullo scaffale «Non mi aspettavo una maledizione coercitiva.»
«Grazie, ci abbiamo pensato a lungo, dalla caduta di Leon. Ma a dire il vero è stata Alice a darci lo spunto giusto.» disse Dustin aggiustandosi il berretto in fronte.
«Alice?» Eddie si girò togliendosi la polvere dalle mani «Chi è? La tua fidanzata?» chiese recuperando il mazzo di chiavi dalla tasca.
«La bibliotecaria. La mia ragazza si chiama Susie.» lo corresse Dustin «Non sei mai stato in biblioteca?»
«Una volta, forse. Non è proprio il genere di posto che amo frequentare.» 
«È stata lei a dire che i protagonisti del libro avrebbero dovuto maledire il nemico. E da lì ba ba boom, l’idea.»
«I protagonisti di cosa? Oh, chissenefrega. Quindi è merito suo se Cordelius ha rischiato di rimanerci secco.» chiese Eddie con fare incuriosito. 
«In un certo senso.» rispose Dustin uscendo dalla porta prima che il suo amico la chiudesse a doppia mandata.
Arrivati al furgone Eddie aprì il bagagliaio e vi lanciò dentro la borsa e lo zaino, nel mentre Dustin si era già comodamente seduto nel posto del passeggero. Si allacciò la cintura e aspettò il suo accompagnatore. 
Eddie guidò con una strana tranquillità quella sera, tanto che a Dustin non era venuta nemmeno la nausea come invece ogni tanto succedeva. 
«Eccoci a casa Cenerentola, giusto qualche minuto prima che la carrozza si trasformi in una zucca.»
«Già» rise il ragazzino «Grazie del passaggio Ed, ci si becca domani a scuola.» disse Dustin prima di chiudere la portiera del van. 
«Come sempre Henderson.» 
Eddie alzò una mano in segno di saluto e l’amico sul marciapiede fece lo stesso. Un'ultima occhiata fuori dal finestrino per assicurarsi che Dustin fosse rientrato, poi ingranò la prima guidando a tavoletta fino al campo caravan.
Era stata proprio una bella serata. La campagna era alle battute finali, ancora due sessioni e poi si sarebbe concluso tutto. Erano mesi che preparava il gran finale e non vedeva l'ora di coinvolgere anche i ragazzi. 
Ma ora che la tensione lo stava abbandonando sentiva la stanchezza avvolgerlo come una calda coperta. Di certo avrebbe dormito fino al suono della sveglia, ammesso che l’avesse sentito.

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Capitolo 3
*** Capitolo 1.1 ***


Rendar si asciugò il sudore dalla fronte. Odiava montare le tende sotto il sole del primo pomeriggio. Non che potesse fare altro o protestare: oggi toccava a lui, la prossima volta sarebbe toccato a qualcun’altro. Era così la vita da nomade. Sarebbero rimasti in quella radura solo un paio di giorni per poi ripartire verso nord. Si fermavano sempre poco, il tempo necessario per far riposare i cavalli e recuperare nuove provviste per lo spostamento successivo. 
«Oi, Rendar» disse una voce roca.
Un esile vecchietto si avvicinò sorreggendosi con un bastone «Ti conviene fare una pausa.» disse fermandosi a qualche metro da lui.
«Prima finisco, prima posso andare a bere, Ulrich.»
«Nessuno ti verrà recuperare questa volta, lo sai.»
«Tornerò sulle mie gambe, vecchio. E l’ultima volta non è stata colpa mia.» disse il mezzorco martellando l’ennesimo picchetto. 
L’anziano alzò gli occhi al cielo «Non siamo qui per farti da balia Rendar.»
«Nemmeno io a voi.» disse lui pulendosi le mani sui pantaloni, indicando poi con il mento due suoi compagni che si stavano esercitando in maniera penosa con la spada.
Sbuffando rumorosamente lasciò il vecchio da solo e a passo spedito raggiunse gli spadaccini. Fermò il combattimento mettendosi tra di loro e, guardando prima uno e poi l’altro, si fece restituire le armi.
«Andate a prendere il prossimo telone, su, via, sciò.» disse loro con le spade in spalla.
Rendar era più o meno rispettato da tutti, anche se non aveva un alto grado dentro la compagnia. Forse perché era un colosso o forse perché era sotto la protezione del vecchio Ulrich. Fatto sta che nessuno voleva rogne con lui. Ogni sua parola era un ordine velato da richiesta.
Il mezzorco ripose le armi nel baule posto di fianco la tenda principale, chiudendolo con lo stivale. Si voltò e vide i due srotolare l'ingombrante tessuto color sabbia. Con il martello in mano li raggiunse svogliato. 
L’unica cosa che voleva era finire di allestire il campo per la notte e poi fiondarsi in città. Infatti era una delle rare volte in cui si accampavano vicino a un centro abitato piuttosto grande; e Rendar non avrebbe di certo perso l’occasione di bersi una buona birra fredda per poi magari passare la notte con qualche bella donna del paese.
Lui non era mai stato il tipo che se ne stava seduto al calore di un fuoco, ad ascoltare storie di eroiche imprese. A Rendar piaceva l’azione, il rischio e le scommesse; soprattutto quelle che riguardavano il rimanere vivo o meno. Per questo, ogni volta che ne aveva l’occasione se ne andava da solo all’avventura nel paese di turno. Non si sarebbe mai fatto sfuggire quella possibilità, magari era la volta buona in cui riusciva a trovare un ingaggio migliore. 
Dopo aver dato finalmente l’ultima martellata, si tirò su e stirò la schiena mugugnando rumorosamente per la stanchezza. Il cielo sopra di lui si era tinto di un caldo arancione, puntinato da voluminose nuvole rossastre. La sera era attivata prima del previsto, di lì a poco solo le fiaccole avrebbero illuminato il campo. 
Si guardò intorno. Alla luce del tramonto la radura aveva assunto un'atmosfera quasi magica. Sul falò acceso al centro dell’accampamento, la cena nel pentolone veniva mescolata lentamente, sicuramente si trattava di una zuppa o di uno stufato. Sentì i compagni chiacchierare e qualcuno ridere di gusto. Il rumore delle stoviglie e il gracchiare di un corvo poco distante. 
«Ren, eccoti finalmente.» disse un ometto ben piazzato, con una profonda cicatrice sulla fronte «Pensavo fossi già a far baldoria.»
«Ulrich mi ha incastrato con le tende.»
«Perché non ha messo i novizi?» chiese l'uomo togliendosi qualcosa dagli incisivi con l'unghia del mignolo. 
«Non si fida. Sempre distratti. Pensano che questa sia una vacanza. Hai visto cos'è successo con i viveri a Marl, rubati. Saed, erano in due di guardia, due.»
«Capisco, sì.» disse Saed annuendo «Ma ora hai finito no? Sei libero.»
«Puoi scommetterci.» disse Rendar appoggiando una mano sulla spalla dell'amico. 
Saed lo guardò dal basso sfoggiando il suo solito ghigno giallastro. Nessuno si sarebbe mai fidato di quel sorriso, nessuno a parte Rendar. Per questo considerava Saed l'unico amico tra i compagni. 
Quell'uomo era tenuto in vita solamente dalla bramosia ma, se si trattava di Rendar, poteva dimostrarsi perfino una persona leale. 
«Dunque amico mio, che ne dici se ti offro una bella birra ghiacciata? Una di quelle che fanno solo qui nella contea di Sylvester.» disse Saed. 
«Se paghi tu allora accetto. Dopotutto, mi devi ancora un favore per quella soffiata.» disse Rendar facendo l'occhiolino. 
L'uomo si mise a ridere, tirando un pugno amichevole sulla spalla massiccia del mezzorco. 
«Hai ragione. Forza andiamo, spassiamocela almeno per questa sera.» disse Saed agitando un sacchetto tintinnante. 
«E quelli?» chiese Rendar curioso. 
Saed si portò l'indice sinistro sulle labbra «Trucchi del mestiere amico.»
Rendar scosse la testa e insieme uscirono dall'accampamento, mentre le prime stelle facevano capolino nel cielo indaco della sera. 
La cittadina distava una decina di minuti a piedi. Già dalla radura ne si intravedevano le mura e dalla loro dimensione era intuibile che fosse abbastanza grande da garantire la piena autonomia agli abitanti. 
La strada era stranamente deserta. Lungo il cammino incontrarono solo un carro che trasportava legname e a pochi metri dalle porte una guardia di ronda. Più che un soldato era un ragazzo sulla ventina con scudo e spada; una cotta di maglia e degli stivali troppo grandi per i suoi piedi. 
Rendar e Saed passarono il cancello d'ingresso; ritrovandosi sulla via principale che tagliava la città in due, alla fine del viale un modesto tempio dava loro il benvenuto. 
«Mi aspettavo quattro case alla rinfusa e invece.» commentò Saed guardandosi attorno. 
«L'importante è che abbiano un posto dove bere.» rispose Rendar. 
Quest'ultimo fu il primo a incamminarsi verso il centro. Era sera e tra le vie non vi era praticamente nessuno. Ovviamente era anche l'ora di cena, infatti dalle finestre aperte di qualche casa usciva un invitante odore di cibo caldo. Rendar riconobbe quello del brodo e quello di qualcosa di dolce, forse una crostata di mele. In una cittadina così, dovrà esserci sicuramente della buona birra, pensò. 
«Amico, qui si trattano bene. Guarda lì.» disse Saed indicando la vetrina di una bottega. 
Al di là del vetro, disposti ordinatamente su scampoli di tessuto rosso, una fila di gioielli brillava alla luce della lanterna dell'insegna. Bracciali, collane e anelli in oro e argento, alcuni semplici altri con pietre incastonate. 
Rendar guardò la bottega: 'Oreficeria'. E fin qui anche un ottuso mezzorco come lui avrebbe potuto arrivarci. Tuttavia qualcosa sembrava essere fuori posto. Sembravano essere oggetti troppo preziosi per poter essere lasciati così in bella mostra. Quella non era la Capitale, dove a ogni angolo una guardia osservava silenziosa. Quella era una semplice cittadina in mezzo alla campagna di Sylvester. 
«Ren, per tutti i santi di Kel. Cazzo, queste sono d'oro massiccio. Saprei distinguerle da chilometri.» disse Saed attaccato al vetro della bottega. 
«Non pensarci Saed.» disse Rendar prendendolo per il colletto «Sei già ricercato in cinque contee.»
L'uomo sbuffò scocciato «Mai che possa divertirmi un po'.»
Il mezzorco alzò un sopracciglio e Saed fece roteare gli occhi, abbassando poi la testa arrendevole. 
«Andiamo, ho bisogno di rinfrescarmi la gola.» tagliò corto Rendar trascinandosi dietro l'amico. 
I due girarono tutta la città e quando finalmente trovarono la taverna, le lune erano già alte nel cielo notturno. 
Con ritrovata gioia Rendar aprì la porta, facendo tintinnare la campanella sullo stipite. 
Al di là del pesante bancone, una donna sulla cinquantina stava prendendo il boccale ormai vuoto a un uomo smilzo, curvo sul legno più addormentato che sveglio. Due goblin si voltarono da uno dei tavoli, lasciando in sospeso la loro partita a carte. A parte loro nel locale non vi era nessun altro, a eccezione del cane disteso sul tappeto davanti al camino. 
«Benvenuti.» lì accolse la taverniera. 
Entrambi salutarono con un cenno del capo, poi si avvicinarono al bancone. 
«Cosa posso servirvi?» disse la donna iniziando a passare un panno umido sul legno macchiato. 
«Due boccali di birra fredda, grazie.» disse Rendar; poi indicò un tavolo al centro della sala e la guardò. 
«Prego.» rispose lei, per poi voltarsi a riempire i boccali. 
Rendar e Saed si sedettero di peso sulle sedie, come se la camminata fosse durata ore e non minuti. 
Era un posto accogliente e tranquillo, niente di affollato e rumoroso come quelli a cui erano abituati. 
A Rendar un po' dispiacque di non vedere nessuno che potesse regalargli una serata movimentata, nessun attacca brighe di quelli che si scaldano con una parola di troppo. 
Saed dal canto suo, non poteva essere più sollevato. Conosceva il mezzorco e sapeva piuttosto bene cosa frullava in quel piccolo cervello bacato. E spesso non erano buone cose. 
«Ecco a voi.» disse la locandiera appoggiando i due boccali sul tavolo. 
Saed tirò fuori il borsellino e da esso due monete d'argento «Tenete il resto bella signora.» disse allungandole verso di lei. 
Lei lo ringraziò e le infilò subito tra i seni, tanto velocemente che Rendar si chiese se non avesse imparato il mestiere da Saed. 
I due presero le birre, le alzarono e brindarono alla compagnia, ai soldi e al divertimento. Le classiche cose a cui possono brindare due tipi dalla discutibile provenienza come loro. 
Di brindisi ne fecero molti, per la gioia della taverniera. Tra un sorso e l'altro si raccontarono storie e aneddoti su coloro che avevano conosciuto e su come avevano truffato l'uno o l'altro nobile o su quanti soldati avessero preso a pugni nella rivolta di un villaggio senza nome. 
Le risate si sprecarono e il tono di voce non era di certo conoscono all'orario, ma ai due poco importava. Pagarono con altre monete e nessuno si lamentò. Nemmeno il tizio ora addormentato pesantemente sul bancone. Quando la donna si avvicinava loro ordinavano altra birra e sganciavano altri soldi, cosicché lei non li buttasse fuori. 
La serata fu lunga e l'alcol molto. Rendar sentendosi stordito, buttò giù l'ultimo sorso ormai caldo e chiuse il conto. Saed biascicò parole a caso, agitando una mano come stesse spiegando all'amico qualcosa. Era pesantemente ubriaco, tanto che a stento riusciva a tenere gli occhi aperti. 
Rendar schioccò la lingua. Riportarlo al campo in quelle condizioni sarebbe stato difficile anche per un mezzorco come lui. In più non avrebbe mai permesso che, seppur accidentalmente, gli vomitasse sul gilè nuovo. Se l'era sudato e non aveva intenzione di puzzare più del suo solito. 
«Sul retro ho una branda.» si avvicinò la donna raccogliendo i bicchieri sporchi «La usa quello lì di solito, ma credo che per stanotte starà comodo anche sul bancone.» 
«Gentile da parte sua.» disse Rendar lentamente, per via della bocca impastata. 
«Si, si.» disse lei allungando un palmo aperto. 
Lui prese altre due monete dal sacchetto e gliele poggiò sulla mano. In un battito di ciglia questa si chiuse come un artiglio su una preda. 
La donna indicò a Rendar una porta chiusa solo da un pezzo di stoffa vicino a uno scaffale e poi se ne andò, salendo le scale vicino all'ingresso. 
«Forza amico, il tempo per la baldoria è finito.» disse il mezzorco caricandosi l'uomo sulle spalle. Attraversò la tenda che dava sul retro e dopo aver scaricato Saed sulla brandina, trovò un posto dove poter riposare.
Quando nella taverna calò il silenzio, la notte si stava consumando piano, di lì a qualche ora l'alba avrebbe sancito l'inizio di un nuovo giorno.

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Capitolo 4
*** Capitolo 2 ***


«Quindi la prossima sarà l'ultima?» chiese Will chiudendo il raccoglitore davanti a sé. 
Eddie annuì «Ma non vi preoccupate sarà epico, ve lo prometto.»
«Come minimo!» disse Gareth incrociando le braccia al petto «Non sono mica morto per nulla.» sbuffò. 
Tutti ridacchiarono. In effetti il personaggio del ragazzo aveva salvato il party, ma era morto di una morte veramente stupida e sfortunata. Il 3 sul dado a venti facce l'aveva condannato ad affogare in una pozza di fango. La palude non l'aveva risparmiato. 
Erano alle ultime battute, la prossima sessione avrebbe chiuso quella campagna, prima dell'avvento delle vacanze estive. 
«E dopo?» chiede Dustin raccogliendo i suoi dadi. 
«Dopo pausa. È estate Dust.» rispose Eddie. 
«Cosa? Non vorrai mica sospendere per tre mesi?» protestò il ragazzo. 
Eddie alzò le spalle. Avrebbe voluto iniziare una nuova campagna ma il tempo per prepararla sarebbe stato veramente poco. Infatti i mesi estivi erano tutti dedicati a imbastire i preparativi nell'attesa che l'Hellfire Club riaprisse i battenti all'inizio del nuovo anno scolastico. 
«Lasciatemi un po' di respiro. Anche i master hanno bisogno di una vacanza.» disse Eddie chiudendo il tabellone. 
«Beh... Potrei avere una soluzione.» intervenne Will «Se a Eddie va bene, ovviamente.»
«Spara Byers.»
«Ecco, io avrei una campagna pronta. Non è perfetta ma per passare l'estate può andar bene.» disse il ragazzo guardando i suoi amici. 
«Mh, in pratica, ti stai proponendo come master?» disse Eddie alzando un sopracciglio. Will annuì. 
«È bravo.» dichiarò Dustin «È stato il nostro master per anni. Ti puoi fidare.»
A Eddie non servivano certo le parole di Dustin per convincersi. Conosceva il minore dei Byers già da un po' e non aveva avuto nessun dubbio quando gli aveva consegnato la maglia e l'aveva nominato membro ufficiale dell'Hellfire Club. Il ragazzo aveva talento, era pieno di fantasia e dal nulla riusciva a creare sempre qualcosa di originale. Che fosse tanto elaborata o no, la campagna pensata da Will non sarebbe stata di certo noiosa. 
«D'accordo.» disse Eddie avvicinandosi a Will «Ti passo il testimone, Byers.»
«Grazie.» rispose Will. 
Si strinsero la mano per suggellare l'accordo. Will aveva la fiducia di Eddie e quest'ultimo quella del ragazzo. Sapevano entrambi che non ne sarebbero usciti delusi. 
«Ricordati che hai una grossa responsabilità ora.» disse Eddie indicando la maglia indossata da Will con il logo del club «Anche se non è una campagna ufficiale, sei il master. Tieni alto il nome, ok?»
Will annuì con decisione, orgoglioso. Eddie sorrise e gli diede una pacca d'incoraggiamento sulla spalla. 
Quando uscirono, il sole era ancora alto nel cielo benché fosse già ora di cena. 
Le sessioni svolte nel pomeriggio avevano un sapore diverso, meno suggestive. Forse perché l'atmosfera della tarda sera e il buio creavano un alone di mistero intorno ai racconti di Eddie. 
Però quella sera ci sarebbero state le prove della band, e se c'era una cosa a cui tenevano Eddie e i ragazzi, oltre all'Hellfire, era proprio il loro gruppo. 
«Will!» dissero Dustin e Mike appena fuori dalla scuola «Una nuova campagna? Sul serio?» domandò quest'ultimo. 
«Era da un po' che la stavo progettando. Ma non c'è mai stata l'occasione di... Insomma, sapete...»
«Ma ora sì. E sai, non ho mai visto Eddie lasciare il suo trono a qualcuno.» disse Dustin. Mike annuì. 
«Non so se sarò alla sua altezza.» disse Will un po' in imbarazzo. 
«Tu fai del tuo meglio, Byers.» disse Eddie, passando i tre amici per raggiungere il van «A giovedì prossimo.» lì salutò alzando una mano. 
«Oi, Ed. Non vieni con noi?» urlò Gareth dalla sua auto. 
«Vi raggiungo all'Hideout. Ho una cosa da fare prima.»
«Vedi di non farci aspettare come il tuo solito!» disse Jeff dal sedile del passeggero. 
«Sì, promesso. A dopo ragazzi.» salutò Eddie. Salì nel van, ingranò la prima e uscì da vialetto della scuola. 
In verità non fece molta strada. Il mezzo si fermò in un parcheggio nella vialetto subito affianco, raggiungibile comodamente anche a piedi. Eddie fissò l'edificio davanti a sé per qualche minuto, mentre ripassava mentalmente quello che avrebbe dovuto fare. Per quanto riguardava cosa dire, avrebbe improvvisato. 
Era una cosa semplice, normale, che tuttavia a lui sembrava più complicata che sconfiggere un orco dopo aver tirato 1 con il dado. Non era un posto a lui familiare e questo un po' lo agitava.
Espirò dandosi coraggio, uscì dal van e si incamminò verso la meta con le mani in tasca. 

Aveva passato mezz'ora a guardare quella pagina bianca, ma nulla. Era ancora vuota. In tutto quel tempo non era riuscita a scrivere nemmeno una parola. Ogni volta che ci provava tornava indietro perché nulla la convinceva, c’era sempre qualche incipit migliore di quello che aveva pensato in precedenza. E forse era questo il problema: c’erano troppe buone idee tra cui scegliere.
Alice spinse il quaderno sul fondo del bancone e rassegnata lasciò cadere la testa all’indietro. 
«“Tutte le terre si mossero al passaggio dell’Oscuro e per tutti era come se il diavolo in persona si fosse messo a camminare tra gli uomini…”» recitò a bassa voce. 
«E poi Alice? Poi cosa succede?» disse parlando a sé stessa.
Nulla, si rispose tornando a fissare il foglio mentre con la mano libera tamburellava sul legno il ritmo della canzone che oggi aveva deciso di occupare i suoi pensieri.
«Ehilà.» disse qualcuno all’improvviso. 
Il tintinnio della campanella posta sulla porta fu accompagnato da una leggera corrente fresca, tipica delle sere d'inizio estate, e un rumore di passi che si avvicinavano. 
«Piuttosto desolato qui, no?» commentò la voce. 
Alice alzò lo sguardo «Sì, oggi sì. Posso esserti utile?» chiese chiudendo il quaderno e accantonando per il momento la scrittura.
Si ritrovò davanti un ragazzo dall’espressione sorniona, con una selvaggia chioma castana. Alice gli sorrise gentilmente e si alzò dalla sedia com’era solita fare quando doveva prestare servizio.
«Tu devi essere…» Eddie appoggiò le mani sul bancone e si sporse a leggere la targhetta con il nome della ragazza «Alice, giusto.»
Alice annuì e picchiettò la targhetta con l'indice «Allora questo pezzo di plastica fa il suo lavoro ogni tanto. Sei la seconda persona in una settimana che si accorge della sua esistenza.» commentò lei «Allora Munson, ti serve qualcosa?» 
Per Alice non c'erano bisogno di targhette per sapere chi fosse il visitatore. Come non conoscere 'Eddie lo strambo' almeno di nome. 
«Sono stupito.» disse lui ironico «Non ho mai messo piede qui eppure sai chi sono.» disse aggiustandosi lo smanicato in jeans. 
«Sono andata a intuito.» disse Alice incrociando le braccia al petto.
«Giusto, Munson lo strambo. Sì...» tagliò corto Eddie. 
Alice scosse la testa «Solo Munson per quanto mi riguarda. Dunque, stai cercando qualcosa, un libro in particolare?»
Dopo qualche secondo di confusione Eddie rispose «Mh sì, uno che parla di come sconfiggere un nemico, magari con una magia.» disse muovendo le dita come fossero attaccate ai fili di una marionetta.
«Oh strano, un ragazzino giorni fa era interessato allo stesso argomento. Ti ha mandato lui?»
«Dustin? No, ma tu-» Eddie le puntò l’indice contro «Sei sua complice per quello che è successo.» disse con un finto tono accusatorio. 
«Complice?» domandò Alice confusa. 
«Non si può andare a sbandierare ai quattro venti come soggiogare un nemico.» sussurrò lui mettendo una mano vicino alla bocca. 
Alice non riuscì a trattenere una risata «Ho fatto solo il mio lavoro.» si giustificò. 
«Un ottimo lavoro direi.» disse Eddie applaudendo teatralmente. 
La ragazza, seguendo il teatrino, accennò un inchino e fece finta di salutare l'invisibile pubblico davanti a sé. Poi si girò a guardare l’orologio appeso dietro di lei.
«Spero non ti servisse altro, perchè ora devo chiudere, le sette sono già passate da una decina di minuti, per cui...» disse togliendosi il cartellino. Lo ripose nel portaoggetti e sistemò alcune matite lasciate in disordine nel portapenne. 
Eddie scosse la testa «Ero solo curioso di vedere in faccia chi ha consigliato i miei avventurieri e interferito con la loro sorte.» 
«Spero in maniera positiva.» rispose lei con un sorriso. 
Eddie fece un sospiro e alzò le spalle: una risposta vaga e ampiamente interpretabile. Poi si congedò frettolosamente con un rapido saluto. 
Alice gli rispose alzando una mano. Chissà cosa voleva intendere, avevano vinto o no? 
La ragazza sistemò le ultime cose prima d'infilarsi la camicia a quadri usata come giacchetta e spegnere le ultime luci della biblioteca.
Adorava quel momento. La debole illuminazione delle ronzanti luci d'emergenza, il silenzio surreale e il penetrante odore d'inchiostro e libri vecchi. In quegli istanti la biblioteca sembrava sospesa nel tempo, in uno spazio magico che solo Alice poteva ammirare, niente di più lontano dal mondo che l’aspettava fuori dalla porta.
Girò la chiave un paio di volte e tirò la maniglia verso di sé per assicurarsi che fosse effettivamente chiusa. Non che da quando lavorasse lì qualcuno avesse mai cercato di rubare dei libri, ma per lei era importante che nessuno ci provasse. Una questione di principio. 
Era al suo ultimo anno e non avrebbe permesso a nessuno di compiere un tale scempio mentre era lei la responsabile della chiusura. Ciò avrebbe intaccato la sua reputazione, se mai ne avesse avuta veramente una. 
Scese i quattro scalini che portavano all'ingresso, pronta a salire in macchina e finalmente tornare a casa; ma prima che potesse raggiungere l’auto una voce familiare attirò la sua attenzione.
«Come Alice Cooper.» disse Eddie come si fosse ricordato quel nome improvvisamente, mentre soffiava fuori il fumo della sigaretta che teneva in mano.
«Come?» chiese Alice voltandosi verso il muretto su cui era appoggiato.
«Ti chiami Alice, come Alice Cooper, il cantante. Quello di Teenage Frankenstein.» spiegò lui senza pretendere che lei afferrasse la citazione.
«Sei il primo che non associa il mio nome ad Alice in Wonderland.»
«Preferisco Mary Shelley francamente.» commentò prima di prendere un tiro dalla sigaretta «Sai, mostri e scienziati pazzi, ma anche Carroll non è male.» disse espirando. Alice non poté che concordare. 
«Comunque piacere, Alice Jones.» disse gentile, assottigliando gli occhi color antracite sotto gli occhiali ancora sul naso. 
«Giusto, piacere Eddie.» disse lui con un cenno del capo. 
«Van Halen?» chiese copiando l'associazione di nomi come aveva fatto lui prima. 
Eddie rimase spiazzato, per qualche secondo non riuscì a pensare a una frase di senso compiuto. «Munson. Eddie Munson.» riuscì finalmente a rispondere. 
«Il piacere è mio, Alice.» disse allungando una mano. Lei l'afferrò e la scosse un paio di volte.
«Ora è meglio che vada, la cena mi aspetta.» disse Alice aggiustando la spallina della salopette. 
«Sì, sì certo. Ehm, certo. Anch'io ho da fare.» rispose Eddie. Spense la sigaretta sotto la scarpa e buttò il mozzicone nel cestino vicino al lampione, tornando poi sui suoi passi. 
«La biblioteca è sempre aperta.» 
«Cosa?» chiese Eddie voltandosi. 
«La biblioteca. Se i tuoi amici dovessero avere ancora bisogno è aperta.» disse Alice con un piccolo sorriso. 
«Sì, sicuro. Avranno bisogno sicuramente. Glielo riferirò.» disse lui alzando il pollice sinistro. 
Si salutarlo con un cenno della mano, dopodiché raggiunsero i loro veicoli. Si misero in strada e guidarono in direzioni opposte. 
Eddie verso l'Hideout, domandandosi se non si fosse solo immaginato Alice nominare Eddie Van Halen; e Alice verso casa, chiedendosi se Eddie avesse veramente letto Frankenstein di Shelley.

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Capitolo 5
*** Capitolo 2.2 ***


Elora sbadigliò per l'ennesima volta. Passò una mano sugli occhi stanchi e affaticati, e appoggiò i gomiti sul primo ramo libero davanti a sé. 
Essere di vedetta era la cosa più noiosa che avesse mai fatto. Ore e ore a sorvegliare campi di grano e una strada su cui erano passati tre corvi, un gatto grigio e quattro lucertole. Uno spasso per chi ama contare. 
«Liff me la pagherà.» disse spostandosi verso il tronco dell'albero su cui si era arrampicata. Si alzò in piedi, tenendosi alla corteccia con una mano, mentre con l'altra raggiunse il ramo proprio sopra la sua testa. Con una leggera spinta e facendo forza sul braccio si issò. Seduta, lasciò le gambe penzolare nel vuoto. 
Il suo sguardo vagò lontano, oltre la chiome degli alberi. La linea dell'orizzonte, sfocata dalla calda aria estiva, si mescolava all'azzurro del cielo terso. Aguzzando la vista si poteva scorgere la catena montuosa che divideva la contea dalle Terre Morenti. La lunga fila di montagne innevate sembrava esser stata dipinta ad acquerello, delicata ed eterea. 
La mezzelfo si domandò cosa vi fosse realmente dall'altra parte. Le storie che si tramandavano su quelle terre erano molte. Non sarebbero bastati dieci anni per raccontarle tutte. Alcune parlavano della fine di ogni cosa, un vuoto assoluto che ingoiava qualsiasi essere vivente e non; altre dicevano che vi fosse una popolazione di mostri, strane e rivoltante creature dagli occhi gialli e dalla pelle di pietra. 
Ma tutte erano concordi su un unico particolare: nelle Terre Morenti era nascosto qualcosa. Se si trattasse di un tesoro, di una città o di qualche artefatto, nessuno poteva saperlo. Tuttavia qualcosa c'era. Gli antichi abitanti di Aires ne parlavano da secoli, dopotutto le storie erano nate proprio da quel passaparola. 
Elora storse le labbra e sospirò spazientita. Avrebbe potuto avventurarsi in quelle terre e mettersi alla ricerca di quel che si celava all'interno; invece no, incastrata a far da guardia al nulla. 
«Aspetti di prendere il volo, uccellino?» 
Alla base dell'albero una snella signora stava guardando nella sua direzione. 
«Forza, il turno è finito. Liff sarà qui a momenti.» disse la donna facendole cenno di scendere. 
Elora non se lo fece ripetere due volte. Con una spinta scese su uno dei rami più bassi, e dopo una serie di agili slanci e una capriola finale, atterrò al suolo. 
«Era ora.» disse la mezzelfo «Non ne potevo più.»
«Pensavo ti piacesse stare da sola in mezzo alla natura.»
«Si, certo. Quello che non mi piace è occuparmi delle faccende di mio fratello.»
La donna le sorrise porgendole una faretra con una decina di frecce e un arco lungo. Il tutto era davvero di ottima fattura. Il cuoio di un bel colore scuro, l'arco di un delicato color nocciola e le bianche piume delle frecce accuratamente tagliate e lisciate. 
«Grazie mamma.» disse Elora portandosi in spalla la faretra. 
Le due si incamminarono assieme verso il sentiero che percorreva trasversale il bosco. 
La luce del sole filtrava tra le fronde, disegnando sull'erba astratte sagome in chiaroscuro. Il rumore dei passi era la sola cosa che turbava la quiete del luogo. Videro di sfuggita un coniglio nascondersi tra i cespugli e poco dopo sopra le loro teste un picchio iniziò a beccare la corteccia di una betulla. Entrambe alzarono lo sguardo e sorrisero, pensando a quanto fosse incontaminato quel posto. 
Dopo una decina di minuti intravidero i confini del bosco e con essi il piccolo agglomerato di case ai margini della radura. 
Il piccolo villaggio era composto da una mezza dozzina di case, un grande edificio centrale che fungeva da magazzino e un paio di stalle. In tutto ci vivevano una decina di famiglie, tutte composto da elfi silvestri, umani e mezzelfi. Era il loro angolo di paradiso e anche l'unico luogo dove potessero vivere in pace. 
«Bentornate.» le accolse un elfo dai lunghi capelli biondi come fili dorati, raccolti in piccole trecce che incorniciavano il viso dai tratti delicati. 
«Spero non sarai troppo stanca per i tuoi allenamenti, Elora.» disse verso la ragazzina. 
«Per quelli mai.» rispose la mezzelfo aggiustando la cintura della faretra al petto. 
In realtà, Elora aspettava quel momento dalla sera precedente. Allenarsi con l'arco insieme a Delio era ciò che rendeva il suo addestramento interessante. 
Delio era un elfo giovane, magro e slanciato. Malgrado la sua età, era un abile guerriero e un eccellente maestro, soprattutto per quanto riguardava l'arte del tiro con l'arco. 
«Bene.» rispose l'elfo «Ora vatti a preparare. Ti aspetto al campo tra mezz'ora.»
Lei annuì correndo subito verso casa. Non avrebbe sprecato nemmeno un minuto e in più il suo maestro non appezzava i ritardatari. 
«È una ragazzina promettente.» disse Delio guardando la madre di Elora. 
«Sì, me ne sono accorta.» disse mentre osservava la figlia allontanarsi. 
«Non poteva essere altrimenti, Martha. È proprio come suo padre.» 
La donna guardò l'elfo aggrottando le sopracciglia. Delio le posò una mano sulla spalla. 
«Non devi preoccuparti. Qui è al sicuro, come tutti gli altri bambini.» disse lui con sguardo fermo. 
«Lo so Delio. È per questo che ce ne siamo andati. Sono secoli che quelli come lei si rifugiano qui.»
L'elfo annuì «Sylvester è una contea libera, meno lo sono le sue foreste.»
«Sarà meglio che vada.» disse Martha salutando l'amico con un cenno del capo. 
Delio la salutò, aspettò che entrasse in casa e si diresse verso il campo d'addestramento in attesa di Elora. 
Quella mattina il tempo era ideale per esercitarsi. Non c'erano nuvole in vista che potessero presagire piogge improvvise e anche il vento dei giorni precedenti si era placato. Soffiava solo una lieve brezza, perfetta per quel tipo di allenamento. 
Sotto i caldi raggi del sole, Delio montò i bersagli, posizionando su ognuno tre nastri rossi. I tronchi rivestiti di paglia erano di altezze diverse e piantanti nel terreno a diverse distanze. L'elfo li esaminò uno a uno in modo da assicurarsi che fossero tutti in ordine; quando finì li guardò dal punto di tiro e si chiese se non fosse una prova troppo complicata per una ragazzina. 
Allo scoccare della mezz'ora Elora era già al campo da una decina di minuti. Pronta, con la faretra in spalla e l'arco in mano. Aveva già intuito cosa avrebbe dovuto affrontare, ma lasciò che l'elfo iniziasse le sue solite raccomandazioni come se quello fosse il loro primo allenamento. 
«Dunque.» iniziò Delio «Prima d'iniziare, volevo mi raccontassi come hai passato la nottata di guardia.»
«Infreddolita e annoiata.» rispose la mezzelfo monotono «Delio, non c'è niente da raccontare. Non ho fatto altro che stare sveglia a fissare il nulla.»
«Davvero?» chiese lui incrociando le braccia al petto. 
«Vuoi sapere cosa ho visto? Tre corvi, un gatto e quattro lucertole.»
«Oh. Le lune erano alte allora la notte scorsa.» commentò l'elfo con un ghigno che a Elora piacque poco. 
«Sì... Si vedeva abbastanza bene...» disse lei sospettosa. 
Quando Delio allargò il sorriso, la ragazzina realizzò che quella non sarebbe stata una delle solite esercitazioni. L'elfo tirò fuori dalla tasca del giacchetto una fascia di stoffa nera, sventolandola davanti al suo naso. 
Elora scosse la testa. Quel pazzo di un elfo stava sicuramente scherzando. Quando però incrociò il suo sguardo smeraldino capì che faceva sul serio. 
«Avanti, dimmi le regole.» disse Elora appoggiando la punta dell'arco a terra. 
«Colpisci i bersagli. Semplice.»
«Mh mh, vai avanti.»
«Li vedi quei nastri rossi? Devi mirare a quelli. Ma sarai bendata.» disse Delio lanciandole la fascia nera. 
«E come facc-» 
«Ascolta.» la interruppe l'elfo indicando l'orecchio appuntito. 
Elora ascoltò, come avrebbe fatto durante una battuta di caccia nascosta nel fitto sottobosco. Lo sventolare dei nastri mossi dalla brezza produceva un lieve rumore. Era difficile da individuare, ma con la giusta attenzione riusciva a isolarlo dall'ambiente circostante.
«Va bene.» disse la mezzelfo posizionando la fascia sugl'occhi, allacciandola dietro la testa. 
Delio si portò al suo fianco, in silenzio. 
Elora riprese l'arco, recuperò una freccia dalla faretra e la incoccò. Le piume le solleticarono i polpastrelli, la corda tesa sotto le sue dita pronta a dar la spinta alla freccia. Inspirò profondamente e scoccò. 
Una, due, sei frecce. E poi altre quattro, per un totale di dieci. Quando nel raggiungere la faretra, la mano afferrò il vuoto, Elora si fermò.
«Non male.» commentò l'elfo battendo le mani. 
La ragazzina si tolse la benda, rimanendo per qualche secondo abbagliata dalla luce. Nel momento in cui riuscì a mettere a fuoco i bersagli, il suo volto si incupì. 
Metà delle frecce erano andate a segno, l'altra metà persa tra le sterpaglie. 
«Non sarai mica delusa?» chiese Delio mentre gli veniva restituita la fascia. 
«Lo sono.» disse lei guardando oltre le spalle dell'elfo «Ho fatto schifo.»
«È un addestramento, Elora. Se fossi già brava da farlo perfettamente non avrebbe senso, non ti pare?» disse Delio. 
«Sono mesi che mi alleno.» protestò lei. 
«Ma mai in questo modo. Devi aver pazienza Elora, non si padroneggia l'arco da un giorno all'altro.»
Prima che la ragazzina potesse replicare, la loro attenzione venne catturata da un piccolo individuo che stava correndo nella loro direzione tutto concitato. 
«Elora! Elora, finalmente ti ho trovata.» disse il bambino cercando di riprendere fiato. 
«Ronny? Che ci fa qui?» chiese la mezzelfo. 
«Notizie dalla città. Hai una lettera che ti aspetta.» disse lui sfoggiando un allegro sorriso. 
Elora trasalì, scordandosi dell'allenamento e della sua deludente prestazione. Guardò Delio che prontamente annuì di rimando. 
«Va', avviserò io tua madre.» disse lui agitando una mano incitandola ad andare. 
«Ti devo un favore.» urlò lei mentre già correva verso il sentiero. 
Finalmente qualcuno le aveva risposto dopo mesi e mesi di silenzio. Era emozionata, trepidante perfino. 
Attraversò il bosco fino ad arrivare alla strada principale, la stessa che aveva tenuto d'occhio la notte precedente. 
Con un'andatura normale si potevano raggiungere le porte della città in poco più di un'ora. Ma correndo di buona lena Elora le avrebbe raggiunte molto prima. 
Totalmente focalizzata sulla sua metà, si scordò dell'arco che ancora teneva in mano, della faretra vuota che rimbalzava sulla schiena e dell'equipaggiamento da tiro che aggiungeva peso al suo corpo minuto. Elora corse, corse e basta. Dimenticando la stanchezza che attanagliava le gambe e il sole di mezzogiorno che batteva sulla testa, insieme al caldo e al sudore che si attaccava sulla pelle. 
Ogni falcata, ogni passo la portarono fino in città. Le mura che separavano la radura dalle abitazioni le sembrarono un miraggio. Al dì là la aspettava la lettera. Al di là c'erano le risposte che cercava. 
Prima di varcare i cancelli, si fermò all'ombra per riprendere fiato. 
Era passato molto tempo dalla sua ultima visita e sebbene non fosse un'estranea tra gli abitanti, quest'ultimi talvolta le riservavano degli sguardi indagatori. La città era popolata da ogni sorta di creatura e non era certo strano vedere mezzelfi come lei; tuttavia la stirpe dei Silvani, da cui discendeva, era quella meno accettata. 
Elora varcò l'entrata. A passo deciso si diresse verso il tempio che aveva di fronte. Prima di raggiungerlo, girò a destra per uno stretto vicolo e si fermò davanti all'ultimo edificio prima della fine. Aprì la pesante porta, facendo tintinnare il campanello sullo stipite.
«Bentornata.» disse la donna al di là del bancone. L'uomo addormentato sullo sgabello aprì un occhio. 
«Buongiorno, Lucrezia. Novità per me?» disse Elora sorridendo alla taverniera. 

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Capitolo 6
*** Capitolo 3 ***


«“Datemi le vostre anime! Mi appartengono!” Vi urla contro il potente stregone, Morfius. Il suo viso si contorce dal dolore. Lo vedete annaspare mentre apre quel che rimane della sua bocca alla ricerca di ossigeno. Come un pesce lasciato fuori dall'acqua sotto il sole.»
Eddie si portò con un gesto drammatico una mano alla gola, aprendo le labbra senza emettere un fiato. 
«Un lato del suo volto inizia a scivolare verso il basso. Pezzi di quella che una volta era carne cadono come cera sciolta. 
L'attacco combinato che il nostro paladino e il nostro mago hanno mandato a segno, ha messo alle strette il nemico già debilitato. Il gruppo non è di certo uscito indenne, le perdite sono state convenevoli.» disse il master guardando uno a uno i ragazzi con il raccoglitore già chiuso. Il party era ora dimezzato. 
Ci fu uno scambio di sguardi tra i giocatori. Mike appoggiò una mano sulla spalla di Dustin, mentre quest'ultimo annuiva guardando il tavolo vuoto davanti a sé. 
«Holland, Merlok e Hector si reggono in piedi a fatica, ma sono ancora vivi. È la loro ultima possibilità di salvare il regno o... Di perire con esso. 
Dunque avventurieri, per l'ultima volta, vi chiedo di dichiarare le vostre intenzioni.» 
Eddie questa volta non sprofondò nel trono com'era solito fare. Invece si sporse in avanti con i gomiti sul tavolo, in attesa. Ogni tanto prendeva uno dei dadi e lo passava tra le dita, forse per alleviare la tensione. 
Quella era l'ultima giocata, l'ultima sessione e la fine della campagna iniziata ormai quasi nove mesi prima. 
Eddie guardò nuovamente i suoi amici e si sentì orgoglioso. Di loro, di ciò che avevano costruito e anche di sé stesso, che era riuscito a farli divertire ancora una volta. 
«Si, allora...» iniziò Gareth «Hector guarda Morfius in cagnesco. È davvero arrabbiato, furioso per ciò che è successo ai suoi compagni.» 
Il ragazzo consultò la scheda che aveva davanti. 
«Decido di attaccare, un tutto per tutto.» disse infine prendendo un paio di dadi. 
«Anch'io.» disse Will «Anche Merlok attacca, con la magia più potente.»
«Holland lo stesso. Ha già la spada sguainata per un attacco di potenza.» si aggiunse Mike. 
«Oh.» esclamò Eddie con sorpresa «Avete fegato.»
«Non abbiamo nulla da perdere.» disse Mike. 
«Ormai non possiamo fare altro se non combattere finché possiamo.» aggiunse Will. 
Dustin guardò i suoi amici con preoccupazione. Sapeva bene che quei tiri sarebbero stati per lo più dettati dalla fortuna che dalle statistiche. 
«Bene. Dunque, se siete sicuri delle vostre azioni, tirate i dadi.» disse Eddie rivolgendo un palmo verso di loro. 
Il party osservò i tre giocatori. Mike, Will e Gareth sentirono piombare sulle loro spalle il peso di nove mesi di sfide, duelli e avventure. Contarono fino a tre e contemporaneamente lanciarono i loro dadi. 
Vi fu qualche attimo di silenzio, interrotto solo da lievi sospiri. 
«Dodici.» disse Mike. 
«Otto.» disse Gareth scuotendo la testa. 
«Dieci» disse Will incrociando lo sguardo con Eddie. 
Le labbra del master diventarono una sottile linea rosa. Aveva giocato le azioni per Morfius, tirato i dadi a sua volta e fatto i suoi calcoli. Chiuse gli occhi, prese un profondo respiro e, alzandosi dal trono, mosse la figurina del nemico una casella avanti nella raffigurazione sul tabellone. 
Mormorii di disappunto si levarono da tutto il gruppo. Gareth batté un pugno sul tavolo facendolo vibrare. Dustin si portò le mani sul volto e Rick affianco a lui sbuffò. 
«I nostri eroi, affaticati dalla lunga battaglia, decidono di tentare il tutto per tutto.» iniziò a raccontare Eddie «Due attacchi vanno a segno. Sebbene non siano così precisi, riescono comunque a infliggere qualche danno.»
La tensione era palpabile, nessuno osava fiatare mentre il ragazzo spiegava lo svolgersi degli eventi. 
«E purtroppo... Anche se indebolito, Morfius riesce a contrattare. Avventurieri...» Eddie fece una pausa «Fatemi due tiri salvezza.»
Un coro di maledizioni e imprecazioni riempì la stanza. Ora sì che non c'era più nessuna via d'uscita. I punti vita di ogni personaggio erano appena sopra quella che loro chiamavano 'soglia critica'. Una vera scommessa tra la vita e la morte. 
Con il cuore in gola, tirarono. 
L'esito lasciò tutti atterriti. 
«Merlok e Hector, martoriati dallo scontro, vengono travolti in pieno dall'attacco dello stregone del Caos. Le loro vite si consumano e i due si spengono, affidando la loro anima agli dei.» disse Eddie tristemente. 
Prima di proseguire aspettò che i giocatori elaborassero la perdita e invitò loro a descrivere come meglio se la sentivano la morte del personaggio. Dopodiché continuò. 
«Holland, seppur con difficoltà riesce a evitare l'attacco diretto, accusando solo danni collaterali.»
«Maledizione.» disse a bassa voce Mike. 
«Senti la risata di Morfius. Cupa e roca, rotta da malsani colpi di tosse. Allunga una mano, pronto ad afferrarti e a trascinarti nella palude per sempre.»
«Cazzo.» inveì nuovamente Mike. 
«Tuttavia ciò non accade. Il corpo dello stregone inizia a brillare. Emana una calda luce gialla. Ma non dall'esterno, dall'interno. Come si fosse accesa una lampadina nel suo petto ormai di sole ossa.
Nella tua testa senti una voce. Che dice? Mh, sembra una preghiera, un inno forse.»
Appena sentì quelle parole Rick sgranò gli occhi in direzione di Eddie che gli sorrise complice. 
«Più la sua mano si avvicina al volto di Holland, più il canto aumenta d'intensità e il corpo di Morfius si illumina.» disse Eddie allargando le mani, mimando qualcosa che si espande. 
«La benedizione di Leon!» urlò Mike dopo aver avuto un'epifania «La benedizione è ancora attiva!» esultò battendo le mani. 
Sul volto di Eddie comparve un ampio sorriso che si trasformò subito in una risata gioiosa. 
«La voce di Leon risuona nell'aria, come allora. Quando benedì la compagnia al ritorno dalle caverne. Tanto potente che anche lo stregone la sente. Ed è l'ultima cosa che sente prima di crollare su se stesso, disintegrandosi in un implosione. Quello che rimane sono piccoli pezzi di quello che era il suo corpo. Morfius, lo stregone del Caos, è morto!» proclamò ad alta voce Eddie. 
Tutti si alzarono in piedi esultando. Eddie non riusciva a smettere di sorridere e applaudire. Dustin, Mike e Will si abbracciarono, saltellando dalla gioia. Poi tutta l'attenzione fu data a Rick e al personaggio Leon. Complimenti e apprezzamenti si sprecarono. Qualcuno addirittura si emozionò. La stanza era un tripudio di contentezza e festeggiamenti. 
Eddie, dal suo trono, guardò quella sgangherata banda di ragazzi gongolanti e si disse che anche questa volta aveva fatto un buon lavoro. A riprova di ciò, i suoi amici iniziarono un lungo applauso che lo costrinse ad alzarsi. 
«Miei cari, spero vi siate divertiti nelle terre di Zintia. Il nemico è stato sconfitto e l'avventura si è così conclusa. Vi ringrazio per averne fatto parte e come sempre... Lunga vita all'Hellfire.» disse con la sua solita teatralità, inchinandosi verso di loro. 
«Lunga vita all'Hellfire!» gridarono tutti in coro. 
Eddie guardò Will. Il testimone era stato ufficialmente passato. 

«Quand'è che dovresti consegnarlo?» chiese Robin spegnendo il registratore di cassa. 
«Non lo consegnerò.» disse Alice prendendo il sacchetto dal bancone. 
«Ma come Ally, avevi detto che quest'anno ti sentivi pronta per far vedere il tuo racconto al professore.»
«Si, lo so. Però sono giorni che non riesco a buttar giù una parola e poi lo sai...» disse Alice mentre controllava che vi fossero tutte le cassette per suo padre «È complicato.»
«Sei tu che ti complichi le cose.» puntualizzò Robin. 
«Da che pulpito.» disse Steve con in mano le ultime custodie da ricollocare. 
Ad Alice sfuggì una risatina. Robin alzò un sopracciglio e come risposta si limitò a fare una smorfia verso il ragazzo. 
«Vai a casa, ascolta un po' di musica, stacca un attimo. E al resto ci pensi dopo. Io farei così. Non che quando vado a casa abbia tanto tempo, voglio dire, sì ne ho. Ma sono troppo stanca per fare qualsiasi cosa e finisco per addormentarmi di botto.» parlò Robin senza prendere fiato tra una frase e l'altra. 
Alice afferrò il senso generale del discorso, ma era sempre difficile seguire quella ragazza quando decideva di dar sfogo alla sua parlantina. 
«D'accordo. Seguirò il consiglio.» disse prima di salutare i due ragazzi e uscire dal negozio di noleggio. 
Entrò in macchina e appoggiò il sacchetto sul sedile del passeggero. Gli diede una rapida occhiata e pensò che tra un paio di giorni avrebbe fatto la stessa strada a ritroso, per colpa di suo padre. 
Da quando aveva avuto l'aumento a lavoro era più sereno, capace di rilassarsi e godersi una serata in compagnia di sua moglie. Guardavano un film o portavano a spasso il vecchio cane invece di passare la nottata tra estratti conto e bollette. E con la nuova apertura del noleggio, aveva perfino ripreso a interessarsi di cinema. 
Alice ne era felice e si occupava volentieri di ritirare gli ordini fatti dal padre. Mai più di quattro e mai meno di due, era la regola. 
Arrivata nel vialetto dell'abitazione, parcheggiò davanti al garage. Chiuse la macchina e aprì la porta di casa. 
«Ehilà, sono tornata.» annunciò. 
Non vi fu risposta. Solo uno sbadiglio del cane appisolato sul divano che, vedendola entrare, aveva alzato la testa. Alice accese la piccola lampada sul tavolo del salone e andò in cucina. Appoggiò il sacchetto sulla prima sedia libera, prese carta e penna e segnò la data di prestito e quella di restituzione, in modo che anche il padre si ricordasse. 
L'orologio segnava le otto e qualche minuto. Di certo sua madre non aveva preparato la cena, probabilmente avevano deciso all'ultimo di mangiare fuori. 
Per Alice non era un problema, soprattutto quella sera, in cui non era particolarmente affamata. 
Riempì il bollitore e lo mise sul fuoco. Da un contenitore prese alcuni biscotti. Dei profumati dischi di pasta frolla al cacao che sua madre aveva sfornato il giorno prima. Sapeva già quanto fossero deliziosi. 
Mentre aspettava, aprì la finestra del salotto lasciando entrare la fresca brezza serale, così da arieggiare l'ambiente. 
Si appoggiò al bordo e respirò a pieni polmoni. Non era così che faceva chi voleva schiarire le idee? Alice non sapeva se questo metodo funzionasse veramente. Ma aveva bisogno di crederci. 
«Non avrei mica perso tutta la tua fantasia, mh Alice?» si domandò. 
Era ferma da un po' con la stesura del racconto, questo era vero; tuttavia era difficile farsi venire l'ispirazione senza nessuno tipo di stimolo. 
Certo avrebbe potuto prendere spunto dai suoi libri. Prenderne altri in biblioteca e leggerli finché non avesse esaurito anche quelli. E per un po' è ciò che aveva fatto. 
Eppure sentiva che qualcosa mancava sempre. Un tassello importante, come le fondamenta di un edificio. Alice non riusciva a trovare quel tassello. 
Ciò che scriveva era buono, costruito bene e grammaticalmente corretto, ma secondo lei troppo sterile, privo di sentimento. 
Il fischio del bollitore la fece sobbalzare, dissolvendo la nuvola grigia di pensieri che si era costruita. 
Con la tazza in una mano e i biscotti nell'altra uscì nel piccolo portico davanti all'ingresso; il cui arredamento consisteva in due sedie bianche e un tavolino da tè, entrambi in plastica. 
«Di certo questa città non ha draghi e cavalieri di cui raccontare le gesta.» commentò sorseggiando la calda bevanda, mentre osservava distrattamente il vicinato. 
Al tramontare del sole la periferia di Hawkins diventava un quartiere fantasma. Le persone si rintanavano in casa fino al mattino successivo e gli unici incontri che si potevano fare erano con qualche gatto randagio poco amichevole. Quella sera non era un'eccezione. 
Finché, in lontananza, Alice non iniziò a sentire della musica. Tra il frinire dei grilli poteva distingue una chitarra suonare una scala che poi mutò in un paio di accordi. 
Non perse tempo a chiedersi da dove provenisse, lo sapeva benissimo. Il campo caravan era proprio dietro l'angolo e con lui l'individuo più controverso di tutta Hawkins. Eddie Munson aveva deciso di animare quel mortorio esercitandosi su qualche brano. 
“Nessun drago da affrontare o cavalieri pronti all'azione che invadono le strade, tuttavia questa città conta di una discreta colonna sonora.” pensò Alice intanto che l'ultimo pezzo di biscotto veniva finito.

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Capitolo 7
*** Capitolo 3.3 ***


Gymbass aveva superato la soglia di tolleranza. Come tutti quelli della sua specie anche lui era dotato di un’immensa pazienza, ma quando si trattava del l'incolumità del suo strumento questa veniva meno. Stava pregando tutti i suoi antenati che l'uomo non avesse perso il suo prezioso basso e se la fosse svignata. 
Era in quella bottega già da un'ora e il proprietario sembrava essere sparito dopo aver varcato la porta che conduceva al retro del negozio. 
L'interno del posto era molto più spazioso di quello che poteva apparire dall’esterno. Un lungo bancone di legno a ferro di cavallo occupava il centro della stanza; tutt'attorno decine e decine di strumenti decoravano le pareti e il soffitto; il pavimento era coperto da un pianoforte a coda finemente decorato e qualche strumento sparso qua e là. Non erano molti, ma erano sufficienti perché fosse difficile spostarsi senza che se ne urtasse qualcuno.
Tutto ciò che poteva servire a un musicista era in pratica raccolto lì dentro, come un piccolo paradiso per artisti. 
«Eccomi.» disse l’uomo sulla settantina sistemando sul naso il monocolo spesso come un fondo di bottiglia. 
«Le corde erano ridotte piuttosto male. La cassa poi… È stato impegnativo ripararla.» disse appoggiando lo strumento sul tavolo.
«Quanto le devo?» chiese Gymbass mentre infilava la zampa nel borsello.
«Signore, sarebbero quattro monete d’argento. Sa, i materiali e tutto il resto...» mormorò il liutaio reverenziale. 
L’uomo alzò lo sguardo verso il dragonide per poi distoglierlo subito. Si sfregava le mani nervoso, schiarendosi ripetutamente la gola, probabilmente agitato e intimorito dall'aspetto del suo cliente.
La creatura lanciò sul tavolo cinque monete. 
«Per il disturbo.» disse sbuffando fumo caldo dal naso. 
Il liutaio le raccolse in fretta ringraziandolo più e più volte, con tanto garbo da risultare stucchevole, sinonimo di una gentilezza solamente di facciata. 
Gymbass si portò lo strumento dietro la schiena e uscì dalla porta alzando un artiglio in segno di saluto. Aveva già perso mezza giornata, ma l’importante era che il suo basso suonasse di nuovo. Anzi, era importante che suonasse come voleva lui, di nuovo. 
Quando uscì dal negozio una tiepida brezza gli accarezzò il muso. Guardandosi attorno si accorse che le strade erano praticamente deserte. A differenza della mattina, ora c’erano solo una decina di persone che completavano le ultime commissioni sotto il sole di mezzogiorno. 
Benché non fosse molto grande, la cittadina offriva una vasto assortimento di negozi e botteghe. Sulla via principale si potevano notare le insegne di un panettiere, un macellaio, un droghiere e perfino di un orafo. Ovviamente ve ne erano altre, come quelle di una fucina, un fioraio e un calzolaio, nascoste nelle vie laterali. 
Gymbass aveva esplorato bene la città nel giorno e mezzo in cui si era fermato per fare provviste e quando scoprì l’esistenza del liutaio la sua gioia fu incontenibile. Così facendo sarebbe riuscito a raggiungere la Capitale senza fare ulteriori deviazioni. Dopotutto non poteva non presentarsi a corte perché era impossibilitato a suonare. Ne sarebbe valsa della sua reputazione di bardo.
Ma ora che la sua nomea era salva e il suo basso pure, decise che sarebbe partito nel tardo pomeriggio appena avesse fatto meno caldo; dopo aver pranzato e comprato le ultime cose utili per il viaggio. 
Come avesse capito i suoi piani, lo stomaco borbottò rumorosamente. Gymbass schioccò la lingua biforcuta e si incamminò verso l’unico posto che ricordava potesse offrirgli un pasto o comunque qualcosa da mangiare. La taverna che aveva visto il giorno precedente non distava molto e di certo non l'avrebbe trovata affollata, visto quanto era nascosta. 
Infatti, dopo essersi accidentalmente scontrato con un ragazzo ubriaco che usciva, al di là della spessa porta non trovò che un paio d'individui intenti a bere qualche bicchiere di troppo. 
«Buongiorno, prego si accomodi.» lo salutò la locandiera mentre puliva uno dei tavoli.
«Buongiorno signora.» disse Gymbass «È possibile mangiare un boccone?»
«Sì, se siete di buona bocca. Oggi c’è agnello stufato in brodo. Non un agnello intero, sia chiaro.» disse lei guardando il simil drago dalla testa ai piedi. 
Aveva avuto a che fare con quelle creature abbastanza volte da ricordare che potevano essere alquanto voraci. Un brivido freddo le percorse la schiena mentre ripensava a quella volta in cui l’unico superstite della sua dispensa fu un barattolo d’aglio sottolio. L’avevano risparmiato soltanto perché ai draghi gli odori pungenti solleticano un po’ troppo le narici. 
«Una normale porzione andrà più che bene. La ringrazio.» disse Gymbass, poi accomodarsi alla panca più lontana della sala. La taverniera annuì e si diresse verso la porta della cucina affianco al bancone.
Aspettando la donna con la pietanza, il draconide sedette comodo, appoggiando la schiena al legno della panca. 
Il basso era accuratamente appoggiato al muro in modo che non gli fosse d'intralcio. Lo guardò: era davvero uno strumento meraviglioso, completamente in osso bianco con piccole incisioni colorate di rosso. La cassa ricordava il teschio di qualche grosso animale e la paletta all'estremità un tridente. Lo aveva desiderato così tanto, che ora che era finalmente completo non poteva non ammirarlo ogni qualvolta ne aveva l'occasione. 
«É un gran bello strumento.» si intromise la donna appoggiando il piatto fumante davanti al suo muso e una caraffa al centro tavolo «E, se posso permettermi, fa bene a non perderlo d'occhio. Alcuni qui hanno la mano svelta.»
La taverniera guardò i due al tavolo e poi l'umanoide draconico come per assicurarsi che avesse recepito il messaggio. 
«Oh, è sempre sotto il mio sguardo signora.» disse ringraziandola prima che lei lo lasciasse al suo pasto. 
Gymbass abbassò gli occhi sullo stufato. 
La prima cosa che gli aprì lo stomaco fu l'odore. Il vapore del brodo caldo gli invase le narici in una mescolanza di spezie dal delicato aroma. Avrebbe potuto riconoscerle una a una. La carne che galleggiava all'interno non aveva mai avuto un aspetto migliore. Sembrava morbida e gustosa. Quello stufato aveva un aspetto più che invitante e un profumo altrettanto inebriante. Una delizia da trangugiare o assaporare a seconda della fame. 
Gymbass scelse la seconda, si sarebbe concesso un pranzo come si deve e senza nessuna fretta. 
Afferrò con l'artiglio destro il cucchiaio affianco al piatto, lo immerse nel brodo, poi se lo portò alle labbra e mangiò. Continuò quella lenta degustazione finché non rimase che qualche pezzetto di carota e sedano, adagiati scomposti sul fondo. 
Appena l'ultimo boccone gli arrivò nello stomaco, allontanò il piatto spostandolo di lato, dissetandosi poi con un bel sorso d'acqua fresca. Quello si che si poteva definire un pasto con i fiocchi. 
«Posso portarle altro?» domandò timorosa la locandiera avvicinandosi con la scusa di prendere il piatto vuoto. 
In quel momento i sensi di Gymbass lanciarono un campanello d'allarme in tutto il corpo squamoso, facendolo rabbrividire. Senza dare nell'occhio si guardò attorno cercando di capire quale cosa potesse costituire un pericolo. Magari uno dei due tizi seduti poco distante o qualcosa proveniente dall'esterno. 
Quando finalmente individuò la fonte di quel disagio non poté che ridere internamente. 
La causa di quella sensazione, di essere osservato, era un piccolo ometto che sbirciava nascosto dallo stipite della porta della cucina. Indossava una bandana e un grembiule, entrambi imbrattati di macchie che andavano dal giallo al marrone scuro, passando per l'arancio e il rosso. Il minuto cuoco appena incrociò lo sguardo con l'umanoide si ritirò velocemente, chiudendo il battente dietro di sé. 
«No, grazie. A posto così.» rispose infine Gymbass portando una mano al fianco dov'era solito tenere il borsello. 
Le dita nodose afferrarono l'aria, battendo contro la coscia muscolosa. Le iridi dorate si mossero fulminee verso il basso e confermarono ciò che il bardo stava scongiurando con tutto sé stesso: il borsello non c'era. Sparito, evaporato nel nulla. 
Di fianco a lui la donna lo guardava a braccia conserte con un sopracciglio alzato. Gymbass imprecò sottovoce. Alzandosi in piedi guardò la cintura più volte, tastò ogni angolo e frugò in ogni tasca del suo vestiario ma la fortuna non gli sorrise. E nemmeno la locandiera spazientita, che ora non sembrava più la cordiale signora che l'aveva accolto. 
«Senta, posso pagare. Devo solo trov-» 
«I soldi che ovviamente prima aveva e che ora sono magicamente spariti. Sì, la conosco bene questa storia. Non è mica il primo che me la racconta.»
«No, io i soldi ce li ho davvero.» tentò di giustificarsi il draconide «Ho pagato il liutaio meno di due ore fa!»
La locandiera alzò gli occhi al soffitto poi scosse la testa. 
«Non faccio credito a nessuno.» disse visibilmente scocciata. 
«Certo, certo. Tuttavia, signora...» Gymbass si fermò come colpito in volto da un pugno invisibile. «Il ragazzino ubriaco! Quel maledetto figlio di... È sicuramente stato lui.»
Alla donna sfuggì una risatina «Will ha colpito ancora.»
«Lo conoscete?» chiese agitato il semi drago.
«È il garzone delle stalle. Si diverte spesso con la gente nuova che arriva in città. Deve avervi adocchiato già da un po'.» spiegò la signora. 
«Maledizione. Quel borsello era nuovo.» ringhiò Gymbass. 
«Volete che vi dica dove trovarlo?» chiese lei. 
Lui ci pensò qualche secondo poi scosse la testa «Non avevo molto, il giusto per pagare voi più o meno.»
«Capisco. Beh, siete in debito lo stesso.» disse la locandiera guardandolo «Tuttavia, visto che siete stato derubato; possiamo concordare per un altro metodo di pagamento.»
«E sarebbe?» chiese Gymbass deglutendo nervoso. 
Aveva abbastanza anni da conoscere certe storie sulle taverne e i loro proprietari da inquietare persino un colosso come lui. 
«Sapete usarlo quello?» disse la donna indicando il basso con mento. 
«Direi che me la cavo piuttosto bene.» 
«Allora questa sera vedete di riempire questo posto e farmi guadagnare qualcosa in più delle solite tre birre.»
«Volete che mi esibisca?» domandò sorpreso. 
La locandiera annuì «Così vi sdebiterete.»
Gymbass allungò una zampa e lei gliela strinse, suggellando l'accordo. Si accordarono sull'orario e sulle regole di comportamento da tenere con i clienti. Il draconide non obbiettò. Recuperò poi il basso e uscì dalla taverna dopo aver dato un'occhiata alla porta della cucina socchiusa. 
Fuori la città si stava lentamente rianimando. Alcuni bambini giocavano con l'acqua di una fontanella poco distante; da un balcone una donna stendeva delle lenzuola; mentre all'angolo della strada una ragazza con un'elegante tunica chiacchierava con il proprietario della tipografia. 
Gymbass sospirò. Un altro freno al suo viaggio verso la Capitale non ci voleva. Certo, sarebbe riuscito a raggiungerla in tempo ma non avrebbe avuto la possibilità di riposare prima dell'evento al castello. 
Poco male, si disse, avrebbe sfruttato quest'occasione per esercitarsi e testare le nuove corde e le migliorie del suo strumento. In più poteva spendere l'intero pomeriggio a suonare, in modo da ottimizzare i tempi. 
E così fece. In una zona poco frequentata della città trovò una spiazzo d'erba all'ombra di una grossa quercia verde. Si sedette al riparo dal sole e dopo aver accordato il suo amato basso, iniziò a suonare qualche nota di prova. Poi una breve melodia e infine quasi l'intero repertorio di canzoni a lui conosciute. 
Gli artigli pizzicavano delicatamente le corde e le dita si muovevano fluide senza esitazione. Il musicista e il suo strumento che sembravano essere una cosa sola, ecco che allora il basso aveva ripreso a cantare come voleva Gymbass. Come una parte di sé che ora aveva finalmente ritrovato il suo posto designato. 
Le ore passarono, l'azzurro del cielo lasciò spazio a un pallido lilla con sfumature aranciate simili a lingue di fuoco. 
Quando il suono dei rintocchi dell'antico orologio del tempio si propagò per la città; il bardo tornò alla taverna, emozionato per quell'esibizione fuori programma, che gli avrebbe permesso di suonare davanti a un vero pubblico dopo tanto tempo.

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Capitolo 8
*** Capitolo 4 ***


Quel giorno la mensa sembrava più affollata del solito. I posti ai tavoli erano pressoché tutti occupati e anche chi non la frequentava spesso aveva deciso di consumare il suo pranzo lì. 
Il brusio aumentava man mano che la gente si accomodava con il vassoio e iniziava a chiacchierare di argomenti tra i più disparati, sebbene quelli riguardanti gli esami e la fine della scuola andassero per la maggiore. 
Le vacanze estive erano alle porte e tutti ne erano entusiasti, soprattutto coloro che erano già sicuri di aver passato l'anno. 
Eddie non era tra quelli. Tra meno di una settimana avrebbe dovuto sostenere il suo ultimo esame con la O'Donnell, di nuovo come l'anno precedente. Quella materia lo tormentava e già due volte gli era costata la bocciatura. Ma se tutto fosse andato per il meglio l'anno successivo sarebbe stato l'ultimo, si sarebbe finalmente diplomato e tanti saluti a quelle quattro mura soffocanti. Quanto aspettava quel momento. 
«Su, diglielo.» sussurrò Dustin tirando una gomitata al braccio di Mike. 
«Si, adesso. Con calma.»
«Dirmi cosa?» domandò Eddie tornando a prestare attenzione ai suoi amici seduti al tavolo. 
Mike si schiarì la voce e vide tutti girarsi verso di lui. 
«Ecco, riguardo la prossima campagna... Insomma, quest'anno i miei hanno deciso di fare una vacanza, sai, in famiglia. E ci sarà anche Undi... Perciò...» 
«Ci stai forse dando buca, Wheeler?» chiese Eddie prima di dare un morso famelico al suo panino. 
Will guardò Mike con fare sorpreso. 
«No, cioè forse. Ma è una causa di forza maggiore.» disse il ragazzino alzando le spalle «E poi anche Jeff ha detto che non ci sarà.»
«Hey, vado da mia nonna ogni estate. Ormai lo sanno tutti.» si intromise Jeff. Eddie annuì. 
Mike abbassò lo sguardo sul piatto, come se il pasticcio di carne che aveva davanti agli occhi potesse in qualche modo suggerirgli una soluzione. Eddie, a capo tavola, storse le labbra appoggiando il mento sul palmo di una mano. Tutti stettero in silenzio, finché non fu Will a prendere la parola. 
«Ci servono sei giocatori. Però Lucas può chiedere a sua sorella, così saremo al completo.» disse guardando Eddie. 
L'espressione di Will non era però delle più convincenti. Avrebbe voluto intraprendere quell'avventura con i suoi amici, come una volta, quando giocavano nello scantinato. L'idea che Mike non partecipasse aveva smorzato il suo entusiasmo. Si sentiva tradito e messo nuovamente al secondo posto. 
«Erica ha già giocato con noi una volta, tempo fa. È brava.» aggiunse Dustin. 
Eddie si grattò il mento pensieroso, masticando l'ultimo boccone del suo pranzo. Non c'era granché su cui riflettere. Serviva un giocatore e la sorella di Lucas Sinclair era la cosa che si avvicinava di più. Poteva fare al caso loro, ma il leader dell'Hellfire Club stava comunque indugiando. 
«La decisione spetta a Will. La campagna è sua.» disse infine agitanto una mano, come non gli importasse granché. 
Will guardò il gruppetto per capire se fossero tutti d'accordo. Nessuno protestò, anzi nessuno disse nulla a riguardo. Il futuro master alzò le spalle e annuì. 
«A me sta bene.» disse riservando un'occhiata a Mike «Dovremo convincerla ma non credo sia una missione così impossibile.» 
«Ottimo. Tutti d'accordo allora. Appena inizieranno le vacanze potremo cominciare.» sentenziò Eddie chiudendo il porta pranzo svogliato. 
Diede un'occhiata intorno a sé. La mensa ora era meno affollata. Vista la giornata soleggiata ma ancora non troppo calda, chi aveva già finito il pranzo ne aveva approfittato per uscire a prendere una boccata d'aria. Solo i membri del club di scienze sembravano essere ancora tutti seduti a discute su chissà cosa. 
C'erano ancora una dozzina di persone che facevano la fila con il vassoio vuoto. Si trattava probabilmente di quegli studenti che si fermavano a parlare con i professori dopo le lezioni o di novellini che si perdevano per la scuola. 
Nel lento progredire verso la cuoca che serviva loro il pasto, si scambiavano saluti e convenevoli. 
Eddie vide due suoi compagni del corso di matematica, un ragazzino con la divisa dei Tigers e un gruppetto di ragazzine che parlottavano guardando il tavolo della squadra di basket. Poi assottigliò lo sguardo come stesse mettendo a fuoco. 
Una figura in quella fila gli era familiare. Non una di quelle famose all'interno della scuola, una che aveva visto di recente. 
Quando capì era ormai troppo tardi. Dal lato opposto della mensa Alice, con in volto il suo solito sorriso, alzò una mano nella sua direzione, stando attenda a non far scivolare il vassoio appoggiato nell'altra. In quel momento anche l'altra ragazza che era in sua compagnia si girò. 
Eddie abbozzò un saluto, guardando poi se qualcuno dei suoi amici se ne fosse accorto. Pareva di no. 
Tornò a interessarsi alla discussione del suo tavolo, alzando di tanto in tanto gli occhi verso la fila. 
Alice era in compagnia di Chrissy Cunningham, la ragazza più popolare della scuola nonché capo delle cheerleader. Insieme formavano una strana coppia e nemmeno Eddie avrebbe mai immaginato di vedere una come Chrissy in compagnia di un topo da biblioteca come sembrava essere Alice. 
Le due si scambiavano battute mente cercavano di contenere le risate, proprio come due buone amiche che si conoscono dall'infanzia. 
Il ragazzo le vide sedersi al tavolo della squadra, dove non c'erano che quattro giocatori e un paio di cheerleader. 
Entrambe mangiarono continuando a parlare del più e del meno, finché non finirono quasi una mezz'ora dopo. Spostarono i vassoi in parte e continuarono a conversare. 
«Eddie, noi abbiamo finito. Che fai vieni?» chiese Dustin mettendogli una mano sulla spalla. 
Eddie trasalì e quasi imprecò per essere stato riportato alla realtà così bruscamente «Sì, sì vengo.» rispose. 
Recuperò il suo cestino e lo zaino che era stato malamente lasciato a terra. Prima di seguire Dustin e gli altri, con la coda dell'occhio guardò le due ragazze. Quello che vide gli sembrò talmente fuori posto da chiedersi se non avesse fumato altro al posto della solita sigaretta. 
Chrissy, dopo essersi guardata attorno con circospezione, allungò ad Alice dei contanti. Quest'ultima li prese senza batter ciglio, riponendoli subito della borsa. 
Una trattativa. Eddie ne era più che convinto. Dopotutto lui era un esperto, aveva visto quella stessa espressione di smarrimento e diffidenza più volte nel volto dei suoi clienti. Era inconfondibile. 
Chrissy in quel momento aveva avuto lo stesso atteggiamento di qualcuno che vuole nascondersi da sguardi indiscreti, forse per quel motivo si erano incontrate in mensa così tardi. 
Tuttavia a Eddie poco importava. Certo era una scena atipica soprattutto perché era coinvolta la ragazza più popolare della scuola, ma di certo non si sarebbe intromesso. Non era affar suo se lei faceva affari di chissà che tipo con la bibliotecaria. 
“Possibile che spacci?” si chiese il ragazzo passando affianco alle due per uscire dalla mensa.
Quasi gli venne da ridere all'idea. In più l'unico rifornitore in zona, conosciuto come Rick Spinello, non aveva altri tramiti a Hawkins se non lui, e di questo ne era certo. Quella lingua lunga non si sarebbe di certo fatto sfuggire il fatto di aver trattato con una ragazza. Ma non erano affari che lo riguardavano. No, non lo erano. Forse. 
Per un attimo gli sguardi di Chrissy ed Eddie si incrociarono, ma fu lei più svelta a distoglierlo evidentemente a disagio. Lui accelerò il passo e raggiunse Gareth che lo stava aspettando alla porta per ritornare verso le aule. 
Le lezioni del pomeriggio avevano sicuramente una qualche sorta di maleficio. Benché non fossero che un paio d'ore, il tempo scorreva con una lentezza disarmante. 
Eddie e Gareth non fecero altro che scambiarsi sguardi annoiato e biglietti con scritto 'Corroded Coffin' in varie grafie. Ogni volta che ne riceveva uno Gareth scuoteva la testa ed Eddie alzava gli occhi al soffitto. 
Non prestare attenzione era all'ordine del giorno per i due, ma Gareth non rischiava l'anno. Eddie dal canto suo era in una situazione piuttosto precaria e, sebbene la O'Donall's stesse chiudendo più di un occhio su gli ultimi voti, non gli era permesso di tirare la corda più del necessario. Per cui dopo un po' si rimise ad ascoltare quella lagna insopportabile e, visibilmente annoiato, decise persino di prendere qualche appunto. 
Quando il suono della campanella decretò il 'libera tutti', Eddie non poté non essere in prima fila. Attraversò insieme a Gareth i corridoi evitando gli altri studenti e, quando finalmente vide la luce del sole, si lasciò uscire un sonoro sospiro. 
Prima di tornare a casa, come sempre aspettarono gli altri ragazzi così da potersi salutare e darsi appuntamento per il giorno successivo. 
«Henderson, niente passaggio oggi?» chiese Eddie avvicinandosi all'amico. 
«Steve lavora e io ho da recuperare un D- in latino.»
«E quindi?» domando il ragazzo confuso. 
«Quindi devo studiare e aspettare Steve fino a questa sera. Andrò in biblioteca, poi se finirò presto potrò anche pensare al nuovo personaggio per la campagna.» disse Dustin sistemando lo zaino sulla schiena. 
«La biblioteca?» 
«Sì? Non hai detto tu che è sempre aperta?»
«Ah, sì. La tipa che ci lavora mi ha detto di sì.» disse Eddie come non ricordasse di avergli dato lui quell'informazione. 
Dustin allargò le braccia esasperato. A volte trovava difficile parlare con le persone più grandi di lui, soprattutto se questo si traduceva nel dover spiegare ogni concetto per filo e segno. 
«Hai bisogno di una mano?» chiese Eddie prendendo dalla tasca il pacchetto di sigarette. 
«In latino? Non credo che...»
«Con il personaggio. Devo pensarci anch'io. È da un po' che non sto dall'altra parte, magari insieme ce la sbrighiamo prima.» disse portando una sigaretta alle labbra. 
Il ragazzino ci pensò su qualche secondo, poi annuì. Avrebbe accettato anche solo per avere qualcuno che gli facesse compagnia. Eddie si propose di ospitarlo al caravan ma Dustin fu irremovibile, la biblioteca era il posto in cui riusciva a concentrarsi meglio, spiegò. Il ragazzo non osò obbiettare ed entrambi si diressero verso l'edificio di mattoni rossi poco distante. 
«Buongiorno, come poss- oh, guarda chi si rivede.» gli accolse una voce solare appena varcarono la porta. 
«Desolato come sempre vedo.» constatò Eddie guardandosi attorno. 
«Meglio per noi.» disse Dustin «Ciao Alice, che si dice oggi?»
«Il solito Dustin, nessuna novità degna di essere raccontata.» rispose lei alzando le spalle. 
Eddie guardò prima uno e poi l'altra, soffermandosi un po' più del necessario su Alice. 
«Henderson, come mai tutta questa confidenza?» chiese poi abbassandosi verso di lui come se non volesse essere sentito. 
«Dustin viene spesso qui.» rispose Alice «Mi ha anche detto della loro vittoria contro... Morpheus?»
«Morfius.» la corresse Eddie storcendo la bocca. 
I due ragazzi dopo aver compilato il foglio delle presenze con i loro nomi, si sedettero a uno dei tavoli della sala. Entrambi presero ciò che gli serviva dallo zaino: Dustin il libro di latino ed Eddie un quaderno su cui scarabocchiare. Magari il nuovo logo per la band a cui stava pensando da mesi. 
Tutto era incredibilmente silenzioso, oltre a loro si erano fermate solo altre due persone. 
Ogni volta che sentiva la porta aprirsi Eddie alzava lo sguardo. E ogni volta la voce di Alice dava il benvenuto all'utente, lo ringraziava, gli indicava un particolare scaffale o chiedeva di attendere in modo che potesse recuperare lei ciò di cui aveva bisogno. 
Quando passava di fianco a loro, lui abbassava lo sguardo, fingendo di essere concentrato sul foglio, poi lo rialzava e la ritrovava seduta a scrivere chissà cosa su un taccuino poco più piccolo di un quaderno. 
In tutto ciò avevano iniziato la compilazione delle schede dei loro futuri personaggi, disquisendo su quale razza o classe fosse più adatta e su quali armi dar loro come equipaggiamento; non accorgendosi del passare del tempo. 
«Ragazzi, scusate...» disse Alice affiancandosi al tavolo «La biblioteca tra poco deve chiudere.» spiegò parlando normalmente visto che erano gli ultimi rimasti. 
«Che ore sono?» chiese Dustin preoccupato. 
«Quasi le sette.» rispose Alice dopo aver guardato l'orologio sopra il bancone. 
«Oh, mannaggia. Steve sarà già qua fuori da un bel po'.» disse il ragazzino iniziando a raccogliere le sue cose, gettandole nello zaino alla rinfusa. 
«Dustin, calmo. Non è un dramma, Harrington può aspettare.» disse Eddie chiudendo il quaderno. A differenza dell'amico non si preoccupò di fare le cose di fretta. 
Dopo poco ritornarono all'ingresso, annotarono l'uscita e Dustin corse fuori salutando frettolosamente. 
«Quel ragazzino è veramente strano.» disse Alice guardando la porta «In senso buono intendo.»
«C'è un 'senso buono' nell'essere strani?» commentò Eddie. 
Alice non rispose, si limitò a guardarlo da sotto gli occhiali. Riordinò le poche cose sparse sul bancone e prese il suo taccuino. 
«Che cos'è?» domandò improvvisamente Eddie indicando ciò che aveva in mano «È tutta oggi che ci scrivi sopra.»
Alice sì accigliò, realizzando di esser stata spiata e di non essersene minimamente accorta. 
«Ci raccolgo le idee per un racconto.» disse lei aprendolo e sfogliando qualche pagina «Appunti e spunti per lo più.»
«Quindi scrivi, sei una scrittrice insomma. Interessante.» disse lui infilando le mani nelle tasche del giacchetto in jeans. 
«È l'unico modo per sfuggire alla monotonia di questa città. Sai, se mi passasse sopra la testa un drago o incontrassi un goblin ogni tanto, sarebbe diverso.» commentò Alice a occhi bassi. 
«Già.» rispose Eddie accorgendosi del cambio di tono nella voce della ragazza, come se in quelle parole si nascondesse della tristezza «Sarà meglio che vada. Non voglio farti chiudere tardi anche questa volta.» disse infine abbozzando un sorriso e salutandola prima di uscire dalla porta. 
Lei ricambiò il saluto e come sempre, alla chiusura, spense le luci e si fermò a guardare la biblioteca vuota.
In quel momento qualcosa si mosse nell'ombra, probabilmente un riflesso proveniente dall'esterno; e sebbene Alice pensasse con razionalità, in cuor suo desiderò fosse una di quelle strane creature saltata fuori proprio dai suoi racconti.

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Capitolo 9
*** Capitolo 4.4 ***


Dorgal accese la quattordicesima e ultima candela dell'altare. Allontanandosi di qualche passo alzò lo sguardo ad ammirare la statua ora interamente illuminata. La torreggiante scultura tendeva le mani a palmi aperti verso di lui, come un tacito invito. Le sottili dita erano decorate da alcuni anelli d'argento. Non sembravano particolarmente preziosi, in effetti assomigliavano a delle semplici fedi. Ai polsi erano state allacciate colorate ghirlande di fiori freschi: rose, gigli, narcisi e piccole violette. Sul capo era stata posta una corona d'alloro, che doveva essere stato appena tagliato a giudicare dall'odore che emanava. 
Dorgal ne guardò il volto. Il viso delicato della giovane donna pareva così reale da fargli credere che si sarebbe mosso da un momento all'altro. Dagli occhi chiusi, come fosse addormentata, erano state scolpite due piccole lacrime che scendevano fino alle guance. Mish'kal accolse la preghiera silenziosa del nano che, dopo aver lasciato un'offerta ai suoi piedi, scese le scale che portavano al simulacro.
«Signor Ironshield.» disse un giovane. Aveva aspettato finora nascosto tra le colonne della navata prima di prendere parola.
«Dimmi pure, Edwin.» rispose il nano voltandosi verso di lui.
«L'Alto Vicario è arrivato, signore.» disse visibilmente agitato «Vi aspetta nel giardino.»
Dorgal annuì e ringraziò il ragazzo. Prima di raggiungere l’ospite gli diede il compito di preparare la consueta tisana di benvenuto e di servirla non appena fosse pronta. 
Il tempio cittadino era stato eretto dopo la Prima Era e consacrato a Mish'kal subito dopo. Si trattava di una struttura rettangolare di pietra bianca, il cui perimetro era decorato da colonne di sodalite blu che richiamavano il pavimento interno. Sul davanti, una lunga scalinata portava al suo ingresso, mentre un ampio giardino pieno di alberi da frutto si apriva sul retro. 
Un uomo dal viso allungato e dalla stempiatura pronunciata sedeva all'ombra di un arancio in fiore. Guardava attorno a sé con fare curioso, come fosse la prima volta che vedeva un cortile clericale. In sua compagnia vi erano un paio di uomini sulla trentina che sorreggevano rispettivamente un bastone dalla punta ricurva color rame e un tomo dalla copertina dorata con rifiniture color zaffiro. Se ne stavano immobili vicino a lui senza proferire parola.
«Dorgal, il vostro giardino è meraviglioso, devo ammetterlo.» disse l'Alto Vicario all'arrivo del nano.
«È merito dei monaci, Vostra Grazia.» Dorgal accennò un inchino.
«E vostro che li amministrate.» disse il vicario giungendo le mani in grembo.
L'uomo non era anziano, ma dai suoi gesti sembrava molto più vecchio della sua età. Teneva gli occhi quasi sempre socchiusi e la schiena leggermente ricurva quasi avesse un peso perennemente sulle spalle. Se il nano non l'avesse conosciuto molto tempo prima, probabilmente l'avrebbe scambiato per un vecchio ecclesiastico con un piede nella fossa.
«A cosa devo questa vostra visita?» chiese Dorgal sedendosi sulla panchina di fronte a quella del vicario.
«La città è sotto la mia Chiesa.» disse lui alzando la mano guantata verso uno dei due uomini al suo fianco «E richiede la mia benedizione. Come tutte le altre dopotutto, in questo periodo di scarsa fede.»
L'assistente che teneva il tomo si avvicinò senza fare alcun rumore, aspettò il cenno del vicario e gli si inginocchiò davanti. La sua lunga tunica indaco toccava la terra del selciato macchiandosi di polvere, ma ciò non sembrava turbare nessuno dei presenti. Aprì il volume esattamente a metà, e appoggiandolo sui palmi, lo porse all'Alto Vicario. 
Quest'ultimo si alzò in piedi «Vogliate accompagnarmi in questa preghiera, Dorgal.» lo invitò. Il nano chinò il capo portando la mano destra sulla spalla sinistra. 
Entrambi recitarono le letture del testo sacro; uno ad alta voce, l'altro nella sua mente. Nel silenzio del giardino la voce dell'Alto Vicario risuonava piena, a tratti autoritaria quando le scritture lo richiedevano. Il tono era forte, tipico di un uomo maturo nel fiore degli anni la cui anzianità è ancora lontana. Dorgal chiuse gli occhi come si richiedeva facessero i chierici davanti a qualcuno di rango superiore, infatti lo stesso fecero l'uomo che fungeva da leggio e quello con bastone. 
La liturgia durò una ventina di minuti. E proprio mentre tutti recitarono la frase di chiusura in onore di Mish'kal, il giovane Edwin fece capolino tra gli alberi con un vassoio, seguito da un altro ragazzo che trasportava un tavolino basso. Prima di avvicinarsi, entrambi guardarono Dorgal che fece cenno loro di procedere. I due allestirono il tavolo e poi si congedarono con un profondo inchino.  
Sul piatto in argento specchiato erano appoggiate quattro tazze di porcellana bianca e una teiera oblunga dal manico in legno. Il chierico si sporse in avanti, prese il recipiente e iniziò a versarne il liquido. Un delicato odore di bergamotto e mora si sprigionò dell'aria mentre l'infuso rosato riempiva le prime due tazze. 
Quando Dorgal si avvicinò con la teiera alla terza, l'Alto Vicario scosse la testa «Seguono la Pratica.»  spiegò.
«Capisco.» disse il nano porgendo una delle tazze all'ecclesiastico.
L'uomo la prese e la portò sotto il naso. Inspirò avidamente e dopo portò il bordo alle labbra e bevve. La tiepida tisana aveva un gusto dolciastro che lasciava però sul palato una nota amara. Un contrasto piacevole che solleticava le papille.
«Vostra Grazia,» disse il chierico dopo essersi schiarito la gola «Perdonate l'insolenza, ma qual è il vero motivo della vostra presenza in città? Una benedizione al popolo da parte dell'Alto Vicario richiama su di sé l'attenzione di tutti, e non mi sembra che nessuno abbia organizzato dei festeggiamenti a riguardo. Solo il Tempio sapeva del vostro arrivo, siete stato voi a chiedere di mantenerne la segretezza.»
L'Alto Vicario prese un profondo respiro «Non tutte le benedizioni richiedono una cerimonia in pompa magna, tuttavia avete ragione mio caro Dorgal. Sono qui per parlare con voi, per mettervi in guardia.»
Il nano si rizzò sulla panchina, nascondendo sotto la folta barba ramata un fremito del labbro superiore. La bocca e la gola si seccarono improvvisamente, tanto che fu costretto a prendere un sorso di tisane per riuscire a parlare.
«In guardia da cosa?» chiese infine appoggiando la tazza.
«Da coloro che indossano le vesti rosse.» rispose il vicario abbassando la voce.
«Questa è una piccola città, Vostra Grazia. Nessuno ha interesse a disturbare la sua quiete, o almeno non abbastanza da dover scomodare un Alto Vicario.»
«Badate bene, non sottovalutate coloro che ripudiano la via di Mish'kal.» disse l'uomo puntando l'indice guantato «Si tratta sempre di eretici che potrebbero incantare le genti con il loro proselitismo.»
«Qui la gente che ancora crede ha scelto la strada del Bene, non dovete preoccuparvi. E semmai qualcuno si sentisse minacciato, noi del Tempio faremo in modo da tenerlo al sicuro.» disse Dorgal toccandosi la spalla sinistra.
Il vicario non rispose, ma finì di bere l'infuso e il nano non seppe come interpretare quel silenzio. Forse aveva parlato con troppa incuria e l'aveva in qualche modo offeso, dopotutto era pur sempre un suo superiore che l'aveva appositamente raggiunto per dargli quel messaggio. O semplicemente colui che gli sedeva davanti aveva capito che non c'era da allarmarsi troppo e che la città era in buone mani.
«Che Mish'kal ti doni i suoi occhi.» disse infine l'Alto Vicario. Un augurio che la divinità lo proteggesse.
I due si intrattennero in chiacchiere fino al tardo pomeriggio, quando le nuvole nel cielo estivo divennero aranciate. Nel giardino i primi grilli iniziarono a cantare annunciando l'arrivo della sera. Fu in quel momento che l'Alto Vicario si congedò, ringraziando Dorgal per l'ospitalità. Ancora una volta lo ragguagliò su ciò che poteva colpire la sua cittadina. Il nano lo scortò fino all'uscita secondaria, dove un'anonima carrozza lo attendeva. I due assistenti aprirono la portiera e fecero salire il vicario per poi accomodarsi a loro volta all'interno. Dorgal fece un profondo inchino e rimase a guardare il mezzo allontanarsi finché non lo vide sparire oltre le mura.
Quando rientrò nel tempio una dozzina di giovani lo attendeva nella navata. All'ora dell'Orazione mancava ancora molto, eppure erano già tutti riuniti, seduti sui banchi in completo silenzio. Il chierico attraversò il corridoio centrale, fino a fermarsi davanti la statua di Mish'kal.
«Cari Prossimi...» iniziò Dorgal portando le mani dietro la schiena «L'Alto Vicario è molto soddisfatto del nostro operato qui in città. E io mi congratulo con voi per la dedizione e l'impegno messo.»
Un flebile parlottare si levò tra le file: commenti entusiasti e di autocompiacimento.
«Tuttavia,» continuò il nano alzando un dito per placare il brusio «è necessario che prestiamo maggiore attenzione d'ora in poi. Sono stato avvisato del fatto che non sempre ciò che vediamo corrisponde a realtà, non sempre il Male ha vesti nere.»
Dorgal non ebbe bisogno di aggiungere altro. L'atmosfera tra i presenti cambiò improvvisamente diventando pesante, come se l'aria si fosse rarefatta. Tutti sapevano a cosa si stesse riferendo il nano, ma sembrava inverosimile per una cittadina così piccola. Forse qualcosa tra le file dei Grandi Teocrati si stava muovendo più velocemente del previsto.
Dopo aver recitato un paio di preghiere insieme ai giovani adepti, il nano si ritirò nel suo ufficio realizzato sopra il pronao. La stanza non era particolarmente ampia, giusto quello che bastava per farci entrare una scrivania, un paio di sedie e qualche scaffale per riporre libri e oggetti vari. Vi si accedeva tramite una stretta scala di legno i cui scalini erano decorati da vasi di gigli bianchi, simbolo della dea a cui il tempio era stato consacrato.
Dorgal si sedette al tavolo prendendosi qualche secondo per ammirare il paesaggio dalla finestra. La grande trifora si apriva sulla via principale e da quell'altezza era visibile quasi l'intera cittadina e, in lontananza, anche la radura coperta di foschia. Poi si sedette al tavolo e tirò fuori dal cassetto un paio di fogli in pergamena e una pezzetto di cera bluastra. 
«Se ciò che mi ha riferito l'Alto Vicario si rivelasse vero,» parlò tra sé e sé «Questa città si troverebbe sull'orlo del baratro.»
Prese la piuma d'oca dal calamaio, passò il pennino sul bordo in vetro per togliere l'eccesso d'inchiostro e lo appoggiò sulla pergamena davanti a sé. Esitò per qualche istante, rimuginando su ciò che stava per fare. Prese un profondo respiro e, con la grafia di chi non è abituato a mettere nero su bianco il proprio pensiero, iniziò a scrivere.
Si fece sera tarda quando finalmente la mano di Dorgal si fermò. La candela che aveva acceso per illuminare il piano era consumata quasi per metà. Non si era preso nemmeno una pausa, tranne quando Edwin si era premurato di portargli la cena e lui aveva delegato a quest'ultimo alcuni compiti da svolgere prima della notte. Ma la cosa importante era che quella missiva, di quasi quattro pagine, fosse stata finita il prima possibile. Era indispensabile. 
Sigillò il tutto con la ceralacca e il sigillo personale: un massiccio anello di ferro con una 'I' davanti a uno scudo, portato sempre sul mignolo sinistro.  Sistemò la scrivania e mise la lettera nella tasca interna del gilè che portava sotto gli spallacci. Silenziosamente scese al piano inferiore e quando fece per uscire una voce richiamò la sua attenzione.
«Signor Ironshield...» Edwin lo aspettava alla fine della navata «Non si preoccupi, non sono qui per fermarla. E nemmeno per far da spia con i fratelli. Volevo solo assicurarmi che non ci fosse nessuno.» disse lui vedendo lo accigliato del chierico.
«Grazie Edwin, so che posso fidarmi di te.» disse Dorgal guardando il giovane con fare paterno.
«Sì, signore.» disse aprendo poi il battente il nano.
All'esterno del tempio un venticello fresco solleticò i baffi di Dorgal. Prima di proseguire verso la piazza si guardò attorno. La città a quell'ora era deserta, solo qualche gatto randagio che si aggirava tra le ombre a caccia di topi. Così tranquilla e pacifica che il chierico si intristì pensandola sotto il controllo del caos. Scosse la testa scacciando quell'immagine e, dopo aver sceso la scalinata, prese un vicoletto poco distante. Si fermò sotto l'insegna della porta dell'ultimo edificio in angolo, la guardò ma non entrò. Sorpasso l’entrata e girò verso un'altra via secondaria dove la luce di una piccola porta aperta illuminava l'acciottolato. Dorgal si avvicinò e bussò sul legno tre volte.
«Oh.» disse sporgendosi un ometto dal grembiule macchiato «Chi poteva essere se non tu, Dor. Nessuno chiede da bere da questo lato del bancone.»
«Le mani di Lucrezia sono leste come sempre?» disse il chierico tirando fuori la lettera. L'ometto guardò l'oggetto e un ghigno sentendo gli comparve in volto. 
«Dove?» chiese ridacchiando.
«La Capitale, all'Archivio. Loro sanno.» disse lui guardando alle spalle del cuoco.
Quest'ultimo afferrò la lettera e annuì «Passa domani sera, offro io.» disse facendogli l'occhiolino.
«Avrei dovuto aprire un ufficio postale, non una taverna.» lo sentì dire Dorgal mentre si allontanava. Gli scappò una piccola risata.
Forse aveva ragione, però fortunatamente non era stato così. Quelle quattro mura piene di alcol e pasticci di carne erano state più di una volta d'aiuto; non solo a lui, ma anche a molti altri in quella cittadina troppo a lungo dimenticata dagli dèi.

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Capitolo 10
*** Capitolo 5 ***


Il dito di Will premette il campanello sotto la targhetta con il nome 'Sinclair'. Il ragazzino guardò l'amico e poi la porta davanti a sé con aria preoccupata. Il vialetto davanti casa era vuoto, l'auto della famiglia non c'era. 
«Magari non sono in casa.» disse verso Dustin. 
«Ci sono, non ti preoccupare.» gli rispose lui. 
«Come fai a esserne sicuro?» 
In quel momento la serratura scattò e un occhio sbucò dal battente socchiuso. 
«Si?» chiese la ragazzina nascosta dalla porta. 
«Visto che qualcuno c'è.» sussurrò Dustin all'orecchio di Will. 
«Erica, siamo Will e Dustin.»
«Questo lo vedo. Che ci fate qui così presto?» domandò guardandoli. 
«Possiamo entrare?» disse Will. 
La ragazzina assottigliò lo sguardo. Benché conoscesse gli amici di suo fratello da sempre sembrò quasi diffidare di loro. Certo non era mai capitato che andassero a trovare Lucas prima di entrare a scuola. Ma per loro quella era una situazione d'emergenza, dovevano risolvere la questione il prima possibile.
«Erica! Chi è?» urlò qualcuno da dentro casa. 
«Henderson e Byers.» gridò Erica di rimando. 
«Falli entrare no?» si sentì dire
La ragazzina sbuffò e aprì la porta, invitando con aria scocciata i due ad accomodarsi. Dustin e Will entrarono e si guardarono attorno come se quella fosse la priva volta che mettevano piede in casa Sinclair. Videro Lucas scendere frettolosamente le scale con il borsone da basket sulla spalla e i capelli ancora da acconciare. Saltò l'ultimo scalino e salutò gli amici con un cenno della mano. 
«Ehi ragazzi, tutto ok?» chiese sorpreso.
«Alla grande.» rispose Dustin. 
Erica chiuse la porta e si affiancò al fratello. 
«Allora? Volete dirci perché siete qui o stiamo a spettegolare come quattro zitelle al club di cucito.» domandò la ragazzina incrociando le braccia. 
«Sì, ecco... » iniziò Will «Stiamo per iniziare una nuova campagna e ci manca un giocatore, per cui...» disse rivolgendosi poi verso di lei.
«Volete che partecipi.» tagliò corto lei. Will e Dustin annuirono all'unisono.
«Sarà Will il master.» aggiunse immediatamente Dustin. 
Erica storse le labbra. I suoi occhi vagarono per qualche istante nella stanza, dal soffitto al pavimento, in una danza di dubbio e perplessità. Cosa che fece sudare freddo entrambi i ragazzi. C'era una possibilità, seppur piccola, che non accettasse e ciò avrebbe messo in discussione tutta la campagna. La ragazzina mugugnò picchiettando l'indice sul mento. Guardò prima uno e poi l'altro, palesemente fingendo indecisione, forse divertendosi un po' più del necessario a tenere sulle spine i due amici. 
«Devo avere il venerdì libero, ho degli impegni.» disse infine Erica. 
Lucas la guardò alzando un sopracciglio. Si chiese che impegni potesse avere una ragazzina della sua età se non bere il tè con le bambole e leggere qualche storia di principi e principesse.
«Sì, ovviamente. Non è vero Will?» disse Dustin punzecchiando con il gomito il fianco dell'amico. 
«Certo! Venerdì libero, chiaro.»
«Allora ci sto. Consideratemi dei vostri.» disse Erica allungando una mano verso Will. 
Lui la strinse e la agitò un paio di volte. Sia lui che Dustin sembrarono subito più sollevati e anche Erica sembrava felice della cosa. L'ultimo giocatore era stato reclutato e la campagna era salva. Will si immaginò il tavolo con attorno i tutti i ragazzi pronti a condividere con lui le gioie e di dolori che il gioco regalava a ogni nuova storia.
«Ragazzi...» disse improvvisamente il fratello maggiore «...Non avete messo in conto anche me, vero?»
I tre guardarono Lucas e il sorriso sui loro volti si spense come qualcuno avesse premuto un interruttore. 
«Sì certo che abbiamo contato anche te.» disse Dustin passandola per un'ovvietà.
«Dustin, Eddie, Rick, Gareth, tu ed Erica.» elencò Will contando sulle dita «Mike sarà in vacanza con i suoi.» spiegò. 
Erica si mise le mani sui fianchi alzando gli occhi al soffitto con fare drammatico. Aver appreso di essere il rimpiazzo non le piacque granché, ma non era qualcosa di così grave da prendersela con i suoi amici. In fondo le era andata bene: ora aveva qualcosa con cui occupare quei tre mesi di vacanza. Il suo atteggiamento offeso così apertamente teatrale fece sorridere Dustin.
«Io credo che ora vi manchi un giocatore.» disse Lucas grattandosi la nuca. 
«Che vuoi dire?» chiese Dustin. 
«Ecco ragazzi, io...»
«Vuole dire che non ci sarà. Ha il ritiro con la squadra di basket.» intervenne Erica indicando una valigia già pronta affianco alle scale «Quella è già pronta e manca ancora una settimana.»
«Lucas...» Dustin sembrò sul punto di mettersi piangere. 
«Ragazzi, mi dispiace. Il prossimo anno forse sarò nei titolari, Jason ha detto che è l'occasione buona per farmi notare dal coach.» disse lui quasi senza prendere fiato. 
«Siamo punto e a capo.» disse Dustin verso Will. 
«Peggio. Questo era l'unico piano B che avevamo.» disse lui grattandosi i palmi nervosamente. 
La campagna era nuovamente a rischio, al punto che Will pensò di aver una qualche sorta di maledizione. Anni prima l'avventura principale e una delle più complesse che avesse ideato era stata bruscamente interrotta e ora, quella su cui stava lavorando da allora, rischiava di non iniziare nemmeno. 
«Dobbiamo trovare qualcuno prima della fine della scuola.» Dustin si mise entrambe le mani sul cappello. 
«Erica, le tue amiche...» disse Will guardando la ragazzina. 
«Non se me parla. E poi hanno livelli troppo bassi.» disse lei «Perché non chiedete a Lucas di trovarvi l'ultimo membro.»
Lucas guardò la sorella perplesso. Stava forse dando la colpa a lui per la disfatta della campagna? Probabilmente sì, ma più per il gioco lo stava punendo per aver accettato il ritiro sportivo. L'avrebbe lasciata a casa da sola con i suoi genitori per buona parte dell'estate. Lui aveva provato ad addolcire la pillola con una pessima battuta sul fatto di provare l'esperienza di essere figlia unica. Erica non l'aveva trovava affatto divertente. 
Dustin e Will guardarono l'amico, che prontamente agitò la testa e alzò le mani. 
«Non conosco nessuno, mi spiace.» disse verso di loro «Ma proverò a fare qualcosa.»
Will annuì e Dustin ringraziò. Il futuro master diede un paio d'indicazioni a Erica in modo che si potesse preparare e le disse che si sarebbero sentiti quando avessero deciso la data della prima sessione, che in ogni caso non sarebbe stata troppo lontana. Lei ascoltò con attenzione, pose qualche domanda e infine disse che avrebbe aspettato loro notizie.
I due fratelli accompagnarono Dustin e Will alla porta e li salutarono, Lucas diede loro appuntamento a scuola come ogni giorno.
Appena la porta di casa Sinclar si chiuse, i due fermi sul vialetto lasciarono andare un lungo sospiro di rassegnazione. Se da una parte l'ingaggio di Erica era stato un successo, dall'altra il ritiro di Lucas aveva gettato i loro piani nel fuoco e sparso le ceneri al vento.
«Dovremmo dirlo agli altri. Potrebbero conoscere qualcuno.» disse Dustin incamminandosi in direzione della scuola.
«Eddie sicuramente ci aiuterà. Ma dovremo aspettare il pomeriggio per chiederglielo.» Will seguì l'amico camminandogli affianco.
«Giusto, questa mattina ha l'esame con la O'Donnell. Meglio aspettare sì.»
E così fecero. E fu meglio, soprattutto per Eddie che aveva già i nervi a fior di pelle dai giorni precedenti.
Dopo quasi una settimana passata sui libri e di sonno precario, il ragazzo non vedeva l'ora di uscire da quell'aula e dedicarsi finalmente ad altro che non fossero nozioni di grammatica e letteratura. Si era talmente intestardito che aveva trascorso tutti i pomeriggi tra gli scaffali della biblioteca di Hawkins, da solo o in compagnia di Dustin. 
Tuttavia, per quanto ci provasse, in quel posto si era sentito sempre un estraneo. Poteva percepire gli sguardi degli altri studenti che sicuramente si stavano chiedendo cosa ci facesse lì uno come lui; in più la bibliotecaria sembrava averlo preso di mira dalla prima volta che aveva incrociato lo sguardo. La donna, che sostituiva Alice impegnata con lo studio anche lei, non perdeva l'occasione per commentare il suo abbigliamento o per riprenderlo appena sentiva un sussurro provenire dal tavolo in cui era seduto. 
Certo, con la compagnia di Dustin l'immane sforzo di andare in biblioteca non gli era pesato poi così tanto; anzi si era quasi trovato bene e anche concentrarsi su ciò che leggeva gli era risultato più facile. Ma c'era sempre qualcosa che non lo faceva sentire completamente a suo agio. Secondo il ragazzino era la megera al di là del bancone. E forse aveva ragione.
Ormai però il tempo dello studio era finito e ora doveva vedersela con la vera prova, quella che avrebbe nuovamente deciso del suo anno scolastico.
«Questa è la vostra ultima occasione.» disse l'insegnante consegnando il compito «Date il vostro meglio.» 
Arrivata affianco al banco dov'era seduto Eddie e dopo avergli passato il foglio, lo guardò e si sporse cose volesse dire qualcosa.
«Mi raccomando.» sussurrò al ragazzo.
Non era un augurio, era un ordine. Ed Eddie lo sapeva, dopotutto nemmeno lui aveva intenzione di fallire e rovinarsi l'ennesima estate. L'ultimo anno era a un esame di distanza, la fine del suo percorso scolastico era sempre più vicina. La libertà lo attendeva.
Quando l'ultima campanella della giornata suonò nessuno perse tempo e in tempo record i corridoi della scuola furono deserti. Più la fine si avvicinava più gli studenti sopportavano poco le mura scolastiche. Un paio di giorni e nessuno ci avrebbe più messo piede.
«Ragazzi, eccovi.» Eddie si avvicinò al gruppetto appena fuori l'ingresso.
«Com'è andata sta mattina?» chiese subito Gareth. Sapeva quanto l'amico fosse agitato per quella prova. 
«È andata. Qualcosa ho scritto.» rispose Eddie alzando le spalle.

«Non è la stessa cosa che hai l'ultima volta?» commentò Jeff.
Eddie lasciò il ragazzo senza una risposta, invece si rivolse a Dustin posando una mano sulla sua testa.
«Allora, la sorella di Sinclair è dei nostri?» domandò.
«Erica sì, ma...» disse l'amico timidamente.
Eddie alzò un sopracciglio aspettando la conclusione della frase.
«Ma Lucas non ci sarà. Ha il ritiro con la squadra di basket.» intervenne prontamente Will.
Tutto il gruppo alzò gli occhi al cielo, in particolare Rick e Gareth che erano stati i primi a dare la loro disponibilità alla campagna. Erano impazienti d'iniziare e già dalla notizia della nuova avventura avevano iniziato a strutturare i loro personaggi. Sarebbe stato un vero peccato non poterli far scendere in campo.
«Quindi che propone il master?» disse Eddie verso Will.
Will si ammutolì. Non aveva pensato che ora era lui a dover prendere le decisioni per il party. 
«Prendiamoci una settimana in più. Io avrò il tempo di sistemare gli ultimi dettagli e voi potrete pensare bene a chi volete giocare. Così anche Erica potrà prepararsi al meglio. Nel frattempo cercheremo l'ultimo giocatore.» spiegò Will. Il gruppo concordò.
«Eddie, tu non conosci nessuno?» chiese il master.
«Non mi viene in mente nessuno, ma qualcuno troveremo. La campagna inizierà, stai tranquillo.» disse Eddie con un sorriso.
I giorni successivi furono impegnativi per tutti, tanto che incontrarsi anche solo per qualche minuto fu complicato. Ognuno pensava agli ultimi compiti da consegnare, all'armadietto da svuotare e al progetto da fare vedere al professore di turno. Benché indaffarati, nessuno si era dimenticato di ciò che gli aspettava di lì a una settimana. Nei pochi sprazzi di tempo libero le schede di ogni personaggio venivano arricchite, raffazzonati disegni si aggiungevano ai fogli e anche Erica, che era stata invitata con poco preavviso, si stava impegnando per rendere unico ogni dettaglio. Pure Will diventò maniacale nell'aggiungere elementi alla sua trama. Voleva assolutamente che l'avventura fosse perfetta e ricca così da non risultare mai noiosa.
E così arrivò l'ultimo giorno. L'ultima campanella suonò e i porte dell'Highschool di Hawkins si chiusero dietro la fiumana di alunni in festa. L'estate era finalmente iniziata e per gli avventurieri questo significava solo una cosa: un nuovo mondo gli avrebbe presto dato il benvenuto.

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Capitolo 11
*** Capitolo 5.5 ***


Erick allungò la spada verso l’uomo che aveva davanti, un corpulento omone dalla barba dorata con in volto l’espressione di un orso imbronciato. Quest’ultimo prese l’arma e la rigirò tra le mani come non avesse peso: ispezionò la lama e l’impugnatura con cura quasi maniacale. Schioccò la lingua e dopo averla appoggiata sul tavolo, fece segno al ragazzo di riprendersela. Lui la ripose nel fodero, prese lo scudo appoggiato al muro poco distante e se lo portò sulla schiena.
L'ispezione degli armamenti non durò che una decina di minuti, dopodiché il suo gruppo poté finalmente avviarsi verso la familiare stanza adibita a mensa.
Una dozzina di ragazzi poco più che vent'anni si sedette ai tavoli già apparecchiati in modo spartano con una ciotola, un cucchiaio e un boccale di peltro. Come le tavole anche l'ambiente risultava povero: sui muri di mattoni nudi erano appesi due stendardi, uno con lo stemma della contea e uno con quello della città; una grossa alabarda decorava la cappa del camino ora spento e sopra lo stipite d'ingresso era posizionato un ramo di pino verde da cui si sprigionava un intenso profumo.
La piccola sala della gendarmeria, solitamente silenziosa, era ora animata dal vociare di giovani uomini intenti a fare colazione. Una scodella di latte e del pane era tutto ciò che gli ufficiali ritenevano sufficiente a nutrire i loro stomaci affamati prima dell’addestramento quotidiano.
Solo Erick sembrava non essere d’accordo mentre la sua bocca si piegava all'ingiù dall’insoddisfazione dopo aver finito. Quel misero pasto non l’avrebbe mai saziato e come ogni giorno di lì a poco le sue viscere avrebbero reclamato altro nutrimento.
«Che c'è? Non era buono?» chiese il ragazzo che gli sedeva a fianco.
«È passabile.» disse lui bevendo l'ultimo sorso di latte.
Erick diceva la verità e Quentin lo sapeva. Quel pane non era di certo fresco, anzi probabilmente il fornaio era stato magnanimo e aveva dato ai loro superiori i migliori avanzi dei giorni precedenti. E magnanimo era la parola corretta da usare: non faceva mai nulla per nulla e offriva la sua merce al miglior offerente; che di solito erano gli allevatori di maiali. Il latte era buono, ma mai sufficiente, non lo sarebbe stato per nessuno figuriamoci per dei ragazzi in pieno sviluppo.
«Erick, ti posso chiedere una cosa?» disse Quentin mescolando la poltiglia di pane che si era formata sul fondo della ciotola.
Il ragazzo alzò lo sguardo ambrato e annuì. Conosceva l'amico da qualche mese e sapeva che le sue domande non prevedevano mai risposte facili. A Quentin piaceva conversare e sapere più cose possibili anche se questo significava invadere gli spazi altrui.
«Perché vuoi entrare nelle guardie cittadine? Io, lo sai, lo faccio per mia madre e mia sorella. Ma tu...» disse alzando lentamente gli occhi «Avresti potuto entrare come assistente di tuo padre e poi prendere il suo posto.»
«È proprio per non finire come lui che ho fatto domanda qui. Sai che divertimento risolvere stupidi screzi tra gente che sa solo usare asce e rastrelli per regolare i conti?» disse Erick poggiando un gomito sul tavolo.
«I Pacificatori guadagnano bene in città come questa.»
«Un motivo in più per prendere la licenza e andarmene da questo posto.»
«Erick, davvero? Hai la strada spianata, le spalle coperte e-» Quentin si interruppe bruscamente.
Vide il volto dell'amico percorso da uno spasmo che fece vibrare il sopracciglio sinistro: segnale che la pazienza di Erick si stava esaurendo. Quentin sospirò e mangiò l'ultima cucchiaiata di pappetta in silenzio. Per quanto gli fosse amico, sentiva che ancora non aveva conquistato completamente la sua fiducia. Si chiese quando, anzi se, ci sarebbe mai riuscito.
«Cadetti!» urlò con voce possente un uomo palesatosi all'ingresso della sala «Oggi vi aspetta una giornata intensa. Forza, in piedi.»
Il brusio delle sedie spostate fu coperto solamente dal chiacchiericcio dei ragazzi che ordinatamente seguirono il loro superiore fuori dalla sala. Tutti equipaggiati, percorsero il lungo corridoio la cui fine si apriva sul cortile interno della gendarmeria. Alte mura di pietra calcarea delimitavano il perimetro del quadrato d’erba e terra. Un unico grande albero si stagliava nell’angolo a nord, offrendo con la sua chioma ombra a una finestra sbarrata che dava su un piccolo terrazzino.
«Credi sia ancora lì che aspetta?» sussurrò Quentin affiancandosi a Erick.
Il ragazzo scosse la testa «No, non credo.»
Quentin si irrigidì. La sua mano attorno all’elsa della spada era talmente stretta da lasciargli i segni del cuoio sul palmo e quando Erick gli mise una mano sulla spalla, trasalì.
«Calmati o non arriverai a fine giornata neppure tu.» disse il corvino.
«Così non sei d’aiuto Raven»
«Come hai detto scusa?» chiese Erick stringendo la spalla dell’amico.
«Erick. Non sei d’aiuto se fai così, Erick.»
Il giovane annuì e lasciò la presa tornando a guardare il superiore che si stava posizionando al centro del cortile. Il sergente Wert portò le braccia dietro la schiena passando in rassegna con lo sguardo la faccia di ogni cadetto che aveva davanti.
«Mattel e Hornraven… Vi vedo attivi quest’oggi.» disse l’uomo «Perchè non iniziate voi la sessione dimostrativa di questa mattina.»
Erick guardò l’amico con sguardo accusatorio mentre Quentin, dopo aver sentito il suo cognome, aveva tentato inutilmente di mascherare l’agitazione stando sull’attenti ma aveva finito per sembrare solo innaturalmente rigido, al pari di uno stoccafisso.
«Venite pure al centro.» li esortò il sergente «Sarà un combattimento a una mano. Liberi di scegliere voi quale.» concluse sposandosi vicino al gruppo di cadetti.
I due ragazzi presero posizione uno di fronte all'altro. Erick afferrò l’elsa della spada con la mano destra, Quentin con la sinistra.
Il corvino piegò la testa di lato e aggrottò le sopracciglia. Puntò gli occhi sull'amico che, come avesse carpito i suoi pensieri, alzò le spalle con indifferenza. Un gesto così eloquente che Erick si trovò spiazzato. Lo stava sicuramente prendendo in giro: Quentin non era mancino e nemmeno ambidestro. Erick era un osservatore, uno di quelli che studia l’avversario forse anche con troppa attenzione per non notare questo particolare, in più loro due si erano già affrontati parecchie volte durante gli addestramenti e in nessun combattimento, nemmeno una singola volta, il biondino aveva anche solo avvicinando la mano sinistra alla spada.
«Perchè…?» sussurrò Erick in modo che solo Quentin potesse sentirlo. Non vi fu risposta, solo una rapida occhiata alla finestra sbarrata per poi riportare l’attenzione sull’amico davanti a sé.
Erick si interrogò per qualche secondo. Era ovvio che il suo avversario volesse perdere l’incontro, ma il sergente Wert non era così ingenuo da non notare una sconfitta palesemente volontaria. Quentin aveva qualcosa in mente e la parte più preoccupante era che aveva partorito il suo piano in pochi minuti. Aveva proprio la mente di un stratega, pensò Erick.
«Cadetti, in posizione. Il primo che viene atterrato dall’avversario, pone fine all'incontro. Il primo che chiama la resa, pone fine all'incontro. Il primo che rimane indifeso, pone fine all’incontro.» spiegò Wert alzando poi una mano e abbassandola per decretare l’inizio dello scontro.
Erick fece mezzo passo indietro estraendo la spada. Alle orecchie gli arrivò il suono metallico di quella di Quentin che veniva sguainata e l’eco della brezza tra le fronde del vecchio albero del cortile. Il tepore di quel respiro arrivò al suo viso come una carezza, scompigliò qualche ciuffo della sua chioma corvina e si placò pochi istanti dopo. Fu strano. Sembrò come se qualcosa avesse soffiato sulla città come fosse la fiamma d'una candela e tutto ciò che era rimasto era solo un inquietante silenzio.
Il sergente batté le mani per richiamare l’attenzione e subito i due giovani si sporsero in avanti facendo partire un fendente ciascuno. Quentin si abbassò prontamente usando la lama per spazzare a terra arrivando alle caviglie di Erick. Usare l’arma con la mano sinistra lo rallentava più di quanto potesse aspettarsi, ma era astuto e incredibilmente imprevedibile. Per questo Erick non poteva permettersi di sottovalutare l’amico, tant’è vero che evitò il colpo di pochi centimetri saltando sul posto.
«Mi spieghi che intenzioni hai?» chiese Erick puntando la punta dell'arma verso l’amico.
«Non voglio andare di ronda.» rispose lui muovendo la mano cosicché la spada ruotasse sopra la sua testa.
«Ronda? Quentin ma che diavolo di-» Erick sgranò gli occhi dopo aver realizzato «E andare alle prigioni ti sembra un’idea migliore?»
«Erick,» disse il biondo colpendo con l’elsa il fianco del ragazzo non perché volesse veramente farlo barcollare ma per avere la scusa per potersi avvicinare «magari è ancora lì. Ieri l’hai vista anche tu, no?»
«Probabilmente sarà stata giustiziata, sarà già morta.» gli rispose Erick a denti stretti.
Quentin si fermò bruscamente con la spada a mezz’aria. La faccia era una maschera di terrore e incredulità, mentre scuoteva la testa come cercasse di scacciare quelle parole dalle orecchie. Gli occhi color nocciola si abbassarono a guardare il terreno, tristi e sconsolati. Abbassò il braccio sinistro lungo il corpo e alzò la mano destra voltandosi verso il sergente Wert. Quest’ultimo annuì per nulla stupefatto dall’atteggiamento del giovane, probabilmente se l’aspettava da quando l'aveva chiamato una decina di minuti prima. La resa del cadetto Mattel venne ufficializzata quando sua la spada fu riposta e lui si allontanò dal cortile con la scusa di un improvviso dolore allo stomaco.
Erick rimase solo, impassibile in mezzo al cortile in cui si iniziavano a sentire i primi commenti di qualche compagno curioso. Ma lui non capiva: perché a quel logorroico biondino importava di una straniera vista un’unica volta da una finestra della prigione adiacente. Sì, anche lui la ricordava, o meglio ricordava lo sguardo che aveva rivolto loro. Illeggibile e impenetrabile ma in cui, per un secondo, era sicuro di aver percepito qualcosa che assomigliava allo smarrimento e alla rassegnazione. In quelle iridi silvestri si nascondeva qualcosa, e forse Quentin non voleva abbandonarsi all’idea di non sapere cosa. O forse stava solo cavalcando l’onda dell’empatia preoccupandosi un po’ troppo per la sorte di un detenuto.
E a lui, Erick Hornraven, la questione doveva importare? Come doveva sentirsi? Forse triste per la morte di una persona di cui non sapeva nulla o in colpa per aver scosso l’amico tanto da mandarlo in panico. No, quella situazione non aveva motivo di creare in lui questi futili dubbi, tutto quello era solamente come la colazione del mattino: passabile.
«Hornraven.» la voce del sergente si intromise irruenta nei suoi pensieri «Curioso di sapere cosa hai vinto?» chiese l’uomo avvicinandosi
«Se vuole chiamarla vittoria, signore.» rispose lui atono.
Al sergente sfuggì un piccolo sorriso divertito «Beh figliolo, puoi sempre rifiutarti e andare con Mattel a pulire le latrine delle celle.»
Erick storse il naso all’idea dell’olezzo di urina e ratto che avrebbe dovuto respirare.
«Sarai di ronda questa notte insieme a Lodel.» disse il sergente allargando il petto. Erick annuì.
Al corvino la notte piaceva più del giorno. Il massiccio edificio di mattoni che era la gendarmeria diventava estremamente silenzioso, tanto che se si tendevano le orecchie e si respirava piano si poteva sentire lo crepitio del fuoco della cucina che lentamente consumava la legna trasformandola in cenere. Anche in città l’atmosfera era simile.
Appoggiato a una delle colonne della porta principale, Erick osservava i dintorni fuori dalle mura immersi in quella quiete surreale. Ogni tanto si voltava verso la via principale, spostando lo sguardo fino al tempio in fondo, alla ricerca di qualcosa che potesse essere degno di nota. Nulla che potesse minare la sicurezza degli abitanti. 
Il tempo passava lento, le lune nel cielo si spostavano placide giocando a nascondino con le poche nuvole che erano comparse. La serata proseguiva tranquilla, l’attenzione di Erick fu catturata solo da un paio di movimenti. Il giovane cadetto seguì con lo sguardo due individui entrare in città, fermarsi davanti dall'orefice e poi proseguire ed entrare nella taverna. Poco più tardi un’ombra fece capolino da una laterale parallela al tempio e sparì poco più in là fuori dalla portata della sua vista.
Lodel, il compagno di guardia, sembrava più addormentato che sveglio se non fosse stato per il cambio che faceva ogni mezz'ora nell'appoggio del piede lo si sarebbe potuto scambiare per una statua. Erick invece non accusava la stanchezza della giornata e la flebile melodia che sentiva provenire da chissà dove allietava la altrimenti noiosa ronda. Prese una boccata di aria fresca ed espirò chiudendo gli occhi, quando gli riaprì Lodel aveva appoggiato la testa in una nicchia formata dai mattoni del muro di cinta e probabilmente di lì a poco si sarebbe sentito solo il suo russare.
Erick incrociò le braccia al petto e diede un’ultima occhiata ai dintorni fuori dalla città verso il bosco e poi di nuovo verso la cittadina. Scorse solamente una sagoma rossa passeggiare vicino alla fontana, dopodiché la città si assopì avvolta dalla serenità soporifera della notte fino al mattino successivo quando l’odore dolce delle mele al forno di Lucrezia le diede il buongiorno.

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