No rest for the Wicked

di CatherineC94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** At the beginning ***
Capitolo 2: *** Let it bleed ***
Capitolo 3: *** Like a goat ***
Capitolo 4: *** Folsom Prison Blues ***
Capitolo 5: *** When You're Lost in the Darkness ***



Capitolo 1
*** At the beginning ***


 
No rest for the Wicked
 
 
At the beginning
 
 
«Buongiorno, Aberforth!».
Aberforth alza gli occhi, sbuffa rabbioso e lancia così tante imprecazioni forbite che i muri quasi tremano.
«Cosa fai qua, piccolo Doge?» sputa indispettito.
Elphias sfoggia una sorriso melenso, gli occhi si tingono di cortesia in eccesso facendo sì che le gambe di riflesso si accavallino.
«Non hai partecipato alla cerimonia?» chiede con voce così ingenua che la pelle di Aberforth si accappona per principio.
«Ma che fandonie blateri» risponde lui, la pazienza che comincia a scemare in un  batter d’occhio e la mano destra che si muove frenetica.
Elphias sospira tranquillo, tra le mani un vecchio volume consunto di qualche mago morto mille anni prima e sul viso la voglia di parlare a raffica senza motivo, forse per far vedere che ha fatto i compitini per casa, forse per far vedere che sa fare qualcosa.
«La cerimonia, quella del Calice di Fuoco» puntualizza, lo sguardo perso verso chissà quale rimpianto che non vuole per il momento rivelare.
«Quella pagliacciata che citi ogni dannato secondo della giornata da un mese a questa parte?» chiede Aberforth, solo per inquadrare bene la situazione.
Elphias annuisce soddisfatto e si alza rapido alla ricerca di qualcosa da gustare durante l’attesa.
Aberforth l’osserva arcigno, quel piccolo fiasco di succo di supponenza alla Albus Silente con le zampette sta sicuramente nascondendo qualcosa e lui non riesce a capire cosa.
«Quindi?» lo incalza.
Elphias lo ignora bellamente, finalmente trova il rinfresco promesso dal funzionario del Ministero della Magia e afferra un bombardino alla crema con avidità, rimpiangendo lo sherry che suo zio Alfred gli ha inviato l’anno prima e che ha già ingollato.
«Senti piccolo Doge, o mi spieghi che diamine sta succedendo o ti schianto» lo minaccia Aberforth che vuole solo andare a letto e dormire.
 Elphias mastica con lentezza esasperante e Aberforth, che medita da anni di farlo saltare in aria assieme al saccente di suo fratello, afferra la bacchetta rapido.
«Aspetta, aspetta!» si affretta con gli occhi fuori dalle orbite.
Aberforth respira piano.
«Sei stato scelto» esclama tutto d’un fiato il tizio.
«Scelto?» ripete Aberforth atono.
«Per il Torneo Tre Maghi, sei uno dei campioni» conclude Elphias tutto giulivo.
Aberforth spera che tutto sia un sogno oppure un brutto scherzo che non fa in effetti ridere.
L’ultima cosa che ricorda degli ultimi giorni è la parete pallida dell’infermeria, dopo che ha litigato con quei smidollati dei Serpeverde che hanno osato sparlare della sua famiglia.
A nulla è valso il tentativo del preside di fargli fare ammenda, anche quando ha detto con voce dura che :«Trasfigurare tutti in capre di montagna non è legale».
Lui ha detto candidamente che:« Certi idioti sono più utili da capre che da esseri umani» ma lui non ha voluto sentire ragioni; così ha scritto delle lettere di ammenda ad ognuno di loro, chiedendo di capire la situazione e via dicendo.
«Impossibile,le mie chiappe hanno risposato tranquillamente in infermeria» dice convinto.
Elphias alza le sopracciglia.
«Non fare quella faccia, sto dicendo la verità. Preferirei ballare un tango con uno snaso ubriaco che fare parte di questo teatrino!» urla Aberforth provando a fare mente locale per poter uscire da quella disgrazia.
«Oh lo so bene, io infatti speravo che fosse Albus» mormora con gli occhi bassi da cerbiatto.
«E invece no. Ti devi beccare me» lo provoca sarcastico puntando la bacchetta verso quel faccino adorabile.
«Ora mi fai uscire da qui e dici a tutti questi mentecatti che io non ne voglio sapere nulla» sussurra gelido.
Elphias gonfia il petto ferito nell’orgoglio, stringe in una mano il vecchio manoscritto e nell’altra ciò che rimane del dolce consumato poco fa.
«Abbassa la bacchetta, principessa» dice qualcuno entrando nella stanza.
Aberforth vorrebbe urlare irritato.
«Che palle» grugnisce riconoscendo quella voce.
«Che non hai» ribatte la nuova arrivata.
 
Augusta getta un’occhiata torva ad Aberforth. Muove i lunghi capelli verso la schiena e saluta Elphias Doge con un cenno rapido; si avvicina al tavolo del buffet, prende un calice e fa apparire una fiaschetta.
«Bevi prima di sera? Bene» dice Aberforth maligno.
«Non sei l’unico qua a rifiutare ogni tanto il succo di zucca» gli dice sorridente.
Elphias l’osserva interessato, gli occhi sul liquido ambrato che scorre fluente.
«Doge non fare il trasgressivo» lo provoca lei, porgendogli un calice.
Elphias ride cristallino trotterellando verso la donna che sfida con lo sguardo Aberforth. Di rimando dopo lo shock iniziale lui  è sempre più convinto di abbandonare la nave in fretta e furia senza mezzi termini.
«Vorrei tanto rimanere e godere della vostra meravigliosa compagnia, ma ho da fare quindi vi saluto» esclama acido pronto a lasciare quei mentecatti alcolemici.
«Come sempre batti in ritirata» osserva Augusta.
«Che ne sai tu?» ringhia Aberforth.
«Albus lo dice sempre» aggiunge Doge già alticcio.
«Chiudi quella fogna» lo minaccia l’altro, gli occhi saettanti.
«No, parla pure. Ha ragione questo ragazzetto, quando le cose si fanno dure scappi con la coda tra le gambe» dice Augusta tutta convinta.
«Chiudi quella bocca, stupida ragazza. Tu invece sei qua per dimostrare cosa? La tua immensa bravura congenita?» borbotta Aberforth che sta per liberare la rabbia che tiene sotto chiave da tempo.
«Suo fratello fa di tutto per lui e invece lo tratta così male! Povero Albus, se almeno lo ringraziassi ogni tanto per gli sforzi che fa!» enfatizza Doge ormai perso nei meandri dell’Idromele Barricato.
«Stupeficium» sussurra Aberforth facendolo cadere da una parte nel tentativo di evitare il fiotto di luce rossa.
«Bene, ora sì che siamo a posto. Chi si prende la briga di placarlo? Perché fai sempre così ogni volta?!» si lamenta Augusta ma Aberforth si perde fuori dalla finestra.
 
 «Quindi ti sei proposta tu? Non ti credevo così» ammette poco dopo rauco Aberforth sorseggiando un po'  di Idromele.
Augusta alza le spalle mormorando:« Qualcuno deve pur vincere».
«Se lo dici tu » sogghigna lui.
«Argh» strepita Elphias dall’angolo.
«Stai bene, Doge?» chiede Augusta.
«Aberforth me la pagherai questa volta, sì! Ricordati che prima o poi tutti i nodi vengono al pettine!» strilla Elphias.
Aberforth mormora gelido: «Lo spero» e Augusta si volta di scatto.
Giura che sul volto del giovane uomo scorge ferite che ancora sanguinano e per un attimo è trasfigurato, irriconoscibile.
Poi Aberforth si volta brusco dall’altra parte ghignando; Elphias sbotta minaccioso come una Puffola Pigmea.
«Che idioti» dice lei sorridente.
 
«I campioni sono desiderati nell’altra stanza» urla qualcuno dal corridoio; i tre si dirigono fuori.
 
Fuori il sole è quasi scomparso dietro le montagne, gli ultimi raggi sfiorano ogni cosa, lasciando un leggero sapore di nostalgia e continua rinascita.
Poco dopo è sera.
 

Inizia questa nuova avventura che dire? Che ci sarà da ridere e spero in qualche vostro feedback. Vi abbraccio <3

 

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Capitolo 2
*** Let it bleed ***


 
Let it bleed
Prima Prova
 
 
 
Pochi istanti prima

 
 
La stanza sembra così piccola che Elphias crede che da un momento all’altro cadrà a terra; le braccia  si muovono convulse e quella fetta di torta al cioccolato che ha divorato la mattina  vuole saltare fuori dallo stomaco con un triplo salto carpiato.
Aberforth l’osserva arcigno, le braccia conserte e sulla bocca tante parole che non vuole esprimere, anche perché preferisce godersi la scena che si presenta davanti.
Augusta invece fa dei calcoli rapidi, come sempre d’altronde, soprattutto quando la situazione è ingarbugliata e deve in qualche modo uscirne.
Elphias sta sudando freddo, un fazzoletto lilla regalato da Albus Silente che prova a tamponare i rivoli di paura che fuoriescono da ogni dove; ogni tanto pare acquisire un lampo di lucidità ma poi ricorda bene cosa sta per succedere e riprendere a correre per l’angusta stanza.
«Sto per vomitare, piccolo Doge. Ferma quelle zampette o me ne occupo io» grigna Aberforth dall’angolino di solitudine acida che ha ritagliato con particolare dedizione.
Elphias stringe gli occhi irritato.
«Dovresti dargli una mano, invece non fai che borbottare come un vecchio zotico» lo rimbrotta Augusta che in realtà sembra trarre piacere quando il compagno di squadra esterna il suo cinismo radicato.
Aberforth si limita ad alzare le mani, annoiato.
«Grazie Augusta, per il tuo appoggio. Te ne sono davvero grato e ti supplico di suggerirmi qualcosa per uscirne vivo o almeno con tutti gli arti al loro posto» chiede querulo Elphias provando a stare fermo e conscio che le minacce di Abeforth si concretizzano in un nonnulla.
Augusta storce il muso dispiaciuta, ma non si arrende anzi non la contempla questa possibilità.
«Ho divorato tutti i libri presenti in biblioteca tempo fa, nell’eventualità. Sembra un’impresa impossibile, ma tu punta alla testa» propone lei che già sta meditando di irrompere nell’arena e salvare la pelle al tizio.
«Sì, mi raccomando soprattutto alla fauci così ti gusterà meglio» inveisce Aberforth sghignazzando e poggiando sul palmo sudaticcio della mano di Doge una fiaschetta.
Aberforth ammicca coinvolgente, facendogli l’occhiolino e Augusta è sicura che rimetterà a breve la colazione assieme al timoroso Elphias che non si capacita di tutta quella gentilezza. 
«Tracanna tutto, piccolo Doge almeno te ne andrai in grande stile» conclude ironico Aberforth.
Elphias sbotta ma Aberforth gracchia cinico.
«Gran bell’aiuto, dopotutto un mentecatto come te non potrebbe fare di meglio!» osserva Augusta.  
Elphias ricomincia a zampettare in giro.
«Doge, può accomodarsi» dice la voce del custode.
«Sì accomodati pure e salutami tanto il gattone quando l’incroci!» latra malizioso Aberforth.
Augusta alza gli occhi al cielo, esasperata.
 
 
 
Poco dopo
 
Una Manticora, una Manticora. Una detestabile e letale Manticora!
Elphias sente le gambe molli, quasi come il budino all’anice stellato di sua zia Agnes e nelle mani stringe la fiaschetta che quel grande menefreghista di Aberforth gli ha dato.
Sospira lento per aiutarsi, per farsi coraggio in un modo o nell’altro; ma non ci riesce davvero e lo stretto corridoio che porta all’imbocco dell’arena quasi lo risucchia.
Quando ha estratto il suo ostacolo da combattere durante la prima prova ha pensato che fosse uno scherzo di cattivo gusto, probabilmente messo in atto da quel burlone malevolo di Aberforth, ma lui invece si è limitato a sghignazzare: «Sento il puzzo della tua paura, Doge da quaggiù!». 
Augusta invece è scattata subito pronta a trovare un modo, una via di salvezza e quando non l’ha reperita si è limitata a dargli una pacca desolata.
Lui ha provato ad assorbire ogni cosa su quell’animale mitologico che deve affrontare, invano. Della Manticora sa ben poco, solo che in realtà è letale. Corpo da tigre, viso da uomo, pungiglione velenoso come gli scorpioni e la pelle immune ed impenetrabile a qualsiasi incanto; facile, quasi come ballare un valzer con la Strega Orba al terzo piano.
Pochi giorni prima ha pensato che le cose sarebbero andate meglio dopo questo torneo; insomma lui non è prestante, forte, acuto. Però ha sempre voluto combattere, mostrare che dietro alle sue insicurezze c’è un mago pronto a mettersi in gioco. 
«Non è ciò che mostriamo ciò che in realtà siamo» gli ha detto il suo caro amico Albus qualche giorno prima, quando Elphias gli ha espresso con titubanza tutti i suoi dubbi davanti ad una tazza di tisana al finocchietto.
«Non vorrei offenderti Albus, però tuo fratello non è molto collaborativo» ha rivelato Elphias masticando un biscottino al cocco.
«Non lo sai prendere dal verso giusto» ha risposto garbato.
«Mi ha augurato di essere divorato durante la Prima Prova!» esclama di rimando e gonfiando il petto.
«Ma tu saprai bene che le tue capacità saranno perfette. Suvvia, un aiuto disinteressato spesso si rivela provvidenziale» ha risposto contemplativo l’amico.
Bell’affare in quel momento! Vai a capire cosa significa in quell’istante e come potrebbe rendersi utile per la causa da perorare.
In effetti lui ha proprietà dialettica niente male, propensa all’analisi acuta che gli ha sempre guadagnato applausi e recensioni degne di nota.
Però che potrebbe fare in quel momento? Prendere il tè con la Manticora? Discutere sugli usi del sangue di drago e poi scambiarsi qualche cortesia formale?
Deglutisce piano.
I piedi si fermano davanti all’imboccatura dell’arena, la folla urla, si dimena ma Elphias sembra non sentire alcunché.
La trova ferma, in attesa; sul collo il cilindro che deve conquistare e le zampe che punta provocatoria.
Ha un viso trasfigurato, lunga barba e il collo che si muove repentino. Elphias lo nota, il grande pungiglione che si staglia pronto a mietere qualche vittima che si appresta ad incrociare il suo cammino.
Elphias ha un mancamento, quasi.
Si poggia malamente sul lato destro del varco, ma qualcuno lo spinge e goffamente si ritrova a pochi metri da quel viso che ride malvagio.
«Sembri davvero un boccone succulento » sibila, i grandi denti che brillano alla luce.
Elphias indietreggia spaventato, qualche fischio arriva alle sue orecchie.
«L-la p-prego di non saltare a c-conclusioni a-affrettate» balbetta lui, gli occhi che si muovo a destra e a sinistra alla ricerca di una via di fuga. 
«Cos’altro dovrei fare con te? Gli umani sono i miei prediletti, sai. Rumorosi certo, però prediletti» chiarisce la Manticora, gli occhi gialli puntati sulla figura tremolante di Elphias.
Il silenzio lo segue come un marchio incandescente e quando si trova a pochi metri da quelle fauci avverte nell’aria l’odore del pericolo e della morte; subito dopo punta gli occhi verso l’oggetto che necessita e la Manticora affonda gli artigli minacciosa.
Elphias sospira tremolante; afferra malamente la bacchetta.
«Sai bene, essere umano che il tutto è inutile» lo provoca.
Così Elphias pensa ancora in panne. Si rivela essere solo un attimo e la sua bacchetta che solitamente viene scagliata per incantare compie ciò che solitamente sa fare meglio.
«Questo caldo mi sta letteralmente stendendo, non le pare? Ho bisogno di ristoro» ciarla e con un boato ritrova la sua poltrona preferita unita ad un piccolo tavolino da tè riuscendo a trasfigurare alla perfezione tre rocce presenti nell’arena.
Già, l’unica cosa che sa fare con un diletto naturale: la conversazione.
Gli occhi gialli dell’animale sono increduli; lo segue quasi ammaliato, mentre con una nonchalance da prima donna butta giù due zollette di zucchero di canna in una tazzina avorio finemente dipinta a mano.
«Vorrei chiederle, se mi consente, da dove proviene» dice dopo cinque minuti abbondanti di silenzio.
La Manticora piega il capo di lato, indispettita a pronta a contrattaccare nel momento in cui l’essere umano avrebbe sferrato il colpo.
Elphias sorseggia tranquillo.
«Stupido, a cosa ti servirebbe?  Prolunghi la tua agonia» sibila l’animale puntando gli occhi verso le zampe paffute del giovane.
«Sa che morire con una conoscenza approfondita rende il trapasso, come dire, più lieve?» risponde docile ripensando che i biscottini assaggiati con Albus l’altra volta sono davvero una vera prelibatezza.
Sfodera la bacchetta rapido, la Manticora sorride maligna con le fauci che brillano letali al sole del primo pomeriggio.
«Accio!» esclama.
Poco dopo nel cielo uno strano sibilo scuote la tensione palpabile; la coda dell’animale si protrae e per un attimo quasi sfiora il polpaccio di Elphias.
All’improvviso dalle cucine del castello, un vassoio ricolmo di prelibatezze prende posto sul tavolino e la Manticora che ormai pensa che sia tutto uno scherzo non sa che pesci prendere.
«Allora, non ha ancora risposto alla mia domanda» l’incalza Elphias.
«Se questo può alleviarti il destino che ti attende, provengo dalle lontane regioni dell’antica Grecia» ringhia l’animale, la coda in movimento e la voglia di azzannarlo crescente.
Elphias sorride affabile.
«Che luogo incantato, davvero. Patria degli alchimisti, dei primi incantatori. Un giorno spero di poter fare un viaggio assieme al mio caro amico Albus» ammette trasognante.
La Manticora non risponde, ma i suoi ringhi sono abbastanza eloquenti e vogliono dire tutti la stessa cosa: che l’omuncolo non sarebbe riuscito nemmeno a mettere piede fuori da quel luogo.
«Ha mai incontrato qualche mago da quelle parti?» chiede curioso Elphias.
La Manticora inizia ad avvertire un certo nervosismo; non ha mai percepito quelle strane sensazioni, in effetti non è nella sua natura discernere in bene o il male. È il suo istinto, la sua fame che muovono ogni filo, ogni azione.
Però quel tipo, quel tipo…
«Una volta, uno stupido» sputa involontariamente, non sa nemmeno perché.
Gli occhi di Doge s’illuminano febbrili, sulle papille gustative a parte il sapore deciso del tè alla vaniglia avverte il dolce gusto delle informazioni nuove.
«Chi è costui?» chiede.
«Un uomo insensato, che non ha mai pensato alla sua vita» replica di getto la Manticora che rivede gli occhi verdi di quel mago, in quella notte oscura quando ha osato addentrarsi fino alla sua tana.
Ci ripensa per la prima volta dopo secoli di esistenza e senza una vera motivazione.
«Che meraviglia avere la possibilità di vivere così a lungo, di conoscere così tanto» sussurra Elphias estasiato al quarto biscottino.
La coda della Manticora rompe una gamba del tavolino e lui si ritrae terrorizzato.
«Che meraviglia divorarlo, divorare tutti! Il destino che vi attende quando osate incrociare la mia strada!» ruggisce l’animale.
In quel momento ricorda che un tempo ha avvisato pure quello che invece di scappare, ostinato, si è seduto su quei massi davanti alla grotta per poter dialogare.
«Ognuno ha la possibilità di scegliere» ha detto tutto spavaldo il ragazzo che ha ricercato argomenti per conversare tutto il tempo; all'opposto nei suoi pensieri ha solo assaporato con lentezza esasperante il sapore immaginario del sangue che da lì a poco sarebbe uscito dal suo giugulare. 
«Triste» osserva Elphias, gli occhi spalancati e puntati verso la gamba di legno spezzata.
La Manticora si muove veloce, ormai furiosa che tenta in tutti i modi di strappare la lunga catena che la stringe.
«Ognuno ha la sua natura, uomo. La mia è quella di divorarvi, la tua quella di fare la preda. Ho spiegato questo anche all’inutile mago ma non ha voluto sentire ragioni!» esclama adirata.
«Potresti essere una fonte infinita di conoscenze, un caposaldo dell’umanità e invece preferisci assoggettarti all’istinto!» prorompe sprezzante Elphias.
«Siete solo nutrimento, non importa chi sia, non importa se sia giusto, sbagliato. Non importa» sostiene la Manticora, la catena che sta per allentarsi e la morte di Elphias ormai prossima.
«Potresti cambiare, potresti invece andare contro la tua natura» balbetta Doge alzandosi di scatto.
L’animale sogghigna sarcastico.
«Mentre tu frigni io sto scegliendo quale canzone intonare mentre squarcio le tue carni» mormora gelida la Manticora.
Elphias non riesce a contenere un tremito irruento, si avvicina alla tazzina e si decide ad aprire la fiaschetta che Aberforth gli ha donato.
Avvicina il liquido alla bocca, un rivolo scende sulla guancia.
«Questo sei, un mostro inetto che potrebbe scegliere ma decide di nutrirsi come un abbietto. Hai la conoscenza, la possibilità di vivere per secoli! Sei un mostro!» grida Elphias forse disperato, forse chissà che cosa.
Il liquido nella fiaschetta brucia la gola e gli occhi lacrimano.
La Manticora si blocca all’improvviso.
Nessuno ha mai usato quel tono anzi nessuno ha mai avuto il tempo materiale per farlo. La catena si rompe in mille pezzi e la coda si muove frenetica in direzione di quell’essere umano che ha avuto il coraggio di sfidare la sua maestosità secolare.
L’arena si zittisce all’improvviso quando l’animale è a pochi centimetri dal campione; Augusta si sporge verso l’imboccatura dello spalto pronta a scendere giù. Aberforth sonnecchia di lato, noncurante.
«Uccidimi, tanto non  ha  alcuna differenza per te anche se io sono stato cordiale, interessato verso la tua persona» dice confusamente Elphias chiudendo gli occhi.
E la Manticora rivede l’altro mago, che tutto sorridente gli ha detto: « Gli altri mi hanno avvertito, però credo che ognuno di noi abbia la possibilità di scegliere».
Poco dopo il silenzio è sferzato da un sibilo perfido, Elphias aspetta la morte infuocato da dentro ma riesce solo a sentire un rumore sordo di lato.
Apre titubante gli occhi e transale.
Il grosso pungiglione è conficcato nella testa della Manticora che invasa dal suo stesso fatale veleno ha perso la vita, scegliendo per la prima volta.
Elphias traballante si avvicina e trattenendo il respiro afferra il cilindro di ferro; trotterella rapido e trangugia ciò che rimane nella fischietta alzando il pugno in aria.
L’aria è densa di urli, applausi e risate, Aberforth finalmente si ridesta e grattandosi malamente il didietro mugugna: «Finalmente è finito questo scempio».
Augusta l’osserva attenta.
«Che gli hai messo in quella fiaschetta?» chiede a bruciapelo.
«Il più vecchio Odgen Stravecchio sgraffignato che ho conservato per festeggiare il futuro arresto di quel burattinaio di mio fratello» risponde cinico.
Dal centro dell’arena Elphias sta facendo brillo un ridicolo balletto della vittoria, Augusta invece sorride mesta.
 
 
 


Non so davvero cosa dire. Forse che questo è il capitolo più lungo che io abbia mai scritto e non so che panzana possa essere; ringrazio chi legegrà, vorrà darmi un feedback. Volevo chiarire il fattaccio della manticora; essendo una creatura mitologica dalle cronache lette l'unico modo per essere uccisa è che il suo veleno la colpisca. Ho fatto i compiti prima di scrivere, ma soprattutto non riesce ad avere una coscienza, un discernimento del bene e del male. Spero di non fare così schifo come penso. Vi abbraccio.

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Capitolo 3
*** Like a goat ***


 
Like a goat
 
 
«Sei uno stupido idiota» gli dice Millicent.
Aberforth sghignazza malizioso.
«Sei l’unica persona che riesce ad insultarlo» analizza interessata Augusta.
E poco dopo Elphias Doge esclama querulo: «Ciao Millicent! Grazie per aver accettato il mio invito al Ballo del Ceppo».
Quello è l’inizio della fine.
 
 
 
 
Pochi giorni prima del Ballo del Ceppo
 
Aberforth si annoia, questa non è una novità. Però ultimamente avverte quel senso soporifero di festività che impregna ogni angolo del castello e specialmente quell’anno, tutti sembrano aver preso troppo sul serio la faccenda. La cosa più preoccupante è che tutti l’osservano ridacchiando. L’ha notato fin dal venerdì antecedente, quando è uscito irato dalla lezione del pomeriggio.
«Che avete da guardare voi?!» sbotta dopo un po’.
Quando la storia continua imperterrita fino all’ora di cena, tutto acquista un piega angosciante.
«Solo tu puoi fare così tanto baccano» lo rimbrotta Augusta altera, i lunghi capelli neri raccolti in una coda elegante e la bacchetta puntata contro il viso di Aberforth.
«Non ti ci metterai anche tu» le dice lui atono gettando occhiatacce a un manipolo di ragazzetti del primo anno che ridacchiano compiaciuti.
«So io cosa sta succedendo» esclama il piccolo Doge arrivando di soppiatto con quell’aria da buon uomo castigato.
«Se questo è opera tua ti appendo sulla torre» lo minaccia Aberforth che pregusta la scena.
«Il Ballo del Ceppo» dichiara con una vocina da far accapponare la pelle.
«Il Ballo di cosa?» chiede Aberforth incredulo.
«Il Ballo del Ceppo. Vestiti bene, imbellettati e fai qualche passo di danza, campione!» gongola malefica Augusta.
Poco dopo succedono tante cose che fanno spaventare un po' tutti ma che in parte avvalorano la tesi comune che afferma che Aberforth Silente è un folle cinico.
«Mi avete già trascinato in quella inutile messa in scena, non mi avrete mai» sbotta con gli occhi rossi pulsanti.
«In smoking staresti bene, peccato» osserva Augusta.
«Hai proprio ragione, sarebbe più slanciato» conviene Elphias.
Un grido rabbioso li investe.
 
 
Millicent è una Serpeverde.
Però lei non ha mai rispettato le tradizioni, anzi al contrario. Fin da subito ha incontrato Augusta, una Grifondoro che sa quello che vuole e quindi ha deciso che avrebbero affrontato quegli anni insieme.
Non ha però tenuto in conto che Aberforth Silente abbia deciso di punto in bianco di voler uscire insieme.
Non ha mai pensato che potesse essere petulante, quasi come un gufo che ha attraversato il Sussex tre volte in un giorno e non ha ricevuto un biscotto o qualche bricco d’acqua.
Millicent è sempre stata sicura, forse quel ragazzo burbero che sembra un selvaggio accampato di qua e di là stuzzica la sua fantasia, però non hai mai brillato di accondiscendenza e quindi ha deciso che l’avrebbe fatto smaniare la sua compagnia.
Augusta invece ha notato con leggero fastidio che lui farebbe di tutto per quel sorriso appena accennato e quegli sguardi che lei di tanto in tanto gli concede.
Quale occasione migliore di quel ballo?
La mattina ha fin da subito presagito bene, un tiepido solo illumina ogni cosa e Millicent, che già sorride malevola, scende a colazione con una consapevolezza nuova.
Cerca il piccolo Doge con ansia crescente e quando lo trova intento a leggere un polveroso libro il piano è palesemente in funzione.
 
 
 
Ballo del Ceppo
 
Augusta termina la sua acconciatura, pensierosa.
Il lungo abito verde che la fascia sembra essere perfetto; lei non ama mettersi in mostra, dopotutto non è qualcosa che l’intriga. Eppure la situazione vuole che debba essere lei assieme a quei due mentecatti ad aprire le danze.
Già.
Decide che non le importa di limare gli spigoli che possiede e così scende sicura nella Sala Comune.
I due scellerati sono già pronti, lei scoppia a ridere di gusto.
Elphias è indispettito da quello scoppio di entusiasmo; indossa un completo bianco e un cravattino di tartan. Aberforth invece non ha minimamente pensato di dover indossare un abito consono e indossa il suo kilt grigio topo, facendo sfoggio delle gambe lunghe.
«Halloween è passato da un pezzo» afferma con serietà.
«Ho tentato anche io, inutile» afferma triste Elphias pensando al buffet della serata.
«Se non chiudete quelle boccacce vi affatturo!» sibila gelido Aberforth trascinandoli fuori dalla stanza.
«Laggiù fischia il vento» sghignazza Augusta.
«Non ti immagini la goduria della libertà sfrenata» ribatte Aberforth volutamente indiscreto.
Elphias borbotta indispettito.
 
 
La Sala Comune è ricolma di gioia, armonia, tenerezze e di spirito natalizio.
«Bleah» esclama Aberforth disgustato osservando tutto ciò che lo circonda.
«Sorridi, magari non farai paura a tutti» sussurra a denti stretti Augusta che sta ballando il valzer con Alfie  Paciock, il fratello di quel tizio smidollato di Algie.
«Questa me la pagate» ribatte caustico dal suo angolino.
Aberforth a differenza degli altri due non ha invitato nessuno, anzi ha aperto le danze con la vecchia custode Patmore che in quell’occasione ha indossato la sua veste da strega migliore.
Elphias sembra una prima donna; Aberforth l’osserva truce danzare con Millicent che quella sera non ha badato a spese.
Aberforth la trova magnifica, ma non lo dice a nessuno. Sa bene che per quella ragazza prova qualcosa ma non avrà mai la compiacenza di spiegarle cosa.
Lei sembra aver capito, spesso sembra ricambiare, spesso invece no. Aberforth è esasperato e non riesce più a gestire la gelosia che sta divorando ogni centimetro della sua persona. 
E quell’idiota abissale di Doge?
Ride come un farfallone, sorseggia e mangia ogni cosa che gli capita a tiro e poi poggia la mano sulla sua schiena…
«Buonasera».
Aberforth alza gli occhi, la rabbia sta iniziando a triplicare.
«Che vuoi?» chiede aspro.
Albus sorride affabile, sembra un uovo di Pasqua male assortito in quella veste azzurra.
«Invece di osservarla male perché non la inviti a ballare?» gli dice mite come uno scoiattolo in autunno.
Il sangue gli arriva agli occhi. E quando Doge sembra voler avvincere i loro visi non resiste più.
Augusta se ne accorge da lontano e tenta inutilmente di afferrare il braccio di Aberforth.
Però lui è deciso e di scatto afferra la mano di Millicent.
«Che ci fai qua?!» sbotta lei, gli occhi neri che lo trafiggono.
«Aberforth! Che modi!» sbuffa Doge.
«Vieni con me» le dice Aberforth non riuscendo a tirar fuori alcun convenevole, alcuna tenerezza.
Millicent si discosta stizzita.
«No» replica dura.
Aberforth ride caustico, ormai tutti li stanno osservando attoniti.
«Perché devi sempre fare la preziosa?» gli chiede lui, negli occhi una fiamma che lo divora.
«Caro amico, non vedi che la signora non ha intenzione di seguirti?» continua Doge con una voce minacciosa quasi quanto un asticello che inveisce.
Aberforth l’ignora.
«Sei uno stupido idiota Aberforth Silente. Invece di sguazzare nel tuo orgoglio potresti almeno farti avanti quando si deve!» lo canzona lei.
Lo sguardo vittorioso, le risate di schermo che li circondano.
Aberforth pare pensarci una attimo, la bacchetta salda nella mano e nel cuore qualcosa che si spezza.
«Fermo, testone. Fermo!» urla Augusta che ha capito fin da subito come sarebbe andata a finire.
Un attimo dopo c’è solo del fumo violaceo, la gente che rimane di stucco e Doge che non sa che pesci prendere.
Il preside è sconcertato, non sa come iniziare, non sa cosa dire e si limita a strillare:« Silente! Trasfigurare le persone in capre è illegale!».
Nel silenzio generale Aberforth osserva la piccola capra che bela tranquilla sul pavimento.
«Peccato, Milly è un gran nome per una capra» ammette.
 

 

 
Buon Natale!
 
 
 

 

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Capitolo 4
*** Folsom Prison Blues ***


 
Folsom Prison Blues
 
 
 
 
Un anno fa
 
 
 
«Oggi sei silenziosa, Augusta».
Augusta alza gli occhi infastidita, non ne può più delle sue lamentele, dei suoi lunghi discorsi, delle sue tecniche squallide di convincimento.
«Walburga non iniziare, questa è la terza volta che me lo dici» ribatte pacata.
L’altra donna si ritrae, sorpresa e forse anche indispettita.
«Sono solo preoccupata per te» le dice alzando le braccia.
Augusta muove la testa esasperata e osserva il piccolo laghetto dietro casa sua.
Ormai è estate inoltrata, nelle narici un dolce profumo di primavera e l’acqua limpida l’invita a fare un bagno da quella mattina.
In casa sua c’è una specie di ricevimento delle famiglie più importanti del mondo magico; sua madre fin da subito ha tentato di persuadere suo padre che invece ha fatto di tutto per allestire ogni cosa.
Walburga la conosce fin da bambina, fin da quando si è vista costretta a sopportare quelle lunghe feste avvolta dalla crinolina e dalle chicchere becere e superficiali di quella gente.
«Non è vero, l’unica cosa che ti preoccupa è Orion Black e il timore che possa sposare me» risponde Augusta che non ha peli sulla lingua.
«Bugiarda» sibila lei.
Augusta non le  presta attenzione perché a lei tiene davvero molto; decide che fare un bagno sia la cosa migliore. Getta la lunga veste asfissiante, le scarpe non le servono mica più e s’immerge lentamente.
L’acqua s’infrange sulle sue gambe e Augusta chiude gli occhi inebriata da tanta pace e libertà; l’acqua arriva quasi fino alle scapole, dolcemente.
«E poi sai che ti dico Walburga?» inizia.
Augusta si volta di scatto prima a destra e poi a sinistra; di Walburga nessuna traccia.
«Walburga?» chiama, mentre galleggia sorniona nel lago fino a quando qualcosa la spinge giù.
L’acqua non è più placida, bensì comprime i suoi polmoni che fanno fatica a respirare e che iniziano a bruciare.
Augusta spalanca gli occhi stranita; qualcosa, anzi qualcuno tenta di trattenerla giù contro la sua volontà e lei inizia a perdere anche conoscenza.
D’un tratto ricorda che la bacchetta l’ha inserita nella tasca dei calzoncini che ama indossare e strizzando gli occhi con rabbia tenta un incanto.
Si ritrova sulla riva e i rantoli d’acqua fuoriescono prepotenti. I polmoni riacquistano energia e lei riesce a tenere gli occhi aperti.
Si alza di scatto e davanti ci sono i suoi occhi.
Grigi e gelidi.
 
 
  Seconda Prova
Augusta si sveglia di scatto, scossa e tutta sudata.
La testa in fiamme, il respiro affannato.
A tentoni cerca la bacchetta e storcendo il naso capisce bene dove si trova e ricorda anche perché non riesce a trovarla.
In tasca qualcosa le punge il dito e con sorpresa immensa si accorge che si trattata di un frammento di uno Specchio Gemello e una vecchia pergamena.
Concentrata legge ciò che c’è scritto e vorrebbe iniziare ad inveire contro il mondo, contro ogni cosa che ricorda.
 "Ti saranno date tre ore di tempo, 
vedi di trovare l'uscita nel frattempo.
Sarai solo, isolato e inzuppato, 
senza alcun incantesimo come alleato.
Ascolta i tuo compagni e usa l'intuito, 
saranno il tuo unico aiuto."
 
Rilegge ancora ciò che contiene la pergamena e una risata isterica fuoriesce dalla sua bocca; inzuppata e sola, i compagni d’aiuto? Ride ancora esasperata pensando che Aberforth in quel momento starà tentando di non fare fuori Elphias e che se non si muove il tutto finirà in tragedia.
Mugugna inviperita, gli spazi chiusi non fanno per lei e quando ha accettato di voler essere lei ad affrontare quella prova ha evidentemente sbattuto la testa contro qualcosa.
Uno strano dolore inizia a farsi sentire alla bocca dello stomaco e il respiro accelera.
«Augusta respira, non sei al lago, respira» si dice mentalmente; però quegli artigli li sente sulla testa e tutto inizia a vorticare pericoloso.
Decide che deve alzarsi, dopotutto l’ha sempre fatto in ogni momento della sua vita. Si avvolge nel lungo mantello e decisa ad uscire fuori da quella trappola inizia a camminare.
Tutto è buio, come ogni cosa dentro lei. 
Non trova difficile camminare a tentoni in quel vortice oscuro; da tempo qualcosa non riesce ad emergere e farla uscire da quell’inesorabile abisso che la divora.
Dove andare però?
Quella domanda riempie la sua testa e non ha una risposta. Augusta ha sempre una risposta, un piano di riserva che riesce nella maggior parte dei casi ad emergere e a salvare la vita.
Quella volta non c’è; anzi, da tempo non riesce a trovarlo in alcun modo e quindi quella strada che fino a quel momento non ha scalfito la sua corazza inizia a diventare fredda, temibile.
Sulle spalle qualcosa di freddo la sfiora, sul collo avverte due occhi che la stanno osservando e quindi non sopporta più niente.
Affannata si poggia sul muro alla ricerca di qualcosa, di un appiglio.
E poi ricorda, c’è lo specchio.
Lo stringe fra le mani tremanti e sussurra i due nomi che mai avrebbe pensato di pronunciare.
«Aberforth Silente, Elphias Doge».
 
 
Un’ora prima
 
«Avete compreso ogni cosa?» chiede il funzionario del ministero.
Elphias scuote la testa rapido e Aberforth incrocia le gambe svogliato.
«Se abbiamo finito, adesso avrei da fare» dice Aberforth.
«Temo che lei non abbia capito, Silente» dice il tizio.
«Cosa devo capire? Avete rinchiuso la sciroccata di Augusta sottoterra e io dovrei starmene blindato tra queste quattro mura con l’omuncolo al mio fianco?!» sputa rabbioso Aberforth che non sopporta il genere umano in ogni sua forma e declinazione.
«Ehi!» esclama offeso Elphias.
«Lo sai che il mio è solo un complimento» precisa Aberforth magnanimo.
«Va bene, allora io procedo» dice quel pover uomo del Ministero della Magia che di quei battibecchi non sa che farsene e con fare rapido non solo se la svigna ma li sigilla dentro.
«Bene! Adesso sarai contento! Non solo devo sopportarti per chissà quante ore e per giunta  non ho niente da bere!» grugnisce Aberforth.
Elphias aggiusta il piccolo gilet di tartan esasperato.
«E poi perché ti sei conciato in quel modo? Sembri un pollo addobbato a festa» gli chiede burbero.
«Le prove sono cerimonie solenni, Abe» gli dice mistico.
«Sono solo delle pagliacciate e non chiamarmi così o ti schianto!»  l’avverte furente.
«Cosa sono queste cartacce?» chiede ancora Aberforth.
Elphias aguzza lo sguardo e tutto sorridente sussurra:« Questa è la chiave per aiutare Augusta».
Aberforth alza le spalle interdetto per poi mormorare un incantesimo semplice; davanti dei banchi si tramutano in un vecchio divano logoro dove si getta senza complimenti.
«Che fai?» chiede Elphias con gli occhi fuori dalle orbite.
«Dormo» risponde l’altro.
«Dobbiamo aiutarla! Non puoi mica dormire!» squittisce Elphias sudando a causa del panico che lo sta attanagliando.
«Che se la sbrighi lei» ringhia Aberforth chiudendo gli occhi.
«Non puoi essere così egoista! Lei è sempre così gentile verso di te!» lo rimbrotta Elphias che non ne ce la fa più.
«Ti svelo un piccolo segreto. Lo sono, eccome. Sono un grande malvagio egoista e me la godo tutta» sghignazza perfido.
«Se tu risponderai assieme a me ad ogni tua chiamata, prometto che ti offrirò qualcosa da bere!» prova a convincerlo Elphias.
«E come faresti? Visto che quel misero idiota ci ha chiusi dentro, dimmi come!» chiede sarcastico Aberforth prendendo la mira per riuscire a schiantarlo meglio.
Elphias sorride malizioso, si guarda in giro e apre la giacca finemente arricchita di dettagli di alta sartoria.
Aberforth rizza diritto sul vecchio sofà quando si rende conto che sono una caterva di bottiglie di Burrobirra.
«Piccolo Doge, sei una gran vecchia spugna!» gracchia Aberforth.
 
 
Per buoni cinque minuti nessuno risponde dall’altra parte.
Augusta teme che la situazione sia davvero disastrosa e il respiro inizia a mancarle nuovamente; non riesce a vedere nulla e quel senso di incertezza la sta dilaniando.
«Augusta! Augusta?» ciarla qualcuno dallo specchio.
Augusta spalanca gli occhi sorpresa e forse anche rincuorata; riesce a scorgere il volto tutto arrossato di Elphias che sorride come un ebete.
«Elphias! Sono Augusta, cosa state facendo? Puoi aiutarmi? Mi sono persa, non so che strada prendere» ammette Augusta in preda al panico.
«Sì, Elphias aiutala. Guardala, sembra fuori di sé. Non ti preoccupare, dopo tre Burrobirre riesce ad andare liscio come l’olio!» latra un’altra voce.
«Testone l’hai ubriacato, vero? Sei uno stupido idiota come sempre! Adesso cosa farò?» sbotta lei trattenendo un singhiozzo esasperato.
Aberforth sorride perfido.
«Così impara a voler ubriacare me! Cosa direbbe mio fratello se riuscisse a vedere il balletto che ha improvvisato poco fa? AH! Roba da far rizzare ogni pelo che possiedi!» ride Aberforth.
«Lascialo stare perché se torno e non è  tutto intero ti spedisco nel Lago Nero!» lo minaccia Augusta che non ne può già più della sua immaturità.
«Si tranquilla, faccio passare un po' il tempo. A proposito, come te la passì laggiù? Qualche mostro della palude è già venuto fuori?» chiede Aberforth tanto per occupare il tempo.
«Non lo so! Ho avvertito uno strano formicolio alla schiena e ho l’impressione che qualcuno mi stia osservando» rivela lei esitante.
«Ricevuto, ti saluto allora. Ho ancora una decina di bottiglie da far smaltire al bamboccione…» tenta Aberforth di liquidarla.
«Aspetta! Dimmi dove devo andare!» urla Augusta.
«A destra, vai a destra!» gracchia Elphias dall’angolino della stanza.
«Bene, adesso devo andare. Sai già cosa fare, non credo tu abbia bisogno di me, sei presuntuosa già di tuo» esclama fintamente conciliante Aberforth.
«Sei davvero un immenso idiota» sbotta Augusta sorridente.
«Se lo sai perché chiedi? Segui la voce interiore, quella che di solito nascondi, come direbbe quell’inutile poltiglia di mio fratello. Anzi, guardati le spalle che non ho tempo di ascoltare le tue fregnacce e di recuperare i tuoi resti» la saluta burbero.
Augusta rimane indispettita davanti allo Specchio Gemello per poi riuscire finalmente a ridere di cuore.
 
Pochi minuti dopo Augusta procede a destra e quando svolta sa che quello stupido di Aberforth ha davvero esagerato con Elphias visto che si trova davanti un’immensa pozza scura.
«Dannazione» digrigna.
Nell’aria avverte un odore acido, sulla lingua qualcosa che non conosce anzi che risiede al di là, dove non  vuole mai mettere piedi.
Augusta ha freddo.
Freddo fuori, ma soprattutto dentro. 
Lei non ha mai paura, ma quell’immenso specchio nero la intimorisce fino a farle venire il fiatone.
Sa bene cosa deve fare, l’unico modo per arrivare dall’latra parte è nuotare ma dopo quel giorno lei non riesce più a farlo. 
Non può usare la magia, non può ricevere aiuto, non può fare alcunché.
Allora in quel silenzio oscuro, dove tutto è perso ciò che si può udire è il suo grido straziante; si stringe a riccio e singhiozza forte.
I minuti passano inesorabili e le lacrime hanno oscurato i suoi occhi e poi la vede dall’altra parte. Immobile, imperitura con un sorriso sgraziato che mostra i denti e Augusta non ci sta più.
Si alza malferma, il volto rigato e gli occhi che bruciano.
L’acqua non è gelida al tocco. 
Pian piano la ricopre e chiude gli occhi. Si dirige lenta e provando a respirare; nuota lentamente e riesce a vedere anche l’altra riva.
Ma lei è più crudele e sghignazzando le dice:« Fine dei giochi».
Qualcosa all’improvviso la trascina giù.
 
 
«Queeeeesta vicenda che HIC! Canto per lei, messere HIC!» canta stridulo Elphias con il completo di tartan rivoltato e sui capelli uno strano cappello.
«Che ignominia, Piccolo Doge. Voglio l’altra strofa di Orpo che va in campagna!» gracchia Aberforth che ha deciso che impiegherà così la giornata: ubriacarsi e far ubriacare Elphias.
«Non la conosco, HIC!» singhiozza Elphias.
Aberforth muove il capo fintamente offeso.
«Piccolo Doge, che peccato! Albus Silente l’adora!» gli dice per poi  maledirsi per il sol pensiero.
«Albus, che ragazzo meraviglioso» risponde Elphias.
Aberforth non risponde; gli occhi che sono annebbiati dalla tristezza sembrano ardere.
Può definire suo fratello in tanti modi, ma quell’aggettivo sembra essere qualcosa di davvero lontano.
Si volta di scatto, con fare sgarbato sposta Elphias dal divano lasciandolo a terra con le braghe di fuori e davanti agli occhi rivede anche lei, Millicent.
Allora si chiede se il suo destino sia di non essere mai amato, sopportato. E quell’alcool che ha deciso di tracannare sembra solo affievolire ciò che internamente lo divora.
«Sai mio caro amico, che somigli tantissimo a tuo fratello?» gli dice con voce impastata l’altro.
«STUPEFICIUM» bisbiglia.
C’è stato un tempo, molto lontano dove avrebbe tanto voluto.
Poi però ride, sporco.
 
 
L’aria non arriva più ai polmoni.
Un lungo tentacolo la sta trascinando sempre più giù e Augusta si chiede se quella fine sia giusta, dopotutto. Non ne parla mai, ma ciò che internamente la divora è molto più mostruoso di come sembra al di fuori e quindi per un solo attimo non oppone resistenza. Poi però ricorda, che al di fuori ci sono i suoi amici, burberi, sdolcinati e si chiede se arrendersi sia giusto, se gettare la spugna sia ammissibile per loro.
E poi ricorda ancora quel giorno, quando davanti al lago Walburga ha tentato di soffocarla solo perché ha pensato che quell’ignobile di Orion Black potesse sposarla. Come se lei fosse in qualche modo una complice, come se fosse partecipe.
Augusta ricorda bene il senso di perdita immane che ha provato quando ha visto i suoi occhi grigi sulla riva; folli, freddi, lucidi.
«Perché?» le ha solo chiesto e lei ha sorriso dicendo: «Vale la pena tentare di eliminare i rami secchi».
Allora ha capito che in questo mondo per vivere bisogna lottare e per sopravvivere bisogna nutrirsi delle cicatrici che si conservano.
Un fiotto di luce fuoriesce da lei e subito l’Avvicino che la sta stritolando scompare; si ritrova dall’altra parte e finalmente l’immagine di Walburga che la sta tormentando da tempo sembra sbiadire.
«Sei una sciocca!» le urla.
Getta l’acqua fuori dai polmoni, respira affannata.
Walburga è scomparsa, non c’è mai stata in quella densa oscurità.
 
 
«C’è qualcuno? Mi potete rispondere! Aberforth, testone!» grida spazientita dopo un’ora di indecisione totale.
«Quella capretta lì, non è la stessa più, non è la stessa ormai![1]» canta a squarciagola qualcuno.
Augusta impreca.
«Elphias, ti prego!» dice disperata.
All’improvviso lo vede arrivare tutto ammiccante, il volto arrossato gli occhi molto lucidi.
«Augusta! Come stai?» cinguetta.
«Cerco di sopravvivere, voi? Vedo che siete impegnati» ribatte secca.
«L’unico impegno che può avere un tizio del genere è discutere dei completi di tartan e dei dolci che ingurgita continuamente! AH!» sghignazza Aberforth.
«La canzone della capretta l’hai scritta tu?» chiede esterrefatta Augusta che non sa che pesci prendere.
«Non dire nulla, sono un poeta» dice lui alticcio.
«I poeti sono altro! Passione, follia, dolore. HIC!» recita brillo Elphias.
«Ma ho altri talenti, nascosti. Molto nascosti» aggiunge lascivo Aberforth.
«Mi dite per le mutande di Merlino quale strada devo prendere? Mancano due ore e vorrei uscire da questo posto!» sbotta Augusta che ha desiderato schiaffeggiare Aberforth fin dal primo momento.
«Ebbene, attendi» dice Elphias trotterellando e spostando tutte le cianfrusaglie che hanno accumulato.
Si avvicina malfermo riuscendo a mettere a fuoco ciò che si trova per poi strabuzzare gli occhi.
«Dove ti trovi?» chiede Elphias tentando di mantenere la soglia dell’attenzione alta.
«C’è un grande lago, tipo. Mi sono liberata di un Avvincino, poi sono uscita a destra» dice Augusta guardandosi intorno.
«Un Avvincino? PUAH, tremendo!» la canzona Aberforth ubriaco e maligno.
«Dovresti trovartelo nel letto mentre dormi, forse capiresti cosa significa, caprone» lo rimbrotta lei.
«Aspetta, ecco. Devi, sì andare a sinistra per poi…cosa c’è scritto. Non riesco a vedere bene» mormora Elphias tutto attento.
In un lampo appella dei piccoli occhialini che poggia sul naso.
«Sì, eccoci. Quindi vai a sinistra tranquilla e poi… ma chi ha scritto una cosa del genere! TU!»  urla stridulo in direzione di Aberforth che sorride malevolo.
«Sei un grande scostumato, vergognati! Come hai potuto insinuare una cosa del genere, mente degenere, sei sempre il solito!» continua Elphias scandalizzo.
Aberforth ride con le lacrime agli occhi.
«Stanno per passare dieci minuti, presto!» tenta Augusta.
Ma è tutto inutile, Elphias grida scorrucciato e Aberforth tracanna da bere senza ritegno allegro come non mai.
«Elphias, dimmi dove andare!» urla Augusta.
«Come hai potuto scrivere “Albus Silente infame, per te solo lame?!”» esclama affranto Elphias con la bacchetta sfoderata.
I dieci minuti sono terminati.
 
 
Augusta procede spedita.
Quel posto è oscuro, ma dopo la nuotata nel piccolo lago avverte dentro una fiamma che le infonde tanto coraggio.
All’improvviso però sente nell’aria una sorta di ticchettio, qualcosa che proviene da lontano. Un rumore sordo che però aumenta sempre più; all’inizio non ci fa caso però poi nota che c’è qualcosa attaccato alla sua veste.
Spalanca gli occhi.
«Ma che diamine…» sussurra.
Si rende conto che ci sono tanti, milioni di Chizpurfle che muovono le loro piccole zampe e tenaglia minacciosi.
La bocca dello stomaco si stringe e le sue gambe involontariamente iniziano a correre come matte; non si rende nemmeno conto della strada che ha preso, non capisce nemmeno dove andrà a finire.
Corre, corre, corre.
Lei ha la fobia di quelle zampette, il sudore imperla il suo viso e senza rendersi conto cade a terra probabilmente sbucciandosi anche il ginocchio destro.
Il respiro è corto e non riesce più a capire che strada prendere; si ripara in un cubicolo per poi mettersi a gattonare in un piccolo corridoio adiacente.
Così passa un’altra ora; Augusta non fa che gattonare, ormai esausta non riesce più a muoversi.
Vorrebbe un po' di supporto, lei non lo chiede mai però non sa più che pesci prendere.
Si poggia su una piccola galleria, subito dopo afferra lo specchio.
«Aberforth Silente» sussurra.
 
«Ma che vuoi ancora? Questa storia sta portando un sacco di rogne» sputa sgarbato dall’altra parte.
«Sei davvero…» inizia Augusta per poi bloccarsi.
All’improvviso una musica, la più bella mia ascoltata, la più dolce mai percepita e la comunicazione s’interrompe..
Augusta si muove velocemente, lei deve trovare chi sta cantando, lei deve avvicinarsi deve capire  cosa succede.
Perché dove c’è quel suono potrà trovare solo la felicità.
Augusta lo sa, poco importa che ha il corpo tutto pieno di fango, poco importa che…
Che?
Nemmeno lei ricorda cosa.
Augusta riesce a trovare un piccolo spiazzo e mentre la musica aumenta li trova tutti là davanti.
Ci sono i suoi genitori.
Sono così belli, così giovani! Ma soprattutto vivi. E Augusta, che da quando sono periti in quel terribile giorno si tormenta ogni momento di aver preso il treno, quel primo settembre che ha sconvolto la sua esistenza.
Corre a stringerli e ci riesce pure! Benedice quel suono, si riempie il cuore, l’anima.
«Mi dispiace, davvero mamma e papà. Sarei dovuta rimanere a casa, non venire ad Hogwarts quel giorno» dice sconsolata. 
Davanti agli occhi quei momenti, che sono periti in uno strano incidente pochi mesi prima e le sue giovani lacrime che giorno dopo giorno si sono fossilizzate, come ghiaccio.
«Non ti preoccupare, tesoro mio» dice suo padre.
«Adesso andrà tutto bene» le dice suo padre.
«Augusta!».
Lei si volta di scatto ed eccola Walburga che quel giorno gli occhi grigi che possiede emettono un calore così dolce da farla sciogliere.
«Amica mia» le dice.
«Vieni qui!»Dice un’altra voce.
«Aberforth!» urla Augusta, gli occhi pieni di lui e il cuore felice e leggero come non mai.
«Sei davvero una stupida» le dice, ma il sorriso non è cattivo anzi al contrario, le pare più dolce della stessa melodia che sta ascoltando.
Augusta intanto sta danzando da sola, gli occhi brillanti, un sorriso mai visto sul suo viso che per la prima volta è radioso.
Ma poi incrocia ancora gli occhi di Aberforth; l’amico rozzo che segretamente ammira e qualcosa ritorna a galla.
«Continua a ballare, rimani con noi. Questa musica è così dolce!» le dice sua madre.
«Sei davvero cresciuta, figlia mia» aggiunge suo padre.
Augusta sorride, danza, li abbraccia li stringe e poi ancora una volta incrocia Aberforth.
In testa irrompe un’altra melodia, un altro suono rauco.
«Quella capretta lì non è la stessa più, non è la stessa più!» canticchia lui.
Quella canzonetta stupida  in testa aumenta e frantuma tutto.
 Loro scompaiono.
 Augusta si trova a terra, tutta escoriata, sporca e le lacrime potenti travolgono il suo viso.
Grida a più non posso; sbatte i pugni a terra quando capisce che non rivedrà mai più i suoi genitori, quando comprende che il tutto è stato un suo sogno, illusione bieca.
Una piccola porta si apre, Augusta tutta tremante si dirige in quella direzione; si volta poco prima di attraversare la soglia e le pare di rivedere tutti là che stanno osservando.
Le lacrime ancora rigano il suo volto.
 
 
«Siete stati tremendi» dice quando capisce che la prova è finita e che si trova nella stessa stanza dei due mentecatti.
Elphias sorride felice; alza le braccia e corre a stringerla.
Lei ricambia affettuosa e Aberforth alza una Burrobirra nella sua direzione.
«Sei viva, buon per te» mugugna distogliendo lo sguardo per non preoccuparsi; non l’ha mai vista in quello stato e per un momento è rimasto scosso.
«Mi siete mancati» dice lei sorridente.
«Anche tu! Sei stata grande HIC!» squittisce Elphias provando a trattenere il singhiozzo.
«Sto per vomitare, se divento così abbattimi» brontola Aberforth.
 
«Campioni! Finisce la Seconda Prova!» dice il tizio di prima irrompendo nella stanza.
Augusta cade sulle ginocchia esausta.
«Mi avete triturato i bolidi, adesso fammi uscire fuori omunculo o ti schianto» lo minaccia Aberforth.
Le risate riempiono la stanza.

 
 
 
 

  [1] Riferimento ai Simpsons. 
Note.
Finalmente! Spero vi piaccia. Augusta è molto più della corazza che indossa, spero che sia interessante, magari scriverò qualcosa su di lei prima o poi. Scusate le parti dementi, ma io devo scriverle. Insomma, il mio personaggio preferito è Aberrforth Silente, di cosa parliamo?

 
 
 
 
 
 
 
 
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Capitolo 5
*** When You're Lost in the Darkness ***


 
 
When You're Lost in the Darkness
Terza Prova

 
 

 
 
 
 
La stanza del preside sembra ancora più esigua vista la folla raccolta.
«Beva, signor Silente».
Aberforth grugnisce.
«Non faccia problemi, sa che deve andare così» lo intima il funzionario del Ministero.
Aberforth non fa che imprecare, quella mattina è iniziata proprio male fin da quando l’hanno trascinato a forza in quella stanza con l’obbligo di buttare giù un liquido blu scuro che sembra tutt’altro che invitante.
«Beva» ripete uno di quelli.
«Beva oppure contatteremo un suo familiare più prossimo affinché riesca a persuaderla...» esclama un’altra tizia.
Gli occhi di Aberforth escono quasi fuori dalle orbite; si alza scattante e afferra la boccetta.
«Non fracassatemi le pluffe, meglio questo che lui…» ringhia e con un suono gutturale tracanna tutto il liquido.
 
 
Un sole forte lo sveglia.
Aberforth impreca come sempre e mezzo intontito si chiede cosa possa essere successo; poi realizza  e si limita a rimanere steso a terra. Si chiede se bere quell’intruglio sia stato saggio, anche perché tutta quella faccenda del Torneo fin dal principio ha minato quel briciolo di sanità mentale rimasto.
Certo, l’offerta a quel punto è sembrata molto vantaggiosa anche perché la recondita possibilità di parlare con quel lestofante di suo fratello l’ha inquietato fin troppo e quindi la scelta non ha mai soddisfatto veramente la sua volontà.
«Hai sempre avuto questo vizio».
Aberforth si solleva di scatto.
Scuote la testa, forse ha solo immaginato quella fastidiosa voce…
«La brutta abitudine di dormire a pancia in su!» esclama la voce di suo fratello che con estremo orrore lo sta fissando tronfio.
Albus sembra un’ombra; quasi etereo, sorride benevolo da far venire i brividi.
«Quindi sei morto?» chiede incredulo.
«Hai paura che lo sia?» gli chiede lui.
«Macché, faresti un favore a tutti. Sai quanta gente si salverebbe?!» spiega Aberforth cinico e a suo dire, anticipatore dei tempi.
Albus non risponde e il fratello si guarda intorno.
Sono nella Foresta Proibita senza alcun dubbio; in lontananza avverte rumori molesti e in tutta onestà non ha paura. Qualunque cosa sia nascosta dietro quei tronchi e muschi ammuffiti non gli farà alcun male, di lato infatti ha la vera macchina da guerra implacabile e sofisticata che condivide il suo stesso sangue.
Senza degnare di uno sguardo Albus si mette in marcia verso destra.
«Perché segui quel sentiero?» gli chiede riflessivo.
Aberforth non risponde.
«Dovresti guardarti bene in giro, anche perché la Foresta è enorme» continua Albus.
«Senti, ignobile essere vattene da dove sei venuto, non ho mai avuto bisogno di qualcuno perché dovrei averne di te?!» ringhia Aberforth .
Albus ribatte« Devo venire con te, fino alla fine».
«Bla, bla, bla. Se non mi dai un bacetto avrai un folletto sotto il letto. Hai finito?» lo scimmiotta Aberforth.
Albus non emette più un suono e meditabondo decide che l’unica cosa da fare è seguirlo attraverso quei sentieri impervi.
Aberforth dal canto suo vorrebbe scappare molto lontano; quel Torneo è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso fin dall’inizio e adesso ritrovarsi anche quel mostro di lato, dopo tutto quello che è successo gli sembra una barzelletta di cattivo gusto, come quelle che fa lui volutamente per far innervosire la gente.
La Foresta diventa sempre più fitta con il passare del tempo e mentre Albus non fa che analizzare ogni suo problema fin da quando ha poggiato le chiappe sul vaso per la prima volta, Aberforth nota che c’è qualcosa che giace a terra.
«Dovresti aprirti di più con le persone, sei troppo sulla difensiva» sta blaterando da ore.
«Forse dovrei schiantarli prima che riescano a dire il loro nome, in effetti è uno spreco di tempo e di energia ascoltare quelle inutile frottole» dice Aberforth che finalmente si rende conto che la cosa che giace a terra è un Unicorno.
«Oh» riesce a dire Aberforth che in vita sua non ha mai visto un animale più bello di quello.
«Che animale nobile» spiega il sapientone.
Aberforth non l’ascolta; lentamente osserva l’animale che sembra agonizzante.
Qualcosa dentro si smuove; forse è la sua immagine che balza davanti agli occhi, forse è quel bianco puro che ricorda chi ha perso per sempre.
Non ci pensa due volte e con fare abile trova la ferita dell’animale.
«Non sapresti farlo, non hai studiato abbastanza» esclama Albus con serietà.
Ma Aberforth non l’ascolta minimamente; vorrebbe solo mandarlo a quel paese, solo perché  non si è mai preso la briga di guardare al di là del suo enorme naso  adunco e così rendersi conto che ha le sue stesse capacità solo che non ha la voglia e l’intenzione di usarle.
«Sei bravo» constata dopo poco tempo.
 La gente pensa che lui sia un mostro. Lo nota quando passeggia per i fatti suoi nei corridoi, quando a cena  non trova quasi mai nessuno al suo fianco. 
Nessuno hai mai visto al di là, ciò che la sua corazza nasconde e forse è anche meglio così. Perché lui si sente come separato da un velo e ormai dentro quella bolla non sente la necessità di uscirne.
Stare da solo, non essere ferito e quindi non soffrire.
 
Aberforth fa finta che il tizio non esista e mentre imperterrito cura quella ferita immagina che la vita è davvero ingiusta e quanto avrebbe voluto poter guarire altre ferite, per salvarla.
«Non avresti potuto» dice Albus come se avesse letto nel pensiero.
«Adesso è troppo. Inutile essere, non la nominare. Non devi dire una parola» lo minaccia Aberforth.
«Dico solo la verità» risponde.
Aberforth non ha tempo nemmeno di provare a schiaffeggiarlo che qualcosa morde la sua mano.
Transale per il dolore e quando comprende cosa sta succedendo un sorriso amaro increspa il suo volto.
«Finalmente la storia finisce qua» annuncia alzando la mano che ha un colorito bluastro.
«Acromantula» constata Albus.
 
 
Il sudore imperla il volto di Aberforth che a fatica sta tentando di uscire da quella dannata prova; la ferita gli duole fino a lacerargli i muscoli e le ossa.
«Manda qualche segnale, verranno a prenderti» consiglia Albus.
«No» gli dice secco.
«Hai il braccio nero, ti sei infettato» continua lamentoso.
Aberforth si guarda intorno attento; il braccio è completamente blu scuro.
«Magari muoio, così hai fatto fuori due su due e puoi andare a fare il campeggio estivo col Piccolo Doge» sussurra maligno per poi sospirare tranquillo quando si rende conto che ciò che ha cercato finalmente è davanti agli occhi.
«A te starebbe bene un braccio così, tutto nero. In pendant con la tua anima illustre» dice sarcastico Aberforth che sobbalza euforico quando vede una particolare erba che potrebbe salvargli la vita. 
Albus l’osserva interessato mentre si avvolge la strana erba alla mano e con fare sapiente riesce a far ritirare il veleno dell’animale.
«Come hai fatto?» chiede interdetto.
«Aspetta e spera che lo vengo a dire a te» grugnisce Aberforth.
Procede veloce fino a quando si rende conto che da quelle parti c’è un covo di Golden Snidget.
Aberforth non ci sta, anzi non ci pensa proprio. Non ne vuole sapere niente e quindi decide che aggirare il problema sia la migliore soluzione; così salta dietro ad un tronco riverso per ritrovarsi in un grande spiazzo.
«Bel posto per far pascolare una capra» dichiara tranquillo.
«Non ho mai capito perché ti piacciano questi animali» osserva Albus che ha immaginato diverse congetture che preferisce non esprimere a voce alta.
«Perché mordono le chiappe con acida consapevolezza» spiega Aberforth che sogna dopo Hogwarts di possedere un animale così e di aizzarglielo contro fino a quando non deve correre su e giù per tutta Hogsmeade.
All’improvviso un rumore acuto li fa voltare.
«Ma che diamine…» impreca Aberforth.
Vicino allo spiazzo, in un grande lago un Serpente Marino ha spalancato le fauci.
«Sembra pericoloso» osserva Albus.
«Macché è dolce come uno zuccherino» aggiunge sarcastico il fratello.
Aberforth ha i nervi a fiori di pelle; non solo si trova in una palude dispersa nella Foresta ma adesso anche il serpentone tenta di staccargli qualche gamba.
Si guarda intorno e capisce che c’è solo una via d’uscita: attraversare la pozza d’acqua.
Ride nevrotico.
«Dovremmo portarlo ad Hogwarts, sai com’è per studiarlo» dichiara Albus.
«Così diventa un luogo più sicuro?» lo sbeffeggia Aberforth che però in quel preciso istante capisce che un modo c’è per poter passare indenne e così mette in atto la sua proverbiale astuzia.
«Sai che ti dico, cervellone? Dovresti andare ad osservarlo da vicino. Alla fine sembra più piccolo del Basilisco di Salazar Serpeverde» suggerisce con acume.
Gli occhi di Albus si accendono.
«Due serpenti nello stesso castello? Mmhh» mormora meditabondo fluttuando per quelle parti.
In quel preciso istante Aberforth ha tolto la veste da mago e rapido si è gettato nell’acqua; il Serpente Marino apre le fauci verso l’ombra di Albus Silente e lui nuota con allegro cinismo fino all’altra sponda fino a quando suo fratello esclama: «Ma sei nudo?!».
«Sei un immane balordo» ringhia.
Il Serpente Marino ha scovato l’arcano e si getta a capofitto verso Aberforth che non vede l’ora di schiantare quel lurido doppiogiochista di Albus.
Qualcosa gli afferra la gamba e le fauci graffiano il polpaccio; ma Aberforth non demorde e con un calcio ben assestato lo allontana arrivando dall’altra parte.
«Quindi, non hai il perizoma tigrato come Merlino? Sono solo voci di corridoio» constata ad un certo punto Albus.
Poco dopo l’urlo belluino di Aberforth riempie il silenzio della Foresta.
 
Aberforth ha fame, freddo, fame, rabbia, fame e ancora fame.
«Avresti potuto cacciare qualcosa, sembri davvero agreste, ecco» ammette Albus con una pacata ovvietà da far venire l’ulcera.
«Se esco vivo da questa storia e ti prendo, finisce male. Oh sì, eccome se finisce male!» bisbiglia fuori di sé che pensa a tutti i modi che conosce per dare fastidio alla gente.
Trova dei rami e tenta in qualche modo di scaldarsi con quell’ombra maledetta che non fa che ripetergli quanto sia indecoroso andare in giro nudo.
Poi però il freddo, quello che ti entra dentro le ossa e Aberforth inizia a tremare come una foglia.
«Che succede?» chiede per la prima volta spaesato.
Albus non risponde, ma il freddo aumenta sempre più fino a quando non la sente urlare.
«Sei davvero il mio preferito».
Aberforth sussulta.
«Guarda, questa piccola capretta gioca con me!».
«A-ariana» mormora battendo i denti.
«Non è lei! Svegliati, non è lei. Sono Dissennatori!» urla suo fratello.
Aberforth non ci crede. Quell’immenso idiota non riesce a vederla? Ariana è ferma davanti a lui, con i lunghi capelli color dell’oro che si muovono alla brezza e il sorriso dolce che ha fin da piccola l’ha caratterizzata.
Sta ancora sorridendo quando lui si mette a correre quando capisce che può finalmente abbracciarla forte, che finalmente può chiederle scusa per il male che gli hanno causato.
«Fermi! Perché state litigando?!» urla ad un certo punto.
«Non stiamo litigando, piccola. Non ti agitare!» dice lui apprensivo.
«Non è lei, non è lei!» grida angosciato Albus.
Invece le sue mani stringono quelle di Aberforth che piange per la gioia; lei è viva, lei è ferma davanti ai suoi occhi e quel blu immenso che ha fin da bambino l’ha cullato quando ha avuto paura lo fa ancora una volta.
«Aberforth» lo ammonisce Albus.
Il freddo l’ha paralizzato e quelle mani che per un breve istante di gloria sono sembrate soffici ad un certo punto diventano artigli che lo stringono; il sorriso di Ariana scompare e la disperazione del Dissenatore che lo sta per eliminare per sempre si palesa.
«E-expecto p-patronum» sussurra ma senza volontà, senza voglia.
Forse è quella la fine, il punto e Aberforth crede che sia dopotutto giusto.
«NO!» grida Albus.
Aberforth si prepara alla fine tranquillo ma tutto cambia quando un trottare nervoso lo scuote.
Debole, nudo e affamato apre gli occhi e con stupore immenso nota che l’Unicorno che ha salvato prima sta in qualche modo allontanando il gruppo di Dissennatori che hanno deciso di banchettare con la sua anima.
«Per il tanga di Merlino che roba, da uscir fuori di testa» bofonchia quando si ritrova con il viso sudato a terra.
L’animale trotterella felice e lentamente poggia il capo sulla sua spalla.
Aberforth si alza da terra a fatica.
«Grazie» mormora accarezzando la criniera; ancora è scosso da ciò che ha visto prima.
«Devi ancora trovare l’uscita» lo ammonisce il fratello.
Aberforth non lo degna di uno sguardo perché sa bene cosa fare.
Si avvicina lento all’animale  e con uno scatto veloce sale in sella.
«Sei nudo! Trasfigura qualcosa, veloce» dice ancora Albus.
«Chiudi quella fogna» ruggisce.
Sfiora l’Unicorno sicuro e con cavalcate veloci si inoltrano nel cuore della selva che finalmente non fa più paura e mentre l’aria gli scuote i capelli finalmente capisce che deve farlo, deve vincere per lei.
Eccola la dannata coppa ed ecco tutta la gentaglia che quando lo vede arrivare nudo urla e con un sorriso da folle rimane di stucco.
La banda che prima ha suonato canzonette allegre interrompe rapidamente la sua esecuzione; Abeforth afferra la coppa e l’osserva annoiato.
«Per Godric! Il tizio è nudo!» grida il Ministro della Magia.
«Che indecenza!» urla una donna .
«Che ignominia!» dice qualcun altro.
«Niente male, però» aggiunge chissà chi.
«SILENTE!» tuona il preside.
Aberforth sorride malizioso e fa un cenno ad Augusta e Doge che battono le mani come due allocchi.
«Inutile che vi scandalizzate, dopotutto è  pur sempre un bel panorama!» latra.
Sghignazza e scappa via con l’Unicorno alla ricerca di una sbronza e tanta amarezza.
«Finalmente è finita la pagliacciata!» è tutto ciò che la gente è riuscita ad udire al suo passaggio; poi il fatto che sia rimasto nudo per tre giorni e tre notti con una bottiglia di Ogden Stravecchio ad abbracciare  la statua del cinghiale al piano di sotto è leggenda.
Leggenda come la storia di Aberforth, il campione cinico e introverso che odia il genere umano e che affiderebbe la sua stessa vita ad una capra.
Ma questa è un’altra storia.
 
 
 
 
 
 
 
 Note


Non ci credo che sia finita, lo ammetto: mi dispiace.
So che questo capitolo tocca il fondo ma è bene finire col botto. Se vi piace posso aggiungere un capitolo spin off per capire chi ha messo il nome del nostro campione nudo come un lombrico nel calice di fuoco.
Fatemi sapere e grazie mille per aver seguito questa storia strampalata.

 
 

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