Two Pairs of Chilling Eyes

di Evilcassy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Runaway Killer ***
Capitolo 2: *** Una Gatta Ferita ***
Capitolo 3: *** Waiting for new Orders ***
Capitolo 4: *** Tokio - Mosca, solo andata. ***
Capitolo 5: *** On my (New) Way Home ***
Capitolo 6: *** Survivors ***
Capitolo 7: *** In the Coldest Night ***
Capitolo 8: *** Un Abbraccio. ***
Capitolo 9: *** Learning to Live ***
Capitolo 10: *** Two differents ways ***
Capitolo 11: *** Isn't Cold, in your Little Corner of The World? ***
Capitolo 12: *** Get Ready for the Next Battle! The King of Iron Fist Tournament 7 ***
Capitolo 13: *** Luck of the Irish ***
Capitolo 14: *** Everything Burns! ***
Capitolo 15: *** Prigionia ***
Capitolo 16: *** Dancer in the Dark ***
Capitolo 17: *** Bring me to Life. ***
Capitolo 18: *** The River ***
Capitolo 19: *** Training? ***
Capitolo 20: *** La Voce della Coscienza ***
Capitolo 21: *** La Pared ***
Capitolo 22: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Runaway Killer ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

1 – Runaway killer .

 

Nina Williams era una donna che vendeva cara la pelle, la cui fama di infallibile ed implacabile killer era ben nota ed apprezzata dai suoi potenti clienti.

Clienti che, almeno in Giappone, erano sprofondati nella più nera disgrazia: la Mishima Zaibatsu era crollata, trascinando con se il regime dittatoriale e le vite di Jin Kazama e dei suoi consanguinei Kazuya e Heihachi Mishima. Accartocciata su se stessa sia la struttura fisica di quel colosso che aveva fatto tremare il mondo, con i suoi laboratori pieni di esperimenti genetici, sia gli ultimi tre membri di quella stirpe maledetta.

Ammesso e non concesso che non ci fosse in giro qualche altro piccolo erede in procinto di venire al mondo: d’altronde, anche Kazuya si era concesso qualche ora di svago prima di venir gettato in un vulcano, e se fosse stato vero il detto “Tale padre, Tale figlio”, probabilmente l’umanità avrebbe avuto ancora qualche demone psicolabile con cui fare i conti.

 

Ma questo non aveva importanza in quel momento.

Il crollo della Mishima Zaibatsu, in concomitanza con la fine del Sesto Torneo del Pugno d’Acciaio, aveva scatenato una caccia aperta ad ogni loro fiancheggiatore, alleato, aiutante.

E Nina Williams da cacciatrice era diventata preda. Ambita, per altro, da più fronti. Qualcuno voleva la sua testa, altri forse i suoi servizi. Ma tutti la stavano comunque cercando con il mitra spianato. Un po’ impossibile capire le intenzioni delle varie fazioni mentre si veniva inseguiti da un elicottero militare, tra i sibili dei proiettili.

Molto meglio sparire per un po’, tagliare la corda in fretta e furia e restare nascosta in attesa che le acque si fossero calmate.

Era una donna che ragionava per obbiettivi, una volta focalizzata l’attenzione su uno di essi, si prodigava anima e corpo per riuscirvi, dopodiché si concentrava su un altro obbiettivo e così via.

Il suo obbiettivo primario era quello di lasciare Tokyo, seminando coloro che la stavano attaccando il più velocemente possibile.

 

A rendere ulteriormente difficoltosa la sua fuga, ci si era messa pure la pioggia.

Un mezzo nubifragio che stava mandando in tilt il traffico cittadino, già messo a dura prova dai disordini scoppiati dopo l’evento e che faceva depositare il nuvolone di polvere e il fuoco dell’esplosione del grattacielo della Mishima Zaibatsu.

E che la stava intralciando davvero troppo.

La moto le era scivolata via durante una curva, e solo i suoi pronti riflessi l’avevano salvata dal finire schiacciata tra le ruote di un camion. Aveva iniziato a correre, mentre i lampeggianti di una qualche unità speciale le si avvicinavano. Si gettò tra i vicoli della città, concentrata sulla strada da percorrere, per non trovarsi in un vicolo cieco.

Sentì quattro colpi alle sue spalle, e decise che era meglio darsi alla fuga sui tetti: era da un po’ che non sentiva il rombo dell’elicottero, avrebbe avuto più opportunità di salvezza. Saltò sulle scale anti-incendio di una palazzina. Vedendo i nemici avvicinarsi si lanciò nel palazzo di fianco, aggrappandosi su un palo.

Una scivolata sul cornicione che poteva risultare fatale e di nuovo tra le scale antincendio di palazzine anonime. Finché qualcosa le entrò dritto nel polpaccio, in un’esplosione di dolore.

Strinse i denti, perdendo l’equilibrio, cercando disperatamente di trascinarsi sulla scala.

Ultimo piano. Capolinea? Nonostante il dolore atroce e la gamba quasi inutilizzabile, fece un ultimo tentativo. Una breve rincorsa sofferta e il salto verso la ricco palazzo di fronte, separato solo da un paio di metri.

La mano sinistra che si aggrappava sul davanzale della finestra. La presa che le sfuggiva da sotto le dita. La destra che arrivava troppo tardi e la caduta.

La fronte che andava a sbattere contro il davanzale più sotto spense la luce.

 

 

 

 

Buongiorno a tutte!

Una nuova Ff in un fandom a me completamente nuovo! Vedremo come andrà a finire!

Nina Williams è uno dei miei personaggi preferiti del mio videogioco preferito di tutti i tempi: lo seguo dal 1997, l’anno in cui mi regalarono la mia prima Playstation, e da allora non ne posso più fare a meno, e conto i giorni che mi separano dall’acquisto della PS3 e del 6° capitolo!

Non ho mai trovato un uomo alla sua “altezza” prima di Sergei Dragunov, e ho avuto l’ispirazione per questa storia.

 

Recensite numerosi!

EC

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Una Gatta Ferita ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

2 – La Gatta Ferita.

 

La svegliò il dolore alla gamba. Non aprì gli occhi prima di essersi accertata di non essere legata. Rendendosi conto che nulla impediva i suoi movimenti, Nina cercò di alzarsi, con l’intenzione di toccarsi la gamba ferita. Un violento capogiro la fece quasi desistere, e dovette lottare contro la sua debolezza per mettere a fuoco l’ambiente che la circondava e le sue condizioni fisiche.

La stanza in cui si trovava era avvolta nella penombra. Si trovava tra le lenzuola di un letto matrimoniale, dalla testata imbottita a cui si appoggiò, faticosamente, per riuscire a guardarsi intorno meglio. Appena i suoi occhi si furono abituati alla semioscurità, notò che sul comodino più vicino a lei vi era appoggiata una scatola di primo soccorso, traboccante di garze e disinfettante. Il suo sguardo di ghiaccio vagò per la stanza, scoprendo un armadio a muro Laccato di bianco, un tavolino con un Pc portatile acceso, una televisione al plasma attaccata al muro e un puntino rosso nell’angolo più buio, di fianco alla porta finestra dalle imposte chiuse. Il puntino rosso pulsò ulteriormente, diffondendo un lieve alone del medesimo colore, e alle narici della donna arrivò l’acre odore di tabacco. Senza volerlo tossicchiò.

“Non l’avrei mai detto” la voce maschile dall’accento russo, proveniva da dietro al puntino, “che la infastidisse l’odore del fumo.” Il puntino scomparve.

Il cuore della donna fece un balzo: i russi erano una fazione a sé stante, indipendente da tutte le altre che avevano partecipato alla guerra causata da Jin Kazama. E di certo non era il massimo cadere nelle loro mani. Non avevano una buona reputazione con i prigionieri. Boskonovitch era uno di loro, anche se lavorava per la Mishima Zaibatsu, e il risultato dei suoi esperimenti l’aveva constatato sulla sua pelle. E sulla propria memoria.

Prima che potesse azzardare una parola, l’uomo accese la lampada al suo fianco, puntando i suoi occhi, di un azzurro dolorosamente gelido, nei suoi.

Sergei Dragunov.” Decretò la donna, con un accento sprezzante nella voce. La sua disgraziata fuga l’aveva condotta dritta verso un lupo siberiano affamato di distruzione. Non male come risultato. Cercò di mettersi sulla difensiva, ma una fitta alla gamba la distrasse.

“Stia ferma.” Ordinò l’uomo, alzandosi dalla poltrona e avvicinandosi lentamente a Nina. Indossava la camicia bianca della divisa, con le maniche arrotolate sugli avambracci, i pantaloni militari e gli stivali. Tolse il lenzuolo che copriva la donna, con un gesto secco, senza che lei riuscisse a fermarlo, e le fissò la gamba. Lo sguardo di Nina seguì il suo.

La stoffa della tuta, tagliata appena sopra il ginocchio scopriva il polpaccio gonfio e violaceo, un cerotto sporco di sangue copriva la ferita. Imprecò mentalmente. Con quello non sarebbe riuscita di certo ad andare da nessuna parte.

“L’ho vista lanciarsi su questo palazzo, scivolare e colpire il cornicione. L’ho presa al volo. Ringrazi i miei riflessi, o sarebbe nelle mani degli americani. Le posso assicurare che ce l’hanno con lei e gradirebbero avere la sua testa su un piatto al posto del tacchino del Ringraziamento.”

“Fa anche del sarcarsmo? Come se fossi finita in mani migliori…” sibilò la donna con un moto di stizza. Gli occhi gelidi e i lineamenti duri del militare russo la trattennero dal tentare qualsiasi tipo di attacco.

 L’uomo prese dalla cassetta delle medicazioni un paio di guanti di lattice e se li infilò, senza dire una parola, prima di sedersi sul letto e di prendere in mano la gamba della donna, per esaminarla. Lei si morse il labbro, trattenendo una smorfia di dolore.

“Le ho tolto il proiettile, mentre era svenuta” la informò, togliendo il cerotto insanguinato. “Le si era conficcato nel muscolo, è stata fortunata, non ha leso né tendini né nervi, e non ha intaccato l’osso. Questione di millimetri.”

Un taglio lungo una spanna le attraversava il polpaccio, solcato dal filo nero di sutura. “Sta facendo infezione” notò la donna, volgendo lo sguardo altrove, disgustata. L’uomo asserì, poi si allungò di nuovo verso la cassetta e riempì una siringa con un siero lattiginoso, che iniettò direttamente nel taglio.

Nuovamente, Nina si morse le labbra.

“Questo è un potente antibiotico, e anche un anestetico. Farà sparire l’infezione in un paio d’ore. E questo” prese in mano una bomboletta spray e la puntò sulla ferita. Il getto fresco diede un istante di sollievo alla gamba della donna.  “la farà cicatrizzare più velocemente.”

 

Una volta posto un nuovo cerotto, radunò gli oggetti nella cassetta e la chiuse. Poi buttò via i guanti e si risedette sulla poltroncina di pelle rossa a fianco della finestra, dopo aver aperto le imposte automatiche, senza smettere di fissarla, con le mani incrociate sul petto.

“Da quanto tempo sono qui?” domandò la donna, lo sguardo al di là dei vetri. Fuori continuava a piovere.

“Tre ore” rispose velocemente l’uomo. “E siamo all’Hotel Imperial” aggiunse, anticipando la sua risposta.

“E a quale motivo devo l’onore delle sue cure, Mr Dragunov?”

Lui si accese un’altra sigaretta, studiandola. Non mostrava alcuna espressione, nulla trapelava da quegli occhi quasi bianchi. “Perdoni la mia maleducazione, se non le offro una sigaretta, ma il tabacco interferisce con il medicinale che le ho somministrato. Temo dovrà attendere un paio di giorni, prima di fumare”

Sta cercando di farmi perdere la pazienza. Pensò Nina, appoggiandosi impassibile alla testiera del letto. Devo mantenere la calma. Rimase a fissarlo per alcuni minuti, senza dire nulla, attendendo una risposta o una sua mossa.

Era una preda, ma avrebbe lottato con tutte le sue forze prima di soccombere. Avrebbe lottato con le unghie e con i denti, qualsiasi cosa fosse successa. E doveva farglielo capire.

Dragunov finì la sua sigaretta e la spense, poi aprì la finestra per cambiare l’aria ed accese la televisione, accomodandosi sempre sulla sua poltroncina.

Il telegiornale trasmetteva immagini di guerriglia urbana e di distruzione. La città era nel caos. I tumulti si mescolavano ai festeggiamenti degli oppositori del regime. Qualcuno sputava sulle macerie della Mishima Zaibatsu.

Un’immagine fugace mostrava una disperata Xiaoyu portata via in spalla da Paul Phoenix e seguita dal suo Panda.

Altri partecipanti al torneo si davano alla fuga, altri si univano ai festeggiamenti, come quella mocciosa monegasca che saltellava alzando la gonna e mandando in visibilio chi la circondava. Il rosso coreano se ne andava in sella alla sua moto, la ragazzina di Osaka dietro di sé, che gli cingeva la vita e sembrava singhiozzare, mentre le immagini si spostavano sul cadavere di Heihachi Mishima, primo recuperato dalle rovine, che veniva trascinato in un obitorio.

La giornalista diffuse poi la lista e le foto dei ricercati.

Prima su tutti lei, Nina Williams, riuscita a scappare ad un inseguimento delle forze statunitensi.

Poi  sua sorella Anna, scomparsa immediatamente dopo il torneo.

Lars Alexandersson, visto fuggire su una jeep.

Anche Lee Chaolan risultava disperso, ma non ricercato.

Dragunov spense improvvisamente la televisione. “Pare che non abbia scampo, Miss Williams”

“Non mi dice una cosa nuova.”

“Siete disposta a trattare sulla vostra vita?”

Nina sostenne di nuovo lo sguardo, dura. “Dipende da cosa proporrete.”

“Non ora.” Il militare si alzò, avvicinandosi al mobile bar. Si versò un bicchiere di liquore e lo degustò. “Evito di offrirvelo a causa di medicinale, non per maleducazione” aggiunse con un ghigno.

“Sono curiosa di sapere a cosa devo questo interesse sulla mia salute”

Posando il bicchiere vuoto, l’uomo si voltò nuovamente verso la donna e si avvicinò al letto. Posò un ginocchio sul materasso. “Le sue capacità sono uniche al mondo, Miss Williams. Se accetterà i termini dell’accordo che le proporremo, e se lavorerà per noi come richiesto, sono sicura che non avrà di che pentirsene.”

Appoggiò una mano e poi l’altra, avvicinandosi alla donna che lo fissava impassibile, cercando di nascondere il disagio e la rabbia che fremeva sotto la sua pelle. Dragunov le spostò una ciocca dal volto, studiandolo. “Con questi tratti non avremo difficoltà a farla passare per cittadina russa, se imparerà alla svelta la nostra lingua.” Le alzò il mento con le dita. “Un volto pressoché perfetto” dichiarò, senza comunquemostrare nessun tono di ammirazione, come se stesse guardando una macchina, o una casa ben costruita, e non una delle donne più letali al mondo.

Il profumo del suo dopobarba stuzzicò le narici di Nina. Era forte, molto maschile, ma, contrariamente all’uomo che lo indossava, non la infastidiva. Forse era al muschio bianco. Gli odori delle persone rimanevano sempre impressi nella sua memoria, come se al posto del suo nasino ci fosse un tartufo canino.

Sua sorella usava Chanel 5. Le piaceva lasciare una scia al suo passaggio.

Jin Kazama non aveva odore. Nessuno. Forse era la sua natura demoniaca a privarlo anche di questa caratteristica umana.

Kuma, l’orso di Heihachi Mishima, profumava curiosamente di sapone di Marsiglia, come se lo lavassero insieme al bucato.

E Steve… beh, le era stato vicino solo per una frazione di secondi. Eppure Nina aveva ben impresso dentro di sé il profumo fresco di deodorante maschile, quello per giovani ragazzi che vogliono dimostrarsi sensuali e grandi.

 

Il volto dell’uomo si avvicinò al suo, e non si fermò nemmeno quando la donna si voltò appena dall’altra parte. La furia le montava in petto, quell’uomo doveva ringraziare solamente la sua gamba infortunata se non si era già trovato all’altro mondo.

Sentì il fiato caldo di Dragunov solleticarle il collo. Cercò di rimanere impassibile, stringendo le lenzuola tra le dita. Se solo avesse allungato le mani quel maledetto russo si sarebbe ritrovato con qualche dito in meno.

Quel bastardo se ne stava approfittando troppo, come osava…

“E’ il caso che lei faccia un bagno.” Disse improvvisamente, facendola trasalire dalla meraviglia. Si scostò da lei e la prese rudemente in braccio, strappandole un’imprecazione di protesta mista a dolore. La portò in bagno, facendola sedere al bordo vasca, mentre con una mano armeggiava con i rubinetti, l’altra le teneva saldamente un polso.

“Non ho di certo intenzione di fare il bagno con lei” sibilò inviperita, cercando di prendere di nascosto un rasoio che aveva adocchiato sul lavandino.

Lui non si scompose, mentre l’acqua bollente scrosciava nella vasca. “Questa vasca sarebbe troppo stretta per entrambi” L’anticipò sul rasoio e se lo infilò in tasca. Si allontanò dalla vasca e sistemò un paio d’asciugamani puliti vicino alla vasca. “Le sconsiglio di bagnare la ferita, o di forzare la gamba. Quando avrà finito mi chiami.”

Uscì dalla stanza da bagno ignorando la richiesta di Nina di lasciarle la chiave per chiudere la porta.

La donna ringhiò dallo sconforto, non trovando altro da sfogarsi che gettare un boccetto di bagnoschiuma nella vasca.

Aveva indubbiamente bisogno di lavarsi. I capelli erano ancora umidi dalla pioggia, così come i vestiti, e si sentiva infreddolita. Gli avvenimenti delle ultime ore l’avevano spossata più di quanto potesse ammettere a sé stessa, e forse il fatto di trovarsi in una stanza con un uomo che non pareva intenzionato ad ucciderla o torturarla a morte non era la cosa peggiore che potesse capitarle. Ammesso e non concesso che non cambiasse idea.

Vinse la sua riluttanza a spogliarsi. Se il russo fosse entrato in quel momento non avrebbe fatto fatica ad avere la meglio su di lei, nelle condizioni in cui si trovava. Ma anche restare vestita sul bordo della vasca non era di certo una soluzione al problema. Se Dragunov l’avesse voluta, avrebbe potuto approfittare di lei nel suo stato di incoscienza,(chi poteva dirlo che non l’aveva fatto? Pensò con un brivido di ribrezzo) o più tardi, aveva tutto il tempo a sua disposizione per giocare con la sua preda. Si lasciò scivolare nell’acqua, facendo ben attenzione a lasciar fuori la gamba ferita.

Quell’uomo aveva il coltello dalla parte del manico, al momento. Forse non era il caso di opporre troppa resistenza. A tempo debito si sarebbe vendicata.

Eccome.

Avrebbe trovato il tempo e il modo per farlo.

Si passò le mani tra i capelli biondi, prima di riempirli di shampoo.

Nina Williams era una gatta dalle nove vite, e se la sarebbe cavata a costo di giocarsi tutte quelle che le erano rimaste.

 

 

 

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Subito al secondo capitolo, ero in vena!

Ecco l’entrata del nostro gelido Sergei, come promesso! Tra l’altro…. Non sono riuscita a farlo parlare meno di così… si sta rifacendo dopo il silenzio di Tekken 5 DR (chissà se nel 6 lo faranno parlare, poraccio)

Desiderate altro? Ah, si… quello! Beh, vedremo... diamo tempo al tempo….

Grazie mille per le recensioni!

X Miss Trent: ho letto le tue fic su di loro ieri, le ho trovate troppo belle, prima di sedermi al tavolo e scrivere la mia. Pensavo inizialmente di essere l’unica pazza che accoppiava Nina a Dragunov (ti dirò, mi era quasi balenata l’idea di Nina – Raven), ma per fortuna non soffro di solitudine! Non vedo l’ora che tu continui la tua storia…

A la prochaine!|

EC

 

 

 

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Capitolo 3
*** Waiting for new Orders ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

3 – Waiting for new orders.

 

Uscì dal bagno cercando di coprirsi il più possibile con l’accappatoio. La sua tuta era lurida e lacera in più punti, inutile utilizzarla di nuovo. Forse il russo aveva provveduto a recuperare qualche capo d’abbigliamento, oppure se li sarebbe trovati lei, magari rubandoli alla cameriera del piano dopo averla tramortita.

Saltellò sino al letto, ignorando l’uomo, che nel frattempo si era seduto al tavolino con il computer e stava digitando qualcosa. Lui gettò un occhio al di là dello schermo. “Le avevo detto di chiamarmi quando aveva finito”

“Posso farcela benissimo da sola.” Rispose dura la donna, sedendosi sul letto e aggiustandosi la spugna dell’accappatoio. Le imposte erano ancora aperte, ma non arrivava più alcuna luce dalla strada.

Calcolò l’orario. Quando era montata sulla moto, il piccolo display sul cruscotto segnava le ore 15.10. La sua fuga non era durata tanto. Tre ore di incoscienza e una mezz’ora abbondante di toeletta facevano presupporre un orario attorno alle 19. L’imbrunire. L’ora di cena.

Con l’oscurità della notte la sua fuga sarebbe stata più facile. Doveva solamente sbarazzarsi di quell’uomo…

La lotta corpo a corpo era da escludere. In quel caso lui era nettamente in vantaggio. Si guardò rapidamente intorno alla stanza alla ricerca di una qualche arma. Possibile che Dragunov non avesse con sé una pistola, un fucile, una qualche fottuta arma da fuoco? E possibile che non l’appoggiasse da nessuna parte?

Si diede della sciocca a pensare ad una simile alternativa. Sembrava un uomo meticoloso, dai piani accurati. Di certo non avrebbe commesso l’errore di lasciare un’arma incustodita, con un’assassina professionista in camera.

Se fosse riuscita a sedurlo, avrebbe potuto far uso di una qualche tecnica immobilizzante, mentre era vicino a lei, oppure mettere mano al rasoio che aveva in tasca e ficcarglielo nella gola.

TSK! Altra stupidata:  pur supponendo ottimisticamente che Dragunov cedesse alle sue grazie, di certo non c’era da sperare che le avrebbe lasciato molta libertà d’azione.

Doveva escogitare qualcos’altro.

E comunque, a che fine sarebbe andata incontro riuscendo a liberarsi? Dove sarebbe andata? Che avrebbe fatto? Con il Sindacato e la Mishima Zaibatsu fuori gioco, che scopo poteva prefiggersi?

Ritirarsi a El Paso e andare a lavorare in un negozio di dischi?(*)

Pensandoci, il patto con i russi che Dragunov le aveva accennato non era una proposta da gettare al vento. Non aveva alternative migliori, quindi avrebbe forse fatto meglio ad accettare, al momento, preparandosi al giorno in cui sarebbe riuscita a far perdere le proprie tracce o avesse trovato di meglio.

Si. Non aveva altra scelta.

Si accomodò meglio sul letto, alzandosi la gamba e aggiustando i cuscini contro la testiera del letto, prima di appoggiarsi. Rimasero in silenzio, con Dragunov che continuava a lavorare al computer e lei che perdeva il suo sguardo fuori dalla finestra e in giro per la stanza.

“Cosa stiamo attendendo?” domandò infine.

Senza alzare gli occhi dallo schermo, l’uomo rispose: “ Fuori c’è il caos, ho ricevuto l’ordine di non lasciare questo hotel e di tenerla in custodia” fece per accendersi un’altra sigaretta, ma cambiò idea all’ultimo minuto, infilandola nuovamente nel pacchetto. “Una cosa decisamente seccante.”

“Avermi in custodia?”

“Non avere il permesso di partecipare alla battaglia là fuori. Spero che il comando sia clemente e mi dia ordine di sgranchirmi le gambe”. Pronunciò le ultime parole con le labbra increspate da un ghigno sadico. Quell’uomo doveva far fuoco e fiamme se lanciato in mezzo alla guerriglia. Peggio di un Jack. O di lei.

Sarebbe stato un avversario interessante con cui battersi.

Qualcuno bussò alla porta e Dragunov si alzò, estrasse una pistola dallo stivale e si avvicinò all’entrata, senza aprire, domandando chi fosse.

Una voce rispose in russo e Nina sentì aprire la porta. Dragunov e l’ultimo arrivato scambiarono qualche breve frase nella loro lingua, poi si salutarono e la porta si richiuse.

L’uomo ricomparve nella stanza, lanciando a Nina un involucro di plastica. Poi appoggiò un pacchetto al tavolino vicino al computer e lo aprì. Guardò disgustato il contenuto, cibo giapponese take away, prima di prenderne una porzione e mangiarla lentamente, appoggiato alla finestra.

L’involucro che aveva lanciato a Nina conteneva un paio di pantaloni neri, due camicie del medesimo colore, qualche cambio di intimo e una giacchetta di pelle rossa. “Il governo russo ha provviste di vestiti femminili?”

Dragunov non rispose, continuando a biascicare il suo pranzo, guardando fuori dalla finestra. Si sentiva ancora qualche scoppio in lontananza, e la donna poteva giurare di averlo sentito borbottare nella sua lingua natia qualche imprecazione: chissà quanto stava rodendo per non poter partecipare agli eventi.

Approfittò della sua distrazione per togliersi l’accappatoio e infilarsi l’intimo e una camicia. Desistette all’ultimo momento ad infilarsi i pantaloni. La gamba era ancora un po’ gonfia e dolorava. Si coprì quindi con le lenzuola. Il russo si voltò verso la donna mentre si stava sistemando la coperta. “Mangia” le ordinò solamente, indicando il resto del cibo. Rispose che non aveva fame.

Dragunov le si avvicinò nuovamente, trafiggendola con il suo sguardo impassibile: “Ho ricevuto l’ordine di tenerla in vita ed in discreto stato di salute, in modo che sia capace al più presto possibile di partecipare alle missioni che le verranno assegnate. Questo comprende provvedere alla sua alimentazione, Miss Williams.”

A Nina sembrò per un attimo che quegli occhi di ghiaccio si posassero sul suo seno, a stento contenuto nella camicia scura. La cosa le diede inaspettatamente un istante di sollievo: significava che neppure quel russo dai lineamenti affilati poteva restare impassibile davanti al suo fascino. Una cosa che avrebbe giocato a suo favore al momento necessario.

Accettò, con marcata riluttanza, la porzione di riso ai germogli di soya che gli porgeva l’uomo, mangiandola lentamente. Dopo qualche minuto gli domandò di accendere il televisore e lui acconsentì, togliendo però l’audio. Il notiziario continuava a riportare le immagini del caos in città. Da quello che poteva capire, anche i cadaveri di Jin Kazama e di Kazuya Mishima erano stati recuperati.

Quindi questa volta sono morti davvero.  Concluse, con sentendosi francamente sollevata. Si concentrò sulle immagini, cercando volti conosciuti tra la folla delle persone festanti o combattenti. Quando vide una chioma bionda sperò che avessero inquadrato Steve Fox, ma si sbagliava. Che fine aveva fatto?

Dicono che l’istinto materno porti a percepire quando il figlio è in pericolo o meno. Lei ce l’aveva un istinto materno? Non aveva provato nulla, o quasi, quando era stata informata di essere la madre di Steve, eppure non aveva premuto il grilletto (non ce l’aveva fatta! Per la prima volta nella sua vita!) quando l’aveva a tiro. E poi si scopriva a curiosare tra le notizie sportive, alla ricerca dei suoi successi di boxe. E ad assistere ai suoi incontri negli ultimi due tornei del Pugno d’Acciaio, sentendo un moto d’orgoglio pulsare dentro di lei alle sue vittorie.

Chissà se Steve aveva fatto lo stesso?

Si sentì piombare addosso una stanchezza incredibile, che la svuotava da ogni energia. Per la prima volta nella sua vita sentì l’impellente bisogno di trovarsi davanti quel ragazzo dai capelli dorati e dal destro micidiale.

Come si erano sgranati i suoi occhi a trovarsela davanti,  prima di salvarla da una pallottola di Lei Wulong!

E l’unica parola che gli aveva rivolto, era stata un ringraziamento. Poteva ritenersi fortunato il ragazzo. Pronunciarla per lei era una cosa più unica che rara.

 

La luce nella stanza sfarfallò e si spense. Beh, ci mancava solo l’interruzione della corrente. Pensò tra sé e sé, mentre Dragunov sembrava a malapena essersene accorto.

Buio in stanza e fuori, rumori attutiti dalla moquette sul pavimento, nessun’altra presenza nei dintorni. Se solo avesse avuto la sua gamba integra, il russo avrebbe avuto i secondi contati.

Fanculo al proiettile e a quel bastardo del marine che l’aveva sparato.

Il computer emise un suono di richiamo, e l’uomo si avvicinò per controllare. Sembrò leggere qualcosa, poi spense il portatile.

“Domani mattina verrà un agente scelto a farle da guardia. Io potrò unirmi ai combattimenti, e domani sera, con il favore delle tenebre, verrà trasferita con un volo speciale a Mosca. Il quartiere generale mi informa che lei è sotto la mia responsabilità. Perciò le sconsiglio caldamente di fare la sciocca.” Disse, prendendo quella che sembrava una piccola lampada da tavolo a pile, e sistemandola sul tavolino.

Nina dovette far ricorso a tutto il suo self control per non puntare alla sua giugulare. L’uomo si sbottonò la camicia e si allentò la cinghia dei pantaloni, prima di gettarsi sul letto, indossando ancora gli stivali. Una breve occhiata della donna bastò per confermarle che la pistola si trovava ancora nascosta lì.

Dragunov chiuse gli occhi, abbandonandosi al sonno.

Nina finse di fare la stessa cosa.

 

Un’ora dopo, il respiro regolare dell’uomo la convinse che si era ormai addormentato profondamente. Aprì gli occhi, lasciando che le iridi azzurre si abituassero all’oscurità. Quando finalmente riuscì a focalizzare la sagoma di Dragunov  sul letto, scivolò delicatamente tra le lenzuola, ignorando l’ormai usuale fitta di dolore, e allungò la mano verso lo stivale. Doveva fare molta attenzione: un movimento fluido e veloce per sfilare la pistola e poi puntarla sull’uomo. Si sarebbe trovato una pallottola in mezzo agli occhi senza nemmeno avere il tempo di accorgersene e intervenire.

E poi? Un’altra fuga precipitosa? Probabilmente nello stabile non erano gli unici, vi erano altre guardie pronte ad intervenire. Braccata di nuovo, e questa volta con ancora meno chance di successo.

Che stronzata. Arrestò la mano a pochi millimetri dall’obbiettivo e la ritirò, con il solito movimento fluido. Tornò alla sua posizione, mordendosi il labbro inferiore.

“Ti pensavo effettivamente più sciocca.” La voce profonda dell’uomo la fece trasalire. Doveva prevederlo che avrebbe dormito con un occhio aperto, data la sua compagna di stanza. L’uomo si sedette e accese la lampadina da tavolo, per poi togliere la pistola dallo stivale. La puntò contro la donna, che si preparò a scattare di lato, e premette il grilletto.  

CLICK.

Le labbra si incurvarono un ghigno crudelmente divertito, quando vide la donna gettarsi dal materasso e atterrare dolorosamente su un fianco. “E’ scarica” aggiunse, come se non fosse abbastanza ovvio.

Nina sentì una scarica di rabbia scuoterla da capo a piedi. Si mise in piedi stringendo i denti. Nessuno, sulla faccia della terra, poteva prendersi gioco di lei e permettersi di respirare ancora senza aiuti l’ausilio di macchine . Saltò verso Dragunov d’istinto, colpendolo con il taglio della mano sul collo. L’uomo accusò il colpo, spostandosi di qualche centimetro e piegando la testa. Nina ne approfittò per colpirlo nuovamente, a palmo aperto, sulla cassa toracica. Dragunov cadde all’indietro.

L’aveva sottovalutata, e ne avrebbe pagato le conseguenze.

Mentre attraversava il materasso per colpirlo di nuovo, Dragunov balzò in piedi, stendendola con un pugno allo stomaco che la lasciò senza fiato.

Nina tossì, tentando di respirare e contemporaneamente allontanarsi da lui, furente. Dragunov rimase immobile per qualche istante, dritto di fronte a lei. Poi si massaggio il collo, si accarezzò il mento lentamente, e le diede della stupida. “Non c’è che dire, Miss Williams, lei non è una persona che si arrende facilmente. Mi avevano avvertito che non fosse di certo un agnellino…

Il soldato l’afferrò per una caviglia tirandola verso di sé. Il tentativo della donna di aggrapparsi a qualcosa fu inutile. Tentò un altro attacco, che questa volta il russo parò, bloccandogli il polso sul materasso. La girò con forza, afferrandole anche l’altro braccio, torcendolo dietro la schiena. Nina si dimenava debolmente, accecata dall’odio e dalla rabbia. Con una semplicità incredibile, come se stesse immobilizzando un bambino, Dragunov le legò i polsi dietro la schiena,

Le mani dell’uomo scesero poi sulle sue gambe. Nina lo sentì tener fermo la gamba sana, e prendere in mano l’altra.

“Stupida” ripeté. “Hai fatto saltare i punti”

Torcendo il collo per guardarsi il polpaccio, Nina vide una macchia di sangue allargarsi e inzuppare il cerotto.

Vinta, smise di dimenarsi e affondò la faccia tra i cuscini, mentre Dragunov medicava nuovamente la ferita.

 

Questa volta fasciò la ferita, invece di appiccicarvi il cerotto.

Lo sentì salire con le ginocchia sul letto e prenderle i polsi legati. “Ancora voglia di fare la sciocca?”  interpretò il suo silenzio come un no, e sciolse i nodi.

Nina si tastò i polsi doloranti: i segni della corda dell’accappatoio che Dragunov aveva usato le aveva lasciato dei segni rossi e brucianti. Si rigirò, trovandosi gli occhi pungenti dell’uomo piantati su di lei. Fece per scostarsi, ma lui la trattenne ulteriormente, chinandosi appena su di lei, attirato da qualcosa. Le passò un dito sul labbro, e solo in quel momento Nina si accorse di avere in bocca il sapore metallico del sangue. Doveva essersi morsa quando era stata colpita. Passò la lingua sul taglietto. Nulla di grave, aveva già smesso di sanguinare. Lo sguardo glaciale del russo passò dalle dita, appena rosse di sangue, ai suoi occhi.

Rimase piegato sulla donna, appoggiato su una braccio, ad un palmo da lei.

Scivolò sul suo volto, tergendo con le sue labbra i residui di sangue dalla bocca della donna. Nina lo lasciò fare, senza chiudere gli occhi. Si era ripromessa di non peggiorare le cose, di mantenere la pellaccia integra e di prendersi tempo per la sua vendetta.

La lingua dell’uomo si fece lentamente strada nella sua bocca, suggendone il sapore, prendendolo in se.

Il corpo dell’uomo si avvicinò al suo, le sue mani che si insinuavano sotto la stoffa nera della camicia, conoscendo la sua pelle centimetro per centimetro. Guidò le sue gambe ad incrociarsi attorno ai suoi fianchi, con la decisa delicatezza di chi ha tutto il tempo a sua disposizione per fare ciò che desidera.

Con il suo fiato sul collo e i centimetri della pelle che istante dopo istante aderivano a quelli di Dragunov, Nina gettò la testa indietro, quasi a concedersi ulteriormente a quella bramosa tortura. I brividi correvano per il corpo, e dovette ammettere a sé stessa che non erano di certo di ribrezzo. Dragunov l’aveva appena liberata dalla stoffa della camicetta, quando Nina si trovò a cavalcioni su di lui, una scarica di folle adrenalina che le impediva di rimanere indifferente e di lasciarlo lavorare su di lei.

Si strinse di nuovo a lui, trapassandone le iridi screziate di neve con le sue. Dentro di sé Nina apprezzò l’impenetrabilità di quegli specchi ghiacciati. Il gioco di sguardi non sembrava aver fine.

L’uno sembrava cercare di strappare qualcosa di profondo all’altro, un segreto, una confessione, forse una preghiera o il significato di ciò che stava succedendo.

Era solo uno stupido gioco tra cacciatore e preda? Tra prigioniera e carceriere? O era desiderio, quello che infiammava i lombi del soldato, incendiandola incendiava a sua volta?

Scelse di non farsi troppe domande, liberandolo dagli ultimi vestiti che gli erano rimasti e facendo lo stesso con lei, per poi tuffarsi sulle sue labbra.

Non gli avrebbe di certo dato la soddisfazione di poter giocare tranquillamente con una preda.

 

Tombola, ragazzi!

Come arvete capito, non siamo qui a pettinare le bambole.

Qui si gioca duro! XD.

Ed ora? Come andrà a finire?

Non smetterò mai di ringraziarvi per le vostre recensioni! Sono contenta che la storia piaccia,e  spero non vi “disturbi” questo capitolo!

EC

 

 

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Capitolo 4
*** Tokio - Mosca, solo andata. ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

4 – TokioMosca, solo andata.

 

Il rumore scrosciante dell’acqua svegliò Nina. Le imposte erano lievemente aperte, uno spiraglio di luce bigia entrava dalla fessura e illuminava la stanza. Probabilmente Dragunov era in bagno a prepararsi per la battaglia. Si stropicciò gli occhi, prima di controllarsi la gamba.

Nonostante tutto il movimento della notte precedente la medicazione pareva aver retto, le garze della fasciatura non erano macchiate di sangue. Si sedette in riva al letto, mano a mano consapevole a cosa si era lasciata andare nelle ore precedenti. Le venne in mente il titolo di un insensato B-movie d’azione di inizio anni ’90 che aveva guardato, annoiata, qualche mese prima: Sesso e Fuga con l’Ostaggio.

All’elenco di stronzate fatte nella sua vita doveva aggiungerci anche questa.

Se gliel’avessero raccontato, non ci avrebbe creduto neppure con prove tangibili che qualche ora prima aveva urlato a cavallo dell’uomo che, di fatto, la stava praticamente tenendo prigioniera e che, a conti fatti, voleva veder ridotto in poltiglia.

La reclusione in quella stanza la stava rendendo pazza. Gli era bastato solleticarla qua e là e –Tadan!-  ecco che lei non solo cedeva, ma partecipava attivamente (e con eccezionale gusto) all’evento.

Chissà quanto ne era soddisfatto, quel bastardo cosacco, di essersi portato a letto Nina Williams.

Fece appena in tempo a formulare quel pensiero, che Dragunov comparve dalla porta del bagno, i capelli corvini allacciati nel solito codino, e la tuta da combattimento addosso. Grugnì una specie di saluto, prima di sedersi sulla solita poltroncina ed infilarsi gli anfibi. Diede un’occhiata all’orologio. “Tra cinque minuti arriverà la tua nuova guarda. Per le 11 in punto è prevista una tua visita medica e alle 12 e 40 arriverà il tuo pranzo.” La informò, completando l’equipaggiamento con una cintura multifunzione e un corpetto anti proiettile, senza guardarla.  “Tornerò alle  15 e 30. Alle 18 avremo il volo per Mosca”

“Ricevuto” annuì la donna alzandosi e dirigendosi in bagno, facendo in tempo a notare, con una punta di soddisfazione, lo sguardo di lui fiammeggiare nella sua direzione. 

Quando ne uscì, se lo ritrovò davanti, sulla porta. Gli gettò uno sguardo immobilizzante, che Nina sostenne. “Vuoi farmi le tue raccomandazioni?” domandò sarcastica.

L’uomo restò un istante in silenzio, poi rispose, con una vena sottile d’ironia: “Si, non essere eccessivamente gentile con chi ti farà la guardia oggi.” La punta del suo pollice seguì la curva morbida del mento della donna. “Io non vado nei guai per certe azioni. Ma non tutti hanno questo privilegio”

La donna distolse il contatto con un movimento secco del volto. “Non spreco la mia gentilezza con nessuno”

Un piccolo ghigno canzonatorio comparve per una frazione di secondo sulle labbra sottili e livide del russo. “Mi era sembrato il contrario, la scorsa notte.”

“Non vantarti troppo delle tue conquiste con i tuoi compagni

Lui stava per ribattere qualcosa, ma un secco bussare alla porta lo interruppe. La stessa voce della sera precedente si presentò, e l’uomo aprì, facendolo entrare. Dragunov gli diede brevemente un paio di istruzioni in russo, mentre Nina recuperava la camicetta sgualcita e la indossava, faticando poi ad indossare i pantaloni scuri. Si sedette nella poltroncina di fianco alla finestra. Guardò oltre il vetro. Si intravedeva l’asfalto bagnato di una strada deserta. Anche se non pioveva forte, la giornata si prospettava comunque uggiosa.

Sentì la porta chiudersi e si voltò. Dragunov era uscito, senza nemmeno salutarla, e aveva lasciato il posto ad un ragazzo di circa vent’anni, dai capelli così biondi da sembrare quasi bianchi e gli occhi verdi. Il soldato la salutò con la mano alla fronte, cosa che Nina ricambiò annoiata, prima di mettersi in un angolo immobile come uno stoccafisso.

La giornata si prospetta lunga e tediosa pensò, volgendo lo sguardo di nuovo alla strada. Una jeep cabrio, senza capote, con tre soldati in tuta mimetica a bordo attraversò lo scorcio di carreggiata che poteva vedere e si fermò. Ne salì uno biondo, con il caschetto anti sommossa e, con la sua solita andatura lenta e decisa, Dragunov.

Senza sedersi, ma tenendo solo una mano sulla struttura di ferro, voltò appena il capo verso la finestra dell’Hotel Imperial, quasi per controllarla ulteriormente.

 

Erano le 15 e 31 minuti quando qualcuno bussò alla porta. Il soldato di guardia si avvicinò, fece una domanda nella sua lingua, l’unica frase che aveva detto durante la giornata, e che Nina risentiva per la terza volta. Gli rispose la voce profonda di Dragunov. Il ragazzo aprì la porta e l’altro entrò. Si salutarono con un gesto militare, poi l’ultimo arrivato si rivolse a Nina, seduta al tavolino dove lui teneva solitamente il pc, con lo sguardo annoiato alla televisione. 

“Si è comportato bene?”

“Non si è nemmeno seduto, è rimasto muto e impalato in quell’angolo per tutto il tempo.” raccontò, sbadigliando di noia.

L’uomo sembrò soddisfatto della risposta e porgendo il pacchetto di sigarette, si voltò verso il ragazzo,che ne accettò una di buon grado, ringraziandolo, e poi lasciò la stanza.

Nina guardò meglio il russo, che nel frattempo si era infilato un sigaro in bocca e lo fumava con aria soddisfatta. I suoi capelli corvini erano bagnati,  la tuta lercia. Vi erano tracce di fango sugli anfibi.

Tuttavia non sembrava stanco. Una vena di sadica euforia gli attraversava gli occhi, e anche l’andatura denotava l’orgoglio e l’esaltazione per il suo operato.

Si avvicinò alla finestra, gustandosi il sigaro in una nuvola di fumo.

Nina tossicchiò disgustata. “Puoi aprire? L’odore di sigaro mi fa vomitare.”

Borbottando qualcosa in russo, Dragunov aprì appena un vetro.

“Il programma si è svolto come prestabilito?”

“Il dottore ti fa i complimenti per il lavoro di sutura sulla mia gamba” rispose semplicemente. “E quello che mi ha portato il pranzo mi ha procurato anche qualche altro vestito” Indicò con il mento la poltroncina rossa vicino alla finestra. Sullo schienale aveva appoggiato un  pesante cappotto di pelle, foderato ed orlato di pelliccia e un lungo cardigan bianco. Per terra vi erano appoggiati un paio di stivali neri con il tacco.  Dragunov li fissò senza prestargli realmente molta attenzione.

 

“Divertito, oggi?”

Lui fece annuì lievemente con la testa. “Anche se il meglio c’è stato ieri. Ma non mi lamento, anche se ho avuto combattimenti di gran lunga migliori. L’ambasciata rimarrà qui a sbrigare le faccende burocratiche, ma il resto delle truppe tornerà in Russia domattina.”

Gettò il mozzicone del sigaro dal vetro, prima di togliersi  il giubbotto antiproiettile e abbandonarlo contro il muro. Gli anfibi seguirono la stessa sorte.

Guardò l’orologio. “ Tra un’ora e mezza lasceremo quest’albergo.” Le ricordò, prima di dirigersi verso il bagno.

 

Nina aveva radunato i vestiti all’interno della sacca di tela con cui le erano stati consegnati a mezzogiorno. Tentò di infilarsi gli stivali, ma il polpaccio era ancora troppo gonfio per riuscire a chiuderlo.

Dragunov uscì dal bagno, un asciugamano avvolto alla vita, mentre lei si lasciava scappare un’imprecazione di sconforto.

“Non importa. Tanto dovrai tenere la gamba sollevata e camminerai con le stampelle. Le porteranno qui quando ci verranno a prendere” le disse, gettandosi sul letto. Nina lo ignorava, accendendo la televisione. Si era decisa a non dare importanza a quello che era capitato la notte prima, a dimostrargli che, nonostante tutto, nulla fosse cambiato nei suoi confronti.

E pareva che anche Dragunov fosse intenzionato a fare la stessa cosa. Forse era stato un attimo di sbandamento anche per lui, nonostante sembrasse tutto d’un pezzo, ed aveva archiviato in fretta la faccenda.

Si, ma allora perché è vestito solamente di un asciugamano? Domandò una vocina fastidiosa dentro di lei.

Si concesse un fugace sguardo all’uomo. I muscoli sembravano quasi disegnati, anche se non erano tesi, ma rilassati tra il lenzuolo e i cuscini del letto.

Nella mente della donna balzò impertinente il ricordo dei suoi muscoli che si infrangevano contro di lei, della sensazione di stringere acciaio tra le sue mani, e di graffiare roccia nel momento più intenso.

Quasi si diede uno schiaffo per smettere di pensarci. Dannazione, era stata una scopata, indubbiamente buona, ma nulla di cui ossessionarsi!

Passarono pochi minuti, poi il russo si alzò a sedere, la fissò per qualche secondo, e poi, lentamente, la raggiunse.

Lo sguardo della donna seguitò ostentatamente a restare incollato al televisore, nonostante le dita dell’uomo giocherellassero tra i fili dorati dei suoi capelli. Finse di non accorgersene, o meglio, che non stesse accadendo. Lui insistette, facendo scivolare la mano lungo il collo da cigno, insinuandosi appena sotto il cotone della camicia.

“Hai già avuto la tua soddisfazione, Dragunov. Risparmiami il sequel.” Sibilò, con fare seccato.

“Avevo avuto l’impressione, la scorsa notte, che tu fossi d’accordo, Miss Williams” marcò il nome, come a ricordarle che avevano avuto una confidenza maggiore.

Negare l’evidenza sarebbe stato inutile, si sarebbe ulteriormente preso gioco di lei. “Cambio idea molto facilmente.” Fu la semplice risposta.

“Lieto di saperlo.” Con una mossa fulminea, l’uomo la sollevò dalla poltroncina e, incurante delle sue proteste, la lanciò sul letto.

“Ieri sera non sono riuscita ad ammazzarti, ma non fallisco mai una seconda volta” ringhiò la donna, preparandosi ad attaccarlo.

Lui rimase impassibile. L’asciugamano era un po’ scivolato su un fianco. Salì sul letto, ma non le andò incontro. Si sedette contro la spalliera, le braccia incrociate al petto, guardandola come se attendesse qualcosa, o le stesse dimostrando che non aveva nessuna intenzione di prenderla con la forza.

“Puoi rilassarti” le disse soltanto, gelido.

Nina si sciolse dalla posizione d’attacco, sedendosi a fianco a lui. Non lo avvertiva più come una minaccia. Dragunov aveva rivolto la sua attenzione al televisore, e glielo indicò con un cenno del capo.

Il filmato che stava passando lo mostrava mentre lanciava un fumogeno dentro ad uno stabile. La squadra dei russi entrò, maschere in volto e mitra al braccio.

“Chi c’era li dentro?”

“Resti dell’esercito di Kazama. Non li abbiamo fatti fuori. Non tutti, almeno” spiegò con una nota di rammarico nella voce.

Nina tentennò un attimo, poi si decise a fargli una domanda: “Si sa nulla di Steve Fox?”

Si sentì studiata dai suoi occhi. “Il pugile?” la donna annuì.

“Non ho sentito nulla a proposito di lui. Non è nei miei obbiettivi”

Non chiese altre spiegazioni, ma allungò lentamente un braccio verso di lei, come se stesse per accarezzare una fiera pronta a mordere o a fuggire. Le sfiorò la guancia, il collo, la spalla.

Ma Nina non gli diede corda, né si ritrasse. Si avvicinò quindi alla sua bocca, baciandola. La donna si lasciò scivolare sulla schiena, l’uomo sdraiato su di sé.

L’uomo si sbarazzò dell’asciugamano, premendo il corpo sul suo come se volesse fondersi con lei. Nina gli sfiorò la schiena, trovando con i polpastrelli i solchi delle sue unghie che aveva lasciato la notte precedente. Dragunov abbandonò la sua bocca per un istante, un breve ringhio di piacere a sottolinearlo. “Mi piacciono i tuoi souvenir” disse con voce roca strappando a Nina un sorrisetto sornione.

Un bussare energico alla porta e una voce maschile russa li interruppero.

 

Il volo partiva in anticipo, per motivi di sicurezza. Gli aeroporti civili erano stati presi d’assalto dalla gente in fuga, ed era meglio evitare intralci in quelli militari. In pochi minuti furono fuori dall’hotel, Nina che si reggeva sulle stampelle e Dragunov che la teneva d’occhio.

Salirono su una vettura nera, che sfrecciò alla volta dell’aeroporto. Passarono in mezzo ad una città devastata dalla guerra civile, tra auto date alle fiamme, palazzi sventrati dalle esplosioni e gente sbandata che non sapeva cosa fare.

Nina provò pena per loro. Ma ora era il caso di mettere in chiaro le cose tra lei e il russo che le sedeva a fianco, approfittando del fatto che fossero da soli in macchina.

“Hai già messo al corrente il tuo comando della notte scorsa?”

“No”

“E lo farai?”

“Se me lo domanderanno, si. Non hanno specificato nulla, a proposito. Quindi, non è una cosa rilevati ai fini della missione.”

“Vale a dire che non ti hanno ordinato di venire a letto con te?”

“Non mi hanno detto nulla a proposito. Ti hanno descritto come pericolosa ed utile ai fini delle attività di spionaggio e di riportati viva ed in buono stato di salute.”

“E che cosa dovrò fare per voi?”

“Quello che facevi per il Sindacato: le missioni che ti verranno assegnate.”

“E il pagamento?”

“Non so con quanti soldi verrai retribuita. Ma non credo saranno pochi. In più vitto, alloggio, attrezzatura. E continuerai a vivere.”

Erano arrivati all’aeroporto. Dragunov parcheggiò l’auto, prese il suo borsone e la sacca di Nina e le porse le stampelle per scendere.

“Non mi hanno ancora fornito spiegazioni più dettagliate, ma sono sicuro che per i primi tempi sarai sorvegliata 24 ore su 24. Dovrai meritarti la nostra fiducia.”

I soldati che sorvegliavano l’aeroporto li salutarono con la mano alla fronte.

Un piccolo aereo privato li attendeva sulla pista, pronto al decollo. Nina si arrampicò per i primi gradini con qualche difficoltà, essendo la scaletta bagnata le stampelle scivolavano. Dragunov diede le borse ad un soldato dietro di sé, tolse le stampelle a Nina con un gesto seccato e la sollevò come se fosse fatta di piuma, salendo le scale.

“Ce l’avrei fatta benissimo da sola” brontolò lei, una volta che si fu seduta su uno dei sedili. Il soldato portò i bagagli all’interno e appoggiò le stampelle vicino a Nina, dando una grossa busta a Dragunov prima di scendere.

L’uomo guardò il contenuto. Ne estrasse una lettera scritta in cirillico e la lesse accuratamente, poi allungò la busta a Nina.

Dentro vi era una piccola guida turistica di Mosca, con i principali servizi e una cartina della città.

“Su quella guida sono segnati i posti che ti è permesso frequentare.” La informò, prendendo posto di fronte a lei ed estraendo il computer dal borsone.

“Inoltre, ti informo che, data la mia responsabilità sul tuo operato e sulla tua persona, vivrai presso l’alloggio a me assegnato. Non fare quella faccia, c’è una stanza in più, al momento inutilizzata.”

Scuotendo la testa, con il serio dubbio che il comando russo della Spetsnaz fosse davvero all’oscuro della loro attività notturna, Nina diede un’occhiata all’opuscolo turistico: Piazza Rossa, Cattedrale di San Basilio, Teatro Bolsoj, vari musei…  “Niente Palazzo d’Inverno?”

Dragunov alzò un sopracciglio, gettandole un’occhiata al di là dello schermo. “No, quello si trova a San Pietroburgo.”

Mentre un lieve rossore imporporava le guance della donna, l’aereo iniziò la fase di rullaggio.

 

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Grazie ancora per le recensioni!

X AngelTexasRanger: mi dispiace anche a me per Jin, in fondo mi è sempre stato simpatico e non è stata tutta colpa sua, il casino che è successo. Non oso pensare ai traumi infantili che ha avuto…

X MissTrent: aiuto! Che analisi! Sono contenta che stia riscontrando il tuo gusto!!!

X Sackboy: direi che il solo nome Dragunov ti faccia saltare per aria… bene bene!

 

Grazie ancora, spero di rivedervi presto! (Questo Weekend c’è il GP a Monza, mi dispiace ma non so se riuscirò a scrivere qualcosa… ho dei ferraristi invasati che mi girano per casa, findendomi la birra e mangiandosi tutto ciò che c’è di commestibile –e anche non- sperimentando il dolby surround applicato alla diretta di Sky… mi sembra di avere Fisichella parcheggiato in salotto.)

 

Alla prossima!!!

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** On my (New) Way Home ***


Two Pairs of Chilling Eyes


 

5 –  On my (new) way home

 


 

I have been given
One moment from heaven
As I am walking
Surrounded by night,
Stars high above me
Make a wish under moonlight.

On my way home
I remember
Only good days.
On my way home
I remember all the best days.
Im on my way home
I can remember
Every new day.

I move in silence
With each step taken,
Snow falling round me
Like angels in flight,
Far in the distance
Is my wish under moonlight.

On my way home (ENYA – The Memory of the Trees))

 

Io sono stata donata
Un momento dal paradiso
Mentre sto camminando
Circondata dalla notte
Le stelle alte su di me
Esprimi un desiderio sotto la luce della luna.

Sulla mia strada di casa
Ricordo
Solo bei giorni.
Sulla mia strada di casa
Ricordo tutti i giorni migliori.
Sono sulla mia strada di casa
Riesco a ricordare
Ogni nuovo giorno

Mi muovo in silenzio
Con ogni passo fatto
La neve cade intorno a me
Come angeli in volo
Lontano nella distanza
È il mio desiderio sotto la luce della luna


 

               

L’aria di Mosca le era sembrata già gelida, nonostante non fossero nemmeno a metà settembre.

Chissà come doveva essere ad inverno inoltrato. Evitando di mostrare la sensazione di fastidio che le procurava il vento gelido sulle guance, Nina Williams scese dall’aereo senza dire una parola e senza degnare di un’occhiata il pilota e le due guardie armate ai piedi della scaletta. Una berlina di grossa cilindrata li attendeva, portiera aperta e autista in divisa militare, direttamente sulla pista, e la donna vi si infilò automaticamente, seguita da Dragunov.

Partirono subito senza dire una parola. Anche se non glielo aveva specificatamente detto, Nina si era sicura che la loro direzione fosse il comando principale della Spetsnaz. I russi sembravano non voler perdere tempo inutile, era sicura che le avrebbero concesso pochi giorni di riposo per far guarire la gamba, prima di darle missioni da svolgere.

L’automobile scivolò tra il traffico cittadino della capitale, ma la donna non si curò di cercare di scorgere qualcosa nel buio della notte al di là dei vetri dei finestrini. Non gli interessava.

Nessuno dei tre occupanti della vettura proferì parola, sino a quando questa parcheggiò in una piccola piazzola nel centro cittadino.

Dragunov scese per primo e disse qualcosa all’autista, che annuì, prima di risedersi in macchina. Poi accompagnò Nina all’interno dell’edificio più vicino, guardandola impazientemente, come se gli infastidisse il passo zoppicante che aveva a causa delle stampelle e volesse spingerla ad andare più forte.

Al di là della porta di vetro, pochi uomini in divisa militare camminavano per una hall decorata in marmo, i più diretti verso l’uscita, un paio che chiacchieravano vicino ad una macchinetta per il caffè automatico, mentre una donna, sempre in divisa, era impegnata al telefono al di là di un bancone da centralino. Dragunov le si avvicinò, domandando qualcosa. La donna annuì e gli rispose.

Poi l’uomo si rivolse verso Nina. “Ci attendono al piano superiore” disse semplicemente, indirizzandola verso l’ascensore.

Lei non chiese ulteriori spiegazioni. Le avrebbe sapute al momento entro pochi minuti, non la incuriosiva più di tanto, non ne era così ansiosa.

Usciti dall’ascensore e attraversato un corridoio illuminato da freddi neon bianchi, i due varcarono una porta di legno scuro e si trovarono dentro a quella che sembrava una sala riunioni.

Tre uomini in uniforme graduata li attendevano, seduti uno di fianco all’altro ad un lungo tavolo nero.

Dragunov li salutò mettendosi sull’attenti e portandosi la mano alla fronte. L’uomo al centro gli disse una parola, e l’uomo tornò alla posizione normale.

“Si accomodi pure, Miss Williams.” Disse poi, indicando una delle sedie di fronte a loro. Nina ubbidì, mentre Dragunov sembrava preferire restare in piedi.

“Siamo il Colonnello Volkov, responsabile della Spetnaz, e i Sergenti Sharapov e Pavlov.” Si presentò, indicando anche gli altri due al suo fianco. Nina annuì con un cenno del capo. L’accento russo sulla voce rauca dell’uomo era così marcato da sembrare quasi una macchietta.

“Si domanderà perché abbiamo deciso di proporre a lei un accordo”

Nuovamente, Nina annuì, dando segni di maggiore attenzione. Il suo sguardo saettò verso Dragunov, in piedi al suo fianco.

“Lei è molto nota come abile assassina a pagamento, davvero un soggetto interessante a cui proporre missioni di un certo tipo Come ben immaginerà, la guerra scatenata da Kazama  lascerà strascichi notevoli sull’equilibrio mondiale, e nemmeno la sua improvvisa caduta ha saputo ristabilire la condizione primaria. Le nazioni continuano ad essere in guerra per spartirsi il Giappone, o per altri motivi interni. Dalle ultime informazioni che abbiamo ricevuto, sembrerebbe che Lars Alexandersson si sia messo a capo della Tekken Force, l’ex esercito della Mishima Zaibatsu, di cui anche lei ha fatto parte, e che stai progettando un’attività eversiva. Con quali fondi e quali mezzi, dobbiamo ancora capirlo. Lei è a conoscenza di basi militari segreti della Mishima Zaibatsu?”

Nina ci pensò un attimo: “Hokkaido era un autentico arsenale. So di molte basi segrete disposte nell’arcipelago delle Filippine, in Corea del Sud e in Malesia. Mi era parso di capire che stessero tentando di costruire una base anche in Kamčatka, ma non so dove e se è stata effettivamente costruita.” Rispose. “Purtroppo, anche all’interno della Tekken Force ero considerata la stregua di una mercenaria, molti dei “segreti di stato” non erano di certo alla mia portata. La mia divisione aveva come base logistica l’isola di Hokkaido.”

“E non è mai stata in nessun’altra base?” incalzò Pavlov. Lei alzò le spalle. “A parte Tokio e le portaerei no.”

Sharapov e Pavlov parlarono nella loro lingua al Colonnello, che guardò Dragunov, che annuì. Poi si rivolse a lei. “Per il momento può bastare, miss Williams. La terremo sotto stretta sorveglianza per assicurarci che non ci stia nascondendo nulla. Avrà due settimane di tempo per rimettersi in sesto, dopodiché farà parte della squadra d’elite di Dragunov, e si occuperà di protezione del territorio, la cosa al momento più urgente di cui dobbiamo occuparci. Quando lo riterremo opportuno, le proporremo missioni da svolgere da sola.” Sharapov si era alzato e le si era avvicinato, in mano un braccialetto che sembrava di silicone nero e glielo legò al polso, attivandoglielo con un piccolo telecomando che portava in tasca. Una lucina rossa baluginò su un piccolo display del bracciale, e comparve l’ora. Le Dieci e Venticinque.

“Questo non è un orologio, bensì un rilevatore. Rilascia un segnale satellitare, che ci permetterà di localizzarla ovunque lei si trovi. Può anche inviare segnali d’aiuto, tenendo premuto il display per 10 secondi. Contiene una piccola quantità di esplosivo, abbastanza per mozzarle il polso se tenterà di forzarlo per toglierselo.” Spiegò Volkov. “Ed ora, può andare, Miss Williams”

 

L’auto li aveva attesi sotto il palazzo, e partì a tutta velocità non appena Nina e Dragunov vi salirono di nuovo, fermandosi solamente quando arrivò davanti ad un anonimo condominio, nella prima periferia della città. Dragunov pensò ai bagagli, mentre Nina, che cercava disperatamente di ignorare il freddo che si infilava dentro la giacca, si muoveva con le stampelle. Entrarono in un angusto ascensore di metallo, e salirono al secondo piano. Con una tessera magnetica e una chiave Dragunov aprì la prima porta davanti all’ascensore ed entrò, seguito dalla donna.

L’appartamento era composto da un piccolo salotto, arredato solamente con un divano di pelle marrone, un mobiletto tv e un tappeto rosso. Una piccola cucina si intravedeva da una porta. Sul corridoio si affacciavano il bagno e due stanze. Dragunov le indicò la seconda come la sua, portando al suo interno la borsa di tela.

Nina varcò la soglia. Un letto con un comodino,  un armadio ed una scrivania, su cui vi era appoggiata una vecchia radio, era tutto il mobilio presente. Desolante pensò la donna, appoggiando le stampelle al muro e sedendosi sul letto. La gamba iniziava a farle male, sentiva solo il bisogno di dormire.

“Nell’armadio troverai delle coperte.” Indicò il russo prima di uscire. “Hai intenzione di dormire subito?”

La donna gli rispose con un’occhiata furba e un sorrisetto sornione. “Assolutamente si. Non ho proprio voglia di giocare con te, stasera”

“Parlavo della cena” rispose secco l’uomo, scoccandole uno sguardo gelido in risposta.

“Non preoccuparti. Gli stuzzichini sull’aereo sono stati più che sufficienti.”Scacciò con un gesto della mano, indirizzato più a sé stessa che al russo, la punta di fastidio procuratagli dalla sua puntualizzazione. Chiuse la porta appena dietro le spalle del suo nuovo coinquilino. “Sogni d’oro” cinguettò ironica.

 

Nonostante le più fosche previsioni, sono riuscita a scrivere! Capitolo un po’ scarno, lo so, ma è di passaggio! Accontentatevi!

PICCOLA NOTA: L’esercito Russo sino al 1991 (ovvero quando ancora era Armata Rossa) non aveva gradi. L’ho scoperto su wikipedia. Purtroppo, da nessuna parte ho trovato informazioni sui gradi odierni dell’esercito, perciò mi sono affidata, sempre grazie a Wikipedia, ai gradi standard in uso nella maggior parte degli eserciti.

ALTRA PICCOLA NOTA: perché la canzone di Enya? Beh, il video è ambientato su un treno della Transiberiana, in mezzo alla neve… E poi anche Enya è Irlandese come Nina.

X Angel: si, effettivamente per i suoi standard di gioco, Sergei è logorroico! Andata bene la festa?

X Sackboy: accennerò a qualche altro personaggio (non ti dico chi), ma loro sono i protagonisti di questa storia…

X Miss Trent: spero che questo capitolino piccino ed insignificante non ti abbia deluso! Fisichella ringrazia, è già andato via lasciando le sgommate sul pavimento.

 

Alla prossima!!!

EC

 

 

 

 

 


 

 

 

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Capitolo 6
*** Survivors ***


Two Pairs of Chilling Eyes


 

6 –  Survivors

 


 

Il rumore delle pale dell’elicottero militare su cui si trovava era talmente forte da distoglierla dai suoi pensieri.

Erano due giorni che seguivano le tracce della base segreta della Tekken Force in Kamcatka, con scarsi risultati. Avevano catturato quattro membri dell’ex esercito della Mishima Zaibatsu: a quell’ora dovevano già essere sotto interrogatorio alla base russa, ma a parte loro nessuna traccia della base di Alexanderssons, nonostante le numerose intercettazioni in mano alla Spetnaz che confermavano quello che aveva raccontato durante il primo interrogatorio con i vertici della divisione militare.

Nina Williams sbuffò, muovendo le dita delle mani per recuperare sensibilità. Uno dei quattro soldati che erano con lei le offrì un sorso di vodka dalla sua fiaschetta personale, ma lei rifiutò sdegnosamente.

Dovendo tenere il portellone aperto per essere sempre pronti a rispondere ad un eventuale attacco, la neve e l’aria gelida di quella terra ostile entravano nell’abitacolo, facendo tremare gli occupanti, nonostante le pesanti divise di cui erano equipaggiati.

La donna guardò i due uomini ai comandi. A fianco del pilota, Sergei Dragunov teneva i contatti con la base, specificando le ultime posizioni e ricevendo gli ordini. Dopo aver parlato alla radio, si voltò verso la squadra e urlò qualcosa in russo. I quattro soldati annuirono sollevati, e quello che aveva offerto la vodka a Nina la informò, in  un inglese stentato, che il comando aveva ordinato di rientrare alla base.

Nina annuì, sospirando sollevata. La base significava una doccia calda e una branda dove stendersi: sentiva tutti i muscoli intorpiditi, e quelle giornate passate a pattugliare deserte lande innevate le erano risultate estenuanti. Si rilassò contro la parete di metallo del veicolo, gettando un’occhiata in direzione delle spalle di Dragunov.

Non era più stato il suo amante da quando avevano iniziato a vivere sotto lo stesso tetto, e non lo sentiva parlare se non lo stretto necessario, durante le esercitazioni o le brevi missioni a cui aveva partecipato.

Per questi motivi Nina era convinta che la notte passata a Tokio non fosse altro che una breve avventura che il russo si era concesso, magari come premio personale, e che l’avesse tranquillamente archiviata senza darci alcun peso.

Cosa che aveva fatto anche lei.

Ma nonostante tutto il suo autocontrollo e la sua noncuranza, le rodeva non poco l’indifferenza di quello che ora era il suo comandante, nei suoi confronti: gli uomini raramente non davano cenni di interesse verso la sua bellezza, e anche se lei li disprezzava visibilmente, il fatto di poter sempre contare sul proprio aspetto fisico come valido alleato le dava una certa sicurezza.

I pochi uomini che avevano frequentato il suo letto la guardavano estasiati, in attesa di ricevere ulteriori segnali di benevolenza da lei: in ogni caso, non la ignoravano.

E l’eccezione denominata Sergei Dragunov la infastidiva parecchio.

 

Il pilota gridò qualcosa con voce allarmata, e anche i suoi commilitoni tornarono tesi alle armi. Nina guardò il ragazzo che le aveva tradotto in precedenza l’ordine ricevuto: “C’è veicolo nemico su radar!” esclamò.

Merda Pensò la donna, alzandosi in piedi e caricando il fucile che aveva con sé.

Dopo pochi secondi un altro elicottero militare comparve dritto davanti a loro, fra la foschia della nevicata. Iniziò subito a sparare, mirando alle eliche. Nina e i suoi compagni si accucciarono a terra, sentendo il sibilio dei proiettili a pochi centimetri dalle loro teste, mentre Dragunov prendeva il comando dei missili del veicolo russo. Un primo andò a vuoto, il secondo colpì di striscio l’elicottero nemico. Il gesto di esultanza del pilota fu cancellato da una raffica di proiettili che lo uccise sul colpo.

Imprecando nella sua lingua natale, mentre i soldati si aggrappavano per non cadere a causa dei movimenti incontrollati dell’elicottero, Dragunov spostò il cadavere del pilota di lato e vi prese il posto, urlando ad uno dei soldati di venire a suo fianco.

Nina si appiattì per terra, quando un’altra raffica di mitra li colpì nuovamente.

Girò la testa in tempo per vedere un altro elicottero recante le insegne della Tekken Force affiancarsi. Una scarica di adrenalina la percorse, facendola balzare in piedi, fucile spianato, sparando sui nemici.

Seguita dagli altri tre, risposero al fuoco urlando. Il soldato più vicino a lei cadde a terra, un proiettile in pieno volto. Due dei nemici però avevano fatto la sua stessa fine.

Vedendo altri soldati comparire davanti al portellone, Nina si spostò in tempo per evitare la raffica di mitra che falciò gli altri due suoi commilitoni. Recuperò una bomba a mano, la sganciò con i denti e la lanciò con una mira perfetta all’interno del veicolo avversario, che esplose.

L’onda dell’esplosione fece oscillare l’elicottero russo, danneggiandolo ulteriormente. La Tekken Force, vedendo l’esplosione, cercò di sottrarsi alle armi dei russi ripiegando e battendo in ritirata.

Purtroppo per loro, il soldato a fianco di Dragunov li aveva già nel mirino, e non esitò a schiacciare il pulsante dell’ultimo missile rimasto, mandandolo in mille pezzi.

“Dobbiamo uscire” urlò il capitano, alzandosi in piedi, mentre la plancia di comando sembrava sul punto di friggere. “L’elicottero è danneggiato, qui esploderà tutto”

Nina si infilò uno zaino paracadute e si avvicinò al portellone. Mentre stava per tuffarsi nel vuoto bianco sotto di sé, un’altra esplosione a bordo la fece scivolare, mandandola a sbattere contro una parete. Si alzò subito, stentando a prendere l’equilibrio: l’esplosione proveniva dalla plancia di comando. Dragunov, che si era già voltato per andare verso  l’uscita, era inginocchiato a terra, tossendo ed imprecando dal dolore, mentre per il soldato con lui, da come aveva piegato il collo, sembrava non esserci più nulla da fare. L’elicottero perdeva velocemente quota.

D’istinto, la donna si lanciò su Dragunov, aiutandolo ad alzarsi e porgendogli un altro paracadute. Si trascinarono verso l’uscita.

Sotto di loro il nulla, era difficile capire a quanti metri fossero da terra e se avrebbero fatto in tempo i paracaduti ad aprirsi.

“Pronto?” urlò all’uomo, che annuì nonostante la smorfia di dolore. Lo spinse con tutte le sue forze giù dal veicolo, per poi gettarsi anche lei.

Aprì il paracadute, ma servì a poco. L’impatto con il terreno fu ammortizzato dalla neve, e Nina vi si rotolò più volte per perdere velocità, avvolgendosi nella stoffa e nelle corde del paracadute.

Sentì lo schianto dell’elicottero più avanti e l’esplosione che ne seguiva.

Riuscì a liberarsi con qualche difficoltà dal groviglio di funi, e si alzò da terra con qualche difficoltà di equilibrio. A parte i resti dell’elicottero che bruciavano ad un centinaio di metri, vi era solo il bianco.

Nessun altro colore. Dragunov non ce l’aveva dunque fatta? Era sola in mezzo ad una delle regioni più inospitali della Terra, sotto una nevicata copiosa e con la notte che avanzava?

Il freddo l’attanagliò con la sua morsa assassina, e la lama gelida della paura iniziò a punzecchiarle lo sterno.

Un movimento, nella foschia, catturò la sua attenzione. Uno spicchio di rosso, così simile a quello del suo paracadute.

Dragunov!” esclamò, correndo verso quel drappo. Il russo si era liberato da solo dalle corde, ma tossiva, e una pozza di sangue si faceva largo sulla sua schiena.

Nina si sentì così sollevata dal vederlo che le ci volle tutto il suo autocontrollo per non lanciarsi al collo.

Lo aiutò nuovamente ad alzarsi, facendo passare un braccio attorno alle spalle. Dragunov rimase un attimo ad osservarla, il fiato corto. Strinse la donna a sé. “Grazie” mormorò, prima di venire colto nuovamente dalla tosse. “Dobbiamo dirigerci a nord.” Disse, guardando la bussola che aveva sull’orologio multifunzione. “A 2 chilometri c’è una vecchia base di ricerca, dobbiamo ripararci là.”

“Sei ferito, riuscirai a camminare?” domandò Nina.

“Mi conviene riuscirci. Sono riuscito a lanciare l’SOS prima di lasciare i comandi, ma con la notte e questo tempo, sarà difficile che arrivino i soccorsi prima di domattina.”

A Nina venne in mente solo in quel momento della funzione di localizzatore del suo orologio, e tenne premuto il dispaly per una decina di secondi, come da istruzioni.

“Questo non li farà arrivare prima” le fece notare l’uomo, cercando di incamminarsi verso Nord.

 

 

Un paio di calci ben assestati aprirono la porta di una delle quattro casupole rettangolari, semisommerse dalla neve, della base di ricerca, abbandonata dalla caduta del regime sovietico.

Sostenendo Dragunov sulle spalle, Nina vi entrò, richiudendo la porta e il vento impossibile fuori.

L’uomo si accasciò, più pallido del solito, per terra.

La donna cercò di utilizzare la pila che aveva in dotazione: non ebbe successo, il freddo aveva esaurito le batterie. Frugò tra le tasche di Dragunov, che non protestò, alla ricerca del suo accendino Zippo e, appena trovato, lo accese e si guardò intorno.

Si trovavano nell’unica stanza della casupola, arredata con tavolo e qualche sedia, tre brandine, un armadietto e un angolo cucina con una stufetta a legna

Aprì l’armadio, trovandovi qualche coperta appallottolata, una cassetta del pronto soccorso e due candele. Ne accese subito una, assicurandola ad un piccolo candelabro artigianale appoggiato sulla stufa.

Tornò verso Dragunov, che stava cercando di togliersi la casacca e la tuta, entrambe inzuppate di sangue “Qualcosa mi si è conficcato nella schiena, quando è esplosa la plancia di comando. Devi togliermela, altrimenti non arriverò a domattina.” Spiegò stancamente. Nina lo aiutò a coricarsi su una brandina, per poi ispezionargli la ferita, dopo aver strappato la stoffa. Un pezzo di metallo spuntava dalla schiena insanguinata del russo, conficcato tra la scapola e la spina dorsale. “Sei stato fortunato. Qualche millimetro in più o in meno, e non riuscirei a medicarti io stessa” sospirò la donna, ricordandosi delle prime parole che gli aveva rivolto, aprendo la cassetta del pronto soccorso, sollevata dal trovare intatti numerosi strumenti di primo soccorso. Si infilò dei guanti di lattice tornò dall’uomo. Prese il ferro tra le dita e, appoggiando la mano sulla schiena di lui, si operò per sfilarlo.

 

Quando rientrò, pochi minuti più tardi, dalla sua ispezione alla ricerca di vivere nelle altre casupole, Dragunov sembrava addormentato tra le coperte del letto. Non appena era riuscita a medicarlo e a cucire il buco provocato dal pezzo di metallo, Nina si era accorta che la brandina su cui l’aveva fatto appoggiare era piena di sangue. Gli aveva fatto quindi cambiare giaciglio e, dopo averlo aiutato a togliersi i vestiti bagnati di dosso, gli aveva messo addosso le coperte trovate. Era decisamente troppo poco, per sopravvivere a quel gelo, ma Nina aveva apprezzato la sua fibra eccezionale e la sua incredibile sopportazione al dolore.

Non appena chiuse nuovamente la porta, con il voluminoso pacco tra le braccia, lui si voltò, aprendo le fessure azzurre dei suoi occhi.

“Non ho trovato cibo commestibile” ammise la donna “A parte queste bustine di tè.” Si avvicinò alla stufetta e srotolò l’involucro che aveva con sé per terra. “Ma ho trovato altre coperte, qualche vestito pesante scordato qui e una bottiglia ancora chiusa di vodka”  A sentire l’ultima voce dell’elenco l’uomo sembrò riprendere un po’ di energia. Nina aprì la bottiglia e gliela porse, poi si diresse verso una delle sedie vicino al tavolo e la ruppe a calci. Gettò la legna dentro la stufa, la carta di un vecchio calendario del 1991 e gli diede fuoco con lo zippo. Ci volle qualche minuto prima che la vampa di fuoco attecchisse, ma il piccolo calore e la flebile luce rinvigorirono le membra intorpidite dal freddo della donna. Gettò le altre coperte sull’ultima branda disponibile, e fece per coricarsi.

“Vieni qui” la invitò Dragunov. “Il freddo qui è più intenso di quanto tu stessa pensi. Senti che vento che c’è fuori. Porta le coperte su questa branda, è meglio se dormiamo insieme” La sua voce non aveva più la punta di ruvida freddezza che usava sempre con lei. Sembrava più morbida, gentile. La donna ponderò la sua proposta. “Sei ferito” gli ricordò, avvicinandosi con le coperte in mano.

“E tu sei bagnata” fu la risposta del russo, che si spostò di lato, sul fianco opposto alla ferita, per accoglierla. Era vero. Nina non aveva un singolo angolo dei vestiti militari asciutto. Se li tolse, abbandonandoli su una sedia vicina al fuoco per farli asciugare, ed indossò una delle casacche e dei pantaloni di tuta imbottiti, di una misura decisamente troppo abbondante per lei che aveva trovato.

Scivolò nella branda al suo fianco, sotto le coperte, mentre i resti della sedia crepitavano nel fuoco. Assaggiò la vodka che lui gli porgeva, sicura che le avrebbe dato calore, fidandosi dell’uomo con cui stava convivendo quella brutta e glaciale avventura. Dragunov appoggiò la bottiglia ai piedi del letto e circondò la donna con un braccio muscoloso. La ringraziò sinceramente, sorprendendola.

“Dovere, Dragunov.” Rispose, con un po’ di esitazione. Forse era la vodka, forse era la situazione, forse era il tepore che si stavano scambiando i loro corpi, ma la vicinanza con lui le dava i brividi, la stordiva. Sentiva che, se lui si fosse alzato e si fosse allontanato, si sarebbe portato con sé il suo respiro, i battiti del suo cuore, il calore della sua vita. Non le piaceva avere questa sensazione di dipendenza, e voltò il capo di scatto dall’altra parte.

“E il mio nome? Mi pareva che tu lo sapessi” ghignò sornione. “O avevo capito male, Nina?”

La donna si torturò il labbro inferiore con i denti. Cosa voleva dire quella punzecchiatura? Forse si era già ripreso e le stava proponendo un’altra notte folle nel bel mezzo di una tempesta di neve? Era così matto?

Si voltò di nuovo verso di lui “Sergei.” Pronunciò lentamente, come se dovesse farglielo entrare in testa bene, strappandogli un breve sorrisetto soddisfatto. “Vuoi che ti chiami Sergei?”

“Puoi farlo, se ti piace” appoggiò le labbra sulle sue. Un bacio lieve, appena accennato, così diverso da quelli passionali e travolgenti che si erano scambiati nella stanza dell’Hotel Imperial di Tokio.

Si guardarono per qualche istante, prima che fosse Nina a baciarlo nuovamente, cercando di capire, con le sue labbra e la punta della sua lingua, che cosa stesse cercando in lui, e cosa lui stesse cercando in lei. L’uomo le accarezzò la guancia pallida, prima di staccarsi lentamente. “Adesso dobbiamo fare una cosa importante, Nina. Non dobbiamo addormentarci. Nell’arco di un’ora avremo finito la legna da ardere, e il freddo sarà talmente intenso da soffocarci. Dobbiamo stare svegli.”

Si rilassò, mentre la donna gli rimaneva vicino, appoggiando la testa sotto il suo mento. “Io sono stanca già ora. E’ dannatamente difficile non dormire. Come posso fare?”

“Parla. Di qualsiasi cosa.”

 

 

 

BRRRRR!!!!!

Non bastavano le temperature in picchiata, dovevo addirittura scrivere questo capitolo proprio ora?

La loro relazione si sta sviluppando in un modo del tutto inaspettato … vedremo come si scalderanno i nostri eroi, e cosa si racconteranno.

Grazie ancora tantissimissimo per le recensioni!

Alla prossima!!!

EC

 

 

 

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Capitolo 7
*** In the Coldest Night ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

7-

 

“Io odio mia sorella.” La prima cosa che le venne in mente. La più scontata. L’unica cosa conosciuta di lei, a parte il nome e la fama d’assassina. Doveva parlare, e anche a lungo se voleva restare sveglia, e quella era l’unica cosa che le veniva in mente di dire. La sola cosa che lasciava trapelare dai suoi occhi di spesso cristallo. “Eppure non ricordo neppure bene da cosa sia nato questo odio. Da quando mi sono svegliata dal sonno criogenico, i miei ricordi sono offuscati, ma questa è la mia unica certezza: io odio Anna. Dev’essere iniziato tutto quando eravamo piccole, ricordo vagamente mio padre che mi allenava e che mi insegnava i suoi colpi segreti e lei che ci guardava in un angolo, aspettando che fosse nostra madre ad insegnarle qualcosa, quando aveva tempo e non si allenava per le sue gare. Era dispettosa, ci teneva a farmi fare brutte figure davanti a tutti: appena andammo a scuola si prodigò per essere agli occhi di tutti  la più simpatica, la più adorabile, e per farmi escludere dalle nostre compagne. Raccontava frottole, mi faceva cacciare nei guai. E più diventavamo grandi, più queste cose peggioravano. Sino a giurarci di ucciderci a vicenda. E di esserci quasi riuscite.”

Sentiva di aver già detto troppo di sé e della sua vita: non era abituata a parlare con nessuno, potendo contare solo sulle sue forze e sulle proprie capacità. L’essere costretta a dover parlare la innervosiva. “E poi è irritante, non trovi?”

“Conosco solo il suo profilo criminale, non il suo carattere”

“Beh, non fa altro che ridacchiare e squittire, agitare il sedere e ammiccare. Mi dà fastidio solo a pensarci.” Nina sospirò, sfregandosi il naso intorpidito dal freddo. “Chissà che fine avrà fatto. Chissà se sarà ancora viva o meno. Forse dovrei cercarla.”

L’uomo allungò un braccio, prese la vodka e ne bevve un gran sorso, per poi porgergli la bottiglia. “Se non la sopporti, non ha senso. Non si va a cercare qualcosa che si odia, no?”

Dovette riconoscere che aveva ragione, tracannando un goccio del liquore trasparente. Una breve vampata di calore le salì dall’interno, incendiando lo sterno per poi gettarsi fuori dalle narici. Era vero: solitamente si fuggiva dalle cose odiate, che recavano fastidio. E allora perché sentiva la necessità di vedere Anna davanti a sé, o di saperla viva? Semplicemente perché la voglio uccidere con le mie stesse mani  si convinse. Voglio infliggerle un’umiliazione tale che non riuscirà a rialzare quel caschetto da sgualdrina sino alla fine dei suoi giorni.

“Una volta le ho rubato un ragazzo per farle dispetto” ricordò. “Mi diede del sonnifero e mi tagliò i capelli nel sonno.” La vodka doveva già esserle andata in circolo nel sangue, perché sentiva le labbra stendersi in una risata. “Ti rendi conto? A 14 anni mi ha infilato il sonnifero nel Tè e mi ha rapato a zero!”

Sembrava che anche Sergei trovasse quel ricordo abbastanza ilare: Un angolo delle sue labbra si era piegato leggermente all’insù. Bevve un altro sorso di vodka, poi appoggiò la bottiglia per terra, decretando che per quella sera ne avevano bevuto abbastanza e  che era meglio risparmiarlo per l’indomani, nel caso i soccorsi non fossero arrivati.

“Senza cibo non riusciremo a cavarcela a lungo, bevendo solo tè e vodka. Hai perso del sangue e hai un buco nella schiena, non sei molto in forze. Se ci trovasse prima la Tekken Force che i nostri saremmo spacciati. Io sono riuscita solo a salvare una pistola, il fucile l’ho lasciato sull’elicottero.”

Dragunov disse che anche lui aveva una pistola in una tasca interna della tuta. “Se non avremo speranze, dovremo tenere l’ultimo colpo per noi. Non ci conviene cadere nelle mani di Alexanderssons.”

 “Ho sempre trovato affascinante l’idea del suicidio. E’ la scelta di una persona davvero libera, decidere quando è arrivata l’ora di morire.” Mormorò la donna, lo sguardo perso sul soffitto buio.

“E’ da codardi” scosse la testa l’uomo, girandosi sulla schiena. Si coprì la testa con il cappuccio della giacca, alzandosi poi il bavero sul mento aguzzo. “A parte per sfuggire al nemico”

Rimasero un po’ in silenzio, finché Nina rabbrividì, accorgendosi del fuoco che languiva. Si alzò, spaccando l’ultima sedia rimasta e gettandone un pezzo nella stufa, ravvivando la fiammella. Toccò i vestiti. Erano ancora umidi.

Si stese nuovamente sulla brandina, rannicchiandosi contro l’uomo. Lo sentiva respirare profondamente, ed ebbe il dubbio che si fosse addormentato. Le sue guance erano gelide e livide. Avendo perso molto sangue, doveva patire molto più freddo di lei, eppure non si lamentava, non tremava: Teneva chiusi gli occhi e basta. Forse doveva essere nato o addestrato duramente in Siberia. Gli cinse il petto con un braccio, scuotendolo, facendogli aprire gli occhi di scatto. “Non devi addormentarti” gli ricordò. “Adesso tocca a te parlare”

Lui deglutì, sembrava pensieroso. Probabilmente anche lui non sapeva bene cosa raccontarle, di quale parte della sua vita renderla partecipe.

“Ero molto amico del figlio di Volkov, Alexei.” Iniziò. “Aveva la mia stessa età e ci conoscevamo da quando eravamo nati. Con i nostri padri nell’esercito, abbiamo frequentato le stesse scuole e siamo finiti nella stessa divisione dell’esercito. Abbiamo anche passato l’addestramento insieme, combattuto in Cecenia e iniziato a lavorare sotto la Spetsnaz. Era un ragazzo molto leale, coraggioso, un ottimo compagno; Volkov era estremamente orgoglioso di suo figlio. E’ stata sua l’idea di imparare il Sambo come combattimento corpo a corpo,  nonostante a quell’epoca tra i nostri compagni fossero di moda il Judo e il Karate. Diceva che questa disciplina fosse molto più efficace. Ed anche secondo me aveva ragione. Sua sorella Tatiana aveva sedici anni davvero una bella ragazza, faceva già la modella. Lui cercava di farmi credere che aveva una cotta per me e che dovevo fare la prima mossa. L’ultima volta che l’ho visto eravamo in istanza a Borzya, al confine con la Cina, cinque anni fa. Alexei aveva appena ottenuto la licenza per tornare a casa, durante le vacanze di Natale, mi venne a salutare mentre io montavo il turno di guardia. Io rimanevo alla base, non avevo richiesto nessuna licenza. Arrivò a casa sotto una tormenta di neve, mentre suo padre stava per uscire per andare a prendere Tatiana alla festa di Natale della scuola: con quel tempaccio non si fidava a farla accompagnare dalle sue amiche, com’erano d’accordo. Alexei si propose di andarci lui: era abituato a guidare fuoristrada nel bel mezzo della steppa, non gli avrebbe dato fastidio un po’ di neve in città.

Mentre tornava a casa con sua sorella, però, l’auto sbandò, finì contro un’altra in corsa e poi sotto un camion che veniva dalla corsia opposta. Morirono entrambi sul colpo.” Fece una pausa, lasciando che il freddo della sua ultima frase calasse su di loro. “Stava andando troppo veloce. Per Volkov e sua moglie fu un disastro, non si ripresero più. Un anno dopo lei si sparò in testa con una carabina del marito.”

 

Quando una lattiginosa mattina sorse sulla Kamkatca, Nina Williams e Sergei Dragunov erano ancora svegli. Non avevano più parlato, ma erano riusciti a tenersi svegli l’un con l’altro, senza disturbare il flusso dei loro pensieri. Nina aveva pensato ad Anna, si era sforzata di far riemergere dalla nebbia qualche altro ricordo, qualche altro particolare della loro infanzia o della loro adolescenza. Poi si era concentrata su posti caldi, si era immaginata stesa al sole dopo una nuotata in piscina, aveva sognato ad occhi aperti di dover aprire un ventaglio per farsi aria a causa del calore insopportabile.

Ogni tanto scuoteva Dragunov, e ogni tanto lui le pizzicava il braccio per accertarsi che fosse sveglia.

Qualche ora dopo il levarsi del sole, lo stomaco di Nina brontolò di fame. Per accendere nuovamente la stufa e scaldarsi un po’ d’acqua per il te fu costretta ad entrare nella casupola a fianco e prendere altre sedie, a cui fece fare la fine delle precedenti. Un piccolo pentolino di latta fu una teiera precaria ma utile, ed un paio di bicchieri sbeccati completarono il servizio.  Bevvero seduti sul letto, le coperte nuovamente addosso e le mani che non volevano staccarsi dai bicchieri per non perdere il calore. Si sentirono entrambi sollevati, rinvigoriti, e la luce che proveniva dalle finestre li rincuorava: il tempo aveva concesso loro clemenza, i soccorsi non sarebbero tardati troppo.

Nina si rilassò contro la parete. Pochi minuti di sonno erano una tentazione a cui voleva cedere al più presto. Sentì un braccio di Dragunov attorno alle spalle, e lasciò che la sua testa scivolasse sulla sua spalla. Le labbra dell’uomo si posarono sulla sua fronte, per poi scendere lungo gli zigomi, la guancia e fermarsi sulla sua bocca. Lasciò che le loro lingue si toccassero, che giocassero insieme, che si stuzzicassero a vicenda.  Follemente, si slacciò la giacca e vi guidò le mani dell’uomo al suo interno. Lui si staccò appena mormorando qualcosa in russo.

“In inglese, per favore” bisbigliò di risposta Nina.

“Se non dovessimo risparmiare energie, ti riscalderei in un modo molto più efficace”  tradusse.

Nina non poté impedire ad un sorrisetto di farsi strada tra le sue labbra. “Scegli proprio i momenti meno opportuni tu, uh?” si ritrasse, puntandogli addosso i suoi occhi inquisitori. “Cos’è, ti eccita solo il brivido del pericolo?”

Lui la guardò quasi sorpreso, prima di rispondere  “Anche.” Sbuffò quasi divertito, capendo a cosa si riferisse la donna. “Se ne avevi voglia, perché non hai chiesto?”

“Mi hai evitato per due mesi” gli fece notare, una punta dura nella sua voce resa rauca dal freddo. “E io non sono una donna che va ad elemosinare attenzioni da qualche maschio”

“Nemmeno io”

Nina si mise le mani sui fianchi. Provava l’irresistibile impulso di saltargli alla gola e strozzarlo con le sue stesse mani e contemporaneamente saltargli addosso, strappandogli via i vestiti e ruzzolarsi in quella brandina puzzolente con lei. “A sua signoria piacerebbe quindi che mi trovarmi  nella propria stanza vestita solo di lingerie?”

“Si.” Fu la secca e semplice risposta. “Anche un paio di munizioni andrebbero bene”

Nina scosse la testa: “Voi uomini siete tutti uguali”

“Se preferisci startene nella tua stanza fai pure.”

L’ultima frase pronunciata dall’uomo fece imbizzarrire Nina: che diavolo voleva dire? Che una donna valeva l’altra, per lui? Che lei non era né meglio né peggio di qualcun’altra? Come osava vomitargli in faccia una cosa simile?

Lo colpì con uno schiaffo e si girò dall’altra parte, la faccia in fiamme dall’indignazione. Lui rimase un po’ in silenzio, poi lo sentì scivolare sul materasso. “Non ti conviene fare un’altra cosa simile. O io non risponderò più delle mie azioni. E sai bene cosa intendo.”

“Porco” sibilò, dandogli sempre le spalle.

Si sentì afferrare per la vita ed essere trascinata al suo fianco. “Rimandiamo questa discussione a Mosca”

Dopo pochi minuti di silenzio, le forze iniziarono ad esaurirsi, e non riuscirono più ad impedirsi a vicenda di scivolare nel sonno.

 

Un calcio che apriva la porta fece aprire gli occhi ad entrambi. Nina raccolse velocemente da terra la pistola e la puntò verso l’entrata. Due soldati russi si bloccarono, abbassando i fucili e dichiarando le loro generalità.

Li avevano trovati.

Vennero portati sugli elicotteri e rifocillati con barrette energetiche e nuove coperte termiche. Mentre il veicolo militare si alzava in volo, Dragunov ricordò a Nina che avevano un discorso in sospeso.

Il rumore del motore delle pale, in accelerazione, coprì la risposta della donna.

 

E dopo questo si ritorna a Mosca!

Vi ringrazio ancora tantissimo per le recensioni: Miss Trent, AngelTexasRanger, Sackboy 97 e GothGirl!

A presto!

EC

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** Un Abbraccio. ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

8:  Un abbraccio.

Quando dalla sua camera da letto Nina lo aveva sentito rientrare, aveva restituito un sorrisetto ammiccante alla sua immagine riflessa allo specchio.  Dandosi un’ultima ravvivata al ciuffo dorato, si era avvolta nella sua vestaglia azzurra e aveva aperto la porta, trovandosi di fronte alle spalle di Dragunov, che entrava nella propria stanza.

Perfetto. A Nina Williams piacevano le cose che andavano come previsto, e giusto per deformazione professionale, se così poteva essere chiamata, aveva passato quei sette giorni dopo la missione in Kamkatca a controllare le abitudini del coinquilino, per non lasciare nulla al caso.

Dragunov era una persona estremamente abitudinaria e incredibilmente precisa, in qualsiasi cosa dovesse fare, metodico sino allo sfinimento. Aveva certamente previsto una sua mossa, ma di sicuro, non di quel genere.

L’aveva provocata? Ebbene, ora doveva pagarne le conseguenze.

Scivolò fuori dalla propria stanza, seguendo silenziosa l’uomo. Si era tolto il pesante cappotto e l’aveva abbandonato sull’appendi panni.

Il berretto con l’effige dell’esercito era invece sul tavolino, seguito dalla cravatta e dalla giacca. Si accorse della donna troppo tardi, quando ormai lei si era avvicinata al tavolino e gli voltava le spalle.

“Pensavo che a quest’ora stessi già dormendo”  disse, guardando l’orologio al polso. Sapeva i suoi orari, bene… anche lui la stava controllando, e aveva notato che preferiva andarsene a dormire presto, appena dopo cena.  Con una certa noncuranza Nina alzò le spalle “Non avevo molta sonno”  Giocherellò un po’ con la cravatta rossa, prima di infilarsela al collo, seguita dal berretto sul capo.

Si slacciò la cintura della vestaglia e la fece scivolare dalle spalle, rivelando la sottoveste di pizzo nero. Si aggiustò il cappello sulla fronte, prima di  voltarsi verso l’uomo e al suo sguardo interessato, accennando ad un sorrisetto soddisfatto. “Io e te avevamo un discorsetto in sospeso, Sergei

 

Le notti di Mosca erano lunghe e gelide, l’ininterrotto traffico cittadino giungeva ovattato alle loro orecchie, nel silenzio e nell’oscurità della camera. Nina stava ponderando l’idea di alzarsi e di tornare nella propria stanza, di non lasciarsi andare oltre: l’aveva sedotto ed era stata sedotta a sua volta, si erano rotolati sul letto con il fiato corto, avevano fatto e rifatto sesso, quasi a voler recuperare i due mesi perduti. Ora non aveva più senso rimanere sdraiati l’uno accanto all’altro, no?

Sergei sembrava essere già scivolato nel sonno, coricato prono con un braccio gettato attorno ai suoi fianchi sinuosi, che aveva afferrato con foga solo qualche minuto prima. Nina lo fissò per qualche secondo, soffocando un sorrisino all’accorgersi che non lasciava la sua aria corrucciata anche neppure quando dormiva. Si ritrovò a sfiorare le sue labbra con un dito, a disegnarne i contorni. Ritrasse subito la mano quando le vide muoversi. “Domani mattina dobbiamo alzarci presto, non ti pare di averne già avuto abbastanza?”

Gli avrebbe volentieri rifilato uno schiaffo. Si alzò a sedere, sdegnata, e si alzò dal letto, recuperando i propri vestiti. Faceva freddo fuori dalle coperte, un freddo diverso da quello provato nella casupola della Kamkacta, che si insinuava bastardo sotto le sue difese. “Scusa il disturbo” sibilò, dirigendosi verso la porta.

“Aspetta.”

Nina si fermò: che volesse chiederle scusa?

“Sbaglio o mi avevi chiesto notizie di Steve Fox?” La donna girò appena la testa sulla spalla, per minimizzare il suo vivo interesse per quello che stava per dirle.

“Sarà a Mosca tra due giorni, per l’incontro della Coppa del Mondo di pesi medi.” La informò.

Steve sarà in città… pensò, mordicchiandosi il labbro inferiore. Si fece strada dentro di sé, nuovamente, il bisogno di cercarlo e di vederlo con i propri occhi. E non le sarebbe bastato essere presente al suo incontro di pugilato. Sospirò, uscendo dalla porta e tornando nel suo letto gelido, solitario e vuoto come sentiva il suo cuore.

 

 

Era riuscita a trovare il suo numero di telefono intercettando una mail dell’organizzatore dell’incontro. L’aveva contattato il giorno stesso del suo arrivo a Mosca, dicendogli a malapena chi fosse, dove e in che ora trovarsi, prima di riattaccare, temendo di essere ascoltata.

Così, in quella mattina di ghiaccio di fine novembre, aveva raggiunto il caffè sulla Piazza Rossa, meravigliandosi di trovarlo già seduto ad un tavolino, lo sguardo color del cielo che si posava impaziente fuori dalla vetrina del bar e l’iPod nelle orecchie.

Vedendola, le sorrise lievemente, prima di alzarsi per salutarla. Nina studiò i suoi movimenti impacciati, il suo sorriso accennato che non smetteva di comparirgli nelle labbra rosee e le guance rosse dal freddo.

Come lei, sembrava imbarazzato e non sapeva bene come comportarsi. Si sedettero l’uno di fronte all’altro.

“Ti trovi in Russia per caso o abiti qui, adesso?” domandò il ragazzo, rompendo il disagio del silenzio.

“Beh, diciamo che sono qui per affari” rispose evasiva Nina, prima di ordinare al cameriere un Tè con latte.

Steve invece chiese una cioccolata calda. “Non era mia intenzione farmi i fatti tuoi. Cioè, immagino che tu non ne possa parlare, ecco…

La donna annuì. “Sei riuscito a scappare da Tokio, come hai fatto?”

“Quando ho visto che le cose si stavano mettendo male, con tutti i fulmini e i ruggiti di Kazama e suo padre in versione demoniaca, ho pensato di tagliare la corda, come tanti altri. Io, Law, Julia e Miguel ci siamo ritrovati sulla stessa auto, con Julia alla guida. Siamo scappati all’aeroporto e abbiamo preso il primo aereo che ci capitava, ovvero Tokio – Toronto.

Da Toronto Miguel è riuscito a tornare in Spagna, Law ha preso il primo treno per New York e io e Julia siamo andati in Arizona. E’ stata un’odissea…” ridacchiò. “Ce ne sono successe di tutti i colori, per poco non finivo in carcere per rissa con il meccanico che non voleva ripararci l’auto che avevamo … preso in prestito.”

I suoi occhi erano di un azzurro diverso dai suoi, notò Nina. Erano screziati di blu, palpitavano, erano vivi, mentre raccontava, con il suo accento londinese, le vicissitudini della sua fuga. Le labbra si muovevano senza nascondere un sorriso, a metà tra l’imbarazzato e il sereno, e un gesto della mano sottolineava le sue parole.

“Sono stato al suo villaggio per un po’, poi, quando le acque si sono calmate e i tornei sono ripresi, sono tornato ad allenarmi e a gareggiare, Julia a studiare e ci siamo dovuti separare per un po’.”

“State insieme, dunque?”

Il sorriso si allargò sulla faccia del ragazzo, mentre annuiva. Sembrava illuminarsi al pensiero della propria ragazza, e scalpitare all’idea di raccontarglielo.

Come farebbe qualsiasi ragazzo mentre parla della propria fidanzata a sua madre. Pensò, sentendo qualcosa che si rilassava dentro di sé. Non capiva il perché, ma le faceva piacere che Steve non la giudicasse una completa estranea,  che forse provava addirittura una sorta di affetto per lei e non il disprezzo che si era convinta di meritare. Sembrava ci tenesse che fosse a conoscenza di qualcosa di sé, della parte migliore, della sua vita.

Il ragazzo tirò fuori il cellulare dalla tasca del giubbotto e glielo porse. La foto sul display mostrava lui, in una smorfia di finta importanza, torso nudo e con la testa addobbata da un copricapo indiano, e Julia al suo fianco, uno sguardo falsamente truce, con i guantoni da pugile alzati a difesa.

“Qui eravamo ad Austin la settimana scorsa. Dopo aver disputato un incontro a New York sono riuscito a scappare a trovarla.”

“State bene insieme” annuì Nina, restituendogli il cellulare. E lo pensava davvero. Erano belli, sorridenti, complici ed innamorati. Sentì di invidiare qualcosa a suo figlio, e contemporaneamente sollievo nel saperlo felice con qualcuno.

Un attimo di silenzio seguì l’arrivo dell’ordinazione, mentre Nina cercava disperatamente un argomento, una frase da dire. “C’è qualcosa che vuoi chiedermi?”riuscì solamente a dire.

Il ragazzo la guardò con vivo interesse, posando per un attimo il cucchiaino della cioccolata. “Ci sono un sacco di cose che vorrei chiederti” tornò a mescolare la bevanda bollente, prima di assaggiarla. “Sai chi è mio padre?”

Lei alzò le spalle: “Ho letto i dati relativi al tuo concepimento. Sono stati usati i miei ovuli, che successivamente mi sono stati rimpiantati, fecondati con un ‘misto di geni’ di padri diversi e dalle diverse caratteristiche. E’ a questo che devi la tua forza. Purtroppo non c’erano nomi.” Spiegò, cogliendo una certa delusione sul viso di Steve, che però la cacciò subito con un gesto della mano, come se fosse una zanzara fastidiosa. “Come si suol dire, la madre è sempre certa…

“Già.”

“E tu? Puoi raccontarmi qualcosa di te?”

Nina si trovò spiazzata, e alzò le spalle, non sapendo proprio cosa dire. “Non credo di poterti dire molto…

“Hai più sentito tua sorella Anna?”

“No, non so nemmeno se è viva.”

“E’ viva. Almeno, sino a Tokio la era. Law l’ha vista scappare con Lee Chaolan.”

Tipico di Anna, aggrapparsi ad un uomo nel momento del bisogno. Per tutti i Numi, proprio quel damerino sciocco di Chaolan? Una splendida coppia, in due non facevano mezzo cervello.

“E tu? Sei sposata, o fidanzata, o qualcosa di simile?” La domanda, così semplicemente diretta e confidenziale, le fece imporporare le guance.

“No. Cioè.” Portarsi a letto Dragunov era qualificabile come relazione? “Diciamo che ho una sottospecie di relazione. Ma niente di che. Non ho bisogno di queste cose”

Steve rise, appoggiando la tazza di cioccolata quasi finita e leccandosi le labbra per togliersi i residui. “L’ho già sentita questa frase: da Howarang, se ti interessa saperlo. Avevo fin dei dubbi che fosse dell’altra sponda, prima che ammettesse di stare con Miss Osaka…” Ridacchiò nuovamente. “Un giorno sono due colombotti così stucchevoli da dar fastidio, e il giorno dopo si insultano a vicenda e si mandano a quel paese”

“Beh, io non sono un ventenne in preda agli ormoni”

“Vero anche questo”

Nina guardò l’orologio. Tra mezz’ora si sarebbe dovuta trovare al comando, era giunto il momento di salutare Steve e di fargli gli auguri per l’incontro.

“Già, devo andare anche io. Ho un’ora di allenamento, poi una conferenza stampa e dopo mi devo riposare in attesa dell’incontro.” Si alzarono e si guardarono. Steve avanzò di un passo e, dopo una piccola esitazione, l’abbracciò.

Nina si sentì avvampare. Nell’abbraccio del ragazzo c’era qualcosa che ormai non ricordava nemmeno più, qualcosa di morbido e caldo, e il suo profumo le entrò nelle narici e scese lungo lo sterno, sino al cuore. Ricambiò l’abbraccio, sentendo di aver riscoperto una cosa di cui aveva bisogno, che la rendeva vulnerabile e sicura allo stesso tempo, che non si sarebbe mai azzardata a chiedere a nessun’altro.

Steve la strinse ancora di più a sé, e si azzardò a schioccarle un bacio sulla guancia. “Se venissi a vedermi, stasera, mi faresti davvero contento” fece una pausa e prese fiato. “Mamma

Sentiva come se una corda le si fosse annodata nella laringe e le impediva di deglutire correttamente, di far sparire il rossore dalle guance e di respirare con calma, bruciandole la gola e il fiato.

“Non so se avrò degli impegni, cercherò di esserci”

“Grazie” Bisbigliò, sciogliendosi dall’abbraccio, riconsegnandola al freddo della Russia e della sua vita. Si infilò velocemente gli occhiali da sole. Gli occhi le pungevano. “In bocca al lupo, Steve.”

Uscirono dal locale fianco a fianco, senza sfiorarsi, senza parlarsi. Fu appena prima girare per andarsene che Steve la fermò nuovamente. “Scusa la domanda stupida, ma… se avessi potuto scegliere te il mio nome, quale sarebbe stato?”

Non ci aveva mai pensato. Fissò il cielo terso perplessa, trovandolo freddo e lontano, così diverso dagli occhi di suo figlio.  “Credo che alla fine, Steve sia davvero un bel nome”

 

Quando alla sera tornò a casa, dopo la riunione al comando e un incarico di intercettazione che aveva svolto molto facilmente con il computer, Nina aveva acquistato un cuscino quadrato di velluto blu. L’aveva posizionato sul letto come oggetto d’arredo, per osservarlo, prima di stringerlo a sé, gustandone la morbidezza. Quel cuscino le avrebbe ricordato il suo incontro con Steve e il loro abbraccio. Si sentì nuovamente pungere gli occhi.

 

La porta d’ingresso si aprì e si richiuse, e sentì i passi lenti e cadenzati di Dragunov percorrere il corridoio.

Bussò alla sua porta. “Avanti.” Bisbigliò, rimettendo a suo posto il cuscino e schiaffeggiandosi le guance per riprendersi.

L’uomo si appoggiò allo stipite della porta, i suoi occhi di ghiaccio che la scrutavano indagatori. “Avresti dovuto dirmelo”

Lei lo guardò spalancando gli occhi: non poteva crederci “Mi hai seguita?”

“Il bracciale funziona anche da trasmettitore, se sei nell’arco di dieci chilometri dalla base.” Spiegò. “Ho intercettato la tua telefonata con Fox, ieri mattina, e ho deciso di utilizzare questa funzione.”

“Erano fatti personali, che diavolo doveva importartene del nostro incontro?” Nina si sentiva avvampare dalla rabbia e dalla frustrazione. Non era neppure più libera di incontrare qualcuno? Cos’era, una schiava? “Pensavi fossi così stupida da incontrare una spia nemica in pieno centro, alla luce del sole? O, magari, perché no, il mio amante?”

“Sei sotto la mia responsabilità” rispose gravemente Dragunov. “Se ti fosse ‘sfuggito’ qualcosa potevano sorgere dei problemi. Non pensavo neppure lontanamente che Steve Fox fosse tuo figlio”

“Contento di saperlo? Ora cosa ne farai di questa informazione? Mi ricatterai? Terrai anche lui sotto il tuo stretto controllo?”

“Stupida” sibilò Dragunov. Dalla vibrazione nella voce, sembrava sul punto di arrabbiarsi, magari la stava per colpire. Nina si posizionò sulla difesa, pronta a ripagarlo della sua stessa moneta. “Di questa informazione non ne faccio proprio nulla” Gettò qualcosa sul suo letto. Era il biglietto per l’incontro di Steve contro Gorovich di quella sera. “Sei libera di andarci. Ci sarei venuto volentieri anch’io. Gorovich è un pugile eccezionale, i suoi incontri sono sempre entusiasmanti.  Ma forse è meglio che tu ci vada da sola. Lo guarderò dalla televisione.”

Nina raccolse il biglietto. “Non avevi il diritto di spiare la mia vita privata, di ascoltare le cose private che ci siamo detti io e Steve”

“Non vi siete detti nulla di rilevante.” Alzò le spalle lui, prima di uscire dalla stanza. Si fermò in mezzo al corridoio, prima di fare un passo indietro e di affacciarsi alla porta. “Per la cronaca, non ho detto nulla al comando. Né del tuo incontro di questa mattina, né della nostra sottospecie di relazione.”

Nina si alzò di scatto, sentendosi gli occhi pieni di lacrime represse di solitudine, di troppo freddo, di rabbia, di frustrazione. “Vaffanculo” ringhiò, prendendo la pelliccia ed infilandosela rabbiosamente, afferrando la sciarpa e la borsetta, prima di uscire di casa sbattendo la porta.

 

Si ritrovò a piangere sul tetto di un palazzo, con la strana idea di lasciarsi cadere nel vuoto e di diventare una pozza di sangue sull’asfalto coperto di neve ghiacciata, di non dover sentire quel turbine di pensieri e sensazioni che affollavano la sua testa, di non dover più vedere Dragunov e di desiderarlo.

Si calmò un attimo sul taxi che la portava all’arena dove si svolgeva l’incontro.

Sorrise appena vedendo Fox entrare e a fare l’occhiolino, scorgendola tra la folla.

Applaudì, sentendosi orgogliosa nel vederlo mandare al tappeto Gorovich e ad alzare la cintura del campione ed uscì nuovamente con le lacrime che le rigavano il volto.

Si sentì meglio mentre piangeva, si sentì sollevata. Si ripromise di farlo più spesso, senza farsi vedere da nessuno. Era così liberatorio e faceva sciogliere quella crosta di calcare che le pesava sul petto.

Tornò in casa e si diresse nella sua stanza senza rivolgere uno sguardo all’uomo sul divanetto, che guardava il dopo incontro alla tv. Si gettò sul letto con il cuscino tra le braccia, nei polmoni il profumo di suo figlio e nella mente il suo sorriso.

Prima di addormentarsi gli parve di sentire Dragunov che si fermava al di là della porta chiusa, come se fosse indeciso ad entrare o meno. Ma doveva esserselo immaginato, perché mai avrebbe dovuto voler entrare?

 

 

Capitolo abbastanza introspettivo. (a parte l’inizio… XD)

Nina scopre di avere dei sentimenti, e il primo a cui era giusto indirizzarli era proprio suo figlio Steve.

Miliardi di grazie per le vostre recensioni! Continuate così!

EC

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Learning to Live ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

9:  Learning to Live.

Si erano praticamente evitati per tutta la settimana seguente, rivolgendosi la parola lo stretto necessario. Nina era ancora furiosa, e lui sembrava non avere interesse a farle passare l’arrabbiatura, probabilmente sicuro che gli passasse da sola.

Nina passava il suo tempo libero comprando piccoli oggetti con cui abbellire la propria stanza. Un copriletto viola, un portapenne decorato, un poster di un film che si ricordava di aver apprezzato mille anni prima, Scarface. Voleva creare un angolo solo suo, un piccolo rifugio dai pericoli che correva quotidianamente e dai suoi tormenti interni.

Per il resto, il lavoro si portava via le sue giornate una dopo l’altra.  Lei, Dragunov e la nuova squadra potevano volare alla mattina in Giappone, essere al pomeriggio in Thailandia e tornare alle prime luci dell’alba a Mosca.

Gli spostamenti non la infastidivano, anzi. Era la squadra che non sopportava. I suoi commilitoni chiacchieravano per tutto il tempo in russo, e un paio di loro le gettavano sempre qualche occhiata famelica. Non vedeva l’ora di ricevere una promozione e di poter svolgere i propri compiti da sola, senza quei soldatini esaltati tra i piedi e soprattutto, senza essere ininterrottamente sotto la supervisione precisa di Dragunov, la cui sola presenza dava sui nervi.

Non ne poteva più di vederlo tutti i giorni. Non sopportava di trovarselo davanti anche alla sera. Ne aveva le scatole piene di trovarselo, sovente, a zonzo per i suoi sogni.

La cosa peggiore, comunque, era quella di non riuscire a non avere un tuffo al cuore quando lo sentiva pronunciare il suo nome. L’aveva chiamata per nome solo un paio di volte, da quando aveva incontrato Steve, in privato e solo per cose necessarie, ma non riusciva a non pensare che quelle quattro lettere, quel semplice nome scandito con il suo accento russo,  pareva quanto di più simile fosse alle carezze con cui aveva percorso la sua pelle d’avorio. Si soffermava sulla sua iniziale, quasi ripetendola doppia, lasciava scivolare la sua lingua sulla i e sulla seconda n e tornava a fermarsi, come se volesse gustarsela, la a finale.

Non ricordava nessuno che avesse pronunciato il suo nome così.

Ma probabilmente era tutta una sua impressione. La passione di Dragunov per lei iniziava e finiva su un materasso, lo stresso necessario per fare “bella figura” e per raccogliere il massimo piacere possibile.

 

Si stava pelando una mela, chinata sul lavello della microscopica cucina, quando lui entrò. Alzò la testa in segno di saluto, senza dire nulla, per poi infilarsi un pezzo del frutto in bocca.

Lo sentì avvicinarsi, brontolando qualcosa sul fatto che non aveva cenato. Il frigo risultò vuoto, e sbuffò insoddisfatto, prima di lasciarsi cadere stancamente su una sedia. “Avrai la tua promozione” la informò. “Volkov ha deciso di darti fiducia e di metterti alla prova. Domani verrai convocata e ti verrà affidata una missione che dovrai svolgere da sola.”

Nina annuì soddisfatta, non potendo trattenere un sorriso mentre si tagliava un altro pezzo di mela e se la portava alla bocca. Andare a letto con il capo serve. Lo sentì alzarsi, raggiungerla e passare un braccio attorno alla sua vita sottile. Il suo fiato caldo sul collo le procurò un brivido, mentre stendeva la mano e le rubava un pezzo di mela, facendola sbuffare.

La fece girare verso di sé, sfilandole dalle mani il coltellino con cui stava  lavorando il frutto, gettandolo nel lavandino. La guardò mentre masticava la mela, quasi come se stesse studiando la sua espressione, che Nina cercava di mantenere il più neutra possibile.

L’uomo cercò le sue labbra, le catturò, tenendola prigioniera tra il suo corpo e il mobile della cucina. “Hai voglia di festeggiare?”

Nina ci pensò un attimo. La sua parte razionale le imponeva di mandarlo a quel paese, di scostarlo da lei e di andarsene da quella cucina. Ma dentro di sé stava prevalendo il suo lato ferino, ridestato dal desiderio. Alla fine, Nina, ci guadagni pure tu. Le ricordò una vocina fastidiosa che ultimamente le stava diventando troppo famigliare. “Si, direi che è una buona occasione per festeggiare.” Accordò.

Si sentì sollevare e appoggiare sul mobile. Cinse i fianchi dell’uomo con le sue gambe, lasciando che le sbottonasse la camicetta, mentre lei gettava la testa indietro, appoggiandola contro il pensile, ripetendosi che fosse solo un bisogno fisiologico, e che lui non avrebbe dovuto sentirsi un vincitore.

 

Restando lontani il più possibile avevano trovato un certo equilibrio, doveva ammetterlo. Non si vedevano per intere settimane, da quando a Nina era stato affidato un incarico di spionaggio per recuperare il traffico d’armi che alimentava l’esercito di Lars Alexanddersons. Avevano comunque preso l’abitudine di incontrarsi se, per coincidenza, si trovavano nello stesso posto, o avevano un volo in comune.

Poche ore rubate ai reciproci impegni, attimi di passione fra i pericoli quotidiani, ogni volta in un hotel diverso, nemmeno fossero stati amanti costretti a nascondersi ai rispettivi consorti.

Nina si rifiutava di porsi domande sulla sua sottospecie di relazione con Dragunov. Era palese che si potesse, anzi, si dovesse ridurre solamente la questione all’atto fisico. Era una cosa estremamente piacevole, innocua, quasi divertente. Poteva freddamente definirla un hobby, un passatempo con cui spezzare la routine delle indagini.

Non c’era nulla di più. Quel tuffo al cuore che sentiva nel vederselo avvicinare non significava nulla, così come il suo braccio che le cingeva la vita e che la portava a dormire vicina a lui, al suo respiro, al suo calore.

Nina si imponeva di non provare nulla. Non ne aveva tempo, voglia e possibilità. Con la vita che conduceva, legarsi ad una persona era una debolezza che non poteva permettersi, tantomeno legarsi sentimentalmente, e non solo fisicamente, ad un uomo freddo e criptico come Sergei.

Lei non era una donnicciola in fregola, bisognosa di cure e di attenzioni, né una principessa disarmata e in costante pericolo. Lei era una leonessa bionda dal quale bisognava stare alla larga, se si voleva seguitare a vivere sereni e camminare sulle proprie gambe.

E allora perché diavolo continuava ad aprire la sua casella e-mail nella speranza di trovare un suo messaggio?

 

L’alba di un giorno di Febbraio che tingeva di rosa Francoforte, entrando dalle tende aperte, la svegliò facendola imprecare contro Dragunov, che si era scordato di chiuderle la sera precedente. L’uomo aprì un occhio, con una smorfia di disappunto: “Tanto ci saremmo dovuti svegliare comunque.” Si alzò a sedere, stropicciandosi gli occhi, prima di guardare l’orologio. “Ho il volo per Berlino tra un paio d’ore.” Biascicò, voltandosi verso la donna, che non tratteneva una smorfia canzonatoria. “Il mattino è terribile anche per te.”

Lui sbuffò infastidito, prima di decidersi a fare una doccia per svegliarsi meglio. Nina rimase sul letto: poteva permettersi una mezz’ora di relax in più, non aveva senso fare le corse. Provò a richiudere gli occhi, ma il sonno sembrava essersi diretto altrove; in compenso lo stomaco aveva iniziato a brontolarle rumorosamente. Si ricordò di un pacchetto di biscotti mezzo aperto sul tavolino della stanza, e si alzò per prenderne uno. Nel farlo urtò i pantaloni che l’uomo aveva gettato sul mobile, facendoli cadere: il portafoglio cadde dalla tasca e si aprì ai suoi piedi. Infilandosi un biscotto in bocca, Nina raccolse ciò che era caduto, accorgendosi che quel portafoglio aperto era una tentazione troppo forte per lei, la cui deformazione professionale la portava a cercare informazioni sulle persone che conosceva tramite qualsiasi mezzo. Con lo scroscio della doccia di sottofondo, a cui stava ben attenta, diede un’occhiata all’interno del portafoglio di pelle nera.

Il badge dell’esercito con cui apriva anche la porta di casa… un altro badge con nome e nazionalità falsa, un biglietto con una scritta in cirillico… e, nella tasca più nascosta, una sua piccolissima foto.

Nina spalancò gli occhi sbalordita. Era un quadratino minuscolo, di carta, probabilmente una foto di lei rubata di nascosto, infilata in qualche file dell’esercito e stampata per chissà quale motivo. Sobbalzò accorgendosi di non sentire più il rumore dell’acqua, avendo la prontezza di rimettere tutto a posto e di appoggiare i pantaloni, prima che lui uscisse dalla doccia. Il biscotto le era rimasto in bocca e se lo ricordò solamente dopo qualche secondo.  Si risedette sul letto, masticando, con il batticuore: Sergei teneva una foto sua nel portafoglio.

Probabilmente risale a mesi fa, l’ha stampata per riconoscerti durante il torneo, per evitarti, o per catturarti. Per quale altro fottuto motivo avrebbe dovuto tenere la tua foto? Si disse, cercando di vincere il suo turbamento. Per quanto provasse a convincersi dell’utilità pratica di quell’immagine, però, non riusciva a smettere di sorridere, con le briciole del biscotto sulle labbra. Per ricordarsi con chi ha una sottospecie di relazione ipotizzò flautata la solita vocetta. Era impazzita, o la cullava quest’ultima idea?

“E’ tutto tuo” le disse Sergei uscendo dal bagno, l’asciugamano avvolto attorno ai fianchi. Nina provò ulteriormente a togliersi quel sorriso stupido dalla faccia, invano. Anche l’uomo si accorse della sua espressione, e la guardò incuriosito, prima di indicarle il mento pieno di briciole, che lei provedette a pulirsi con il dorso della mano, improvvisamente nervosa. Si alzò di scatto per nascondere il suo stato e disse che sarebbe andata a prepararsi, mentre lui si rivestiva.

 “Io invece è il caso che vada”

“Di già?” la domanda era uscita dalle sue labbra senza che lei lo potesse impedire. Si morse la lingua, voltandosi verso il bagno ed entrando quasi di corsa, frapponendo tra di loro la porta bianca e pensando a quanto stupidamente si stesse comportando.

Si pizzicò la guancia, scuotendo la testa per riprendersi: Una doccia era quello che ci voleva, avrebbe lavato via tutte le sciocchezze che si era trovata a pensare. Sentì picchiettare contro il legno della porta: “Si?” chiese con un filo di voce, cercando di appellarsi alla sua solita, algida dignità per sembrare neutrale.

“Resto a Berlino sino a stasera” disse Dragunov, aprendo appena la porta. “Poi domani mattina dovrò prendere il volo per Mosca”

“Quindi?”

“… quindi sarei qui per l’ora di cena. Hai da fare stasera?”

Un altro tuffo al cuore, un’altra scarica di stupida agitazione. “Teoricamente no” deglutì, tamburellando con il piede per terra. Che avesse capito qualcosa? “Torneresti a Francoforte?”

“Dovrei farlo comunque. Domani non c’è il diretto per Mosca, da Berlino. Tanto vale che venga qui prima.”

Si sentì un po’ delusa: per un attimo aveva pensato che avrebbe fatto una deviazione di percorso solo per vederla, non solo perché lo impedivano i piani di volo.  Che sciocca! Quasi non si riconosceva più! Asserì, dicendo che per lei andava bene.

Dragunov aprì la porta e scivolò nel bagno e la raggiunse, intossicandola con il suo solito, conosciuto, apprezzato dopobarba. La salutò con un bacio, una cosa quasi inusuale e naturale allo stesso tempo. “Buona giornata, Nina”

Lei lo salutò con un cenno della mano, appoggiandosi contro la parete di plexiglass della doccia. Si sentiva frastornata, agitata, con mille pensieri e mille domande che le vorticavano in testa. Le venne un’idea, folle, impulsiva, in cui non riconobbe sé stessa, mentre la metteva in atto: Uscì dal bagno, sui passi di Dragunov che raggiungeva la porta. “Sergei!” chiamò. “Potremmo cenare fuori, che ne dici? In questi giorni ho visto un ristorante italiano all’angolo, non mi dispiacerebbe provarlo e…” si pentì subito della proposta, preparandosi ad incassare quel NO secco che, sicuramente, stava per affiorare dalle labbra livide del russo. Quel lampo di incredulità che gli aveva attraversato le iridi algide ne era il preludio.

Ma invece, con un cenno del capo quasi impercettibile, rispose“Può andare”, prima di uscire dalla stanza, lasciandola di stucco.

 

Concentrarsi sul proprio lavoro non le era mai stato così difficile come quel giorno, e fu solo un colpo di fortuna che si trovò ad intercettare qualche informazione riguardante un’Arma X che l’esercito di Alexanddersons stava sviluppando. Era solo un piccolo cenno, neppure una descrizione, ma Nina passò subito le informazioni al comando a Mosca con un’ombra di inquietudine che sparì completamente al calare della sera.

 

 

Capitolo tedioso e descrittivo sulla loro “sottospecie di relazione”, che vi farà storcere un po’ il naso, ma che l’ho reputato necessario al fine di farvi capire come procedeva la storia tra di loro, per arrivare ai “momenti clou” (hihihihi-risata sadica di una pazza). Non pensate di cavarvela con poco: se tutto procede bene, questo strazio di storia continuerà a lungo e avrà risvolti inaspettati (inaspettati pure per me).

L’algida Nina sta perdendo colpi, ragazzi…

Grazie mille ancora per le vostre recensioni!! Vi prego, continuate e se vi garba, fatemi pure un po’ di pubblicità!!!

EC

 

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Capitolo 10
*** Two differents ways ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

10: Two different ways.

12 Mesi Dopo.

Nina Williams percorse scocciata il corridoio del comando che conduceva alla porta della sala riunioni a lei nota.. Era rientrata in fretta e furia dal Sudafrica, chiamata con urgenza alla base, proprio quando stava per mettere le mani addosso ad un membro della New Tekken Force, dopo l’ordine che era arrivato direttamente da Volkov. Bussò, prima di girare la maniglia ed entrare.

Come la volta precedente, quando in quella sala era stata interrogata e arruolata nell’elite di Dragunov, i tre posti a sedere erano occupati da Volkov, al centro con Sharapov e Pavlov ai lati. Dragunov era in piedi di fronte a loro. Nina lo raggiunse, salutando il comando.  Le venne il dubbio che non fossero così all’oscuro della loro sottospecie di relazione, ma escluse a priori che li avessero richiamati alla base solamente per quel motivo.

Ad un cenno di Volkov, Sharapov accese uno schermo al plasma attaccato al muro, dove comparve il volto di Lars Alexanderssons, le labbra sottili distese in un sorriso arrogante.

“Un caloroso saluto dall’ultimo discendente dei Mishima, cari ascoltatori.” Iniziò, con un cenno falsamente gentile della mano. “Vi domanderete perché abbia deciso di mostrarmi a voi tutti, nonostante sia il più ricercato al mondo, pubblicando un video su youtube come se fosse la bravata di un adolescente, o un demo promozionale di un qualche cantante emergente. Sono certo che, in brevissimo tempo, con questo mezzo raggiungerò la maggior parte delle persone possibili.

Ho tutta l’intenzione di portare avanti il progetto del mio ‘caro’ nipotino defunto, Jin Kazama. La Mishima Zaibatsu non è crollata miseramente con quel palazzo, la discendenza non si è spezzata. Vi rimane un ultimo Mishima, e lo vedete qui davanti ai vostri occhi. In questi ultimi mesi, sono stato impegnato a lungo per riuscire a riformare l’esercito della Tekken Force e a riequipaggiarci. I governi di tutto il mondo pensavano che sarebbe stata una cosa così facile distruggere una potenza come la nostra, ma si sbagliavano di grosso.

Nel momento in cui state visionando questo filmato, Le mie truppe, i miei agenti segreti, stanno prendendo il controllo assoluto del Giappone, delle Filippine, della Kamcatka e dell’Indocina.  La Mishima Zaibatsu si è ripresa, e sta tornando al potere ora più che mai.

Tuttavia, ben conoscendo la disastrosa situazione economica mondiale, ho deciso di rinnovare una tradizione ventennale della famiglia.

Annuncio con mio grande onore, il Settimo Torneo del Pugno d’Acciaio, che si terrà a Tokio a partire dal 1° Giugno di quest’anno. Avete ben 3mesi di tempo per allenarvi, miei cari lottatori, e per ambire al premio di 100 milioni di dollari. Le selezioni saranno ardue e il gioco sarà pericoloso. Il migliore si batterà con Deimos, un mio caro…amico’, si possiamo chiamarlo così, in una lotta all’ultimo sangue.

Sono convinto che le adesioni non mancheranno. Vi ringrazio per l’ascolto, buon proseguimento di giornata.”

Nina era sbalordita. Lanciò uno sguardo attonito a Dragunov, a cui fremeva la mascella. “E’ vero ciò che dice?” quasi ringhiò, all’indirizzo dei comandanti.

“Abbiamo perso il territorio della Kamcatka, ma non oseranno sfidare la Siberia per attaccare Mosca. Per quanto riguarda le Filippine, il golpe è passato quasi inosservato, mentre in Indocina ci sono numerosi scontri, ma ormai è presa. Il governo provvisorio del Giappone era già provato dalla precedente guerra, si è arreso senza dar battaglia.”

“Non è previsto nessun intervento da parte dei nostri contingenti?” I pugni di Dragunov erano serrati in una morsa stretta, la sua mascella continuava a fremere. Sembrava sul punto di esplodere da un momento all’altro.

“Ti abbiamo chiamato per elaborare un piano di salvaguardia del nostro territorio. Per il momento ci baseremo sulla difesa, insieme agli alleati. Gli Stati Uniti stanno già inviando la loro flotta navale verso le isole giapponesi.”

Sergei Dragunov incrociò le braccia sul petto, in attesa di nuovi ordini.

Volkov si rivolse a Nina: “Per quanto le riguarda, Miss Williams, data  la sua comprovata esperienza nei precedenti Tornei del Pugno d’Acciaio, parteciperà, come se fosse di sua spontanea volontà. Non è necessario che lei si qualifichi ad un alto livello del torneo, quanto piuttosto che riesca a trovare informazioni sull’Arma X.”

La donna annuì. “Pensate che si trovi in Giappone?”

“Ne siamo certi. E’ l’unica informazione che abbiamo.”

“E potrebbe avere un nesso con questo Deimos?” Conosceva abbastanza la mitologia greca per sapere che Deimos, il cui significato era Terrore, era uno dei figli gemelli di Marte e Venere. E, conoscendo i deliri di onnipotenza nel pieno stile Mishima, non poteva non domandarsi se l’ultimo di quella stirpe idiota non avesse trovato un modo per risvegliare un altro antico Dio. D’altronde, tale padre, tale figlio.

“E’ un’ipotesi da non sottovalutare” Volkov si alzò, percorrendo con passi lenti la stanza.  “Tra due giorni, Miss Williams, lei partirà per l’Irlanda. Tornerà al suo paese d’origine, ovviamente sotto la nostra protezione, e si allenerà per i successivi tre mesi, sino all’inizio del torneo. Dopo di che volerà a Tokio e prenderà parte. Pavlov si assicurerà che le sarà fornita tutta l’attrezzatura necessaria, i documenti e l’organizzazione degli spostamenti”.

Nina annuì, mentre riceveva il congedo del comandante. Salutò e fece per uscire, ma la voce del Colonnello la fece fermare nuovamente  “Un’ultima cosa:” in questo periodo di tempo, i contatti tra lei e qualsiasi membro della Spetsnaz dovranno essere ridotti al minimo e previa mia diretta autorizzazione.”

Annuì di nuovo, uscendo dalla stanza, ormai certa che i capi della Spetsnaz fossero pienamente a conoscenza di ciò che succedeva tra lei e Dragunov.

 

Chiuse la valigia con un sospiro, prima di posarla ai piedi del letto e gettarsi sul materasso. L’orologio segnava l’una di notte, e Sergei  non era ancora rientrato. Probabilmente era ancora impegnato nella riunione tattica, ad organizzare la difesa del territorio russo e a preparare un contrattacco.

Sarebbe andato al fronte.

Dalle ultime notizie che aveva avuto, Alexanderssons aveva risposto al fuoco della marina degli Usa con un arsenale di tutto rispetto, sfoderando una flotta aerea efficiente e dotata di armi d’ultima generazione.

E Sergei avrebbe combattuto al fronte.

Se la caverà si disse, indispettita dai suoi stessi pensieri cupi. Non è mica un pivello. Lui è un uomo nato per combattere, è una macchina da guerra, e di certo non si risparmierà in battaglia.

Si ritrovò a sospirare, domandandosi se l’avrebbe più rivisto, cosa ne sarebbe stato di lui.

Idiota. Pensa a te stessa, non ti aspetta di certo un compito facile.  Almeno aveva un alibi alla partecipazione: era certa che Anna si sarebbe fatta viva, il torneo era un’occasione troppo ghiotta per farsela scappare, era certa che sua sorella sapesse che avrebbe partecipato, e si sarebbe presentata di persona per vendicarsi dell’ultimo affronto che aveva subito al precedente torneo. Nina si lasciò sfuggire un sorrisetto: questo si che significava vedere il bicchiere mezzo pieno.

Il volto di Steve le balenò in mente: anche lui avrebbe partecipato a quella farsa? Oh no, troppo pericoloso… suo figlio non poteva essere così stupido da mettere in repentaglio la sua vita per un pugno di dollari, per quanto fosse grosso suddetto pugno.

Meglio sincerarsene, comunque, per impedirgli eventualmente di partecipare. Allungò la mano verso il suo cellulare, fece per cercare in rubrica il numero di Steve, un numero che l’aveva tentata tante, troppe volte, e che aveva imparato a memoria dal primo istante.

Si fermò poco prima di schiacciare il tasto verde, ricordandosi di essere sotto sorveglianza: meglio evitare certe seccature, era più saggio attendere il giorno dopo e chiamare da un telefono pubblico, o da una linea non protetta.

Oppure mandargli una mail. Un po’ troppo freddo ed impersonale forse, ma almeno non le sarebbe venuto quello scomodo groppo in gola.

Sospirò: il pensiero di Steve la faceva sentire serena e triste allo stesso tempo. Se lo immaginò mentre dormiva, magari abbracciato a Julia, rilassato, felice, appagato, con il suo sorriso radioso dedicato alla propria ragazza.

Una fitta di invidia. Per lei non c’erano sorrisi.

Ed era giusto così. Forse.

Spense la luce, addormentandosi con il cellulare in mano.

 

“Nina. Nina, svegliati.” La voce calma ma decisa di Dragunov, mentre la scuoteva gentilmente, la strapparono dal mondo dei suoi sogni vuoti.

Aprì appena gli occhi, scorgendo l’uomo, chinato su di lei, nella semioscurità della camera. La luce bianca filtrava dalle tende, doveva già essere l’alba. “Sei appena arrivato?”

Dragunov annuì, gli occhi sempre puntati sui suoi. “Parto questa sera. Vado verso Ovest.”

“Al fronte?”

Nuovamente, l’uomo annuì. Nina si spostò di lato, facendogli spazio nel letto. Lui si tolse i vestiti e le si sdraiò di fianco, attirandola a sé. Le cinse il busto con le braccia, facendola aderire al suo petto, tuffando il volto tra i suoi capelli dorati. “Per un po’ di tempo prenderemo due strade diverse”

“E non ci potremo neppure sentire” asserì Nina, senza riuscire a nascondere una punta di rammarico nella voce. Sembrò che un coltello le stesse dilaniando le carni quando avvertì la consapevolezza che potevano essere le ultime ore che passavano insieme, e che quella partenza poteva significare la fine della sottospecie di relazione in cui si era lasciata invischiare quasi senza accorgersene.

Cosa significava tutto questo? Poteva seguitare a negare che significasse qualcosa per lei? Si era affezionata a quell’uomo?

Lasciò che i propri pensieri scorressero liberi, almeno per una volta. Non aveva mai avuto una storia così lunga con qualcuno, e questo la diceva lunga sui suoi rapporti con l’altro sesso.

Non era mai stata interessata a cercasi un uomo con cui condividere qualcosa di più che una breve e rara parentesi sessuale, il più delle volte per interesse che per desiderio. Emozioni e sentimenti sembravano estranei dal suo modo di vivere e di pensare, non li provava né li cercava.

Ma ora le erano capitati tra capo e collo.

Poteva accettare di provare qualcosa di caldo, positivo e addirittura tenero per Steve. In fondo era suo figlio, era giusto così.

Ma per Sergei Dragunov?

Decise di tenere i suoi pensieri per sé, insieme alle sue lacrime e a quella voragine che sentiva le pareva di avere al posto del petto, ancora una volta.

Lui di certo non provava quello che stava provando a lei. Nessuno dubbio, nessuna esitazione stupida ed inutile. Nessuna emozione, sensazione, affezione.

E allora perché la teneva così stretta a sé, e si era addormentato con le sue labbra sulla sua guancia?

 

 

Oh nooo!!! Si sepaaaarano nooooo!!!

Bene, bene. Ecco qui che piano piano si entra nel clou della storia.

Scusate il ritardo, ho iniziato a lavorare (Yuppie!).

Ringrazio ancora per le recensioni!!! Vi voglio  bene!!!!

E.C.

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Capitolo 11
*** Isn't Cold, in your Little Corner of The World? ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

11: Isn’t cold, in your little corner of the world?

Tre mesi dopo, Nina lasciò Dublino quasi con sollievo. Passeggiare per la sua città, sui ponti del Liffey, tra le note degli U2 e i pub di Guinness che si affacciavano sulle strade umide di pioggia, aveva fatto riaffiorare una nuvola grigia di ricordi spiacevoli.

Si era allenata nell’ex palestra di sua madre, la cui foto autografata campeggiava all’ingresso. Si meravigliò nel ricordare come poco l’avesse frequentata, al contrario di Anna, cresciuta praticamente tra quelle quattro mura di legno.

Dove si trovava la scuola elementare cattolica che aveva frequentato durante l’infanzia, sorgeva un nuovo complesso commerciale. Niente più bambine in uniforme a scacchi blu, niente più pinguine severe.

Aveva ritrovato il palazzo in cui viveva, ed era riuscita ad entrare e a salire la tromba delle scale, le cui pareti erano molto più grigie di quanto se le ricordasse. Passando davanti all’unica finestra che dava sulla strada, le tornò alla mente il ricordo di quando aveva dieci anni e sua madre, dopo un furioso litigio con suo padre, era uscita sbattendo la porta e portando Anna, in lacrime, con sé. Aveva fatto per rincorrerle, ma suo padre l’aveva richiamata indietro.

E lei era rimasta davanti a quel vetro, a vedere sua madre che camminava veloce sotto la pioggerellina autunnale, trascinando la sua figlia più piccola. Anna si era voltata, scorgendola attaccata a quella finestra, lanciandole uno sguardo implorante.

Ma lei aveva ubbidito a suo padre, era restata al suo posto, seguendole solo con lo sguardo finché non scomparvero da dietro l’angolo. Scavò nella sua memoria, alla ricerca di un qualche particolare del litigio, senza successo. Com’era finta, poi?

Ah, si: erano tornate a tarda notte, dopo tutta la giornata passata in palestra. Anna era entrata nella camera che condividevano, gli occhi gonfi di pianto e le nocche delle mani pelate: era stato il suo primo allenamento di Aikido con sua madre.

Ricordò di averla presa in giro per quelle vesciche scoppiate, mostrandole le sue, affinate da anni di allenamento paterno, e chiamandola con il soprannome sprezzante che le aveva affibbiato loro padre, bambolina mollacciona, mentre la sorella si soffiava sulle mani per alleviare il bruciore, senza ribattere alle battute crudeli. Provò un qualcosa di vagamente simile ad una fitta di rimorso per quello che le aveva detto: che razza di bambina stronza che era stata.

Forse era stata quella l’origine dell’astio tra di loro.

 

Aveva poi contattato Steve, un giorno, da un telefono pubblico. Suo figlio si trovava in Norvegia, aveva appena vinto un incontro la sera prima. Nina si complimentò con lui, sinceramente orgogliosa. Durante quell’ultimo anno e mezzo le volte che l’aveva sentito si potevano contare sulla punta delle dita di una mano, sempre cercandolo lei per prima, senza mai lasciare recapiti per essere rintracciare.

Nonostante questi contatti rari, Steve sembrava sempre contento di sentirla, di raccontarle dei suoi incontri, dei suoi allenamenti e di Julia.

“Adesso faccio qualche mese di Stop e volo in Arizona.” Decretò, infine. “Ci alleneremo un po’ insieme, anche.” Aggiunse, con una nota divertita e birbante nella voce.

“Bravo, resta sempre in allenamento, non smettere. A proposito” La voce di Nina si fece più cupa. “Non avrai mica intenzione di partecipare al Torneo del Pugno d’Acciaio, vero?”

Dall’altro capo del telefono Steve rimase un attimo in silenzio. “Beh, ecco…”

“Provaci soltanto, e questa volta non esiterò a schiacciare il grilletto, siamo intesi?”

“Ma mamma!” protestò il ragazzo, come un adolescente davanti al diniego del genitore per un’uscita “Sono 100 milioni di dollari! Posso sistemarmi per tutta la vita! Ne vale la pena, non credi?”

“La tua vita vale molto più di 100 milioni di fottutissimi dollari” sibilò Nina, prima di salutare e riattaccare.

Uomini. Tutti uguali. Tutti sciocchi ed avventati.

A costo di gambizzarlo, suo figlio non sarebbe andato al macello contro Lars Alexanderssons e soci.

 

Alla fine del terzo mese, Nina ricevette via mail l’ordine di partire per il Giappone, come previsto. Si imbarcò sull’aereo con un biglietto acquistato su internet, senza voltarsi indietro.

Mentre l’Hostess di volo le augurava buon viaggio, dopo averle controllato il passaporto falso, Nina si rese conto che per quei tre mesi, a parte la telefonata a Steve e una ricevuta al comando, non aveva parlato praticamente con nessuno.

Come la pioggerellina insistente, capricciosa e fredda della capitale Irlandese, qualcosa si insinuò tra i suoi vestiti e le penetrò la pelle. Una cosa ugualmente gelida, fastidiosa ed insistente: una sensazione di vuoto.

Mentre l’aereo decollava, Nina sentì  il peso della solitudine piombarle sulle spalle: non l’aveva mai sentito prima, ma lo poteva riconoscere come se fosse la sensazione a cui lei era più abituata al mondo.

In quei tre mesi non aveva fatto altro che allenarsi, bighellonare in giro per Dublino scavando nei propri ricordi, cercando con ogni mezzo di scacciare qualsiasi pensiero su Sergei Dragunov, per non cadere preda di quella sottospecie di nostalgia che l’avrebbe distratta dal raggiungere i propri obbiettivi.

Il suo obbiettivo era partecipare al torneo, facendo una figura credibile, come alibi alla sua attività investigativa.

Poi avrebbe sistemato i conti con Anna, ammesso e non concesso che partecipasse.

Infine, a missione ultimata, allora avrebbe potuto rivedere Sergei, passare altre notti di passione con lui, e magari trovare una risposta ai mille quesiti che le affollavano la mente.

 

L’atterraggio all’aeroporto di Tokio era stato abbastanza brusco. Lo stomaco di Nina si torse fastidiosamente al rimbalzo del carrello anteriore sull’asfalto.

E’ l’ultima volta che prendo il posto davanti si ripromise, slacciandosi seccata la cintura di sicurezza.

Un sole malato illuminava una città dove rovina e ricostruzione si incrociavano in un paesaggio spettrale: accanto a gru e cantieri in funzione, intenti ad erigere nuove sfavillanti costruzioni, si trovavano gli scheletri abbandonati di case martoriate dai bombardamenti, scoperchiate, ridotte a cumuli di macerie. Si domandò con quale cognizione dell’ordine fosse stata pianificata la ricostruzione urbana.

Un messaggio sul telefono di servizio l’avvisava del nome dell’Hotel Supreme, con l’indirizzo e addirittura il numero di camera, il 134. Dopo averlo letto, la donna prese un taxi e vi si fece portare, rimanendo stupita nel riconoscere la facciata, ridipinta e ristrutturata, dell’Hotel Imperial. Il suo stupore fu ancora maggiore nel constatare, quando il facchino aprì la porta della 134 scortandole i bagagli, che era la stanza che, un anno e mezzo prima, aveva condiviso per la prima volta con Dragunov.

Il dubbio gentile che ci fosse lui, dietro a quella prenotazione, e che sarebbe comparso da un momento all’altro le allietò la giornata e le fece spuntare un sorrisetto sulle labbra rosee. Lasciò una cospicua mancia al facchino, prima di rovistare nel suo bagaglio alla ricerca di quel completino di pizzo con cui voleva farsi trovare dall’uomo.

Dedicò la successiva ora alla toeletta personale. Non era una donna vanitosa che passava ore allo specchio e che non si presentava ad un uomo se non perfettamente truccata e pettinata, ma quella era un’occasione speciale. Dopo tre mesi di lontananza aveva pure il diritto di trovarsi davanti ad una donna che si potesse definire tale.

Quando ebbe finito accese la televisione. Guardò qualche programma a caso, un paio di proclami eclatanti di Alexanderssons e le previsioni meteo, che mettevano pioggia in serata e sereno per il resto della settimana.

Si sedette sulla poltroncina rossa vicino alla finestra, ricordandosi che lui e la sua sigaretta erano seduti proprio lì, con il vetro appena aperto per far uscire il fumo e le persiane chiuse, che avevano chiuso fuori la guerriglia del post-Mishima. Gettò un’occhiata dalla finestra: era una posizione ottimale per tenere la strada sottostante sotto controllo. Un taxi parcheggiò davanti all’ingresso, e Nina allungò il collo per scorgere l’occupante che stava scendendo, riconoscendo Paul Phoenix e il suo amico Marshall Law. Sbuffò, guardando l’orologio.

Il telefono della camera suonò e la donna scattò per alzare la cornetta. La voce della receptionist l’avvisò che c’era una persona per lei al bancone.

Indossò una corto vestito nero e i suoi stivali di pelle del medesimo colore, avendo cura, per abitudine, di nascondere una pistola sotto la gonna.

Attraversò la hall dell’esercito ancheggiando, guardandosi attorno attraverso le lenti scure degli occhiali da sole che si era infilata. La hall era affollata di  persone, molte delle quali erano membri di troupe televisive.

“E’ attesa nella sala riunioni, l’accompagno.” Le sorrise la receptionist.

Era strano. Troppo strano.

Il comando non poteva incontrarla senza avvisarla in una sala riunioni. Tantomeno Sergei. Ci doveva essere qualcos’altro sotto. Scosse la testa all’indirizzo della ragazza, facendo scivolare le dita verso la pistola. “Vado da sola, grazie.” Disse, incamminandosi verso il corridoio delle meeting rooms.

Arrivando davanti a quella che le era stata indicata, sfilò la pistola dalla fondina e tolse la sicura.

Aprì la porta di scatto e balzò dentro, la pistola spianata.

 

Un sorriso smagliante le rispose dall’altro lato di un piccolo tavolino nero. “Mi aspettavo una cosa simile Nina… non cambi proprio mai!”

Lentamente, la donna abbassò la pistola, meravigliata, ma determinata a non mostrane quanto. “Anna… mi aspettavo che tu partecipassi al torneo… ma questa tua mossa proprio non l’avevo prevista”

Di nuovo, la sorella le rispose con un sorriso. C’era qualcosa di diverso in Anna, qualcosa di strano. Il suo viso, leggermente abbronzato, le sembrava più tondo, gli occhi le brillavano e quel sorriso così… genuino non ricordava di averglielo mai visto.

“Puoi mettere via la pistola, non sono affatto armata.” Continuò la sorella, giocherellando con la stoffa leggera del suo svolazzante vestito rosso, senza alzarsi dalla sedia. Sembrava quasi nervosa.  “Avevo solo bisogno di parlarti”

“Che diavolo vuoi?” domandò dura la bionda, nascondendo nuovamente la pistola ed incrociando le braccia sul petto.

Anna rispose con un risolino, prima di spostare la sedia e alzarsi. “Non l’hai ancora notato?”  Mentre si alzava faticosamente, il vestito di chiffon in stile impero le scivolava lungo il corpo, arrivando alle ginocchia coperte da leggings neri, delineando un ventre perfettamente tondo e grosso.

Nina rimase di stucco, non riuscendo a trattenere oltre le braccia al petto, lasciando che le cadessero lungo i fianchi, l’espressione inebetita come mai prima d’ora.

“Tu… tu sei…”

Senza smettere di sorridere Anna alzò le braccia, come se fosse stata la cosa più semplice del mondo. “Incinta. Incintissima direi.” Fece aderire il vestito alla pancia. “Sorpresa!” esclamò. “E’ un maschietto, sono ormai alla fine, tra 10 giorni è previsto il termine. Volevo vederti prima e sapevo di trovarti qui, così ho insistito per venire. Ci tenevo a dirtelo di persona e a renderti partecipe.”

Nina scosse appena la testa, incredula.

“Noi non siamo mai state amiche, e non ci siamo mai comportate veramente da sorelle. Ma ora ho uno scopo nella mia vita che non c’entra niente con l’annientarti o il dimostrare di esserti superiore. Dopo il sesto torneo, ho vissuto un periodo molto buio della mia esistenza, da cui ne sono uscita solamente grazie ad una persona che mi è stata vicino e che mi ha aiutata a capire di cosa avessi veramente bisogno, e cosa stessi realmente cercando. Io non voglio odiarti, né ucciderti, né umiliarti. Questo momento che sto vivendo ora, è meraviglioso, incredibile. E voglio condividerlo con la mia famiglia. Che sei tu.”

Nina fu sorpresa da come le splendevano gli occhi, da come le guance ripiene si fossero appena arrossate mentre parlava. Si ritrovò a domandarsi se quello che dicesse fosse realmente vero, senza doppi fini o tentativi di raggiro. Tuttavia, non poteva essere davvero possibile una cosa del genere da sua sorella.

“Vuoi farmi credere che questo discorso strappalacrime sia vera?”

Anna annuì. “Forse sono gli ormoni” commentò sorridendo, mentre l’altra voltava la testa sprezzante dall’altra parte. “Hai una vaga idea di chi possa essere il padre?”

La mora scoppiò in una risata squillante: “Ma certo!” alzò la mano sinistra, dove all’anulare splendeva una fede dorata. “E’ mio marito, Lee Chaolan.”

Nuovamente, le braccia di Nina si rifiutarono di restare incrociate.

 

EEEET VOILAAAA!

Troviamo una Anna lievemente cambiata… quasi OOC, direi. Se non fosse che ho un’idea del personaggio e dei suoi comportamenti ben precisa….

La storia sta entrando nel vivo…

Come finirà tra Nina e Anna?

E quando si degnerà di tornare in scena Dragunov??? (con calma, mi raccomando… fatti pure i comodi tuoi…)

Grazie mille per le recensioni… non avete idea di come sia importante questa storia per me e sapere che vi piace…

 

Attendo commenti alla notizioooona. (non preoccupatevi… ci saranno altri colpi di scena)Ah, a proposito: il titolo è tratto dalla canzone Nikita di Elton John.... se l'ascoltate, e vedete il video... non vi ricorderà Nina?

EC

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Capitolo 12
*** Get Ready for the Next Battle! The King of Iron Fist Tournament 7 ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

12: Get Ready for the Next Battle! The King Of Iron Fist Tournament 7.

Coricata sul letto dell’Hotel Supreme, Nina Williams fissava il soffitto, gettando di tanto in tanto occhiate all’orologio per controllare l’ora. Le 23. 35.

Tre ore prima aveva ricevuto dal comando l’ubicazione del nascondiglio dell’attrezzatura, con il consiglio di recarvisi per controllare che fosse tutto a posto. Non poteva fare a meno di sperare che vi avrebbe trovato anche Sergei ad attenderla. Aveva provato subito a recarsi nel luogo prestabilito, ma quattro corpulenti bodyguard l’avevano fermata all’uscita dell’hotel, informandola che era proibito, agli ospiti, lasciare la struttura se non per partecipare al Torneo che sarebbe iniziato il giorno dopo. Nina aveva sbuffato: “Volete impedirmi di prendere una boccata d’aria, di andare a far shopping?” aveva domandato

Uno di loro aveva scosso la testa: “Mi dispiace, signorina, ma questi sono gli ordini”

Pazienza. Avrebbe atteso il favore delle tenebre per uscire dall’edificio. Mezzanotte sembrava un orario favorevole allo scopo.

Giocherellò con le lenzuola, pensando all’incontro con sua sorella, poche ore prima.

Il sorriso di Anna era improvvisamente scomparso, di fronte alla sua ferma intenzione di non voler aver nulla a che fare con lei. “Non mi vuoi più battere, sorellina? Hai capito che sono la migliore?”

“Non mi interessa saperlo” aveva ripetuto Anna. “Voglio solo avere un rapporto normale con mia sorella. Te l’ho detto, voglio solamente…

“Risparmiami ancora questo discorso disneyano, per favore. L’unico motivo per cui mi eri necessaria era per recuperare la memoria. L’ho recuperata da sola, ed ora, se non hai intenzione di batterti con me, o di mettermi i bastoni tra le ruote, non mi sei più di nessuna utilità. Puoi andare pure per la tua strada, a giocare a fare la casalinga disperata.”

La sorella le era sembrata davvero contrita. Aveva abbassato gli occhi a terra, mordicchiandosi il labbro inferiore, incassando senza ribattere il suo rifiuto. “Perché non riesci a capire…

“Perché non c’è nulla da capire, Anna. Hai tentato per tutta la tua inutile esistenza ad emergere, a diventare qualcosa. Quando finalmente hai capito di non potercela fare, di essere la perdente che nostro padre ha sempre detto che tu fossi, allora hai pensato di sposarti un milionario e farti ingravidare per assicurarti il patrimonio. Una cosa abbastanza banale, l’hanno fatta in molte.”

Scuotendo il caschetto castano, Anna aveva alzato lo sguardo da terra, un lampo di rabbia scarlatta che le attraversava gli occhi: “Tu non ne sai nulla, e nulla vuoi sforzarti di capire” Ringhiò, afferrando la borsetta dal tavolo e avvicinandosi all’uscita. Si fermò dopo aver aperto la porta, voltando lievemente la testa verso la sorella maggiore. “Sei un’assassina perfetta, Nina. Senza scrupoli, sentimenti o debolezze. Complimenti. Se sei felice di questo, allora è giusto che tu continui a comportarti così.”

 

Felice?

Nina era la migliore killer che ci potesse essere in circolazione, era un agente segreto dell’esercito russo, era bellissima e pericolosa. Era diventata esattamente quello che suo padre voleva, quello che ci si aspettava da lei.

Era abbastanza. No?

Non riusciva a cancellare dalla mente il sorriso con cui l’aveva accolta Anna, l’orgoglio del suo ventre tondo e gonfio di vita, il suo parlare sereno e pacato, prima che lei la punzecchiasse.

Provò una piccola, quasi impercettibile fitta di rimorso. Forse aveva esagerato.

Forse, se fosse stata sveglia e presente quando era incinta di Steve, avrebbe reagito diversamente. Chissà cosa si provava a sentire una piccola vita crescere dentro di sé. Si sentiva il cuore battere? Lo si sentiva scalciare? Si provava paura?

Si sfiorò il ventre piatto e muscoloso. Dubitava fortemente di poter provare una cosa simile, nella sua esistenza. Anche rimanendo incinta, non sarebbe riuscita comunque a sorridere allo stesso modo di Anna, a sembrare così luminosa, così..

Così…

…dannazione, le costava ammetterlo…

Così Bella.

Oh, al diavolo! Mancavano cinque minuti a mezzanotte, era meglio lasciar perdere simili pensieri sciocchi e prepararsi.

 

Le guardie erano ad ogni uscita, armate. Si sarebbe dovuta lanciare sul palazzo vicino dal vicolo dove si affacciavano le scale antincendio, dove era stata colpita dal proiettile, un anno e mezzo prima. Prese una fune ed uscì sul tetto: si calò sulle scale di servizio, agile e silenziosa come una gatta nera. Era ancora troppo lontana dal muro di fronte. Pochi centimetri più avanti vi era un piccolo balconcino di una stanza dell’Hotel. Quel metro verso il palazzo vicino era l’ideale. Saltò agilmente dalle scale antincendio al balconcino, senza emettere il minimo rumore. Si appiattì contro il pavimento, udendo i passi cadenzati di una guardia che faceva la ronda sotto di sé.

Cercò di accucciarsi contro il muro all’angolo tra la balaustra e la finestra, aspettando che la guardia si decidesse a spostarsi. Purtroppo per lei, non sembrava aver fretta. Si era accesa una sigaretta e si guardava intorno, comunicando qualcosa via radio. Stava giusto pensando di saltare giù dal balcone e tramortirla, quando una voce famigliare proveniente dall’interno della camera attirò la sua attenzione. Gettò uno sguardo alla finestra: i vetri erano aperti, ma le tende tirate, si intravedeva qualcosa dalla fessura tra i due lembi di stoffa.

Vedeva solamente uno scorcio della camera, la parte finale di lussuoso letto, il muro in stucco veneziano e un comodino verde. Sussultò nel vedere comparire, diretto verso il letto, Lee Chaolan, avvolto in un accappatoio bianco.

“Principessa, lo sapevi che sarebbe andata così…” sussurrò, con un tono di voce pacato e gentile.

Anna lo seguì, avvolta in una camicia da notte bianca. Si sedette anche lei sul materasso, a fianco del marito con lo sguardo posato mestamente a terra e le mani abbandonate sulle gambe. “Hai ragione, sono stata proprio una sciocca a pensare che potesse andare diversamente: dovevo prevederlo che niente avrebbe smosso mia sorella.”

Lee le passò un braccio attorno alle spalle, baciandole la tempia. “Non ti merita, Principessa, non crucciartene. Che cosa sono queste?” l’uomo aveva alzato delicatamente il volto di Anna con la punta delle dita, e ne sfiorava le guance. “Lacrime? Non mi avevi promesso che non le avrei più viste?”

“Devono essere gli ormoni, scusa.” La donna se le asciugò velocemente con le dita della mano. “Che madre snaturata che sono! Mio figlio non è ancora nato e già lo espongo al pericolo. E tutto questo per niente!”

“Non è per niente: hai cercato di rimettere a posto l’ultimo tassello mancante, te lo eri prefissata come obbiettivo no? Sei stata coraggiosa a tentare una simile cosa. E poi mi fa piacere saperti sugli spalti a tifare per me, anche se avrei preferito che tu fossi a casa a riposarti.”

Anna si accoccolò tra le braccia dell’uomo. “Cerca di stare attento domani… non esporti a nessun pericolo… e se vedi che la situazione degenera, scappa. Non fai la figura del codardo a tornare sano e salvo dalla tua famiglia.”

 

Nina tolse lo sguardo dalla coppia, sforzandosi di posarlo sulla guardia, che gettava a terra il mozzicone di sigaretta e riprendeva la sua ronda, girando l’angolo. Sentimenti contrastanti si agitavano dentro di lei, e le risultava più difficile che mai riprendere la concentrazione. Anna che piangeva perché non riusciva ad avere un rapporto pacifico con lei? Dovevano essere davvero gli ormoni. Lee Chaolan che la consolava dolcemente? Fantascienza.

Non riusciva a credere ai suoi occhi, e non poteva neppure riuscire a sopportare il dubbio, che le si stava insinuando insistente dentro di sé, che non fosse Anna la perdente.

Si picchiò la fronte, come per far uscire tutti i pensieri, e sbuffò, per cercare di recuperare la concentrazione. Salì sulla balaustra, focalizzando la sua attenzione verso le scale di servizio del palazzo vicino: due metri al massimo di distanza. Con uno scatto felino flesse le gambe, lanciandosi nel vuoto ed aggrappandosi alla balaustra di legno. Si issò quasi senza fatica, prima di rivolgere un ultimo sguardo verso l’Hotel Supreme. Lee adesso accarezzava stava parlando ad Anna, accarezzandole la pancia. Non riusciva a sentire le parole che le diceva, ma sua sorella stava ridendo.

 

L’attrezzatura si trovava in un’intercapedine dello scantinato di uno stabile diroccato. Nina raggiunse il nascondiglio con una certa difficoltà, dovendo scivolare attraverso travi pericolanti e macerie, prima di trovarsi davanti ad una porta di ferro. Estrasse la pistola dalla fondina e una piccola torcia a led e appoggiò la mano sulla maniglia, attenta ad ogni rumore. Entrò di scatto, illuminando lo scantinato con il fascio della luce.

Vuoto. Non c’era nessuno. Prevedibile.

Si aspettava davvero Sergei ad attenderla? Davvero stava diventando così sciocca?

Si diresse verso l’angolo più lontano alla porta. La torcia illuminò una piccola botola, che aprì: al suo interno vi era lunga cassa nera con la serratura elettronica. L’aprì con il badge dell’esercito russo, illuminando il fucile di precisione, le munizioni ed un altro fucile di grosso calibro al suo interno. Controllò che fossero funzionanti e contò le munizioni. Notò anche un visore notturno e qualche esplosivo. Non male come attrezzatura. Prese con sé il visore notturno e rimise tutto al suo posto. Prima di chiudere la cassa, sentì sotto le sue dita un piccolo quadrato, attaccato al coperchio della cassa. Lo staccò e lo illuminò, portandoselo davanti agli occhi. Era una piccola scatola di fiammiferi, di quelle che si prendevano nei ristoranti come promemoria. Rimase a bocca aperta nel riconoscere il ristorante italiano, a Francoforte, in cui più di un anno prima avevano cenato lei e Sergei, come una coppia normale. Strinse tra le dita quel pezzo di cartone, il segno che lui era stato li, che si trovava da qualche parte non troppo lontano da lei e che la pensava.

Non si capacitò di come potesse trovare quel pezzo di cartone così prezioso. Se lo infilò nel corpetto della tuta nera, sorridendo scioccamente, prima di richiudere tutto e di tornare all’Hotel.

 

Ad eliminatorie ultimate, nel pomeriggio, solo ventisei giocatori erano ancora in gara. Nina non sapeva chi fossero quelli che avevano passato il turno, a parte che Bryan Fury non sarebbe stato tra i fortunati che avrebbero continuato: l’aveva spedito con tanta violenza contro il muro dell’arena che alcuni suoi bulloni erano stati scagliati sulla tribuna, con somma gioia del pubblico.

Si avviò verso la sala conferenze dell’arena principale, dove sarebbero stati sorteggiati gli abbinamenti degli incontri: il vero Torneo del Pugno d’Acciaio stava iniziando. Al di là della porta si trovavano Marshall Law, che rivolgeva sguardi in cagnesco a Baek Doo San, Howarang e Asuka Kazama, impegnati in un animato battibecco, e Paul Phoenix che guardava gli altri combattenti spavaldo e sicuro della sua superiorità. Si mise in disparte, lontana dagli altri partecipanti, attendendo che i giudici di gara dessero il via alla manifestazione. Sentiva il pubblico fremere e applaudire nell’arena esterna. Dall’ingresso comparve Lee Chaolan, che le rivolse immediatamente uno sguardo sprezzante e carico di risentimento. Nina fece spallucce, mentre Yoshimitsu entrava dalla porta e si avvicinava a Lee, facendogli sinceri complimenti per la sua futura paternità. Lui ringraziò, piacevolmente sorpreso, mentre anche Law si univa alle congratulazioni del ninja.

Paul si avvicinò tracotante a Nina: “Allora, sei smaniosa di diventare zia?” Domandò canzonatorio, ricevendo uno sguardo gelido in risposta, e le spalle della diretta interessata.

La porta si aprì nuovamente, e questa volta Paul scoppiò in una fragorosa risata, urlando: “Lo sapevo che avresti passato il turno, Stevie Balboa!”

Nina si voltò di scatto. Paul stava rifilando una pacca sulla schiena ad un sudato, ma soddisfatto, Steve Fox, che quando la vide, impallidì e deglutì vistosamente. “Sono nei guai” lo sentì mormorare.

 

“Io e Julia ne abbiamo discusso e abbiamo pensato che…

“Mi sto pentendo amaramente di non averti ucciso quando ne avevo l’opportunità…

…ed era anche un’occasione per vederci…

“E’ evidente che qualcosa nell’esperimento di Boskonovitch dev’essere andato storto… come può essere uscito uno così stupido.”

“Ti prego, non tenermi il broncio, già Julia è intrattabile da quando è stata eliminata”

“A me non interessa! Io so solo che sei un cretino, e spero vivamente di dovermi battere contro di te: ti darò una lezione che non ti sogni neppure”

…Ma, mamma!”

“Sparisci dalla mia vista, prima che decida di spaccarti quella testa bacata che hai”

“Come vuoi…

 

Law esultò con un verso acuto, quando sul tabellone luminoso comparve il suo nome, seguito, dopo un VS da quello di Baek Doo San.

Nina scorse gli altri incontri:

Howarang contro Alisa Boskonovitch. (La mediatrice di Osaka non apprezzò particolarmente questo sorteggio)

Asuka Kazama si sarebbe battuta con Ling Xiaoyou.

Yoshimitsu contro Miguel Caballero Rojo, e Paul Phoenix sarebbe stato l’avversario di Lei Wulong.

Steve Fox si sarebbe battuto contro King, che apprezzò il sorteggio con uno dei suoi versi animaleschi.

Lili Rochefort, la puttanella monegasca come l’aveva chiamata Asuka Kazama, era stata sorteggiata per confrontarsi con Christie Montero, e svariati mormorii d’approvazione salirono dalla componente maschile dei lottatori. “Adoro questi incontri” aveva commentato Paul, sfregandosi le mani, mentre Eddy Gordo, suo fidanzato, fu sorteggiato per combattere Feng.

Infine, come ciliegina sulla torta, Lee Chaolan Versus Nina Williams, il pomeriggio seguente.

Lee rivolse nuovamente uno sguardo sprezzante alla cognata. “Avrò cura di fartela pagare per quello che hai detto ad Anna.” Sibilò, sembrando arrabbiarsi ulteriormente nel vedere che lei aveva fatto nuovamente spallucce. “Non hai neppure la vaga idea di quello che ha passato…” rincarò la dose, quasi ringhiando. Nina si irritò a quelle parole: ne era stufa di frasi a metà sul presunto periodo difficile di sua sorella, tanto più conoscendo le sue doti di manipolatrice. “Ha scoperto di avere le doppie punte?” commentò acida, incapace di trattenere ulteriormente una cattiveria. Lee fece per ribattere, ma poi girò i tacchi e si allontanò dalla stanza.

 

Dopo una doccia rinvigorente, Nina si gettò sul proprio letto, accendendo la televisione per guardare un paio di notizie.

Il telegiornale taceva sugli avvenimenti del resto del mondo, segno che Lars Alexanderssons non aveva intenzione di divulgare alcuna notizia dei vari combattimenti e dei rovesciamenti di governi. Senza avere contatti con il comando Nina si sentiva tagliata fuori dal resto del mondo. E questo la infastidiva alla grande.

Bussarono alla porta, e Nina si alzò per andare a rispondere: era Steve. Aprì la porta, trovandosi di fronte il viso dispiaciuto di suo figlio.

“Ti ho deluso?” le domandò, entrando nella stanza.

“Perché hai partecipato?” Nina scosse la testa, sospirando. “No. Mi hai fatto arrabbiare. E’ un Torneo pericoloso, e volevo che tu ne restassi fuori.”

“E allora perché tu partecipi?”

Nina ponderò l’idea di raccontargli la verità, ma si trattenne: “Volevo scontrami con Anna, e poi un po’ di allenamento non fa male.”

“Non ti credo.”

“Non posso raccontarti nulla.”

“Lavori per dei servizi segreti?”

“Acqua in bocca.”

“Americani? Cinesi? Russi? Per quanto ne so potresti lavorare anche per Alexanderssons.” Steve sembrava nervoso. Tuttavia si sedette sul letto, fissandola.

Nina le domandò perché lo volesse sapere. “Sei una spia, forse?”

Il ragazzo sbuffò. “Voglio solo sapere qualcosa di mia madre, è troppo?”

La donna lo guardò negli occhi, sostenne il suo sguardo color del cielo, cercando di capire quanto sincero fosse. Era suo figlio. Ne valeva la pena dirgli qualcosa di sé. “Russi.”

“Per questo eri a Mosca, l’anno scorso?”

Nina annuì. Rimasero entrambi in silenzio per qualche secondo, prima che Steve le domandasse notizie sulla sua sottospecie di relazione. “E’ con un russo?”

“Sono tre mesi che non ci vediamo.” Rispose. “ordini superiori.”

“Quindi anche lui è un agente?” gli occhi di Steve si spalancarono, come se avesse intuito qualcosa. “Oh, mio dio, mamma… non mi dire…

“Cosa?”

“Non mi dire che stai con Rasputin…

“Rasputin?” ma non era morto nel Neva quasi cent’anni prima?

“Ma si… quello che ha partecipato anche agli ultimi due tornei… quella mummia… come diavolo si chiama… Dragunov?”

“…”

“… non ci posso credere. Ha ragione Julia. Faccio troppe domande.” Il ragazzo sospirò, quasi comicamente. “Mia madre dimostra la mia età, mia zia non sa di esserlo e all’ultimo torneo ci ha provato con me e il mio patrigno è Rasputin. E poi mi dicono di star lontano dall’alcool…

Nina non sapeva bene cosa dire. In effetti Sergei non dava un’impressione molto positiva, e Steve si trovava effettivamente in una situazione abbastanza complicata. “Non è proprio il tuo patrigno” fu tutto quello che riuscì a dire. “Abbiamo solo una sottospecie di relazione.”

…consolante…

 

Nina punzecchiò ulteriormente Lee, mentre attendevano che lo speaker annunciasse l’incontro, dietro le quinte dell’arena.

“Chissà come strillerà la tua mogliettina quando ti spezzerò il primo osso…

L’uomo sembrava che si trattenesse a fatica dal saltarle addosso. Tuttavia, con uno sforzo immane, le rispose: “E’ in Hotel, non ci teneva a vederci massacrare a vicenda”

“E’ pronta a venirti a ritirare al Pronto Soccorso?”

La voce del presentatore e il boato del pubblico li accolsero all’interno dell’Arena. Salirono sul ring ad angoli opposti, Nina concentrandosi subito sul suo obbiettivo, Lee salutando il pubblico. Diverse voci femminili gli risposero istericamente.

Entrambi i contendenti assunsero le posizioni d’attacco.

Al campanello d’inizio, si avventarono entrambi l’uno contro l’altro, ma appena si colpirono, la terra inizio a tremare, mentre un ruggito disumano squarciava l’aria.

 

Nina cadde dal ring, rimettendosi velocemente in piedi per schivare un riflettore che si schiantava a terra, mentre tutto continuava a tremare e la gente, in preda al panico, scappava urlando verso le uscite di sicurezza. Vide Lee che saltava anche lui a terra e guadagnava velocemente l’uscita, mentre la struttura iniziava a cedere e i ruggiti non cessavano.

 

 

Buona domenica!!!

Ecco un altro capitolo…

Come vedete siamo ormai nel Clou della storia. Chi cacchio starà facendo tutto questo casino?

Ragazzi, grazie mille per le recensioni: Miss Trent, Sackboy, AngelTexasRanger…. Continuate così! I vostri commenti sono vitali per me!

EC

 

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Capitolo 13
*** Luck of the Irish ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

13: Luck of The Irish

Quello non era uno dei normali terremoti che scuotevano il Giappone quasi quotidianamente:  La terra vibrava a colpi, come se fosse calpestata da un gigante, e i latrati che squarciavano l’aria, alzandosi sopra le urla della gente terrorizzata, non facevano di certo parte di un evento sismico.

Nina corse fuori dall’arena, schivando i vari detriti che le cadevano davanti. Vedeva Lee pochi metri più avanti, anche lui impegnato in quella corsa accidentata verso la salvezza. Si dovette fermare perché qualcuno le afferrò un braccio: era Steve, trafelato e con gli occhi azzurri spalancati dal panico. Gli fece cenno di venire con lei, ma il ragazzo scosse la testa: “Devo trovare Julia!”

Gli avrebbe rifilato volentieri un paio di ceffoni, per poi trascinarlo via con sé, ma si trattenne, cercando di essere comprensiva verso l’eroismo, per lei alquanto stupido, del figlio: “Corri verso l’hotel, ci vediamo li!” Steve annuì, lasciandola andare, per poi precipitarsi anch’egli verso le uscite di emergenza.

 

Per prima cosa Nina riuscì a recuperare le armi nascoste. Dentro alla cassa vi era anche uno zaino militare, che riempì con i fucili e le munizioni, per poi infilarselo in spalla. Un altro latrato attraversò l’aria, e la donna si chiese nuovamente che diavolo stesse succedendo.

Che fosse?

Oddio, l’Arma X di Alexandersson? Che fosse il suo amichetto Deimos? Magari era scappato dal loro controllo.

Le venne in mente che Jin Kazama annoverava, tra i suoi film preferiti, anche Cloverfield, un’insulsa storia americana su un mostro misterioso che distruggeva New York.

No, non poteva essere così: Neppure il più deficiente dei Mishima avrebbe lanciato un mostro scatenato a distruggere la città.

Gettò un’occhiata  fuori dalla porta, prima di uscire dal suo nascondiglio e attraversare le strade ormai deserte, intasate di auto abbandonate dai proprietari.

Da megafoni agli angoli delle strade, una voce femminile squillante consigliava un’evacuazione veloce ma ordinata, senza panico. Nina ne fece saltare uno con un colpo di fucile, giusto per sfregio verso il regime.

Si precipitò verso l’Hotel Supreme, correndo a perdifiato: aveva tentato di mettersi in contatto con il Comando Russo, ma il cellulare non aveva campo e nell’attrezzatura Pavlov si era dimenticato di fornirle una radio.

Quando arrivò davanti al lussuoso albergo, ciò che vide le mozzò il fiato:

Una gigantesca orma a tre dita, grossa quasi quanto un autobus, era impressa sull’asfalto sfondato della strada, proprio davanti all’entrata dell’hotel. Ne seguivano altre due, dirette dalla parte opposta all’Arena. Un grosso segno orizzontale sfregiava il palazzo restaurato dell’albergo, attraversando i due balconi all’angolo, che erano crollati a terra insieme all’elegante insegna.

“Cazzo” mormorò tra sé e sé, riconoscendo uno dei due balconi come quello della camera di Lee e Anna. Girò attorno all’orma, e per passare l’entrata di vetro, crollata, dovette stare molto attenta ai detriti. Entrò nella hall deserta, calpestando i cocci delle vetrate infrante per terra guardandosi attorno.

“STEVE!” chiamò. Nulla.  “ANNA!” niente. “LEE!”

Con un vago senso di panico che le faceva tremare il respiro, corse sulle scale, raggiungendo il corridoio della stanza di sua sorella.

Le lussuose applique alle pareti erano cadute, insieme a molti calcinacci e alle rifiniture di pregio.

“ANNA!” chiamò nuovamente.  Udì un rumore di passi veloci dietro all’angolo del corridoio, e la figura impolverata di Lee Chaolan che faceva capolino. “La porta della camera è bloccata, non riesco ad entrare. Ho sentito la voce di Anna, sta bene, ma non riesce a spostare quello che c’è davanti all’uscita.” Spiegò tutto d’un fiato.

Nina camminò velocemente verso di lui, superandolo e dirigendosi verso la porta. “Hai visto Steve Fox?” domandò, mentre si avvicinava alla loro camera. Lee scosse la testa bianca.

“Stai sanguinando dalla fronte” lo informò, mentre appoggiava lo zaino a terra. L’uomo si toccò la testa, ma non sembrò dargli molto peso. “E’ un taglietto.”

Nina provò a dare due spallate alla porta. Niente da fare. Doveva esserci qualcosa di molto grosso a bloccarla. “Anna, mi senti?”

“Nina?” La voce ovattata della sorella aveva una nota incredula. “Che ci fai qui?”

“Ti tiro fuori, imbecille.” Rispose, acida. “Che diavolo c’è davanti a questa porta?”

“Un pezzo della balaustra.  E’ in cemento, non riesco a spostarlo.”

“C’è una parte di legno libera?”

Dall’altro lato, la donna rispose affermativamente, picchiettando sulla superficie lignea, in alto.

“Bene, spostati di li, devo farci un buco” Avvisò, imbracciando il fucile. Quattro colpi ridussero il pannello superiore della porta ad un colabrodo, e un paio di calci di Lee e di spinte aprirono un varco. L’uomo si inerpicò al suo interno, seguito da Nina. Abbracciò la moglie sollevato, trovandola sana e salva.

“Alla televisione si è visto tutto. Sembrava subito un terremoto, nel panico generale il cameraman ha inquadrato l’esterno dell’Arena, e si è visto questo mostro sbucare da uno dei padiglioni e far crollare tutto l’edificio. Quando ho sentito che si stava avvicinando stavo per uscire, ma la maniglia si era bloccata, nel panico, sapete com’è…” prese un bel respiro, controllando la ferita di Lee sulla fronte. “Mi sono chiusa nell’armadio. Ho sentito un rumore assordante, pensavo crollasse tutto, e quando sono uscita, ho trovato tutto questo macello.” Concluse, con un cenno alla breccia che si era aperta sulla porta finestra e all’arredamento distrutto dai detriti.

“Sei stata fortunata Principessa.”

Luck of the Irish, te l’ho sempre detto.” Si rivolse poi a Nina con un sorriso grato. “Un armadio resistente, un marito veloce e una sorella attrezzata.”

Seppur si sentisse lusingata e rinfrancata, Nina le voltò la schiena, alzando le spalle. “Non ero qui per te.”

Spostò un paio di calcinacci dalla porta, aiutata da Lee, e poi, dopo essere riusciti ad aprire la porta, si diresse verso la sua camera senza dare ulteriori spiegazioni.

 

Ritornò nella hall dell’hotel imprecando tra sé e sé: aveva tentato di connettersi ad internet dalla sua camera, ma nulla da fare, la rete era completamente fuori uso. Aveva bisogno di una radio. Che diamine doveva fare?

Tenne premuto il bracciale al polso per dieci secondi: almeno l’avrebbero localizzata. Uscì in strada, sentendo dei rumori di aerei che sfrecciavano al di sopra dei palazzi. Cercò di focalizzarne uno: americani.

La sua attenzione fu catturata da una mano che spuntava da un cumulo di macerie dei balconi. Spostò un pezzo di macerie, notando disgustata che era il corpo, pressoché maciullato, di uno dei bodyguard che le avevano impedito di uscire dall’hotel due sere prima. Notò che indossava ancora l’auricolare di servizio, e ne tirò il filo, per raggiungere la radiolina, fortunatamente ancora intatta.

Luck of the Irish.

 

“Sai potenziare quest’affare?” disse, lanciando la radiolina in direzione di Lee, entrando dentro uno dei salottini. L’uomo la prese, guardandola come se fosse un gioco da ragazzi. “mi serve un cacciavite e qualche altra piccola stupidatina elettronica.” Rispose, iniziando a gironzolare qua e là alla ricerca di qualcosa di utile, non prima di essersi raccomandato con Anna di rimanere seduta sui divanetto. Per tutta risposta, lei alzò un braccio in segno affermativo. Nina notò che era impallidita quasi improvvisamente. “Stai male?”

Anna sospirò. “Il bambino è molto grosso e pesante. E ho avuto un paio di contrazioni nell’ultima mezzora”

“Non avrai mica intenzione di partorirlo ORA.”

“E’ normale avere qualche contrazione al nono mese.” Rispose la sorella, cercando di trovare una posizione più comoda. “E anche dolori qua e là.”

Rimasero un istante in silenzio, con Nina appoggiata al muro di fronte all’altra, il fucile appoggiato al suo fianco. Fu Anna a parlare nuovamente per prima. “Ho paura” quasi bisbigliò.

“Avresti dovuto pensarci prima, idiota.” Sbottò Nina acidamente. “Quando imparerai gli effetti delle tue azioni stupide?”

La sorella le rivolse il suo sguardo azzurro, innervosito e rabbuiato. “Quando tu imparerai gli effetti delle tue parole.”  Voltò la testa dalla parte opposta, posando lo sguardo per terra.

Nina rimase senza parole: cercò qualcosa da replicare, senza riuscirci, e rimase con le labbra schiuse per qualche secondo, prima di voltare anche lei gli occhi gelidi da un’altra parte.

 

“HEY!” una voce maschile, che Nina riconobbe immediatamente, provenne dalla Hall attigua. La donna lasciò il muro, avvicinandosi all’entrata del salottino. “Steve!” chiamò.  Vide il ragazzo muoversi in mezzo ai detriti, vederla e sorridere sollevato, prima di chiamare Julia, che sbucò da uno dei corridoi laterali.

I due le si avvicinarono, mano nella mano. “Immagino che voi due vi conosciate già” disse il pugile, grattandosi la testa impolverata, un po’ imbarazzato.

Dietro di sé, Nina sentì la sorella emettere un verso incuriosito. “Si, l’ho lanciata fuori dal quarto torneo” ricordò.

Anche Julia sorrise imbarazzata. “E’ un piacere vederti in una circostanza diversa”

“Si, gli incontri casuali in città distrutte da un mostro sono sempre i migliori” ironizzò la donna. “Come mai ci avete impiegato così tanto?”

“All’arena c’era il caos. È crollato tutto. Ci siamo salvati per miracolo, e non riuscivamo a trovarci. Ci abbiamo messo un po’.” Spiegò Steve. Nina gli chiese se fosse ferito. “No, mamma, va tutto bene.”

…Mamma?”

Lee Chaolan sbucò proprio in quel momento, la radiolina in mano e gli occhi spalancati. “In che senso Mamma?”

Steve si sbatté la mano sulla fronte, Julia scosse la testa. “L’ho sempre detto che parli troppo…

 

Nina cercò di sintonizzarsi sulle frequenze utilizzate dai russi. Sapeva poche parole della lingua di Sergei, quanto bastava per farsi riconoscere. “Agente Williams all’ascolto, rispondete.” Ripeteva ad ogni frequenza, tra i sibili e i fruscii fastidiosi. Aveva intercettato qualche messaggio americano, che parlava di massicci bombardamenti e della Cosa che li respingeva. Pareva che liberasse anche dei parassiti, grandi quanto un bue, che attaccavano qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. Persino Julia, che si trovava vicino a lei, trovò lampante la somiglianza con Cloverfield.

Nina le domandò come fosse finito il film

“Hanno bombardato New York, i protagonisti sono morti, ma da una frase detta velocemente durante i titoli di coda si capisce che il mostro è ancora vivo.”

…voi americani e i vostri stupidi film…” sbuffò Nina. “Agente Williams all’ascolto, rispondete.”

 

“Non posso davvero crederci che tu sia mio nipote.” Continuava a mormorare Anna, scrollando la testa. “E’ davvero terribile quello che vi hanno fatto.”

“Già, però ho avuto la fortuna di essere adottato da un’ottima famiglia, non mi hanno fatto mancare davvero nulla, per quanto fosse loro possibile”

“E io due anni fa ho tentato addirittura di sedurti!”

“Beh, si, in effetti quello è stato un po’ traumatico…

…mio dio, ti ho anche messo la mano sui pantaloni…

“A pensarci bene, è stata una delle cose più imbarazzanti della mia vita…

…Potrai mai perdonarmi…?”

“Non sapevi di essere mia zia e...”

“AH!”

Lee scattò in piedi, come se avesse ricevuto una scossa elettrica, guardando Anna come se fosse una boma ad pronta ad esplodere da un momento all’altro. “Che cosa c’è?”

La donna si era afferrata la pancia tra le mani, gli occhi spalancati e il respiro affannoso. “E’ ufficiale, tesoro. Sto per partorire.”

Il marito sembrava sull’orlo di uno svenimento. “Stai scherzando, vero?”

“E’ la quinta contrazione nell’arco di mezz’ora. Il bambino sta arrivando.”

Anche Julia era scattata in piedi, ordinando a Steve di correre a prendere dell’acqua calda. “Nina, tu devi chiamare un dottore!”

Agente Williams all’ascolto, rispondete. PER FAVORE”

 

Doveva ammetterlo: Lee era sorprendete. Dopo lo spavento iniziale aveva mantenuto il suo self control, aiutando Anna a stendersi, fornendole dei cuscini come supporto e andando a recuperare, dalla loro stanza, una piccola busta dove aveva preparato, da bravo futuro genitore molto previdente, lo stretto necessario nel caso sua moglie avesse deciso di partorire con dieci giorni d’anticipo.

“Tuo figlio ha un tempismo perfetto per nascere, non c’è che dire…” cercò di sdrammatizzare. Un’altra contrazione aveva lasciato Anna senza fiato. “Anche se ci hai messo solo la parte divertente, ti ricordo che è questo è TUO figlio.”

Agente Williams all’ascolto, rispondete.”

“WILLIAMS!” Quella voce rara l’avrebbe riconosciuta tra mille, alta e chiara sopra ai rumori dei bombardamenti e dei latrati del mostro. Sergei Dragunov, proprio lui. Un caso? Luck of the Irish.

WILLIAMS, DOVE SEI?”

Era in mezzo ai combattimenti, in prima fila. Il suo posto, il suo ruolo perfetto, tra le sue armi e i suoi uomini da comandare. “Mi trovo all’Hotel Supreme, ho con me altri quattro civili.” Rispose, sempre in russo, voltandosi verso Anna, che cercava di controllare il respiro, pallida come un cencio. “Quasi cinque, per la precisione.”

Feriti?”

Negativo” Pensò un attimo alla parola corretta da utilizzare, ma non ricordandosela in russo, rispose in inglese: “Una partoriente.”

Seguì un istante di silenzio dall’altro capo della radio. “In che senso partoriente, Williams?”

“Mia sorella Anna ha deciso che questo fosse il momento più opportuno per scodellare il primo figlio.”

Dal tono della voce ne dedusse che a Dragunov fosse scappata una imprecazione ben definita nella sua lingua madre. “Gli americani non vi hanno recuperato?”

“Negativo, non si è visto nessuno”

“L’ho sempre detto che sono dei buoni a nulla.” Dragunov imprecò nuovamente: “State fermi dove siete. Mando una pattuglia a recuperarvi con un medico, se riesco.”

Tra sé e sé Nina sorrise: “Grazie, comandante.”

 

“Va bene. Facciamo così: nell’attesa che vengano a prenderci, Steve e Julia controlleranno la hall. Rimanete nascosti dietro al bancone, e se sentite il mostro avvicinarsi… beh, scappate alla svelta. Io pattuglierò l’entrata sul retro. Lee a te l’ambito ruolo di ostetrico.”

Vide Anna tirare un braccio del marito, per farlo chinare verso di sé, e bisbigliargli qualcosa nell’orecchio. “Sicura?” Anna annuì. L’uomo si rivolse a Nina “Vado io sul retro, per ora. Rimani qui con Anna. Tornerò al momento opportuno.”

La donna fece per protestare, ma Lee, dopo averle soffiato il fucile di mano, corse fuori dalla stanza.

 

“Non vuoi la tua dolce metà in questo momento?”

Anna scosse il caschetto castano, un piccolo sorriso tirato sul viso candido. “Le contrazioni possono durare ore, quando sarà il momento decisivo, richiamerò Lee.” Le fece segno di avvicinarsi. Tra il riluttante e il curioso, Nina acconsentì, sedendosi sulla poltrona più vicina. “Fa male?”

Sforzandosi di sorridere Anna annuì. “Mi sento aprire in due. E il peggio deve ancora venire.” Sospirò, accarezzandosi la pancia. “Non me lo immaginavo così: avevo già prenotato in una clinica privata di Nassau un bel parto in acqua con epidurale. Il sogno di ogni donna.”

“Dovevi pensarci nove mesi fa.”

“Ne vale la pena. Questi mesi sono stati i più belli della mia vita.”

Nina titubò qualche istante sulla domanda che voleva farle. Alla fine, si decise: “In che senso hai avuto un periodo buio?”

Il sorriso di Anna si spense lentamente. Spostò gli occhi azzurri sul soffitto, poi a terra, imbarazzata. “Dopo il sesto torneo, io e Lee siamo scappati insieme alle Bahamas. Però io… io non riuscivo più a provare nulla. Avevo fallito di nuovo nel mio obbiettivo, mi sentivo vuota. Non c’era nulla che mi interessasse, nulla che riuscisse a scuotermi. Cercavo di non darlo a vedere, ma avevo praticamente smesso di mangiare, e poi sono arrivati gli attacchi di panico.” Si terse la fronte madida di sudore, sospirando. Non riusciva a guardare Nina negli occhi. “Capitavano di continuo. Avevo il terrore di uscire, ma stando sempre in casa non riuscivo a reagire e mi deprimevo sempre di più. Lee ha cercato subito di aiutarmi, ma non glielo permettevo. Finché una sera, è tornato a casa da una cena d’affari e mi ha ritrovato nella vasca da bagno con un vetro in mano e il polso tagliato” alzò l’avambraccio: il polso, a pochi centimetri dalla mano, era sfregiato da una lunga cicatrice bianca, Nina rimase a bocca aperta. “Hai davvero fatto una cosa così stupida?”

“Non riuscivo a vedere nessuna altra via d’uscita. Cercavo di impedire a me stessa di fidarmi di Lee, di aggrapparmi a lui, conoscendolo. Ma da sola non riuscivo a riprendermi. Alla fine mi sono resa conto di essere lo spettro di me stessa, e di aver davvero bisogno di aiuto. E lui me l’ha dato. In pieno.” Recuperò un poco di sorriso. “Ho conosciuto il suo lato migliore. Quando ho scoperto di essere incinta… ero al settimo cielo! Avrei avuto una persona da amare, che non mi avrebbe mai lasciata sola in ogni caso. Sinceramente, pensavo che Lee non la prendesse bene. In fondo, da amante della bella vita com’era, avrebbe preso il bambino come un intralcio, no? Ma io l’avrei tenuto comunque. E invece… Beh, ci siamo sposati in spiaggia. Ti rendi conto? IO che mi sposo con LEE in spiaggia, in un romantico tramonto, solo noi due con l’ufficiale?”

“Fantascienza”

“L’avrei detto anche io!” Un’altra contrazione incrinò la voce della donna. “E tu? Cosa hai fatto in questo tempo?”

“Lavoro per i russi” spiegò brevemente. “Agente segreto.”

“Cavoli, è un bel passo avanti da sicario a pagamento, no?”

Nina annuì. Non di certo una professione invidiabile, ma comunque di gran lunga più remunerativa ed interessante.

“E nient’altro?”

“Una sottospecie di relazione”

“Oh, questa è una cosa …” la bocca di Anna si aprì ad O. “Nina, chiama Lee… mi si sono rotte le acque!” Nina balzò in piedi, pronta a scattare verso l’uscita sul retro, ma Anna la bloccò nuovamente. “Ti prego, dovresti controllare la dilatazione.”

Oh, no… non questo… Pensò Nina disgustata. Gliel’avrebbe fatta pagare cara a sua sorella, figlio o no.

“Quanti centimetri è?”

“so che non è la prima volta che te lo dico” rispose alla sorella dolorante e preoccupata. “Ma ce l’hai larga”

 

Dopo un’ora intera passata tra urla e imprecazioni varie, dove Anna, nell’ordine, aveva maledetto di essere nata donna, mandato il marito a quel paese ed invocato l’intervento di una ventosa sturalavandini, Nina le comunicò che si vedeva la testa del neonato.

Lee chiese come fosse.

“Come diavolo vuoi che sia, razza di idiota, quadrata?” fu l’acida risposta di Nina. “Avanti, Anna, un’altra spinta, forza!”

Anna era allo stremo, sembrava sul punto di collassare da un momento all’altro. Stringeva convulsamente la mano di Lee, che ormai doveva avere anche qualche osso rotto, ed era paonazza in volto. “Non ce la faccio più!”

“TSK! Me l’aspettavo, bambolina mollacciona.”

Fu come dar fuoco ad una tanica di benzina. Anna strinse ancora di più la mano di Lee, che accusò la stretta in silenzio, con le lacrime agli occhi e strinse i denti così forte che la mascella si contrasse come se si stesse spezzando.

E un istante dopo, un piccolo essere sporco e strillante era tra le mani di Nina.

 

No, non era bello.

Aveva la faccia schiacciata e sembrava quasi un rospo. Non riusciva a trovare la somiglianza tra di loro come stavano facendo i due neo genitori, commossi.  “Oh, gli occhi sono i tuoi!” “Le labbra sono le tue!”

Quella sua vocetta rauca che dava sui nervi.

E poi era davvero grosso. Come diavolo faceva un bambino a nascere cosi? Non era normale!

Per non parlare del nome: “James Patrick Chaolan – Williams” aveva enunciato orgoglioso Lee, pronunciando il lungo nome del suo primogenito come se fosse il principe d’Inghilterra. Come mai James?

“Abbiamo scoperto che ci piacciono a tutti e due i film di James Bond” aveva spiegato semplicemente l’uomo, come se fosse la cosa più naturale del mondo. “Patrick invece come il patrono d’Irlanda. E Patrick Swayze, che piaceva molto ad Anna. E ci piaceva mettere il doppio cognome.”

Il destino era stato proprio inclemente con il piccolo Chaolan. Nascere brutto, con una voce atroce, in mezzo ad una catastrofe, e con due genitori del genere.

Davvero un destino infausto.

E allora perché non riusciva a smettere di guardarlo, senza poter impedire alle sue labbra di stendersi in un sorriso?

Anna glielo rifilò in braccio senza che lei potesse opporre resistenza. “Ti presento tua zia.”

Nina era impacciata, quasi non respirava per paura di farlo cadere. Come diavolo faceva sua sorella a maneggiarlo con tanta naturalezza?”

“Rilassati, è un bambino, non una bomba”

“Appunto.” Si, gli occhi erano proprio quelli di sua sorella. Azzurri, chiari, limpidi.

Forse erano come quelli di Steve, quando era nato.

Si sentì una morsa al cuore al pensiero di quel momento mancato tra lei e suo figlio: nessuno l’aveva incoraggiata a farlo nascere, nessuno gliel’aveva appoggiato al cuore mentre gli tagliavano il cordone ombelicale. Non si era nutrito tramite lei e non era stato scaldato dal calore delle sue braccia. Nessuno aveva notato le sue somiglianze, o il suo peso, o la sua lunghezza.

Non c’era stato nulla di ciò per suo figlio.

Lo vide avvicinarsi a lei e sedersi accanto. “Ma che bello che è il mio cuginetto!” esclamò, come se fosse rimbambito, fotografandolo con il cellulare. “Non è vero mamma?”

Nina annuì lievemente, prima di restituirlo ad Anna. “Grazie, davvero” mormorò. “Nostro padre non avrebbe mai pensato a quanto potesse essere utile quel nomignolo così stronzo.”

Lee le passò un braccio attorno alle spalle. Appoggiò la testa contro la sua, gli occhi persi sul proprio figlio che si stava addormentando. Si baciarono, si sorrisero.

Con la coda dell’occhio vide Julia avvicinarsi a Steve, e il ragazzo guidarla dolcemente a sedersi sulle sue ginocchia, abbracciandola.

Si sentì inadeguata, fuori posto, circondata da tutte quelle persone che si volevano bene. Si alzò dal divano, un groppo in gola, prendendo il fucile. Teneva lo sguardo abbassato, celato dietro il ciuffo di capelli biondi. “Vado a pattugliare l’ingresso” riuscì solo a mormorare.

 

Si concesse qualche lacrima. Sola, nella Hall distrutta, avvolta nell’oscurità della notte che aveva inghiottito la città, con i latrati e i rumori dei combattimenti in lontananza, abbracciata al fucile. Tutto quello che si era meritata nella vita.

Le persone attorno a lei avevano avuto una loro vita, si erano costruiti una storia ed una famiglia, potevano contare sull’aiuto di qualcuno, sull’affetto di qualcun altro.

Lei era sola.

 

E fu proprio mentre si stava asciugando le lacrime dagli occhi che il fascio di luce di una jeep fermarsi pochi centimetri prima dall’entrata dell’hotel, e tre figure scure entrare nella vetrata.

“Agente Williams?”

La sua voce. Avrebbe voluto vederlo in faccia, avvicinarsi a lui, ma rimase al proprio posto, conscia che in quel momento, lui era il suo comandante.

Un comandante che era venuto personalmente a prenderla, insieme a due suoi uomini.

 

Il medico non aveva potuto far altro che constatare le buone condizioni di Anna e del bambino. Aveva disinfettato il taglio sulla fronte di Lee e controllato la sua mano, che stava assumendo un certo color viola.

L’altro soldato che era con loro aveva controllato l’uscita sul retro.  “Andremo verso il nostro campo base” riferì, rispondendo alla domanda di Julia.

“Meglio prima controllare che gli scontri siano a debita distanza” . Era la prima frase che aveva spiaccicato dal suo ingresso nella Hall. Dragunov sembrava molto stanco. Si era appoggiato al muro, più pallido del solito, massaggiandosi il collo. La sua tuta da combattimento era lacera in più punti e sporca, e i capelli sudici erano attaccati alla testa e alla faccia.

“Williams, andiamo a pattugliare il tetto.” Si scostò stancamente dal muro, riprendendo il mitragliatore e posandoselo sulla spalla, avviandosi verso le scale.

Nina lo seguì: Non le aveva rivolto nessuno sguardo, nessun cenno di interesse, come se fosse davvero un soldato come un altro. Forse in quei tre mesi era cambiato qualcosa. Che gli avessero ordinato di tagliare tutti i ponti con lei? Non disse nulla, limitandosi a seguirlo sulle scale sino al tetto, all’aria aperta e fresca di quella notte infernale.

Solo quando la porta antincendio si chiuse alle sue spalle, Sergei Dragunov si voltò verso di lei. Si avvicinò di un passo. Nina riusciva a malapena a sostenere il suo sguardo intenso. Quando si trovò a pochi passi da lei, alzò il braccio, sfiorandole il volto, scivolando sulle sue labbra, stringendola contro il metallo della porta dietro di sé.

Nina lasciò che il fucile le cadesse di mano, per poi avvolgere le braccia attorno al collo dell’uomo: Il profumo del suo dopobarba era appena percettibile, sotto l’odore di sudore e polvere da sparo. Si sentì sollevare e stringere, prima che le lasciasse la bocca. “Buonasera, Nina.”

“Ciao Sergei.”

Forse non era sola.

Luck Of The Irish.

 

Benvenuto, James Patrick Chaolan-Williams! (O, meglio, il piccolo Jamie.)

Eccomi di nuovo con un luuungo capitolo. Preparatevi al peggio!

Grazie mille per le recensioni a Miss Trent, AngelTexasRanger e Sackboy97 (scusa per l’errore nel titolo del cap. precedente). E anche a Nila Gor_kj e Goth girl, che non ho mai citato personalmente nei miei ringraziamenti (scusate la maleducazione)

I vostri commenti sono la mia linfa vitale!

Piccole note:

NASSAU, la città dove Anna aveva programmato di “scodellare il primo figlio” è la capitale delle Bahamas.

LUCK OF THE IRISH: (la fortuna dell’Irlandese) è un comune modo di dire, probabilmente nato negli USA ai tempi della corsa all’oro: i primi minatori e cercatori d’oro erano Irlandesi. Quanto pare, i primi erano anche molto fortunati.

Non ho mai visto Cloverfield. Ma ho visto Godzilla.

Alla prossima!

EC

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Capitolo 14
*** Everything Burns! ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

14: Everything Burns

Per quanto poteva valere il suo punto di vista, dettato da una cinica, fredda e spietata interpretazione della realtà, la cui percezione verteva pericolosamente verso il caos, poteva definire la situazione romantica.

Sul tetto dell’Hotel Supreme, seduti sul cornicione con le gambe a penzoloni nel vuoto, Nina Williams e Sergei Dragunov avevano davanti agli occhi la città semidistrutta, illuminata dall’incendio scaturito dai bombardamenti ora sospesi, a pochi chilometri in linea d’aria.

James” ripeté, dopo avergli raccontato le vicissitudini delle ultime ore. “Perché hanno in comune la passione per i film di James Bond!” Sergei emise un suono disgustato.

“TSK! Nostro figlio, allora, come dovremmo chiamarlo, Molotov?” pronunciò la frase sarcastica quasi senza pensarci, rendendosi conto appena l’aveva terminata di quanto potesse suonare stupida, fuori luogo ed eccessivamente confidenziale.

Ma lui non si era scomposto minimamente. “Molotov Dragunov?” ripeté, arricciando un angolo del labbro inferiore. “Suona male.”

Lo sguardo di Nina tornò sull’incendio. “Pensi che l’abbiano distrutto?” Domandò dopo qualche minuto, interrompendo il silenzio contemplativo.

Sergei alzò le spalle, accendendosi una sigaretta. “Non ne ho idea. Ma è ormai da tre ore che gli spariamo addosso. Quel bastardo avrà pure la pellaccia dura, ma a tutto c’è un limite.”

“Era lui l’Arma X, vero?”

Il soldato si limitò ad annuire stancamente, espirando una boccata di fumo. “Deimos. Non si sa la sua esatta provenienza, o chi diavolo l’avesse creato, ma comunque era una creatura totalmente fuori controllo, persino della Tekken Force.”

“A proposito, Alexandersson?”

“Sparito, insieme a gran parte dei suoi. Ma non so se ci sono sviluppi, io mi occupavo del bestione.”

“Dispiaciuto di non essere li?”

Lui alzò solo una spalla. “Non ti nascondo che avrei preferito farlo fuori io stesso. Ma avevo bisogno di una pausa” Fece scivolare un braccio attorno alla vita della donna, guidandola ad appoggiarsi sulla sua spalla. Un contatto a cui Nina si abbandonò piacevolmente. Aspirò un’altra boccata di fumo. “Questa volta mi spetta davvero una licenza premio.”

“E hai intenzione di godertela? Non ne hai mai chiesto! Per quanto ne so, non hai fatto un singolo giorno di licenza negli ultimi sei anni.”

“Sette” la corresse, scroccando il collo. “Ma questi tre mesi sono stati massacranti. Mai dormito per più di tre ore di fila.”

Nina proprio non se lo immaginava spaparanzato sul divano, a vegetare davanti alla televisione. Soffocò una risatina ad immaginarselo mentre cercava di rilassarsi tra i fumi di un bagno termale. “E che hai intenzione di fare?”

Nuovamente, Sergei alzò le spalle. “Cosa si fa quando si è in licenza?”

“Beh. Credo che tu dovrai farti un bagno, come prima cosa.” Ironizzò, strappandogli un mezzo sorriso, mentre aspirava l’ultimo tiro di sigaretta per poi gettarla giù dal tetto. “E poi… non so, qualche hobby? Viaggi?”

Sembrò quasi interessato all’ultima parola detta da lei. “Dove?”

Stiracchiandosi le braccia, Nina si coricò, lo sguardo perso nel cielo scuro. Dove avrebbe visto bene Sergei, a parte nel suo letto? Lo vide scivolare accanto a sé, assumendo la stessa posizione, con le braccia piegate dietro la nuca a fare da sostegno.  “Non so dove ti piacerebbe andare.” Disse sinceramente. “Non so nemmeno cosa consigliarti.” Si mordicchiò le labbra, pensando a come sarebbe stato bello sdraiarsi al sole, per asciugarsi dopo una nuotata in un mare cristallino. “Io andrei in un posto caldo, al mare.”

“Tipo? Bahamas da tua sorella?”

Nina fece una faccia volutamente e quasi comicamente disgustata. “Fossi pazza. Altro che relax, con quel moccioso piagnucolante tra i piedi e Anna che mi assilla su di lui!"

"Già. Purtroppo i figli sono una benedizione per chi li desidera: temo che tua sorella non farebbe altro che stressarti su quanto è bello il suo pargolo."

Nina sospirò, riconoscendo che aveva pienamente ragione: "Mi basterebbe un’isoletta semideserta della Grecia, o l’Italia. Ma niente luoghi affollati. Una isoletta, uno scoglio in mezzo al mare. Mi basterebbe quello.”

“Una barca?”

“Oh si, quella sarebbe il massimo.”

Sergei si girò su un fianco, la sua mano sul suo ventre e gli occhi puntati sui suoi. “Ti meriti anche tu una licenza. Come tuo comandante te la concedo, a partire da domani.”

“Grazie comandante.” Rispose compiaciuta. “Quindi posso partire anche io per un bel viaggio al caldo?”

“Come tuo responsabile, ti devo tenere d’occhio. Non puoi partire. Da sola.”

Nina ebbe l’impressione di aver capito male. O, meglio, non poteva credere a quello che le sue orecchie sembravano aver sentito. “In che senso non posso partire da sola?” domandò, cercando di eliminare le tracce tremolanti dalla sua voce: perché era impossibile, incredibile quello che Sergei Dragunov sembrava volerle suggerire.

“Te l’ho detto. Ti devo tenere d’occhio.” Ripeté lui, un piccolo, quasi invisibile sorriso sornione sulle labbra livide. Nina si rizzò sulle ginocchia, voltandosi verso di lui: “Mi stai proponendo di andare in vacanza insieme?”

“No. Assolutamente.” Rispose l’uomo. Sembrava del tutto intenzionato a cancellare dalla faccia quella smorfia. Ma sembrava che gli fosse pressoché impossibile. “Ti sto solo ordinando di seguire il tuo comandante in una missione navale nell’arcipelago greco.”

Nina si mise le mani sui fianchi: “E quanti membri della squadra saremmo?”

“In due. Compreso il comandante.”

Con finta serietà si chinò su di lui. “Sono onorata di essere stata scelta per questa missione, comandante.” Sussurrò, prima di premere la sua bocca sulle sue labbra. Sergei la imprigionò tra le sue braccia, facendola aderire al suo corpo. Rotolò su se stesso, portandola sotto di sé, prima di interrompere il bacio e di guardarla, come se non desiderasse altro in quel momento che strapparle i vestiti di dosso e fondersi con lei. “E’ meglio se ci nascondiamo, qua sopra continuano a passare elicotteri.” Nina sentiva esplodere qualcosa di luminoso dentro di sé. Si alzò, recuperando il fucile senza lasciare la mano di Sergei, e guidandolo con sé verso la porta. “Avanti, prima che a qualcuno venga in mente di recuperarci!” lo incoraggiò, sentendosi ebbra e stordita, folle, incontrollabile.

Ma prima che riuscisse a raggiungere la porta, un latrato terribile squarciò nuovamente l’aria. Un’esplosione lo seguì praticamente subito, e i due, voltandosi verso l’incendio, videro alzarsi una colonna di fuoco e una figura terribile al suo interno.

“MERDA!” urlò Nina. La radio di Sergei gracchiò e la voce di Volkov lo chiamò nella loro lingua natale. Mentre i due comunicavano la donna rimase a fissare il mostro, in lontananza. Sembrava oscillare. “Cazzo. Serg… comandante! Sta arrivando qui!” gridò.  Dragunov la prese per un braccio, trascinandola dentro all’Hotel. “Volkov manda un elicottero a recuperarci. E’ il mezzo più sicuro e veloce!” la informò. “Arriveranno qui a minuti. Però noi dobbiamo andare a far fuori il mostro. Io vado con l’aviazione, tu dovrai seguire i combattimenti da terra. Sei pronta?”

Nina tolse la sicura al fucile, preparando il colpo in canna. “Sono nata pronta.” Rispose dura.

 

Nessuno l’avrebbe fermata. Nina era una macchina di morte perfetta, il giusto connubio tra razionalità e ferocia. Soprattutto se combatteva per qualcosa. Quel coso sarebbe stato ridotto presto ad un surrogato per il barbecue, e lei e Dragunov sarebbero scivolati sul mare liscio della Grecia per la loro personalissima missione. Sentì  la rabbia montarle dentro: nessuno avrebbe impedito questo.

Scortò i Chaolan, Steve e Julia al tetto, dove li attendeva l’elicottero. Volkov, informato delle condizioni dei recuperati, aveva fermato il velivolo, ed era sceso personalmente. Aveva il volto tirato e le condizioni della sua tuta da combattimento erano le stesse di quelle di Sergei. Vide Anna, sfinita e pallidissima, avvicinarsi con il bambino in braccio. “Maschio?” domandò. Anna annuì orgogliosa, mentre Lee aveva aperto la bocca per pronunciarne il nome, interrotto dal militare. “Ottima scelta. I maschi danno molti meno problemi.” Riferì l’ufficiale, facendogli cenno di salire sull’elicottero, seguiti da Steve e Julia. Il giovane pugile fece spazio accanto a sé per far sedere Nina, che scosse la testa. “Io devo rimanere qui.” Spiegò, avvicinandosi comunque al figlio per salutarlo. “Ci vedremo alla base.” Anna aveva affidato Jamie al marito e si era sporta verso di lei, prendendole la mano. “Grazie” mormorò nuovamente. “Non fare cazzate. Noi… noi ti aspettiamo.”

“Certo.” Asserì Nina. “Ci vedremo tra poco. Ora scusatemi, ma ho un lucertolone da scotennare.” La sorella annuì, le lacrime agli occhi. Nina, con fare scocciato, le ordinò di non frignare come una mocciosa. “Scusami, sono gli ormoni” rispose Anna, asciugandosi le ciglia.

“La stai usando un po’ troppo spesso come scusa.”

“Mamma” si intromise Steve, abbracciandola. “Stai attenta.” Gli stampò un bacio veloce sulla guancia. Nina ricambiò l’abbraccio, sentendosi invincibile con quell’impronta delle labbra di Steve sulla guancia. “Non preoccuparti.” Gli sussurrò. Dannazione! Suo figlio aveva sempre la facoltà di farle salire un groppo in gola. Vide Julia stringergli una mano, e si sentì rassicurata che qualcuno gli fosse vicino e lo sostenesse. “Vedete di non farmi diventare nonna, voi due. Già l’essere zia mi infastidisce non poco” puntualizzò sarcastica, strappando un sorriso ai quattro. Lee alzò una mano, ringraziandola ancora, mentre con l’altra cullava il neonato.

Con un cenno, Nina fece chiudere gli sportelloni ed accendere i motori. Si allontanò, dopo aver salutato Volkov, verso le scale del tetto, per poi voltarsi ed assicurarsi che l’elicottero si fosse alzato, per dirigersi verso la salvezza. Lo seguì con lo sguardo, finché Sergei non lo posò una mano sulla spalla. “Andiamo Williams, qui vicino c’è il mio elicottero e la squadra che mi aspetta.”

 

L’elicottero da combattimento di Dragunov era già in moto quando lo raggiunse, e la squadra era già pronta per la battaglia. L’uomo si voltò un’ultima volta verso la donna. “I rinforzi da terra sono sulla via” la informò, indicando una fila in lontananza di luci che si avvicinavano. “Attendi qui.”

“Agli ordini, comandante.”

Senza aggiungere altro Dragunov entrò nell’elicottero, posizionandosi al posto del copilota.

Nina seguì anche la salita di quell’elicottero, tra le rovine dei palazzi, con il fucile sulla spalla e un sorriso malcelato.

Tra tutte le cose che le potevano affollare la mente, in quel momento, c’era solo una frase, che galleggiava tra i suoi pensieri e non affondava, neppure spingendola giù con tutte le sue forze.

Una frase, tre parole che non si sarebbe mai sognata di pensare,in russo, la lingua di Sergei, la lingua che stava studiando con impegno, per capire non solo quello che le dicevano, ma anche per comunicare liberamente nella nazione in cui viveva, con lui:

Ja tjbjà ljublju

 

L’elicottero era ormai in alto, quanto un colpo secco alla nuca la gettò in un abisso di tenebra.

 

Non un granché questo capitolo, lo ammetto, ma non ho saputo fare di meglio, sinceramente. Era un passaggio.  Per i prossimi capitoli cercherò di “rendere” di più. Chi ha tirato una botta in testa a Nina? (Un borseggiatore?)Cosa significa la frase che lei ha pensato, e da cui si lasciava cullare? (andatevela a cercare, sfaticati!)

PS: STAMATTINA HO MESSO A POSTO QUALCHE PARTICOLARE QUA E LA... MODIFICANDO SENSIBILMENTE IL CAPITOLO.

In ogni caso, non lapidatemi perché Sergei sembra un po’ OOC in questo frangente. Diciamo che anche per lui tre mesi di lontananza dalla Williams sono stati abbastanza lunghi.

Ad ogni modo, ragazzi e ragazze, io vi sono incredibilmente grata per le recensioni che mi avete lasciato. Sono piacevolmente sorpresa, resto a bocca aperta! Lusingatissima! Il mio ego ringrazia ed impazzisce, ballando nudo in mezzo alle foglie morte del giardino! (aiuto, che poesia!)

Grazie Miss Trent, AngelTexasRanger, SackBoy97, Nila Gor_kj e la new, apprezzatissima, entry Krisalia Kinomiya!

Mi è stata fatta però un’osservazione, in PVT. Che, ammetto, è vera.

Nelle mie Ff  c’è un incremento delle nascite spaventoso…

Ora, penserete forse che sono un’esaltata che non vede l’ora di scodellare figli a non finire…

...EBBENE NO!  Anzi, me ne guardo bene dal farlo!

Purtroppo sono cresciuta con una nonna Fan di Beautiful… e li come sapete l’incremento demografico si fa sentire, che mi “costringeva” a guardare le varie vicissitudini delle famiglie…

… alla fine questo temo sia il risultato di queste traumatiche visioni…

Buona notte Cìovani, alla Prossima!

EC

 

 

 

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Capitolo 15
*** Prigionia ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

15: Prigionia

 

La testa aveva iniziato a pulsare, per questo si era ridestata. Aveva mosso il collo, sentendo i muscoli duri e doloranti, non riuscendo a nascondere una smorfia di dolore. Provò a massaggiarseli, ma si rese conto di avere le mani legate saldamente dietro alla schiena. E la schiena legata allo schienale di una sedia. E le caviglie alle gambe di metallo della sedia.

Cercò di aprire gli occhi, ma la luce abbagliante puntata verso di lei le feriva le pupille e la costringeva a chiudere le palpebre. Tentò di muoversi di nuovo, ogni singolo muscolo del suo corpo che le provocava dolore e che si tendeva nello sforzo inutile. Imprecò.

Il rumore di una porta che si apriva, al di là della fonte di luce, le fece drizzare le orecchie e tendere i sensi, avvertendo il pericolo imminente. Il fascio di luce si spostò, permettendo ai suoi occhi azzurri di riprendere le proprie facoltà visive e di capire dove si trovasse.

La stanza era bianca, arredata solo con la sua sedia e un tavolino, a cui si appoggiavano tre figure, più una, femminile, in piedi, quasi ad essere sull’attenti.

Oh merda” pensò, quando riuscì a focalizzare le persone che occupavano la stanza: Con il peso degli anni sulle sue spalle, Geppetto Boskonovitch la guardava scientificamente incuriosito a suo fianco un soldato con il mitra in braccio. La donna in piedi era quell’androide rosa che rispondeva al nome di Alisa Boskonovitch, lo sguardo vitreo ed inespressivo fisso su di lei, pronta a scattare ad ogni sua mossa.

Ed infine, appoggiato al tavolino con le braccia conserte sul petto, con una certa impazienza e un piccolo ghigno stampato sul volto, pallido sotto il casco di ribelli capelli biondi, Lars Alexandersson.

“Bentornata tra noi, Miss Williams.” Salutò, senza togliersi di dosso il sogghigno. “Ormai stavamo per risvegliarla noi stessi dai suoi dolci sogni. Dormito bene, a proposito?”

Come risposta, Nina Williams sputò per terra. Notò un movimento fulmineo dell’androide, come se si volesse lanciare contro di lei, ma un cenno di Alexandersson la fece tornare alla sua posizione originaria.

“Che diavolo volete?”  ringhiò Nina. La presenza che più la infastidiva nella stanza era sicuramente Boskonovitch, a cui avrebbe fatto saltare la testa con le proprie mani, se solo avesse potuto.

Lars Alexandersson si scostò dal tavolino, avvicinandosi a lei. “Sappiamo che lavori per i russi, ora.”

“E a te chi l’ha detto?”

“Oh, Nina, suvvia, non è che ti sei nascosta tantissimo, prima…” ghignò nuovamente il biondo dittatore. “Diciamo che ho avuto la fortuna di trovarmi al posto giusto al momento giusto. Eravamo nascosti tra i palazzi, sai, in attesa che arrivasse l’esercito da terra… e non potevamo lasciarti così, sola, con un mostro in libertà.” Raccontò, passeggiandogli attorno. Fece scivolare una mano guantata sulle sue spalle, sino alla nuca, e vi premette le dita. Schegge di dolore esplosero nella testa di Nina, costringendola a serrare la mascella di scatto, e trattenere un urlo. “Eri distratta. Un colpo alla testa e via, nella nostra base. Semplice, no?”

Nina si maledisse per la sua distrazione. Ricordava di essersi fermata a fissare, come una sciocca ragazzina in fregola, l’elicottero di Sergei che si alzava. Ripensò alla frase che quasi era uscita dalle sue labbra, un’idea folle e bizzarra.

Che stupida che era.

“Credi che io possa fornirti certe informazioni, e che, soprattutto, te le cederei semplicemente?”

Alexandersson studiò il suo volto, corrucciato dal dolore. “Perché no? in fondo, tu non sei che una vile mercenaria. Io ti posso offrire più soldi, o una via di fuga. Mi basta qualche risposta.”

Nuovamente, Nina sputò per terra. “Puoi fotterti.” Sibilò. Lo schiaffo che le arrivò, improvviso, le sballottò la testa dalla parte opposta. Sentì schizzarle in bocca il sapore metallico del sangue. Alisa era comparsa proprio davanti a lei e l’aveva colpita. Alexandersson scosse la testa, parlando dolcemente all’androide, abbassandole il braccio con un gesto lento della mano, come se fosse una bambina. “Calma, non c’è bisogno di ucciderla ora”

“Ma ti ha offeso!” esclamò lei.

“Non ha importanza, piccola.” Alexandersson si rivolse nuovamente verso Nina: “Dicevamo?”

“Dicevamo che puoi fotterti” ripeté caparbia, preparandosi ad un altro colpo. Ma Alexandersson rise. “Ho come l’impressione che la nostra algida assassina non sia più così professionale. O sbaglio?”

Si chinò verso di lei, sussurrandole nell’orecchio. “E’ a causa dell’uomo che ti ha accompagnata, vero?” Le terse con le dita della mano il rivolo di sangue che le usciva dalle labbra, incurante del fremito che aveva scosso i circuiti dell’androide. “Tre dei quattro elicotteri russi, impegnati nella missione, sono stati abbattuti. Due da Deimos. Uno da me personalmente. Quante probabilità ci sono che il tuo uomo si sia salvato?”

Sentendo lo stomaco  contorcersi, Nina deglutì il sangue che aveva in bocca, sforzandosi di non far vedere il tuffo al cuore che aveva avuto nell’apprendere la notizia: “Non è una cosa rilevante.”

“Io credo sia il contrario, invece.” L’uomo si staccò da lei, rivolgendosi agli altri due. “Lei non parlerà. Non spontaneamente.”

Alisa si propose per risolvere il problema, ma ancora una volta l’uomo la fermò: “Dottor Boskonovitch, a lei.”

L’anziano scienziato annuì, aprendo una piccola confezione di metallo ed estraendo una fiala e una siringa. Riempì quest’ultima con il liquido della fiala e si avvicinò a Nina. “Non ci provi a toccarmi” sibilò furiosa la donna, tentando di morderlo. Intervenne Alexandersson, che le piegò la testa di lato. Sentì l’ago della siringa nel collo, e ringhiò di rabbia impotente.

“Questo è un veleno, che il Dottor Boskonovitch sta studiando. Agisce nell’arco di una settimana, provoca spasmi muscolari, febbre alta, deliri, spesso anche allucinazioni. E poi la paralisi completa, perdita dei sensi e la morte.” Spiegò Alexandersson. “Soffrirai molto, e sono convinto che ci fornirai le informazioni che ti chiediamo, Miss Williams, in cambio dell’antidoto. In ogni caso, sono sicuro che nel delirio della febbre sarai molto più malleabile.”

Nina non si ricordava di aver provato per nessuno un odio così feroce: la rabbia sorda che le stava montando in petto le faceva annebbiare la vista. O era già l’effetto del veleno?

Cavia un’altra volta, e questa volta con la morte come esito dell’esperimento. Anche se Sergei Dragunov fosse ancora vivo, non l’avrebbe potuta salvare in ogni caso.

Una leonessa non abbassa lo sguardo davanti al nemico, non si arrende alla fine, non accetta la sconfitta. E non teme la morte.

Se erano convinti di averla in pugno, evidentemente non la conoscevano bene: si sarebbe portata qualsiasi parola nella tomba. Il dolore che avrebbe provato era nulla in confronto a quel gelo che stava stillando il suo cuore in quel momento.

Follemente, le labbra di Nina si piegarono in un sorriso di sfida.

 

1° giorno:

La febbre si stava alzando. Sentiva brividi per tutto il corpo, ma le guancie bruciavano. Nina si rannicchiò sulla sua brandina, cercando di trovare il calore dentro di sé per sopravvivere.

Come in Kamcatka. Però ora, in quella cella umida e grigia, dalla porta di metallo pesante che le sbarrava ogni via di fuga, Nina era da sola, non con il calore di Sergei che la teneva in vita.

E non aveva coperte. C’era solo lei, la brandina con il sottile materasso e un gabinetto in un angolo. E una telecamera sopra la porta. Una feritoia della porta si era aperta per lasciar scivolare un vassoio di cibo. Nina non l’aveva neanche guardato. Aveva solo bevuto l’acqua per toglierle l’arsura che aveva in bocca.

Sergei… Era vivo? E il mostro? Alexandersson non aveva menzionato la sua distruzione. La stava cercando?
Si piegò nuovamente su sé stessa.

Doveva pensare a qualcosa di caldo. Come la loro missione in Grecia. Sorrise appena: sarebbe rimasto sempre e solo un’illusione, un sogno, perché quelle quattro pareti grigie sembravano avere tutta l’intenzione di essere la sua tomba. Tanto valeva lasciarsi andare. Che male poteva fare sognare?

2° Giorno:

Mantenere la lucidità mentale non era facile, con la febbre alta. Nina si sentiva a pezzi. Non c’era un singolo muscolo del suo corpo che non le dolesse. Stare coricata non sembrava aiutarla. Decise che fosse meglio mangiare qualcosa, non doveva indebolirsi troppo. Alzandosi dalla brandina, venne colta da un capogiro, e per poco non rovinò a terra. Camminò verso il vassoio appoggiandosi alle pareti. Riuscì a mangiare solo qualche boccone di pane: la mascella le doleva terribilmente, forse anche a causa dello schiaffo di due giorni prima datole da Alisa. Traccannò l’acqua tutta d’un sorso: le sembrava di avere il fuoco in bocca. Mentre stava per tornare sulla brandina, alzandosi faticosamente, sentì lo stomaco torcersi, e vomitò il parco pasto nella tazza.

Si trascinò di nuovo sulla brandina: non sarebbe resistita a lungo. Forse nemmeno alla fine della settimana.

Ma non si sarebbe arresa.

Cercò di immaginarsi il sole caldo della Grecia.

 

3° Giorno:

Aveva iniziato a respirare male. Le sembrava di avere un masso che le premeva lo sterno. Alzarsi dalla brandina era una vera impresa, sentiva gli arti informicolati. Ma ce la mise tutta, e, con fatica, riuscì a mettersi in piedi, appoggiata al muro. Mosse qualche passo incerto, decisa a non lasciarsi vincere dalla preannunciata paralisi. Per mantenere la concentrazione si aiutò contandoli: uno, due, tre, quattro la testa le girava, e più di una volta dovette fermarsi, vinta dal senso di nausea che la seguiva da ormai due giorni. Scivolò lungo la parete, sentendosi miserabile e detestandosi con tutta sé stessa. Le venne in mente il discorso sul suicidio che aveva intavolato con Sergei: meglio uccidersi che cadere nelle mani del nemico. Forse sarebbe riuscita a porre fine alla sua esistenza prima che la consumasse il veleno. Lo sguardo appannato corse per tutta la stanza. Non c’era nulla con cui potesse impiccarsi o farsi seriamente del male, e di sicuro quei bastardi che stavano assistendo alla sua agonia dall’altra parte della telecamera avrebbero impedito anche quella scappatoia.

Di nuovo, la rabbia le montò in petto. Si alzò, ancora, sempre più incerta, continuando a camminare attaccata alla parete: uno, due, tre, quattro…

 

4° Giorno:

Aprì gli occhi perché qualcuno la chiamava. Qualcuno con una vocetta infantile e ridacchiante. Le sembrava famigliare. Anna?

Lo sguardo di cristallo di una bambina con il caschetto castano le rispose. La fissò incuriosita, prima di sedersi per terra, senza dire una parola. Anna?

Cosa ci faceva sua sorella, per di più tornata bambina, in quella cella umida? Beh, al momento la fissava. Forse era il caso di chiederglielo. “Che ci fai qui?”

Anna piegò la testa di lato, appoggiandosi il dito davanti alla bocca, in segno di silenzio. “Non ci cascare”. Sussurrò.

Caspita, era vero. Le allucinazioni. Strappò un pezzo di tessuto dall’orlo del camice che indossava e se lo infilò in bocca: anche se avesse straparlato nel delirio della febbre, nessuno l’avrebbe sentita. Anna approvò, prima di scivolare fuori dalla finestrella della porta.

Doveva mantenere il controllo. Si sforzò di pensare a qualcosa, qualsiasi cosa e di concentrarsi su quel pensiero. Un qualcosa di impegnativo. La trama di un libro?

Qual’era l’ultimo libro che aveva letto?

Mmmm…Dan Brown. Il Codice da Vinci, quasi tre anni prima. Non era proprio patita per la lettura.

Però le piaceva Leonardo Da Vinci. L’aveva vista al Louvre, no, la Gioconda?

Oh, cielo. Ora non ne era molto sicura di essere stata a Parigi. Forse l’aveva vista solo in riproduzioni qua e là.

La confusione nella testa cresceva. Mille pensieri, voci, parole, immagini le vorticavano nella mente. Riuscì a farsi cullare dalla sensazione di essere in balia di onde che muovevano dolcemente la chiglia di una barca e svenne.

 

5° Giorno.

Affanno. Le veniva il fiatone ad alzarsi da letto. Gli arti erano sempre più intorpiditi, e cominciava a perdere sensibilità alle dita delle mani. I muscoli le esplodevano dal dolore, la febbre la faceva delirare, e per poco non si strozzava con il pezzo di stoffa che si era cacciata in gola.

Che cosa strana essere a Dublino, nella sua cameretta da bambina che condivideva con Anna. Ma non c’era nessuno in camera. Si alzò dal lettino ed uscì dalla stanza, trovandosi nel soggiorno. Sentiva sua madre e suo padre litigare da qualche parte nella casa, mentre sua sorella, ragazzina, era seduta con le nude gambe incrociate , sul divano. Indossava la divisa della scuola, e un libro era aperto sulle sue ginocchia. Un uomo, che Nina ricordava come uno stretto collaboratore di suo padre, era seduto invece sulla poltrona di fronte a lei, e Nina poteva giurarci, stava spiando tra le pieghe della gonna di Anna.

Lei se ne accorse, accentuando la sua posizione, e fingendo di leggere, appoggiando un dito tra le labbra. L’uomo sogghignò. “Allora, piccola Anna… tutto bene con gli allenamenti?” Lei annuì, falsamente innocente. “Diventerai più brava di tua sorella?”

“Questo poco ma sicuro…” ridacchiò.

“Per ora sei molto più carina di lei.”

Anna annuì, chiudendo il libro. Allungò le gambe sul tavolino, che separava il divano dalla poltrona dove era seduto l’uomo.  “Piccola Anna, Stai attenta a quello che fai… ci sono i tuoi genitori di là, non siamo da soli.”

La ragazza fece spallucce, gettando un’occhiata al corridoio. “Mio padre non batterebbe ciglio a vedermi seduta su di lei. A proposito:” Anna si sporse in avanti, regalando la visione della sua generosa scollatura. “Dov’è il regalo che mi ha promesso la scorsa volta?”

L’uomo rise, frugandosi in tasca. Ne estrasse un piccolo pacchetto, che fece tintinnare davanti agli occhi illuminati della ragazza. “Vieni a prenderlo.”

Anna salì con le ginocchia sul tavolino, sporgendosi verso l’uomo, le dita che si chiudevano attorno alla scatolina. “E un bacino no, piccola?”  Lei gli stampò un bacio veloce sulla bocca, prima di sedersi sul tavolino, dando la schiena all’uomo, aprendo la scatolina. “Oh si! Sono proprio gli orecchini che volevo!” esclamò. L’uomo si era alzato, avvicinandosi alla schiena di Anna. Fece scivolare una mano sulla spalla e poi dentro al colletto della divisa scolastica. Vide Anna trattenere il respiro e deglutire, mentre la mano dell’uomo scendeva verso il suo petto.

La stanza era di nuovo grigia. Era un’altra allucinazione, o questa volta si trattava di un ricordo?

Le pareti della stanza sembravano chiudersi su di lei. Nina si coprì gli occhi con le mani, ripetendosi che fosse tutto un’allucinazione e che sarebbe tutto finito presto.

 

6° Giorno.

La vista stava scemando. E la febbre non la lasciava stare. Faticò a voltarsi verso la porta, quando la sentì aprirsi, per la prima volta dopo giorni. Non si sorprese nel vedere entrare Alisa Boskonovitch, d’altronde, durante le sue ultime allucinazioni, si era trovata a parlare con suo padre, con Edgar Allan Poe e con Volkov, che le aveva chiesto un’aspirina per il suo mal di testa post sbronza.

L’androide si fermò davanti al suo letto, osservandola senza espressione. “Non hai ancora intenzione di parlare?”

Nina voltò fieramente lo sguardo altrove, non riuscendo ad emettere suono.

“Eppure stai soffrendo” Alisa sembrò osservarla meglio, quasi come se stesse analizzando le sue condizioni fisiche. “Non arriverai a domani sera” spiegò.

Rimase un attimo in silenzio, come se si aspettasse davvero che l’ultima frase sortisse qualche effetto su di lei. “Sei davvero bella.”

Nina la guardò scettica. Cosa doveva sopportare, anche le avances di un androide femmina? “Diciamo che ho stile”

"Lui ti Desidera"

Senza nemmeno tentare di sedersi, Nina le prestò attenzione: certo, era sicuramente un’allucinazione, ma aveva del tempo a sua disposizione, poteva tranquillamente fare conversazione con essa. Chi la desiderava, a parte Sergei?

Lars ti desidera” ripetè Alisa, sospirando.

“Questo cambia le cose.” Tossicchiò la donna. “Potrei davvero provare a sedurlo, magari mi farebbe uscire. Si, sono convinta di essere molto sensuale in questo momento.”

Alisa distolse lo sguardo con uno scatto della testa. “Lui ti vorrebbe, io lo so, glielo leggo negli occhi. Ma mi ha giurato che non mi tradirà.” Mosse qualche passo per la stanza. Nina si domandò se fosse dotata di pensieri propri, sembrava assorta. “Io mi fido del mio Lars. Anche se so che sono diversa da una donna vera, so che non mi tradirà.”

Parlare le stava risultando sempre più difficile: “E allora perché sei qui?”

Era un androide talmente ben costruito da provare la gelosia femminile tanto quanto fosse stata una donna in carne ed ossa? E anche l’invidia per non essere tale, a quanto pareva.

Ma tutto ciò non aveva importanza. Era tutto un’allucinazione, un sogno. Uno degli ultimi, a giudicare dalle sue condizioni fisiche che peggioravano di minuto in minuto.

Il robot si avvicinò, chinandosi verso di lei. “Volevo vederti soffrire” mormorò. “E ci sto riuscendo” La sua voce sembrava afona, nessuna inflessione sadica la turbava. Forse non ne era soddisfatta?

“E ti senti meglio?”

Alisa scosse appena i boccoli rosa. “Quando tu morirai, lui desidererà un’altra.” Si alzò e si diresse verso la porta. “Ma avrà sempre e solo me. Me l’ha giurato”

“E tu credici.” Sogghignò Nina, conscia che la sua smorfia avesse assunto ormai un aspetto grottesco. “Dovrà bastarti.”

L’androide sembrava sul punto di colpirla, ma si ritrasse all’ultimo momento, per lei non ne valeva la pena sporcarsi le mani candide, quando poteva vedere la rivale agonizzare e cedere sotto il giogo del veleno.

Quando fu uscita, Nina non era più sicura che fosse tutto una visione.

 

7° Giorno.

Era come se miliardi di spilli incandescenti fossero piantati nel suo corpo. Il dolore era così acuto da strapparle dei faticosi lamenti, i muscoli non rispondevano più ai suoi comandi, attraversati da scatti improvvisi, come se fossero percorsi da scosse elettriche.

Nina si era accorta di non possedere più la vista, e anche la facoltà di parola sembrava averla abbandonata. C’era solo il dolore, in un universo buio e terribile. E l’udito, che le faceva sentire i rimbombi delle sue stesse urla nella cella.

Fu più volte sul punto di urlare “Basta!” e di chiedere l’antidoto, ma con la poca capacità di pensiero che gli era rimasta si rendeva conto che ormai era troppo tardi.

Si arrese al dolore, piegata su un fianco, lasciando che il respiro affannoso si spegnesse da solo, insieme ai battiti del suo cuore.

Sentì la porta aprirsi nuovamente, e si domandò se stesse per arrivare di nuovo l’allucinazione di Alisa Boskonovitch.

Invece sentì una mano guantata sfiorarle la guancia madida di sudore gelido e scostarle le ciocche di capelli.

Alle narici rose dalla febbre arrivò l’odore di salsedine, che la convinse che tutto era davvero finito, e che era stato tutto un bruttissimo incubo doloroso. Quella mano era di Sergei, ne era sicura, che la stava svegliando. La mano guantata la voltò supina, ma non le ridiede la vista. Sentì il pezzo di stoffa che veniva sfilato dalle sue labbra. “Sergei?” riuscì solo a mormorare.

Sergei?”

All’improvviso, il profumo del mare era scomparso. Quella voce non era quella del suo uomo, e venne di nuovo avvolta dalla consapevolezza che lui non c’era, non ci sarebbe mai più stato, non con lei su quella terra.

Ormai non valeva la pena disperarsi. Nemmeno riconoscendo la voce che le aveva risposto. Lei era persa, morta ormai, e nulla sarebbe riuscita a scuoterla. Si rese conto che l’ultima volta che aveva sentito il suo cuore era stato quando Alexandersson le aveva insinuato il dubbio di aver spedito Sergei all’altro mondo.

Aveva iniziato a morire in quel momento, senza veleno.

“Mi ha preso per il tuo fidanzato, Nina?” La canzonò la voce.

La voce di Lars Alexandersson.

 

 

Eh, questa volta è davvero difficile saltarci fuori, vero Nina? (Stron2a sadica… NdNina)

Spero di aver reso bene l’idea della situazione e della sofferenza di Nina.

Ma Dragunov sarà morto o no? E che vorrà Lars? (… beh, vedete un po’ voi! NdAlexandersson)

Come sempre, vi ringrazio per le recensioni! Vi voglio troppo bene!

Spero di riuscire ad aggiornare presto…

EC

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Capitolo 16
*** Dancer in the Dark ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

16: Dancer in the Dark.

 

Fate lies ahead
Like the sun will rise
The light has been gone far too long
From your eyes
But you never changed, never played your part
And you have erased all the fear from your heart
And tried to forget

The light in your eyes keeps fading out
Night's falling deeper in the heart
Hiding the truth and crashing down
My baby's a dancer in the dark

 

La mano di Alexandersson scese dalla spalla sino al polso, tastandolo come se volesse fratturarglielo da un momento all’altro. “ E così, ecco la spietata Nina Williams sul letto di morte” Sembrava divertito, e Nina poteva tranquillamente immaginarsi il suo sorrisetto sadico.  “Agonizzante e alla mia mercè…

Il filo di voce che riuscì ad emettere la donna fu il più faticoso della sua esistenza, e di certo non aveva nulla di minaccioso . “Non cantar vittoria troppo presto” Cercò di muovere il braccio, di tentare una mossa, ma il suo corpo si rifiutava di risponderle, e il debole guizzo muscolare procurò la risata divertita dell’uomo, che le afferrò anche l’altro polso, spingendoglieli entrambi contro il materasso. Nina avvertì il suo peso sulla brandina, e le tornò in mente, offuscata e lontana, la conversazione con Alisa Boskonovitch. Non riuscì a far altro che a lasciare che un lamento le uscisse dalla bocca, rendendosi conto che, probabilmente, quella non era di certo un’altra allucinazione. 

“Con la tua morte, ci sarà un essere spregevole in meno al mondo, Nina.” Sibilò. “Provo disgusto per te.”

“Perché sono un’assassina? Anche tu hai ucciso” mormorò la donna. Stava cercando di prendere tempo, per lasciare che il veleno le togliesse l’ultimo respiro, prima di subire un’ultima, indegna umiliazione.

“E’ diverso. Io ho tolto la vita a mostri come te, per un’ideale. Tu l’hai fatto solo per soldi. Non avevi un motivo valido per portare a termine la vita delle persone che hai ucciso. Io invece ce l’ho. Tolgo la vita ai miei nemici, quelli che hanno seminato morte e distruzione. Anche se erano miei famigliari. Non hai notato che Tokio era semideserta? Gli innocenti li avevo già fatti evacuare. Erano tutti in salvo. Peccato per chi mi ha mosso guerra.”

“Sei un bastardo.” Nel bisbiglio di Nina c’era tutto il disprezzo che poteva esprimere. “Un vero Mishima

“Dipende dai punti di vista.” Ridacchiò l’uomo. Lo sentì percorrere il suo corpo con le mani, e sentendo il ribrezzo che le procurava. “Forse a tua sorella e a tuo figlio – si, lo so che Fox è tuo figlio… ma non è un mio obbiettivo – un  po’ dispiacerà. Ma sarà una cosa passeggera. Anna sarà rincuorata dalla sua famiglia, Fox dalla sua nativa americana. Alla fine, a nessuno mancherai veramente. Non sarà una gran perdita.”

Le lacrime pizzicarono gli occhi bui della donna, mentre sentiva il fiato di Alexandersson sul collo.

Voglio morire pensò, Provò a trattenere il fiato, ma l’istinto fu più forte della sua volontà. La testa le cadde di lato, le braccia abbandonate senza più forze. L’oblio stava arrivando, ma non era così veloce come avrebbe voluto. Il benservito per le mie azioni si commiserò. Quello che mi merito.

 “C’è un ultimo sfizio che voglio togliermi, Nina.” I bottoni del camice cedevano alle dita dell’uomo. “Uno sfizio che voglio togliermi dalla prima volta che ti ho vista. Oh, so cosa stai pensando:” le scostò le ciocche di capelli dalla faccia, muovendogliela tra le dita. “Si, Alisa è dolce, è cara, fedele… ma non è una vera donna. E’ un freddo robot, nonostante tutti i suoi sforzi, non è paragonabile ad una donna in carne ed ossa…

La sua lingua invase le labbra di Nina. Tentò di morderla, senza successo.  Ormai era la fine. Ma perché il suo cuore batteva ancora?

Perché non riusciva ad arrendersi al buio?

Voglio morire… una discesa lenta verso l’oblio

Voglio morire… gli arti quasi non le facevano più male

Voglio morire … non aveva più sensibilità da nessuna parte. Ormai lei non era più lì.

 

E il rumore di un’esplosione, in lontananza, che le era giunta alle orecchie doveva essere davvero l’ultima allucinazione.

 

Probabilmente la sensibilità del suo corpo era svanita del tutto, perché non sentiva più le mani di Alexandersson su di lei. Tanto meglio.

 

Una voce acuta che gridava, la porta della cella che si apriva, e un attimo di gelo.

“Mi hai tradito!”

“No, Alisa, fermati, aspetta…!”

“Mi avevi giurato che mi saresti rimasto fedele, che non l’avresti sfiorata nemmeno per sbaglio!”

Che cosa divertente. Chissà se stava succedendo davvero. La voce di Alisa era stridula, se fosse stata un’umana sarebbe scoppiata a piangere, avendo una crisi isterica.  “Io mi fidavo di te! Ti ho creduto! Lars, come hai potuto farmi questo?”

Lars era sempre in prossimità del letto, e cercava in tutti i modi di discolparsi.

No, quella non era un’allucinazione. Ironia della sorte, la cosa più improbabile era reale. Peccato non vedere quella scenetta.

 

Un’altra esplosione, più vicina.

Alisa, ne parliamo dopo, dobbiamo scappare”

“Io non scappo con te!” Sembrava stesse singhiozzando. “Come hai potuto farmi questo?”

I passi si allontanavano concitati dalla stanza.

Senza degnarla di una parola.

 

Ora era davvero sola.

Sola con i rumori di spari e urla fuori dalla cella. Chissà che stava accadendo. Oh beh, non aveva più importanza adesso.

Ma sola, a morire.

Poteva dirigere i suoi ultimi, faticosi pensieri dove voleva lei.

A Steve e ai suoi occhi brillanti e vivi.

Ad Anna e al suo nuovo sorriso caldo, rivolto al figlio appena nato.

A Sergei, chissà se e dove la stava attendendo, l’uomo che le aveva invaso la mente.

E si, anche quel muscolo che prima avrebbe giurato di non possedere, che risiedeva nel suo petto e che batteva ancora più piano.

L’ultima volta che l’aveva contemplato, dedicandogli il suo pensiero, l’aveva fatta cadere in trappola.

La sua prima debolezza l’aveva uccisa.

Non avrebbe avuto più l’occasione di cedere di nuovo.

 

C’era una voce che urlava qualcosa in russo. Chiamò qualcuno, e sentì la frequenza di una radio.

Ormai sentiva la lingua russa in ogni dove? Cercò di prestare attenzione, sicura che ormai fosse davvero l’ultimo scherzo del veleno.

“Abbiamo trovato Williams. Viva signore. Ancora per poco però.”

Una mano le premette sulla giugulare, per sentire il cuore. Altri passi, e il busto che le veniva alzato, le spalle che le venivano scosse. “Williams!”

Quella voce! Oh, almeno il veleno era clemente, a riportare a galla la sua voce, prima di ucciderla!

“Williams!” lo sentì chiamare, più piano. “Che diavolo ti hanno fatto?” Poteva sentire le sue dita sulla gola, poi sulla guancia, che le scostavano i capelli dorati. “Nina…” Non c’era disperazione, né rassegnazione, nessuna inflessione emotiva. Ma c’era la sua voce, e la sua presenza vicino a lei.

No, non poteva essere un’allucinazione. Era la realtà. Lo sentiva.

“Non c’è più niente da fare, Dragunov. Ormai Williams è persa. Andiamo.” Quella era la voce di Sharapov.

Scivolò dalla presa di Sergei, si sentì adagiare sul letto, le braccia raccolte sul grembo. Un’ultima carezza, sulla fronte.

Non poteva finire così. Si sforzò di emettere un qualsiasi suono, di fare un qualsiasi gesto. Nulla. Era imprigionata nel suo corpo.

“Addio Williams.”  

Dentro di sé urlava, impotente. Di nuovo, gli occhi le pizzicarono. Non poté impedire che una lacrima scivolasse tra le sue palpebre semichiuse, attraversando la tempia, mentre avvertiva che la presenza di Sergei si allontanava da lei.

Pashkin, Tatarskij, copritemi le spalle.”  Si sentì sollevata da due braccai forti che ben conosceva.

“Ma il comandante Sharapov ha detto…

“Me ne fotto” Si sentì adagiata su una spalla, e per un attimo la flebile fiamma della speranza scaldò il suo cuore. “Mi prenderò tutte le responsabilità del caso”

 

I sibili degli spari e i rumori dei combattimenti erano vicinissimi, ma non se ne preoccupava. Ora sapeva di essere al sicuro, e anche se fosse morta in quel momento, sarebbe stata felice di morire così, tra le sue braccia, mentre lui sfidava gli ordini per salvarla .

Io non voglio morire.

Dragunov rovinò a terra, trascinando anche lei, ma si rialzò subito, imprecando. Riprese a correre, mentre urlava indicazioni ai due soldati che coprivano la fuga.

Una folata di aria fresca colpì il volto di Nina, insieme all’odore di carburante e di esplosivo. Erano fuori dalla base di Alexandersson?

La corsa di Sergei finì, e si sentì appoggiata, neppure troppo delicatamente, su una superficie dura. Qualcuno l’assicurò a qualcosa, sentì delle parole concitate, degli ordini, raccomandazioni, gente che le tastava la gola e che le infilava qualcosa nel braccio.

Un’altra esplosione, più grande delle precedenti, e di nuovo la voce di Sergei. “Ve l’avevo detto che sarebbe stato meglio per voi seguirmi…

Era finita. In ogni caso, era finita.

Si concesse di svenire.

 

 

Via dalle Grinfie di Lars! Non voletemene Fan di Alexandersson… mi serviva un cattivo, e in genere i Mishima si prestano bene a ricoprire questo ruolo!

La canzone iniziale è DANCER IN THE DARK –THE RASMUS.

X AngelTexasRanger: chissà come mi odi, ora! Su su… come ha detto Lars, Alisa è splendida ma… è un robot. Non è stata progettata per i fini – ehm – pratici.

X SackBoy97: Tifi ancora per Lars? :P

X Miss Trent: Grazie ancora ciccia! Adesso sognati questo soldatino salvatore! (oddio, questa si sogna davvero che entra Dragunov nella camera e se la branca via!)

X Nefari: grazie mille per la tua recensione! Spero di non averti delusa!

Ringrazio anche Krisalia e Nila!

Besitos, fatemi sapere, vi prego, se vi ho soddisfatto… le vostre recensioni, i vostri commenti (anche critiche, per carità) sono pane per i miei denti!

Buona notte,

EC

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Capitolo 17
*** Bring me to Life. ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

17: Bring me to Life

 

“LIBERA!”

Una scossa. I muscoli che si tendevano, attraversati dalla corrente, la schiena che si inarcava.

“LIBERA!”

Un’altra scossa. Ancora brividi elettrici tra i tendini e i nervi. E questa volta poteva sentire un vago dolore.

“Abbiamo il battito.”

E aveva iniziato a galleggiare.

 

Era notte, ma non c’era più freddo. Anzi, riusciva ad avvertire tepore attorno alle sue membra. Ma era tutto così confuso, così… lontano.

Aveva iniziato a sentire dei rumori, a centinaia di chilometri da sé, voci, spezzoni di frasi. Ma non erano vicini al posto in cui galleggiava lei. Erano da un’altra parte, in un’altra dimensione, in un mondo fermo e statico, di cui lei ora non faceva parte.

“… perché so che puoi sentirmi. Anzi, scommetto che tra poco ti sveglierai, e mi insulterai dicendomi che la mia voce da cornacchia sveglierebbe pure i morti.” Una risata leggera, appena accennata, e il tepore che si accentuava da qualche parte, sul suo corpo.  “Ti racconto tutto, Nina? Ma si, dai, credo che tu abbia tempo”  Quella voce lontana ed evanescente le faceva danzare davanti agli occhi trasparenti l’immagine di una giovane donna con un corto capello castano. Anna?

Anna, nella sua veste scarlatta, le parlava dalla sponda di quel lago scuro in cui lei era immersa. Sussurrava a pelo dell’acqua, affidava alle onde parole che echeggiavano debolmente nelle orecchie.

“Ti hanno dato per spacciata ben due volte. Ed entrambe le volte ti sei ripresa. Tutt’ora i medici sostengono che tu abbia poche possibilità di salvezza. Poveretti, non ti conoscono proprio!”

Il tepore arrivava dalla sua mano. C’era qualcosa appoggiato sopra le sue dita, che le scaldava e la faceva riaffiorare dall’acqua. “Uhm, vediamo cosa posso dirti…ah, si. Aggiornamenti! Alexandersson è saltato per aria, sai? Kaboom! Non ho capito molto bene come siano andate le cose, ma pare che l’androide che era con lui – com’è che si chiamava? Elisa? Arisa?Alissa? Mah - sia esploso. Probabilmente si è suicidato per non cadere in mano al nemico. Non è stata una brutta idea, la sua.”

La voce di Anna echeggiava tutto attorno a lei. Era rassicurante sentirla in mezzo a quelle tenebre. Avrebbe voluto risponderle, ma l’acqua le impediva di parlare. “E poi ti devo raccontare di Jamie! Ti devo portare assolutamente una foto, oh, quanto è bello! Ma forse sono di parte. In ogni caso, è diventato il beniamino della base. Tutti lo cercano e tutti mi fanno i complimenti per il piccolo. Oh, beh, piccolo… pesa già  4 chili e mezzo, a sole due settimane di vita! Lee ne è estasiato. Semplicemente, lo adora. Quando lo prende in braccio sembra che abbia tra le mani il Dalai Lama!”

Le onde avevano iniziato a distorcere le parole di sua sorella, non gliele portavano limpide e chiare. Qualcuno le disse qualcosa che lei non afferrò. Il tepore sulla mano si strinse attorno alle sue dita. “L’orario delle visite è finito, non puoi stancarti troppo. Devo andare, anche perché il piccolo Buddha reclama sicuramente la sua poppata pomeridiana. Buon riposo, sorellina.”

Il tepore lasciò la sua pelle, per poi tornare quasi subito. “Ah, credo di aver capito chi è l’uomo con cui hai una ‘sottospecie di relazione’. E’ Dragunov, vero? Viene sempre a trovarti, alla sera. Spesso sta fuori dalla porta e ti osserva dalla finestrella. Ogni tanto entra, ma non credo che ti ammorbi di chiacchiere come faccio io…!”

 

Era leggera. Così leggera che fluttuava. Un peccato che stesse fluttuando nella notte e che non riuscisse a vedere la terra sotto di sé.  Ma il vento le accarezzava le guancie, insistentemente, e si insinuava, caldo, tra le dita di una sua mano. Il vento condusse a lei una voce maschile, incrinata dall’emozione, ma decisa a resistere e a mostrarsi calma e ironica.

“… avremo qualcosa in più in comune, oltre al nostro patrimonio genetico”  C’era della foschia davanti a sé, fumo che prendeva le sembianze di suo figlio. Steve?

“Potrò avere una vita normalissima, come la sto conducendo ora, anche senza un rene. E se ne avrò bisogno, te lo richiederò indietro!”

Un rene? E perché? A cosa serviva un rene, quando si fluttuava e si veniva cullati dal vento? Perché ora la usa mano era bagnata? Stava per tornare nel lago?

“Ti offendi mamma se dico che ho un po’ paura?”

Steve era ora un bambino biondo che si mangiucchiava le unghie, nervoso. Non aver paura, la mamma è qui.

“Ci sono tante cose che ti devo ancora chiedere, e non ne ho il coraggio, sai? Vorrei sapere se tu, senza sonno criogenico, mi avresti tenuto. Se mi avresti cresciuto con te. Ci conosciamo così poco… Ma farò in modo che tu ti possa svegliare, mamma, e cercherò di trovare la forza di farti tutte le domande che voglio porti.”

E la mano rimaneva umida, fresca, sulle dita l’impronta di due labbra che le appartenevano più di quanto si potesse immaginare. Il calore non svaniva neppure quando non le fu più vicino.

 

Un inglese stentato spezzava il silenzio di quella notte stellata. “Non c’è stato rigetto, e il rene ha iniziato sin da subito a funzionare correttamente.” Lei era nel cielo trapunto di stelle, circondata da quegli astri brillanti, ma dissimile in tutto e per tutto da loro.

“E’ ancora presto per dirlo, bisognerà attendere che il fegato ripristini la sua funzione e che si risvegli.”

 “Grazie dottore.” Mormorò una voce femminile, dal tono sereno.  Un rumore strano, vicino a dove si trovava lei, quasi una vocetta gracchiante. Un vagito.

La voce femminile fece un debole “Shhh” per acquietare la vocina. “Oggi ti siamo venuti a trovare con Jamie” sussurrò la voce femminile, che lei si sforzò di riconoscere come quella di Anna. “Ho pensato che ti poteva riportare in questo mondo con uno dei suoi DO di petto.”

Le stelle avevano assunto una posizione ben precisa. Tanti, milioni, miliardi di puntini luminosi si erano radunati a formare la figura della sorella con un bambino al collo. Attaccato a lei, formato alla stessa, scintillante maniera, Lee.

“Già, dovresti sentirlo! Quando ha fame, o le colichette, fa un concerto!”

“Abbiamo un solista in famiglia, Nina. Non vedo l’ora di farti vedere come è cresciuto.” Ancora un piccolo vagito, quasi un urletto. “Appunto, è d’accordo anche lui!” 

“L’operazione è andata benissimo. Steve ti ha donato uno dei suoi reni – uno dei tuoi era completamente da buttare e l’altro era messo malissimo – ed ora il tuo fisico potrà riprendersi piano piano. Stai facendo progressi, sai? Hai avuto delle reazioni al caldo e alla luce. Almeno, così ci hanno detto.  Non preoccuparti, Steve sta benissimo, si è già ripreso e non ha avuto conseguenze, se non che gli hanno perso il piercing al capezzolo e ora è imbronciato perché gli si richiuderà il buco. Ieri mi ha chiesto uno dei miei orecchini. Julia gliel’ha messo e… oh, che schifo, vedrai la foto. Sembrava uno Zulù con quel cerchio colorato al capezzolo.”

“Orribile” concordò divertito l’uomo.

La luce si rivolgeva a loro, lasciandola al buio. Apparivano di secondo in secondo sempre più sfavillanti, composti da diamanti splendenti.

Il bambino sembrò agitarsi e piagnucolare. Lee si chinò verso la moglie per prenderlo, dicendo che l’avrebbe portato fuori, così da non disturbarla.

Rimase solo Anna nel cielo, diversa come non mai da lei. “Noi dobbiamo andare. Il nostro visto è scaduto, e ci hanno chiesto di lasciare il paese.”  Calore. Calore tra le sue dita, sul suo braccio. Calore e tremore, apprensione. “Ho fiducia in te, Nina. So che non ti lascerai andare. Ti conosco troppo bene, non sei così stupida da mollare proprio ora. Tu non sei una bambolina mollacciona. Non mi deluderai. Non ci deluderai. Mi dispiace solo che non potrò vederti da sveglia. Non subito, ovviamente. Ci vedremo quanto prima vero? Ci terranno informati sulle tue condizioni di salute. L’ho chiesto esplicitamente.”  Una mano sulla sua fronte. “Cavoli Nina, meno male che stai dormendo e non puoi guardarti allo specchio. Ha un aspetto orrendo. E pensare che ieri mi sono anche messa d’impegno per metterti a posto almeno le sopracciglia, ma non è che sia servito granché.”

Nel cielo rimbombò un altro rumore, e la figura di Anna si guardò alle spalle. “Oh, è lei!” esclamò sorpresa. “Stavo andando, il nostro volo parte tra poco.”  Si rivolse nuovamente a Nina. “Buona fortuna sorellina. Ti aspettiamo alle Bahamas.”

Le stelle scemavano, tornando al loro posto, mentre Anna si voltava e si allontanava.

“Mi farà sapere, vero?” domandò al nuovo arrivato. “Grazie. Mi dispiace non essere qui, quando si sveglierà, ma… beh, non sono preoccupata. La lascio in buone mani.” Le ultime stelle stavano lasciando il suo contorno, quando Anna si voltò di nuovo verso il suo angolo di tenebra. “Non le parla mai, vero? Dovrebbe. Lei ascolta, sono sicura che parlarle l’aiuterà a tornare da noi.” Sembrò attendere qualcosa dal suo interlocutore, che restò in silenzio, all’ombra delle stelle. “Non le costa nulla provare. E poi, qui non la sente nessuno. Abbia cura della mia sorellina, Dragunov.”

 

Dragunov. Un nome che si infrangeva su di lei come un’onda di acqua salata. Poteva sentire il suo profumo, fragranza maschile inconfondibile sulla sua pelle.

La notte volgeva al termine, le costellazioni scivolavano via insieme, e la stella del Mattino palpitava in lontananza, specchiandosi sul mare che si tingeva dei colori pastello dell’alba. C’era la brezza che increspava le onde, facendole sbattere sugli scogli e muovendo la sabbia che la circondava e su cui era adagiata, la rena bagnata e tiepida del primo mattino.

Lo sciabordio la cullava, sottolineando la dolcezza di quell’insenatura deserta, abitata solamente da lei, naufraga delle tenebre e dai cespugli secchi della vegetazione mediterranea, che crescevano sino al limitare della spiaggia. Sul  mare ondeggiava la vela di una barca bianca, ferma a pochi metri dalla riva.

Nina non aveva mai visto nulla di più bello, e niente era mai riuscito ad infonderle più pace. La calda carezza del sole che spuntava all’orizzonte la scaldò dentro, e la investì di luce.

 C’era qualcuno seduto accanto a lei, ne avvertiva la presenza. Qualcuno che, lo sapeva, era sceso dalla barca a vela ed era arrivato a nuoto sulla riva, guardandola mentre dormiva senza osare interrompere il suo sonno.

Non si voltò a guardarlo, non ne aveva bisogno. Conosceva sin troppo bene i suoi tratti affilati, gli zigomi alti, le labbra livide ed imbronciate solcate da una sottile cicatrice. Poteva benissimo immaginarsi le gocce d’acqua salata che scivolavano sui suoi lineamenti duri, tra i suoi capelli neri, infrangendosi contro le sue spalle, solcando i suoi muscoli.  Restarono in contemplazione dell’alba che avanzava per qualche minuto, e poi lui parlò.

 

“Sei la persona più tosta di questa terra, Nina.” C’era un’incrinatura nella sua voce profonda, una vena di ammirazione, quasi calore. “Dicono che non ti riprenderai. Che resterai un vegetale, e che i tuoi organi collasseranno, uccidendoti.”  Il sole aveva smesso di salire, e sembrava anzi retrocedere, scomparire all’orizzonte. “Ma io non ci credo.”

Lo sentì sfiorarle la pelle del braccio. Le sue mani erano libere dai guanti, le dita dure come la pietra si piegavano su una carezza distratta, fatta per indugiare sulle parole da dire. “Dicono che hai sofferto incredibilmente. E a questo credo. E’ stata colpa mia.”

Il sole era fermo. Immobile. La Terra non girava più, anche il mare sembrava essersi fermato.

“Ho visto quando ti hanno presa, Nina. Ero sull’elicottero, e uno dei soldati della squadra mi ha urlato che tre soldati della Tekken Force ti avevano catturata. Ho preso il fucile e mi sono sporto però… non ho sparato.

Anche se ho visto chiaramente che uno di loro era Alexandersson, non sono riuscito a sparare. Eri tra le loro braccia, ti avrei colpita. Si, lo so. Meglio morta che in mano al nemico. L’ho pensato anche io. Ma non ce l’ho fatta. Sono stato così stupidamente debole. Saresti stata torturata ed uccisa ed io, idiota, non riuscivo ad impedirlo, perché non ti volevo piantare un proiettile in testa, perché non riuscivo ad ucciderti. Non ho mai avuto remore ad terminare la vita di qualcuno, ma con te non ce l’ho fatta. Ti avrei risparmiato ciò che hai passato.” Restò un attimo in silenzio, con il sole indeciso sul da farsi. “ Staccherei la testa di Alexandersson a morsi, se non si fosse fatto esplodere autonomamente.” Dita che si infilavano tra le sue, stuzzicandole, giocherellandoci, prima di portarle alle labbra che ne rimanevano pensierose a contatto. “Sharapov è morto. Se gli avessi dato ascolto, lasciandoti in quella cella, sarei morto anche io. Invece sono vivo, e sono stato promosso di grado, prendendo il suo posto. Ho fatto bene a salvarti e a disobbedire.”  Il palmo della mano sulla sua guancia liscia. “Ma tu non apri gli occhi, e questo non mi va giù.”

 

Il sole si era alzato. Era altissimo in cielo, splendente e accecante. La barca aveva levato gli ormeggi ed era partita, con il suo comandante al timone. Ma lui sarebbe tornato, se solo lei si fosse svegliata.

Dopo quattro settimane di coma, Nina Williams aprì gli occhi.

 

 

Rieccoci!

Dunque: immagino che due palle vi siano venute con questo capitolo. Avete ragione.

Il fatto è che io non sono mai stata in coma (per fortuna) e volevo descrivere la sensazione di totale estraneità del proprio corpo che aveva Nina, insieme al suo ‘sentire’ le persone che parlavano con lei. Morale: ne è risultato sto papiello onirico: tranquilli, niente droghe per me stasera. Solo la candela dell’Ikea ai frutti di bosco accesa vicino a me. (dite che…?)

 

I commenti del precedente episodio, e quelli di Chilling Missing, mi hanno lasciato estasiata… posso vivere senza nutella e senza crema idratante, ma mai senza le vostre recensioni!

GRAZIE GRAZIE GRAZIE. Per favore fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo, se sono stata esaustiva, se ho usato descrizioni appropriate ( e se ho descritto bene).

Ovviamente il Titolo  è l’omonima canzone degli Evanescence.

 

PS: non penserete mica che questa Ff finisca qui, vero?

Ma secondo voi, sono molto più sadica, ricordate?

Bwahahahaha! Buona notte!

EC

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 18
*** The River ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

18:The River.

 

Nina Williams si lasciò cadere sul divano, il fiato corto:  faceva fatica addirittura a salire le scale di casa, figurarsi a partecipare alle missioni.

Dietro di lei Sergei lasciò cadere la sua borsa sul pavimento, chiudendo la porta alle sue spalle con un colpo del piede, lanciandole un’occhiata, che lei evitò: detestava farsi vedere in quelle condizioni a suo dire “pietose” e cercava di nascondere la fatica che faceva a fare le cose più elementari.

Ma sarebbe stata una cosa temporanea. Era logico che il suo fisico fosse debilitato dopo un avvelenamento, un trapianto di rene e un mese in rianimazione. Per essere stata ad un passo dalla morte, era davvero un fiore.

Avrebbe intrapreso un allenamento riabilitativo appena le fosse passata la debolezza post –ricovero. D’altronde sino a dieci giorni prima era in coma, ed in quel momento rivedeva l’appartamento che condivideva con Sergei per la prima volta dopo più di quattro mesi. Osservò il salotto, senza meravigliarsi di non trovare nessun cambiamento. Incrociò le gambe sul divano, rabbrividendo. “Non avevo mai notato quanto freddo ci fosse in questa casa”

“Siamo a Luglio. Neppure qui fa freddo in questo mese. È il tuo fisico che è debilitato.”

Nina sbuffò, raggomitolandosi su sé stessa. Non si era mai sentita così debole, era una sensazione umiliante e frustrante.

“Dovresti andare a letto. Non ti sei riposata per tutto il giorno e ti sei pure voluta fermare a mangiare in un bar.”

“Dopo un mese in coma una boccata d’aria è un diritto elementare” borbottò la donna alzando le spalle. “Di tutta questa storia la cosa più piacevole è il mio infermiere personale.” aggiunse, con una vena ironica, facendo alzare un sopracciglio all’uomo. “Va bene, va bene: fai così perché sei il mio responsabile, lo so.”  Da quando si era risvegliata, aveva iniziato ad appuntarsi i ricordi che le riaffioravano alla mente relativi al suo sonno, e a cercare un riscontro con ciò che era successo in realtà. Si era sorpresa ad avere la certezza che sua sorella passava davvero molto tempo nella stanza con lei e le parlava di continuo, mentre le faceva le sopracciglia o la manicure. Le aveva portato davvero Jamie a trovarla, e aveva cercato davvero di aiutarla. Era senza parole: l’aveva ringraziata, al telefono, e l’aveva sentita davvero felice di saperla sveglia e in fase di recupero.

Che fossero gli ormoni?

Se gliel’avessero detto, non ci avrebbe creduto. Ormai poteva davvero capitare di tutto al mondo, non si sarebbe neppure sorpresa di vedere un asino volare o Heihachi Mishima predicare la nonviolenza.

Steve le aveva davvero donato un rene. L’aveva visto appena si era svegliata, era corso in camera sua zoppicando, estasiato di rivedere sua madre viva. E lei lo avrebbe preso volentieri a calci, per la sua incoscienza. Ma era stata più che felice di rivederlo. Ora si trovava in Arizona, con Julia, e si stava riprendendo a colpi di carne di bufalo cacciata dalla sua dolce metà.

Per quanto riguardava Dragunov… beh, lui era un punto interrogativo costante. In confronto alla reazione entusiasta del figlio, lui era sembrato appena sollevato dal suo ritorno alla vita, e di certo era difficile trovar riscontri sul suo discorsetto che si affacciava tra la nebbia della sua memoria.

Però la sua salvezza la doveva solamente a lui. Aveva disobbedito per lei. E come non ricordare quell’idea folle e dolce di far rotta per la Grecia?

Era venuto a trovarla spesso.

E ora l’aveva riportata nel loro appartamento.

Per i suoi standard, poi, era quasi premuroso nei suoi confronti.

Erano tanti indizi che le suggerivano che, per Sergei, lei fosse davvero… davvero… qualcosa.

Forse era il caso di togliere il suffisso sottospecie dallo stadio relazione.

Si alzò a fatica, puntando verso le camere da letto. Si soffermò in mezzo alle due porte. Il suo istinto di autoconservazione, quello che usava per proteggerla da sentimenti e qualsiasi cosa potesse scalfirla, si era risvegliato proprio in quel momento, per suggerirle di tornare nella sua camera.

Se ti vuole, ti verrà a cercare lui.

Ma che diavolo,  dopo tutto quello che avevano passato riusciva ancora ad avere qualche remora?

“Non ti ricordi più? La porta a destra!” le suggerì brusco l’uomo. Nina sorrise tra sé e sé, aprendo la porta di quella che si sentiva di chiamare la loro camera.

 

Dragunov ritornò alle undici di sera, dopo una riunione. Nina notò un barlume di sorpresa nei suoi occhi gelidi, quando, entrando nella stanza, la vide ancora sveglia, seduta contro la testiera del letto.

“Non riesci a dormire?” le domandò, togliendosi la giacca per abbandonarla sulla sedia, come suo solito. La donna scosse la testa, senza distogliere lo sguardo dal suo. “Ti voglio.” Spiegò semplicemente.

Sergei la fissò, slacciandosi la cravatta e la camicia, quasi sorpreso dalla spontaneità di quell’affermazione, che di certo non disdegnava:  “Se ti prendo adesso, ti rimando in rianimazione.”

“Correrò il rischio…” mormorò la donna, scostando le lenzuola. Non smetteva di fissare gli occhi dell’uomo, che sembravano accendersi di secondo in secondo, mentre si toglieva, con lentezza esasperante, i vestiti, sorridendo alla sfida.  “Non mi provocare…

“L’ho già fatto” Sussurrò, mentre lui scivolava sotto le lenzuola con lei. Le sue labbra corsero sul collo, le mani affamate percorrevano la sua pelle, mentre faceva aderire il suo corpo con il suo. Nina rabbrividì di piacere, sentendo l’adrenalina schizzarle nel cervello e provando una sensazione di completa appartenenza, sentendo di trovarsi al posto giusto, di nuovo tra le sue braccia, predatrice e vittima del suo desiderio. Nella foga la strinse con troppa forza, appoggiando il braccio sulla ferita dell’operazione, strappandole un gemito di dolore. Come se fosse stato colpito da una scarica elettrica, Sergei si scostò da lei.

“Non è niente, non è niente!” si affrettò a dire Nina, cercando di togliersi dalla faccia la smorfia, per poi accostarsi di nuovo a lui. Cercò le sue labbra, ma lui gliele negò. “Dormi, è meglio.”

“COSA?”

“Lasciamo stare, lo faremo quando starai meglio.”

“Io STO meglio!” protestò. “Non…non vorrai mica lasciarmi così! Non mi desideri più?”

La sua mano le sfiorò la guancia. “Te l’ho detto, ti rimanderei all’ospedale.”

“E io ti ho già detto che correrò volentieri questo rischio!” Gli gettò le gambe attorno al busto, imprigionandolo. “La prima volta che mi sei saltato addosso avevo una gamba aperta in metà, ricordi? Eppure non hai fatto tutto questo chiasso!” Lo vide accarezzarle il polpaccio, le dita sfiorare la cicatrice che il proiettile americano le aveva lasciato, due anni prima. “Io TI VOGLIO, e ti voglio ADESSO, chiaro? Quindi togliti quei pantaloni e PRENDIMI! E’ un ORDINE!”

Le restituì uno sguardo quasi accigliato e un piccolo sorrisetto. “Non puoi dare ordini ad un tuo superiore.”

Risalì le sue gambe sino ai fianchi, per accostarsela. “Punirò la tua arroganza, Williams.” Le sussurrò ad un centimetro dal volto. “Ti farò abbassare la cresta, biondina.”

“Così si ragiona, comandante.”

 

Con gli occhi chiusi, cercava di assaporare al massimo quel momento. Le braccia di Sergei l’avvolgevano ancora, incrociate alle sue sul petto e il suo respiro sulla spalla le donava un piacevole solletico. Era indecisa se lasciarsi vincere dal sonno e dalla stanchezza o tentare di restare sveglia per prolungare quell’incantesimo il più possibile.

Scelse la seconda opportunità, decidendosi a porgere una domanda che le ronzava in testa, dolce ossessione e illusione: “Sergei?”

Mmm?”

“Parlavi davvero per quanto riguardava la Grecia?”

Il suo silenzio la infastidì, facendola pentire di aver posto quella domanda, di essersi resa ancora più patetica, ai suoi occhi, di quanto il suo stato già non la rendesse.

“Non si può più fare” rispose infine l’uomo. “Da quando sono stato alzato di grado sono molto più impegnato, e di certo non riesco a prendermi altri giorni di licenza. Non a breve almeno.”

Nina annuì, lieta di nascondere a Sergei quell’espressione delusa che le era comparsa in faccia. “Altri giorni?”

“Mi sono dovuto riprendere anche io dalla battaglia di Tokio.”rispose, facendole ricordare di come le fosse sembrato sfinito, alla sua entrata all’hotel Supreme, un miliardo di anni prima. “Già, è vero. Non avevi una gran cera”

“Ecco, immaginami una settimana dopo…Sergei sbadigliò contro la sua schiena, mordicchiandole poi la pelle. “E’ ora di dormire. Domattina mi sveglio presto.”

Lo sentì rilassarsi contro di lei, scivolare nel sonno senza togliere il braccio che le cingeva il busto e che la teneva stretta a sé.

Nina sorrise, accoccolandosi contro il suo petto, prima di addormentarsi.

 

6 Mesi dopo.

“Andiamo, il medico militare ha certificato che mi sono ripresa, mi sento in ottima forma e gli allenamenti hanno dato i loro frutti.” Nina riempì rabbiosamente lo spazzolino di dentifricio. “Non vedo altri motivi per impedirmi di ritornare operativa.” Se lo infilò in bocca, spazzolandosi i denti più energicamente del solito a causa del nervoso.

“Non spetta a me deciderlo” rispose l’uomo, con una vena di esasperazione nella sua solita voce calma.

“Come no! sei tu il mio responsabile, no?”

“Si, e ho già fatto presente che per me potresti ricominciare. Almeno con qualcosa di semplice. Credimi,  l’acidità che ti da l’apatia mi è insopportabile.”

“Oh, poverino! Ti è difficile sopportarmi per un paio d’ore alla sera!”

Lo vide con la coda dell’occhio alzare gli occhi al cielo, prima di infilarsi il cappotto, e la cosa le diede ulteriormente  sui nervi. Si sciacquò la bocca con foga, prima di rivolgersi nuovamente a lui, accigliata. “Non sperare di cavartela restando in silenzio! Questa volta ho intenzione di andarci sino in fondo e…

Lui la ignorò completamente, infilandosi il berretto in testa e dirigendosi verso la porta. Indignata dal suo comportamento, uguale a quello di tutte le mattine degli ultimi mesi, Nina lo inseguì. “Smettila di far finta che non stia parlando!”

Con un movimento fluido l’uomo si voltò, le passò il braccio attorno alla vita sottile e la fece atterrare, con un’elegante e innocua capriola, sul divano del salotto. “Sei mesi fa  mi avresti spezzato un braccio mentre tentavo di fare questo.”

Nina sospirò, aggrottando le sopracciglia: aveva ragione, ma non voleva assolutamente darsi per vinta. “Mi hai preso alla sprovvista…!”

“E’ vero: di solito il nemico ti lancia un fischio d’avviso prima di colpirti.” Borbottò ironico, prima di aprire la porta. “Non voglio più tornare sull’argomento. Chiaro?”

Nina gli rispose alzando il dito medio.

 

Che nervi. Pensò per l’ennesima volta. La capriola che aveva fatto le aveva fatto venire la nausea. Tornare era il termine esatto, visto che era stata la sua compagna il giorno precedente.

E ora che ci pensava, anche quello prima ancora.

Ce l’aveva anche all’ultima visita medica, e su questo sintomo aveva taciuto. Il suo stomaco stava iniziando a farle brutti scherzi. Colpa dell’inattività.

Anche se cercava di pianificare le sue giornate in modo da riempirle con allenamenti in palestra e al poligono di tiro (la sua mira già fantastica era diventata impeccabile), non essere al centro dell’azione era frustrante.

Sergei non faceva nulla per evitare che le saltassero i nervi. A volte spariva per giorni interi, mandato a destra e a manca dal comando, impegnato dalle prime ore del mattino sino a tarda serata, praticamente ogni giorno della settimana.

Quando tornava evitava di avere qualsiasi tipo di dialogo con lei, e sin qui tutto normale, parlando di Sergei Dragunov. Se non che dava chiaramente segnali di insofferenza appena lei apriva bocca anche solo per chiedergli come andava.

Sono troppo acida ed insopportabile anche per lui. Pensò tristemente, sospirando di nuovo. La vita di coppia si era rivelata molto più ardua del previsto. Di certo non erano due persone dal carattere facile e malleabile, ma trovare un punto di incontro era praticamente impossibile, anche con le migliori intenzioni!

Al contrario di quello che stava succedendo ad Anna, a quanto pareva: dalla loro ultima conversazione, il mese precedente, la sorella le aveva snocciolato informazioni non richieste sulla sua fantastica vita famigliare.

Se non fosse stato che suo marito rispondesse al nome di Lee Chaolan l’avrebbe quasi invidiata.

Si alzò dal divano, decisa a non lasciarsi abbattere e a dimostrare che le sue nove vite non erano ancora finite.

Venne sorpresa da un capogiro, e fu costretta a risedersi. Anche quello ci mancava!

I giramenti di testa erano una costante dei primi due mesi dopo il ricovero, a causa dei farmaci che doveva prendere dopo il trapianto.

I mesi in cui ancora riusciva ad andare d’accordo con Sergei. Le venne in mente quella volta che era crollata in corridoio, a come lui l’aveva afferrata praticamente al volo e sollevata come se fosse stata una piuma, per poi farla stendere sul letto. “I cali di pressione sono normali, lo sai” L’aveva rincuorata, notando la sua espressione corrucciata. “Mi sento patetica. Che schifo!” “Passerà presto.”

Dannazione! Era così difficile tornare ai primi tempi, quando si sentiva rinascere solamente a vederlo varcare la soglia, quando non sembrava sempre così scocciato da quello che diceva e la faceva dormire tra le sue braccia, dopo i loro momenti di cieca passione?

Parlo come se stessimo insieme – o, peggio, sposati – da almeno dieci anni. Pensò laconica. Se una relazione arrivava ad un punto del genere tanto presto, forse significava che non era giusta.

“Ma che vado a pensare!” sbottò, rialzandosi nuovamente ignorando il nuovo capogiro. “Mi lascio condizionare da questa situazione miserabile e guarda che pensieri cretini che partorisco!”

Sergei tornava da lei appena poteva. Faceva combaciare i suoi esercizi al poligono di tiro con quelli di Nina. E, soprattutto, dormiva ancora accanto a lei dopo i loro momenti di cieca, folle e fantastica passione.

Si decise a farsi un bel thè caldo per scacciare ulteriormente i pensieri gelidi da cui si era lasciata pervadere. Sbadigliò mentre entrava nella piccola cucina e storse il naso disgustata quando aprì la confezione del thè. L’odore dell’Earl Grey non era il solito che l’accoglieva alla mattina, e girò la confezione per controllare la data di scadenza, ben lontana ad arrivare. Forse l’aveva conservato male…

Impossibile. Il The era per lei quasi un oggetto sacro, non si sarebbe mai permessa di sciuparlo. E Sergei non lo toccava nemmeno.

“E’ perché stamattina mi sento un po’ sottosopra.” Si convinse ad alta voce, abitudine che aveva preso in quei mesi di pausa, riempiendo d’acqua la teiera. “Fa male iniziare la giornata con una litigata. Mi è venuta la nausea, mi gira la testa e sento l’odore del thè disgustoso.” Sbadigliò di nuovo, dando un’occhiata all’orologio: ma come diavolo faceva Sergei a svegliarsi così presto senza fare una piega?

“Mi sento già spossata, quasi quasi me ne ritorno a letto.” Borbottò nuovamente, attendendo che la teiera iniziasse a fischiare. “Fa proprio male iniziare a litigare al mattino presto.”

A proposito, che giorno era? Perdeva la nozione del tempo tra quelle quattro mura. Il calendario era aperto sulla pagina di Marzo, e scorse con gli occhi i giorni sino alla metà.

Un momento.

Nina Williams si avvicinò al calendario. C’era qualcosa che non andava.

Contò i giorni mentalmente. Ricontò le caselline del foglio segnandole con un dito. Le contò nuovamente segnandosele sulle dita.

Quando la teiera iniziò a fischiare stava contando per la quinta volta.

“Oh cazzo.”

 

 

Tutto ciò non aveva senso.

Erano sempre stati attenti.

Esatto, meticolosi e scrupolosi come era loro solito fare. La precisione era uno (se non l’unico) dei punti in comune che  avevano.

Certo, aveva dovuto smettere la pillola, a causa dei medicinali, e il medico le aveva consigliato di non prenderla ancora per qualche mese.

Però non si erano affidati a metodi inaffidabili e insicuri. Loro volevano avere la certezza di non avere inconvenienti spiacevoli.

Quindi, perché preoccuparsi? Perché avere questo dubbio, se si aveva la coscienza pulita dai propri errori?

Certo, il ritorno dei capogiri era sospetto. Così come la sua nausea e il fatto di percepire odori diversi da prima.

E il ritardo – Come cazzo aveva fatto a non notare quel fottuto ritardo di ben nove giorni?

Era lo stress di essere frustrata, ovviamente, certamente. Non c’erano altre spiegazioni plausibili.

Quindi quel test che aveva in mano e che si rigirava freneticamente tra le dita, non sarebbe mai stato Positivo, vero?

Vero?

 

Non si poteva essere certi con quella righetta! Insomma, doveva esistere un falso positivo, anche se le istruzioni della confezione lo escludeva a priori. Come potevano essere così precise quelle cosine di plastica?

Meglio farne un altro.

 

Non c’è il due senza il tre. Un altro ancora.

 

Come poteva una confezione contenerne solamente tre test?

 

Nina guardò i tre test di gravidanza appoggiati sul mobiletto del bagno. Tutti e tre avevano lo stesso, identico, inconfutabile e tragico responso.

 

 

Li aveva fatti sparire. Non c’erano testimoni, giusto?

Oddio, non c’erano telecamere in giro per la casa, vero?

Li gettò nella spazzatura. Poi prese il sacco dell’immondizia e lo legò. Si infilò velocemente la giacca e lo consegnò personalmente al bidone della strada.

Bene, le prove erano sparite e nessuno sapeva della loro esistenza.

Il problema però non sono le prove. Pigolò una vocina dentro di sé.  Il problema verrà a galla tra poco…

Meglio sparire. Alla svelta.

Ma il problema principale sarebbe rimasto.

…e adesso?

Doveva trovare una soluzione, in fretta.

 

Ciao Sergei, tutto bene oggi? Hai fatto fuori qualcuno? No? peccato… mi dispiace. Ma ora ho una splendida notizia che ti tirerà su il morale.  Ipotesi Scartata.

Ti è mai capitato di avere la nausea, capogiri e un ritardo stratosferico sulle tue cose? Scartata anche questa.

Se ti dico un segreto mi prometti che non ti arrabbi? Vomitevole.

Nel mio corpo al momento è in corso una gravidanza non isterica. Troppo scientifico.

Sono incinta.  Troppo diretto.

No, non poteva dirglielo. Non ora. Non dopo che litigavano tutte le mattine, e quasi tutte le sere. Non se la sentiva di affrontare una discussione così pesante ora.

Doveva tergiversare. Prendere tempo.

Ma come avrebbe fatto a nascondere una cosa simile?

 

Che fosse strana, l’avrebbe notato anche un cieco. Che la sua voce aveva un tono falsamente suadente, persino un sordo. E anche la sua improvvisa gentilezza sarebbe balzata subito all’occhio persino a chi la incontrava per la prima volta.

Ma Sergei Dragunov era impegnato a vincere una battaglia con una succulenta bistecca al sangue, e non sembrava essersi accorto di nulla.

Per ora.

“Volevo domandarti una cosa…

Mmm?”

“Visto che sono ancora non operativa, pensavo di fare un viaggetto, ecco… che ne dici?”

“… ancora con la storia della Grecia? A Gennaio?”

Nina si sforzò di non piantargli il coltello nel polso, e mantenne un tono pacato ed eccessivamente stucchevole. “No, so che in Grecia fa freddo a Marzo e che tu non hai mai tempo. Ecco.. . sai che mia sorella mi chiede sempre di andarla a trovare… e un po’ di sole e caldo mi farebbe sicuramente bene

“E sopporteresti il moccioso e suo padre?” Oh no, si stava insospettendo.

“Le devo un favore…” cinguettò. “Si tratterebbe in fondo di pochi giorni, una settimana. Che ne dici?”

Dragunov alzò le spalle, infilandosi in bocca il penultimo pezzo di bistecca. “Fai un po’ come vuoi.”

Fai un po’ come vuoi? Una preoccupazione lampante la sua… Già se lo immaginava, entrare nell’appartamento vuoto e buio, guardarsi intorno e poi gustarsi il silenzio. Cercò di non storcere la bocca nervosamente, impegnandosi sulla sua insalata.

“Che c’è, non ti piace?”

“Non tanto” sibilò.

“La bistecca era ottima.”

Nina fece leva a tutto il suo autocontrollo per non aprire bocca e riferirgli la notizia che, ne era certa, gli avrebbe bloccato la digestione per una settimana. “Sono contenta che te la sia gustata…

 

“Anna?”

“Ciao Nina! Non ci posso credere che ti sia fatta viva due volte nello stesso mese, mi stai facendo preoccupare, non ti sarà mica capitato qualcosa!” Salutò la sorella, un risolino a sottolineare la battuta.

Era sufficiente per riattaccare. Ma aveva bisogno e quindi si sforzò di mandar giù anche quella frase. “Volevo domandarti se… beh, se avevi tempo la prossima settimana. Sono libera in questo periodo e…

“Verresti qui? Ottimo! Non ci sono problemi!” La sentì spostarsi dall’altro capo del telefono e poi abbassare la voce. “E’ successo qualcosa davvero, eh? Hai una voce strana. Ed è ancora più strano che tu mi telefoni e mi venga a trovare.”

Non ci poteva credere. Quell’idiota con cui condivideva la sua vita non si era accorto di nulla, e sua sorella, a migliaia di chilometri di distanza, aveva notato che c’era qualcosa di strano.

“Avrò modo di spiegarti. Temo.”

 

 

Nonna: “Oh! Brava Cassy, lo sai che i colpi di scena alla Beautiful sono sempre i ben accetti.”

EC: “Se lo dici tu nonna…

Nina & Dragunov caricano i fucili e li puntano su di noi.

EC: “Uhn… nonna… ho come l’impressione che loro non siano d’accordo. E sono armati”

Nonna (Tira fuori dalla borsetta di un Prada palesemente falso una Casseruola rossa con i cuoricini bianchi. EC inizia a sudare freddo.) “PURE IO”

Ok, Piccola divagazione in onore della mitica e pericolosissima Nonna Alba.

Ad ogni modo… si, potete uccidermi. Me lo merito.

Ma non è ancora finita, quindi lasciatemi vivere!!! Un po’…

Diciamo che la parte d’azione è finita… ora si va sul personale.

Farò tutto il possibile per non far scadere questa storia nel banale, nell’indigesto e nel surreale. Farò di tutto. Però vi prego non uccidetemi (sennò vi mando la Nonna Alba)

IL TITOLO: è una canzone di Bruce Springsteen. Che adoro (sia il BOSS che la canzone). Perché l’ho usata? Leggetevi il testo, sfaticati.

 

GRAZIE MILLE, MILIONI, MILIARDI A:

MISS TRENT (Come rovinare la poesia, eh? Fammi sapere il livello di OOC che ho raggiunto… insultami pure)

NILA GOR_KJ: Mi sa che ti ho rovinato Sergei, giusto?

ANGEL TEXAS RANGER: se eri rimasta shockata con Anna… ora come lo sei?

SACKBOY97: spero che non ti annoi… mi dispiacerebbe perdere un fedelissimo come te!

E poi anche Krisalia e Nefari!

Buona notte, non mandatemi brutti sogni…

EC

 

 

 

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Capitolo 19
*** Training? ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

18: Training?

 

Dopo tredici ore di viaggio, due scali, un ritardo di due ore sull’ultima coincidenza di volo a Miami e alcune, fastidiosissime turbolenze sull’Atlantico, Nina Williams si sentiva in diritto di scendere sulla pista di Nassau International Airport barcollando.

Si infilò gli occhiali da sole, alzando gli occhi verso il cielo azzurro. Quasi non si ricordava potesse esistere un clima così meravigliosamente caldo e un profumo di mare così inebriante.

L’orologio del Terminal segnava le 13 del pomeriggio, ma per il suo fisico era notte inoltrata. Si sentiva stanchissima, e non era riuscita a chiudere praticamente occhio durante i voli a causa del nervoso e della nausea che si rifiutava di andarsene.

Stava giusto per comunicare a sua sorella del suo arrivo, dopo aver recuperato il bagaglio, quando una voce familiare che la chiamava la fece voltare. Si ritrovò Anna a pochi metri, sorridente, abbronzatissima magrissima e con il figlio in braccio. “Eccoti, finalmente!” esclamò, salutandola raggiante.

“Accidenti, ma quanto diavolo  è cresciuto?” Nina era esterrefatta da Jamie: sembrava davvero un bambino disegnato, con le guanciotte rosa ripiene e un ciuffo di capelli bianco sparato per aria. Incoraggiato dalla mamma, il piccolo sorrise alla zia, facendo comparire due fossette sulle guancie. “E’ diventato davvero bello, sei sicura sia di Lee Chaolan?”

“Si, di questo ne sono sicura. Ma ha preso tutto dalla mamma, a parte i capelli… dici che è troppo presto per provarglieli a tingere?”

 

Dopo aver assicurato il bambino al seggiolone del suo lussuoso fuoristrada, Anna mise in moto. “ Potrei prendere qualche marciapiede, non farci caso…” avvisò.

“Basta che non prendi qualche pedone…” replicò l’altra stancamente. La testa era tornata a girare, e la stanchezza si faceva sentire: tenere aperti gli occhi era un’impresa.

 “Sei pallida come un cencio…

Nina alzò una spalla. “Sfortunatamente non riesco ad andare in giro in bikini per Mosca…  rispose. “Fa piuttosto fresco laggiù in questo periodo.”

“Sei sicura di sentirti bene?”

“Certo, perché?”

“Perché hai due occhiaie che toccano terra.”

“Ho fatto un viaggio molto lungo e sono stanca. E poi il jet leg mi uccide.”

L’espressione di Anna era scettica. “Sicura di esserti ripresa?”

“Certo!” esclamò indignata “Sono passati 8 mesi, sono in perfetta forma.”

“Ok, ciò non toglie che tu abbia una brutta cera.” Anna domandò se volesse fermarsi per il pranzo, ma lei negò con un gesto della mano quasi infastidito. Fissò lo sguardo fuori dal finestrino, perdendolo sul lungomare di Nassau, tra i turisti seminudi e i chioschi di bibite e gelati. “Ho bisogno solo di un paio d’ore di sonno per riprendermi.”

“Ok. Sputa il rospo. Cosa sta succedendo? Sta andando male con Rasp…pardon, Dragunov?”

Nina tentennò un po’ la risposta. Le risultava difficile parlare della sua vita privata con sua sorella, come se avesse qualche remora nei suoi confronti, o come se non riuscisse a fidarsi ancora di lei.

Eppure Anna le era stata davvero vicina, l’aveva aiutata, si era comportata da sorella nei suoi confronti, e non era ancora riuscita a ricambiare il favore.

Doveva sforzarsi e parlare con lei. Togliersi quel peso dallo stomaco le avrebbe dato una visione più chiara della situazione, convincendola sul da farsi. “Non va molto bene, in effetti. Litighiamo spesso.” Iniziò, sperando che alla sorella bastasse quella affermazione.

“Vi state lasciando?”

Probabilmente quando saprà della gravidanza si. “Non lo so sinceramente.”

“Non conosco lui, ma di sicuro a prima impressione non mi ha dato proprio l’idea di essere una persona con cui avere una relazione non complicata. Infatti tu stessa la chiamavi sottospecie di relazione…

“E’ diventata Relazione vera e propria, stai tranquilla.” Le spiegò brevemente che non era ancora rientrata in servizio, che si sentiva arrabbiata e frustrata, quanto questo la rendesse nervosa, e di come Sergei non facesse nulla per evitare il suo malumore.

“Guarda gli uomini sono laureati nel far saltare i nervi ad una donna.” Replicò Anna, quando ebbe finito. Controllò dallo specchietto retrovisore Jamie, che si era addormentato sul seggiolone, un rivolo di bavetta tra le labbra a cuore. “Io ne ho a che fare con due, ti posso assicurare che anche da piccoli ci riescono.”Aggiunse con ironia. “Guardalo! Mi ha fatto passare la notte in bianco per colpa del primo dentino, questa mattina era arrabbiato ed infastidito da qualsiasi cosa ed ora dorme beato!”

Nina si voltò appena a vedere il nipote dormire, per poi tornare a guardare fisso davanti a sé. “Tra te e Lee invece va tutto bene?”

“Si, anche se abbiamo poco tempo per noi due da soli, il piccolo non tollera distrazioni e richiede tutte le nostre attenzioni, ma per ora va bene così. E’ da quando è nato che non usciamo più a cena, la cosa ci manca, ma ci rifaremo quando Jamie sarà più grande.” Sorrise, incolonnandosi ad un semaforo. “Per ora la priorità è quel piccolo rompiscatole là dietro.”

Nina annuì nascondendosi dietro gli occhiali. “Toglimi una curiosità: L’avete cercato o vi è capitato?”

“Distrazione, una sola! Questo si che è stato cogliere la palla al balzo!” ridacchiò.

“Già” annuì tetra: almeno aveva una cosa in comune con Anna. “E come l’hai detto a Lee?”

“Sono andata nel suo ufficio, molto calma, e con altrettanta calma e nonchalance gli ho mostrato il test di gravidanza e ho fatto il discorsetto sulla possibilità di crescerlo da sola, se lui non l’avesse voluto; la cosa mi sembrava molto plausibile visto che sembrava stesse per avere un infarto. Poi siamo andati dal medico -Lee non credeva nell’affidabilità del test- e dopo che ha dato anche lui la conferma… mi ha portato fuori a cena e mi ha chiesto di sposarlo!” Interruppe la propria risata, gettandole uno sguardo fugace. “Perché vuoi sapere queste cose?”

“Così.” Cercò di sembrare il più neutrale possibile, ma evidentemente non c’era riuscita, perché la faccia della sorella era allarmata.

“Oh mio dio…” Anna si voltò verso di lei, gli occhi azzurri spalancati. “Non mi dirai che…

“ATTENTA!”

La brusca frenata di Anna arrivò un secondo troppo tardi, e non impedì al fuoristrada di tamponare l’auto davanti. Risvegliato dall’impatto, Jamie iniziò a strillare. Almeno, la scarsa velocità dell’impatto non aveva fatto attivare gli airbag.

“Oh merda, questa è la terza volta in un mese…” mugugnò la sorella. “Ma dovevi proprio dirmelo mentre guidavo?”

“Che ne sapevo che avresti avuto una reazione tanto stupida?”

“Ti sembra una notizia da niente?”

“Potevi stare attenta a quello che stavi facendo, no? Io non ho avuto una reazione del genere quando ho scoperto che eri incinta!”

“Tu non avevi un fottuto volante tra le mani, altrimenti avresti combinato una strage conoscendoti.” Anna sospirò, guardando il piccolo capannello di gente che si era formato attorno al tamponamento. Fu visibilmente sollevata dal vedere illeso il conducente del furgoncino. “Questa volta Lee me lo toglie davvero il fuoristrada.”

…e tu digli che è stata colpa mia”

“ Poco ma sicuro…

 

 

Quattro ore più tardi, dopo un  paio d’ore di sonno rigeneratore e un veloce spuntino, Anna aveva richiesto espressamente alla sorella dettagli sulla situazione in cui si stava trovando.

Sospirando, Nina le raccontò di quando l’aveva scoperto e del fatto che Sergei non sapesse nulla, insistendo, come motivazione ulteriormente al suo gesto, sulla distrazione e sul disinteresse che l’uomo mostrava nei suoi confronti negli ultimi tempi.

“Come ti dicevo, credo che ormai siamo al capolinea” concluse, con una punta di rammarico. Era una cosa che non riusciva a pensare davvero, ma la sentiva come inevitabile e prossima. Qualcosa che le faceva male.

Sapeva dell’esistenza di un dopo Sergei, ma non riusciva nemmeno ad immaginarselo, per quanto vicino lo potesse percepire. E a peggiorare ulteriormente le cose, ci si era messo persino quella gravidanza.

Anna scosse lievemente la testa. “Non fasciarti la testa prima di essertela rotta. Innanzitutto gli devi dire del bambino, e il resto… verrà da sé. Magari la prende in modo molto diverso da quello che pensi, d’altronde, chi l’avrebbe mai detto che Lee Chaolan fosse entusiasta all’idea di metter su famiglia?”

“Credimi, Sergei non è così.”  Borbottò, bevendo un sorso del suo cocktail di frutta analcolico. “E poi non credo proprio che terrò il bambino.”

“Perché no?”

Perché… andiamo, non sono affatto pronta per questo. Non ne ho voglia di spendere le mie nottate per i dentini, cambiare pannolini e cercare di non crescere un figlio che non sia uno psicopatico socialmente pericoloso. Sono un’assassina a pagamento, beh, al momento agente in licenza per malattia, non fa per me la maternità, non ci sono portata.”

“Ma se Steve ti adora!”

“E’ diverso: Ho saputo di essere la madre di Steve quando lui era già adulto e autonomo. Non ho avuto a che fare un moccioso strillante – senza offesa a Jamie. A proposito, ma dorme sempre?”

Il bambino era sdraiato nella sua sdraietta, il ciuccio in bocca e l’espressione più beata del mondo stampata sul viso paffuto.

“Ieri sera non ha chiuso occhio, e poi quando suo padre torna lo strapazzerà per un bel paio d’ore, facendolo giocare in piscina. Gli è venuta la malsana idea di avviarlo alla via del surf, non domandarmi perché... ma non cambiar discorso!”

“Non c’è nient’altro da dire. Non ha senso far nascere un figlio che non si desidera, senza nemmeno una vera famiglia. Io e Sergei non siamo una coppia normale che riesce a vivere normalmente e crescere dei figli. No, assolutamente: sarebbe capace di regalargli un fucile per il suo primo compleanno!”

“Tu credi di non riuscire a farcela da sola?”

Nina fece una pausa, finendo il cocktail. “Non ci penso nemmeno ad iniziare…

La sorella scosse la testa. “Non credo che tu la pensi davvero così: Se tu non ci pensassi nemmeno minimamente a tenere il bambino, saresti filata subito in una qualche clinica a risolvere il problema. Invece sei venuta qui con noi, ben sapendo che di sicuro io avrei tentato di convincerti a tenerlo.”

“Non è così. Ero –sono- confusa e non so cosa fare. Avevo bisogno di tempo per pensarci e realizzare, e passare il tempo a litigare con Sergei non mi avrebbe aiutato.”

Sulle labbra rubino di Anna comparve un sorrisetto. “Il tuo subconscio vuole il pupattolo…!” cantilenò. “Ed io sono decisa a convincerti di tenerlo.” Si sdraiò sul lettino, accavallando le gambe senza perdere il sorrisetto. “Anche con mezzi subdoli”

“Sei una strega.”

“Lo so.” Si voltò verso Jamie, sentendolo sveglio e sorridendo al suo sbadiglio impacciato. “Eh piccolo mio, lo vuoi vero un bel cuginetto?” Se lo portò in grembo, facendogli il solletico. Il bambino rise di gusto, muovendo le braccia paffute. “Vedi? Anche lui è felicissimo di avere un cuginetto! O sarà una cuginetta?”

Nina sospirò, scuotendo la testa, prima di ritrovarsi improvvisamente Jamie tra le braccia. “E’ diventato un po’ più pesante da quando l’hai preso in spalla la prima volta!” l’avvisò Anna.

Il bambino sorrideva, con i suoi occhi vispi, emettendo buffi versi. Capendo al volo che quello era solo il primo tentativo subdolo della sorella, Nina assunse un’espressione disgustata: “Bah, mi ha già coperta di bava!”

“Oh, c’è Lee!” squittì lei, vedendo il marito, già in tenuta da piscina, avvicinarsi a loro. “Non sa ancora niente dell’incidente. Ma glielo dirò stanotte, e sarò molto carina.”

“Non sa nulla nemmeno del mio problema, vero?”

L’uomo era troppo vicino, ormai, perché la sorella potesse risponderle. Gli gettò le braccia al collo, salutandolo con un bacio. La scenetta fece tornare la nausea a Nina; sperava solamente di non dover sopportare anche le pressioni del marito e padre dell’anno…

“Nina, che piacere vederti tutta intera!” la salutò finalmente. Vedendo il papà Jamie si voltò verso di lui con le braccine alzate, sgambettando e agitandosi, chiamandolo con i suoi versi. Lee lo accontentò, prendendolo in braccio. “Mi dispiace togliertelo proprio ora che dovresti far pratica…

Nina sbattè le ciglia. “Tua moglie ha tamponato un furgoncino, stamattina”

Anna si morse le labbra, cercando di sorridere smorfiosa.

“ANCORA?”

Stronza… questa me la paghi…” sibilò a denti stretti, cercando di non perdere il sorriso.

 

Jamie rideva a crepapelle, mentre giocava con suo padre nell’acqua. Rideva tanto forte che Nina quasi non riusciva a sentire il corso dei suoi pensieri. Si sforzava di fingere di prendere il sole, dietro agli occhiali scuri, e di non guardare di sottecchi Lee Chaolan che faceva fare i tuffi a suo figlio, mentre sua moglie imbronciata si era nascosta dietro ad una rivista sorseggiando il suo cocktail di frutta.

“Anna, tesoro, avrei un’idea” iniziò Lee, senza smettere di fare il solletico al bambino. “Jamie ha già preso confidenza con sua zia, potremmo lasciarglielo stasera e andare fuori a cena io e te… C’è il Galà di Primavera questa sera all’Hotel Hilton. Faccio ancora in tempo a dare la partecipazione.”

La moglie gettò la rivista dietro alle spalle, la bocca aperta dalla sorpresa. “E’ un’idea fantastica!” esultò.

Nina non sembrava dello stesso avviso: “Io non ho intenzione di fare da balia a vostro figlio!”

“Oh, si. Non ti puoi rifiutare dopo avergli spiattellato del tamponamento!”

“Ti avrebbe sequestrato il fuoristrada comunque.”

“Non se glielo dicevo a modo mio.

Lee alzò un sopracciglio, interessato. “Puoi sempre ripetermelo, Principessa…” si rivolse poi al figlio, suggerendogli di far vedere alla zia quanto fosse contento di passare con lei la serata. “Siamo stati proprio fortunati ad averla qui, non è vero?”

“La fortuna maggiore di quel bambino è di non capire ancora nulla” sibilò Nina, imbronciata. “E la tua fortuna invece, è di non essere allergico al Botox.”

Anna scoppiò a ridere divertita, piegandosi in due dalle risate. Toccò il bicchiere della sorella, davanti all’espressione corrucciata del marito. “Questa è davvero buona”

“Voi due mi eravate più simpatiche quando cercavate di uccidervi…

“In ogni caso, scordatevi di usarmi da baby sitter.”

 

“Ha già mangiato a sazietà, ma se dovesse aver fame, puoi far scaldare un biberon di latte: eccolo, è qui dentro.” Anna aprì il frigo da camera, mostrandole una decina di boccette di vetro piene di liquido bianco.

“Latte fresco di giornata.” Mostrò orgogliosa.

“Dio mio, ma… è tutto tuo?”

Anna annuì: “Ho due grossi contenitori.” Disse, indicandosi i seni fasciati dall’abito da sera color piuma di pavone. “Pensa un po’: per tutta la vita ho pensato che servissero solo ad attirare gli uomini, e poi ho scoperto che il loro utilizzo era tutt’altro.”

Si mosse per la stanza, mostrandole il cambio nel fasciatoio. “Di solito fa qualcosa prima di andare a letto, quindi verso le undici.”

“Non vorrai che…

“Mio figlio non è così precoce da andare in bagno da solo.”  Si rivolse verso il lettino, spiegandole di coprirlo solo con il lenzuolo, e di accendere la lucina notturna sul tavolino prima di uscire.

“Di solito si addormenta subito, e ronfa per tutta la notte: il dentino è finalmente spuntato, e quindi non dovrebbe essere così noioso come lo era ieri sera. Se comunque vedi che frigna e si infila le dita in bocca, sempre nel frigorifero troverai il succhiotto per le gengive.”

Nina annuì di nuovo, controvoglia. Ancora non riusciva a capacitarsi di come era stata così stupida da cascarci. Anna si raccomandò di portarlo a dormire verso le undici, di farlo giocare con i suoi giochini e di tenerlo sveglio, altrimenti si sarebbe svegliato all’alba. “Un’ultima cosa”

“Dimmi”

Anna fece una piroetta. “Come sto?”

Doveva ammetterlo: sua sorella era in splendida forma. Il vestito da sera di chiffon le fasciava morbidamente il corpo, coprendole le gambe, ad eccezione di uno spacco che arrivava alle ginocchia. Portava un piccolo cerchietto di platino tra i capelli e un punto luce al collo. Tra le mani, una pochette di perline nere. “Stai davvero bene.” Annuì.

“Grazie. Dopo che avrai partorito ti farò avere la mia dieta. È fantastica. Mangi di tutto ma in giuste quantità e poi allattare il bambino fa perdere un sacco di calorie” si controllò il trucco ad uno specchio.

“Io non partorirò.”

“Non può farlo qualcun altro al posto tuo, altrimenti l’avrei fatto fare a Lee.”

“Anna, io…

Ma la sorella gli rispose con un sorriso: “Non prendere decisioni affrettate. Dopo stasera, sono sicura che  cambierai idea.”

Si avviarono per il corridoio, raggiungendo Lee, nel salotto, seduto con Jamie sul divano. L’uomo, in perfetto smoking, diede il bambino a Nina, borbottando qualcosa sul solito ritardo delle donne.

Anna schioccò un bacino sulla guancia del bimbo, lasciando un lieve segno rosso. “Fai il bravo tesorino, mamma e papà tornano presto…

“No, mamma e papà stasera tornano TARDI e vanno a divertirsi!” esclamò l’uomo, trascinando la moglie fuori di casa.

“Non preoccuparti Nina, Jamie è tranquillissimo!”

Appena chiusero la porta di casa, il bambino guardò la zia allarmato, per poi esplodere in un pianto disperato.

 

Due ore dopo, finalmente, il moccioso aveva capito che nessuno voleva squartarlo, e aveva smesso magicamente di piangere. Nina si era gettata sul tappeto, di fianco a lui, stremata.

Come poteva un essere talmente piccolo, disarmato e senza particolari abilità marziali generare un simile caos e sfiancarla così tanto?

Oh no, proprio non faceva per lei una vita del genere. Guardò l’orologio, meravigliandosi a constatare che fossero solamente le nove e mezzo di sera. Le venne quasi da piangere: e ora cosa avrebbe fatto sino alle undici di sera?

“Col cavolo che lo metto a letto a quell’ora. Mi sono già stufata. Se si sveglierà saranno fatti dei suoi genitori, così imparano a fare la Dolce Vita al Galà dell’Hilton.”

Lo sentì muoversi di fianco a lei, e si voltò, notando sorpresa che il bambino si era girato sulla pancia, e le puntava gli occhi chiari, sorridendo.

“Ti stai prendendo gioco di me?” il bambino fissava attento le dita della mano che Nina muoveva di fronte alla sua faccia, e fece per allungare una manina per prenderle.

Dispettosa, la zia spostò la mano, facendolo ridere e ritentare. “Sei un tipetto testardo, eh?” nascose di nuovo la mano, velocemente, mentre Jamie apriva la bocca ad O, sorpreso.

Continuò a giocare con lui per diversi minuti, semplicemente porgendogli qualcosa per poi tirarglielo via all’ultimo minuto: suo nipote sembrava apprezzare questo gioco di riflessi, e rideva, le fossette lucide dalla bavetta che le labbrine non riuscivano a trattenere, rotolando su se stesso e gattonando goffamente.

Alla fine, si coricò supino, stanco e soddisfatto. Sembrò sospirare di piacere quando Nina gli grattò la pancia.

“Dai, alla fine non ce la siamo cavati tanto male io e te. Non è vero?” gli infilò il ciuccio in bocca e il bambino sembro apprezzare ulteriormente. Gli occhietti gli si chiudevano, mentre si rilassava ai grattini di Nina, che sospirò.

La consapevolezza che dentro di sé stesse crescendo un vero bambino, e che sarebbe potuto assomigliare a Jamie la investì: non era riuscita ancora a realizzare che il problema che le era capitato tra capo e collo sarebbe diventato una persona vera e propria, a qualcosa di vivo, che si stava nutrendo di lei e che si riposava, dopo un lungo viaggio e una serata estenuate, protetto dal suo corpo.

Era un maschio o una femmina? A chi poteva assomigliare? “Spera che il tuo cuginetto non abbia il naso di Dragunov” sospirò, ridendo subito da sola del pensiero che aveva espresso ad alta voce al suo nipotino semiaddormentato.

Jamie spalancò gli occhi a sentirla ridere, fissandola incuriosito. Si, anche suo figlio (il suo secondogenito) avrebbe avuto gli occhi azzurri, in ogni caso. Che fossero quelli chiarissimi, quasi bianchi, di Sergei, o i suoi, color del cielo, sarebbero stati azzurri. L’unica cosa certa era quella.

Decise che era ora di cambiare Jamie e di portarlo a letto. Lo prese in braccio, improvvisamente ed inspiegabilmente allegra, canticchiando un motivetto che neppure lei sapeva dove l’avesse sentito, avviandosi verso la camera del piccolo.

Si fermò davanti ad una grossa foto alla parete; domandandosi come avesse fatto a non notarla prima. Era il ritratto di Anna e Lee la sera delle nozze.

Seduti su uno scoglio, il tramonto dietro di loro non oscurava il loro sorriso. Il vestito crema di sua sorella si gonfiava appena all’altezza della pancia.

L’allegria era scomparsa più rapidamente di quanto non fosse arrivata.

Entrò nella cameretta, appoggiando il bimbo sul fasciatoio.

“Che stupidaggini che penso. Non potrei offrire nulla di simile al tuo cuginetto, non è vero Jamie? Tu hai dei genitori che ti adorano, che sono felici insieme e che sono estasiati dall’averti con loro. Se facessi nascere questo bambino… oh, non oso pensare che tragedia sarebbe. Sarei sola. E anche se Sergei rimanesse con me… non riuscirei a dargli quello che si merita. Non siamo fatti per stare insieme, figurarsi per formare una famiglia.”

Le ritornarono in mente le litigate dei suoi genitori, le recriminazioni che si lanciavano a vicenda: ecco dove era nata la rivalità tra lei e sua sorella: Dall’essere in mezzo all’occhio del ciclone, spinte a detestarsi a vicenda dagli stessi genitori in guerra e in competizione tra di loro. Chi le aveva messe al mondo piantato il seme dell’odio, cresciuto con gli anni e con le liti, diventato gigante con le loro rivalità e morto con la consapevolezza di essere sorelle, di essere una famiglia e di aver bisogno l’una dell’altra.

Era cambiato tutto perché Anna era diventata più forte e più serena, perché aveva messo da parte la rabbia e la frustrazione, non di certo grazie a lei.

Accarezzò con la punta delle dita il viso di Jamie. No, non si sentiva pronta e capace di avere una famiglia.

 

Si svegliò, sentendo la porta d’ingresso chiudersi e delle risatine sulle scale. Si alzò dal divanetto della cameretta di Jamie, dove si era addormentata qualche ora prima. “Che diamine, sono le tre passate!” si lamentò, vedendo la sorella aprire la porta ed entrare in punta di piedi, i sandali dal tacco alto in mano. “Ohh… guarda il mio angioletto come dorme!”

Uscendo dalla stanza, Nina le domandò se la serata fosse andata bene.

Anna ridacchiò, gli occhi brillanti nel buio. “Magnifica. Abbiamo mangiato benissimo e c’era l’orchestra… abbiamo ballato tantissimo io e Lee… dovevi vederci, sembravamo i protagonisti di una favola… ci guardavano tutti. ” rise nuovamente, scuotendo il caschetto con aria sognante. “Ora mi sta attendendo in camera, per concludere la serata in modo perfetto!”

“Immagino.”

“Tu tutto bene?”

“A parte che ha passato le prime due ore a spaccarmi i timpani si.”

E…?”

“E visto che vai da tuo marito, ora, vedi di non avere altre distrazioni: un nipote mi basta e avanza.” Senza dire altro, si avviò verso la sua stanza, mordicchiandosi le labbra per non ridere: chissà quando i favolosi coniugi Chaolan avrebbero capito dove aveva nascosto il pannolino sporco del loro erede…

 

 

Nina ed Anna erano davanti al check in dell’aereoporto.

“Non mi hai ancora detto la tua decisione.”

“Non l’ho ancora presa.” Sospirò Nina. “Ma ne parlerò con Sergei appena lo vedrò, e decideremo insieme sul da farsi.”

“So che prenderai la decisione giusta. Conta comunque su di noi.”

“Grazie.”

Figurati… riposati, e appena arrivi a Mosca fai una visita di controllo.”

Nina sorrise amaramente, prima di salutare e dirigersi verso il check in.

 

Mentre sorseggiava un thè, durante l’ultimo scalo a Londra, Nina Williams ricevette una telefonata. Gli rispose la voce di Pavlov, che la informava che era stata scelta per partecipare ad una missione. “Accetta, Williams?”

Nina tentennò un attimo. Una missione l’avrebbe stressata, le avrebbe fatto correre dei rischi. Doveva prima parlarne con Sergei e…

…e dannazione! Ne andava della sua carriera! Sarebbe stata prudente. Tanto più che non sapeva ancora se tenere o meno il bambino.

“Va bene, comandante. Mi fornisca i dettagli.”

 

Capitolo TROOOOOPPO lungo.

Volevo tagliarlo. Come Kill Bill.

Ma poi ho preferito farvi annoiare di più, in una botta sola!

Un trilione di grazie a voi, schockati dalla rivelazione, che avete commentato: spero di non avervi deluso, i vostri commenti sono il mio carburante, senza di loro… non scriverei!

Grazie a Miss Trent, Angel Texas Ranger, Nils_ Gorkj, Sackboy97 e Krisalia!

 

EC

 

 

 

 

 

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Capitolo 20
*** La Voce della Coscienza ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

20: La voce della coscienza.

 

Sdraiata bocconi su un tetto di un alto e anonimo palazzo della periferia di Berlino, Nina Williams attendeva, il fucile di precisione pronto e l’occhio nel mirino, puntato verso una delle tantissime finestre del palazzo di fronte, uguale e grigio come quello su cui si era appostata.

Pavlov le aveva riservato una missione estremamente semplice, per i suoi standard:  trovare ed eliminare un’ex agente della Spetsnaz, convertitosi a spia nemica.

Una pallottola nella testa sarebbe stata la giusta punizione per aver spiattellato importanti informazioni alla Tekken Force, un anno prima.

Un compito banale, che lei aveva accettato per dimostrare che le sue capacità erano rimaste invariate, che il suo allenamento aveva dato ottimi frutti e che non aveva nessun tipo di problema.

O, meglio, per nascondere il suo problema.

Aveva trovato l’obbiettivo quasi subito, la sua abitazione ubicata in quel degradato quartiere periferico, il suo appartamento che si perdeva tra gli altri dello stesso palazzo.

La finestra a cui mirava era quella del bagno. Inizialmente aveva pensato di bussare alla porta, fingendosi facchino di un corriere espresso, e di sparargli a bruciapelo, ma poi aveva pensato fosse meglio mantenere le distanze, decidendo di mettere alla prova la sua rinnovata mira da cecchino.

Avrebbe svolto quel lavoro, poi avrebbe preso l’aereo per Mosca e sarebbe andata a parlare immediatamente con Sergei. Non sapeva ancora quali parole avrebbe utilizzato, né che decisione avrebbe preso: dipendeva, fondamentalmente, tutto dalla sua reazione: al momento non si sentiva molto lucida per ponderare la soluzione più ragionevole e fattibile.

Durante il volo si era domandata più volte cosa realmente volesse dalla vita, se le andasse realmente bene quel destino che le era stato cucito addosso da suo padre: un genitore orgoglioso e assente, che non le aveva mai offerto una carezza, soltanto qualche parola di complimento, sempre suo maestro e mentore e mai il padre di una bambina.

Anzi, due. Ma per Richard Williams Anna praticamente non esisteva. Era un’ombra della casa, una ragazzina che cercava di attirare in tutti i modi la sua attenzione, senza riuscirci. Lui aveva già la sua allieva ed erede, non gliene serviva un’altra.

 

La porta del bagno che si apriva attirò nuovamente tutta la concentrazione della donna, che prese la mira. Davanti alla finestra un uomo dai biondi capelli cisposi entrò nella stanza e si posizionò davanti allo specchio, sbadigliando. Si spalmò la schiuma da barba sulla faccia e fece per prendere il rasoio.

Il proiettile lo colpì, silenzioso, alla tempia prima che riuscisse a portare la lametta al volto. Crollò a terra, Nina poté immaginare il tonfo sordo.

Perfetto. Pensò, smontando velocemente il fucile e infilandolo nello zaino. Gettò un ultimo sguardo alla finestra, prima di alzarsi, catturando una scena che le fece gelare il sangue nelle vene.

La porta del bagno si era riaperta, ed era comparsa una bambina dai lunghi capelli ricci e dorati. Fissò con gli occhi spalancati il cadavere sul pavimento, e lo strillo acuto che emise a pieni polmoni arrivò sino alle orecchie di Nina.

Aveva una figlia? Una figlia con lui, nel suo stesso appartamento, che si era trovata il padre morto in bagno, con il cervello sul pavimento.

Un conato di vomito le salì in gola, e Nina lo soffocò a stento.

Si voltò e scappò più velocemente che poteva.

 

 

Non si stupì nel trovare l’appartamento vuoto e buio. Non accese la luce subito. Si avvicinò praticamente a tentoni al divano e si lasciò cadere, il trolley che scivolava sul pavimento. Si sfilò le scarpe rabbiosamente e si portò le ginocchia al petto, abbracciandosele.

Non aveva voglia di piangere. Provava dentro di sé solamente una rabbia sorda ed impotente, che la faceva rabbrividire.

Quella bambina aveva visto il corpo di suo padre morto sul pavimento del bagno. Probabilmente non aveva capito il perché. Aveva una madre o era sola al mondo?

Quanti anni avrà avuto? Otto, nove al massimo?

Lei quanti anni aveva quando la testa di suo padre era esplosa davanti ai suoi occhi?

Venti.

E non riusciva a scordarselo, e non riusciva a superarlo.

Quel sangue ovunque, le parti di cervello addosso anche a lei.

L’urlo acuto di Anna era uguale a quello della bambina.

L’aveva soffocato nei meandri più neri della sua anima oscura, cacciato a pedate sotto una coltre di indifferenza, seppellito con la sua coscienza.

Coscienza rediviva, che sbucava reclamando la sua mente e rinfacciandole le sue colpe.

Era una cosa ignobile, orribile, schifosa.

Ma la cosa peggiore… era che lei non riusciva a piangere, a pentirsi dei suoi peccati.

Le tornarono in mente le parole dure che Alexandersson le aveva rivolto, quando ormai credeva di averla in pugno, morente e piegata ai suoi voleri.

Come poteva pensare di poter essere una buona madre? Come poteva credere di crescere un figlio? Cosa gli avrebbe insegnato, lei che sapeva solo colpire, sparare, uccidere?

Il conato di vomito le tornò alla gola, e si precipitò in bagno, sbattendo contro le porte.

 

I passi di Sergei erano nel corridoio, Nina aprì la porta del bagno. Aveva ancora i capelli umidi, dopo la doccia, ed indossava la sua camicia da notte.

Il sorrisetto soddisfatto dell’uomo sembrò vacillare davanti al suo sguardo rosso e vago, al suo volto tetro e tirato.

“Devo dedurre che tu non sia stata soddisfatta della tua missione, Nina?” le domandò con disappunto. “Ho suggerito io stesso a Pavlov di affidartela, dovresti ringraziarmi per essere riuscito a farti tornare operativa. Tutti credevano fosse presto, e che non eri ancora pronta. Ma so che è tutto filato liscio come l’olio, e Volkov ne è stato visibilmente soddisfatto.” Le aveva voltato le spalle, camminando lentamente verso la camera, togliendosi il pesante cappotto. “Immagino che tu sia stanca.”

“Che ne è stato della bambina?”

Sergei le rivolse uno sguardo interrogativo. “Sua figlia?”

Nina annuì, rivolgendogli uno sguardo di puro disprezzo, appoggiandosi al muro. La testa le girava vorticosamente, si sentiva senza energia, sull’orlo di uno svenimento.

“Beh, credo proprio che sia tornata da sua madre. Erano separati, ma so che anche lei vive a Berlino.”

Appoggiò il cappotto all’appendiabiti. “Come mai mi hai fatto questa domanda?”

“Ha trovato suo padre riverso a terra, con la testa aperta in due da un proiettile, in un lago di sangue. Io l’ho vista mentre lo trovava e…

“Non è stata ferita, quindi…

“MA CAPISCI QUANDO PARLO?”  Incurante di essere ad un passo dal collasso, Nina si era staccata dal muro, la voce più alta che poteva, che lasciava uscire la sua esasperazione e la sua rabbia. “Quell’immagine non se la toglierà mai dalla mente! Quanti anni avrà avuto, Otto, Nove?”

“Senti, non ci possiamo fare nulla, no? Suo padre era un traditore, era una spia pericolosa, doveva essere eliminato. Nessuno sapeva che ci fosse sua figlia con lui.”

Una fitta improvvisa attraversò il ventre di Nina, che non smise di urlare: “A posto così per te?”

Nina…

“Dimmi, quante missioni abbiamo svolto insieme? O che mi avete fatto svolgere da sola? Mi hai mai visto in queste condizioni? Mi hai mai visto così Furiosa?

Nina…

“E non ti domandi perché? Io mi sento così? Lo vuoi sapere? PERCHE’ MIO PADRE E’ STATO AMMAZZATO COME UN CANE DAVANTI AI MIEI OCCHI, LA SUA TESTA E’ ESPLOSA E IO ERO RICOPERTA DAL SUO CERVELLO E DAL SUO SANGUE.”

“NINA, STAI SANGUINANDO!”

Fu come se qualcosa in lei si fosse rotto, quando seguì lo sguardo dell’uomo tra le sue gambe. Abbassò gli occhi, in tempo per vedere una goccia, color rubino, cadere sul pavimento già macchiato.

Si premette le mani sulla bocca, prima di appoggiarsi al muro dietro di lei e scivolare al suolo. “Dobbiamo andare all’ospedale.”

“Nina, non è successo niente, su… non è una cosa normale per voi donne?”

“IDIOTA, portami all’ospedale subito!” Le lacrime avevano iniziato a solcarle le guancie, mentre gocce di sudore freddo le percorrevano la schiena.

Sergei l’aiutò a sollevarsi, prima di andare a recuperarle la giacca e le scarpe. “Non capisco, provi dolore?”

Lei non poté far altro che annuire.

 

Quando tornarono nell’appartamento era l’alba.

Nuovamente, Nina scivolò sul divano, portandosi le gambe al petto.

Ecco. Ora sapeva. Sapeva tutto quello che c’era da sapere.

Cioè che dentro di sé non c’era più nulla. Che il suo ventre era tornato freddo e vuoto. Che il problema non sussisteva più.

Si sentiva completamente svuotata, prima di ogni energia. C’era un groppo nella sua gola che non riusciva a ricacciare giù, che non voleva andarsene.

Da quando il medico l’aveva informata che aveva perso il bambino, che si era verificato un aborto spontaneo, Sergei non aveva più spiaccicato parola. L’aveva fissata, stupito, quasi stralunato e poi erano tornati a casa dopo la visita.

Ed ora si era seduto di fronte a lei, sul tavolino di legno tra la televisione e il divano. Le venne in mente, chissà perché, il giorno in cui lei aveva deciso che serviva un tavolino in quel posto, e che lo era andata a comprare in un negozio di mobili a basso costo. Era tornata a casa con la confezione, piatta e rettangolare, e l’aveva aperta, per scoprire che non era capace di raccapezzarsi tra tutti quei pezzetti di legno e viti.

Sergei era tornato venti minuti dopo, trovando uno sbilenco tavolino per terra e Nina dall’espressione corrucciata, persa tra le istruzioni.

E si era messa con lei a leggerle e a rimontare il mobiletto.

L’avevano montato insieme, come una coppia normale. E ora lui era seduto su quel tavolino di truciolato scuro, lo sguardo posato da qualche parte, tra lei e il muro, i gomiti sulle ginocchia e le mani che sorreggevano il mento. Sembrava sforzarsi di dire qualcosa, senza riuscirci.

Lo precedette lei: “E’ stato meglio così.” Decretò con voce afona, studiando la sua reazione. Lui alzò una spalla. “Beh, si. Il medico ha detto che sono così che capitano durante i primi mesi.”

“I primi mesi della prima gravidanza.” Ricordò lei. “Tecnicamente, questa per me era la seconda.”

“Credi sia stata la missione?”

Nina annuì. “Colpa di quello che ho visto.” Gettò la testa all’indietro. Era davvero stato meglio così. Eppure non riusciva a scrollarsi di dosso quel senso di vuoto e di freddo, quella punta di dolore che le feriva il costato. “Il bambino non è voluto rimanere dentro un essere così… spregevole come me.”

“Stronzate” borbottò Sergei. “Non ho mai preso davvero in considerazione l’idea che potesse davvero succedere. In fondo siamo stati attenti, no? Come può essere stato possibile? In ogni caso, è andato, non devi più pensarci, Nina. Così come non lo sapevi prima.”

Nina alzò la testa. Sergei credeva che li non sapesse di essere incinta? Bene.

No. Doveva saperlo. In fondo ormai il bambino non c’era più, e quindi la sua reazione non sarebbe cambiata. Ma doveva dirglielo.

“Sapevo di essere incinta.” Disse semplicemente. Sergei le piantò gli occhi dritti in faccia, sorpreso. “Da quanto lo sapevi?”

“Dal giorno prima della mia partenza per le Bahamas. Ho notato di avere un ritardo, e ho fatto il testo. Tre, per la precisione. Tutti e tre identici.”

“Ed è per questo che sei andata da tua sorella? Hai scoperto di essere incinta e sei scappata alle Bahamas? Perché cazzo non hai detto nulla?”

Lo sguardo dell’uomo si stava incendiando. “Non sapevo che reazione avresti avuto. E volevo pensarci un po’ su, non sapevo se tenerlo o meno e…

“E sei stata così vigliacca da nascondermelo?” Il pugno che aveva tirato al tavolino l’aveva fatta sobbalzare. Era scattato in piedi, volgendole le spalle. Era furioso. “Mentre io ero al comando a cercare il modo di rimandarti il missione, di non farti più sentire un’ameba inutile chiusa in casa, di farti contenta, tu scappavi alle Bahamas perché eri confusa e non sapevi la mia reazione alla notizia?”

“Non vorrai farmi credere che saresti stato contento” anche Nina era saltata in piedi, incrociando le braccia al petto, guardandolo con sfida. Sergei aveva lasciato la bocca semiaperta, la mano sollevata a mezz’aria, come se non sapesse cosa dire, come se fosse stato folgorato da una rivelazione improvvisa.

“Non è questo il punto!” esclamò, volgendole di nuovo le spalle. Si stava accarezzando il mento, Nina lo sapeva, lo conosceva ormai troppo bene. Forse non abbastanza. “Quello che voglio dire è che… hai tradito la mia fiducia.” Lo stomaco le si torse a sentire la frase. “Io mi sono fidato, pensando che quello che stessimo vivendo fosse… come dire, abbastanza per instaurare un rapporto di fiducia reciproca. Ma a quanto pare, per te siamo ancora allo stadio di Sottospecie di Relazione e non abbiamo nulla da spartire, a parte il letto.”

“NO!” protestò lei. Le mancava il fiato, le sue parole, dette con quel tono così duro e calmo allo stesso tempo, la ferivano come mille lame. “Cosa dovevo pensare, con tutti quei litigi continui, con la tua disattenzione nei miei confronti? Cosa posso aspettarmi da una persona che non si accorge nemmeno che sta succedendo qualcosa quando gli sono davanti, mentre mia sorella se ne è accorta parlandomi solamente per telefono?”

“Cosa ti potevi aspettare?” sibilò, avvicinandosi a lei. Nina indietreggiò, sedendosi sul divano, mentre l’uomo si inginocchiava davanti a lei, gli occhi alla sua altezza, pericolosi, freddi, quasi bianchi.

“Ho mentito ai miei superiori, ho lasciato la mia squadra contro un mostro per venirti a prendere in quel cazzo di Hotel di Tokio, ho passato una settimana praticamente senza dormire o mangiare per recuperarti, ho disobbedito agli ordini, rischiando collo e carriera per salvarti dalla base di Alexandersson, Ho risparmiato la vita di quel bastardo di Boskonovitch per l’antidoto, e anche in questo caso sono andato contro i miei superiori. E’ solo perché Volkov mi reputa il migliore, e perché ero così amico di suo figlio, se il mio culo è ancora dentro la Spetsnaz, se sono stato promosso nonostante l’insubordinazione e se, soprattutto, tu abiti ancora in questo posto e sei stata curata dall’elite di medici migliori a nostra disposizione.”  Una lacrima scese sul viso pallido di Nina. “E TU non sai cosa aspettarti da ME?”

Si allontanò come se le facesse ribrezzo, come se fosse una carogna in putrefazione.  La guardò disgustato, livido di rabbia. Poi si diresse verso il corridoio.

Nina si morse le labbra, sforzandosi di piangere in silenzio. Andò nella sua camera, quella in cui dormiva senza di lui, un milione di anni prima. Si gettò sul materasso, abbracciando quel cuscino azzurro che rappresentava Steve, immergendoci la faccia sino quasi a soffocarsi.

La porta che si chiudeva le annunciò che era rimasta sola.

Ancora.

E la cosa le faceva troppo male.

 

Eccolo qui, il capitolo per cui mi farete fuori!!! Siete contente???

Purtroppo la situazione non si è risolta per il meglio, per quanto riguarda il bambino… spero di non avervi deluso, o schifato, o peggio ancora fatto arrabbiare.

C’est la vie, e gli imprevisti sono dietro l’angolo.

Ci stiamo avvicinando alla fine, sappiatelo. Un paio di capitoli e avrò concluso (?) questa Fanfiction.

 

GRAZIE, GRAZIE GRAZIE GRAZIE, GRAZIE GRAZIE

GRAZIE, GRAZIE GRAZIE GRAZIE, GRAZIE GRAZIE

GRAZIE, GRAZIE GRAZIE GRAZIE, GRAZIE GRAZIE

GRAZIE, GRAZIE GRAZIE  PER TUTTE LE VOSTRE RECENSIONI, SUPPORTI, E DEGENERAZIONI (come quelle di Miss Trent :P)

Non vi ringrazierò mai abbastanza. Questa FF l’avete scritta anche VOI.

GRAAAZIE!!!

EC

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 21
*** La Pared ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

21: La Pared.

 

Era riuscita a smettere di piangere, ma continuava a restare rannicchiata nel letto freddo, abbracciata al cuscino.

Si sentiva spezzata, sfibrata, come se quegli occhi di ghiaccio, così carichi di disprezzo nei suoi confronti, avessero cancellato qualsiasi traccia di linfa vitale.

Vuota come quell’appartamento spartano e freddo, quando l’avrebbe voluto riempito da almeno un’altra persona.

Che invece se ne era andata sbattendo la porta, lasciandola sola.

Sola, come quando scappava dagli americani che la braccavano, prima che venisse colpita da quel (benedetto) proiettile nella gamba.

Sola come a Dublino, bersaglio dei suoi ricordi, della pioggia e della primavera umida e timida dell’Irlanda.

Sola come nell’entrata dell’Hotel Supreme, con il fucile in braccio, mentre nella stanza di fianco si festeggiava la nascita di suo nipote, quando lui era venuto di persona a recuperarli.

Sola come nella prigione di Alexandersson, quando ormai era certa che per lei fosse arrivata la fine, in compagnia del dolore, delle allucinazioni e della febbre, quando lui l’aveva portata via, mandando a quel paese tutto e tutti,  pur di salvarla.

Sola buio del coma, Sola con i test di gravidanza tra le dita, Sola sull’aereo per e da Nassau, Sola ad uccidere un uomo davanti a sua figlia, Sola in quella casa, a lasciarsi inghiottire dalle proprie lacrime.

 

Ed adesso?

Lo sguardo di Sergei era stato eloquente. Disprezzo, disgusto, rabbia. Si era voltato perché non sopportava di vederla davanti agli occhi. Doveva sparire.

La sua fiducia era qualcosa di prezioso, liquido raro spillato per poche persone, tra cui lei.

E non era solo una questione di fiducia. C’era di più –altrimenti non avrebbe avuto quella reazione, altrimenti non le avrebbe lanciato quello sguardo terribile.

Qualcosa che lei non aveva compreso ed apprezzato sino in fondo. Che diavolo si aspettava, gesti plateali, dichiarazioni da film?

Pensava di avere in mano della sabbia, ed invece era polvere d’oro quella che si era lasciata sfuggire tra le dita. E quando se ne era accorta, era troppo tardi, e il palmo era vuoto.

Stupida.

Chi è causa del suo mal, pianga sé stesso.

Idiota.

 

Si alzò dal letto come se fosse stata un automa. C’era solo una cosa da fare.

Non aveva più senso restare in quella casa, non aveva più senso ferirsi con quelle lame azzurre che sino a pochi giorni prima le rivolgevano sguardi molto diversi.

Aprì la valigia sul letto, era ancora piena dei vestiti che si era portata alle Bahamas. Non li tolse, ma la riempì ulteriormente con tutti gli altri suoi vestiti presenti nella camera.

Poi si trascinò nella loro camera (no, nella camera di Dragunov) a prendere quelli che le mancavano.

Ne aveva un paio in quell’armadio. Si fermò un attimo a fissare la divisa di ricambio di Sergei appesa.

Gliel’aveva mai detto che quella divisa gli stava alla perfezione, e che adorava quando abbandonava il berretto sul tavolo e si sfilava al volo la cravatta, senza smettere di guardarla negli occhi, avvicinandosi a lei?

E che quando partiva sentiva sempre una fitta nello sterno, perché aveva sempre quel blando timore di non vederlo tornare?

 

E perché solo adesso notava che il braccio che Sergei gettava sul suo fianco quando si addormentavano sfiniti dalla passione era diventato un abbraccio sicuro e gentile?

Che i suoi baci non erano solo quelli con cui divorava le sue labbra nel mezzo della passione, ma anche quelli che percorrevano le sue mani, che saggiavano la sua pelle, che la salutavano al mattino e alla sera?

 

Si sedette sul letto.

Non aveva capito niente, e aveva rovinato tutto.

Sarebbe stato magnifico, se solo lei avesse fatto incrinare quella parete di ghiaccio che si era costruita.

Perché lui per lei l’aveva fatto.

E se lei fosse stata un pochino meno stupida e più umana, dentro di lei ci sarebbe ancora stato un figlio dall’uomo che…

amava.

E avrebbe corso il rischio di essere lasciata, di litigare, di finire nei guai, per proteggere ciò che più li avrebbe uniti.

Ma non era stata abbastanza forte.

 

Aveva bisogno di parlare con Anna. O forse no, con Steve.

No… suo figlio stava vivendo la sua vita magica, lontano migliaia di chilometri, perché intristirlo o farlo preoccupare?

E Anna… ora a Nassau era notte inoltrata, svegliarla sarebbe stata una cosa stupida.

Scivolò sul copriletto.

 

Sarebbe andata al comando e avrebbe presentato le dimissioni, chiedendo di lasciare il paese.

Si, il dopo-Sergei doveva assolutamente cominciare dall’altra parte del mondo, senza neve e senza freddo, perché nessuno l’avrebbe più riscaldata.

E se non le avessero concesso di dimettersi… beh, che almeno le dessero un altro alloggio.

Lì non poteva più restarci.

Faceva troppo male.

 

La chiave che girava nella toppa la scosse dai suoi pensieri. Aveva passato ore e ore sul letto, pensando e ripensando a tutti i momenti, in quei due anni, vissuti Sergei.

Si alzò di scatto, il fiato che le mancava. Percorse lentamente, quasi come se fosse nel bel mezzo di una missione, impegnata a non dover fare il minimo rumore, pena la propria vita.

Nina si affacciò alla sala, conscia che stava aprendo il capitolo conclusivo, che era arrivata alla resa dei conti. Sergei Dragunov, seduto sul divano, sembrava attenderla.

La donna rimase appoggiata allo stipite, mantenendo le distanze, temendo ogni singola parola, gesto, espressione che le sarebbe stata rivolta.

Dopo un lungo silenzio, fu lui il primo a parlare.

“Ho pensato a tutto quello che è successo.” Fece una pausa, guardandola vagamente, quasi senza incrociare il suo sguardo. “E credo proprio che non si possa continuare così.”

Nina annuì. “Hai ragione. Chiederò al comando di accettare le mie dimissioni e di permettermi di lasciare il paese. Oppure” Prese respiro e forza, cercando disperatamente di cancellare quel leggero tremolio della voce: “di assegnarmi un altro alloggio. Così non funziona, è distruttivo.”

Dragunov rimase immobile un istante, come se stesse soppesando le sue parole, se le stesse metabolizzando, poi si alzò in piedi, raggiungendola a passi lenti. “Vorresti davvero andar via?”

“Si.” rispose veloce. Poi però si morse le labbra, serrando le ciglia, intrappolando le lacrime al suo interno. Non era vero. L’unica cosa che voleva davvero era tornare indietro nel tempo alla sera prima, anzi, alla settimana precedente, digli subito che era incinta, parlare subito con lui e trovare una soluzione, un accordo, qualsiasi cosa. Ma non esisteva nessun tasto REWIND da nessuna parte.

Non si azzardò ad aprire gli occhi, neppure quando sentì il fiato di Sergei sul suo volto e le sue mani tra le sue, le dita che si intrecciavano.

“Sono successe tante cose, Nina, e ci siamo spinti troppo oltre. Sarebbe meglio rientrare nei ranghi, riprendere il controllo, non trovi?”

Nina annuì di nuovo, abbassando il volto. Il Capolinea.

Le labbra di Sergei premettero sulla sua fronte. “Andarsene, restare… La decisione spetta a te. Io la mia l’ho già presa. E spero tu sia d’accordo.”

Sfiorò le sue labbra con le sue, le accarezzò, le assaporò, come se fosse la prima (e non l’ultima) volta che le sentiva sulle sue. Le sue mani si chiusero a pugno su quelle di Nina, che tentava disperatamente di imprimere dentro di sé, nella sua mente, nella sua memoria, il tepore di quel bacio.

Si staccò lentamente, come se volesse prolungare quell’attimo il più possibile. Appoggiò la fronte sulla sua. Un secondo. E poi si staccò, si voltò, riprese il berretto della divisa dal mobile su cui l’aveva abbandonato e uscì.

Sola.

Sola di nuovo con le lacrime che scendevano dagli occhi, con il suo profumo nelle narici e le labbra che sapevano ancora di lui.

 

Fu solo dopo un istante che si rese conto che aveva entrambi i pugni chiusi, stretti al suo petto.

E che c’era qualcosa dentro la sua mano sinistra. Qualcosa di duro, circolare. Una moneta, forse. Qualcosa che Sergei aveva fatto scivolare sul suo palmo mentre la baciava.

Nina Williams schiuse le dita della mano. E scivolò per terra lungo lo stipite della porta, la bocca spalancata, il cuore che sembrava esploderle nel petto.

Aveva in mano la decisione di Sergei Dragunov.

C’era un anello sul suo palmo.

 

 

 

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PAUUUURA EH????

TEMEVATE, EHHHH????

Ecco il PENULTIMO (?)capitolo di questa fortunata serie!

Capitolo molto introspettivo, triste… e anche sdolcinato. (e OOC---soprattutto nel caso di Nina)

Scusate, ma avevo dimenticato il sadismo giù in cantina. Lo vado a riprendere? Meglio, eh?

Vi ringrazio per la penultima volta, voi, miei fedeli recensori… e anche chi ha seguito questa storia, chi l’ha messa tra i preferiti, chi l’ha leggiucchiata e l’ha chiusa arricciando il naso…

Insomma, tutti quelli che hanno cliccato su Two Pairs of Chilling Eyes.

Il titolo è una (splendida) canzone di Shakira.

Alla prossima… ma non temete, non ho intenzione di sparire. Non tanto presto, almeno. ;)

EC

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Capitolo 22
*** Epilogo. ***


Two Pairs of Chilling Eyes

 

22: Epilogo

 

Click! La luce si accendeva, mentre la porta d’ingresso veniva chiusa.

Passi cadenzati e lenti percorrevano il pavimento.

Click! Un’altra luce. Altri pochi passi.

“Nina?”

Non ricevette risposta. I passi tornarono indietro.

Un piccolo tonfo attutito suggeriva che si era seduto sul divano. Il silenzio contemplativo, che aveva visto ciò che c’era rimasto sul tavolino.  E sarebbe saltato subito alle conclusioni.

Affrettate.

Silenziosa, era scivolata quindi fuori dalla porta della camera, comparendo sulla porta della sala.

Sergei era seduto sul divano, gli occhi di cristallo fissi sul cerchietto dorato che reggeva tra l’indice e il pollice come se lo stesse analizzando. Sembrò stupito dal trovarsela davanti, richiuse le dita sull’anello e schiuse appena le labbra.

“E’ il tuo saluto?” chiese in un sussurro. Nina Williams avanzò lentamente, quasi senza respirare. Si sedette sul tavolino, di fronte a lui, fissandolo negli occhi. Senza dire nulla, gli porse la mano sinistra, il palmo rivolto verso il basso e le dita appena aperte , e studiò la sua reazione. Sergei la fissò con vivo interesse, quasi cercasse di prevedere la sua prossima mossa.

La voce di Nina era bassa, ma ferma e decisa, quasi fosse un accenno di rimprovero: “Se mi vuoi davvero, quell’anello non me lo lasci di nascosto in una mano prima andartene, ma me lo infili al dito.”

L’uomo restò immobile per un istante. Poi, con una lentezza quasi esasperante,  prese la sua mano, e fece scivolare l’anello nel suo dito.

“Ehm, dovrebbe essere l’anulare, non il medio.” Lo corresse Nina, trattenendo un sorriso nel cogliere il lampo di imbarazzo sul suo volto.

Sergei ebbe uno scatto quasi scocciato, mentre gli toglieva il cerchio dal dito sbagliato e lo infilava in quello corretto, a fianco. “Ed ora?”

Nina sorrise appena. “Ed ora ti dico di si.”

 

8 anni dopo:

 

Tra gli spalti gremiti del palazzetto del ghiaccio, seduta a fianco dell’unico seggiolino vuoto, Nina Williams gettò l’ennesimo, nervoso sguardo all’orologio, che segnava le 16 e mezza. “Dovevano iniziare mezz’ora fa” borbottò, finendo l’ultimo pop corn rimasto scoprendo di avere ancora fame, appallottolando scocciata il sacchetto e gettandolo, centrandolo perfettamente, nel bidone dell’immondizia a qualche metro di distanza. Un bambino, seduto in mezzo ai suoi genitori, seguì la parabola perfetta del lancio, fischiando d’approvazione.

Nina mosse i piedi, impaziente, cercando una posizione più comoda. Quelle maledette tribune avevano gradoni troppo stretti, seggiolini troppo piccoli ed erano eccessivamente pieni di gente. Tutto quel rumore le dava il mal di testa. Si massaggiò la testa, conscia di essere proprio intrattabile in certe occasioni. Gettò di nuovo uno sguardo al posto vuoto al suo fianco, tentata dal togliere la borsetta con cui lo stava tenendo occupato, rendendolo libero per qualcuno. Se poi arriva realmente, beh, si arrangerà, tanto non ha problemi a restare in piedi per ore e ore. Così impara ad arrivare – se arriva- in ritardo.

Per impiegare il tempo, estrasse dalla custodia la nuova videocamera, trafficando con le impostazioni. Quella precedente era stata vittima di un curioso incidente in lavatrice, mistero tutt’ora irrisolto nonostante le sue accurate indagini e i suoi interrogatori mirati. Accorgendosi che le luci si stavano abbassando, Nina si accomodò meglio, trovando l’angolazione migliore dove puntare l’obbiettivo della videocamera.

Notò con la coda dell’occhio che qualcuno stava per sedersi a suo fianco, e lei si voltò pronta a ribadire, per l’ennesima volta, che quel posto era occupato. Rimase invece piacevolmente sorpresa: “Ah, sei arrivato, finalmente! Iniziavo a perdere le speranze!”

Sergei Dragunov storse la bocca infastidito, sedendosi e voltandosi verso di lei. “Felice anche io di vederti.” Salutò, slacciandosi il cappotto.

Nina roteò gli occhi, prima di chiedergli se avesse portato qualcosa da mangiare come da lei espressamente richiesto.

“Ho preso delle patatine all’entrata” rispose l’uomo, porgendogliele. Nina ne fu sollevata e aprì subito la confezione, iniziando a mangiucchiarle. “Come mai non hanno ancora iniziato?”

Uhn, Non lo so… avranno avuto qualche imprevisto. Che ne so, con quei costumini…

Sergei studiò la videocamera, annuendo soddisfatto dell’acquisto. Un gruppetto di persone, due adulti e tre bambini strillanti, avevano iniziato a urlare slogan da stadio e a far ondeggiare uno striscione.

Ulteriormente infastidito, domandò chi fossero.

 “La famiglia al gran completo di Lilja Romanova, la favorita.”

“Esiste una favorita nel campionato di pattinaggio dei ragazzini Under 6?”

Nina annuì. “Se tu fossi più spesso a casa, sapresti che è la diretta avversaria di Vika: Quella mocciosa ha un ottimo equilibrio, e lei… insomma, ogni tanto si ritrova con il sedere per terra. Cosa perfettamente normale per una bambina di della sua età.”

“Forse non si allena abbastanza…

“Per nostra figlia questo sport è un gioco, per ora, ha cinque anni! Non ha senso che passi le sue giornate intere ad allenarsi. E’ già brava così. E anche se perdesse la gara oggi, o sbagliasse qualcosa, non sarebbe una tragedia: deve imparare a gestire anche i fallimenti.”

“Parli come un libro aperto…” borbottò l’uomo.

Lei alzò le spalle. “Devo pur informarmi da qualche parte.” 

La famiglia Romanov aveva iniziato ad intonare cori e canzoncine, stoccata finale all’emicrania di Nina.

“Non ti ricordano qualcuno?

Uhn….No, Anna non si è vestita da Cheerleader per le gare di Jamie.” Sospirò: “Anche se le magliette che mi hanno costretto ad indossare erano proprio imbarazzanti.”

Silver Haired Surfer‘s Supporters? Bah, Mi sembra che Vika la adori.”

“Si, la famosa rivalità Williams pare non esista tra cugini…

Una delle allenatrici risalì gli spalti avvicinandosi alla madre di Lilja Romanova e dicendole qualcosa. La donna gettò a terra i pon pon arancioni, seguendola con lo sguardo attonito e ansioso.

Parecchi genitori annuirono soddisfatti all’interruzione del tifo chiassoso ed eccessivo.

 

I primi gruppi di piccoli pattinatori iniziarono ad entrare nella pista, tra gli applausi dei genitori e i flash delle loro fotocamere.

Dopo il saggio di gruppo dei più piccoli, una delle insegnanti presentò l’inizio della gara, e la prima partecipante.

Nina vide con la coda dell’occhio Sergei che iniziava a registrare.

“Guarda che Vika è la quinta ad entrare, è inutile riprendere anche gli altri.”

“Lo faccio perché così potrà guardare i programmi dei suoi avversari e studiarne le mosse.”

Nina roteò gli occhi al cielo, nuovamente. “Santo cielo, Sergei, sono bambine di cinque anni, è già tanto che riescano a stare in piedi e ad accennare ad un salto! Studiarne le mosse? Non deve andare alle olimpiadi, e nemmeno scatenare una guerra mondiale contro di loro!”

“Se esistono le favorite in questo campionato, allora può esistere anche lo spionaggio sportivo.”

La donna non poté far altro che scuotere la testa: tentare di far capire qualcosa a quello zuccone era una missione impossibile.

La piccola Lilja Romanova, nella sua tuta luccicante color arancio, era tornata dalla sua famiglia piangendo disperata e gettandosi tra le braccia del padre. Dietro di lei sua madre reggeva in mano gli scarponcini da pattinaggio, e non riusciva a capacitarsi di come avesse potuto la lama staccarsi di netto dalla suola.

Sergei Dragunov si voltò lentamente verso sua moglie, che gli rispose con lo sguardo più innocente che poteva dipingersi in faccia, indicandosi con una patatina come per dire “Io?”

…un tranquillo campionato di bambine di  cinque anni, eh?”

Lilja ne ha già sei, è la più grande, non dovrebbe gareggiare contro le più piccole, è ovvio che le altre partano in svantaggio.” Tornò alle sue patatine, non riuscendo a trattenere un sorrisetto soddisfatto. “Se in questo campionato può esistere lo spionaggio sportivo, può esistere anche il sabotaggio.”

“Spero che nessuno ti abbia vista.”

“Caro, per chi mi hai preso…?”

Tsk! Non sei più così agile con quel pancione per non parlare poi del passare inosservata…

“A parte che io non passo mai inosservata, pancione o meno.” Frugò nella borsetta, dal quale ne estrasse una busta bianca, che porse al marito. “E poi, ecco il responso della visita di ieri. Guarda un po’.”

Lentamente, l’uomo aprì il foglio e ne lesse brevemente il contenuto. Un angolo della bocca si piegò verso l’alto, soddisfatto, prima di ripiegare il pezzo di carta e di restituirglielo. “Ottimo lavoro Williams.”

Nina appallottolò la confezione vuota di patatine, lanciando anche quella nel bidone dell’immondizia, con un preciso canestro. “Lo chiamiamo Alexei, allora?”

“Si, decisamente Alexei.”

Il lampo di impazienza che gli aveva attraversato gli occhi, al pensiero di chiamare il figlio con il nome del suo amico defunto non passò inosservato alla donna. Era una cosa che aveva sempre temuto, e che le aveva fatto evitare in quei cinque anni, di cercare un altro figlio, finché il piccolo non aveva deciso di autoinvitarsi. “Se trascurerai Vika, sappi che ne pagherai le conseguenze.”

Questa volta toccò a Sergei a roteare gli occhi. “Come se si facesse mettere in secondo piano, con il caratterino che si ritrova.”

“Non le andrà giù il fatto di trovarsi un fratellino tra i piedi… Ma se fosse stata un’altra femmina… beh, ti conveniva battere la ritirata alla svelta.”

“Io non batto mai in ritirata. Combatto sino alla morte. A costo di scavare una trincea in salotto.”

“Ti devo rammentare quello che capitava tra me e mia sorella?”

“Non importa, tanto sarà un maschio, e i maschi danno meno noie

Nina trattenne un risolino. Nonostante tutti i suoi rimbrotti e le sue –finte – lamentele sull’avere a che fare con due femmine in casa, sapeva che Sergei non avrebbe scambiato sua figlia con nulla al mondo: complice anche una certa predisposizione della bambina a farsi rispettare anche dai bambini più grandi, dopo che ne aveva fatto volare un paio dall’altra parte dell’atrio della scuola materna.

Orgoglio di papà, preferiva il Sambo all’Aikido.

“C’è solo un problema” Sbuffò la donna. “La data del termine e quella del matrimonio di Steve e Julia coincidono”

“Beh, non credo che Steve si farà tanti problemi a spostare la data, se glielo chiedi.”

“Altrimenti ci andrò comunque, rischierò di partorire in Arizona, ma…

“… Mio figlio nascerà in Russia, non ci pensare nemmeno per un secondo a partorirlo negli Stati Uniti, chiaro?”

“Odio quando sei così inflessibile e permaloso…

 

Quando all’altoparlante annunciarono il turno di Viktorjia Dragunova, una bambina avvolta in uno scintillante completino color lavanda, i capelli corvini stretti in uno chignon e gli occhi azzurri concentrati sulla pista scivolò sul ghiaccio, sino a raggiungere il centro.

Nina applaudì, voltandosi verso Sergei per controllare che facesse lo stesso.

Ma lui era impegnato a filmare la bambina, l’ombra di un sorriso che gli stendeva le labbra livide e gli occhi fissi sul piccolo schermo della videocamera.

Nina non poté fare a meno di sorridere, mentre la sua bambina iniziava la sequenza di volteggi e piroette a ritmo di musica, sentendosi incredibilmente orgogliosa. Si appoggiò una mano sulla pancia, chiedendo mentalmente al suo cucciolo non ancora nato di fare il tifo per la sorella.

Aveva scelto di cambiare la sua vita, di deviare radicalmente il flusso della sua esistenza, arrendendosi di fronte al fatto di non essere un freddo pezzo di pietra, di non essere perfetta, e di avere bisogno di qualcuno. E il risultato era stato più che positivo: con una figlia che sognava di diventare una stella del pattinaggio, un bambino in arrivo per l’estate e un marito che, seppur spesso assente per gli impegni militari, faceva i salti mortali per stare con loro.

Si amavano. A modo loro, un modo quasi incomprensibile per il resto degli esseri umani, ma era quanto di più tangibile e reale ci fosse mai stato nella sua vita.

 

 Vika terminò la sua esibizione, applauditissima anche dagli altri genitori, con un elegante inchino e agitando la manina in direzione degli spalti.

Chissà se si era accorta che il suo papà c’era davvero, che era riuscito a tornare in tempo per la sua prima, importantissima gara.

 

Sentì la mano di Sergei che sfiorava la sua, e le loro dita che si incrociavano. La strinse.

“E’ stata davvero brava.” Lo sentì mormorare, mentre spegneva la videocamera e la riponeva nella custodia.

“Niente più spionaggio sportivo?”

“Con questi mocciosetti senza arte né parte, è inutile…

Nina Williams sorrise, guardandolo di sottecchi. Non vedeva l’ora di andare a recuperare Vika, di farle i complimenti e di portarla a cena per una pizza premio nel suo locale preferito.

L’idea della pizza sembrò stuzzicare anche l’inquilino della sua pancia, che sembrò approvare scalciando. Senza dire nulla, fece scivolare la mano di Sergei, ancora allacciata alla sua, sul suo ventre. Rivide di nuovo l’angolo delle se labbra piegarsi. “Ottimo, si sta già allenando…

 

 

 

Last, but not least!!

Eccoci all’ultimo (?) capitolo di questa storia!

Si, lo so, è OOC, è impossibile e quasi sdolcinato, e che rovina la storia. Si, lo so, lo so, lo so. il mio sadismo imbizzarrisce e mi tiene il muso.

Tant’è che, stando all’idea iniziale, doveva essere mooooolto diverso (MissTrent lo sa).

Questa FF è stata quella che, finora, mi ha soddisfatto di più nel pensarla e nello scriverla.

Prima di tutto è stata la più lunga, con 22 Capitoli. Poi è stata la più commentata. (e l’Ego si impenna)

E quella che mi ha divertito e impegnato di più a scriverla. E anche quella che ha subito più cambiamenti. Inizialmente Jamie doveva essere una femmina (Lyanna… nome che univa il suono di quello dei genitori… e suscitava perplessità negli altri) Nina non veniva catturata da Lars (a cui va la Palma d’oro per l’OOC) ma rimaneva sotto le macerie dell’Hotel, e nel finale non restava con Sergei. (ma poi il sadismo si è voltato un attimo e… ZACK!)

Insomma, tutta un’altra storia.

Qua e la c’è qualche accenno a dei film, oltre a Godzilla/Cloverfield, nel terzo capitolo figura pure una citazione di Kill Bill.

Beh, in ogni caso, Grazie, Grazie, Grazie per aver recensito, per averla letta, apprezzata… insomma, grazie mille a tutti.

A Miss Trent e alle nostre divagazioni/pare mentali/discorsi, congetture.

A Angel Texas Ranger per non avermi strangolato dopo che ho fatto fare quella fine a Lars e Alisa (mi farò perdonare)

A SackBoy per la sua presenza fedele

A Krisalia, a cui rompo sempre le scatole su MSN.

A Nila, per la gioia con cui commenta.

A Yukino Lang, GothGirl e a Nefari, per aver commentato anche solo una volta.

Grazie mille!!!

PS: Nonna Alba vi saluta.

 

 

 

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