Mama said that it was quite alright

di lithnim222000
(/viewuser.php?uid=927724)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prompt #Eugene Delaune ***
Capitolo 2: *** Prompt #Vadoma Myrcall ***
Capitolo 3: *** Prompt #Olivia LeJeune ***



Capitolo 1
*** Prompt #Eugene Delaune ***





PROMPT #Gene

[Campo Giove, novembre]
  • Una giornata nuvolosa
  • Un bicchiere di vino
  • Un parente estraneo
 
 
-MEDICO! SERVE UN MEDICO!
Eugene scattò in piedi prima ancora di essere completamente sveglio e picchiò violentemente la testa contro la lampada della scrivania. Il dolore gli esplose come un lampo rosso in cima al cranio, facendolo piegare in due con un guaito acuto. Le sue mani corsero a premere forte sul punto contuso. Nel movimento il suo gomito sinistro urtò la pila di tomi in equilibrio precario sul bordo del tavolino, facendoli rovinare a terra in uno svolazzare di appunti e immagini di organi interni.
-Merde.­- il ragazzo cercò di respirare, gli occhi stretti per trattenere le lacrime. Indietreggiò, incespicando contro la sedia e cercando a tentoni la cinghia del marsupio che aveva appeso allo schienale. Quando la trovò e riuscì ad infilarsi il borsello su una spalla, il dolore della botta si era ormai ridotto ad un pulsare sordo in cima alla testa. Un bernoccolo, niente di più. Eugene si passò la manica del maglione sugli occhi e si fece largo in mezzo al macello di scartoffie che circondava la scrivania, puntando verso la porta.
-MEDICO!- stavolta riconobbe nel grido la voce familiare di una ragazza. Era Vadoma che stava urlando.
-Arrivo, Doma, arrivo!- scese le scale due gradini alla volta, la mano aggrappata alla ringhiera per non aggiungere una gamba rotta agli incidenti di quel giorno.
Irruppe nel chiostro antistante la biblioteca saltando di netto la siepe che lo recintava.
-Eccomi, sono qui, ci sono. Dov’è il ferito?
Vadoma si tolse le mani che aveva tenuto ad imbuto attorno alla bocca.
-Alla buon’ora.- lo apostrofò, incrociando le braccia sopra il petto scarno. La linea delle sue clavicole, evidente sotto la pelle scura, emergeva elegantemente dallo scollo a v del maglione bianco, i capelli acconciati in treccine le scendevano sulla schiena come una cascata e gli occhi chiarissimi, orlati dalle lunghe ciglia vellutate, lo squadravano da capo a piedi con aria seccata.
Non sembrava affatto in pericolo di vita.
-Non c’è nessun ferito.- lo informò in tono sbrigativo –Non riuscivo a svegliarti.
Intorno a loro la luce grigia di un’alba nuvolosa rischiarava le colonne di marmo bianco di uno dei chiostri del college di Nuova Roma. Siepi folte, potate al millimetro, incorniciavano le file di statue che avrebbero tra qualche ora accolto il passaggio degli studenti. A novembre inoltrato le lezioni avevano luogo a pieno ritmo per tutta la giornata.
Eugene sbatté gli occhi e fissò incredulo l’amica.
-Come?
-Non ti svegliavi, Gene. Ti ho scosso per venti minuti, ti ho chiamato, ti ho pure tirato uno schiaffo. Tutto quello che hai fatto tu è stato chiedermi altri cinque minuti.
L’adrenalina evaporò dal cuore di Eugene così in fretta da fargli girare la testa. Dietro di lei restarono solo le ossa indolenzite dalla nottata scomoda, la bocca secca e un sensazione di stanchezza estrema e allucinante, che il risveglio rocambolesco aveva solo peggiorato. Il ragazzo si premette una mano sulla fronte e cercò di controllare il fiatone. Faceva un freddo del diavolo e la gola gli bruciava già.
-E...E tu perché diable non mi hai lasciato stare?
-Perché dovevi svegliarti.- ripeté Vadoma, con il tono di chi dichiara un’ovvietà. Siccome l’espressione di Eugene rimase perfettamente uguale, la ragazza alzò gli occhi spazientita –Per la miseria, Gene, me l’hai chiesto tu! Hai la convocazione straordinaria per i Brumalia, te lo sei dimenticato?
-La convo...- la realizzazione investì Eugene con la forza di un treno. Sgranò gli occhi. Dannazione, era vero. E non poteva assolutamente mancare -Che ore sono?
-Le sette e venti. Hai dieci minuti.
Il ragazzo abbassò lo sguardo sui propri vestiti e gli venne voglia di piangere. I jeans, già lisi e sformati quando Francis glieli aveva passati, sfoggiavano una gigantesca macchia di caffè poco lontano dal cavallo, il maglione era infeltrito, impolverato e pieno di pallini di lana. Si passò una mano fra i capelli e quando la ritirò trovò fra le dita una ragnatela raggrumata.
Vadoma mollò un sospiro e la sua postura si addolcì un po’.
-Sei stato sveglio a studiare di nuovo in quello stanzino, eh?
Eugene si pulì la mano nell’interno del maglione. Si coprì la faccia con le mani e prese un respiro profondo. Poi sollevò il viso, stringendo le labbra con determinazione, e raddrizzò la schiena.
-Devo andare.- le rispose soltanto, sistemandosi la cinghia del marsupio sulla spalla.
Uscì di corsa dal chiostro proprio mentre Pranjal vi entrava. Il medico indiano si scostò dal suo tragitto appena in tempo per non venire urtato.
-Eugene! Dove vai?- gli gridò dietro. Ma il ragazzo era ormai sparito nei vialetti del college. Allora spostò lo sguardo su Vadoma.
-Qualcuno si è fatto male? Ero in laboratorio e ho sentito gridare per un medico.
La ragazza scosse il capo, senza avere nemmeno la decenza di offrire delle scuse.
-No, signore. Falso allarme.
-Che ci fai qui?
-Non sono di turno da nessuna parte.
-Non volevo accusarti. Intendevo dire che non ci sono lezioni. Le hanno sospese per le celebrazioni di oggi.
La ragazza si infilò le mani in tasca e alzò le spalle. Pranjal la scrutò ancora per qualche secondo, in silenzio.
-Sei venuta a tirare fuori Gene dalla biblioteca, vero?
-Me lo chiede da ufficiale medico?
-No, solo da fratello preoccupato.
La ragazza spostò il peso da un piede all’altro e sbatté lentamente le ciglia. Il suo sguardo magnetico era impenetrabile.
-Beh, io non sono la babysitter di Gene.- ribatté. Pranjal sospirò rassegnato. Le indicò il cancello con un gesto della mano.
-Vai.
Vadoma si allontanò con comodo, ancheggiando negli stretti jeans scuri e scuotendo la sua criniera di capelli. Il medico aspettò che il cortile fosse deserto, poi alzò lo sguardo alla finestrella del secondo piano da cui filtrava la luce di una lampada da scrivania. Le sue labbra si piegarono appena in un sorriso un po’ stanco. Scuotendo la testa, superò la siepe e salì a risistemare la stanza.
 
-La quarta coorte si occupa ogni anno del servizio d’ordine durante la celebrazione dei Brumalia, e da quando sono centurione non ci sono mai stati incidenti gravi.- Massimiano sporse orgogliosamente il petto in avanti, marciando fre le due file di legionari sull’attenti in mezzo all’arena –Vediamo di preservare anche quest’anno il nostro ottimo risultato. Come vedete la giornata è nuvolosa ed è probabile che pioverà. Questo vuol dire scale scivolose, possibilità di fulmini, visibilità ridotta e calca durante i cortei. Perciò è fondamentale che i nostri medici siano ben reattivi e pronti a far fronte a...Delaune, mi stai ascoltando?!
Il ragazzo in questione aprì gli occhi di soprassalto. La testa che gli ciondolava sul petto venne subito rialzata e in un lampo Eugene Delaune era sull’attenti come tutti gli altri commilitoni.
-Sì, signore!
Beh, quasi come tutti gli altri commilitoni. C’erano ancora un paio di dettagli che distinguevano il ragazzo dai legionari che lo affiancavano. Massimiano fece scorrere uno sguardo strabiliato sulla sua figura, registrando l’aspetto stravolto dei suoi capelli, le occhiaie che sembravano ripassate con un evidenziatore nero, le labbra illividite dal freddo mattutino - che il ragazzo affrontava con indosso solo un vecchio maglione - la gigantesca macchia scura sulla gamba dei suoi jeans e...ma era un buco quello in cima alla sua scarpa?
-Sei passato attraverso un uragano, stanotte, Delaune?
Il ragazzo ebbe almeno la buona grazia di avvampare come un pomodoro.
-No, signore.
-E allora?
-Avevo-avevo una ricerca da terminare per il corso di anatomia e mi sono addormentato in biblioteca.
Un paio di legionari si scambiarono occhiatine complici. Si udì il tintinnio di qualche moneta passata di mano in mano. Massimiano storse le labbra. Se fosse stato chiunque altro dei suoi soldati a presentarglisi in quelle condizioni e con una scusa del genere, gli avrebbe assegnato la pulizia delle latrine fino al nuovo anno. Ma gli ottimi voti di Eugene Delaune erano sotto gli occhi di tutti, al campo, così come il suo impegno instancabile. Il centurione si sarebbe sentito crudele ad infierire troppo sul ragazzo.
-Beh, fila a renderti presentabile.- borbottò -Sarai addetto al primo soccorso, oggi, per questa mancanza.- esitò e gli gettò un’altra occhiata –Pensi di farcela?
Il ragazzo sembrò seriamente riflettere sulla domanda per una frazione di secondo. Ma il dubbio gli passò non appena posò gli occhi sull’espressione accigliata del centurione.
-Sì, signore, certo.
-Bene. Allora levati di torno. Ti rivoglio qui fra un quarto d’ora esatto, quando ci muoveremo per raggiungere le postazioni.- e poi, quando Eugene fece un saluto affrettato e iniziò ad andarsene, aggiunse –E prenditi un caffè, per l’amor del cielo!
Tra i legionari serpeggiarono un paio di risatine.
-Centurione, se Doc si prende un altro caffè gli esplode il cuore.- sghignazzò qualcuno. Massimiano si voltò e li fulminò con occhi che mandavano fiamme.
-Silenzio, insubordinati! O insieme alle primizie, alle capre e ai maiali oggi farò sacrificare anche voi!
 
Si era preparato in tempo record, rinunciando alla doccia calda che aveva desiderato da quando aveva aperto gli occhi in favore di gettarsi in faccia l’acqua del rubinetto e strofinarsi il torso con una spugna per i piatti. Il dormitorio della quarta coorte iniziava in quel momento a svegliarsi e per fortuna qualcuno dei suoi compagni aveva avuto la bontà d’animo – o la pietà – di preparargli una tazza del caffè di cicoria che aveva sul proprio scaffale. Eugene l’aveva bevuto tutto d’un fiato, scottandosi la lingua e rabbrividendo per la scarica di lucidità che la bevanda gli aveva mandato al cervello. Poi si era infilato i jeans e duecento strati di vestiti, aveva completato il tutto con il giaccone viola e oro dei legionari in servizio, e si era fiondato nell’arena appena i tempo per unirsi alla colonna di soldati in marcia verso i Giardini di Bacco.
Vadoma sgattaiolò a cercarlo lassù, qualche minuto prima dell’inizio dei cortei danzanti che si sarebbero protratti per tutta la giornata. Eugene la vide arrampicarsi su per una delle ripide gradinate in pietra che facevano capolino fra i viticci di glicine e si alzò dalla sua sedia sotto la tenda del pronto soccorso. La ragazza non gli lasciò il tempo di salutarla.
-Tieni.- disse, riempiendogli le tasche del giaccone di caramelline alla propoli –Fa troppo freddo per un fiorellino della Louisiana come te. Se ti pigli pure il mal di gola, mi tocca sul serio prenotarti un cubicolo al cimitero.
Eugene non ebbe cuore di dirle che ormai era troppo tardi. Ogni volta che respirava nell’aria fredda sentiva la laringe raschiare.
-Merci.- gracchiò. La ragazza alzò la testa e lo fissò.
-Mi prendi per il culo?
Eugene allargò le braccia con fare rassegnato.
-Sembri un rospo catarroso.
-Anche io ti voglio bene, cherie.
La ragazza gettò un’occhiata ai due legionari che chiacchieravano dietro le spalle di Eugene e poi allungò svelta una mano, rubando la sciarpa d’ordinanza che uno dei due aveva appoggiato sul tavolino accanto al disinfettante e ai pacchi di garza.
-Ecco.- borbottò, avvolgendogliela stretta attorno al collo –Se quel coglione te lo chiede, la sciarpa viene dalla mia divisa e non hai visto che fine ha fatto la sua. E adesso tieni gli occhietti ben aperti e stai fuori dai guai, che domani ti voglio bello pronto per allenarti con me.- si interruppe –Ce l’hai fatta a trovare tempo senza doverti ammazzare?
-Ma certo, Doma.
-Tu dici ‘ma certo’ e io sento ‘voglio morire’.
-Se vuoi ti controllo i timpani.
-Ehi, bellezza, in questa amicizia sono io che controllo te, non il contrario.- la ragazza lo pungolò con l’indice sul petto –Se voglio un dottore, vado in ospedale. Limitati a essere il mio amico caffeinomane e petulante, grazie.
Eugene le mostrò un largo sorriso sopra il bordo viola e oro della sciarpa.
-Oh, mamour, come sei dolce. Mi sa che sto per abbracciarti.
-Col cazzo.- la ragazza indietreggiò immediatamente e girò sui tacchi –Me ne torno da Jordan. Vedi di non ammazzare nessuno per sbaglio.
-Non sono mica te.
-Oh, lo so.- la ragazza si voltò un’ultima volta dalla sua parte, prima di imboccare la stretta gradinata di pietra che portava giù. I suoi occhi cristallini lampeggiarono divertiti -Io ammazzerei di proposito.
 
Quando la bambina scivolò sulla pelle di capra, Eugene stava guardando proprio da quella parte e schizzò fuori dalla tenda prima ancora che il suo gruppetto di amici facesse in tempo a mettersi a strillare.
-Fatemi passare, fatemi passare.- si fece largo tra la gente che affollava il viale, scambiandosi tazze di vino e abbracci e augurandosi a vicenda di ‘vivere annos’.
-Dottore.- il gruppetto di cinque o sei bambini si spalancò subito per lasciargli raggiungere la loro amica, che era seduta sulla pietra con le calzamaglie sporche di fango e si teneva un polso con la mano opposta. I suoi occhioni marroni erano lucidi di lacrime e le sue labbra tremavano.
-Mi fa male.- si lamentò.
Eugene si inginocchiò accanto a lei e posò a terra la valigetta con il kit di primo soccorso.
-Non preoccuparti. Sono certo che non è niente di grave.- la consolò in tono tranquillo, sfilandosi rapidamente i guanti. Rigirò la manica della ragazzina e fece scorrere i polpastrelli dal dorso della sua mano fino all’avambraccio, cercando traccia di una frattura. Seppe di averla trovata quando la piccola mandò un gridolino acuto.
-Shh, va tutto bene, coraggio. Sei bravissima.- le tenne il braccio sollevato con una mano e con l’altra aprì la valigetta, tirando fuori una stecca e un rotolo di garza –Dov’è la tua mamma? Il papà?
-A vedere i sacrifici. Una delle capre l’abbiamo cucita io e papà.- la piccola tirò su col naso e sgranò gli occhi spaventata quando vide le forbici che Eugene si era appoggiato in grembo –Oddio, oddio, mi vuoi tagliare il braccio?
-Le taglia il braccio! Le taglia il braccio!- le fecero immediatamente eco i suoi amici, a metà fra inorriditi ed eccitati. Eugene li zittì alzando un sopracciglio.
-Non taglierò nessun braccio. Le forbici mi servono per la garza.- dichiarò. Sorrise alla bambina e si cercò in tasca un fazzoletto per asciugarle le lacrime –Su, non avere paura. Lo so che fa un po’ male, ma ti sei soltanto rotta il polso. Ora te lo stecco e poi mandiamo qualcuno a cercare i tuoi genitori, d’accordo?
Lei annuì un paio di volte, in fretta.
-Voi altri tornate dalle vostre famiglie, per favore.- aggiunse il ragazzo, guardando gli altri. Ma nessuno dei piccoli si mosse.
-Non sappiamo dove sono. Eravamo scappati perché volevamo saltare sulle pelli e se no non ce lo lasciavano fare.- una bimba dalle trecce nere si morse l’interno della guancia con aria colpevole, guardando Eugene da sotto in su –Abbiamo pensato che prima o poi ci avrebbero trovati.
Eugene dovette concentrarsi per trattenere un sorriso, ricordando quante volte anche lui era fuggito dalle cure di sua mamma per fare i tuffi dai rami degli alberi insieme ai suoi amici o ingozzarsi di beignets.
-Restate tutti qui, allora. Manderò qualcuno a cercare anche loro.- sospirò.
Dovette sfilare alla bambina la manica della giacca per riuscire ad avvolgerle il braccio con la garza. Non appena ebbe finito gliela drappeggiò stretta intorno alle spalle, chiudendo il bottoncino sotto il mento per farla stare al caldo.
-Ecco fatto, è tutto a posto. Come ti chiami, piccola?
-Tiana.
-Come la principessa e il ranocchio?
-Sì!- gli occhi della bimba luccicarono. Il ragazzo infilò una mano nella valigetta e tirò fuori un pacco di cerottini colorati.
-Allora ho qualcosa per te.- disse, scegliendone uno su cui spiccava la gonna azzurra della principessa Disney.
-Anche io ne voglio uno!- gli altri bambini si accalcarono, premendogli contro le spalle e allungando le manine –Anche io! Ce l’hai del Re Leone?
Eugene li lasciò dividersi tutto il pacchetto, contento di essere riuscito a tirargli su il morale.
-Va bene, bambini. Ora andiamo a sederci da una parte, d’accordo? Qui altrimenti ci calpestano. Posso prenderti in braccio, Tiana?
La bimba gli tese la mano sana a mo’ di risposta. Eugene la tirò su e iniziò a farsi strada tra la folla, facendo cenno agli altri bambini di seguirlo verso la tenda medica.
-La prossima volta che saltate sulle pelli, state più attenti.- li rimproverò, ma con poca convinzione. Cadere e farsi male era nella natura dei bambini, e lo spavento che si erano presi sarebbe bastato e avanzato a fargli imparare la lezione.
-Sì, signor dottore.- gli rispose un coretto di vocine.
-Mi chiamo Eugene.
-Sì, Eugene.
I due soldati che occupavano il presidio medico insieme a lui non furono molto entusiasti di dover frugare tra la folla basandosi sulle indicazioni iperboliche del gruppetto di bimbi (‘mio padre è alto come Atlante!’’mia mamma ha i capelli più neri della gola di Cerbero!’). Eugene si rassegnò ad una lunga attesa prima che tutti fossero riconsegnati alle rispettive famiglia. Per fortuna, la compagnia dei bambini non gli dispiaceva.
Mise Tiana seduta con le gambe a penzoloni sul tavolo, le fece mangiare uno scacchetto di ambrosia e poi si accomodò sulla sedia lì accanto.
-Allora, chi vuole sentire la storia di Beauregard Thibodeaux e il rougarou?
 
Più tardi, mentre sulla strada maestra i sacerdoti continuavano a bere, ballare e saltare sulle pelli sintetiche, Pranjal afferrò una tazza di terracotta dal banchetto di un ambulante e si infilò in uno dei sentierini secondari che portavano alla terrazza panoramica dei Giardini di Bacco.
Trovò Eugene accanto al parapetto di pietra, intento a schiacciare sotto la punta della scarpa un mozzicone di sigaretta.
-Ciao, Gene.
Il ragazzo alzò lo sguardo.
-Ehi, Pranjal.- sorrise –Che c’è? Ti serve qualcosa?
-Nah. Venivo a vedere come sta il mio fratellino preferito.- lo affiancò –La tua amica mi ha detto che eri da queste parti. Fai una pausa?
-Sì, è un momento di calma. Vuoi dire, Doma?
-Mm-m. È una strana tipa, eh? Stamattina voleva mangiarmi solo perché le ho chiesto cosa ci facessi in università, e ora è venuta lei a cercarmi per dirmi di darti un’occhiata. Dice che ti è venuto il mal di gola e che non è sicura che tu non abbia la polmonite.
-Pf.- vide Eugene alzare gli occhi al cielo e mollare un sospiro. La condensa che uscì dalle sue labbra livide era bianca come il cappello di lana che aveva in testa, candido e con una croce rossa al centro, che lo contrassegnava come medico in servizio. Anche il suo viso era ugualmente pallido, con il naso appuntito arrossato dal freddo che spuntava sopra il bavero di una sciarpa viola –Quella ragazza. Vuole essere presa per una dura e fa la mère poule.
Pranjal inarcò un sopracciglio, ma poi decise di non indagare. Eugene veniva da un qualche bayou della Louisiana, dove si parlava francese, si incontravano alligatori attraversando la strada e a carnevale si inseguivano galline vive. Pranjal aveva imparato che a volte era meglio non chiedere di cosa stesse parlando.
-Non sembri in fin di vita, in effetti.- scrollò le spalle e gli tese la tazza -Comunque, ti ho portato questo.
Eugene la osservò sospettosamente.
-Che cos’è?
-Vino caldo al miele.
-Mi fai bere in servizio?
-Guardami in faccia e dimmi che non ne hai bisogno.
Eugene sollevò lo sguardo su di lui, ma non riuscì a negare l’evidenza. Gli prese la tazza di mano, lanciò un’occhiata circospetta ai dintorni e se la portò alle labbra. I suoi occhi si chiusero mentre beveva il primo sorso, il vapore tiepido del vino che gli riscaldava il viso.
-Grazie.- disse, riemergendo –Hai ragione, mi ci voleva.
-Come sta andando?
-Bene. Fa freddo e ho finito le sigarette, ma non ci sono state molte emergenze. Solo una bambina che è scivolata e si è rotta un polso e un vecchio legionario che la folla ha spinto a terra. Galliano, lo conosci? Era centurione della terza vent’anni fa, mi ha detto.
-Galliano? Ma certo. Come sta?
-Lui, benissimo. L’emergenza non era per lui, ma per il figlio di Vulcano che lo aveva spintonato. Galliano gli ha rotto il naso con una testata.- Scoppiò a ridere convulsamente, premendosi un guanto contro la bocca –Avresti dovuto vedere la faccia di quel poveretto! Mon Dieu, non è molto bello ridere di lui, vero? Ma era così sorpreso che il suo naso si fosse rotto!
Pranjal sorrise bonariamente e gli calcò meglio il cappello con la croce rossa sulla testa.
-I figli di Vulcano si credono fatti di ferro.
-Allora Galliano è fatto di titanio.
-Non lo escludo. Alla sua età ha ancora le arterie come quelle di un quarantenne.
Un rumore di passi affrettati dietro l’angolo fu tutto il preavviso che ebbero prima che Massimiano sbucasse di gran carriera sulla terrazza.
-Delaune, insomma, quanto dura questa...cosa accidenti stai bevendo?
Eugene si immobilizzò con la tazza di vino fra le mani, sgranando gli occhi per il terrore come un cervo preso nei fari. Pranjal gli mise una mano sul braccio.
-La tazza è mia, Massimiano.- disse con calma, squadrando serenamente il centurione –Gene me l’ha tenuta mentre mi allacciavo la scarpa. Scusa se gli ho fatto perdere tempo, te lo restituisco subito.
La faccia arcigna del centurione diceva che non si era affatto bevuto la bugia. Ma non aveva prove per contestarla.
-Fila sulla via principale, un ragazzino si è storto la caviglia.- abbaiò a Eugene, che mollò la tazza fra le mani di Pranjal e corse via come una freccia.
-Dagli un po’ di tregua, Massimiano.- sospirò Pranjal –Il ragazzo si ammazza di lavoro.
-Fa il suo dovere, com’è giusto.- il centurione si aggiustò il mantello d’ordinanza e gli scoccò un’occhiataccia.
-Oh, andiamo. Fa ben più del suo dovere.
–Questo non mi riguarda. Io ho il compito di tenerlo in riga e verificare che faccia la sua parte. E, a merito di Delaune, lui non mi ha mai chiesto un trattamento di favore.
Pranjal si irrigidì e strinse le labbra, cogliendo la frecciatina.
-Nemmeno io te lo stavo chiedendo. Dicevo soltanto-
Il centurione lo interruppe con un gesto della mano.
-Buon per te.- sentenziò in tono conclusivo –So che Eugene è il tuo fratello più giovane. Ma è un adulto e un legionario. Se becco di nuovo lui o te a bere in servizio, vi sbatto a spazzare le stalle con uno spazzolino.
Pranjal pensò che era una fortuna che Eugene fosse andato via, perché, stanco com’era, non sarebbe riuscito a trattenersi dal ridere di fronte a quella minaccia. E l’espressione di Massimiano non era quella di uno che avrebbe gradito particolamente la cosa.
-Va bene, Massimiano.- rispose –Serve per caso il mio aiuto, alle postazioni del pronto soccorso?
-La quarta se la sta cavando benissimo.- il centurione gli scoccò un’ultimo sguardo storto –Goditi la festa, dottore.
-Buon lavoro.
Massimiano svoltò l’angolo senza rispondere.

La sala comune dei medici era deserta a quell’ora della notte, ma, per qualche motivo, la luce era accesa. Entrando, Pranjal storse il naso per quell’inutile spreco di energia. Come se i divani, la macchinetta del caffè e la libreria carica di tomi di medicina potessero avere paura del buio.
Si tolse la giacca e recuperò da uno degli scaffali la rivista medica che era venuto a consultare. Uno dei suoi ex-professori del college gli aveva fatto sapere di un articolo interessante che era uscito sull’ultimo numero. Pranjal era stato occupato tutto il giorno con i preparativi e la celebrazione dei Brumalia, ma ci teneva a leggerselo prima di incontrare ancora il vecchio dottore, il giorno seguente.
Si avvicinò ad uno dei divani, iniziando a sfogliare le pagine alla ricerca del brano che gli interessava. Stava per sedersi quando buttò casualmente l’occhio sui cuscini e sussultò.
Eugene era rannicchiato in posizione fetale in un angolo del divano, profondamente addormentato. Il fiato gli sfuggiva dalle labbra semichiuse in un lieve gorgoglio. Si era cambiato dalla divisa che aveva tenuto per tutto il giorno e indossava un vecchio paio di calzoni di velluto marrone e un maglione dai disegni geometrici, dal cui scollo sbucava il collo alto di una maglia nera.
-Per il serpente di papà.- il medico si prese la radice del naso fra il pollice e l’indice e soffocò un gemito di esasperazione. Ma era possibile che suo fratello non riuscisse a mettersi a dormire in un letto?
Si chinò su di lui e gli scosse una spalla.
-Eugene. Ehi, su, in piedi.
Eugene sussultò come se gli avesse dato la scossa. Si tirò su e lo guardò con gli occhi spalancati e vagamente persi. Pranjal inarcò un sopracciglio.
-Stavi dormendo? Anche qui?
-No.- la risposta arrivò troppo veloce. Il medico indiano scosse la testa e si lasciò sfuggire una risata incredula.
-Ma perché non te ne vai ai dormitori, una buona volta? È davvero così scomoda la tua branda?- scherzò. Il nervosismo di Gene parve sciogliersi un po’ di fronte alla battuta.
-È che ho il turno in reparto, domattina.- spiegò, strofinandosi gli occhi -Se dormo qui risparmio sul tempo si spostamento e guadagno mezz’ora di sonno.
-Il turno delle sei?- Pranjal aggrottò la fronte -No, ci dev’essere un errore. Dovresti essere esonerato se sei stato convocato per i Brumalia.
-Sì, ero stato spostato al turno di pomeriggio. Ma ho promesso a Vadoma che mi sarei allenato con lei e lei può soltato domani alle quattro, perciò ho fatto a cambio con un medico del turno di mattina.
-Ma non ti reggi in piedi!
Eugene piegò la testa, valutando. Si premette le mani sulle ginocchia e si spinse su, alzandosi e stiracchiandosi un po’. Spostò il peso da un piede all’altro.
-Nah.- rispose alla fine, voltandosi verso il fratellastro con un ghigno –Ce la faccio ancora per un po’.
Pranjal lo spintonò leggermente su una spalla.
-Scemo.
-Moi?- Gene si posò una mano sul petto, fingendo un’aria sorpresa –Mais no. Io sono solo un povero studente di medicina, cher. Cerchiamo tutti di sopravvivere alla specialistica, non è quello l’obiettivo?
-Di solito si sacrifica la vita sociale, prima di cadere a terra morti.- puntualizzò Pranjal.
-Vadoma non è la mia vita sociale. È mia amica.
Il medico indiano si infilò le mani nelle tasche e lo guardò con simpatia, la rivista stretta sotto il braccio. Non c’era niente da fare. Anche nei momenti in cui lo esasperava di più, Eugene riusciva ad uscirsene con frasi che facevano ricordare a Pranjal perché, fra tutti i suoi fratellastri lì al campo, fosse lui il suo preferito. Non era soltanto perché erano vicini quanto ad età e avevano in comune più cose rispetto ai loro fratelli più grandi. Era la sua semplicità d’animo che lo conquistava ogni volta. Eugene non era come gli altri figli di Esculapio, a cui la medicina interessava soprattutto per la curiosità di scoprire nuove cure o l’arroganza di farsi un nome con la propria bravura. A Eugene interessavano le persone.
-Te lo faccio io il turno.- propose -Conosco le infermiere del mattino, non diranno niente. Firmerò a tuo nome e nessuno si accorgerà che sono andato al posto tuo.
Ma era la cosa sbagliata da dire. Eugene, la cui postura si era progressivamente rilassata durante la conversazione, sollevò il mento di scatto.
-No, Pranjal. Ti ringrazio, ma non ce n’è bisogno.
-Lo faccio volentieri.- insisté Pranjal –Andiamo, Gene. È chiaro che sei esausto.
-Sono stanco.- ammise Eugene –Ma non significa che non possa fare il mio dovere.
-E io non sto cercando di impedirtelo. Ma se ti lasci aiutare, solo per questa volta, poi potrai farlo meglio.
-È una mia responsabilità.- negò di nuovo Eugene, scuotendo testardamente il capo –E se succede qualcosa? Se un paziente si sente male?
-Sei uno specializzando, non il loro medico curante.
-Se sbagli una diagnosi?
-Non ti fidi di me?
Eugene sbuffò.
-Certo che mi fido di te. Ma di sbagliare capita a tutti. E io non posso, in coscienza, farti prendere il mio posto.
-Fratellino...
-Pranjal. Puoi insistere quanto vuoi. Non te lo lascerò fare.
Il medico indiano gettò le mani in aria in un gesto di resa e si lasciò cadere sul divano.
-Sei veramente cocciuto come un mulo da soma.
Un piccolo soriso ricomparve sulle labbra di Eugene. Il ragazzo si sedette accanto al fratello e si tirò le gambe al petto, circondandole con le braccia e rannicchiandosi fra i cuscini del divano.
-Merci.- rispose, sbadigliando.
-Mmf.
Restarono per una manciata di secondi in un silenzio tranquillo, lasciando la fatica della giornata scivolare via dalle ossa. Pranjal pensò che Eugene si fosse riaddormentato di nuovo, ma quando voltò la testa dalla sua parte trovò gli occhi scurissimi del ragazzo che lo fissavano con attenzione.
-Posso farti una domanda?- chiese Eugene.
-Spara.
-Perché ci tieni così tanto a badare a me? Lo hai fatto per tutto il giorno.
-Sembravi più stanco del solito. E poi anche Vadoma era preoccupata, perché lo chiedi a me?
-Doma fa così con tutti i suoi amici, si impiccia e vuole tenerci sotto la sua ala. Ma tu non ti preoccupi così per gli altri nostri fratelli. Però non sei...- si interruppe, cercando le parole giuste –Non...non voglio offenderti, Pranjal. Io ti stimo davvero tanto, ti voglio bene, e sono fiero che abbiamo lo stesso padre. Ma tu non sei...non sei davvero la mia famiglia. Capisci cosa intendo? Ti conosco solo da quando sono arrivato al Campo. Non hai il dovere di pensare a me.
Pranjal non poté impedirsi di sentire un pungolo di delusione a quelle parole. Nemmeno per lui Eugene era ‘famiglia’ nel senso in cui lo erano sua madre e le sue sorelle, a casa nel New Jersey, ma negli anni quel ragazzo magro della Louisiana, dall’accento marcato e il viso serio, aveva finito per guadagnarsi un posto molto vicino al loro, nel suo cuore. Tuttavia, sotto lo sguardo teso di Eugene, che lo guardava come se temesse di averlo offeso mortalmente, il medico abbozzò un sorriso.
-Tu pensi ai tuoi pazienti solo per dovere?
-No.
-Nemmeno io.
Il ragazzo ridacchiò nervosamente.
-Vuoi dire che mi consideri un paziente?
-Voglio dire che siamo simili.- Pranjal allungò una mano e gli tirò indietro i capelli. Eugene chiuse brevemente gli occhi sotto quella specie di carezza, come se volesse godersela senza essere visto –Mi preoccupo per te perché so cosa vuol dire avere il desiderio di spendersi per gli altri. E so che può portare a mettere da parte noi stessi troppo a lungo. Io ho imparato questa lezione a mie spese, e probabilmente prima o poi dovrai farlo anche tu. Quando succederà, voglio essere accanto a te per aiutarti a rimetterti in piedi.
Quando lo guardò di nuovo, il viso di Eugene era serio.
-Grazie.- disse il ragazzo, con sincerità disarmante –Grazie, Pranjal. Anche io sono contento che tu ci sia.
Il medico gli strinse le dita sull’avambraccio, senza rispondere niente. Non c’era bisogno di aggiungere altro.
-Vieni qui.- disse alla fine con un sospiro, facendo segno a Eugene di mettersi comodo contro le sue gambe –Stenditi, almeno. Ero venuto qui per studiare in santa pace un nuovo articolo sul glioblastoma. Posso leggertelo ad alta voce per un po’, finché non ti addormenti. Questo me lo lasci fare?
Eugene si mise giù con un sogghigno, posando la testa sulla sua gamba e seppellendosi fra i cuscini con la delicatezza di un uragano estivo. Pranjal gli gettò addosso una coperta di pile che trovò drappeggiata sul bracciolo del divano.
-Narrami, o Musa, del tumore multiforme...
-Ah, e così sono la tua musa?
-Beh, non ancora, visto che non ti sento narrare.
-Ehi, specializzando, rispetta i superiori.- ma a dispetto di quelle parole, la mano che posò sul capo del ragazzo era gentile. Eugene lo sentì e si rilassò contro di lui, rannicchiandosi con un sospiro soddisfatto nella sua coperta. Pranjal aprì la rivista con l’altra mano e tenne il segno con il dito.
-In quanto forma di tumore cerebrale più frequente negli adulti, il glioblastoma...








Note dell’Autrice
Ciao a tutti!
Data la scarsa adesione e il fatto che scrivere one-shot è divertente, ho trasformato questa cosa in una raccolta di one-shot ambientate al Campo Giove! I personaggi saranno OC, anche se l'universo è quello di Rick Riordan!

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Prompt #Vadoma Myrcall ***




Prompt #Vadoma

[Campo Giove, settembre]
  • Labbra insanguinate
  • Un braccialetto d’oro
  • Un difetto incorreggibile
 
La giornata di Vadoma non stava andando bene.
Stava andando divinamente. Il sole splendeva a piena forza in una delle ultime belle giornate prima del freddo, gli uccelli cantavano sopra i tetti dei dormitori e Vadoma era appena riuscita a farsi assegnare un’intera settimana di riposo come ricompensa per il successo della sua ultima impresa.
La ragazza trotterellò fuori dal cortile del principio, stringendo le cinghie dello zaino che aveva sulle spalle. I capelli foltissimi le pesavano sulla schiena, sfiorandole le spalle con un tocco simile alla seta. Erano venuti particolarmente lucidi e puliti, considerato il sangue di Empusa che li aveva ricoperti fino alla sera prima. Chissà se il sangue di mostro aveva qualche proprietà idratante sconosciuta? Avrebbe senza dubbio fatto meglio a riprovare.
Incapace di trattenere l’allegria, Vadoma fece una piroetta.
E fu lì che le cose iniziarono a precipitare. La prima fu il povero succo alla pesca della ragazza bionda a cui la figlia di Laverna finì addosso. Lo sfortunato bricchetto volò in aria e atterrò proprio sul top bianco di Vadoma, inondandolo con il proprio contenuto.
Vadoma si immobilizzò, la bocca spalancata e la braccia allargate, mentre il liquido appiccicoso le colava sulla pancia, minacciando di infilarsi fino alle mutande.
Zlata Nowak, la figlia di Nemesi contro cui era andata a sbattere, balzò indietro e sbottò una rumorosa imprecazione.
-Cazzo! Quella era la mia colazione!
Vadoma alzò gli occhi su di lei, incredula.
-Scusami?
La faccia lentigginosa della ragazza era contratta per l’irritazione.
-Già, fai bene a scusarti. Era anche un succo biologico, accidenti a te.
La figlia di Laverna si lasciò sfuggire una risatina isterica.
-Oh, mi dispiace tanto!- sbraitò acida, cercando di tamponarsi la maglietta con le mani –Beh, questa invece era la mia maglietta, se non te ne fossi accorta!
Zlata gonfiò le guance.
-Se tu avessi guardato dove andavi, avrei fatto in tempo a scansarmi! E comunque, figurati se qualcuno noterà la differenza. Ti vesti così da puttana, Myrcall, che difficilmente una maglietta bagnata ti creerà problemi.
La ragazza ci mise un attimo a credere a quello che aveva appena sentito. Quando si rese conto che Zlata non stava scherzando, il sangue le andò alla testa. La afferrò per le spalle e la spintonò.
-Prova a ripeterlo!
La figlia di Nemesi non si disturbò a mostrarsi spaventata. Riprese l’equilibrio e si sistemò i capelli.
-Ho detto che sei una puttana.- sentenziò chiaro e forte, chinandosi a raccogliere il sacchetto di cibo che le era caduto insieme al succo –Altrimenti detta troia. Altrimenti detta...
Bloccò con un braccio lo schiaffo che la ragazza mollò nella sua direzione. Sogghignò, dietro il polso alzato a coprirsi la faccia. I pendagli dei mille braccialetti che vi portava allacciati tintinnarono come una gioielleria ambulante.
-Vuoi davvero venire alle mani con me in mezzo a tutto il campo di addestramento?
Vadoma le lasciò andare il polso e cercò di riprendere il controllo. No, non voleva. Per odiosa che fosse, Zlata non le sarebbe costata la sua meritata settimana di libertà. Tuttavia, tirò un calcio al bricchetto vuoto di succo davanti ai suoi piedi e lo mandò a rotolare al margine della strada, contro il marciapiede lastricato.
-Va’ a riprendertelo, se ci tieni tanto all’ambiente.- sbottò. Zlata le lanciò uno sguardo d’odio, prima di darle le spalle e andare a raccogliere la confezione.
Vadoma aspettò che fosse sparita dietro l’angolo. Poi aprì la mano con cui le aveva stretto il polso. Un braccialetto d’oro zecchino scintillò nel suo palmo. La ragazza sorrise fra sé.
-Ben ti sta, stronza.- mormorò. Poi si infilò il gioiello al braccio ed estrasse il cellulare, digitando il numero dell’unica persona che avrebbe saputo come farle sbollire la rabbia.
 
Raggiunse Thomas nel sottotetto del dormitorio, che la terza coorte usava come ripostiglio – nel senso meno letterale e più ambiguo del termine, visto che le uniche cose che ingombravano la stanzetta erano un materasso matrimoniale sotto l’abbaino rotondo e un comodino pieno di sigarette e preservativi. Il figlio di Venere la stava già aspettando sul materasso scalcagnato, sdraiato con un braccio dietro la testa di ricci castani, indorati dal sole. Quando la vide emergere dalla botola sul pavimento, si mise seduto con un largo sorriso.
-Ehi.- la salutò –A cosa devo la chiamata d’urgenza? Non che mi stia lamentando, sia chiaro...
Vadoma non lo degnò di uno sguardo. Si tolse lo zaino dalle spalle e lo gettò a terra.
-E se non ti stai lamentando, allora stai zitto.
-Carina la maglietta. Nuovo stile?
La ragazza se la sfilò dalla testa con un ringhio, rimanendo in reggiseno. La gettò dall’altra parte della stanza, rabbiosamente.
-‘Fanculo a questa dannata cosa!
-Whoa.- Thomas sollevò le mani all’altezza del petto –Calma, tigre. Che ti hanno fatto, si può sapere? Ti hanno colpita con un teaser?
-Una stronza mi ha dato della puttana.- Vadoma strinse la mascella e si piantò le unghie nei palmi, gli occhi che guizzavano di rabbia al ricordo -Io non sono una puttana. Pensi che sia una puttana?
Thomas piegò la testa e arricciò il naso, stranito dalla domanda.
-Direi di no. Almeno non più di quanto lo sono io, visto che andiamo a letto insieme.- rispose però senza esitazione -E, onestamente, non ho mai capito il senso dell’insulto. Una puttana è una donna che si fa pagare per fare sesso, giusto? Domanda e offerta, è una legge di mercato. Se io dovessi insultare qualcuno, sarebbero piuttosto quei fessi arrapati che la pagano. È come spendere dieci dollari per un caffè da Starbucks, quando puoi fartelo a casa.
Era un commento insensato e assolutamente fuori tema, ma Vadoma si rilassò un po’. Thomas tendeva a farle quell’effetto e, accidenti a lui, lo sapeva. Infatti la ragazza si era appena chinata a raccogliere la maglietta lurida che lo sentì alzarsi e avvicinarsi a lei da dietro. Il ragazzo la afferrò per i fianchi e la scosse piano di qua e di là.
–Dai, non fare il muso. Me lo dici che ti è successo?
Lei sbuffò forte dal naso.
-Tieni a posto quelle mani, o te le taglio.- avvertì –Non sono cazzi tuoi.
-D’accordo.- ma dal tono del ragazzo Vadoma ebbe l’impressione che sorridesse. Infatti le mani di Thomas, invece di allontanarsi, scivolarono ad agganciarsi ai passanti anteriori dei jeans della ragazza. Simultaneamente un paio di labbra calde le posarono un bacio all’attaccatura del collo –E se il posto delle mie mani è addosso a te?
Vadoma registrò il cambio di atmosfera sulla pelle. Un brivido le scivolò giù per la schiena a partire dal punto che il ragazzo stava ora sfiorando con la punta del naso. Thomas se ne accorse e strinse di più la presa sui jeans della ragazza, facendo salire una mano per premerle il palmo aperto sulla pancia e baciandole la mandibola. A quanto pareva aveva deciso di cambiare tattica per tirarle su il morale, pensò Vadoma. Finalmente. Se avesse voluto uno psicanalista, sarebbe andata a cercare Olivia.
-E come fai ad essere così certo che lo sia?
-Vuoi che le sposti?- le dita del ragazzo giocherellarono con la zip dei suoi pantaloni. Lei fece appello al proprio autocontrollo per non rispondere immediatamente come le sarebbe venuto istintivo. Invece finse di pensarci su.
-No, per il momento no.
Thomas mugolò compiaciuto contro il suo collo e la tirò indietro verso il materasso.
-E allora, ecco come.
 
Mezz’ora più tardi, mentre giacevano entrambi tra le coperte sfatte, cercando di riprendere fiato, Thomas si voltò verso di lei premendosi una mano sulla spalla.
-Mi hai morso.- la accusò, con un lampo di divertimento ad animargli gli occhi azzurri. Spostò la mano e le mostrò il segno rosso di una fila di denti che spiccava sulla sua pelle abbronzata –Hai davvero dei denti da lupo.
Vadoma ghignò.
-Sì, ne vado abbastanza fiera. Stavo pensando di farmeli ricoprire d’oro, sai, come i cantanti trap.- arricciò le labbra, scoprendo gli incisivi e i canini. Thomas scoppiò a ridere.
-Ti prego, prima uccidimi.
-Oh, perché, non mi starebbero bene?
Il ragazzo rotolò dalla sua parte e si alzò su un gomito, sovrastandola con il suo viso. Le sfiorò le labbra con l’indice.
-I tuoi denti mi piacciono così.- commentò –Sono...molto bianchi.
-Papino mi ha insegnato a lavarli per bene, così poi brillano al buio.- la ragazza completò la frase mordendogli giocosamente il polpastrello. Thomas sorrise e si chinò a baciarla.
-Al buio non lo so. Ma di sicuro brillano quando sorridi. È bello da vedere.
-Mm.- Vadoma si allungò pigramente, socchiudendo le palpebre in quel modo che aveva sempre visto fare al suo gatto Quasimodo, a casa. Fece scorrere le braccia attorno al collo di Thomas e lo tirò giù di nuovo verso la propria bocca –Diventi sdolcinato dopo aver fatto sesso.
-Ah.- il ragazzo puntellò i gomiti ai lati della sua testa, tirandole un po’ i capelli e guadagnandosi in risposta un paio di graffi sul retro del collo –È una cosa brutta?
La ragazza inarcò un sopracciglio, con eloquenza.
-È una cosa che di solito non permetto a quelli che mi scopo.- puntualizzò, in tono secco. Poi gli toccò la punta del naso con un dito –Ma tu sei abbastanza carino e non mi hai ancora stancato. Continua pure, se ti diverte.
Un’ombra sembrò attraversare gli occhi di Tomas. Ma fu solo una frazione di secondo, e svanì così in fretta da far pensare a Vadoma di essersela immaginata.
-Allora non placcarti i denti.- la punzecchiò il figlio di Venere, facendole il solletico con il naso nell’incavo del collo –Non potrò più guardarti in faccia senza ridere, se lo fai. Riderò così tanto che non riuscirò nemmeno a scoparti.
-Gravissimo.- sentenziò la ragazza solennemente, anche se l’effetto fu rovinato dalla risatina che non riuscì a trattenere quando Thomas le soffiò contro la guancia come si fa con i bambini. Gli prese la testa fra le mani e lo spinse via, alzandosi a sedere –Peccato però. Placcati d’oro si sarebbero intonati a questo.
Gli mostrò il braccialetto dorato che aveva al polso. Sotto la luce della tarda mattinata, che filtrava dalle tapparelle semi-abbassate, l’oro mandava riflessi liquidi, come se fosse vivo. Ma quando Thomas si sporse per vedere meglio, aggrottò la fronte.
-L’ho già visto.- disse -Non è...- si interruppe –Doma, ma è il braccialetto di Zlata Nowak.
Vadoma sbuffò scettica e ritirò il braccio, serrando una mano attorno al gioiello.
-Ah sì? Io credo che sia mio.
-Gliel’hai rubato?
-Solo perché sono figlia di Laverna hai già deciso che devo averlo rubato?
-Non l’ho già deciso. Te lo sto chiedendo. Ti crederò, se dici di no.- gli occhi azzurri di Thomas sembravano sinceri. Vadoma dovette distogliere i suoi per non addolcirsi troppo.
-Okay, l’ho rubato.- ammise, di malavoglia –Ma lei mi ha rovesciato addosso un succo alla pesca e mi ha pure insultata. Se lo meritava.
Thomas si sedette sui talloni. Il lenzuolo gli scivolò giù dalle spalle, scoprendo la pelle liscia e brunita dal sole e la forma tornita dei muscoli.
-Sembra prezioso.- osservò. Il suo viso era teso, a disagio, come se stesse cercando le parole giuste per dire qualcosa di poco gradito –E credo che lei ci tenga molto. Lo porta sempre.
Vadoma sentì una sensazione acuminata pungolarle lo stomaco. Si irrigidì e strinse gli occhi in due fessure.
-Devi averla guardata parecchio per saperlo.
-Beh, è nella mia coorte.- Thomas tentò di rispondere con calma, anche se, dal modo in cui il suo sguardo guizzò, era chiaro che avesse colto l’accusa implicita –Abbiamo fatto qualche turno di guardia insieme, è simpatica.
-È pure simpatica?
Lui fece una smorfia infastidita.
-Sì, lo è.- replicò, con più decisione –E penso che dovresti ridarle il suo braccialetto. E comunque non capisco cos’hai da essere gelosa. Non ho detto che Zlata è meglio di te, e anche se fosse, noi due non scopiamo e basta?
La ragazza lo fissò per un lungo istante, immobile. Poi balzò in piedi e iniziò ad infilarsi le mutande e i jeans.
-Doma, ma dai!- Thomas si tirò su con un gemito frustrato. Allungò un braccio per toccarla, ma Vadoma gli schiaffeggiò via la mano.
-Levati dal cazzo.
-Ma perché fai così? Sei stata tu a dirlo!- dovette intuire che era l’approccio sbagliato, perché subito aggiunse –Okay, ascolta, mi dispiace. Vieni qui, per favore? Ne parliamo?
-Non c’è niente di cui parlare, è chiarissimo come la pensi.- la ragazza afferrò una camicia verde dal pavimento e se la infilò –Alla prossima, allora. E non disturbarti mai più a farmi complimenti.
-Quella è la mia camicia!
La ragazza agguantò lo zaino e gli mostrò il medio, marciando fuori.
-Vaffanculo, Doma!- lo sentì gridarle dietro, prima di sbattersi la porta alle spalle.
 
-E te ne sei andata così?
Vadoma storse la bocca.
-Che avrei dovuto fare, scusarmi?
Olivia inarcò un sopracciglio ben disegnato e inclinò la testa da una parte, in una chiarissima risposta. Vadoma la guardò storto.
-Prima regola delle scopamicizie. Non si dice grazie, non si chiede scusa.
Olivia non commentò. Raccolse la forchetta da un lato del piatto e riprese a rimestare nell’insalata che aveva davanti, alla ricerca dei pezzi di pollo. Li infilzava con mano rapida e li deponeva da parte, per mangiarseli alla fine. Vadoma la lasciò proseguire nella sua caccia, rifiutandosi di dire qualcos’altro e darle un appiglio per iniziare una ramanzina. Invece si perse ad osservare i dintorni.
Lei e Olivia si erano sedute per pranzare ai tavolini esterni della caffetteria del college, che dava proprio sul chiostro principale dell’università. Un ombrellone bianco le riparava dal sole splendente e consentiva loro di osservare, dall’ombra, il via vai ininterrotto di studenti che affollava la strada, perfino a quell’ora. Alcuni sparivano dentro i cancelli dell’università, la meta di molti invece era proprio la caffetteria, e superavano le due ragazze per entrare all’interno, dove un cameriere dai capelli neri si affannava a trovare posto a tutti.
Si era quasi dimenticata della conversazione, quando Olivia parlò di nuovo.
-Mi dispiace che abbiate litigato. Ma non raccontarmi più di Thomas, per favore.- le disse. Il suo tono era tranquillo, ma c’era un velo di stanchezza sul grigio chiaro dei suoi occhi. Vadoma corrugò la fronte.
-E perché?
-Perché è mio amico da quando eravamo piccoli, e quando te l’ho fatto conoscere non avevo previsto che andasse a finire così.
-Non ti sta bene che facciamo sesso?
-Non mi piace come lo tratti. Ma siete entrambi adulti e vaccinati, perciò non sono affari miei.- Olivia scrollò le spalle –Senti, non è una questione di stato. Io e te siamo diverse in molte cose, e questa è una. Puoi smettere di confidarti con me sulle cose che riguardano Tomi? Così evitiamo di litigare.
Non era una richiesta del tutto in attesa. Vadoma lo aveva intuito già da un po’ che Olivia era a disagio con la faccenda di Thomas. Se non aveva già smesso di parlarne con lei era per la pura, semplice ed egoistica ragione che non c’erano molte altre persone con cui potesse farlo. Jordan non era il tipo da stare a sentire discorsi sulle sue relazioni, Gene non ne aveva il tempo, e Camilla, con il suo scarso interesse per ogni tipo di pettegolezzo, non le dava abbastanza soddisfazione.
Si sporse sui gomiti e le sorrise, innocente.
-È che lo faccio perché ci tengo molto alla tua opinione.
Olivia la fissò con l’aria di non esserci minimamente cascata.
-Fai la ruffiana, sul serio?
-No! Ci tengo davvero.
La ragazza sbuffò, irritata.
-Sei davvero incredibile.
-Perché? È così strano che mi importi del parere della mia migliore amica?
-Doma.- Olivia piantò i palmi sul tavolo. La sua voce era controllata come al solito, ma la sua mascella era serrata. Stavolta sembrava che ne avesse avuto abbastanza –Puoi evitare di pensare solo a te stessa, per una volta? Non voglio che mi racconti di Thomas. Mi fa stare male. E sai perché mi fa stare male? Perché a te del mio parere non frega un accidente, e ti comporti da stronza totale con lui anche se io cerco da un secolo di farti capire che è innamorato di te.
Le sue parole volarono secche ed affilate come coltelli. Vadoma le sentì piantarsi dentro di sé esattamente nei punti giusti, con la precisione dei colpi di un cecchino. E all’improvviso, anche se era stata lei ad insistere e spingere Olivia fino a quel punto, le sembrò di essere sotto attacco.
-Non è vero.- dichiarò, ritirandosi immediatamente sulla difensiva.
-È vero e lo sai.- ribadì Olivia. Ma il suo cipiglio duro si era già allentato –Non voglio dire che te ne faccio una colpa. Non sono la madre di Thomas né la sua guardia del corpo e non sta a me giudicare come voi due gestite i vostri rapporti. Però smettila di rigirare il coltello nella piaga, d’accordo?
Vadoma avvampò.
-Confidarmi con un’amica sarebbe rigirare il coltello nella piaga?- sbottò –Perché non ci provi tu a fare meno l’egoista? Questo per me era un problema serio!
Olivia la fissò incredula.
-Un problema serio?- ripeté lentamente –Quale parte? Che il ragazzo che tratti come un cagnolino non si sia rotolato ai tuoi piedi scoprendo la pancia? Che ti abbia detto di fare la cosa giusta riportando un braccialetto rubato? Oppure che abbia rivolto uno sguardo ad una ragazza che non sei tu? Se anche solo uno di questi tre è un problema serio, forse non sono io l’egoista, Doma.
La figlia di Laverna balzò in piedi. Sentiva il sangue pulsarle nelle orecchie per la rabbia.
-Ritiralo!- ringhiò, minacciandola con un dito.
Olivia non si scompose, se non per un sorriso amaro.
-Non credo proprio. Volevi il mio parere, no? Ecco, questo è il mio parere.- si alzò a sua volta e si tolse una banconota dalla tasca dei jeans, incastrandola sotto il piatto ancora mezzo pieno -Mi è passata la fame. Ci vediamo in giro, quando ti accorgerai che ho ragione.
Tirò su da terra il suo zainetto di cuoio e se ne andò camminando in fretta. A Vadoma parve di vederla asciugarsi la faccia con la manica, prima che il turbinio di studenti la inghiottisse.
Dai tavoli vicini, la gente che aveva seguito di sottecchi la scena abbassò di nuovo la testa sul proprio pranzo. Vadoma guardò l’insalata di Olivia, con i pezzi di pollo tristemente accatastati da un lato e abbandonati lì.
Che giornata di merda, pensò.
 
Eugene la trovò qualche ora dopo nella palestra del college, mentre tirava pugni al sacco da boxe come se volesse sfondarlo.
-Doma? Stai bene?- si avvicinò cautamente –Olivia mi ha detto che avete...
Vadoma aveva il fiatone e la vista annebbiata per la fatica. Era tutto il pomeriggio che si allenava, tentando di stancare la rabbia che aveva dentro abbastanza da riprenderne il controllo, e non ci stava riuscendo. Al sentire il nome della ragazza, vide rosso.
Si voltò e sferrò un diretto dritto al mento dell’amico.
A suo merito, Eugene non cadde. Il pugno gli strappò un grido spezzato e lo mandò a incespicare scoordinatamente all’indietro, tenendosi la faccia con una mano. Una delle sua spalle urtò la parete e il ragazzo vi si appoggiò con tutto il peso, sbattendo intontito le palpebre.
Vadoma si immobilizzò all’istante.
-Cazzo.- sibilò, sgranando gli occhi per l’orrore. Si strappò via i guantoni e corse al suo fianco –Eugene? Cristo, mi- togli le mani, ehi, andiamo, fammi vedere.
-N-non è niente.- il ragazzo scostò la mano con cui si stava tamponando il labbro inferiore. L’angolo della sua bocca sanguinava, scalfito dai denti. Eugene se lo asciugò con le dita, macchiandole di rosso vivo. Si spinse via dal muro e indietreggiò di un paio di passi, evitando di incrociare il suo sguardo. Vadoma gli andò dietro, sentendosi una merda delle dimensioni di Cerbero.
-Scusami, davvero, è che- è solo che è una giornata terrificante e-e lo sai come...come io...- balbettò, la gola che si serrava sempre di più man mano che il senso di colpa cresceva. Tentò di sfiorargli un braccio, ma Eugene si ritrasse.
-Sì, lo so come tu.- replicò, il tono brusco e venato di sarcasmo –Era per questo che ero venuto, volevo evitare che ti facessi del male da sola. Beh...obiettivo raggiunto, n’est pas?
Lei smise di tallonarlo e alzò le mani aperte, lo sguardo supplichevole.
-Mi dispiace. Mi dispiace, non so cosa mi è preso.
-Ti ho detto che non è niente, falla finita.- ma, nonostante a parole sembrasse non essersela presa, il modo deciso in cui le diede le spalle segnalò con chiarezza che Eugene aveva bisogno di un time-out per calmarsi –Sono in infermeria, se hai bisogno di me. Solo, prima...prima vedi di sbollire un po’.
Con questo infilò la porta e se ne andò, lasciandola da sola nella palestra vuota.
Vadoma si infilò le dita nei capelli intrecciati e chiuse gli occhi. Strinse fino a farsi dolere il cuoio capelluto, e soltanto quando le sembrò che la pelle stesse per staccarsi dal cranio lasciò andare la presa, con un ringhio animalesco di frustrazione. Non poteva crederci. Prima Thomas, poi Olivia, ed ora era riuscita perfino a farsi piantare in asso da Gene – per il quale piantare in asso qualcuno era in pratica l’equivalente di urlargli in faccia e prenderlo a calci. E lei se l’era decisamente meritato. Ma cosa accidenti le stava capitando?
Quando riaprì gli occhi, esausta, la prima cosa che vide fu un brillio dorato sopra lo zaino che aveva gettato sulla panca di legno all’angolo. Le sue sopracciglia si sollevarono mentre la risposta alla sua domanda le si delineava chiarissima nel cervello.
Agguantò il braccialetto e lo zaino, si gettò la camicia di Thomas sopra il reggiseno sportivo e si precipitò fuori dalla palestra.
 
Trovò Zlata in riva al Piccolo Tevere, su un praticello in mezzo ai pioppi neri che sovrastavano la riva scoscesa. Teneva un blocco da disegno sulle gambe incrociate e schizzava con una matita i contorni di qualcosa sull’altra sponda. La vide arrivare con la coda dell’occhio e alzò la testa, i capelli biondi che sembravano rossi sotto la luce del tramonto. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma Vadoma la precedette.
Le lanciò il braccialetto accanto. L’oro scintillò come un serpente, rimbalzando sull’erba soffice. Zlata lo fissò per un istante. Poi arricciò le labbra in un sorriso beffardo.
-Lo sapevo che eri stata tu.
-Già, già.- Vadoma agitò una mano con ironia -I figli di Laverna, quella banda di ladri.
-Sì, è più o meno quello che ho pensato.
-E poi ti chiedi perché ti considerano una stronza fascista.
Zlata non commentò se non con una scrollata di spalle. Si allungò e raccolse il braccialetto da terra, osservandolo contro la luce morente del sole. Vadoma aspettò che se lo fosse legato al polso. Quando la vide sistemarlo fra il resto della sua chincaglieria, accarezzandolo dolcemente con l’indice, parlò di nuovo.
-E ora ritira la tua cazzo di maledizione.
Zlata alzò la testa. Sbatté gli occhi e poi li strinse, come se stesse cercando di decifrare un geroglifico.
-Quale maledizione?
-Non fare la finta tonta.
-Non lo sto facendo.
-Evidentemente allora non hai nemmeno bisogno di fingere.- Vadoma gettò le mani in alto in un gesto stizzito –La tua maledizione, Nowak, quella che mi sta facendo litigare con tutti i miei amici. Cos’è, una delle vendette moraliste di voi figli di Nemesi?
Zlata esitò per un attimo, la sorpresa evidente sul suo volto. Poi scoppiò in una risata cattiva.
-Chi è che spara giudizi, adesso?- la sfotté –Io non ho fatto un bel niente.
-Vuoi farmi credere che la giornata di merda che ho appena avuto non c’entra niente con quello che ho fatto a te?
La ragazza ridacchiò.
-No, no. Certo che c’entra. Ma non è a me che devi rivolgerti. È a mia madre.- sollevò il polso e lo scosse, facendo tintinnare il bracciale –Questo è un suo regalo.
Il fiato sfuggì dai polmoni di Vadoma. Il cuore le sprofondò come se l’avessero legato ad una pietra e gettato nell’Oceano. Per tutti gli dei dell’Olimpo, aveva fatto incazzare Nemesi in persona? Oh, porca troia.
-Mi prendi per il culo?- ringhiò in direzione di Zlata, indietreggiando di un passo come per allontanarsi da quella terribile possibilità. Ma già mentre lo diceva, seppe che non era così. Non importava quanto potesse sperare il contrario.
-Temo di no.- replicò infatti Zlata –È la verità.
La ragazza si prese la testa fra le mani e si strinse i capelli. Per la fame e la miseria, no. Questa era l’ultima, dannata cosa che aveva avuto in mente quando aveva rubato quello stupido bracciale.
Beh...non che avesse pensato molto, in effetti. Aveva solo voluto dare una lezione a quella stronza, e non aveva minimamente riflettuto sulle conseguenze.
Lasciò andare i propri capelli e si avvicinò a Zlata.
-Cosa devo fare per far cessare la sua punizione?- sbottò -Dannazione, devi dirmelo. Mi sta rovinando la vita.
Zlata chiuse il blocco da disegno e si alzò in piedi per fronteggiarla. Se la stava chiaramente godendo un mondo e le guance lentigginose erano increspate in un ghigno che non accennava a diminuire. E Vadoma non poteva nemmeno detestarla per questo: al suo posto, si sarebbe comportata esattamente nello stesso modo.
-Come sei drammatica!- commentò, spazzolandosi con calma i pantaloni –Che saranno mai un paio di litigate? Ti è così difficile chiedere scusa?
-Se ho addosso una maledizione non servirà ad un accidente!
-Ma è proprio qui che viene il bello.- la figlia di Nemesi incrociò le braccia –Pensi che mia madre sia una deucola qualunque che lancia giù fulmini dal cielo non appena qualcuno la contraria?
Vadoma si coprì subito la testa con le mani, di riflesso. Sapeva di parecchia gente che era stata fulminata da Giove per molto meno, e per un attimo si chiese se farla morire incenerita insieme a quella piccola stronza di Zlata non fosse il piano di Nemesi, dopotutto. Ma il cielo rimase sereno. La ragazza si raddrizzò con gli occhi sgranati e li posò su Zlata. Ma chi cazzo era quella ragazza?
Lei scrollò le spalle.
-Perfino il re degli dei sa che non è saggio toccare noi di Nemesi.- sentenziò –E sai perché? Mia madre non punisce, Myrcall. Mia madre riequilibra. Fa girare la ruota del mondo e ti restituisce pan per focaccia. Se la tua natura è buona, meglio per te. Ma se sei arrogante, suscettibile e orgoglioso, lei ti darà ciò che ti sei meritato.
-Ma perché proprio i miei amici?- insisté Vadoma  –Io ti ho solo preso un braccialetto, forse te l’avrei anche ridato. Farmi litigare con tutti loro è venti volte peggio!
-Ma non l’ha fatto lei. L’hai fatto tu. - Zlata si infilò le mani in tasca –Lei si è solo limitata a fornirti l’occasione. Scommetto che tutto è iniziato quando hai provato a vantarti del mio braccialetto.
Vadoma ammutolì, per non darle la soddisfazione di avere indovinato. Ma a giudicare dalla sua espressione tronfia, Zlata se ne rese conto lo stesso.
-Vedi?- incalzò –Mia madre può anche essersela presa con te, ma non è lei ad avere colpa della tua giornata di merda. Hai fatto tutto completamente da sola. Sei tu quella da biasimare.
Vadoma reagì a quelle parole muovendo un passo avanti, minacciosa.
-Ehi, resta nel tuo, stronza.
Zlata si limitò a darle le spalle.
-Come ti pare, Myrcall.- commentò annoiata, infilando il blocco da disegno in una borsa colorata di tela che aveva a tracolla -Tieni solo presente che non sono l’unica stronza qui.
Iniziò ad allontanarsi lungo la sponda, la borsa colorata che le dondolava lungo il fianco. Vadoma gemette. Si premette il viso fra le mani per calmarsi, ma non funzionò.
-Aspetta.- la richiamò allora –Va bene, hai ragione, okay? Sono stata una stronza. Ma come faccio adesso a rimediare?
La figlia di Nemesi si voltò di tre quarti. La squadrò con un’occhiata vagamente sorpresa.
-Beh, c’è un modo solo, no? Hai sbagliato. Chiedi scusa.
-E se non basta?
-Magari basta. Immagino che, se sono tuoi amici, saranno persone pazienti.
La ragazza incrociò le braccia e se le strinse al petto, fissando il terreno.
-È che è...è umiliante.
Zlata non rispose niente per un bel po’. Vadoma vedeva le sue scarpe da tennis immobili sul prato. Si chiese perché cazzo glielo avesse detto, e quando la ragazza l’avrebbe sfottuta adesso. Ma alla fine, quando Zlata mollò un sospiro e si avvicinò di nuovo, non fu una presa in giro quella che le uscì dalla bocca.
-Il braccialetto che mi hai rubato apparteneva ad una ragazza che era con me nella squadra di arrampicata della mia vecchia scuola. Era più brava di me e me lo faceva pesare. Un giorno, mentre assicuravo la corda all’imbragatura, si mise a dirmi che ero troppo lenta a fare i nodi, che sarebbe diventata vecchia prima che io avessi finito, e cose del genere. Io finii di assicurarla troppo in fretta e lei, presa dalla sua arroganza, non controllò quello che avevo fatto prima di iniziare a scalare.- fece una pausa –Cadde e si spezzò la spina dorsale. Ora è in sedia a rotelle.
Vadoma si irrigidì. Attese che Zlata continuasse, ma la ragazza non lo fece.
-E cosa c’entra il bracciale?
Lei scrollò le spalle.
-Io sapevo che il nodo non era fatto bene. Ne ero certa. Ma se l’avessi detto avrei dimostrato a quella ragazza che aveva ragione a darmi dell’incapace. Siccome mi sono rifiutata di umiliarmi allora, adesso mi tocca convivere con il senso di colpa. Mi toccherà per tutta la vita.- sollevò il braccio, la mano stretta a pugno. In mezzo agli altri bracciali, l’oro brillava cupamente –Equilibrio. Mia madre ha provveduto che non me ne dimenticassi.
Si voltò e se ne andò, camminando tranquilla sul sentiero fiancheggiato dai pioppi.
 
Vadoma tornò verso i quartieri dove alloggiavano le coorti strascicando i piedi con aria mesta. Sarebbe stato davvero molto difficile e sgradevole scusarsi con tutti e una parte di lei sperava di arrivare il più tardi possibile. Ma la storia che Zlata le aveva raccontato, per terribile che fosse, l’aveva colpita. Era grata almeno che lei, al contrario della figlia di Nemesi, avesse ancora tempo per rimediare ai suoi sbagli. E se scusarsi era il punto di partenza per non portarsi dietro il rimpianto, beh...un’umiliazione per un perdono sembrava abbastanza equilibrato.
Passò per prima cosa al dormitorio della terza coorte, ma Thomas, le dissero, era uscito. Vadoma ci rimase male e fu sul punto di scoraggiarsi. Alla fine, però, si cacciò le mani in tasca, strinse forte i pugni e marciò verso l’infermeria.
Eugene, in jeans e, stranamente data l’aria fresca della sera, maglietta a maniche corte, stava facendo l’inventario dell’armadio bianco nel suo piccolo ambulatorio, una stanzetta minuscola con un lettino, un bagno chiuso da una porta scorrevole e le pareti decorate con foto e biglietti di ringraziamento. Vadoma bussò e, quando il ragazzo alzò la testa, si appoggiò allo stipite, torcendosi le mani.
Ci fu un istante di silenzio. La ragazza non riusciva ad iniziare a parlare.
-Ehi, Doma.- alla fine fu Eugene a farlo per primo. Mise giù la bottiglia di disinfettante che aveva in mano e si avvicinò, con un sorriso incerto. Aveva la bocca un po’ gonfia, ma a parte questo non c’erano altri segni del cazzotto che si era preso –Sono contento di vederti. Va...un po’ meglio?
Lei annuì.
-Il labbro?- chiese.
-Oh, tutto a posto.- lui lo toccò con il dito –Ha già smesso di sanguinare. Non ci è nemmeno voluta dell’ambrosia.
-Meglio così.- la ragazza esitò, cercando le parole giuste. Alla fine strinse i pugni e lo disse e basta –Eugene, mi dispiace. Sono venuta per chiederti scusa.
Il ragazzo aggrottò la fronte in una comica espressione di sorpresa.
-Scusa, come?
-Hai sentito bene.- Vadoma fece una smorfia e distolse lo sguardo –Vadoma Myrcall oggi chiede scusa. E in verità avrei...dovuto farlo anche altre volte, credo. Mi hai lasciato passare parecchie cose da quando ci conosciamo. Ma per oggi, in particolare...mi dispiace. Sia per averti tirato un pugno che per aver cercato di giustificarmi. Anche se ero di malumore, colpire un amico non è accettabile.
Eugene sbatté gli occhi. Era chiaro che il discorso lo avesse spiazzato e che non sapesse bene come reagire. Vadoma avvampò e abbassò la testa, vergognandosi che fosse così strano sentirla scusarsi.
-Grazie.- Eugene si riebbe dallo stupore e la sua bocca si aprì in un largo sorriso -Sono fiero di te. Anche se ti avevo già perdonato.
-Davvero?
-Ma certo.- il ragazzo le toccò una spalla, confortante –Sei la mia migliore amica. Ci vuole altro che un pugno in faccia per farmelo dimenticare.- tossicchiò –Ma per caso pensavi di, ehm, scusarti anche con Olivia? Per la vostra litigata?
Le spalle di Vadoma crollarono.
-Dici, se accetterà mai di rivedermi? Sì. Ho sbagliato a fare la stronza.- borbottò –Lei è stata gentile a cercare di dirmi come si sentiva, invece di arrabbiarsi subito. Non le parlerò più di Thomas, se non vuole. Ma ho intenzione di...di chiarire le cose anche con lui, perciò...
-Sei proprio una reginetta del dramma.
Vadoma si voltò di scatto. La porta scorrevole del bagno si era spalancata Olivia era in piedi sulla soglia. Aveva gli occhi arrossati e la felpa di Gene addosso.
-Era un po’ triste.- spiegò Eugene. Le guardava con un sorriso così grande che minacciava di sfuggirgli dalla faccia –È venuta a tenermi compagnia.
Olivia tirò su col naso.
-Certo che ti voglio rivedere, scema.- sentenziò –Non sei mica così in gamba da cacciarmi via. E poi anche a me dispiace di aver perso la pazienza.
-Quindi siamo...siamo a posto?- Vadoma sgranò gli occhi –Facile così?
Invece di rispondere, Olivia attraversò la stanza e le gettò le braccia al collo, abbracciandola stretta. Vadoma ci mise un attimo a reciprocare, incredula.
-Non siamo a posto.- bofonchiò Olivia contro la sua spalla -Voglio vedere se ce la fai a mantenere quello che prometti. Ma siamo ancora amiche.
La lasciò andare e poi storse il naso, gettandole un’occhiata.
-Per gli dei, però devi farti una doccia. Puzzi come il cassonetto di una palestra.
Vadoma non riuscì a trattenersi dallo scoppiare a ridere istericamente, troppo felice per fare altro.
-E tutto è bene quello che finisce bene.- sentenziò Eugene, allegramente. Poi sembrò ricordarsi di qualcosa –Oh, ehi, a pensarci però non è ancora proprio finita.
Si diresse verso l’armadietto in fondo alla stanza e recuperò qualcosa dallo scaffale più alto con un piccolo saltello. Era una scatolina rivestita di imbottitura verde, come quelle che contenevano gioielli.
-Thomas è passato poco fa e ha lasciato questo per te.- disse, tendendogliela. Vadoma lo prese con entrambe le mani, incuriosita.
-Che cos’è?
-Non lo so. Non l’ho aperto.- Eugene le mostrò un sorriso furbo –Non volevo che mi tirassi un altro pugno.
Vadoma alzò gli occhi al cielo e gli assestò una leggera spallata, facendo sghignazzare Olivia.
-Dai, aprilo.-  la incoraggiò la ragazza –Voglio vedere se è un anello.
-La scatola è troppo grande.- l’amica la guardò storto -E Thomas sa benissimo che perderebbe le palle se solo provasse a regalarmi un anello.
-Ah sì? Ultimamente mi pareva che ci tenessi abbastanza alle sue palle.
La ragazza ignorò la frecciata e aprì il coperchio a conchiglia della scatoletta.
Dentro c’era un braccialetto.
Era molto diverso da quello che aveva rubato a Zlata. Invece che d’oro era fatto di piccole perline di un bianco splendente, forse di alabastro, tenute insieme da una fine cordicella nera. Un gancetto di bronzo completava il tutto.
Vadoma lo tirò fuori e se lo rigirò tra le dita, ammirando il modo in cui le pietre sembravano diventare traslucide quando la luce della lampada le colpiva.
-C’est très beau.- commentò Eugene, sollevando un angolo della bocca in un sorriso.
-Uh?
-Ho detto che è molto carino.
-C’è un biglietto.- notò Olivia, indicandole il bordo della scatola, da cui spuntava un post-it giallo ripiegato. Vadoma lo tirò fuori e tutti e tre si chinarono insieme per leggere la calligrafia minuta.
“Mi dispiace per averti mandata affanculo. Che ne dici di restituire il bracciale a Zlata e tenere questo? So che non è prezioso come l’altro, ma starebbe meglio con i tuoi denti – Thomas”.
-I tuoi denti?- Olivia si tirò indietro, storcendo il naso –Pff. Quel ragazzo è un vero stramboide.
-Non più di te, Livi.- la punzecchiò Eugene –Chi è che usa ancora la parola ‘stramboide’?
-Tu non puoi proprio dirmi niente! Non è più assurdo dei tuoi impronunciabili termini medici.
-Oh, come...dacriocistotomia? Aciltransferasi?
-Ti prego, Eugene, risparmiami.
Vadoma li lasciò battibeccare senza ascoltarli davvero. Sfiorò con un dito le perline bianche del bracciale, incantata, e sentì un’ondata di calore invaderle il petto, fin quasi a farle salire le lacrime. Thomas aveva davvero fatto questo per lei, dopo che lo aveva trattato in quel modo?
D’istinto posò da parte la scatola e si allacciò il bracciale al polso, rigirando la manica della camicia perché non lo coprisse.
Eugene e Olivia interruppero la loro discussione e i loro sguardi si concentrarono immediatamente su quel punto.
-Oh.- disse Gene.
-Oh-oh-oh.- gli fece eco Olivia, sogghignando. Vadoma alzò gli occhi al cielo.
-Chiudete il becco, voi due ficcanaso.- borbottò bonariamente. E poi corse via a cercare Thomas.





Note dell'autrice
Okay, okay, non sto aspettando i vostri prompt. Però mi sto divertendo un sacco. Mai scritto così tanto in così poco tempo.
Spero la one-shot vi sia piaciuta, e siete sempre i benvenuti se volete propormi un personaggio!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Prompt #Olivia LeJeune ***



PROMPT #Olivia

[Campo Giove, aprile]
  • Un paio di converse blu
  • Un abbraccio
  • Un gioco da tavolo

Accucciata a terra, Olivia guardò con il cuore in gola i piedi davanti ai suoi occhi muoversi avanti e indietro sulle assi del pavimento. Uno zaino sdrucito venne gettato in un angolo con un verso di sollievo. La ragazza restò immobile, cercando di respirare piano per fare meno rumore possibile.
I piedi fecero per dirigersi verso il bagno ma, in corrispondenza dell’attaccapanni sulla parete, si fermarono. Ancora un istante, e si voltarono verso il lettino.
Olivia nascose la testa fra le mani quando li sentì avvicinarsi. Lasciare la propria giacca in bella vista sull’attaccapanni era stata una pessima idea.
-Olivia?- da sopra il lettino, la voce morbida e calma di Gene chiamò il suo nome –Va tutto bene?
Lei tirò su con il naso.
-Sì?- pigolò. La consapevolezza di quanto ridicola dovesse sembrare la situazione le fece bruciare le guance come fuoco –Ero venuta per...pensavo che tu fossi fuori.
-Ti serviva un posto tranquillo?
-...Sì.
Il ragazzo si spostò a destra per deporre lo zaino contro la parete.
-Posso venire lì con te?
Olivia strizzò forte gli occhi, sentendo una nuova ondata di lacrime bollenti premerle dietro le palpebre.
-Sì, per favore.- le scappò detto, con un tono di supplica che l’avrebbe fatta morire di vergogna, se l’avesse sentita chiunque altro che Gene.
Il ragazzo non fece una piega. Dopo un istante Olivia lo sentì chinarsi e gattonarle accanto con un leggero sbuffare. Ancora un attimo, e due braccia ferme e gentili la avvolsero, tirandola con delicatezza contro un petto caldo. Il mento del ragazzo le si posò sulla testa, permettendole di nascondere il viso nell’incavo del suo collo, sul bavero del maglione. La sua barba le fece il solletico contro la fronte.
-Ehi, cherie.- il suo tono era dolce e basso come solo quello di Gene sapeva essere –Ehi. È tutto a posto, si risolverà tutto.
-Lo so.- Olivia gli si rannicchiò contro. Cercò di ricordarsi come aveva fatto a vivere per diciassette anni della sua vita senza conoscere Eugene Delaune, ma non gli venne in mente niente –Lo so, lo so che andrà tutto bene. De-devo solo...sono so-solo u-un po’...
-Un po’ triste, eh?- il ragazzo rise piano. Olivia avvertì la vibrazione contro la propria guancia –Okay, Livi. Non c’è problema. Puoi restare finché ti va.
-Tu...tu hai da fare?
-Non ti preoccupare di questo. Adesso voglio farti compagnia, se a te sta bene.
-…P-puoi raccontarmi una s-storia?
Eugene rise di nuovo. Quel suono così leggero e rassicurante stava facendo magie per sciogliere il nodo di ansia e paura che si era coagulato nella gola di Olivia e la ragazza, che aveva pronunciato quella richiesta in fretta, sentendosi quasi una criminale, lasciò andare il respiro che stava trattenendo.
-Ma certo, cherie. Vecchia o nuova?
-Nuova, se c-ce l’hai.
-Mm-m. Beh, c’è questo audiolibro che ho ascoltato da poco, si chiama Il visconte dimezzato. È divertente, senti un po’…
Olivia si asciugò il viso, si mise comoda contro di lui e ascoltò la sua voce tranquilla narrare delle vicissitudini del visconte Medardo di Terralba, del suo piccolo nipote e della furba contadina Pamela. Gene parlava con facilità, passando a tratti al suo francese strascicato quando percepiva che l’attenzione della ragazza diminuiva. Olivia ridacchiava e gli faceva il verso con un perfetto accento parigino, finché il ragazzo non riprendeva la storia in inglese, imitando le voci dei personaggi.
Per quando Eugene arrivò alla parte finale, il sole fuori era calato del tutto e la schiena di Olivia aveva smesso di contrarsi per i singhiozzi. Seduta fianco a fianco con l’amico, la testa appoggiata sulla sua spalla nella posizione in cui si erano sistemati a metà racconto, stette a sentire assorta della partenza per mare del dottor Trelawney.
-Avrebbe dovuto portare con sé il nipote del conte.- commentò, quando la storia fu terminata.
-Può darsi.
-Così quel ragazzino è rimasto completamente da solo. Tu non credi che sarebbe stato meglio?
Eugene alzò le spalle.
-È una storia, Livi. Noi possiamo solo ascoltare come va. Ma niente ti vieta di cambiare il finale nella tua testa.
-Penso che lo farò. Mi piace l’idea di un viaggio sull’oceano.
-Già, dev’essere niente male.- il ragazzo si stiracchiò con uno scricchiolio d’ossa ben poco rassicurante e poi nascose uno sbadiglio dietro il palmo della mano -Che ore si sono fatte?
Olivia si guardò l’orologio da polso.
-Sono le otto e mezza.
-Mm.- lui annuì, pensieroso. La ragazza lo guardò, intuendo cosa gli passasse per la testa.
-Qual è l’impegno urgentissimo che ti ho impedito di svolgere?- domandò, con divertimento misto a un certo senso di colpa.
Lui alzò gli occhi al cielo e le sorrise.
-Beh, avrei dovuto filtrare la tintura madre di achillea e dividerla in dosi. Ma non importa, lo farò stanotte.
-Perciò continui con il tuo spaccio clandestino di rimedi tradizionali?
-Non sono più pericolosi dei medicinali regolari, e funzionano meglio perché non curano solo i sintomi, ma agiscono su tutto il corpo.- lui fece spallucce –Ma, soprattutto, la metà delle ragazze di Nuova Roma continua a chiedermi la tintura contro la dismenorrea. E non ho assolutamente intenzione di inimicarmi una legione di donne in sindrome premestruale.
-Quindi cosa ti sei inventato, stavolta?
-Per non farmi sequestrare i barattoli li ho nascosti sotto le assi del pavimento e poi ci ho spinto sopra l’armadio, così la cavità non fa rumore quando ci si cammina.
Una risatina incredula sfuggì dalle labbra di Olivia – un po’ per l’assurdità della situazione, un po’ per l’espressione orgogliosa con cui Eugene le aveva comunicato quella trovata.
-Un vero genio del crimine.
-Il faut ce qu’il faut, cherie*.- l’amico ammiccò, marcando di proposito l’accento della Louisiana nel suo francese dialettale. Poi tornò serio -Puoi aiutarmi a tirarli fuori, se vuoi.
-Mi stai chiedendo di diventare tua complice?
-Solo se non ti crea problemi. So che ci tieni a non metterti dalla parte sbagliata delle regole.- quando la vide esitare, si allungò e le toccò il braccio, cercando di tirarla fuori dai suoi pensieri -Ehi, io non ti giudico, cherie. Non devi farlo, se non vuoi.
-Beh…in effetti, è un po’ fuori dalla mia zona di comfort.- la ragazza si aggiustò imbarazzata i polsini del maglione. Non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che parlare in quel modo fosse un po’ ridicolo. Ma gliel’aveva suggerito la psicologa, e la aiutava a farsi capire -Ma lo voglio fare.
-Ah sì?
-Ma sì. Non è niente di male.
-Ne sei proprio certa? È un passo importante. Vuoi davvero macchiare così la tua immacolata fedina penale? Compromettere la tua futura carriera tra i ranghi della legione? Tradire la gloria di Roma stessa?
Ad Olivia ci volle un attimo per capire che Eugene la stava prendendo in giro. Quando lo realizzò, sgranò gli occhi e gli assestò un pugno sulla spalla.
-Ehi, che fai, sfotti?
Lui rise, massaggiandosi il pugno colpito.
-Scusa, non ho resistito. Ma sono contento se mi aiuti. E poi sta’ tranquilla, non ci faremo beccare. Massimiano stasera è fuori servizio e Tracy, la figlia di Trivia che lo sostituisce, è una di quelle che compra la mia tintura. Allora, usciamo da qui?
Olivia annuì. Si mise in ginocchio e scivolò fuori da sotto il lettino. Alzarsi in piedi dopo tutto quel tempo là sotto le fece uno strano effetto, come se fosse stata Alice che usciva dallo specchio, o Wendy che tornava dall’Isola-che-non-c’è al pesante mondo degli adulti. Sospirò e scosse la testa, rassegnandosi: aveva passato l’età in cui le era concesso costruire fortini di cuscini e dormirci dentro finché le pareva.
Eugene strisciò fuori a sua volta e accettò la mano che la ragazza gli tese per alzarsi. Insieme sprangarono le tapparelle, poi Olivia spinse di lato l’armadio mentre Eugene lo teneva chiuso per evitare che quello che c’era dentro rovinasse a terra. Il ragazzo si inginocchiò a spostare le assi, rivelando un incavo oscuro sotto il pavimento in cui giare di vetro piene di soluzione alcolica rilucevano leggermente. Gliele passò una per una e Olivia le ammucchiò sulla scrivania scalcinata, spostando di lato una pila di cartelle cliniche. Poi il ragazzo tirò fuori anche un paio di cassette piene di flaconi scuri, con tappo contagocce.
Olivia guardò quell’infinità di boccette, poi la faccia stanca di Eugene. Pensò che la sua famiglia, credendola nei quartieri della legione, doveva già aver cenato, e che se fosse tornata a casa per dormire…beh, in quel caso avrebbe dovuto di nuovo fare i conti con Rubus.
-Ti aiuto a riempirle.- decise.
Eugene posò la giara che stava osservando in controluce e piegò la testa.
-Te ne sarei grato, ma ci vorrà parecchio. Quando le avrò vendute, però, posso darti una quota del ricavato.
-No, no, non voglio niente.- sapeva benissimo che Eugene usava quei soldi per comprarsi i libri, ma non era così priva di tatto da puntualizzarlo ad alta voce. Invece, gli mostrò un sorriso furbo –Non posso mica farmi trovare con del denaro illegale.
La faccenda, in effetti, si rivelò abbastanza lunga. C’erano da spremere bene le parti delle piante che erano rimaste a macerare nell’alcool, metterle a scolare sopra un secchio che Eugene si era portato dietro per l’occorrenza, poi filtrare la tintura per due volte con dei grossi imbuti e della carta filtrante. Ma la parte più tediosa fu confezionare le bottigliette. Erano così piccole che, per evitare di versare fuori il contenuto, si doveva riempirle con un misurino apposito, e poi avvitare i tappi il più stretti possibile. Siccome di misurini Gene ne aveva soltanto uno, si diedero il cambio nei due incarichi finché Olivia non ebbe le dita indolenzite e gli occhi rossi a furia di strizzarli sotto la luce gialla della lampadina.
-Dei dell’Olimpo, com’è possibile che ti fai dare solo tre denarii d’argento per tutto questo?- chiese, esasperata, dopo la centoventesima bottiglietta. Eugene ridacchiò davanti alla sua espressione sconvolta.
-È un prezzo onesto. Solo perché vendo medicinali non vuol dire che devo specularci sopra come il resto dell’industria farmaceutica.
-Beh, però è una faticaccia. Secondo me sarebbe onesto anche alzare a cinque denarii. Non sarai un’industria farmaceutica, ma non sei nemmeno un operaio messicano.
-Vuoi che ti racconti un’altra storia per passare il tempo?
-No, tranquillo. Per oggi, direi che hai già dato. È la terza volta in un mese che mi ospiti qui in ambulatorio, prima o poi dovrò iniziare a pagarti l’affitto.
-Non è stato un mese facile, eh?
-Già. Prima Vadoma che esce di testa, e poi…- la ragazza scosse la testa e serrò la mascella. Le parole successive le sfuggirono dalla bocca con asprezza –Poi, quegli idioti dei miei fratelli. Cazzo, con questa storia della promozione di Juniperus a centurione, Rubus sta impazzendo.
Le sopracciglia di Eugene si sollevarono per la sorpresa.
-Promuovono Juniperus a centurione della terza? Quando?
-La cerimonia ufficiale è tra quindici giorni. Ma gliel’hanno già comunicato in via ufficiosa, e lui ha accettato.- storse la bocca –Mio padre è al settimo cielo. Mamma un po’ meno…sotto sotto, credo sperasse che Juni decidesse di continuare gli studi, invece di fare carriera nella legione. Ma non glielo dirà mai. Vuole sostenerlo. Anche se è chiaro che Juniperus lo fa solo per papà.
-E Rubus invece la sta prendendo male.
-Figurati. Lui odia l’esercito almeno quanto papà lo ama. E Juni è il suo fratello preferito. Si sente tradito.
-Tu che cosa ne pensi?
Olivia sbuffò forte dal naso. Posò con poca grazia la bottiglietta che aveva in mano.
-Ho provato a parlare con Juni, ma non mi ha ascoltato. Ma se vuole fottersi il futuro per far piacere a nostro padre, sono affari suoi. E se papà è così egoista da lasciarglielo fare, questo riguarda solo la sua coscienza.- storse la bocca -Ma se Rubus prova ancora a sfogare la sua rabbia su di me, è la volta buona che lo pesto.
Anche Eugene mise da parte quello che stava facendo e si sedette a gambe incrociate, lo sguardo attento.
-Che cosa è successo?
La ragazza incrociò strettamente le braccia al petto, sentendo riaffiorare il nervosismo che era riuscita a calmare nelle ultime ore.
-Era iniziata come una bella giornata…
 
-Ah! Beccati questa!
Olivia guardò con aria rassegnata mentre Jordan improvvisava un’improbabile danza tribale, sventolando sopra la testa l’ultimo bastoncino rosso dello shangai, che aveva appena estratto dalla struttura pericolante. La sua bocca era tirata nel suo sorriso gigante: quel sorriso che gli riduceva gli occhi, già a mandorla, in due strette fessure e che era capace di rasserenare l’umore di Olivia anche meglio di una tazza di tisana calda.
–Chi è un campione? Chi è un campione? Te l’ho detto, non puoi battere un cinese a shangai.
-Sei stato bravo.- Olivia trattenne la voglia di ridere dietro una maschera di sussiego –Ma io non canterei vittoria troppo presto. Il nero è ancora in gioco. E ribadisco che lo shangai l’hanno inventato gli europei.
Il ragazzo si sedette di nuovo accanto a lei sul divano, aggiustando il mazzetto di bastoncini che costituiva il suo punteggio.
-Non è quello che diceva nonno Tao.
-Oh, allora. Che cos’è la storia per permettersi di contraddire nonno Tao?- stavolta la ragazza si lasciò scappare un sorriso. Poi zittì Jordan con un gesto della mano –Adesso lasciami concentrare.
Sapeva che lui non lo avrebbe fatto. L’espressione innocente di Jordan dichiarava le sue cattive intenzioni a chiunque avesse occhi per vedere – e gli occhi di Olivia, in particolare, erano molto abili nell’osservare il ragazzo. Perciò non si stupì affatto quando, proprio mentre sfilava con dita leggere il bastoncino nero dal fondo della precaria costruzione, uno scossone improvviso fece tremare il tavolo.
-Jodi!
-È un terremoto, Liv! Efesto è su di giri!
-Ma quale terremoto! E poi, di ‘Efesto’ potrai parlare al tuo campo greco. Qui abbiamo…
-…Vulcano, lo so, lo so. Sta di fatto che, purtroppo, la sua volontà divina ti ha fatto perdere.- il ragazzo spalancò le braccia e la illuminò di nuovo con il suo sorriso, che stavolta univa alla solita spensieratezza un che di compiaciuto. Olivia non riusciva mai a tenere il broncio di fronte a quel sorriso, e non ce la fece nemmeno stavolta: suo malgrado, anche gli angoli della sua bocca si sollevarono.
-Sei uno sporco baro!
Lui la pungolò nel fianco con l’indice.
-Però mi ami.
-Non è vero.
-Oh, andiamo…lo dici? Per favore?
-Mi hai appena sabotato, no che non lo dico!
-Falsa accusa, nego tutto. Sei tu che non sei fortunata nel gioco. Ma si dà il caso che tu sia molto, molto fortunata in…
Lo sbattere improvviso e violento della porta d’ingresso li fece sobbalzare entrambi. Un istante più tardi, Rubus entrò di gran carriera nel salotto, senza degnarli di uno sguardo. Puntava dritto verso il camino acceso, con un paio di converse blu strette in mano e uno sguardo da pazzo negli occhi azzurri.
 -Ehi, Rubus, belle scarpe.- osservò distrattamente Jordan, con la solita spontaneità. Olivia gli assestò un colpo sul braccio, ma era troppo tardi: Rubus si voltò nella loro direzione e li fulminò entrambi con un’occhiata letale quanto le saette di Zeus.
-Lui che diavolo ci fa qui?- sbraitò ferocemente, rivolto ad Olivia.
Lei desiderò potersi fare piccola piccola e scomparire. Rubus in preda ad una delle sue crisi di rabbia era una delle cose che la annichiliva di più. Non sapeva mai cosa fare per aiutarlo, e non sapeva cosa fare per evitare di venire inghiottita dalla sua furia.
Raddrizzò le spalle e prese un respiro profondo, tentando coraggiosamente di rispondere con calma.
-L’ho invitato io.
-E per quale cazzo di motivo?
-Beh, è il mio ragazzo, avrò pure il diritto di…
Rubus lanciò le scarpe contro il muro. Il tonfo risuonò con violenza, facendola sussultare.
-Ora parli come quello stronzo di papà? ‘Fanculo i tuoi diritti, Liv, non me ne frega un cazzo. Mandalo via.
-Ehi, non parlarle così.- Jordan si alzò in piedi. Appariva calmo, ma la sua voce si era fatta graffiante e, anche se il ragazzo non stava parlando con lei, Olivia rabbrividì.
-È mia sorella, le parlo come mi pare e piace.
-Io invece credo che dovresti calmarti.
-Altrimenti? Che fai, greco, mi lanci un paio dei tuoi insulti?- Rubus ormai stava parlando a ruota libera. Aggirò il divano e si avvicinò a grandi passi. Jordan non retrocedette e il ragazzo gli si fece sotto, così vicino che gli sarebbe bastata una testata per rompergli il naso. Olivia si rese conto che sarebbe finita male se non faceva qualcosa subito.
Si mise in mezzo e spinse Rubus indietro.
-Prova a toccarlo e ti faccio il culo.- lo minacciò, anche se la voce le tremava. Poi si voltò verso Jordan e lo afferrò per un braccio.
-Esci.
Lui abbassò il viso per guardarla, gli occhi sgranati e feriti.
-Cosa? Sul serio?
-Ho detto che te ne devi andare.- Olivia lo trascinò verso l’ingresso. Jordan la seguì senza protestare fino al corridoio, ma appena furono fuori dalla stanza e dalla vista di Rubus, le afferrò una mano. La guardò con aria di preghiera.
-Livi, per favore. Non voglio lasciarti da sola con lui.
‘Neanche io voglio rimanere da sola con lui’ pensò Olivia.
-Non essere drammatico. È solo Rubus, non mi farà niente.- disse, invece. Jordan non cambiò espressione.
-Non ho paura che ti ferisca. Tu puoi tenergli testa.- dichiarò, con quella fiducia che riscaldava sempre il cuore della ragazza –Ma nessuno dovrebbe farsi trattare come lui tratta te quando è arrabbiato.
Olivia deglutì e dovette fare uno sforzo per non scoppiare a piangere. ‘Non adesso’ disse a se stessa ‘non ancora, devi tenere duro.’
Strinse forte le dita di Jordan fra le sue. Si alzò in punta di piedi e lo baciò sulle labbra.
-Ti amo.- gli disse, guardandolo negli occhi –E lo capisco, che sei preoccupato. Ma Rubus è mio fratello e tu devi lasciare che me ne occupi io.
La faccia di Jordan era tesa e contratta, le sue sopracciglia corrugate in un’espressione dura che lo faceva assomigliare ai ritratti di suo padre Momo, che Olivia aveva visto in un manuale sul pantheon greco.
-Lo faccio, se me lo chiedi. Ma non mi piace per niente, cazzo.
-Neanche a me.- Olivia si sporse oltre la sua spalla e aprì la porta d’ingresso –Scusami se ti mando via così.
-Potresti non farlo.
-Jodi…
Lui scosse bruscamente una mano aria.
-Okay, d’accordo. È tuo fratello. Però è proprio uno stronzo, Liv, fattelo dire.- uscì sul vialetto –Vado all’arena. Sarò lì per un po’. Me lo fai sapere, se hai bisogno di me? Per favore. Non farti problemi, okay?
-Va bene. Più tardi ti chiamo.
-Terrò vicino il cellulare.
Lei annuì in fretta.
-Adesso vai, però.
E chiuse la porta.
 
-E lo hai chiamato?
Olivia sbuffò. Giocherellava con un flacone vuoto, facendolo rotolare avanti e indietro sotto il palmo della mano.
-Beh, prima ho dovuto impedire a Rubus di bruciare nel camino quel paio di converse. Erano le preferite di Juniperus. Sarebbe finita molto male.
Eugene sgranò gli occhi.
-Merde.- imprecò -Sul serio ha cercato di bruciarle?
-Ho dovuto prenderle al volo mentre le lanciava nel fuoco.- la ragazza scrollò le spalle –Comunque, alla fine si è calmato. E io ho chiamato Jordan.
Fece una pausa, e fu grata a Eugene per il silenzio discreto con cui attese che fosse pronta a parlare.
-Abbiamo parlato di quello che era successo. Lui…ha detto che forse mi farebbe bene allontanarmi da casa per un po’. E mi ha chiesto se voglio passare l’estate con lui al Campo Mezzosangue.
Eugene piegò la testa.
-Vuoi dire, questa estate?
-Sì. Lui torna là appena finiti gli esami, quindi a metà luglio. Rimarrà fino all’inizio di settembre.
-Oh. Beh…è una bella notizia. Era da tanto che volevi vedere il campo greco.
Olivia prese la bottiglietta vuota e provò a farla girare come una trottola.
-Non sono certa di andare, in realtà.
Gli gettò un’occhiata rapida. Eugene aveva la faccia di chi si stia trattenendo con tutte le sue forze dal parlare.
-Mm.- disse soltanto, in tono neutro.
-È che non vorrei…non voglio farlo per scappare dalla mia famiglia. Questo è un periodo difficile per noi. Rubus è un sacco sotto stress, e anche Juni, anche se fa finta di no.
-Mm.
-Non voglio andarmene quando hanno bisogno di me. È vero, sono pesanti e a volte mi sento oppressa ma…beh, sono la loro sorella. È mio compito esserci per loro.
-…Mm.
La ragazza lo guardò, esasperata.
-Solo ‘mm’? Non hai nient’altro da dire?
Eugene si grattò la nuca.
-Livi, è la tua vita, non la mia. Non ho il diritto di sparare giudizi.
-Però io ci tengo al tuo parere.
Il ragazzo sospirò.
-Forse però stavolta non ti piacerà sentirlo.
Olivia abbassò lo sguardo al pavimento. Quelle parole non promettevano bene.
-Tu dimmelo lo stesso.- insisté però, cocciuta.
-Okay.- Eugene alzò le spalle –Beh, io penso…che non è la tua presenza che potrà fare la differenza.
Aveva ragione, si rese conto Olivia. L’idea non le piaceva per niente.
-Ma se tu ti fai sempre in quattro per tutti!
-Io lo faccio per me stesso.- corresse con pazienza il ragazzo, senza prendersela per il suo tono brusco -Perché aiutare gli altri è quello che mi fa stare bene. Ma non ho la pretesa di essere la persona che li aggiusta. La storia di ognuno è molto più complessa di quanto io, o tu, possiamo anche solo capire. Non potremo mai risolverla.- fece una pausa e si sporse per stringerle piano una mano –Lo so che ci tieni alla tua famiglia, cherie. È una bella cosa. Ma ho l’impressione che tu…che tu, a volte, viva la tua vita in funzione della loro.
La ragazza ritrasse le dita dalle sue e si tirò le ginocchia al petto, stringendole forte con le braccia.
-Non è così. Ti sbagli.
Eugene alzò le mani aperte.
-Ti dico soltanto quello che penso. Giudica tu se è vero o no.
-Io non pretendo di fare la differenza. Io voglio solo aiutarli.
-Sì, però per farlo sacrificheresti una cosa di cui ti importa moltissimo. Scusami se insisto, cherie.- le rivolse uno sguardo di scuse –Ma è da quasi un anno che tu e Jordan fate piani per visitare il campo mezzosangue insieme. E ora vuoi rinunciarci perché Rubus fa i capricci?
-Non sta…
-Voleva lanciare le scarpe di Juniperus nel camino.
Lei saltò in piedi con un verso di irritazione.
-Okay, d’accordo. Rubus non è un modello di maturità.- ribatté, gesticolando -Ma non è che questo mi giustifichi ad abbandonarlo.
-Livi, ha vent’anni, è un adulto. Andartene per un mese e mezzo non è abbandonarlo. È vivere la tua vita, e lasciargli vivere la sua.- puntualizzò con calma Eugene -Io me ne sono andato da casa a sedici anni per venire qui. Ma mia madre e mia nonna non hanno pensato nemmeno per un secondo che le stessi abbandonando. Mi hanno aiutato a preparare le mie cose, siamo andati a in città a prenderci un gelato insieme, e poi mi hanno accompagnato al treno per dirmi buona fortuna. E tutto questo anche se mia madre non era per niente d’accordo sul fatto che venissi a Nuova Roma.
-Okay, quindi tu hai una famiglia perfetta. Buon per te!
-Non era questo che volevo dire.
-E cosa, allora?
-Che ad un certo punto bisogna andarsene. Prendere una decisione per se stessi e costruire qualcosa da soli, o con le persone che abbiamo scelto. È normale, ed è bello. Anche se all’inizio fa paura.
Olivia si strinse le braccia attorno al torso. Si sentiva come se le parole di Gene la stessero spingendo in un angolo, mettendole di fronte l’assurdità dei suoi ragionamenti. Non era una sensazione facile da sopportare.
-Perché adesso parli di paura?
Eugene le sorrise. Sul suo viso c’era quella dolce, tenera determinazione che, dopo cinque anni che conosceva il giovane medico, Olivia aveva imparato a temere e stimare in parti uguali.
-Dimmi la verità, Livi. Sei davvero così convinta che la tua famiglia non possa fare a meno di te? O sei tu che non vuoi lasciarli, perché se lo fai dovrai avventurarti in qualcosa di del tutto nuovo?
La ragazza premette la fronte sulle proprie ginocchia e scoppiò di nuovo a piangere.
 
Erano le tre del mattino quando Eugene e Olivia uscirono finalmente dall’ambulatorio. Le stelle brillavano bianche su Nuova Roma, come diamanti intessuti in una coltre di velluto. Faceva freddo, per una sera di primavera.
-Vieni a dormire ai quartieri della legione?- Eugene si strinse nel suo vecchio cappotto, affondando il mento nel bavero. Olivia annuì.
-Sì. Non sto più in piedi, non ce la faccio a camminare fino in città.
Tra i due pianti che si era fatta e il lavoro infinito di chiusura dei flaconi, sentiva la testa pulsare come se le stessero scavando un cratere dietro gli occhi. Gene la prese a braccetto – più per riscaldarsi, sospettò Olivia, che per confortare lei – e si incamminò con lei verso il dormitorio della quarta coorte.
-Mi dispiace averti fatto piangere.
-Ti ho chiesto io di dirmi come la pensavi.
-È vero, ma il rancore non è sempre razionale. Sei sicura che non ce l’hai con me?
Che diamine aveva fatto per meritarsi un amico così? Olivia gli strinse il braccio e gli appoggiò la testa su una spalla, facendoli sbandare appena.
-No, Gene.- mugugnò, incapace di tradurre in parole l’ondata di affetto e gratitudine che l’aveva invasa–Non ce l’ho con te.
Il medico ricambiò la stretta. Olivia percepì che stava sorridendo.
-Okay, Liv.
E se ne andarono, camminando vicini come sanno fare gli amici più stretti.
 
 
 
 


 
 
Traduzione:
*”Si fa quello che si deve fare”
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4034247