La cosa più pericolosa

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Accordatura – In Dei Nomini ***
Capitolo 2: *** Quale aspetto sgomento e desolato ***
Capitolo 3: *** E non c'è nessun mezzo – Atto I ***
Capitolo 4: *** E non c’è nessun mezzo – Atto II ***
Capitolo 5: *** E non c’è nessun mezzo – Atto III ***
Capitolo 6: *** L’è permesso – Atto I ***
Capitolo 7: *** L’è permesso – Atto II ***
Capitolo 8: *** L’è permesso – Atto III ***
Capitolo 9: *** Brava la vecchia – Atto I ***
Capitolo 10: *** Brava la vecchia – Atto II ***
Capitolo 11: *** Lauretta mia – Atto I ***
Capitolo 12: *** Lauretta mia – Atto II ***
Capitolo 13: *** Lauretta mia – Atto III ***
Capitolo 14: *** Lauretta mia – Atto IV ***
Capitolo 15: *** Lauretta mia – Atto V ***
Capitolo 16: *** Lauretta mia – Atto VI ***
Capitolo 17: *** Lauretta mia – Atto VII ***
Capitolo 18: *** Dunque era vero – Atto I ***
Capitolo 19: *** Dunque era vero – Atto II ***
Capitolo 20: *** Dunque era vero – Atto III ***



Capitolo 1
*** Accordatura – In Dei Nomini ***


Per la serie: la pre-canon che nessuno ha chiesto ma che io avevo bisogno di scrivere. Come di consueto, spero che questa storia possa tenere una piacevole compagnia a tutti coloro che decideranno di avventurarsi nella lettura. :)

Vi inserisco qui anche il link per la medesima storia (la pubblicazione procederà in parallelo) che ho postato su AO3. Lo faccio per chi magari volesse prima dare un occhio ai tag e ai vari trigger warning, a scanso di equivoci. 

 

 

Avviso Numero Uno!

Questa storia fa parte della serie Le Cronache di Portorosso, e si sviluppa sulla stessa linea temporale della mia long L’Ideale del Paguro, anche se raccoglie gli avvenimenti ancor precedenti al film originale. Io sono una delle sostenitrici dell’headcanon che la madre di Alberto fosse umana. (u.u)

A parer mio può anche essere letta separatamente, essendo un prequel, eccezion fatta per questo primissimo capitolo che riprende una scena ambientata in uno dei capitoli dell’Ideale. Potete trovarlo a questo link, nel caso voleste approfondire la lettura (o per un semplice ripasso) e nel caso voleste un’introduzione più dettagliata di Eros, un mio OC a cui affiderò un ruolo importante durante il corso di questa storia.

 

Come noterete presto, poi, ogni capitolo (o ogni arco narrativo) ha il titolo di una traccia del Gianni Schicchi, l’opera di Puccini. Non credo esista una lista ufficiale con i nomi delle tracce, dato che ogni adattamento e ogni versione le suddivide in maniera diversa, quindi mi sono un po’ arrangiata utilizzando i titoli che mi erano più comodi. Spero non me ne vogliate per questa piccola libertà artistica (xD).

Il Gianni Schicchi sarà comunque un elemento cardine, a livello di trama, un po’ come i Malavoglia lo sono stati per L’Ideale del Paguro.

 

 

Avviso Numero Due!

Come appunto avevo già specificato nell’Ideale, per la mamma di Giulia ho scelto il nome “Sara”. Lo metto per inciso dato che lei risulterà un personaggio ricorrente e fondamentale.

 

 

Avviso Numero Tre!

In questa storia ci saranno delle occasioni in cui verrà pronunciata la parolaccia xenofoba che comincia con la T… perché noi del Nord Italia siamo tutti Leghisti Brutti e Cattivi.

Al solito, non giustifico l’uso della parola con la T al di fuori di un contesto puramente fictional – bla bla bla –, non giustifico alcun genere di discriminazione né nei confronti degli italiani né degli stranieri – bla bla bla –, ormai l’ambaradan lo conosciamo più che bene, o no?

Prima di addentrarci nella lettura, stringiamoci tutti intonando un inno alla tolleranza e all’inclusione.


 

 

 

La cosa più pericolosa

 

 

 

 

 

Accordatura – In Dei Nomini

 

 

La cicatrice quella sera aveva ricominciato a pulsare, a scottare lungo la pelle del viso bruciato dall’abbronzatura e scorticato dalle rughe di vecchiaia, a scavare un solco di dolore dalla mandibola, lì dove nasceva, fino al lobo dell’orecchio destro.

Eros si portò una mano alla guancia, percorse la cicatrice, ne massaggiò il tratto bianco e liscio, e grugnì di frustrazione, punto da una scossetta di dolore penetrata fino alla radice dei denti.

Non era un buon segno.

Da quanto tempo non bruciava in quel modo? Mesi? Anni? Decenni? Eccezion fatta per le sere più silenziose e solitarie, per le nottate insonni trascorse a rigirarsi fra le lenzuola impregnate di sudore gelato, per ogni maledettissimo giorno di pioggia, quando Portorosso veniva stretta in un grigio abbraccio di nubi e ricordi che riempivano la sua mente di ombre e crudeli bisbigli.

Ma questo dolore era diverso dal solito. Questa era la voce della cicatrice che reclamava la sua attenzione, che riprendeva a sanguinare, che schiariva la nebbia di ricordi, estrapolandoli dal suo cuore ed esponendoli a una luce del tutto nuova. Una luce portata in paese da qualcuno che non avrebbe nemmeno dovuto esistere.

Sugli altri tavoli del Gabbiano d’Argento piovigginarono chiacchiere e risatine spensierate, come se nulla di eccezionale fosse successo quella sera all’osteria.

«… a ‘sto giro però toccava a te offrire.»

«Sì, ma la scorsa domenica io ho messo le sogliole in tavola, quindi quelle valgono come pagamento.»

Gli rispose una risata aspra e gracchiante, più simile a un tossito. «Sei proprio un vecchio tirchio di…»

Eros scrollò il capo, si massaggiò le tempie per allontanare il fischio che gli ronzava nel cranio, e fece scivolare lo sguardo davanti a sé, sul lato del tavolo occupato fino a poco prima da Massimo e dal mostriciattolo.

Un odore acido e liquoroso si innalzava dalla superficie di legno spolverato di briciole di pane abbrustolito e maculato da chiazze di vino rappreso. La caraffa smaltata di bianco e decorata dai fiori di tempera era ancora lì, vuota e sporca come i bicchieri che i due ospiti avevano lasciato prima di depositare una tintinnante manciata di lire nel piattino e di andarsene a casa.

Una goccia di vino piovve dal becco della caraffa. Aggiunse un’altra macchia color prugna alla superficie del tavolo irradiato dalla luce rossastra che attraversava i paralumi delle lampade a forma di conchiglia.

La seggiola dove il mostriciattolo era rimasto seduto durante la serata era ancora leggermente girata di lato, dopo che Massimo l’aveva spostata per caricarsi il ragazzo sulla spalla e portarselo a casa, già ronfante e mezzo addormentato. Ma la presenza del ragazzo era ancora impressa lì, come l’ombra di un fantasma, come se avesse lasciato la sua impronta, una macchia appiccicosa come quelle che sporcavano il tavolo sotto i bicchieri di vino.

Eros pescò una delle olive taggiasche avanzate nella ciotola. La accostò alle labbra che un po’ gli tremavano. Corrugò le sopracciglia, ci ripensò, e la tornò a tuffare in cima alle altre.

Inclinò la caraffa dal cui becco piovve un’ultima goccia di vino rosso e ne sbirciò il fondo. Vuoto. Sventolò la mano e chiamò Angelo per farsene portare un’altra. Ne avrebbe avuto bisogno. Dannazione, se ne avrebbe avuto bisogno.

Riempito il bicchiere, Eros gettò il capo all’indietro e buttò giù un sorso ingordo che aveva il sapore aspro e sgradevole dell’aceto.

Il calore del vino gli salì alla testa. Il ronzio dei pensieri si acquietò e il dolore alle tempie si affievolì, mentre la luce che abitava le pareti dell’osteria si fece più opaca, squagliando l’accozzaglia di ombre e di immagini che gli lampeggiavano davanti a ogni battito di palpebre. Anche le voci dei pescatori si districarono, tornando distinte l’una dall’altra.

«… aah, questa bevuta me la porto sul groppone fino a domani, dannazione. Spero non mi venga un mal di testa come quello di sabato scorso.»

«Colpa tua.» Volò uno scapaccione. «Lo sai di non avere più l’età, vecchio bacucco che non sei altro.»

«Ehi, belinon!» Una manata sul tavolo e il dondolio delle bottiglie vuote. «A chi hai dato del vecchio bacucco?»

Si sparse un coro di risate impastate dall’alcol. Qualcuno tossì, si beccò un paio di manate sulla schiena. Si alternò lo sfogliare delle carte da gioco, lo scroscio del getto d’acqua che riempiva il lavandino dietro il bancone, il trillo di bicchieri di vino che venivano raccolti da Angelo e sostituiti con quelli più piccoli ricolmi di grappa e di amaro digestivo.

Aleggiava una bella atmosfera, lì al Gabbiano d’Argento. Allegra e frizzante, nonostante fosse ormai orario di chiusura.

Avevano appena spento il televisore appeso sopra il bancone. Qualche gruppo di pescatori era ancora radunato ai tavoli per godersi un ultimo goccio di grappa e per giocare l’ultima mano di carte. I più audaci non sarebbero andati a letto. Avrebbero aspettato l’alba per imbarcarsi e dare inizio alla pesca mattutina. Ma chi mai sarebbe stato in grado di prendere sonno dopo una serata tanto fuori dall’ordinario? Avevano bevuto, avevano riso, si erano scambiati le ultime barzellette, avevano giocato a carte fino allo sfinimento, e i borbottii non erano ancora cessati, brillanti e roventi come zampilli di brace. E come avrebbero potuto spegnersi, le chiacchiere e i pettegolezzi, dopo una nottata così surreale?

«Alla seconda mano lo hai un po’ aiutato, ammettilo.» Matteo picchiettò il suo mazzo di carte sul tavolo, pareggiandolo, e lo sventolò verso Simone, rivolgendogli un ghigno divertito. «Ti ho visto, lo hai lasciato pescare quel Fante che tu avevi già adocchiato da due turni.»

Simone allontanò lo sguardo. «È stato il vino.» Sorseggiò dal suo bicchiere. «Ci ho visto doppio e non mi sono accorto che c’era un Fante nel piatto.» Fece schioccare la lingua sul palato. Il vino avanzato oscillò fra le pareti del bicchiere. «Per chi mi hai preso? Sono un professionista, io. Mica faccio favoritismi.»

«Certo, certo» commentò Matteo, nascondendo il sorriso dietro il mazzo di carte fatto sventolare sotto il naso. «Il vino. Come no…»

«Ma per lui quella era la sua prima bevuta, ci credete?»

«Mi sento come se lo avessimo battezzato.» Giovanni innalzò il bicchiere al soffitto. «In nomine vini…» Lo fece trillare contro quello di Simone, ed entrambi scoppiarono in una grassa risata di compiacimento.

«Dobbiamo pensare noi da ora in poi a indurirgli le ossa e a scolpirgli la schiena. Massimo lo tratta come se fosse un pulcino, mica va bene per un ragazzo della sua età.»

«Ma quanto pensate che abbia, adesso?» Simone scoccò a Giovanni un’occhiata interrogativa. «Tredici, quattordici anni?»

«Oh, be’, fammi pensare.» Matteo sollevò gli occhi dal mazzo di carte per rimuginarci su. «Se ora sono passati quasi quindici anni dall’estate che…» Gli arrivò un cazzotto sulla spalla. «Ahu» protestò. «Che c’è? Che ho fatto? Che ho detto di male?»

«Non dovremmo parlarne» digrignò Michele. «Non qui.»

«Ooh, quante idiozie.» Matteo aggiustò la seggiola e si spolverò la manica del maglione. «Mica è un segreto. E ormai lo hanno capito tutti che lui è…»

«Zitto, idiota.» Questa volta fu la pedata di Giovanni a rimbalzargli addosso e a metterlo a tacere. Attraverso un rapido scatto delle sopracciglia, i suoi occhi arrossati dal vino balenarono in direzione di Eros. «Non davanti a Eros.» Anche lui lo mormorò a denti stretti.

«Oh…» Un paio di loro si girarono. Certi arricciarono le spalle, altri finsero di concentrarsi sulle carte da gioco, altri ancora si versarono un altro bicchierino di grappa, raschiarono i piatti per sgranocchiare gli avanzi della cena, e per quell’istante le chiacchiere si acquietarono.

Eros fu del tutto indifferente alle loro parole, così tornò a sprofondare nella sua bolla di solitudine. Aveva bisogno di silenzio, di raccogliersi nei suoi pensieri, di rimuginare su quello che era successo quella sera e su tutti quegli avvenimenti che stavano sconvolgendo Portorosso da più di un anno a quella parte.

Guardò verso l’altro lato del tavolo a cui era seduto. Gli vennero i brividi. Sedersi a tavola davanti a quel mostriciattolo… chi mai avrebbe immaginato che un giorno ci sarebbe riuscito? Che sarebbe stato capace di sopportare la sua presenza e di condividere la stessa tavola, le stesse posate, lo stesso vino? Ed era stato Massimo a portarlo lì da lui. Massimo a cui Eros non rivolgeva né la parola né lo sguardo da più di un anno, da quando aveva saputo che si era preso il mostro in casa, allevandolo come figlio suo, alla pari di Giulia. Si stava prendendo cura di lui donandogli un riparo, del cibo, dei vestiti, affetto e protezione… tutto quello di cui un ragazzo aveva bisogno per vivere sereno e per sentirsi parte di quella che ormai era diventata la sua casa.

Eros aveva odiato Massimo. Si era sentito tradito. Fra tutti coloro che avrebbero potuto rendersi protagonisti di una simile rivoluzione davanti agli abitanti di Portorosso, davanti all’orda dei pescatori a cui era stata concessa l’occasione di consumare quella vendetta che reclamavano da quindici anni or sono… proprio Massimo. Lui che era stato ingannato, che aveva sofferto, che aveva giurato sulle sue lacrime e sul sangue di Eros che avrebbe sterminato tutti i mostri marini che avrebbero osato allungare anche solo una zampa sulle strade del loro paesino. E invece eccolo lì: prendersi il mostriciattolo sotto l’ala del pastrano, difenderlo dalle occhiatacce e dalle malelingue dei pescatori, caricarselo in braccio e portarselo a casa dopo che il ragazzo era crollato di sonno sul tavolo dell’osteria, con le carte da gioco sparpagliate sotto la guancia, un filo di vino a colargli dalle labbra, e la bocca piegata in un sorriso ebbro e insonnolito. Innocuo e adorabile come avrebbe potuto esserlo un ragazzino qualsiasi.

Perché il Cielo mi sta tirando questo scherzo?

Eros si massaggiò la fronte rugosa e indolenzita. Ormai nemmeno i tonfi del vino che picchiavano sulle tempie riuscivano a cancellare l’eco di quei pensieri.

Se penso che mi sono anche preso la responsabilità di stargli dietro, ora che ci sarà da lavorare sull’Ape prima di vendergliela…

Tutte scuse, naturalmente. Un piano ben studiato da Massimo, da Tommaso, e dagli altri pescatori – i più clementi e tolleranti – per far avvicinare Eros al mostro.

E alla fine ci sono cascato.

Forse anche lui si stava rammollendo. Forse non avrebbe dovuto prendere quella decisione dopo aver bevuto tutto quel vino. Forse stava davvero diventando vecchio.

«… potremmo anche chiedere a Massimo se ce lo lascia ogni tanto per quando usciamo in mare.» Matteo se la rise di gusto. «È un gondonetto di quelli giusti. Pensa a quanto pesce si potrebbe tirare su se ci fosse lui a stare dietro ai banchi o a scandagliare il fondale.»

«Ma ci possiamo fidare sul serio? Insomma…» Michele prosciugò la sua grappa, arricciò una smorfia contrariata e tamburellò le dita sul tavolo. «D’accordo che non ha ancora azzannato nessuno, ma rimane pur sempre un…»

«Un ragazzo, è questo che è.» Tommaso, dal tavolo affianco, indurì lo sguardo per rimproverarlo. «È pericoloso tanto quanto può esserlo un ragazzo della sua età, ecco tutto.»

«Sì, e quando sarà cresciuto?» insistette Michele. «Magari l’istinto omicida gli sale quando sono grandi. Magari raggiungono la pubertà e con quella viene anche la sete di sangue.» Si picchiettò due dita sulla tempia. «Per me voi siete matti a fidarvi di lui e permettere che se ne vada a zonzo in mezzo ai vostri figli, alle vostre mogli…»

«E di cos’hai paura?» Tommaso si alzò da tavola, si calcò il basco sulla testa e raccolse la giacca dallo schienale della seggiola. «Che ti trascini in acqua e che ti sbrani le budella? Sta’ tranquillo. Chi mai la vorrebbe rosicchiare una carne secca e rancida come la tua, vecchio bacucco che non sei altro?»

Gli altri seminarono una pioggia di risate che ravvivò l’ambiente della sala da pranzo.

Fra le risa, la voce di Matteo emerse dalle altre. «Ehi, Eros!» esclamò. «Tu che ne dici, che ci mangerà tutti?» Assottigliò uno sguardo più fine e complice. Le guance rosse di vino e gli occhi brilli. «Lui sembra proprio che alla fine non se lo sia mangiato. Forse per i mostri marini non valgono le regole dei genitori che divorano i propri figl – ahu!» Si strofinò il braccio e sbraitò addosso a Michele. «La pianti di seminare sgomitate?»

«E tu la vuoi piantare di seminare una stupidaggine dietro l’altra? Tutti quanti voi…» Gli occhi truci di Michele passarono da un pescatore all’altro. «Abbiate un minimo di tatto, Santo Dio.»

E in effetti tutti, uno dopo l’altro, chinarono il capo prostrandosi come davanti all’altare della chiesa, sentendosi d’improvviso colpevoli per quelle risate e per quegli schiamazzi.

Eros non ci fece caso, aveva altro a cui pensare. Continuò a rivivere quella serata, a soppesare le immagini che si susseguirono come lo sfogliare di un mazzo di fotografie. Il volto del ragazzo, i suoi gesti così crudelmente familiari, quel suo modo scomposto di stare seduto e di parlare a raffica, di sparare idiozie, di sorridere in quella maniera così sfacciata. Sorrisi fieri e sbruffoni che Eros aveva conosciuto in un’altra vita, ormai. Sorrisi che non avrebbe mai potuto dimenticare.

Angelo giunse al suo tavolo per portare via la caraffa vuota assieme ai due bicchieri e al tagliere su cui era avanzata qualche briciola di pane abbrustolito e qualche crosta di formaggio. «Dura, stasera, eh, Eros?»

Eros sbuffò e bevve un altro po’. Quella fu la sua risposta.

Angelo resse il vassoio con una mano sola, si asciugò il palmo sul grembiule e rivolse a Eros uno sguardo più morbido e apprensivo. «Sicuro di sentirti bene? Guarda che non devi sforzarti di…» Fece spallucce. «Di reprimere tutto quello che ti sta passando per la testa. Sappiamo benissimo quanto possa essere stata dura per te, sai, il fatto di averlo qui, di avergli parlato. Forse, ecco…» Lanciò un’occhiata dietro di sé, verso gli altri tavoli. Soffiò un sospiro avvilito, si grattò la nuca e abbassò la voce. «Forse abbiamo fatto male a coinvolgere Massimo. Forse avremmo dovuto lasciare che la cosa si sviluppasse da sola, anche senza tutta la storia dell’Ape e delle faccende da sbrigare in officina, e…»

«Sto bene.» Non era vero, ma quelle ultime energie che gli erano avanzate Eros voleva impiegarle per mantenere intatta la sua integrità. «Smettetela di trattarmi come se fossi di vetro.» Rigirò il vino avanzato laccando di rosso le pareti del bicchiere. «Ho accettato di prenderlo a lavorare con me, mi sembra. Ecco.» Buttò giù un sorso aspro e pesante. «Non è successo nulla che non volessi che succedesse. È stata una mia decisione. Mia e di nessun altro.»

Angelo arruffò i baffi, ci rimuginò sopra e poi i suoi occhi si ravvivarono, come per aiutare Eros a risollevarsi. «Forse le nostre serate saranno un po’ più movimentate del solito, da adesso in poi.» Sorrise e indicò il bancone. «E potrei anche tornare a tirar fuori il vecchio giradischi, dato che il televisore fa sempre le bizze e non si riesce a…»

Eros lo linciò con un’occhiataccia.

Angelo si rimpicciolì nella penombra. Nonostante il capo basso, riuscì a tenere alto quel sorrisetto nervoso. «N-no» balbettò. «Certo che no. Sarebbe ancora una pessima idea.» Si girò per sventolare un rapido saluto a Tommaso che si stava dirigendo alla porta dopo essersi abbottonato alla giacca. A voce ancor più bassa, tornò a rivolgersi a Eros. «Ascolta, non dare troppa retta a quello che dicono.» Posò il vassoio sul tavolo. «Insomma, non sappiamo nemmeno…» Si sedette al posto occupato poco prima da Massimo. La sua voce sfumò in un bisbiglio. «Non sappiamo nemmeno se Alberto possa sul serio avere qualcosa a che vedere con…» Deglutì. Le sue guance sbiancarono e le sue labbra tremolarono sotto i baffi. «Con lui.»

«Balle.» Eros rispose in fretta, senza pensarci nemmeno mezzo secondo. «Certo che ha qualcosa a che vedere con lui. Ha tutto a che vedere con lui.» I ricordi gli martellarono la testa e la cicatrice bruciò come una scossa elettrica, come il giorno in cui aveva sanguinato per la prima volta. Bruciò come un sorso di liquore buttato giù d’un fiato, come tutto il vino che gli ribolliva nello stomaco.

Eros sapeva di non sbagliarsi. Non poteva sbagliarsi. Lo aveva capito dall’istante in cui aveva visto il ragazzo valicare la soglia del Gabbiano d’Argento, proprio come aveva visto il mostro entrare in quella stessa osteria quindici anni prima. Era il ripetersi di un ciclo, di una spirale maledetta. Incrociando quella faccia, il cuore gli si era fermato e lo stomaco si era annodato in un groppo di nausea. Aveva rivisto quel muso che tanto aveva sperato di dimenticare e che, nonostante gli anni trascorsi, ancora continuava a perseguitare i suoi incubi.

Il muso di quella creatura grondante che, ringhiando sotto la pioggia e rizzando le squame sotto gli abiti, aveva brandito gli artigli, graffiato un fulmineo lampo blu sotto la pioggia, e colpito Eros in pieno viso. Disarmato dell’arpione, Eros era caduto di schiena. Un rauco gemito al sapore di polvere e ferro. Un’esplosione di scintille sotto le palpebre strizzate. Le mani aggrappate alla guancia già gonfia, dolorante, e imbrattata di sangue bollente.

Il mostro aveva sventolato la coda, era avanzato sotto la pioggia seminando impronte di sangue sul suolo di pietra, aveva calpestato l’arpione spezzandone l’asta, e aveva allargato la sua ombra su di Eros. Un velo di condensa era vibrato fra le sue zanne bianchissime e socchiuse. Gli occhi accesi come tizzoni nonostante l’oscurità calata sul suo muso. Gli occhi iniettati di sangue di un demonio emerso dall’Abisso.

Maledetta bestiaccia.

Eros si massaggiò la guancia, percorse il profilo dolorante della cicatrice attraverso cui si materializzò un ghigno amaro. «Come se potessi dimenticarmi il muso del disgraziato che mi ha fatto questa.»

Angelo sapeva che aveva ragione, ma azzardò comunque un altro tentativo, come se si fosse trattato di vincere una partita a carte. «Eros, ascolta. Lo sai come sono queste…» Impastò le parole, in cerca di quella giusta. «Queste creature. Si somigliano un po’ tutte, ed è facile confondersi, credere che una sia uguale all’altra.»

«Ma io sono certo di averlo riconosciuto.»

«Magari la tua non è una vera certezza.»

«E allora cosa sarebbe?»

«Una speranza.»

Eros stritolò il bicchiere fra le dita tremanti. Le unghie giallastre stridettero sul vetro. Una speranza. «E che cos’è che starei sperando?» sbottò. «Di ritrovarmelo davanti? Magari per porgergli l’altra guancia? Mi auguro tu stia scherzando.»

«La speranza di una seconda opportunità.» Angelo si rialzò e diede una pulita al tavolo con lo strofinaccio. «Non per quello che è successo con lui, ma per com’è andata a finire con lei.»

Eros rabbrividì lungo la curva della schiena ingobbita. Si morsicò le labbra aride, sporche di vino, e ingoiò a vuoto per incassare l’improvvisa fitta di dolore che era sprofondata fra le costole. Ringraziò di essere troppo debole, stanco e ubriaco, altrimenti non ci avrebbe pensato due volte a scaraventare un pugno sui denti di Angelo, facendogli rimangiare quello che aveva appena detto.

«Hai già sofferto abbastanza, Eros.» Angelo ripiegò lo strofinaccio e rivolse a Eros uno sguardo premuroso. Paterno. «Ascolta il mio consiglio da amico e lascia perdere questa storia. Sta’ con il ragazzo, se ti va. Prendilo a lavorare con te e rimanigli vicino. Ma non sperare di trovare in lui qualcosa che non ti può più essere restituito.» Scosse il capo. «Non sperare di vedere in lui qualcosa che non gli appartiene.»

«Ma io non sto sperando di vedere in lui qualcosa che gli appartiene.» Un lungo sospiro svuotò il cuore di Eros di tutta la tensione che gli si era aggrovigliata nel petto. «Io so che gli appartiene e basta

Dopo un battito di palpebre, il viso del ragazzo si materializzò sotto una luce più tenue, tiepida e carezzevole come il rossore di un’alba estiva.

Affiorarono le prime lacrime, gli occhi scottarono, ma Eros fu abbastanza testardo da stringere i denti e da ricacciare indietro il pianto. Attraverso quella calda vampata di emozione, però, lo raggiunsero sussurri in grado di sciogliere il nero grumo di ghiaccio e di rancore che da anni alloggiava nella sua anima.

Nonostante avesse trascorso tutta la serata a schivarli, Eros rivide gli occhi di Alberto, il loro verde. E da quel verde sbocciò un altro paio di occhi identici.

Occhi che gli sorridevano da una culla foderata di bianco, quando Eros si chinava a baciare le manine di quella creatura in fasce così pura e innocente. Occhi che splendevano al sole dopo una giornata d’estate trascorsa a divorare gelati, a sguazzare fra le onde del porto, e a correre a piedi nudi fra le vie del paese. Occhi che bruciavano di frustrazione dopo un’arrabbiatura, un litigio con la mamma, e da cui Eros si premurava di asciugare ogni singola lacrima. Occhi che si incantavano di meraviglia davanti al rombo di un motore e allo sfrecciare di una motocicletta. Occhi che scintillavano di contentezza quando Eros si caricava sulle spalle quel corpicino tondo e morbido per aiutarla a tendere le braccia verso il cielo, a pescare le foglie dagli alberi, e a contare ogni singola stella della notte. Occhi che sfarfallavano facendo girare la testa a tutti i ragazzi del paese. Occhi che ti scioglievano il cuore, avvolgendolo nel più dolce e amorevoli degli abbracci.

«Io lo so» ribadì Eros. «Perché un padre non dimentica gli occhi di sua figlia.» Chinò il capo fin quasi a toccare il tavolo con la fronte. Gli tremò il mento, il cuore batté un palpito sordo. «Mai.»

E fu allora che capì perché non fosse stato in grado di sostenere lo sguardo del ragazzo, perché non fosse riuscito nemmeno a toccarlo, a stringergli la mano quando lui gliel’aveva porta, e perché fosse raggelato quando il mostriciattolo aveva sputato sul palmo, rendendolo blu e squamoso, e gli aveva allungato la stretta per siglare il loro patto.

Eppure aveva accettato di rivederlo. Si era assunto la responsabilità di prenderlo a lavorare assieme a lui, e adesso lo avrebbe visto sbucare in officina ogni giorno. Lo avrebbe visto gironzolare fra i suoi arnesi, e incantarsi davanti alle auto da aggiustare e alle moto da rottamare, curioso e ficcanaso come lo era lei; avrebbe dovuto tenerlo lontano dalla saldatrice e dal compressore, perché si sarebbe rivelato maldestro e pasticcione come lei; lo avrebbe sentito blaterare e riempire le quattro pareti di inutili chiacchiere, logorroico ed esasperante proprio come lei. Non seppe ancora se considerarla una maledizione o una benedizione.

Non si era mai trattato di fare un favore a Massimo, di cedergli l’Ape nonostante il proposito di rottamarla. Forse era vero che Eros avrebbe usato il ragazzo solo per rimediare agli errori del passato, per illudersi che fosse possibile tornare indietro e redimersi l’anima. Ma Eros era vecchio, era stanco, era un uomo tormentato. Quanta malvagità poteva nascondersi dietro la sua intenzione di donare anche solo un piccolo sollievo a quelli che sapeva sarebbero stati gli ultimi anni della sua esistenza? E, anche se si fosse trattata solo di un’illusione, anche se la sua unica intenzione fosse stata quella di vedere nel ragazzo il riflesso di qualcun altro, non gli importava. Se avvicinarsi al ragazzo lo avrebbe aiutato a ritrovare la pace, allora non si sarebbe tirato indietro. Ne aveva abbastanza di soffrire.

Anche Angelo seppe di non potere nulla contro le parole di Eros, contro quella sua ultima affermazione. “Perché un padre non dimentica gli occhi di sua figlia.” Lo sapeva anche lui come lo sapeva Massimo, come lo sapevano ormai tutti gli abitanti del paese.

Annuì e si allontanò dal tavolo, lasciando Eros alla sua solitudine e al suo dolore. Un dolore che in qualche modo apparteneva ancora a tutta Portorosso.

Rimasto solo, Eros ingollò un altro avido sorso di vino. Si strofinò la bocca spazzolata dai baffi incolti, si massaggiò la cicatrice, tutto il suo bruciore, e accolse il fiume di ricordi, senza resistergli. Si abbandonò alla loro luce sperando che fossero dolci, che si dimostrassero clementi con il cuore di un povero vecchio. Con la speranza che lo aiutassero a perdonarsi e a ritrovare la pace perduta.

 

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Capitolo 2
*** Quale aspetto sgomento e desolato ***


Quale aspetto sgomento e desolato

 

 

«Scaricata!»

Valentina picchiò la caraffa d’acqua sul tavolo, costringendo Sara a sollevare il mazzo di fogli da disegno per impedire che qualche zampillo d’acqua andasse a bagnare gli schizzi a carboncino che si stavano ammucchiando l’uno sopra l’altro, man mano che li finiva. Affondò una nervosa manata fra i capelli arruffati, strizzò le dita fra le ciocche, soffiò via il nastrino che le era cascato davanti agli occhi, e si morsicò il labbro tremante. Bruciò di rabbia e umiliazione rievocando il disastroso appuntamento del giorno prima. La sera era tornata a casa talmente infuriata che, scaraventate le scarpe all’angolo della parete e sbattuta alle sue spalle la porta della camera da letto, ci era mancato poco che saltasse la cena per la quasi mancanza di appetito. Quasi mancanza di appetito.

«Passa l’intero pomeriggio a farsi scarrozzare in giro e a ciondolarmi dietro come se nemmeno si fosse ricordato il perché mi avesse invitata a uscire.» Valentina contò sulle punte delle dita ogni singolo affronto subito. «Spiccica a malapena tre frasi in croce tanto per ricordarmi che forse non è il caso che io parli così velocemente e così forte, come se lui avesse qualcosa di più interessante da dire, poi si lagna perché non vuole andare di qua, non vuole fermarsi di là, e che a forza di venirmi dietro gli bruciano i piedi e gli fanno male le orecchie. Non fa altro che fissare l’orologio senza nemmeno degnarsi di prendermi per mano una singola volta. E poi che fa?» Sventolò la mano per aria, verso il soffitto. «Mi scarica sulla porta di casa, si toglie il berretto mostrando una di quelle sue facce così mortificate che ti verrebbe da prenderlo a schiaffi, e se ne esce con una battuta del tipo: oh, sai, Tina, è stato bello passare il pomeriggio assieme – eccetera, eccetera –, ma forse è il caso che non andiamo oltre – eccetera, eccetera –, perché mi sa che oggi non è andata esattamente come speravo.» Si conficcò le unghie nei palmi. Risucchiò il fiato fra i denti per cacciare indietro un’amara ondata di lacrime che già sentiva pizzicare agli angoli delle palpebre. «Be’, indovina per chi altri non è andata esattamente come sperato, sporco farabutto che non sei altro!» Incrociò le braccia al petto, raccolse la catenina della collana e ci giochicchiò arrotolandola fra i polpastrelli. «Mi avesse almeno offerto un gelato avrei anche potuto perdonarlo e farmene una ragione.»

Lo sguardo le cadde su un paio di pescatori seduti al bancone, su quelli che si erano voltati verso di lei, attirati dalla sfuriata che era rimbalzata fra le pareti dell’osteria.

Valentina corrugò la fronte, ricambiò gli sguardi di disapprovazione, poi però si arrese a un sospiro. Gli occhi si schiarirono. La rabbia defluì dalle guance, lasciandole sulla pelle un freddo senso di tristezza e delusione. «Forse avrei potuto perdonarlo e farmene una ragione.»

Sara riappoggiò i fogli sul tavolo, pareggiò quelli che erano svolazzati fuori dalla risma, e si coprì la bocca con il dorso della mano sporca di carboncino per non rendere palese la sua ridacchiata. «Se tutti i ragazzi che ti scaricano ti offrissero un gelato sarebbe un buon compromesso.» Sospirò anche lei, compassionevole. «Considerato che è già la terza volta che succede.»

«La quarta.» Valentina sfilò lo strofinaccio dal grembiule, sollevò la brocca e pulì lì dove si era spanta qualche chiazza d’acqua. Tese l’udito al di là delle rauche chiacchiere dei pescatori seduti ai tavoli, oltre il trillo dei bicchieri, il gorgoglio della macchinetta del caffè, e il raschiare di qualche seggiola che veniva spostata.

Quel poco di senso di dovere in suo possesso le pizzicò l’orecchio, le suggerì che forse sarebbe stato il caso di rimettersi al lavoro e di occuparsi dei clienti, invece che trascorrere il resto del pomeriggio a lagnarsi con Sara. E forse avrebbe anche dovuto sistemare il giradischi, dato che era già la seconda volta che ricominciava daccapo, e che gli acuti di Madama Butterfly stavano cominciando a spazientirla. Ma tristezza e demoralizzazione le schiacciarono le spalle, le curvarono la schiena e le appesantirono i muscoli delle gambe, inchiodandola lì sul posto. A conti fatti, considerò una conquista il solo fatto di essere riuscita a trascinarsi giù dal letto e di essersi presentata al lavoro di mattina buonora.

«Sempre così va a finire.» Valentina ripiegò lo strofinaccio, lo infilò sotto il laccio del grembiule, poggiò il fianco sul tavolo dov’era seduta Sara e si rimise a giocherellare con la collana, a grattare le unghie sull’incisione a V forgiata sulla chiave appesa alla catenella. Un gesto che la accompagnava sempre quando era nervosa. E quel giorno lo era parecchio. «Mi faccio sempre ammaliare da qualche parolina dolce, da qualche complimento. Ogni volta penso: stavolta sarà diverso. E invece ogni volta rimango fregata.» Sbuffò di nuovo, e il nastro sciupato fra i capelli le dondolò sulla punta del naso. «Basta che un ragazzo mi conosca un po’ meglio che subito scappa a gambe levate. Manco avessi la peste, Santo Dio.»

Sara scosse il capo e sfogliò il blocco da disegno in cerca di una pagina bianca. Accostò il carboncino alla brocca d’acqua, socchiuse un occhio, prese le misure, e flesse il capo di qua e di là per catturare i giochi di luce che battevano sul vetro. «Non vederla come una fuga» disse. «Pensala più come una…» Si strinse nelle spalle e fece mulinare la mano. «Divergenza di interessi.» Graffiò qualche colpo di carboncino sul foglio bianco ed ecco che già aveva delineato i contorni della brocca. «Io non la vedrei così tragica, se fossi in te. Meglio che certe cose muoiano sul nascere, piuttosto che coltivare un’illusione…»

«Una volta tanto mi piacerebbe anche credere a un’illusione piuttosto che incassare una delusione dietro l’altra. Se è così facile stufarsi della mia compagnia…» Valentina raccolse il bicchiere vuoto da cui Sara non aveva ancora bevuto. Lo portò sotto la luce del sole che penetrava le tendine tirate davanti alle finestre – le avevano lasciate aperte per far circolare l’aria, dati i fumi speziati che cominciavano a ribollire dalla cucina – e si specchiò sul vetro. Si affacciò alla sua immagine deformata. Allontanò dalla fronte il cespuglio di capelli crespi tenuti fermi dal nastrino che comunque continuava a sciuparsi e a caderle sul naso. Percorse le curve del viso, le lentiggini che stavano cominciando a sbocciare assieme all’arrivo dell’estate, e poi il suo tocco scese soffermandosi sul petto, dove cadeva la chiave scintillante. Sospirò, più amareggiata di prima. «Forse è vero che non c’è niente di così interessante in me.»

Sara fermò il tratto di carboncino, alzò lo sguardo dal disegno, e per la prima volta sembrò davvero distogliere l’attenzione dal suo lavoro. Flesse le sopracciglia e fece quello sguardo addolorato da mammina apprensiva che avrebbe potuto commuovere anche gli scogli. «Oh, Tina…» Si girò, attirata da una risata più sfacciata proveniente da uno dei tavoli occupati dai pescatori in pausa dal lavoro. Scosse il capo e non ci badò. «Non dire così, su. Vedrai che prima o poi…»

«No, no» controbatté Valentina, più determinata che mai. «Prima o poi un fico secco.» Riappoggiò il bicchiere sul tavolo. «Ne ho proprio abbastanza dei ragazzi, delle loro moine, dei loro inutili corteggiamenti e delle loro stupide bugie. Non uscirò mai più con un ragazzo.» Sollevò il mento e annuì a se stessa. «Mai. Più.»

«Sì, certo, Tina.» Sara soffiò sul foglio, spolverò via una nera nuvoletta di carboncino, e si rimise a disegnare. «Lo dici ogni volta, e ogni volta eccoci sempre qui a fare lo stesso discorso.»

«No ma questa volta faccio proprio sul serio, lo giuro.» Valentina sollevò una mano aperta, spinse il petto all’infuori, e invocò un giuramento solenne. «Non mi farò fregare un’altra volta, e non mi innamorerò mai più per tutto il resto della mia vita.»

«Quello non è innamorarsi, Tina. Quello è…» Sara usò il pollice per sfumare l’ombra attorno alla pancia della brocca che stava prendendo forma sul blocco da disegno. «Quello è solo prendersi una cotta o una sbandata.»

«Bene» annuì Valentina. «Vorrà dire che non mi prenderò mai più una sbandata per il resto della mia vita.»

«Come no. Tu non ti prenderai mai più una sbandata…» Sara rivolse il carboncino fuori dalla finestra, verso gli spicchi di cielo azzurro visibili fra le tendine. «E quello stesso giorno i pesci smetteranno di nuotare e i gabbiani smetteranno di fare cra-cra

«Com’è che fanno i gabbiani, scusa?»

«Cra-cra. Lo sai…» Sara unì le due mani per simulare un battito d’ali. Increspò le sopracciglia nella stessa espressione assorta e concentrata che le si materializzava sul volto ogni volta che disegnava. «Quando si mettono a volare in cerchio giù al porto e starnazzano facendo cra-cra

«Ma che dici?» sbottò Valentina. «Sono i corvi a fare cra-cra.» Si schiarì la voce. «I gabbiani fanno più kai-kai

«No, fanno cra-cra

«Kai-kai

«Craaa-craaa

«Kaiii-ka»

«La volete finire, voi due?» Angelo picchiò la pattumiera per terra – le due ragazze trasalirono e smisero di sbraitarsi addosso. Il vecchio oste si infilò la scopa sottobraccio, scosse il capo mostrando una scura aria di disappunto, e finì di passare lo strofinaccio lì dove Valentina non aveva nemmeno cominciato il lavoro. «Con tutto il baccano che fate finirete per far scappare i clienti.» Fece per raccogliere la brocca d’acqua dal tavolo di Sara.

«No, no, aspetta, aspetta!» Ma lei si sporse per bloccarlo. «Non portarla ancora via.» Si rimise seduta. Pescò un carboncino nuovo dall’astuccio di latta e tornò al lavoro sul disegno. «Fammi solo finire di disegnarla, ho quasi finito, lo giuro.» Inclinò la testa di lato, diede due colpetti sul fianco di Valentina per farla uscire dall’ombra. «E spostati un po’ più a destra, grazie, sennò mi blocchi la luce.»

Angelo guardò la brocca che aveva già afferrato per il manico, corrugò la fronte, scosse le spalle, e la lasciò lì dov’era, anche se gli rimase addosso un’espressione perplessa, la stessa che mostravano tutti gli abitanti del paese davanti alle bizzarrie di Sara. «Sara, sai che mi fa piacere averti qui» le disse, «ma quante volte te lo devo dire di non venire proprio mentre Tina sta lavorando?» Scoccò a Valentina una frecciatina di rimprovero, senza però nascondere la virgola di un sorrisetto sbocciato sotto i baffi. «Come se non fosse già abbastanza facile farla distrarre…»

«Ehi!» Valentina strizzò i pugni. Un cupo rossore salì a bruciarle le guance e la fronte. «Non è vero che mi ero distratta. Stavo solo…»

«Non sono qui per distrarre Tina, lo giuro.» Sara allontanò un ricciolo dalla guancia, sporcandosi il viso con la polvere di carboncino, e intrecciò le mani sotto il mento. Dopo un sospiro, allungò lo sguardo sognante verso l’anticamera dell’osteria. Uno sguardo davvero simile a quelli sfarfallati da Valentina quando si metteva a fantasticare sui suoi appuntamenti. Prima che andassero a rotoli. «Sto solo aspettando Massimo. Arriverà qui per ora di pranzo, dato che lui è uno di quelli incaricati di accompagnare gli stagionali.»

Gli occhi di Valentina si illuminarono come smeraldi. «Ooh.» La luce che le brillò addosso diede al suo sguardo un aspetto fin troppo familiare. «È vero.» Batté le mani e compì un piccolo saltello d’entusiasmo. «Oggi arrivano gli stagionali.» E quella prospettiva compensò tutto il lavoraccio che le era cascato sulla groppa già di primo mattino.

Appena arrivata al Gabbiano d’Argento, combattuti gli sbadigli di un pessimo risveglio, Valentina si era occupata di rassettare le camere al piano di sopra, quelle che mettevano a disposizione solo durante la stagione estiva per i braccianti che venivano da fuori. Aveva cambiato le lenzuola, sbattuto i cuscini, dato una spolverata ai pavimenti, e fatto prendere aria agli armadi. Poi era scesa fino alla cantina dell’osteria per portare su le cassette di vino arrivate all’inizio della settimana. Il resto della mattinata lo aveva trascorso china sul lavello della cucina a strofinare posate, tazzine e piatti – tutto il corredo di cui avrebbero avuto bisogno per servire l’orda di clienti in arrivo. Tutti quei ragazzi, quelle facce nuove…

A Sara bastò un singolo colpo d’occhio per riconoscere l’aria sognante e inebetita che si era spalmata sulla faccia di Valentina. «Non ci posso credere.» Sgranò un’espressione inorridita, anche se non ne fu poi così sorpresa. «Ci stai già ricascando?»

«Chi?» sbuffò Valentina, cadendo dalle nubi. «Io?» Si posò una mano sul petto. «Ma non sto mica pensando ai ragazzi e al fatto che avremo decine di facce nuove con cui socializzare per il resto dell’estate, lo giuro. Sto pensando alle mance.» Finse di rimettersi al lavoro strofinando un angolo del canovaccio su una chiazza di vino fossilizzata sulla superficie del tavolo affianco. «Gli stagionali sono sempre quelli che si fanno meno problemi a cacciare soldi e a prosciugare un’ordinazione dietro l’altra. Chissà perché, poi.»

Angelo finì di passare la scopa fra le gambe delle seggiole e fece spallucce. «Forse perché non sono liguri.» Raccolse la pattumiera e tornò dietro il bancone.

Sara scosse la testa. Affondò una mano fra i capelli per pettinarli dietro l’orecchio – un’altra sbavatura nera le chiazzò la guancia – e si rimise a disegnare. «Tina, lo sai che io sarei la prima a incoraggiarti, in una simile situazione» disse. «Ma non ti sembra che…»

«Non mi serve nessun incoraggiamento.» Valentina sbatacchiò lo strofinaccio e innalzò una bianca nuvoletta di polvere. «Te l’ho detto: ormai non hai di che preoccuparti né di che difendermi, perché non penserò mai più ai ragazzi. Sono determinata, sul serio. Da ora in avanti…» Strinse i pugni. I suoi occhi scintillanti brillarono di una luce fresca e rinnovata. Una luce che nemmeno le chiacchiere sui ragazzi riuscivano a proiettarle addosso. «Lavorerò sodo e mi concentrerò solo sul guadagnare tanti bei soldini e mettere da parte i risparmi per comprarmi la moto dei miei sogni.»

«Chi è che sta parlando di prendersi una moto?» Eros emerse dall’anticamera dell’osteria – dalla porta che Angelo aveva lasciato spalancata per far entrare sole e aria fresca –, sorrise all’oste, inviò un saluto volante ai pescatori seduti al tavolo dove si giocava a carte, e andò ad avvolgere un braccio attorno alle spalle di Valentina. Le pizzicò un buffetto sulla guancia. «Cos’è che non smetto mai di ripeterti dal giorno in cui sei nata?» Un grugno di finto rimprovero gli indurì i tratti del volto. «Esiste solo una cosa più pericolosa delle moto, ossia…»

«Ossia i ragazzi che guidano le moto.» Valentina si mise a braccia conserte e alzò gli occhi al soffitto. «Lo so, lo so.» Sgusciò fuori dal suo abbraccio e si diede un’aggiustata alla gonna sgualcita. Non era più una bambina piccola, che diamine! «E infatti la moto la guiderò io, pa’, mica un ragazzo.»

«Ecco» puntualizzò Sara, rivolgendole il carboncino contro. «Allora aggiungiamo “Tina che guida una moto” in cima alla lista delle cose più pericolose che possano capitare sul suolo di tutta Portorosso.»

Eros annuì. «Sara ha ragione.» Il suo tono di voce si aggravò. Lo sguardo paterno e protettivo. «Come credi che mi sentirei nel sapere che la mia bimba se ne va in giro in sella a una di quelle bombe su ruote?»

Valentina allontanò gli occhi per non farsi impietosire. Arrotolò l’indice attorno al nastrino che continuava a cascarle dai capelli. «Dai, pa’, possibile che ogni occasione è buona per rifilarmi quella ramanzina?» Arricciò la punta del naso. «E poi quante volte ti ho detto che mi dà fastidio se vieni in osteria proprio quando sto lavorando?»

«Sono solo venuto a bere un goccio prima di tornare al lavoro.»

«Eros!» Si innalzò un braccio che lo chiamò verso il tavolo da gioco. «Noi diamo le carte, eh! Guarda che cominciamo senza di te.»

Eros ricambiò lo sventolio di mano ma fece cenno di aspettare. «E, comunque…» Squadrò Valentina con aria dubbiosa. Inarcò un sopracciglio e arruffò i baffi per non far trapelare una palese risatina. «Non mi sembra che tu ti stia dando poi molto da fare.»

«Colpa mia.» Sara alzò le mani sporche di carboncino. «Colpa mia, Eros. Sono io che la sto facendo distrarre più del dovuto. Ma fra poco dovrebbe arrivare l’orda degli stagionali.» Da sotto il tavolo, sgambettò due colpetti furtivi sulla caviglia di Valentina. «Vedrai che Tina avrà tanto di quel lavoro fra le mani che le moto diventeranno le ultime delle sue preoccupazioni.»

Valentina increspò le sopracciglia e le scoccò un’occhiataccia rovente e sfrigolante. Traditrice.

«Ooh, giusto, giusto» sospirò Eros. «Gli stagionali arrivano oggi.» Scostò la tendina della finestra più vicina e volse lo sguardo alla strada che ramificava verso la piazza, al verde che germogliava sulle terrazze del vicinato, al cielo azzurro come smalto. «Ecco perché c’è tutto quel trambusto giù al porto. Era anche ora, dato che siamo già – che giorno è? Il dodici?» Si strofinò il mento sbarbato. «Be’, sarà interessante vedere qualche faccia nuova. E Massimo è già al lavoro con quelli nuovi?»

Sara sorrise, tutta fiera e impettita. «Sì, ma comunque arriverà qui per ora di pranzo, per questo mi sono fermata ad aspettarlo. Lui è uno di quelli incaricati di guidare le squadre del porto, ma una decina di loro credo saranno impiegati solo per tirare su i ruderi della chiesa e della piazza, per questo ne hanno assunti più del solito, ‘sta estate. Non si può certo dire che saranno mesi noiosi.» Sospirò, tamburellò il carboncino sull’orlo del blocco da disegno. «Anche se…»

Un’ombra si allungò dal corridoio d’entrata, inghiottì la luce dell’anticamera. Un ruzzolio di passi riecheggiò fino al soffitto e fece vibrare i quadretti appesi alle pareti, il grosso vociare dei pescatori rimbalzò dentro l’osteria accompagnato da qualche risata, dallo strofino delle suole che grattarono lo zerbino d’ingresso.

«… colpa della gamba che mi sta uccidendo, proprio quando mi ero appena sbarazzato dei dolori alla schiena.»

«Colpa tua che stai diventando proprio un vecchio catorcio.»

«Colpa dell’umido, altroché.»

«Sì, sì, sempre colpa degli altri.»

L’orda di pescatori e di braccianti si riversò nel locale, abbondante e indomabile come un guizzante banco di pesci che si rovesciano da una rete gonfia e tranciata di netto.

Chiacchiere e risate arrochite dall’aria di mare si sovrapposero al rimbombo dei passi. «… una fame da mangiarmi almeno quindici panini alla mortadella», «Non dirmelo, io è da stamattina che non metto qualcosa sotto i denti». Alcuni dei nuovi arrivati si sfilarono le giacche, altri si tolsero i berretti, si fecero aria al viso e si asciugarono il sudore dalla fronte e dal collo. «Fa già un caldo boia, eh?», «L’estate più calda del secolo», «Lo dicevano alla radio l’altro giorno», «Bah, e tu gli credi anche? Lo dicono ogni anno». Gli ospiti dell’osteria lasciarono cadere i borsoni e i bagagli ai piedi delle scale che conducevano ai piani di sopra. Un paio di loro imboccarono il corridoio sul retro, «Il bagno di qua, giusto?», altri si precipitarono a occupare i posti migliori, quelli al bancone del bar, oppure si unirono ai pescatori già seduti ai tavoli, si salutarono con energiche pacche sbattute sulla spalla, si lagnarono della fame, del troppo caldo, «… e non ho intenzione di scollarmi da qui almeno fino alle tre, altrimenti finisco arrosto peggio di una sogliola

Ben presto le note di Madama Butterfly vennero inghiottite da quell’oceano di voci estranee e familiari che avrebbero popolato il Gabbiano d’Argento fino al termine dell’estate.

Valentina raccolse la fronte fra le mani e fece cascare il capo in avanti, i capelli arruffati le si rovesciarono sulle guance. «Ci siamo.» Si abbandonò a uno sbuffo scoraggiato. «Lavoro in arrivo.» Era facile immaginare che quella sarebbe stata una scena ricorrente per tutta la durata della stagione.

Anche Eros si unì ai pescatori che l’avevano chiamato da uno dei tavoli ormai assediati.

Da dietro il bancone giunse un rimprovero di Angelo. «Tina, ti dai una mossa o no?» Sistemò le oliere, le ciotole di pistacchi, dispose i bicchieri puliti davanti ai clienti, e spinse la porta della cucina con una spallata. Lo circondò una nube di vapore che profumava di pesce, di soffritto e di sugo al pomodoro. «Stai tu qui dietro il bancone, io intanto vado a vedere se in cucina hanno già messo a bollire l’acqua per gli gnocchi. Dai da bere a tutti e vieni a chiamarmi se non c’è abbastanza vino, dato che l’ultima volta che ho controllato stavamo a corto di Merlot.»

Valentina si rimboccò le maniche. «Subito.» E, incoraggiata da una pacca di Sara, pescò i bicchieri sporchi e i piatti vuoti che non aveva ancora ripulito dai tavoli che si stavano affollando uno dopo l’altro.

Sara si alzò dalla sua seggiola, premette i palmi sul tavolo, per la prima volta non preoccupandosi di star stropicciando i disegni, e sporse lo sguardo al di là dell’orda di estranei, in cerca di un unico viso familiare. «C’è Massimo?» Lo trovò in mezzo al gruppetto ancora radunato fra il bancone e la tromba delle scale, anche lui appena emerso dalla penombra dell’anticamera. Non che fosse necessario un grande sforzo per individuarlo al di sopra delle altre teste imberrettate. «Oh, eccolo.» Le guance di Sara si spolverarono di rosso, i suoi occhi scintillarono di contentezza. «Massimo!» Rimbalzò con le ginocchia sulla seggiola e sventolò le mani per aria. «Massimo, siamo qui! Quaggiù, quaggiù!»

Massimo girò lo sguardo, attirato dal richiamo, e le sorrise. I suoi occhi brillarono della medesima luce. Salutò i colleghi, schivò quelli che erano arretrati per fargli spazio mentre passava in mezzo a loro, e si diresse al tavolo delle ragazze.

Da parte degli stessi pescatori che accompagnavano Massimo, soprattutto quelli più anziani, giunse qualche occhiata storta, qualche cipiglio di disapprovazione, lanciato nei riguardi di Sara. Non era una novità. Sara era l’unica ragazza del paese a indossare i pantaloni, l’unica che studiava fuori città, l’unica che di domenica non andava in chiesa, e l’unica capace di respingere certe critiche con la facilità con cui si scaccia il ronzio di una mosca fastidiosa. Valentina la ammirava e la invidiava per questo. Lei non avrebbe mai avuto il coraggio di mandare al diavolo gli adulti e di vivere come le pareva.

Massimo si sfilò il basco, sorrise a entrambe, timido e dolce come non aveva mai smesso di essere da quando era bambino. «Ragazze.»

Valentina ricambiò lo sguardo sorridente, sentendosi scaldare dalla sua semplice presenza così rassicurante. «’giorno, Massimo.»

Sara saltò con i piedi sulla seggiola, circondò le spalle di Massimo e gli schioccò un bacio sulla guancia. «Tanto lavoro, oggi?»

«Anche per te, mi sembra.» Le strofinò la punta del naso e rinnovò il piccolo sorriso. Il pollice gli rimase sporco di nero. «Sei sporca di grafite.»

«È carboncino.» Sara cedette il posto a Massimo e si accoccolò sulle sue ginocchia. Le braccia ancora avvolte alla sua spalla. «Sono passata vicino al porto, stamattina, quando sono tornata dalle lezioni, ho visto tutto quel trambusto e ho immaginato subito che stessero arrivando gli stagionali.»

«Ci stiamo ancora suddividendo per stabilire i turni.» Massimo scostò la tendina e guardò fuori dalla finestra socchiusa come aveva fatto Eros poco prima. «Probabilmente la soluzione migliore sarà quella di alternare i turni di settimana in settimana, un po’ al porto e un po’ in piazza, dato che le ricostruzioni hanno la precedenza. Stiamo già pensando di tenere qualcuno anche per la vendemmia di settembre, altrimenti sarà impossibile cominciare in tempo con tutto il lavoro che avremo da fare in paese.»

«Visto, Tina?» Sara strizzò l’occhiolino in direzione di Valentina. «Sarai fortunata. Tanti soldini in arrivo.»

Valentina si portò una mano al fianco e corrugò la fronte di nuovo incupita di malumore. «Che fai?» Ma un piccolo ghigno le solleticò l’angolo delle labbra. «Ricominciamo la solfa?»

Massimo si impensierì nel percepire quella nuvoletta di ostilità brontolare fra le due. «Mi sono perso qualcosa?»

«Oh, nulla di grave» lo tranquillizzò Sara. «Ma evita di tirare fuori il discorso del lavoro di quest’estate e anche il discorso…» Aprì una mano davanti alla guancia e accostò le labbra al suo orecchio. «Ra-gaz-zi. Tina si sta riprendendo dall’ultima brutta esperienza.»

«L’appuntamento di ieri?» Gli occhi di Massimo si avvilirono, sinceramente costernati. «Sul serio, Tina? Ma credevo…»

«Uh-uh.» Valentina scosse il capo e fece segno di cucirsi la bocca. «Non. Una. Parola. Ne ho già sentite abbastanza. Come se fosse colpa mia se tutti quelli con cui esco sono dei grandissimi…»

«Eh-ehm!» Sara tossicchiò, mettendola a tacere prima che potesse pronunciare qualcosa di inappropriato, e pareggiò tutti i fogli che aveva tappezzato di schizzi e disegni.

Massimo nascose una risatina sotto i baffi. Gli occhi, di nuovo rasserenati, gli caddero sui disegni di Sara. «Sono disegni nuovi?»

«Ah!» Sara se li premette al petto – un carboncino rimbalzò sul pavimento –, pescò una pagina che stava per svolazzare giù dal tavolo e stropicciò anche quella sotto i palmi. «No, no, no, aspetta, non guardarli ancora, questi non sono finiti.» I capelli le scivolarono sulle guance diventate della stessa tonalità di rosso, ma in fondo agli occhi si accese una scintilla di fierezza e soddisfazione. «Sto ricominciando a usare il carboncino.» Raccolse una ciocca e la pettinò dietro l’orecchio. Le gambe dondolarono su quelle di Massimo. «Era così tanto che non lo facevo, e sono un bel po’ arrugginita. Oggi a lezione ho combinato un disastro, per questo mi sono messa a esercitarmi. Quando sfumo le ombre le impasticcio senza riuscire a creare nessun vero contrasto. Vedi…» Staccò i fogli dal petto e ne posò un paio sul tavolo, indicando a Massimo il ritratto della brocca e anche quello del bassorilievo a forma di pesce-spada che aveva catturato da uno dei murali del porto. «Come in questo punto qui.»

«Sono bellissimi.» Massimo ne sfogliò un paio, attento a non spiegazzare neanche un angolino di carta. Si soffermò sul disegno composto da una spirale di delfini che sguazzavano nella schiuma di mare. Le gocce di spuma più grosse, allontanandosi dai delfini, si trasformavano in pesciolini ridenti. «Fammi vedere meglio, dai.»

«Oh, ecco, l’unico di cui posso dire di andare almeno un pochino fiera è questo.» Sara sfilò un foglio da sotto gli altri, quello su cui era raffigurato un intreccio di ancore, tutte di dimensioni diverse. Le sfumature del carboncino, alcune più chiare e altre più nitide, davano l’impressione che fossero forgiate con metalli diversi. «Vedi, ho studiato quel soggetto per il tatuaggio che avevamo programmato, anche se eri ancora indeciso fra un’ancora, o un tridente, o un arpione. Per questo sono andata al porto, stamattina, dopo le lezioni. Sto prendendo spunto dai bassorilievi che sono scolpiti sulle case e anche sui nuovi poster che hanno appeso fuori dalla pescheria. Mi sentivo un sacco ispirata.»

«Si vede» annuì Massimo. «Oggi a scuola hai imparato qualcosa di nuovo?»

«A parte che sono negata con il carboncino?» Sara rise di gusto. «Ma c’è quella nuova insegnante di ceramica che non è male, anche se io preferirei che ci programmassero più lezioni pratiche sull’anatomia e sulla paesaggistica. Oggi abbiamo provato a plasmare un vaso, o un’anfora, e ti giuro che non avrei mai creduto fosse così difficile. Al primo tentativo ho bagnato troppo l’argilla, non riuscivo proprio a farla stare in piedi, si squagliava ogni volta in cui provavo a toccarla sui bordi, e ne è uscito un obbrobrio degno di questo nome.»

Massimo sfogliò un’altra pagina, sporcandosi anche lui le dita di nero, e rimase incantato davanti al ritratto di una sirena che cullava in grembo una perla di mare. La coda ritorta in una spirale di bolle, intrecci di coralli a ingioiellarle le braccia, lunghe ciglia da cerva e creste pinnate al posto delle orecchie. «Sono sicuro che ti serve solo un po’ più tempo per fare pratica.»

«Me l’ha detto anche lei.» Sara pescò da terra il carboncino che le era caduto e lo riordinò assieme agli altri nell’astuccio di latta. «L’insegnante è stata fin troppo comprensiva, in realtà. Ha detto che il mio vasetto potrebbe essere considerato un pezzo d’arte moderna, ma secondo me era da buttare e basta. Ah!» Batté le mani, fulminata da una scossetta di entusiasmo. «Ma sai cosa mi hanno anche detto? Che a settembre…»

«Ti porto qualcosa da bere, Massimo?» Valentina diede una lucidata al tavolo, stando attenta a non umettare con lo strofinaccio i disegni di Sara, e indossò quel sorriso di circostanza che aveva imparato a sfoggiare durante le ore di lavoro. «O magari un piatto di gnocchi? Abbiamo appena messo a bollire l’acqua, e tu avrai una fame da lupi.»

Massimo scosse la testa. «Non ti preoccupare, sarai già abbastanza occupata con gli altri.»

«Ehi, ma ricorda che fa parte del suo lavoro.» Sara si strinse a lui e gli pizzicò una guancia. «Non fare troppo il gentile. Tina è già abbastanza viziata e coccolata anche senza il nostro aiuto.»

Valentina le fece la linguaccia. «Grazie del sostegno.» Con un sospiro, sbirciò a malincuore la folla che si era ammassata al bancone, i gesti con cui i pescatori inclinavano le ceste del pane già saccheggiate, e gli sguardi affamati che si tendevano verso le porte della cucina. «Vi porto subito qualcosa» disse Valentina. «Un tagliere di affettati può andare? Pane o grissini?»

Massimo strinse le spalle. «Quello che ti è più comodo andrà benissimo.»

«Per me i grissini.» Sara sventolò un braccio per aria e fece dondolare le gambe dal grembo di Massimo. «Quelli con il rosmarino e i granelli di sale grosso, grazie.»

«Agli ordini.» Valentina scivolò di un passo di lato per passare fra due tavoli senza prendersi lo spigolo nell’anca, e si diresse al bancone.

Nonostante il baccano che era crepitato fra le pareti della sala, nonostante lo stridere delle seggiole e le risate più aspre di quelli che stavano già trangugiando un bicchiere di vino dietro l’altro, le era ancora possibile tendere l’orecchio verso i mormorii dei suoi amici rimasti seduti al tavolo.

«… anche questa volta?» Massimo sospirò, sinceramente costernato. «Poverina. E pensare che era tanto contenta di uscire assieme a lui.»

«Lo so, lo so.» La voce di Sara si ridusse a un bisbiglio, ancor più flebile dello sfogliare dei disegni. «Tu non dirle niente, ma io sono già stata da lui e gli ho fatto una lavata di capo che gli farà fischiare le orecchie per un mese intero, garantito. Non si tratta così la mia Tina.»

«Vorrei poter fare qualcosa di più anch’io.»

«Non possiamo fare tanto altro, mi sa. Più di consolarla…»

«Forse Tina ha ragione» considerò Massimo. «Forse dovrebbe conoscere qualcuno anche al di fuori di Portorosso.»

«Eggià, qui mica sono tutti come te.»

Risero assieme.

«Ma quale hai detto che era la novità di settembre?» domandò Massimo.

«Ah, sì, giusto!» La voce di Sara riguadagnò il solito entusiasmo e, anche se le dava le spalle, a Valentina parve proprio di intercettare un bagliore di luce lampeggiare da quel suo sguardo che vedeva più lontano di tutti. «In pratica, mi hanno detto che a settembre una delle nostre insegnanti dovrà assentarsi per tutto il trimestre perché l’hanno chiamata per delle ristrutturazioni a Paestum, e che quindi potrò essere io a tenere qualche lezione al posto suo.»

«Quindi ti farebbero insegnare?»

«Be’, non precipitiamoci troppo. Si tratterebbe solo di un paio di lezioni, e solamente sulla ritrattistica delle nature morte, ma girano voci che potrebbe liberarsi un posto di insegnante di disegno alla scuola elementare. Cadrebbe nel periodo giusto, dato che ormai avrò dato anche gli ultimi esami di Storia dell’Arte e che quindi sarò più libera. E lo so che fare l’insegnante non è esattamente il mio sogno, però pensa a quante altre occasioni potrebbero presentarsi se cominciassi a frequentare ambienti del…»

Allontanandosi, Valentina sorrise, e fu il suo sorriso più limpido e sereno da quando era cominciata la giornata. Si consolò pensando quanto Sara e Massimo si preoccupassero per lei – sapeva che non avrebbe mai dovuto sentirsi sola, potendo contare sulla loro amicizia –, e si rallegrò sapendo che almeno loro due potevano godere di qualche gioia da condividere. Una dolce e appagante storia d’amore, anche se poco convenzionale. Un futuro luminoso, una vastità di orizzonti spalancati dinnanzi al sole della loro giovinezza, e un lavoro che entrambi amavano. Riflettendoci scrupolosamente, Valentina non aveva nulla di tutto ciò. Eppure era felice per loro. E poi, anche lei aveva un sogno da conquistare.

Una moto tutta mia…

E la moto era davvero il più glorioso dei sogni, dolce e invitante come il profumo di una crostata di mattina buonora, e piacevole come il bacio del primo sole estivo. Adesso che aveva deciso di smettere di pensare ai ragazzi e agli appuntamenti, sarebbe stato più facile concentrarsi sull’accumulare i risparmi di cui avrebbe avuto bisogno per comprarsi una motocicletta. I risparmi che sarebbe riuscita a non spendere in abbuffate di gelato, per lo meno. E in barba anche a quello che diceva papà! Valentina si sarebbe comprata una moto – magari una bella BMW, come l’ultima che Eros aveva tenuto in officina per quasi un mese –, ci sarebbe salita in sella, e sarebbe sgommata via dicendo finalmente addio a quel minuscolo e barboso paesino di pescatori nel quale si sentiva soffocare come le volte in cui indossava una camicetta troppo aderente.

Perciò al lavoro, Tina!

«Allora, signori…» Valentina si fece largo fra i clienti, aggiustò la cinta del grembiule, e trotterellò dietro il bancone. «Chi ha più fame?» Piegò la testa per non sbattere sui mestoli che pendevano da una delle mensole, dispose i primi bicchieri e sventolò gesti d’incoraggiamento verso gli uomini appollaiati sugli sgabelli. «Su le mani, su le mani.»

«Di qua!» Lo sventolio di braccia e di sguardi affamati non tardarono ad arrivare. «Per di qua, noi ci siamo seduti per primi.»

«Un giro di rosso per noi.»

«E tu berresti il rosso con il caciucco? Ti si è svitata la testa o cosa?»

«Calmi, calmi» li rabbonì Valentina. «Ora arriva tutto…» Finì di distribuire i bicchieri puliti e si destreggiò con il taccuino degli appunti per scribacchiare le ordinazioni. «Dunque abbiamo detto un giro di rosso, bianco a chi prende il pesce…»

«Tre zuppe d’orzo quaggiù!»

«Niente orzo.» Valentina scosse il capo, senza smettere di scrivere, e soffiò via una ciocca spettinata che le era cascata davanti agli occhi. «Oggi c’è solo quella di lenticchie.»

«Noi siamo ancora senza pane.»

«Qui sono finiti i grissini.»

«Tina!» Una voce più grossa la chiamò da uno dei tavoli apparecchiati sul fondo della sala, quelli allineati contro la parete decorata dalle reti da pesca e dalle stelle marine essiccate. «Tina, avete la farinata come quella dell’altro giorno? Quella con il rosmarino!»

«Io spero ci siano i ravioli, quelli col prosciutto.»

«Sì» annuì Valentina. «La farinata è fresca di stamattina.» Ma sventolò la matita in segno di diniego. «Però niente ravioli. Oggi gnocchi al ragù.» Arricciò un’espressione d’improvviso dubbiosa, si grattò la tempia con la punta della matita. «Mi sembra.» C’erano gli gnocchi o c’erano le trofie?

«Ah» sbuffò uno dei pescatori, rimettendosi seduto. «Allora anche io prendo un quarto di rosso, niente bianco.»

«Un momento, un momento.» Valentina sfogliò una pagina del taccuino. «Gnocchi e un quarto di rosso.» Ricominciò a scribacchiare una colonna dopo l’altra. Il sudore colato fra le dita sbavò le parole. «Poi tre piatti di zuppa di lenticchie…» Pensa alla moto, Tina, pensa alla moto, pensa alle mance, pensa che fra un po’ questa vita sarà solo un ricordo. «E mancavano i grissini, avete detto? Angelo!» Picchiò due volte il pugno sulla porta della cucina, aprendo uno spiraglio di luce e vapore. «Angelo, i grissini! Dov’è che abbiamo messo i grissini?»

«Sotto il bancone, Tina.» La voce di Angelo suonò ovattata attraverso la nube di fumo che sommergeva i fornelli. «Dietro le casse di acqua frizzante.»

«Ho già cercato, non li trovo!»

«E allora cerca meglio! Li ho visti stamattina.»

«Ma ti dico che non…»

«Tina, ci porti un tagliere di formaggio?»

«Formaggio e anche qualche affettato di qua!»

«Fermi, fermi…» Valentina si piegò sotto il bancone e inclinò le bottiglie d’acqua in cerca delle confezioni di grissini. «A quanti il formaggio e a quanti gli affettati?»

«Da noi solo salame.»

«A noi solo il Parmigiano per la zuppa.»

«Nel caciucco ci sono anche le vongole?»

«No» rispose Valentina. «Solo –»

Crash!

Un bicchiere cadde in frantumi, e le schegge più piccole tintinnarono fra le gambe delle seggiole e dei tavoli.

Qualcuno se la rise e applaudì, «Ecco il primo!», qualcun altro s’incazzò, «Hai le mani di burro o cosa?».

«Occhio a non tagliarti, non tirarli su così.»

«Tina, qui abbiamo un bicchiere rotto!»

Valentina grugnì uno sbuffo esasperato ed emerse da sotto il bancone. «Arrivo, arrivo.» Si mise in marcia, «Solo…», e si scontrò con Angelo appena uscito dalla cucina con in mano due scodelle di zuppa di lenticchie. Giusto in tempo. «Bicchiere rotto al Tavolo Cinque.» Valentina gli prese le scodelle dalle mani e gli fece cenno col capo. «Penso io alle zuppe.»

Angelo alzò gli occhi al soffitto. «Cominciamo bene.»

Non me ne parlare.

Valentina servì le zuppe al tavolo. Tornò al bancone, distribuì i mazzi di grissini nelle ceste, dispose il tagliere, e si mise ad affettare le ciabatte di pane tiepido e ancora croccante. E intanto già non vedeva l’ora di tornare a casa, di togliersi le scarpe, di sfilarsi le calze, di indossare una gonna più leggera e magari sdraiarsi sul letto a schiacciare un pisolino. Poi magari sgattaiolare in cucina e sgranocchiare i biscotti alle nocciole che la mamma aveva preparato il giorno prima, andare giù alla spiaggia a prendere il sole e a sguazzare a piedi nudi sul bagnasciuga. Però non era quella l’immagine su cui doveva concentrarsi per darsi forza e coraggio fino alla fine del turno.

Pensa alla moto, pensa alla moto, Tina, pensa alla moto…

Valentina strizzò le ciglia e ne visualizzò ogni componente – il telaio tubolare, le carene scintillanti, i rombi della marmitta, il sellino di pelle nuova e profumata, i suoi pugni aggrappati al manubrio di cuoio, i capelli sferzati al vento, la scia di fumo che si sarebbe ingrossata attorno alle ruote a ogni frenata, il tachimetro da spingere fino ai cento all’ora, lo squisito odore di benzina, quello dell’olio per i freni e quello della gomma bruciata.

Dall’angolo del bancone dove era seduto Eros, la raggiunsero borbottii più quieti rispetto a quelli degli altri clienti.

«Ma non mi dire che… ma no, è proprio Valentina?»

«Miseriaccia se è cresciuta.»

Un bisbiglio sussurrato al vicino. «È la figlia del meccanico, quello che ha la bottega dietro la cartoleria.»

«Io a malapena la riconoscevo. L’avrò vista l’ultima volta – quando? Due anni fa? L’ultima volta che mi sono fermato per fare la stagione.»

«Sì, ma andava ancora a scuola, oppure – no, no, ora che ci penso aveva già cominciato a lavorare in panificio.»

Qualcuno colpì Eros con una spallata e gli strizzò l’occhiolino. «Adesso avrà la fila sotto casa, eh, Eros?»

Eros alzò le mani come per difendersi, o come in segno di resa. «Ah, io di queste cose non so niente. Lei fa tutto da sola. Nemmeno con sua mamma ne parla.»

I pescatori che gli sedevano affianco si riempirono i bicchieri di vino, sgranocchiarono i pistacchi dalle ciotole, e risero scuotendo le teste.

«I giovani d’oggi…»

«E la tua bella signora come sta?» Uno di loro spaccò un pistacchio sotto il pugno. «Poi passerò a salutare anche lei. È tanto che non la vedo.»

«Oh, ultimamente la vedo un po’ infiacchita, povera anima.» Eros bevve dal suo bicchiere. Schioccò la lingua e fece oscillare quel che era avanzato del vino. «Pensavo di farle una sorpresa, magari per il suo compleanno, dato che ho qualche risparmio da parte. Magari portarla a fare un viaggio. Nulla di eccessivo, ma è da anni che non usciamo da Portorosso, e lei mi ha sempre detto che le sarebbe piaciuto visitare…»

Valentina finì di affettare il pane, ripulì tagliere e coltello e si allontanò per sviare quel discorso. Non aveva proprio alcuna voglia di sentir parlare della mamma, dato che ci aveva litigato giusto il giorno prima. Secondo lei, Valentina si era vestita male per uscire, e come al solito non si era curata abbastanza i capelli. La mamma l’aveva poi rimbeccata per essere rimasta fuori fino a tardo pomeriggio e per non aver dato una mano con le faccende di casa nemmeno dopo essere rientrata. Quella mattina, a colazione, non si erano nemmeno rivolte lo sguardo.

Tornata al lato del bancone occupato dai gruppetti degli stagionali che stavano familiarizzando con i pescatori del luogo, Valentina diede una passata con lo strofinaccio – le chiazze di vino già si stavano accumulando e seccando sul legno impolverato di briciole –, e intanto ne approfittò per tendere l’orecchio e spiare le loro chiacchierate.

«… sì, sì, tu lasciala pure quaggiù, poi stasera quando sali in camera ti sistemi con calma.»

«Ah, non lo so… avremo da lavorare almeno fino alle otto, ma dipende da come ci organizzeranno. Certe volte la mattina si comincia anche alle cinque, ma solo per la pesca. Quest’anno c’è la ristrutturazione della chiesa, non so se ti hanno già detto. Se ti mettono a lavorare qui in piazza, allora avrai orari tipo…»

«Ma sei venuto qui solo con quel bagaglio?» Uno di loro si sporse dallo sgabello per adocchiare il mucchio di borsoni ammassati ai piedi delle scale. «D’accordo che gli abiti estivi ingombrano poco, ma forse avresti dovuto aggiungere un po’ di peso.»

«Ti dico io a cosa dovrebbe aggiungere un po’ di peso: a queste braccia.» Uno dei pescatori sollevò il braccio del ragazzo che, seduto fra i due, se ne stava rintanato nella penombra. Rise e lo mostrò anche agli altri come se si fosse trattato di esibire un branzino appena estrapolato dalla rete. «Dovresti cominciare seriamente a mettere su un po’ di muscoli su queste ossa. Guarda che io non ti vengo a raccogliere se mi svieni durante il lavoro, eh.»

«Starò benissimo.» Fu questa la prima frase che Valentina gli sentì pronunciare. Uno degli stagionali – il più giovane e taciturno – si strinse nelle spalle e si rimpicciolì sullo sgabello, isolandosi dal baccano che gli crepitava attorno. «Non ho mai avuto di questi problemi, e di certo non comincerò ad averne adesso.»

Valentina inclinò la bottiglia di vino sul bicchiere che le avevano allungato, ma le bastò quell’attimo per distrarsi e volgere lo sguardo alla figura del giovane straniero. La sua era una voce rauca ma non profonda. Serbava una certa dolcezza, come una cruda cucchiaiata di miele di castagno, o un morso dato a un mandarino ancora poco maturo. Una voce così insolita. Come era insolito anche l’aspetto del giovane. La schiena ricurva, le spalle sporgenti e ossute, le braccia magroline, la camicia cadente e scolorita, sicuramente vecchia di almeno un paio di stagioni. Lo sguardo del giovane non si faceva trovare. Era fisso sul bicchiere d’acqua ancora vuoto che lui rigirava fra le dita nodose e incerottate.

Una folta massa di riccioli color cioccolato gli cadeva sulle guance dalla pelle scura su cui erano intagliati lineamenti tipici del Sud Italia. Tratti incisi che però non sembravano nemmeno maturi se accostati a quel musetto da bambino che dava l’impressione di star ancora crescendo un pezzo alla volta.

Il giovane straniero non somigliava affatto ai soliti stagionali, e nemmeno ai pescatori di Portorosso. Non sembrava nemmeno maggiorenne. Sembrava un ragazzino, uno di quelli che, appena usciti da scuola, montavano in bici per andare a rincorrersi fra i vigneti, o per andare nei campi a esercitarsi con la fionda, o per raggiungere la spiaggia e trascorrere il pomeriggio a tuffarsi dagli scogli.

Lo straniero fece tamburellare le dita incerottate sul bicchiere vuoto e alzò lo sguardo verso il soffitto. «Le camere sono quassù, vero?» Spinse un ricciolo lontano dalla fronte. Gli occhi rimasero nascosti, celati dal gesto della mano. «Dovrei andare a sistemarmi prima del lavoro di ‘sto pomeriggio.»

«Oh, ma non ti preoccupare per quello» lo rassicurò il suo compare. «Tu lascia il bagaglio ad Angelo e lui te lo fa trovare in camera entro stasera. Eccoti…» Gli allungò la cesta del pane appena affettato. «Prima piuttosto mangia qualcosa, sennò va a finire che mi svieni in mano.»

«Dov’è che hai lavorato, la scorsa stagione?»

«Ufficialmente stazionavo a Mestre» rispose il giovane. «Ma ci spostavano di continuo.» Pescò la fetta di pane più piccola, la spezzò e la smangiucchiò piano, a piccoli morsi, come un uccellino che becca. «Chioggia, Lido di Jesolo, Quarto d’Altino. Una volta al mese ci portavano persino fino a Padova.» Di nuovo spezzò la crosta di pane, ma sgranocchiò solo la mollica. «Gli altri anni però di solito lavoravo in Emilia, negli stabilimenti balneari, quelli che hanno appena cominciato a costruire. Mi avevano anche proposto di andare a lavorare nelle cave di pietra in Carnia.» Fece spallucce. «Magari nei prossimi anni…»

«Ne hai fatta di strada, eh?» Quello che gli sedeva vicino gli batté la mano sulla schiena, ma non troppo forte, come per timore di spezzargliela. «Qui ti troverai bene, anche se Portorosso non è di certo movimentata quanto Padova o quanto Rimini. Io è già la terza stagione che faccio qui.»

«Starò bene.» Il giovane straniero tirò su la spallina della camicia che gli cadeva larga. «Non ho grandi pretese.» E, scostandosi di nuovo i riccioli con una mano ossuta e bendata, per la prima volta portò gli occhi alla luce. «Mi basta avere un tetto e di che sfamarmi e sono a posto così.»

Valentina ingoiò un piccolo singhiozzo che le strappò il fiato dalla bocca. Il suo cuore batté un tonfo che propagò un caldo formicolio dal petto fino alle guance diventate di botto rosse come il vino.

Il giovane straniero aveva occhi scuri e misteriosi, profondi come il mare di notte, nebbiosi e impenetrabili come la bruma che d’inverno si innalzava dai piloni del porto. Valentina non riuscì a staccarsi da quegli occhi, dal brivido che le avevano provocato, dalla sensazione di pace e di abbandono nella quale l’avevano risucchiata. Non riuscì a farlo nemmeno quando i rigagnoli del vino che stava versando cominciarono a colarle fra le dita.

«… il merluzzo più grosso che sia mai uscito dal mare, te lo giuro» si vantò uno dei pescatori seduti al banco. «Sarà pesato almeno due ton – Tina!» Lui e i compari vicini si affrettarono ad ammassare fazzoletti e tovaglioli sulla macchia di vino che si stava dilatando sotto i bicchieri, le brocche e i piatti. «Tina, il vino! Si sta versando!»

Valentina sfarfallò le ciglia, «Co-cosa?», si riprese dallo stordimento e abbassò lo sguardo fra le sue mani. Il vino continuò a spandersi dalla bottiglia al bicchiere, sbrodolando fra le sue dita già inzuppate. «Ah!» Pure lei agguantò un canovaccio pulito e si mise a strofinare e a catturare le gocce che stavano piovigginando dal banco. «Cavoli, cavoli, cavoli…»

Gli altri la aiutarono con i tovaglioli e anche con le maniche delle camicie. Se la risero per tirarla su di morale. «Dove hai lasciato la testolina, stamattina?» le fecero. «Sul cuscino?»

Valentina sbuffò e mostrò loro una linguaccia. «La tua se l’è mangiata un mostro marino, invece.»

I pescatori risero. Angelo invece, valicata la porta della cucina, la rimproverò con un’occhiataccia. «Piano con le parole, Tina.»

«Hanno cominciato loro!»

«Ma cos’hai combinato, qui?» Angelo aiutò ad asciugare il banco e ammassò nel lavello i bicchieri e le posate sporche di vino. «Scusate, signori. Ora vi porto dei bicchieri puliti. Tina, va’ in dispensa e porta altri tovaglioli e altre posate. E cambiati il grembiule.»

E Valentina non poté fare altro che sospirare e obbedire. «Sì, subito.» Grandioso. Il turno è appena iniziato e io ho già combinato un pasticcio nonostante i propositi. Cominciamo bene sul serio. Si prospetta proprio una stagione favolosa.

Si slacciò il grembiule sporco prima che macchiasse anche la gonna. Fece per andare alla dispensa e prendere altri bicchieri puliti, altre posate, ma fu incapace di resistere, di ignorare un formicolio che era sceso a pizzicarle la nuca. Si girò un’ultima volta verso il posto occupato dal misterioso straniero, in cerca di quegli occhi così sfuggevoli.

La chiazza di vino si era allargata fino a lì. Un rigagnolo color prugna piovve dall’orlo del banco e picchiettò sullo sgabello ormai vuoto. Il misterioso straniero era scomparso.

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Capitolo 3
*** E non c'è nessun mezzo – Atto I ***


E non c’è nessun mezzo – Atto I

 

 

Valentina smontò dal sellino della bicicletta prima ancora di aver tirato i freni. Incespicò sugli ultimi passetti e raggiunse l’ombra gettata dalla tettoia che spioveva dal retro del Gabbiano d’Argento, sopra la porticina che conduceva alla cantina. Poggiò la bici sul muro, si diede una spolverata alla gonna sgualcita, sventolò una mano davanti alla bocca per dissolvere uno sbadiglio, si stiracchiò la schiena e massaggiò le braccia nude e infreddolite, ancora tiepide come le lenzuola del letto che aveva dovuto tristemente abbandonare. Tirò su col naso e se lo strofinò, solleticata dall’aria di primo mattino che conservava ancora la pungente umidità della notte. Squadrò la porta del retro, e un broncio le incupì lo sguardo già ammosciato da un nero paio di occhiaie.

Il turno di mattina era quello che lei più detestava. Avrebbe dovuto essere illegale far alzare i ragazzi della sua età a quelle ore scandalose. Così si sarebbe rovinata la crescita!

Che barba…

Sgarbugliò il cespuglio di capelli che non aveva avuto il tempo di pettinare e si stropicciò le palpebre assonnate, circondata dalle tinte pastello delle casette sfiorate dalle luci cristalline dell’alba appena sorta. Il sole batteva e biancheggiava sulle finestre lucide come specchi. Si prospettava anche quella come una giornata calda e sgombera da nuvole.

Qualcuno uscì da una terrazza del vicinato e annaffiò le piantine di basilico che crescevano assieme al rosmarino. L’edicola sollevò la saracinesca e fece scappare un piccolo stormo di gabbiani che si era radunato a beccare davanti all’entrata del panificio. Pochi passi attraversarono la strada, accompagnati dal rombo di un furgoncino appena arrivato dal porto dopo la pesca notturna e dal miagolio dei gatti randagi che avevano fiutato l’odore del pesce fresco. Si udì solo qualche chiacchiera ovattata dal soffio del venticello che riempiva le strade di un forte odore di mare e di alghe, della bassa marea appena trascorsa.

Valentina sospirò e, nonostante la zero voglia di lavorare, si mise il cuore in pace e spinse la porta con una spallata, trascinandosi dentro al Gabbiano.

Accolta dall’acidulo odore di vino, di padelle incrostate di soffritto, di legno laccato e di fondi di caffè, spalancò un altro sbadiglio e sventolò un saluto in direzione di Angelo che era già al lavoro dietro il bancone deserto. «’giorno.» Mandò al diavolo la decenza e si piegò a grattarsi sotto la gonna, massaggiandosi poi le gambe che ancora le dolevano per il lavoro frenetico del giorno prima.

Angelo finì di strofinare uno dei bicchieri che stava allineando sul panno pulito, si girò in direzione di Valentina, alzò un cisposo sopracciglio grigio, e le scoccò uno sguardo di rimprovero. «Era ora, finalmente.» La moka avvolta dalla fiammella del fornello cominciò a gorgogliare. Angelo sbatacchiò il canovaccio con cui stava asciugando i bicchieri e se lo lanciò sulla spalla. «Ti sembra questa l’ora di arrivare?»

Valentina fece spallucce. «Non è così tardi, dai.» Sapeva benissimo che lo era, dato che la coscienza sporca l’aveva spinta ad andare al lavoro in bici anziché a piedi come al solito. «Sono in ritardo solo di…» Buttò un occhio all’orologio sulla parete. «Di mezz’ora? Uhm, quaranta minuti? Ma non è colpa mia, lo giuro.» Alzò le mani per giustificarsi. «È colpa del turno di ieri che mi ha massacrata. Quando sono tornata a casa ero talmente esausta che ho quasi finito per saltare la cena pur di andare a dormire prestoQuasi saltato la cena pur di andare a dormire presto, appunto.

Angelo allungò un sospiro esausto quasi quanto le lamentele di Valentina. «Be’, comincia a farci l’abitudine.» Venne su il caffè, e un getto di vapore schizzò fuori dal becco gorgogliante della moka. Angelo riempì due tazzine e ne porse una a Valentina. «Turni del genere ce li poteremo dietro per il resto dell’estate, temo.»

Valentina accettò volentieri e insaporì la sua tazzina di espresso con quattro cucchiaini di zucchero. «Spero che le mance valgano la pena.» Si appollaiò su uno sgabello del bancone, sorseggiò il suo caffè e si guardò attorno. La sala da pranzo era deserta. L’ora di colazione era ormai passata, gli ospiti dell’osteria erano sicuramente già usciti per andare a lavorare, ma era comunque tutto troppo tranquillo. «Ma dove sono tutti?» Un altro sorso di espresso bollente le bruciò le labbra. «Già usciti per il lavoro?»

«Sì» annuì Angelo. «Stamattina sono tutti impegnati al porto.» Anche lui soffiò sulla sua tazzina. Guardò verso il soffitto. I lampadari spenti e le padelle pulite e asciutte a pendere dalle mensole. «Sono usciti all’alba. Le camere sono tutte libere, quindi tu comincia a mettere a posto quelle. Sto io quaggiù in locanda.»

Valentina grugnì un gemito disperato, desiderando solo sciogliersi e rotolare di nuovo fino a casa per ficcarsi nel letto e ibernarsi sotto le coperte fino alla fine dell’estate, ma seppe di non avere altra scelta se non quella di rimboccarsi le maniche e di darsi da fare. «Sissignore.» Si prospettava una mattinata all’insegna dello spolverare, del resettare, del rifare i letti e dello sbattere i cuscini. E il lavoro sarebbe raddoppiato, dato che avrebbe dovuto occuparsi anche delle camere del secondo piano.

Ma pensa alla moto, Tina, pensa alla moto.

Bevve ancora dalla tazzina, immaginando di assorbire una scossa di vitalità ed energia dalla sorsata di caffè zuccherato.

Pensa che tutti questi sforzi ti serviranno per comprarti la moto dei tuoi sogni e per andartene da questo misero paesino di pescatori e campagnoli.

«Allora mi metto al lavoro.» Valentina finì il suo caffè, mise la tazzina nel lavello senza però premurarsi di sciacquarla, e indossò il grembiule, allacciandoselo alla vita. «Prima comincio e prima finisco.»

«Ah!» la fermò Angelo. «E a proposito di quando avrai finito…» Le inviò un cenno alzando il mento verso la porta della cucina. «Dovresti anche dare una mano in cucina per preparare i pranzi al sacco.»

«Pranzi al sacco?» Questa sì che è una novità. «E per chi sarebbero?»

«Per gli stagionali» rispose Angelo. «Dopo il lavoro al porto di questa mattina andranno direttamente in piazza per aiutare con la ricostruzione della chiesa.» Uscì da dietro il bancone, si alzò a sfilare il giradischi dalla mensola e lo scoperchiò. «In realtà ci andrà mezzo paese. Abbiamo bisogno di tutte le braccia disponibili, in modo da finire entro settembre.»

Valentina si grattò dietro l’orecchio, «Ah, già», arricciò la punta del naso e rivisse quel ricordo attraverso la patina di sonno che non si era ancora del tutto dissolta. «Effettivamente sentivo che ne discutevano ieri a pranzo.»

Angelo annuì. «E oggi ci sarà pure il Sindaco, per posare la prima pietra e tenere un discorso.» Si accigliò davanti alla sua collezione di dischi e fece tamburellare l’indice da una copertina all’altra. «O una cerimonia di inaugurazione, o una baggianata del genere.» Scrollò le spalle, sventolò la mano e smise di preoccuparsene. «Comunque pranzeranno tutti là. Anzi, fai una cosa. A mezzogiorno pensa tu a portare il pranzo a tutti. Sei venuta in bici, no?»

Valentina gemette come se le fosse piombato un mattone sulla testa. «Urgh…» Dannazione! Non poteva di certo mentirgli, dato che era stato lui ad accorgersene per primo. Se solo mi fossi alzata prima. «Ecco, sì, ma…»

«Ottimo.» Dopo aver scelto il Nabucco di Verdi, Angelo andò a posare il disco sul piatto. «Aggancia il carretto e porta magari anche qualche cassa di vino e tutta l’acqua fresca che abbiamo.» Abbassò il braccio della puntina. Il disco stridette e cominciò a suonare. «Dopo se vuoi prenditi pure il resto della giornata. Tanto non avremo un granché da fare fino a stasera.»

«Uhm.» Qualcosa, il formicolio di un pensiero, di un’idea, solleticò i pensieri di Valentina. «Tutto il paese radunato in piazza per ricostruire la chiesa, eh?» E guardò in alto, verso le scale, verso le camere che sapeva essere già vuote, con in mente forse una sola presenza, una sola faccia.

Tutti a lavorare alla ricostruzione della chiesa. Angelo ha detto che ci sarà mezzo paese. Mezzo paese e tutti gli stagionali, di sicuro.

Valentina si rosicchiò un’unghia per contenere una ridacchiata ebete e speranzosa.

Questo significa che…

Questo significava che ci sarebbe stato anche il misterioso straniero.

Ripensando al giovane, a quell’immagine così fugace che era riuscita a catturare di lui prima di perderlo di vista, Valentina tornò a provare lo stesso singhiozzo di emozione che l’aveva fatta arrossire il giorno precedente, quando aveva incrociato i suoi occhi scuri, quando aveva udito la sua voce rauca ma dolce come miele, quando era stata attraversata da una vampata del suo profumo di aranci in fiore e di salsedine.

Una musica trionfante strimpellò le corde del suo cuore, esultò proprio come il coro di violini e di trombe che componevano l’Overture del Nabucco.

Forse l’estate avvenire sarebbe risultata meno prevedibile del previsto.

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Capitolo 4
*** E non c’è nessun mezzo – Atto II ***


N.d.A.

Chiarimento veloce. “Marina” sarebbe la Signora Marsigliese. Ho scelto il nome “Marina” per omaggiare Marina Massironi che le presta la voce sia nella versione inglese sia in quella italiana. :)

Colgo l’occasione per augurare a tutti un felice Anno Nuovo e un 2023 ricco di serenità, coraggio, soddisfazioni, e magari anche un pizzico di ispirazione.

 

Buon Anno e buona lettura! (^-^)/

 


E non c’è nessun mezzo – Atto II

 

 

A tirare su i ruderi della chiesa c’era davvero mezzo paese, proprio come aveva detto Angelo. E forse anche qualcuno di più.

Valentina si aggrappò al manubrio della bici da cui era appena smontata, sbuffò un sospiro affaticato dal fiatone, si asciugò la fronte dal sudore, scollandosi i capelli dalle guance, e attraversò a piedi la stradina che si immetteva nella piazza. Sollevò un braccio per ripararsi dal sole di mezzogiorno e grugnì, bersagliata dai raggi che le colpirono la testa come tante lame aguzze.

Continuò a camminare, si alzò sulle punte dei piedi aguzzando intanto la vista per riuscire a guardare al di là della miriade di teste e di schiene ammassate a gruppi tutt’attorno la circonferenza della piazza, impedendole di individuare le macerie della chiesetta. Erano ancora tutti fermi, chi con le braccia conserte, chi accomodato sui carretti svuotati degli attrezzi da lavoro, e chi poggiato con la schiena al muro.

Tendendo l’orecchio che ancora le fischiava per la faticaccia di aver pedalato senza sosta fin lì dal Gabbiano, Valentina riconobbe la voce del Sindaco Visconti che stava tenendo il suo discorso dal palchetto allestito in mezzo alla piazza. Da quella distanza, riuscì ad afferrare solo poche parole – unità, impegno e sacrificio, coraggio di risollevarsi, famiglie, compagni.

Vedendola passare e udendo il cigolio della bici accompagnata a mano, alcuni braccianti rivolsero lo sguardo a lei e al carretto stracolmo di bottiglie d’acqua e di pranzi infagottati. Diedero un colpetto a quelli vicini e si separarono per lasciarla passare.

Valentina ringraziò con un cenno del capo e proseguì, sempre più vicina all’irritante chiacchiericcio del Sindaco – «Ed è perché abbiamo a cuore tutti la stessa giusta causa. Un nobile sentimento destinato solo a crescere e a maturare negli anni avvenire che…» – e alle grigie macerie che si ergevano davanti alle facciate delle casette protette dalle reti di contenimento.

Dal gruppo dei più anziani, una testa imberrettata bisbigliò qualcosa all’orecchio del vicino. Quello si girò, intercettò l’arrivo di Valentina, la sua figura che si faceva spazio attraversando i gruppetti di pescatori e di compaesani, e alzò il braccio per chiamarla a sé con uno sventolio di mano. «Tina.» Tommaso la condusse verso il tavolo pieghevole che avevano apparecchiato con una vecchia tovaglia a quadri, una di quelle che tiravano fuori per le sagre di paese. «Vieni, vieni, Tina, porta tutto qui, metti pure sul tavolo. Oh, ma hai portato anche l’acqua? Non serviva, possiamo bere direttamente dalle fontane.»

Valentina sbuffò per reprimere un’imprecazione. Ma non mi dire. Si asciugò dal sudore e si massaggiò le spalle indolenzite. «È Angelo che mi ha caricato di tutta ‘sta roba.»

«Lui ci raggiunge?»

«No, lui resta a badare al GabbianoScordandosi in fretta dei dolori e del fiatone, Valentina esibì un sorriso raggiante e si indicò il petto. «Ma in compenso ci sono io.»

Tommaso arricciò i baffi in una smorfia poco convinta, ma sforzò comunque un cortese sorriso di circostanza. «Certo.» Chiamò un paio di pescatori perché lo aiutassero a svuotare il carretto e a disporre le bottiglie e i pranzi al sacco sulla tavola apparecchiata. Rivolse a Valentina un sorriso di gratitudine che questa volta non ebbe nulla di forzato. «Be’, grazie infinite per l’aiuto. Com’è che si dice? Più siamo e meglio è. Abbiamo bisogno di tutte le braccia disponibili.»

Valentina annuì, pensando però che anche lei avrebbe strabuzzato lo sguardo e avrebbe spalancato la bocca ammutolita, incredula nel vedersi lì.

Si appoggiò col fianco allo spigolo del tavolo, scese a massaggiarsi i polpacci sotto la gonna, raddrizzò la schiena sventolando una manciata di capelli scompigliati lontano dal viso, e si fece aria al viso ancora rosso e sudato. Tenne la mano alzata davanti alla fronte per ripararsi dalla doccia di sole battente che illuminava la piazza affollata come lo diventava solo di domenica e nei giorni di festa.

Uomini e donne, vecchi e giovani, compaesani e stranieri, avevano formato dei gruppetti attorno alle carriole, ai camioncini, ai secchi riempiti con pale e rastrelli, e a un paio di betoniere che non erano ancora state accese. Mucchi di mattoni erano disposti a piramide affianco ai sacchi di cemento e di malta su cui qualcuno si era seduto oppure appoggiato con i gomiti. Più in alto delle terrazze e dei tetti che erano stati risparmiati dai bombardamenti del Quarantacinque, si spalancava un cielo azzurro e incontaminato. Nemmeno una sbavatura di nuvola a intralciare il bianco del sole che bruciava su quella splendida giornata di giugno.

Ora sì che si riusciva sul serio a respirare l’arrivo dell’estate. Durante un pomeriggio simile, Valentina sarebbe volata in spiaggia a godersi una bella nuotata, a tuffarsi dagli scogli più alti e a raccogliere le conchiglie trascinate sulla spiaggia. Oppure si sarebbe comprata un ghiacciolo e si sarebbe concessa una passeggiata all’ombra delle vigne che stavano già cominciando a fruttare e a profumare l’aria dei campi. E invece, nonostante il congedo dal lavoro, aveva deciso di sua volontà di rimanere in piazza per sgobbare e partecipare alla ristrutturazione della chiesa.

Devo proprio essermi ammattita.

O sotto sotto c’era anche qualcos’altro?

«… ed è meraviglioso saperci tutti riuniti qui, per partecipare a questa così gloriosa dimostrazione di solidarietà.» Il Sindaco Visconti volse la mano al cielo – l’altra stretta a pugno dietro la schiena – e camminò tutto impettito lungo il palchetto ombreggiato dai filari di bandierine italiane che gli pendevano sopra la testa. «Perciò voglio che tutti voi vi guardiate attorno.» Spalancò il braccio a indicare la folla che stava assistendo al suo discorso. «Che sorridiate a chi vi sta vicino, e che conserviate quel sorriso sapendo di poter sempre fare affidamento su una comunità in cui potersi stringere durante i periodi più bui e difficoltosi. Abbiamo vissuto tempi duri.» Accostò il pugno al cuore, come a sostenere un enorme peso, un peso che si riflesse sul suo viso indurito in un’espressione solenne ma tormentata, e continuò a marciare su e giù in quella sua posa da galletto che regna sovrano nel suo pollaio. «Anni che hanno messo alla prova l’intera nazione, e non solo i cuori di noi abitanti di Portorosso, di un paesino che nella sua singolarità rappresenta…»

L’attenzione di Valentina sbiadì, e quella pesante nuvoletta di noia la spinse a sbatacchiare le ciglia appannate e a guardarsi attorno alla ricerca di qualcuno più interessante.

Il primo profilo familiare che individuò in mezzo a tutti gli altri fu quello di Massimo. Le sue spalle erano ben più larghe di quelle degli uomini che lo circondavano, e l’ombra della sua stazza copriva tutti i pescatori in piedi attorno a lui. Ad accompagnarlo, c’era una fiammeggiante massa di capelli rossi altrettanto impossibile da ignorare e da confondere. Anche loro stavano seguendo il discorso del Sindaco – Sara faceva dondolare le gambe dai sacchi di cemento su cui era seduta – e non sembravano essersi accorti dell’arrivo di Valentina.

Valentina sorrise e fremette di gioia, già immaginando la sorpresa che avrebbero ricevuto vedendola comparire così all’improvviso. Così si intrufolò fra le spalle della folla, stando attenta a non calpestare qualche piede, «Permesso, permesso, scusate», allungò un paio di saltelli e rimbalzò alle spalle dei suoi amici. «Buon dì, bella gente!»

Sara trasalì. Lei e Massimo si girarono, come fecero anche un paio dei pescatori che erano loro affianco, e su Valentina volarono sguardi increduli e strabiliati. Massimo sollevò le sopracciglia e strabuzzò gli occhi. «Tina?»

Pure Sara si stropicciò le palpebre e le sbatacchiò un paio di volte, come in preda a un’allucinazione. «Tu qui?»

Valentina sollevò il mento, tenendo alto il buonumore, e dondolò sui talloni. «Sì, perché?» Raccolse la collanina dal petto e la arrotolò fra le punte delle dita. «Siete forse sorpresi?»

«E ci credo.» Sara adocchiò il Sindaco, si scostò un ricciolo dal viso, socchiuse le palpebre, e abbassò un po’ la voce per non parlare sopra il suo discorso. «Oggi non lavoravi tutto il pomeriggio?»

«Cambio di programma.» Valentina continuò a giocherellare con la collana, a grattare le unghie sul ciondolo a forma di chiave. «Mi hanno dato la giornata libera dato che l’osteria sarà praticamente vuota fino a stasera. E così ho deciso di approfittarne e di venire anche io qui in piazza ad aiutare con la ristrutturazione della chiesa. Per fare un po’ di servizio alla comunità.»

«Tu che fai servizio di comunità?» ribatté Sara. «Tina la Pigrona che decide spontaneamente di sacrificare il suo tempo libero per lavorare e sfaticare?» Si trascinò stando seduta sul sacco di cemento, si sporse verso Valentina, assottigliò le ciglia, e la scrutò nelle profondità degli occhi. «Cosa c’è sotto?»

Valentina fu costretta a scostare lo sguardo per nascondere il rossore che le aveva chiazzato le guance. «Ma niente.» Mollò la catenina e sventolò la mano per scacciare lo sguardo così sospettoso di Sara. «Quanto sei prevenuta. Perché mai dovrebbe esserci qualcosa sotto?»

«Perché è un po’ difficile che tu ti impegni in qualcosa che non abbia a che vedere con i tuoi interessi.»

D’accordo, ora potrei anche cominciare a offendermi. «Magari anche io sto cominciando a comportarmi da adulta.» Valentina si mise a braccia conserte, si alzò in punta di piedi, e portò il viso immusonito a sfioro di quello di Sara. «Te l’avevo detto o no? Da adesso in poi ho intenzione di concentrarmi esclusivamente su me stessa e sul mio futuro, invece che perdermi dietro ai ragazzi e ad altre sciocchezze simili.»

Sara e Massimo si scambiarono uno sguardo, uno sguardo silenzioso ed eloquente, ma alla fine Sara fu costretta a sospirare e ad arrendersi a quella scarsa evidenza. «Staremo proprio a vedere.»

Valentina aprì la bocca, fece per controbattere e difendersi, ma la voce del Sindaco si sovrappose ai suoi pensieri.

«… stata riscoperta la solidarietà, lo spirito d’unione.» Il Sindaco si affacciò dal piedistallo, aggiustandosi la fascia tricolore che gli stava scivolando dalla spalla, e spostò l’attenzione sulle facce nuove che avrebbero abitato a Portorosso per tutta l’estate. «E anche un caloroso sentimento di accoglienza nei confronti di chi viene da lontano.»

Valentina si mise al riparo sotto l’ombra allargata dalle spalle di Massimo, si fece aria al viso e sbuffò. La testa già le girava, sia per il gran caldo che le picchiava sulla nuca e che le abbrustoliva le guance sia per l’irrefrenabile parlantina di Visconti. «Da quanto tempo sta andando avanti?»

«Oh» sospirò Sara. «Ha appena cominciato.» La punzecchiò con il gomito e arricciò un sorriso malefico. «Sei arrivata giusto in tempo.»

Valentina digrignò i molari, fece roteare lo sguardo e gorgogliò un lamento trascinato. «Che fortuna.»

«… è lo spirito d’unione che è venuto a mancare.» Il Sindaco compì un passo in avanti, gettando ombra sul povero portantino che stava aspettando, ai piedi del palchetto, di porgergli il primo simbolico mattone che poi lui avrebbe posato per dare inizio ai lavori. «I conflitti hanno diviso gli animi degli uomini, il Paese ha affrontato tempi durissimi, ha subito ripercussioni che saranno visibili per i prossimi anni – decenni, forse! –, e le conseguenze sono state subite da ognuno di noi. Ognuno, nessuno escluso. Molte vite sono state spezzate così ingiustamente. Le perdite dei nostri fratelli sono inestimabili. Abbiamo perso padri, madri, e…» Dopo un lungo sospiro, si asciugò una finta lacrimuccia. «E tristemente anche molti figli. Ma ne siamo usciti.» Si batté il pugno sul cuore. «E ne siamo usciti più forti, consci della bufera che ci è passata attraverso. Perciò facciamo tesoro di questa nuova forza e…»

Uno degli braccianti sbadigliò e sventolò la mano davanti alla bocca per non farsi notare troppo. «Qualcuno gli ficchi un calzino giù per la gola e lo trascini giù di lì.» Poggiandosi di schiena a una delle betoniere, si sfilò il berretto e si fece aria al viso. «Gli hanno spiegato, sì, che è solo un discorso cerimoniale, e non un sermone?»

«Anche io lo vedo più coinvolto del solito.» Quello che gli stava affianco spinse indietro l’orlo del berretto. «Si vede che la paternità gli fa uno strano effetto.»

Un brivido comune attraversò tutti gli uomini radunati in quel piccolo gruppetto, come se uno sbuffo di vento siderale fosse precipitato dal cielo e avesse gelato loro il naso e i baffi. La nuvoletta di un pensiero fin troppo lampante da decifrare galleggiò sopra le loro teste: ti prego, non tirare fuori l’argomento.

Uno di loro guardò in alto, come per assicurarsi che un banco di nuvole non si fosse addensato davanti al sole, e compì un passo fuori dall’ombra per ritrovare un po’ del tepore perduto. «Speravo, io, che gli fosse passata almeno un po’.» Ebbe la forza di ridacchiare. «Quanto avrà, adesso, il piccolo?»

«Un mese. Neanche.»

«Già un mese? Accidenti se vola il tempo. Se penso che quando è nato io ero ancora a lavorare a Genova.»

Anche il suo compare rise e gli rifilò una spallata sul braccio. «Ti sei perso la Natività del secolo, te l’ho detto. Mi sembra solo ieri che Visconti ha fatto addobbare la città come un Albero di Natale per festeggiare. Se avesse avuto il campanile a disposizione avrebbe fatto strimpellare le campane per una settimana intera, garantito.»

«Come l’hanno chiamato?»

«Chi?»

«Il bimbo. Com’è che l’hanno chiamato?»

«Oh, un nome greco, mi sembra. Con la E.» L’uomo si batté l’indice sul labbro e alzò gli occhi al cielo, meditabondo. «Ettore? Ermes?»

«Ercole» lo corresse l’altro. «Lo hanno chiamato Ercole.»

«… ma non abbiamo permesso di dividerci ulteriormente» proseguì il Sindaco, «ed ecco perché oggi come ogni giorno siamo qui, riuniti e accomunati dal desiderio di non rivivere più una tragedia come quella passata. Il nostro è un paesino piccolo, umile e modesto, ma voglio che sia lo stesso un esempio.» Alzò il braccio a indicare i tetti, i comignoli e le terrazze delle case che circondavano e delimitavano la piazzetta. Sia quelle intere sia quelle franate come castelli di sabbia. «Ora voglio infatti che voi guardiate la nostra chiesetta e che la vediate come un simbolo.» Strinse forte la mano e impugnò quell’ideale. «Il simbolo della rinascita di Portorosso, naturalmente, ma anche dell’Italia intera. Voglio che mentre lavorerete alla sua ricostruzione pensiate tutti di star contribuendo alla ricostruzione di qualcosa di infinitamente più importante. Portorosso dovrà essere un paesino libero, un paesino di brava gente, di gente onesta, di grandi lavoratori che quando…»

Valentina spremette un massaggio sulle tempie, pregando il suo cervello di rimanere concentrato sulla voce del Sindaco – i brontolii dei pescatori erano stati molto più interessanti da seguire –, invece che smarrirsi in una fosca nebbiolina di pensieri. Non resse a lungo. Il suo sguardo si allontanò dal palchetto, vagò sulla piazza rimbalzando fra facce familiari e facce sconosciute. Forse in cerca di una sola faccia in particolare.

Si alzò sulle punte dei piedi fino a sentire le caviglie scricchiolare per lo sforzo. Si arrampicò pure lei sul mucchio di sacchi di cemento, scivolò gattoni stropicciando la gonna sotto le ginocchia, sdrucciolò in avanti e cadde sul braccio che Massimo aveva allungato per acchiapparla al volo. «Attenta.» Massimo la sollevò e la aiutò ad aggrapparsi alla sua spalla.

Dopo averlo ringraziato con un sorriso, Valentina tese una mano davanti alla fronte, per pararsi dal sole, e allungò lo sguardo che ora poteva racchiudere la piazza nella sua interezza.

E le bastò poco, appena un battito di ciglia, per riconoscerlo in mezzo alla folla, dato che si distingueva in mezzo agli altri uomini e ragazzi come si era distinto il giorno prima dopo essersi seduto al bancone dell’osteria.

Un caldo guizzo di emozione strizzò il cuore di Valentina, le alleggerì il petto e illuminò il verde del suo sguardo, isolandola dal blaterare del Sindaco e rendendo più sopportabile persino la canicola di mezzogiorno. Un sorriso le baciò le labbra, e fu un sorriso dal sapore dolce e rinfrescante come il primo morso dato a una pesca matura.

Il misterioso straniero sedeva sul vano posteriore di uno dei furgoncini che avevano guidato fino in piazza per scaricare i mattoni e gli attrezzi da lavoro. Riservato e silenzioso come Valentina lo ricordava, se ne stava sprimacciato fra le spalle dei braccianti che gli sedevano vicino e che parlottavano fra loro. Lo stesso corpicino magro che annegava negli abiti cadenti e dai colori sbiaditi, un basco calcato sui riccioli, le mani in tasca, una gamba che dondolava facendo strusciare a terra la punta della scarpa, e le spalle strette e ricurve che lo rimpicciolivano, anche se adesso non poteva contare sulla penombra dell’osteria per tenersi nascosto. E Valentina ne fu grata, perché alla luce del sole la sua pelle splendeva come un gioiello forgiato nel bronzo. Peccato solo per lo sguardo così timido che rifiutava di farsi trovare.

Irradiato dalla sua sola presenza, il cielo si fece ancor più limpido e azzurro, l’aria si addolcì, e soffiò un venticello frizzante che Valentina sentì formicolare sulle sue guance. Proprio un vento del Sud profumato dalla fioritura di aranci e di bergamotti, scaldato da un sole che batteva su strade di pietra bianca come gesso. Un vento che soffiava scuotendo una vegetazione selvatica dove crescevano piante grasse, ulivi, ginepri e fichi d’india. In quel paesaggio esotico e sconosciuto, le cicale stridevano saltellando fra le spighe di grano e scuotendo i fasci di erba alta punteggiata dai papaveri e dai rosmarini. L’accavallarsi delle onde si distribuiva lento e frusciante bagnando una spiaggia fatta di sabbia dorata, non di ciottoli. E Valentina si sentì davvero in grado di immergere i piedi nell’acqua trasparente, di inspirare il profumo di polline e salsedine, di scuotere i capelli sotto la brezza, di chiudere gli occhi e di farsi sollevare dal vento e lasciarsi trascinare in una colorata spirale di…

Il misterioso straniero scrollò la testa per allontanare uno sbuffo di riccioli dalla fronte, raccolse una delle ciocche, la spinse sotto il basco, e compiendo quel gesto girò lo sguardo con fare distratto.

I suoi occhi scuri si incrociarono per la prima volta con quelli di Valentina.

Valentina sentì quello sguardo, quella sfrecciata di calore improvviso, tambureggiarle nel petto come una conquista e gonfiarle il cuore di una gioia trionfante. Stando ben appesa alla solida spalla di Massimo, sorrise allo straniero e sventolò la mano in un saluto.

Lui corrugò la fronte e storse un sopracciglio in un’espressione spaesata. Si guardò attorno, come per assicurarsi che quel saluto fosse rivolto a lui. Gli occhi di tutti rivolti solamente al palchetto del Sindaco. Chinò il capo, alzò le ginocchia contro il petto, e si rannicchiò dietro il profilo del bracciante seduto affianco a lui, tornando nascosto dall’ombra.

Peccato.

«Volgere lo sguardo al futuro senza dimenticare il passato» esclamò il Sindaco. «Ecco quale sarà il compito di ogni singolo abitante di Portorosso.» Scese dal palchetto tenendo le spalle larghe e il petto all’infuori come se stesse ancora camminando a una spanna da terra. «Ecco quale sarà l’impegno che affiderò a ognuno di voi. Quindi voglio che ogni volta in cui prenderete in mano una pietra, e ogni volta in cui deporrete la suddetta pietra, immaginiate che quel mattoncino rappresenti una vita che ci ha lasciato, ma anche una vita che verrà invece custodita per ripopolare Portorosso. Ed ecco che anche io, posando questo primo mattone…» Raccolse il mattone dalle mani del portantino che finalmente poté abbassare le braccia e massaggiarsi i polsi, e andò ad accovacciarsi lì dove avevano piantato i paletti che delimitavano l’area di ricostruzione. «Volgo il mio sguardo al futuro, a un Paese rinato e a una città nuova.» Uno dei giornalisti si fece avanti e scattò un paio di fotografie. Il Sindaco si rialzò, si spolverò le mani, lisciò la fascia tricolore, e spalancò le braccia per accogliere l’applauso dei cittadini. «Diamo inizio ai lavori!»

Si udirono ancora un paio di scatti fotografici, e l’applauso pian piano si dissolse mentre i gruppetti cominciarono a sparpagliarsi. I lavoratori si diressero a raccogliere le carriole, ad azionare le betoniere, a riempire i secchi d’acqua, a mescolare palate di malta e a distribuire pale e rastrelli, e il profilo del misterioso straniero venne presto inghiottito dalle correnti di uomini che si intrecciavano spostandosi senza sosta da un angolo dall’altro della piazza.

Qualcuno stiracchiò le braccia, soffiò un lungo sospiro simile a un grugnito. «Finalmente.»

«Non ne potevo più.»

«A sentirlo pareva che volesse tirarla su tutta lui.» E anche loro si allontanarono.

Sara carezzò la schiena di Massimo e gli sorrise con dolcezza. «Buon lavoro.»

Massimo ricambiò il sorriso. Distese il braccio per far scendere Valentina dalla spalla e si allontanò, richiamato da altri lavoratori che intanto si erano portati tutti attorno al campanile franato per prendere direttive dai capi muratori e per accordarsi anche con il parroco che era uscito a supervisionare i lavori e a spargere qualche spruzzo di acqua santa sui mattoni nuovi.

Marina Marsigliese scivolò giù da un muretto di sacchi di calce su cui si era seduta come era ancora seduta Sara. Si diede un’aggiustata alla gonna, sfogliò la cartellina che reggeva sottobraccio, sfilò una matita da dietro l’orecchio e spuntò qualcosa sulla prima pagina. «Bene, bene» annunciò, sfoggiando lo stesso tono di voce con cui il Sindaco aveva tenuto il suo sermone. «Lavoratori, braccianti, compaesani di ogni genere… rimbocchiamoci le maniche e diamoci tutti da fare!» Sventolò la matita per richiamare gli uomini e le donne che intanto le si erano radunati attorno, si gonfiò il petto di fiato per alzare la voce e farsi sentire da chiunque stesse popolando la piazza. «Suddividetevi nelle squadre che abbiamo prestabilito, prendete il vostro caposquadra come punto di riferimento e rivolgetevi a lui per qualsiasi dubbio o problema. Le zone su cui lavoreremo saranno la facciata della chiesa, la torretta del campanile, e le mura franate delle case adiacenti.» Alzò un dito alla volta. «La Squadra Uno sarà la prima a entrare in pausa, fra due ore esatte. Dopo mezz’ora andrà in pausa la Squadra Due, e successivamente la Tre. Due ore dopo ripeteremo il ciclo. Potete comunque fermarvi a bere quando volete, ammesso che abbiamo – oh, sì!» Annuì, dopo aver buttato l’occhio sulla tavola apparecchiata con bottiglie e pranzi al sacco. «Hanno già portato l’acqua e il resto, ottimo.» Scarabocchiò qualcosa sulla cartellina. «Ricordate di lasciare sempre libero il passaggio che conduce fuori dalla piazza, e mi raccomando di non abbandonare nessuna carriola o attrezzo di alcun genere nei confini della stradina che abbiamo delineato questa mattina. Su, su.» Batté tre volte le mani. «Scattare, scattare, scattare!»

Uno dei ragazzi più giovani le passò davanti spingendo una carriola carica di mattoni. Dopo uno sbuffo di fatica, le scoccò un’occhiata storta da sopra la spalla ricurva. «Marina, datti una calmata. Mica è una gara.»

Anche lei lo linciò di traverso. «Siete voi che dovreste darvi una mossa, invece.» Gli rifilò un piccolo calcio sul sedere, facendolo così sobbalzare e accelerare. «Un po’ di sana competizione è proprio quello che ci vuole. La competizione stimola la produzione. Per questo vi ho suddivisi in squadre.»

Uno di quelli che avevano appena riempito le betoniere di calce tese l’orecchio verso quella discussione e scosse la testa. «Aprissi un’impresa faresti soldi a palate.» Si caricò sulla schiena i sacchi vuoti, attraversò il gruppetto che si stava suddividendo le pale, e lasciò libero il passaggio.

Valentina si intrufolò fra le schiene di quelli che si erano scansati per lasciarlo passare, e corse verso Marina. «Marina!» Agitò il braccio sopra la testa e accelerò la corsa, con la gonna che le sventolava attorno alle ginocchia e la chiave che le rimbalzava sul petto a ogni falcata. «Marina, Marina, aspetta! Ci sono anch’io! Io dove vado? In che squadra mi metto?»

Dopo aver indirizzato un paio di uomini verso i mucchi di macerie adiacenti al perimetro del nuovo campanile, Marina si girò e compì un saltello, come colta di sorpresa. «Tina?» Si guardò attorno, spaesata, e si strofinò la matita sulla tempia. «Che ci fai qui?»

Valentina frenò la corsa e ammosciò le spalle in avanti, atterrata da quello sguardo e da quella reazione. «Si può sapere perché ne siete tutti così sorpresi?»

«Be’» borbottò Marina, «ecco, non è…» Sventolò la matita a indicare l’intera immagine di Valentina. «Esattamente da te offrirti volontaria per questo genere di cose. Lo sai che questo è un lavoro serio, non è vero?»

«Certo che lo so.» Valentina si batté la mano sul petto. «E anche io voglio dare il mio contributo.»

Marina si mise a braccia conserte, picchiettò il piede a terra, e ancora la squadrò con sospetto attraverso quel suo cipiglio da maestrina. «Ma sei qui per lavorare sul serio o hai altre intenzioni?»

Valentina sbuffò, sventolando via il nastrino che le era caduto sul naso. Arricciò di nuovo la catenina all’indice e si guardò attorno per non farsi tradire da quel risolino sghembo che le era tremolato sulla bocca. «E quali altre intenzioni dovrei avere?»

«Non saprei» rispose Marina. «Correre dietro ai ragazzi? Anche se…» Pure lei diede un’occhiata in giro. Le bastò far volare qualche sguardo fra i diversi gruppetti di braccianti dagli abiti sgualciti e dai visi sporchi per notare che quel giorno i pesci non fossero molto appetibili. Si arrese con un sospiro. «Mi fiderò.» Rivolse la matita alla squadra di uomini che stavano rovesciando il cemento nelle betoniere. «Squadra Due. Massimo sarà il tuo caposquadra. Vedi di…»

«Oh, grazie, grazie, grazie, grazie!» Valentina si gettò ad abbracciarla, poi tornò con i piedi per terra e qualche passo già indirizzato verso la sua destinazione. «Sarò la lavoratrice più seria e impegnata di tutta Portorosso. Ah…» Arrestò il passo, si girò, e sogghignò da sopra la spalla. «Quando hai detto che facciamo la prima pausa?»

«Tina!»

«Va bene, va bene…» Valentina si rimboccò le maniche e sollevò la cinta della gonna. «Mi metto al lavoro.» Trotterellò fino a dove Massimo stava distribuendo il lavoro e le carriole fra i suoi colleghi pescatori. «Massimo!» Lo chiamò sventolando il braccio come aveva fatto poco prima con Marina. «Massimo, sono in squadra con te. Che faccio? Che lavoro devo fare?»

Massimo sollevò le sopracciglia, e anche lui si concesse qualche attimo per metabolizzare quell’uscita di Valentina. «Lavori anche tu alla ricostruzione?» Ma per lo meno il suo tono di voce non serbava quella sfumatura velatamente indignata che si era sentita rivolgere da Marina. «Sei sicura, Tina?»

«Sì, sì, ed è stata Marina a mandarmi da te.» Valentina batté le mani e sfoderò il suo sorriso più accattivante. «Ha detto che sono nella tua squadra e che sei tu che devi dirmi cosa fare. Faccio qualsiasi cosa, giuro che mi impegno.»

Massimo socchiuse la bocca, fece per risponderle, ma qualcuno lo chiamò a gran voce dall’altra parte della piazza. «Massimo!» Uno dei lavoratori – uno degli uomini aggrappati alle funi con cui stavano issando le traverse di metallo – staccò la mano dalla corda e la chiuse a coppa attorno alla bocca. «Ci servi qui, dobbiamo fare su la carrucola!»

Massimo gli rispose con un pronto sventolio di mano. «Arrivo subito.» Si guardò alle spalle, raccolse una delle carriole vuote sollevandola di peso per la ruota – afferrandola per il manico sarebbe stata difficile da bilanciare, potendo utilizzare un braccio solo – e la riappoggiò davanti a Valentina. «Ecco, tieni.» Indicò le macerie che erano state ammucchiate sul perimetro della piazza e poi le due camionette su cui stavano rovesciando le carriole già piene. «Usa questa per raccogliere tutte le macerie alla base del campanile e poi portale a scaricare in quel mucchio laggiù.»

Valentina annuì, tutta entusiasta e piena di buona volontà. «Farò del mio meglio.» Agguantò i manici della carriola e corse via.

Giunta dinnanzi la muraglia di macerie – gli altri lavoratori le sciamavano attorno, seminavano impronte di sabbia sul cemento della piazza, strusciavano le mani inguantate sui pezzi da raccogliere, affondavano le pale nei mucchi da ribaltare, si allontanavano accompagnati dal cigolio delle ruote e dai borbottii scambiati con gli altri braccianti –, Valentina meditò su quali frammenti le convenisse raccogliere per primi.

Puntò un rottame di terracotta, probabilmente il rimasuglio di una tegola, che spiccava in mezzo al bianco e al grigio della calce. Si piegò a raccoglierlo con entrambe le mani, lo lanciò nella carriola e si spolverò i palmi, già sufficientemente soddisfatta del suo operato.

Bene. Facile. Fin qui tutto bene.

Decise che i pezzi di tegola erano i più facili su cui lavorare, così si concentrò su quelli e puntò un altro coccio rosso che giaceva sulla cima del mucchio.

«Ouch!»

Mollò il pezzo aguzzo e si succhiò il dito ferito. Soffiò sui palmi impolverati, sventolò le mani che già le bruciavano, e scavalcò la tegola appena mollata mirando a un mattone bianco che sembrava più liscio e maneggevole.

Afferrò anche quello con entrambe le mani, gonfiò i muscoli delle braccia, strinse i denti e spinse le spalle all’indietro. «Ghnn.» Copiose gocce di sudore le colarono lungo la fronte paonazza. Le dita tremolarono, scivolarono sul mattone, le unghie stridettero e sgretolarono la polvere di cemento, e forti fitte di dolore saettarono fino alle sue spalle ricurve.

No, no, questo è troppo.

Valentina si arrese e lasciò andare il mattone. Si asciugò il sudore dalla fronte e soffiò un pesante sbuffo di fiato.

Che faticaccia.

Tornò a scendere dalla pendenza del mucchio – un paio di sassolini le rotolarono fra le caviglie – e si dedicò nuovamente ai frammenti più piccoli, quelli che si sbriciolavano attorno alle tubature sfondate dal peso della frana.

La sua schiena gridò vendetta dopo soli tre piegamenti.

Però pure quelli piccoli mi sfiancano, a forza di raccoglierli e di spostarli di qua e di là.

Riempita metà carriola, Valentina ne afferrò i manici, la spinse in avanti, strusciò qualche passo e il peso le scivolò dalle mani, costringendola a fermarsi per non rischiare di rovesciare tutto il carico.

Acc… non ce la faccio.

Stordita da uno sciame di scintille di fatica, e inondata da un’appiccicosa vampata di sudore, Valentina mollò la carriola e barcollò all’indietro, finendo per accasciarsi sui sacchi di cemento su cui Sara era ancora appollaiata.

Pausa. Devo…

Annaspò, si scollò una ciocca dalle labbra e allentò il bavero della camicetta per farsi aria al collo.

Devo recuperare.

«Miseria, che fatica.» Valentina sventolò pure la gonna, infischiandosene se qualcuno avesse finito per vederla anche al di sopra delle ginocchia. «Non è che potrei andare in pausa anticipata o qualcosa del genere? Non mi sento più le braccia.»

Sara abbassò l’album su cui stava graffiando qualche schizzo a matita – nel frattempo si era messa a disegnare – e inarcò un sopracciglio. «Ma sei hai appena cominciato.»

«E sono già stanca morta.» Valentina adagiò più comodamente la schiena sul muretto di sacchi di cemento e continuò a farsi aria al viso accaldato. «Quand’è che ci fanno fare la prima pausa?» Tirò più indietro le gambe per evitare che una carriola di passaggio le schiacciasse i piedi. «Una pausa meditativa, magari. Per raccogliere le forze che mi serviranno a lavorare più duramente.»

Sara alzò gli occhi al cielo e scosse il capo. «Sei incorreggibile.» Pescò un’altra matita dall’astuccio, ne sfregò la punta all’angolo della pagina su cui stava disegnando, per affilarla, e soffiò via la polvere di grafite. «Se non avevi nessuna intenzione di lavorare fin dal principio allora potevi anche fare a meno di venire qui, sai.»

«Parli di me?» Valentina le rivolse un’occhiata sbieca. Le gambe accavallate in cima ai sacchi, l’album da disegno poggiato sul ginocchio, il piede dondolante, la posa rilassata, e nemmeno una goccia di sudore a sbavarle il viso. «E tu perché non stai lavorando?»

«Io sto lavorando.» Sara girò l’album e lo allungò davanti al naso di Valentina. Stava ritraendo la chiesetta diroccata, anche se per ora aveva solo tracciato i confini della piazza e le linee base del campanile franato. «Il Sindaco mi ha commissionato questi.» Picchiettò la matita in cima all’album. «Vuole una serie di disegni in sequenza che mostrino tutta la ricostruzione della chiesa, fase per fase, man mano che viene tirata su. Ha detto che me li pagherà cento lire a pezzo, ci credi?» Un sorriso inorgoglito le accese un luccichio in fondo agli occhi e le spolverò le guance di rosso. «Li appenderà nella sala del Municipio, a quanto pare.»

Valentina sgranò le palpebre. «Cento lire a pezzo?» Allungò la mano verso il blocco da disegno, ma tirò indietro il braccio prima ancora di aver sfiorato la pagina. Non voleva rischiare di insozzare la carta con le sue mani sporche. «Magari avessi anche io un talento speciale come il tuo» sospirò a malincuore. «Guadagnarsi da vivere sarebbe mille volte più facile rispetto a sgobbare dietro a lavori così poco gratificanti.»

«Guarda che il mio non è affatto talento» la rimbeccò Sara. «Si tratta semplicemente di impegno, costanza, perseveranza, e duro lavoro.» Si piegò in avanti e le spinse sul naso la punta della matita. «Esattamente quello che in questo momento dovresti star facendo tu, Signorina Milani.»

Valentina scrollò il capo e si ridestò. «Ah, sì, giusto!» Impugnò il manubrio della carriola, scattò a correre e inciampò dopo solo un paio di passi, piegandosi di lato per non far crollare il carico. Si rimise in equilibrio e camminò più lentamente per non rischiare di ripetere lo spettacolo. Schivò uno degli uomini che stavano trasportando delle travi d’acciaio sopra la spalla e trascinò la carriola fino a un mucchio di macerie dove i detriti non sembravano così grossi o aguzzi.

Si rimise al lavoro un pezzetto alla volta, un coccio dopo l’altro, e intanto rimuginò sulle ultime parole di Sara. Consigli che le fischiavano nelle orecchie come l’irritante vocina di un Grillo Parlante bacchettone.

Impegno, costanza, perseveranza e duro lavoro.

Indugiò sul pezzo di mattone che reggeva fra le mani. Lo rigirò un paio di volte e immaginò che anche il suo futuro fosse composto da tanti piccoli mattoncini di pietra e terracotta che lei avrebbe dovuto impilare l’uno sull’altro e saldare con copiose spalmate di cemento.

Anche io voglio essere capace di qualcosa di simile.

Lanciò il mattone nella carriola e si concesse un sorriso d’incoraggiamento che ebbe l’effetto di una pacca sulla spalla.

Anche io voglio mostrare a tutti quello di cui sono capace, anche se nessuno ha fiducia in me.

Girò attorno al mucchio di macerie, scavalcò quelle più grosse, e si piegò a raccogliere una delle travi di ferro stritolate dalla frana. La sollevò per la punta, la trascinò indietro, ma il peso delle macerie la trattenne, così Valentina la mollò.

Non farò mai più la figura della ragazzina sciocca e frivola, nossignore.

Puntò invece un pezzo di calcestruzzo.

Sarà questo il mio buon proposito per quest’estate.

Lo prese fra le mani, si punse con un’estremità aguzza, lo lasciò andare, lo ribaltò con il piede in cerca di qualcosa dall’aspetto meno minaccioso, e pescò una pietra poco più grande del suo pugno.

Da questo momento in poi, Valentina Milani sarà una ragazza del tutto nuova, ambiziosa e determinata, che non dipenderà più dall’approvazione degli altri quando…

«Ragazzina?»

Una scossa le punse le orecchie. Quell’intensa scarica di calore le infiammò la nuca e scese formicolando lungo la schiena come una pioggerellina, si annidò nello stomaco in un gomitolo di brividi che poi si sciolse, propagandosi fino al petto.

Valentina la riconobbe. La voce del misterioso straniero! E assieme alla sua voce riconobbe quella sensazione simile al respirare il profumo di un’arancia che viene sbucciata e morsicata, rivelando un sapore fresco e succoso, anche se leggermente acerbo. Una sensazione che le pizzicava le narici e che le rinfrescava le labbra.

Con il cuore stretto in un singhiozzo di emozione e il petto accaldato da un palpito di aspettativa, Valentina si girò e sollevò un sorriso da scema che le gonfiò le guance arrossate. «Sì?»

Il misterioso straniero non sembrò cascare nella polverina rosea e luminosa di quell’incantesimo. Strinse i pugni inguantati attorno ai manici della carriola e squadrò Valentina dall’ombra che gli sbavava lo sguardo imbronciato. Le sopracciglia corrugate in un’espressione di costante disappunto. Gli occhi scuri, nebbiosi e indecifrabili, tenuti nascosti dai ciuffi di riccioli che sfuggivano al basco troppo largo per la sua testa. «Mi sei d’intralcio.» Sollevò i manici della carriola su cui aveva appoggiato la pala, e alzò il mento in direzione del mucchio di detriti da cui Valentina aveva raccolto giusto qualche coccio. «O ti dai da fare o ti togli dai piedi.»

La faccia di Valentina si ammosciò in un’espressione inebetita. Il battito del cuore appassì come la corolla di un fiore investito da una zaffata di gelido e tagliente vento invernale, le labbra si torsero in una smorfia di sconcerto, e una palpebra traballò fino a cancellarle ogni luce dallo sguardo. Ragazzina? Se ne rimase lì impalata, incapace di rispondergli o di reagire. Capace solo di compiere un passetto di lato, con ancora il sasso fra le mani, e di lasciar libero il passaggio.

Il misterioso straniero le passò davanti, lui e il suo profumo di aranci, di salsedine e sudore, senza quasi degnarla della decenza di uno sguardo. Biascicò un «E grazie tante», e si rimise al lavoro. Affondò la pala nel mucchio di detriti, la rovesciò nella carriola, si piegò di scatto per agguantare un pezzo di tegola che era rimbalzato sul bordo, lo rilanciò al suo posto, e andò avanti senza ulteriori esitazioni.

Valentina non seppe nemmeno cosa avrebbe voluto aspettarsi.

Trascorso il primo attimo di stordimento, i brividi così tiepidi e piacevoli che prima le avevano carezzato la pelle si infiammarono in roventi spasmi di rabbia che le bruciarono la pancia. Il cuore riprese a battere, accelerò gonfiando il petto di un respiro rabbioso e rimbombante. I denti stridettero e le mani stritolarono il sasso fino a sentire le unghie solcare la pietra.

La luce si spense, gettandole addosso un’ombra di malumore che nemmeno il violento sole di mezzogiorno sarebbe stato in grado di sciogliere. Un’ombra che le sarebbe gravata sulla testa e sulla schiena fino alla fine della giornata.

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Capitolo 5
*** E non c’è nessun mezzo – Atto III ***


E non c’è nessun mezzo – Atto III

 

 

Valentina soffiò sulle mani rosse e doloranti, foderate di graffi e di piccoli taglietti ancora freschi, e le sollevò per rigirarle sotto la luce del tramonto. Le strofinò su un lembo della gonna per scrostarsi di dosso qualche briciola di cemento e di mattone rimasta incastrata sotto le unghie, ma non trovò alcun sollievo. Il bruciore che le sfrigolava sulla fronte e che le batteva sulle tempie era ancor più intenso e insanabile di quello che le stava corrodendo la pelle. Era un bruciore che profumava, ahimè, di aranci in fiore e di mare al mattino; un bruciore che aveva il sapore dolce e grezzo del miele di castagno; un bruciore che parlava con la voce rauca di un gran pallone gonfiato con il muso da schiaffi e splendidi occhi scuri.

Al solo ricordo, Valentina fece schioccare la lingua fra i denti per reprimere la frustrazione. «Ragazzina?» Strusciò le mani sull’erba già umettata dalla rugiada della sera, per rinfrescare la pelle bruciante, ma nemmeno quello funzionò. Così incrociò le gambe sul prato, senza nemmeno curarsi di non stropicciare la gonna, e strappò un mazzolino di erba e fiorellini, immaginando di eradicare la rabbia dal suo petto in fiamme.

«Ma ti rendi conto?» ringhiò. «Ha dato della ragazzina a me. Come se uno come lui potesse permettersi di dirlo. Io almeno i vent’anni li ho raggiunti…» Sventolò l’indice in direzione di Sara. «Ma scommetto quanto vuoi che lui non ne ha nemmeno diciotto, te lo garantisco.»

Sara non prestò poi molta attenzione a quello sfogo, non si fece nemmeno sfiorare dai fumi della sua rabbia, presa com’era dal lavoro sul suo quadro. Bilanciò il peso sullo sgabello che non faceva altro che traballare, piantato lì sul suolo spugnoso e imbevuto dell’umidità della sera, e spostò una caviglia mal incastrata fra le gambe di metallo. Si sporse da dietro la tela piazzata sul cavalletto e alzò il pennello gocciolante per prendere le misure del paesaggio che si spalancava dalla cima del Monte Portorosso. «Sai, Tina, non per prendere le sue difese…» Intinse il pennello nella tavolozza, rigirandolo in una chiazza di tempera color polpa di arancia, la più adatta a rappresentare le sfumature che il mare assumeva attorno agli scogli sgretolati fra le onde lunghe e basse su cui si specchiavano i brucianti raggi del tramonto. «Ma un po’ è vero che non stavi facendo altro che ciondolare, senza renderti particolarmente di aiuto.» Scelse poi un pennello più piccolo, quello sporcato di tempera nera, e lo picchiettò sul confine del litorale, aggiungendo qualche ombra dove la costa si faceva più alta e spiovente.

Valentina si morsicò il labbro. Un gorgoglio ribollì gonfiandole le guance. «Se io ero quella che stava ciondolando allora lui era quello che stava, be’…» Gettò via il pugno di erba e fiorellini. «Tramando qualcosa di losco, ecco.» Un paio di petali le svolazzarono fra i capelli. «Da’ retta a me, quel tizio nasconde qualcosa. È dal giorno in cui l’ho visto entrare in osteria che ho capito che ha qualcosa di diverso rispetto agli altri stagionali.»

«E cosa intenderesti fare a riguardo?»

«Scoprirò la verità.» Valentina pestò le nocche sul prato. «Scoprirò cosa c’è sotto la misteriosa comparsa dell’individuo chiamato…» Ora che ci penso, non so nemmeno come si chiama. «Sì, insomma, svelerò tutti i segreti che si celano dietro il misterioso straniero e smaschererò la sua vera identità.» Si strofinò la punta del mento e stropicciò le sopracciglia in un’espressione tanto trasognata da risultare ridicola. «Magari è qui per conto di un’altra città, o di un’altra regione, e magari lavora per conto di chi sta progettando di sabotare la ricostruzione di Portorosso dopo…»

«Io invece dico che faresti meglio a concentrarti un po’ di più su te stessa che su di lui.» Sara mescolò il pennello nel bicchiere di acqua color fango, lo asciugò sul panno umido che teneva piegato in grembo, e tornò a intingere le setole nella tavolozza. Lo sguardo fermo e impassibile. «Credevo fosse questo il tuo buon proposito per quest’estate.»

«Lo era» puntualizzò Valentina. «Lo era prima che arrivasse lui.»

Sara sospirò e fece ciondolare il capo in avanti, avvilita e forse anche un filino delusa. Spinse indietro i riccioli che le erano cascati sulle guance, sistemò le gambe incastrate attorno a quelle dello sgabello, facendolo cigolare, e svitò un tubetto di tempera color rosso mattone. «Lo vedi, Tina?» Spremette la tempera sulla tavolozza e la mescolò a una punta di nero, fondendo una tinta che era tetra e ombrosa quanto la sua espressione. «Magari è questo il vero motivo per il quale i ragazzi ti scaricano uno dopo l’altro.»

Valentina raggelò, ingoiando una fitta di dolore come se Sara l’avesse accoltellata alle spalle. «Cos…»

«Non perché tu sia una ragazza troppo espansiva e chiacchierona – cosa che in effetti sei.» Sara aggiunse un tratto di colore alla scogliera che stava ritraendo e volse lo sguardo alla luce del sole che ormai era scesa a fondersi con quella riflessa dalla superficie del mare. I suoi occhi si fecero distanti, spinti ben più in là dell’orizzonte. Inondati dalle sfumature del tramonto, i suoi capelli brillavano come gemme di granato. «Ma perché finisci sempre per considerare unicamente i tuoi sentimenti e il tuo punto di vista. Anche i ragazzi hanno anima e cuore, sai?» Mescolò il pennello nell’acqua e raccolse dell’altra tempera. «Anche loro hanno bisogno di qualcuno che li tratti per lo meno con la decenza di un essere umano. È chiaro che si sentono feriti se realizzano di non essere altro che una conquista.»

«Cosa?» esclamò Valentina, forzando un tono inorridito. «Ma non è vero che io…»

«È quello che fai sempre, invece.» Sara non le diede occasione di interromperla. «Tu tratti i ragazzi come se fossero un traguardo, come se fossero una conquista da ottenere per dimostrare qualcosa a qualcuno.» Tratteggiò le ombre della scogliera che cadeva sulla spiaggia. Scosse il capo. «Nemmeno io azzarderei una relazione più seria e coinvolta con una ragazza che si dimostra tanto frivola e insensibile, lo sai? Se è tutto qui quello che hai da offrire…» Pizzicò il labbro inferiore fra i denti e inspirò dalle narici, amareggiata dalle sue stesse parole. «Forse i ragazzi fanno bene a evitarti.»

Sulle due ragazze calò un gelo tombale, nonostante fossero avvolte dalle luci di quell’epico tramonto estivo che bruciava sulla superficie del mare e che infiammava le colline circondate dal rosa e dall’arancio delle nuvole. Il freddo della sera risalì l’erba del prato, le onde scrosciarono sulla spiaggia poco distante e risucchiarono un lungo ululato di vento. Lo stridere dei gabbiani echeggiò dal litorale scoglioso e si mescolò al ridacchiare di qualche bambino rimasto a giocare in strada e alle voci provenienti dalle case del paese. L’oscurità si addensò davanti al sole calato all’orizzonte, divise le due ragazze come un muro di pietra.

Valentina strizzò i pugni sull’erba tiepida e umida fino a sentir sbriciolare i sassolini sotto le unghie. Quelle parole l’avevano schiaffeggiata come un bicchiere di cubetti di ghiaccio gettato sul viso, “Forse i ragazzi fanno bene a evitarti”, e fecero male come la punta di un arpione rigirata nel cuore.

Alzò lo sguardo sull’Isola del Mare visibile dalla cima del Monte Portorosso. Provò a trarre conforto da quell’immagine che tante volte l’aveva consolata e su cui aveva fantasticato fin da quando aveva memoria, ma riuscì solo a sentirsi vuota e desolata come il mozzicone della torre diroccata che sbucava dal verde del promontorio.

Non che Sara abbia torto, ma…

Ma era comunque doloroso ricevere quello schiaffo morale proprio dalla mano della propria migliore amica.

Sul volto di Sara si distese un’ombra di rammarico, l’espressione pentita di chi avrebbe voluto mangiarsi la lingua e ringoiare quello che aveva appena detto.

Sara si rannicchiò sullo sgabello, sollevando uno scricchiolio acuto che sbriciolò quel silenzio così pesante, e fissò il pennello gocciolante – lacrime di tempera le rigarono le dita –, incapace di riprendere a disegnare. «Mi dispiace.» Raccolse il panno di stoffa e lo sfregò attorno alla punta del pennello appena risciacquato. Non fu ancora capace di sollevare la testa. «Scusa, Tina, non volevo ferirti. So che sono stata un po’ dura di parole, ma cerca anche di capire che…»

«Per caso…» Valentina si riprese dalla botta di dolore, ma non dal saporaccio aspro che le si era depositato in bocca, avvelenandole la lingua come fiele. «Per caso hai parlato a Massimo della cosa di Genova?»

Sara strizzò il panno attorno al pennello. La sua mano fu scossa da un tremito e tornò immobile.

Valentina sfilò un pugno dall’erba del prato, schiuse le dita e mise alla luce un fiorellino stropicciato così simile al suo animo tramortito. «Gli hai già detto che intendi andare a vivere là, di diplomarti all’istituto d’arte, e di farti una vita al di fuori di Portorosso?»

Sara spalancò lo sguardo e ingoiò un singhiozzo di fiato. I suoi occhi si fecero lucidi, proiettati in un altro luogo e su altri pensieri, prede dell’agonia di chi lotta contro i desideri più segreti e proibiti del proprio cuore. Quello sì che era il suo punto debole. Ancor più debole della sua manualità con la ceramica. «Io non…» Sara sospirò e allontanò lo sguardo. Le labbra a sfioro della spalla e i riccioli a caderle sulle guance. «Non gli ho ancora detto niente.» Aggiustò la posa sullo sgabello su cui era appollaiata e asciugò altri pennelli che aveva immerso nel bicchiere d’acqua ormai simile a fanghiglia. «Che senso avrebbe?» borbottò. «Non è ancora stato deciso nulla di concreto. Poi ora ho già accettato quel lavoretto come insegnante sostitutiva. E non è ancora detto che mi ammettano all’accademia.»

Sciocchezze, pensò Valentina. È certo che ti ammetteranno. Nessuno si merita di essere ammesso tanto quanto te. Sarebbero dei pazzi a scaricare un potenziale come il tuo e tu saresti pazza a non accettare. «Però è quello che vorresti» le disse, questa volta senza alcuna nota di ostilità a indurirle la voce. «Se ne avessi l’occasione, tu lasceresti Portorosso anche se Massimo decidesse di non seguirti.»

Sara inspirò forte e affondò le dita tremanti nel panno sporco di tempera e acqua. «Tina…»

«Chi è che pensa solo a se stessa, adesso?» la rimbeccò lei. «Tu non vuoi dire niente a Massimo perché sai bene che per lui lasciare Portorosso non sarebbe facile come lo sarebbe per te. Hai paura di perderlo ma allo stesso tempo non hai il coraggio di ammettere che troncheresti con lui se si dovesse trattare di inseguire i tuoi sogni.» Incrociò le braccia al petto e squadrò la sua amica di sbieco. «E questa per te sarebbe una relazione sincera vissuta sullo stesso piano?»

Scese di nuovo un pesante e cupo silenzio che avvolse entrambe, chiudendole in una fitta atmosfera di malessere che addolorò i loro cuori. Non si guardavano. Ogni respiro, ogni soffio di vento e ogni fruscio dell’erba che attraversava il loro silenzio era una scarica di dolore che rendeva il cielo più buio e il prato più freddo.

Valentina dovette strofinarsi le braccia rabbrividite. Non resse a lungo, divenne triste. E si trattava di una tristezza reale e tangibile, appiccicosa come la pioggia d’autunno, non di un capriccio dei suoi. «Scusa.» Chiamò le ginocchia al petto, rannicchiandosi, e rigirò il fiorellino stropicciato che ancora le penzolava dalle dita. «Ho esagerato. Io non…» Sospirò, senza però riuscire a liberarsi di quel peso che le opprimeva il petto. «Non volevo dirti tutte quelle cose. Sono stata una scema.»

Sara sorrise, e Valentina riuscì a intercettare quel sorriso, la sua aura di nuovo luminosa e rinvigorita, nonostante lo sguardo ancora girato. «Siamo sceme tutte e due a trattarci in questo modo.»

«Già.» Valentina forzò le labbra per ricambiare il sorriso, ma le riuscì solo una smorfia sghemba. «Già, è vero.» Compì un rimbalzo per sedersi più vicina allo sgabello, reclinò il capo e poggiò la tempia sul ginocchio di Sara. «Scusa, Saretta.» I pantaloni di Sara erano ruvidi. Profumavano di tempera, di prato umido e della polvere di malta che aveva annuvolato la piazza durante la ricostruzione della chiesa. «So di essere l’ultima che può permettersi di giudicarti. So quanto tieni al tuo futuro e so anche quanto tieni al tuo rapporto con Massimo. La verità è che…» Rigirò le punte delle dita, punzecchiandosi la pelle attorno alle unghie. Borbottò un flebile mormorio. «È che forse un po’ t’invidio, sai.»

«Invidiare?» E Sara finalmente si girò. Uno sguardo di stupore si materializzò dietro le sfumature rosse brillate dai suoi riccioli. «E che motivo avresti?»

«Be’» le rispose Valentina, «ti invidio per le tue ambizioni, per la tua profondità d’animo.» E soprattutto perché hai delle possibilità ben più concrete delle mie di andartene da qui. Io non saprei nemmeno cosa fare di me stessa se lasciassi il paese. «Io in confronto a te sono così banale e superficiale.»

Sara non sembrò per nulla lusingata da quella confessione. Scosse la testa e il suo sguardo s’intristì. «Non dire così, Tina. Guarda che io non sono per niente come dici tu.» Alzò gli occhi al cielo, poggiò i gomiti sulle ginocchia e intrecciò le dita sotto il mento. Il pennello a dondolare fra due nocche. «Mi do tante arie da donna matura e vissuta, ma anche io ho ancora tanta di quella strada da fare prima di diventare l’adulta che sogno di essere. Ascolta. So che adesso ti senti un po’ insicura, ma è naturale. Sono fasi della crescita, e vedrai che quando saremo più grandi…»

«Non devi giustificarti con me, sul serio» le disse Valentina. «Anche io farei come te, se avessi le tue stesse possibilità.» Guardò l’Isola del Mare che ora non le trasmetteva più quel sospiro di fascino, di mistero e di avventura, come accadeva quando era piccola, quando convinceva papà a portarla fuori in barca per circumnavigare la riva e fantasticare così su tutti gli uomini che l’avevano visitata prima di lei, su tutte le corse a perdifiato che avevano attraversato quel prato, e su tutte le mani che si erano arrampicate sull’albero di cui non riusciva a scorgere la cima. Adesso i suoi occhi riflettevano il profilo spezzato e decadente della torre e la vedevano solo come il rudere che era. «Anche io non ci penserei due volte a scappare da Portorosso alla prima occasione buona.»

Sara spinse verso l’alto un angolo delle labbra, intrigata, e lo sguardo le brillò come quando le balenava in testa un’idea strabiliante delle sue. «E andartene proprio ora che finalmente ti sei imbattuta in un ragazzo che ti sta dando del filo da torcere? Sarebbe un’autentica disgrazia.»

«Co-cosa?» Una vampata di rossore salì a incendiare le guance di Valentina. «M-ma io non…»

«Anche io non ho nessuna intenzione di andarmene» disse Sara, «se rimanere significa essere testimone di un’epica rivoluzione come questa.»

Valentina sollevò la tempia dal suo ginocchio e la scrutò attraverso le ciglia socchiuse. Nemmeno lei riuscì a frenare il formicolio di un sorrisetto. «Ora mi stai di nuovo prendendo in giro, me lo sento.»

«Nient’affatto. Anzi…» Sara fece tamburellare il pennello sul labbro. Il suo sguardo si fece assorto e concentrato. «Forse la tua attenzione nei confronti del misterioso straniero è ben più ricambiata di quello che credi.»

Valentina sbarrò le palpebre e trattenne il fiato, allettata da quella rivelazione. «Come fai a dirlo?» Tutti sapevano che l’intuito di Sara era infallibile.

«Ooh, io su queste cose non mi sbaglio mai, dovresti saperlo.» Sara posò il pennello. Si piegò di lato per raccogliere la sua borsa, ne sbottonò le cinghie. «È il mio occhio interiore a suggerirmelo.» Tirò fuori lo stesso album da disegno su cui aveva lavorato per gli schizzi della chiesa, durante la ricostruzione di quello stesso pomeriggio. «Uno sguardo intenso…» Sfogliò un paio di pagine. «Limpido e aperto come questo…» Girò l’album e mostrò a Valentina una facciata riempita da tanti disegni che ritraevano tutti lo stesso soggetto. «Lo mostra solo quando posa gli occhi su di te.»

Il cuore di Valentina batté un tonfo caldo e appagante che fece cantare il suo animo di gioia, come davanti a un dono inaspettato.

Valentina si incantò – gli occhi come stelle e un coro celestiale a soffiarle nelle orecchie – fissando il mosaico di ritratti del misterioso straniero. L’emozione le accartocciò le parole sulla lingua. «Tu hai…» Salì sulle ginocchia e avvicinò lo sguardo all’album da disegno, non sapendo su quale delle immagini focalizzare l’attenzione – lo straniero seduto sul retro della camionetta, lui con i pugni inguantati avvolti ai manici della carriola, lui piegato a raccogliere il frammento di un mattone, lui con i guanti stretti fra i denti e una mano intenta ad arrotolarsi i cerotti attorno alle dita fiaccate, e poi ancora schizzi di matita sfumata in cui Sara aveva fatto pratica solo sui suoi riccioli, disegnandoli a volte più folti e a volte solo con pochi tratti incisi. Alla fine Valentina si scoprì particolarmente attratta dal ritratto in cui il misterioso straniero era in piedi, di profilo, lievemente ingobbito, intento a strofinarsi un polso sulla guancia. La magrezza delle scapole a sporgere dalle pieghe della camicia. La mano a coprirgli la linea della bocca e gli occhi scuri, socchiusi ma brillanti come scaglie di onice, rivolti a un punto indefinito dietro le sue spalle. «Gli hai fatto tutti questi disegni?» Per di più mentre stava già lavorando ai ritratti della chiesa.

Sara si spolverò la spallina della maglietta. Sulle sue guance comparve una familiare sfumatura di orgoglio. «E come potevo lasciarmi sfuggire un simile soggetto? Non capita di certo tutti i giorni. Anche se…» Pure lei si mise a rimuginare sui ritratti fioriti dalla sua stessa mano. Si massaggiò il mento lasciando la pelle sporca di tempera rossa. «Anche se proprio non riesco a capire cosa tu ci trovi di così intrigante.»

Valentina le fece una piccola linguaccia. «Oh, be’, scusa se non a tutti piacciono gli energumeni come a te.»

«Guarda che a me Massimo mica piace perché è un energumeno.» Sara bacchettò l’indice su Valentina facendolo rimbalzare sulla punta del suo naso. «Lui mi piace perché è dolce, e sensibile, sempre attento a non ferirti, e anche perché è buono con le persone e gentile con gli animali, e poi perché, anche se non parla molto, ha sempre qualcosa di intelligente da dire, e…»

«Va bene, va bene» le sorrise Valentina. «Già lo avevamo capito che è l’uomo della tua vita. Però questo…» Tornò ad approcciarsi ai disegni, senza però toccare la pagina, come per timore di sbiadirli e di far scemare l’incantesimo come era successo poco prima, quando aveva sciupato il fiorellino che aveva rigirato troppo fra le dita. «Questo è davvero meraviglioso.» Gli occhi così lucidi e vivi da sembrare in procinto di battere le ciglia. Le sfumature che il sole proiettava sulla sua pelle erano palpabili, emanavano lo stesso profumo di mare e spezie e agrumi di cui erano pregni i suoi abiti da lavoro. I riccioli cadevano in disordine sulla fronte e ti facevano venire voglia di affondare le mani fra quelle ciocche e di attraversarle con mille carezze, assaporandone la squisita morbidezza. «Voglio dire, è proprio lui, è identico.» Giunse le mani in preghiera. «Posso tenere il foglio

«Neanche per idea.» Sara le sfilò i ritratti da sotto il naso. «Ho intenzione di lavorarci su e di ritoccarlo.» Ignorando il piagnucolio di Valentina, richiuse l’album e lo rimise al sicuro nel tascapane, battendo un’affettuosa carezza sulla borsa. «Ultimamente sto lavorando solo sui paesaggi e sulle nature morte. Ho bisogno di riprendere un po’ la mano anche con la ritrattistica.»

Valentina ammiccò con le sopracciglia. «Per assicurarti un posto d’onore all’accademia d’arte di Genova?»

«Oh, chiudi la bocca.» Sara pescò il pennello dal bicchiere e le schizzò dell’acqua sporca di tempera.

Valentina rise e si riparò. Come contrattacco le lanciò un mazzolino di fiori che si sparpagliò all’aria, facendo piovere qualche petalo sul rosso dei capelli di Sara. Giocarono come le bambine che non avevano ancora smesso di essere.

«Sorridi, Tina.» Sara sbuffò il naso di Valentina con un goccio di tempera arancione, lo stesso colore del mare al tramonto. «Un cuore libero come il tuo non è di certo fatto per piangersi addosso.»

Valentina cercò di non avvilirsi e si ripulì dalla tempera che le lasciò la mano sbavata. «Non mi piangerò mai addosso per un ragazzo, lo giuro.» Sì, come no. «Lo farò soltanto quando sarai tu ad andartene e a lasciarmi qui sola-soletta, infrangendo la nostra promessa.»

«Promessa?»

«Ma sì, quella che ci siamo fatte da piccole.» Valentina chiuse gli occhi, e fu facile immaginarsi la scena. «Ci eravamo promesse che avremmo cresciuto i nostri figli come fratelli, e che loro avrebbero giocato assieme per le strade di Portorosso, si sarebbero rincorsi con le bici, e avrebbero trascorso i pomeriggi saltando sugli scogli giù alla spiaggia, e che noi saremmo diventate matte per tenere a bada i loro guai

Sara sospirò e sorrise a sua volta, contagiata dall’allegria della stessa visione. «Succederà lo stesso, vedrai. Anche se abiteremo in città diverse, questo non significa che abbandoneremo completamente Portorosso.» Piegò i gomiti sulle ginocchia, raccolse le guance fra i pugni, e anche lei volse lo sguardo all’orizzonte, a un futuro che non sembrava più così distante e irraggiungibile. «Magari ci rincontreremo ogni estate, e allora potremo fare finta di essere ancora giovani e spensierate. Sarebbe un buon compromesso, no?»

«Un sogno, più che un compromesso.» Valentina si abbandonò scivolando con la schiena lungo il prato – i capelli sparpagliati attorno alle spalle, la collanina a caderle sulla spalla –, e spalancò le braccia sull’erba umida. «Un sogno a occhi aperti.»

Una coppia di gabbiani sbucò da dietro la zigrinatura di una nuvola, volò in cerchio, e scese di quota per dirigersi verso il centro del paese. Il cielo si svuotò, somigliando proprio a una tela spennellata da Sara. Le rade nuvole coprivano le prime stelle del vespro già sbucate in cima alla volta celeste, lì dove il rosso sfumava e diventava denso e violaceo come un poltiglioso strato di tempera fresca.

Valentina giochicchiò con la collanina, raccolse la chiave fra i denti e la rosicchiò per sfogare quello strano formicolio che le bruciava in fondo alla pancia.

Riempiendosi la vista con le sfumature striate dal cielo scarlatto, lasciandosi abbagliare dalle crepe di luce che facevano somigliare le nuvole a braci, fu facile tornare a immaginare il misterioso straniero – lui che era ombroso, silenzioso e portatore di misteri come quel tramonto.

E non conosco nemmeno il suo nome.

E non le era nemmeno venuto in mente di chiederglielo, o di andare a presentarsi, a tendergli la mano per dargli il benvenuto a Portorosso. Sara aveva ragione: come al solito, aveva pensato solamente a se stessa e considerato unicamente i suoi sentimenti.

Che sia già troppo tardi per rimediare? E se lui mi detestasse?

Con un sospiro, strinse le mani sull’erba umida e affondò le unghie nei grani di terriccio molle.

Allora sarebbe inutile, se mi avesse già presa in antipatia.

Eppure, compiendo quel gesto, aggrappandosi alla nuda terra da cui evaporava il profumo tiepido di polline e di rugiada, Valentina sentì un impulso di intraprendenza e di coraggio trasmetterle la forza necessaria per non mollare la presa, per continuare a rincorrere quella scia di desiderio, alla ricerca di qualcosa in più. Lei che non sprecava neanche un briciolo di fatica, se non aveva qualcosa da guadagnarci…

Era a questo che Valentina pensava mentre il sole continuava a calare sempre più rapidamente lasciandosi inghiottire dalla nera linea del mare. Le ombre del tramonto scurirono le nuvole, scesero ad avvolgere la costa di Portorosso, accesero di giallo le finestrelle delle case, ed evocarono il traballare delle lanterne che punteggiavano il largo su cui erano distribuite le barche salpate per la pesca notturna.

A Valentina vennero i brividi. Batté i denti, rattrappì i piedi nudi sull’erba e strofinò le unghie sulla pelle d’oca delle braccia, sentendosi gelare fin nelle ossa.

Quella visione le trasmise un’immagine spaventosa. L’immagine di lei che rimaneva prigioniera di quel paese come una conchiglia rimane prigioniera degli scogli foderati di alghe vecchie e limacciose. Valentina non avrebbe mai lasciato Portorosso e non avrebbe mai potuto assaporare il pieno respiro della libertà, il vento sferzato sulla faccia, la possibilità di sfilarsi i sandali e di correre attraverso prati selvaggi, di nuotare in mari sconosciuti, di affacciarsi a un cielo nuovo, gremito di stelle cadenti e di astri simili a biglie multicolore.

Sempre la stessa vita, sempre le stesse giornate che si sarebbero susseguite una dopo l’altra, identiche come grani di sabbia che precipitano sul fondo di una clessidra.

Lo stesso sole che sarebbe tramontato sempre nello stesso punto del mare e che sarebbe albeggiato come un occhio onnipotente che non invecchia mai, quasi a farsi beffa di lei. La stessa Portorosso; le stesse casette color pastello ammassate come ciottoli; le stesse chiacchiere da bar; gli stessi profumi galleggiati attraverso le strade popolate da generazioni su generazioni di gattini randagi; gli stessi panni appesi alle stesse terrazze; le stesse colline e gli stessi viticoli; lo stesso vino che sarebbe stato spremuto negli stessi mastelli e le stesse conserve che avrebbero imbarattolato e custodito nelle stesse cantine impregnate dallo stesso umido odore di tufo. Lo stesso mare e le stesse barche; gli stessi pesci intrappolati nelle stesse reti; e sempre un solo futuro all’orizzonte.

Un futuro nel quale Valentina non avrebbe mai scoperto cosa si celasse dietro il verdeggiare dei colli che circondavano il paese. Non avrebbe mai scoperto che colore avessero gli altri mari e le altre spiagge. Non avrebbe mai saputo se ci fossero luoghi in cui il gelato avesse un sapore più dolce, se la musica cantasse una melodia più soave, se l’erba e gli alberi in fiore spargessero un profumo più muschiato.

Tutta la sua vita fossilizzata lì, come quella dei suoi genitori, come quella dei suoi nonni, come quella dei suoi bisnonni e di tutti gli altri avi prima di loro.

Davvero non poteva desiderare qualcosa di diverso?

 

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Capitolo 6
*** L’è permesso – Atto I ***


L’è permesso – Atto I

 

 

Valentina sventolò una mano davanti allo sbadiglio da leone che le stropicciò le guance e annacquò le palpebre ancora appesantite dalla patina di sonno che nemmeno le tre gelide sciacquate alla faccia erano state in grado di dissolvere. Si aggrappò al corrimano e scese i primi gradini barcollando attraverso la bianca nebbiolina che le appannava lo sguardo e ovattava le orecchie. Si grattò la gonna, la prima che aveva trovato e afferrato dopo essersi trascinata giù dal letto, e già rimpianse la lunga dormita della domenica che si era protratta fino a mezzogiorno. Se non fosse rimasta abbagliata dal sole filtrato dalle tapparelle che la sera prima si era dimenticata di abbassare fino in fondo, forse si sarebbe concessa ancora un’oretta di pigrizia prima di decidersi a sgusciare fuori dalle lenzuola.

Scese ancora le scale, tentennò davanti allo specchio appeso fra le vecchie fotografie dei nonni, e buttò uno sguardo distratto alla sua immagine riflessa.

Storse una smorfia che le scurì la fronte e le raggrinzì le occhiaie. Diede una raddrizzata al nastrino annodato ai capelli ancora scompigliati, pettinò le ciocche più ribelli che sfuggivano al suo controllo e, dopo svariati tentativi e dopo qualche doloroso strattone con cui aveva lisciato i nodi più cespugliosi, ci rinunciò perché era domenica, e di domenica sforzi simili erano vietati dalla legge. La sua legge.

Giunta al piano di sotto, la accolse il buon profumino tiepido diffuso dalla luce della cucina. Profumo di crostata alla ciliegia, di noce moscata e di patate al burro.

Valentina chiuse gli occhi e lasciò che sulle sue labbra sbocciasse un sorrisetto ancora un po’ languido e assonnato. Si alzò sulle punte dei piedi e galleggiò verso la cucina come una sonnambula, attirata dalla dolce scia di profumo, dal gorgogliare dell’acqua nella pentola, dal ticchettio del forno acceso, dal ciabattare della mamma che sicuramente si stava spostando da un fornello all’altro, e dallo sciacquo occasionale delle posate ficcate sotto il getto del lavello.

In sottofondo, il brusio di qualcuno che parlava. «… la perturbazione che si sta spostando verso nord-est e che interesserà le zone di pianura, mentre sulla costa rimane una nuvolosità variabile che ci accompagnerà…» La voce estranea e frusciante della radio accesa.

Raggiunta la soglia della cucina, Valentina si riparò dalla forte luce del sole che picchiava sulla finestra aperta. Sbatacchiò le palpebre per respingere il vapore colloso e pizzicante che proveniva dalla padella messa a bollire, e mise a fuoco l’immagine della mamma girata di schiena, china sui piatti da asciugare che stava impilando affianco al vassoio della crostata messa a raffreddare sul davanzale. Sul fornello gorgogliava la pentola dell’acqua, e qualche filo di fumo fuoriusciva dal coperchio traballante. La lucina del forno circondava il branzino messo a cuocere nella teglia di patate al rosmarino. Il tagliere di legno infarinato occupava metà del tavolo, e su di esso riposava un esercito di ravioli appena impastati, gonfi del ripieno di ricotta e spinaci di cui si scorgeva qualche avanzo nella scodella circondata dalle posate sporche.

Valentina si leccò le labbra e si massaggiò lo stomaco brontolante e scandalosamente vuoto.

In sottofondo proseguiva il blaterare sabbioso della radio che nel frattempo, dalle previsioni, era passata a trasmettere Botta e Risposta. «… il re dei Longobardi diede in sposa sua figlia al re franco Carlo Magno. Per cinquemila lire, chi era la…»

Pia rimase girata di schiena, diede una strofinata all’ultimo piatto lavato, si piegò a sbirciare la luce del forno, scosse la testa, e aprì la credenza frugando fra i barattoli di spezie. Non si era accorta dei passi di Valentina che avevano attraversato il corridoio, né della sua presenza che si era mantenuta in penombra sulla soglia della cucina. Non che Valentina nutrisse tutta questa gran voglia di farsi scoprire. Difatti, stava già meditando di uscire dal retro, di raggiungere papà che sicuramente era rintanato in officina, e di convincerlo ad assecondare una piccola bugia per far credere a Pia che Valentina si fosse alzata ben prima di mezzogiorno e che fosse rimasta tutta la mattina in garage a lavorare con lui, saltando pure la colazione. Sì, piano perfetto!

Ma prima…

Valentina si alzò in punta di piedi, sperando che il rumore della radio – «… Amedeo Sesto. Per la soglia successiva, come venne soprannominato Amedeo Sesto di Savoia, monarca di…» – coprisse lo scricchiolio delle sue caviglie. Si immerse nella tiepida luce della cucina, zampettò fino al tavolo, allungò un braccio sopra il tagliere infarinato, sfiorò un raviolo, uno bello gonfio, e già lo sentì scivolare fra le labbra, squagliarsi sul palato sprigionando la dolcezza del ripieno alla ricotta, appagare il gorgoglio dello stomaco e…

«Non ci provare nemmeno, signorina.»

Valentina ritirò il braccio e gemette, come pizzicata da una scossa. Acc…

Beccata.

Strinse le mani dietro la schiena e fece tremolare sulle labbra un sorrisetto da finta tonta. «’giorno, mamma.»

Pia richiuse lo sportello del forno, mise il tappo al vasetto di origano, e abbassò il volume della radio fino a renderla un fruscio impercettibile. Brutto segno. Era davvero incavolata. «Buon pomeriggio, semmai.» Si girò e, attraverso le occhiaie di stanchezza e qualche filo di capelli sfuggito al cerchietto, sfoderò la sua più nera e annichilente espressione da mamma indiavolata. «Ti sembra questa l’ora di alzarsi?» Quel suo tono così gelido riuscì persino ad annuvolare la luce del sole e a zittire gli uccellini che fischiettavano fuori dalla finestra. «Ancora cinque minuti e sarei venuta a svegliarti rovesciandoti un secchio d’acqua in faccia.»

Valentina alzò gli occhi al cielo, allungò uno sbuffo. «Ooh, ma dai, mammaaa.» Si sistemò il nastrino scivolato sul naso, come se ormai avesse importanza concedersi un minimo di decenza. «Tanto è domenica. A chi importa se di domenica dormo fino a tardi?»

«Non è comunque una buona scusa per poltrire fino a mezzogiorno.» Pia sollevò il coperchio della pentola, sventolò il vapore dell’acqua ribollente, e abbassò la fiamma. «E pensare che io e tuo padre siamo svegli dalle cinque.»

«Ma io sono giovane, ma’.» Priva del minimo senso di colpa, Valentina pescò un cucchiaino dal portaposate e fece per spiluccare dalla terrina che conteneva il ripieno avanzato dei ravioli. «Ho tutta la vita davanti per svegliarmi alle cinque e mettermi a sgobbare anche nei giorni di festa.»

L’occhio di Pia intercettò il gesto di Valentina, la scintilla del cucchiaio allungato verso il ripieno. Pia sfilò il mestolo dal grembiule e le steccò una legnata sulle nocche. «Giù le zampe.»

«Ahu!» Valentina fece cadere il cucchiaio e si strofinò la mano, risucchiando una lacrimuccia di dolore. «Che male!» frignò. «Non posso neanche un assaggio?»

«Se volevi un assaggio allora ti saresti anche potuta alzare prima per aiutarmi a preparare il pranzo.» Pia sbuffò e rinfilò il mestolo sotto il fiocco del grembiule. «Che ormai per te varrà come colazione.»

Valentina soffiò sulla mano dolorante, spalmò un altro massaggio sulle nocche arrossate, ma riuscì comunque a raccogliere la forza di sollevare un sorrisetto da ruffiana. «Ma tu cucini mille volte meglio di me, mammina.» Si piegò ad annusare il buon profumino del pesce alle erbe che stava cuocendo in forno, nel suo bel letto di croccanti patate al burro. «Perché rovinare il pranzo della domenica con le schifezze che preparo io, mentre tu sei così brava da cucinare tutto questo ben di Dio anche da sola?»

Pia strinse i denti, rabbrividì fino alle punte dei capelli nello sforzo di mantenere integra quella sua maschera d’ira, poi però un lieve rossore salì a spolverarle le guance, le rughe della fronte si distesero e i tremori di impazienza le scivolarono addosso come una pioggerellina tiepida, massaggiando ogni fibra del suo corpo. Fu fin troppo facile. Valentina non si sarebbe meritata tutta quella comprensione. «Tu mi farai diventare matta.» Pia avvolse la pellicola attorno alla terrina e sistemò il ripieno avanzato in frigorifero. Prima di richiudere l’anta, tirò fuori il burro incartato. «Piuttosto, fra cinque minuti butto i ravioli in pentola.» Posò sui fornelli una pentola bassa e dal manico lungo. Snocciolò un pezzetto di burro dall’incarto e lo gettò sulla piastra calda, facendolo sfrigolare. «Va’ a chiamare papà, digli che si dia una lavata alle mani e che venga a tavola.»

«È fuori in officina?»

«E dove vuoi che sia?» le rispose Pia. «È dall’alba che lavora. Ah, e ha anche detto che aveva qualcosa di nuovo da mostrarti.» Alzò la padella dal fuoco e fece oscillare le bollicine che scoppiettavano sul burro sciolto, per evitare di bruciarlo. «Sperava, lui, che tu ti alzassi prima…»

«Qualcosa da mostrarmi?» Valentina batté le mani e si elettrizzò, fulminata da una scarica di gioia che fece risplendere i suoi occhi come smeraldi. «Uuh, e che cosa? Una moto nuova?» Magari ha finalmente aggiustato la pompa di benzina della Augusta e ora ha deciso che possiamo tenercela noi invece che mandarla a rottamare. Ooh, sarebbe il massimo!

«Non lo so cos’è» le disse Pia. «Così impari a svegliarti prima.» Mollò la padella sul fuoco, strofinò le mani sul grembiule e tirò dentro la crostata messa a raffreddare sul davanzale. «Va’ da lui e fattelo mostrare.»

Valentina schizzò verso la porta. «Volo!» Ci ripensò. Frenò la corsa, slanciò all’indietro il piede che non aveva nemmeno poggiato a terra, arraffò un paio di ravioli crudi dal tagliere, se li ficcò in bocca e scappò dalla cucina.

Lo sbraito di Pia fece tremare le pareti di casa. «Valentina!»

Valentina trillò una ridacchiata da furfante – le mani schiacciate sulle labbra e le guance gonfie di pasta – e si volatilizzò imboccando il corridoio che dava sul retro. «Buoni i ravioli, mamma!» Uscì di casa e finì di smangiucchiare la sua colazione. Mmm, ravioli. Si leccò le labbra, chiuse gli occhi soffiando un gemito di goduria, e si lasciò circondare da una spirale di estasi che la sollevò fino a un banco di nuvolette rosa in cui i suoi piedi nudi saltellavano attraverso un fresco tappeto di fiorellini soffici come batuffoli di cotone. Buoni i ravioli. Anche così crudi erano deliziosi, soprattutto perché la mamma aveva spolverato della noce moscata nell’impasto di ricotta e spinaci, come faceva la nonna.

Al profumo dolce e tiepido della cucina si accavallò quello ferroso e pungente proveniente dal garage che, una volta girato l’angolo, l’avrebbe accolta nella sua bolla di frescura.

Succhiandosi le punte delle dita, Valentina pensò che la domenica non sarebbe potuta iniziare in modo migliore, sgridata a parte. La lunga dormita, il risveglio addolcito dal sapore dei ravioli freschi, la sorpresa che la stava aspettando in officina, e la prospettiva di starsene con papà tutto il pomeriggio, lavorando sull’Augusta che avevano in custodia dal lunedì precedente. Il proprietario voleva rottamarla, ma lei ed Eros si erano giurati di riuscire a ripararla, e Valentina sperava che poi l’avrebbero tenuta.

Eh sì: non c’è niente che possa rovinare una giornata tanto perfetta!

«… ma mi hanno comunque chiesto di dirti che hanno bisogno di qualcosa in grado di tenere su almeno un paio di quintali, anche a costo di impiegare più giri per trasportare tutto.»

Valentina precipitò dalla nuvoletta rosa, ruzzolò giù dal soffice tappeto di fiorellini e tornò a battere i piedi sul suolo duro del retrobottega. Arrestò il passo. Assieme al familiare odore dell’officina, l’aveva raggiunta il suono di una voce che fece scattare in lei la medesima reazione, lo stesso singhiozzo al cuore, la stessa piccola scossa che le pizzicò il petto e che scese ad annidarsi in fondo allo stomaco.

Questa voce…

Non apparteneva a Eros, e nemmeno a un abitante di Portorosso. Eppure la conosceva. Ed era una voce che le soffiò sulle guance il respiro di un caldo e speziato vento del Sud, il profumo di aranci, di mare mosso e burrascoso, e di abiti sudati.

«Il problema è che solo due di noi sanno come guidarle, quindi anche ad averne di più non ne ricaveremmo niente.» La sagoma a cui apparteneva la voce si mosse, fece scivolare la sua ombra lungo la parete, e si accostò a una delle camionette. La mano ruvida e incerottata strusciò sulle incrostazioni di ruggine che smangiucchiavano la vernice del cofano. «E non so nemmeno se ci sarebbe abbastanza spazio di manovra. Abbiamo provato con i trattori, ma non se n’è fatto nulla

«Chiaro, chiaro» gli rispose Eros. «Non è mai facile spostarsi qui in paese con mezzi del genere.» Anche i suoi passi si mossero. Entrò nel campo visivo di Valentina e andò a ticchettare la punta dello stivale su una gomma anteriore della camionetta. «Le stradine sono molto strette, piene di curve e di pendenze, per questo anche io non posso permettermi di tenere troppi mezzi così. Nemmeno me li chiedono, se è per questo.»

Per la prima volta nella sua vita, Valentina esitò a valicare la soglia dell’officina, e per la prima volta la sua attenzione venne rapita da qualcosa che non fossero le motociclette appoggiate alla parete, o il cofano scoperchiato dell’Alfa a cui avrebbero dovuto cambiare l’olio, o il tavolo da lavoro occupato dalla pompa di benzina che lei ed Eros avevano smontato dall’Augusta.

Alla vista del misterioso straniero, Valentina sentì propagarsi un lieve formicolio di nervosismo che le pizzicò le orecchie e che le accese le guance di rosso. Una sensazione che scoperchiò il ricordo del brutto confronto che loro due avevano avuto il giorno prima, quel loro scambio di sguardi duri che poi l’aveva spinta a sfogarsi con Sara, a spennacchiare l’erba del prato, e a rosicchiare la collanina fino a farsi venire il mal di denti.

Tempo un sospiro e il bruciore si affievolì. La fiamma si acquietò e lasciò spazio a una dolce sorpresa inaspettata, simile al respirare il profumo tiepido e zuccheroso della crostata di ciliegie dopo essersi appena svegliati.

Ma cos’è venuto a fare in officina?

Valentina si appiattì contro la parete su cui erano appese le chiavi a croce. Tese l’orecchio verso il centro del garage e sporse di poco lo sguardo, quel che bastava per vedere Eros strofinarsi il mento sbarbato e squadrare con scetticismo la camionetta affiancata da lui e dal misterioso straniero. «Posso anche far venire qui un paio di uomini in grado di guidarle» disse Eros. «Ma su questa qui devo prima metterci le mani sopra. Ha avuto dei problemi con il servosterzo, e potrebbe essere pericoloso impiegarla in un lavoro così pesante. Con i carichi giù al porto invece siete a posto?»

Il misterioso straniero strinse le spalle. «Non saprei dirti, non è la mia zona.» Sfilò una mano dalla tasca e diede una strofinata ai riccioli calcati sotto il basco che gli cadeva sempre troppo largo e un po’ storto, tenendogli lo sguardo in ombra. «Per ora io lavoro solo con le squadre che si occupano della chiesa e delle facciate degli altri edifici della piazza

«Eh, ma sarà un lavoro lungo» sospirò Eros. «E ci vorrà ben più di un’estate per riparare tutto, credi a me. E so che tutti sperano di finire entro settembre, ma…» Allargò le braccia e le lasciò ricadere. Un gesto di rassegnazione. «Bah. Io ho i miei dubbi.»

Per la prima volta, a Valentina parve di intravedere l’ombra di un sorriso sbocciare sulle labbra del misterioso straniero, donando così un riflesso di luce ai suoi occhi di solito bui e sfuggevoli. «Da qualche parte dovremo pur cominciare.»

«Sagge parole» annuì Eros. «Ma vieni, vieni di qua.» Lo chiamò con la mano e gli fece strada verso il retro dell’officina. «Così intanto vediamo assieme cosa possiamo fare per sistemare la trazione della camionetta. Se trovo il pezzo di ricambio giusto allora posso anche farvela avere entro questa settimana.»

Punta da un sobbalzo di paura, Valentina realizzò che stavano venendo verso di lei – Oh, no! – e che quindi avrebbero pensato che lei fosse rimasta lì a origliare per tutto il tempo, invece che palesarsi.

Valentina arretrò, volse l’occhio all’entrata di casa dietro cui rifugiarsi, allungò un primo passo e sbatté il ginocchio sul bancone da lavoro. La cassetta degli attrezzi vibrò per il contraccolpo, cadde sul fianco, fece esplodere una cascata di alesatori che rotolò fino all’angolo del tavolo. Valentina grugnì un gemito e spalancò le mani per acchiapparli al volo. Gli alesatori le sfiorarono le dita e franarono sul pavimento, intonando una pioggia di tintinnii che si sparse gradualmente, grandinando fra le gambe del tavolo, contro la parete, e dietro le ruote delle moto messe in fila.

«Chi è lì?» Eros si sporse – uno scricchiolio delle sue suole –, e la sua voce si accostò al retrobottega. «Pia? Sei tu?»

Valentina – le braccia ancora tese e le mani spalancate sul vuoto – fece ciondolare il capo in avanti e si arrese con un sospiro. Spinse all’indietro i capelli spettinati, stropicciò fra le dita un lembo della gonna, e sgattaiolò fuori dall’ombra urtando uno degli alesatori che le rotolò in mezzo ai piedi. «Sono io, pa’.»

Eros alzò un sopracciglio. «Tina.» Attraverso la sua voce sfumò una velata nota di rimprovero, anche se non dura come quella che Valentina si era sentita rivolgere da Pia. «Alla buon’ora. Finalmente ti sei alzata.»

Valentina si morsicò la lingua, strizzò la gonna sotto le unghie e buttò lo sguardo ai suoi piedi. Andò a fuoco per l’imbarazzo nel sentirsi esposta in quel modo davanti al misterioso straniero. Non voleva che lui pensasse a lei come a una ragazza pigra e svogliata.

Anche se in realtà è proprio quello che sono. «Ehm, la mamma…» Valentina indicò l’ingresso sul retro ma si astenne dall’alzare gli occhi da terra. Li tenne ben distanti da quelli del misterioso straniero che sentiva bruciare su di lei come fa il sole di luglio sulla pelle sudata. «La mamma mi ha mandata a chiamarti. Dice che è pronto il pranzo e che fra poco butta i ravioli in acqua.»

«Come?» fece Eros. «È già ora di pranzo?» Sollevò la manica della camicia sporca di olio e rigirò l’orologio da polso. «Accidenti, non mi ero nemmeno accorto che era già mezzogiorno. Si sente che la chiesa è franata. Aah, non vedo proprio l’ora che tornino a suonare le campane.»

«Mi dispiace, Eros» si scusò il misterioso straniero. «Colpa mia che ti ho fatto tardare.» Si girò, i piedi già rivolti all’uscita soleggiata dell’officina, e lo salutò con un rapido cenno della mano. «Grazie comunque per l’aiuto. Ti lascio andare a mangiare.»

«Aspetta, aspetta, Bruno» lo bloccò Eros. «Tu alloggi al Gabbiano, no?»

Quel suono scaricò un’improvvisa scossetta alle orecchie di Valentina.

Bruno?

Una profonda sensazione di calore le formicolò attraverso lo stomaco, risalì il petto e accelerò i battiti del cuore. La stessa sensazione che aveva provato la prima volta in cui aveva incrociato i suoi occhi scuri, la sua espressione malinconica.

È così che si chiama, allora.

Valentina visse quella piccola scoperta come una vera conquista, sotto la stessa luce trionfante.

Almeno adesso posso smettere di riferirmi a lui come “Il misterioso straniero”.

«Perché non pranzi con noi?» gli domandò Eros, invogliandolo con un sorriso. «Mia moglie prepara dei ravioli favolosi, sentirai che delizia. Molto meglio dei pranzi stracotti dell’osteria.»

Bruno scosse la testa. «Grazie, Eros, ma non penso sia il caso di crearti altro disturbo.» Si sfilò il basco e piegò una piccola riverenza di capo. «Ti auguro buona domenica.» Volse lo sguardo a Valentina. Uno sguardo ancora un po’ distaccato ma sicuramente più mite rispetto alle occhiate sbieche e ombrose che loro due si erano scambiati nei giorni precedenti. «Ci vediamo domani.»

Tina sussultò davanti a quel breve contatto. Le venne da chiedersi se quel saluto e quelle parole fossero rivolti proprio a lei.

Eros ricambiò il gesto di Bruno abbassando la punta del berretto sulla fronte. «Buona domenica anche a te.» Socchiuse le palpebre e inviò un piccolo cipiglio di rimprovero nei confronti di Valentina. «Tina, che fine hanno fatto le buone maniere? Sii educata, saluta.»

«Oh.» Valentina raccolse la collanina e si mise a giochicchiare con il ciondolo. «C…» Gettò di nuovo lo sguardo ai suoi piedi, strofinò il sandalo sulla caviglia, e fece ciao con la mano. «Ciao.»

Bruno chinò il capo come aveva fatto per salutare Eros. Si rinfilò il basco e uscì dal garage, silenzioso e discreto come un’ombra.

Dopo averlo perso di vista, Valentina scavò nel brusio che aveva preso a ronzarle attorno alla testa, recuperò le parole che si era scambiata con Bruno, mise a fuoco le ombre e le luci degli sguardi del giovane. Ma come? si chiese, non potendo proprio ignorare un brivido di irritazione. Prima fa tutto lo schivo e lo scorbutico, e adesso invece è affabile come un coniglietto? Mi sta prendendo in giro o cosa? Grattò le unghie sulla collanina e si rosicchiò il labbro. Il brivido sfumò in un bruciante sentimento di imbarazzo, lo stesso che prima l’aveva spinta a gettare gli occhi al pavimento. O forse sono solo io che mi sto complicando le cose da sola.

«Aah, che faticaccia.» Eros si passò sulla fronte il panno che usava per pulire le catene, sbavandosi le rughe di nero. «Ho perso tutta la mattina dietro alla Augusta, sai la Centosettantacinque di cui vedevamo l’altro giorno, quella che fa tutto quel fumo a ogni accensione.» Tornò a calzare il berretto. «Non ha ancora smesso, quel catorcio. Ma dopo mi dai una mano, così vedi anche tu. Ora ho solo voglia di andare a mangiare.» Si avviò verso l’entrata sul retro. «La mamma ha preparato i ravioli? Quelli al radicchio?»

Valentina alzò un sopracciglio, «N-no», senza ancora essere riuscita a staccare gli occhi dall’angolo dell’officina che Bruno aveva svoltato prima di sparire. «Ricotta e spinaci.»

«Meraviglia.» Un sorriso d’estasi fece scoppiettare uno sciame di cuoricini attorno alle guance di Eros. «Ma avrai fame anche tu. Hai pur sempre saltato la colazione e – Tina?» Eros fermò il passo e le cercò lo sguardo. «Tina, mi stai ascoltando?»

Valentina scrollò la testa. «Oh.» Soffiò via la nuvoletta che le aveva sommerso i pensieri e appannato la vista. «S-sì.» Si grattò la tempia, piegò il capo di lato. «Scusa, pa’, io…»

«Sei ancora addormentata o sbaglio?»

«No» squittì Valentina. «È solo…»

«Aah, voi giovani…» Eros le passò un’affettuosa strofinata sulla nuca. «Magari i tuoi nonni mi avessero permesso di dormire fino a mezzogiorno.»

Guidati dal delizioso profumino di burro rosolato e del pesce al forno che proveniva dalla finestra aperta della cucina, si diressero entrambi verso l’entrata di casa, ma per una volta i pensieri di Valentina non riuscirono a concentrarsi sul pranzo della domenica.

Bruno…

Se non altro adesso sapeva quale nome strillare al vento o masticare a denti stretti quando avrebbe avuto bisogno di imprecare contro il misterioso straniero.

«Ah. Che sbadato che sono.» Eros si tastò la cinta, raccolse i panni unti di olio e si guardò alle spalle. «Mi stavo portando dietro gli stracci sporchi. Se li porto in casa poi la mamma mi tira le orecchie. Aspetta.» Fece per rientrare in officina. «Vado a portarli in terrazza ad asciugare e poi arrivo.»

Il fulmine di un’idea schioccò attraverso i pensieri di Valentina, accendendole lo sguardo. «No, aspetta» esclamò lei. «Aspetta, pa’, faccio…» Sovrappose la mano a quella di Eros e raccolse i panni umidicci di sporco. «Faccio io. Li porto io ad asciugare in terrazza. Tu…» Lanciò un’occhiata all’interno dell’officina e poi di nuovo alla finestra della cucina. «Tu vai pure dentro.» Sollevò gli angoli delle labbra nel sorriso più roseo e accattivante. «Hai lavorato tutta la mattina, starai morendo dalla voglia di metterti seduto.»

Eros socchiuse le palpebre e corrugò un sopracciglio. Anche lui buttò l’occhio verso l’officina ma, nonostante l’espressione di scetticismo ricamata dalle rughe del viso, non ebbe nulla da sospettare riguardo il comportamento di Valentina. Scosse le spalle e la precedette in casa. «Ti aspettiamo a tavola.»

Valentina riattraversò l’officina, il fresco trattenuto dalle pareti di calcestruzzo, il suo pungente odore di ferro e benzina. Uscì dalla porta imboccata anche da Bruno e si ritrovò in terrazza.

Appena messo piede sul portico, la abbagliò una bianca e violenta lama di sole. Valentina alzò la mano davanti agli occhi, tentennò, urtò una delle colonne portanti della terrazza, e si graffiò con un chiodo sporgente. «Ahu.» Lasciò cadere gli stracci sporchi e si aggrappò al braccio pungolato. Grugnì di frustrazione e si massaggiò il graffio sotto la spallina della camicetta. Per lo meno non sanguinava. «Stupido chiodo del…»

Pepe sfrecciò fuori dalla sua cuccia sollevando un gran polverone che Valentina intercettò con la coda dell’occhio. Sbatté le zampe anteriori sulla staccionata dei vicini e attaccò ad abbaiare contro Bruno che proprio in quel momento stava passando davanti al portone della casa affianco.

Uno dei gatti randagi, spaventato, mollò la lisca di pesce che stava spolpando e saltò a nascondersi dietro le cassette vuote del fruttivendolo.

Bruno non batté ciglio. Fermò il passo – la schiena rilassata e le mani in tasca – e gli bastò piegare il capo solo di poco per fronteggiare il muso di Pepe che gli arrivava alla spalla. «Cosa c’è?» Lo domandò con una tranquillità disarmante, privo del minimo brivido, come se non udisse il suo abbaiare inferocito, come se non avesse i suoi denti a uno sbuffo dal naso, come se non si fosse accorto degli schizzi di saliva arrivati a chiazzargli la camicia. «Ti sto antipatico?»

Pepe raggrinzì il muso e ringhiò. Scese con le zampe dalla staccionata, caricò la ricorsa sollevando un’altra nuvoletta di polvere, e tornò ad appendersi al recinto, ricominciando ad abbaiare ancora più forte.

Valentina cominciò a pensare di dover intervenire e di andare a fermare Pepe di persona. Era un cane innocuo e non aveva mai morsicato nessuno, nonostante l’abbaiare così aggressivo, ma con un estraneo non era il caso di correre il rischio.

Bruno la precedette e porse la mano aperta al cagnone. Un segno di pace. «Buono, buono» gli mormorò. «Non ti faccio niente, vedi?»

Pepe allungò il muso, annusò la sua pelle scura e incallita, i cerotti che gli bendavano le nocche, e affondò il naso nel suo palmo. Le orecchie si abbassarono e si alzarono con un guizzo. Pepe rimbalzò a terra, tornò ad appendersi alla staccionata con le zampe anteriori, abbaiò di nuovo ma mugolando un tono più acuto e gioviale, come quando ti chiamava per farsi lanciare la palla. Attaccò a scodinzolare. La lingua annaspante pencolò fra i denti che ora non erano più esposti in un aguzzo luccichio di minaccia, ma in un qualcosa simile a un sorriso, lo stesso con cui salutava i padroni quando tornavano a casa.

«Ecco, così.» Bruno gli strofinò una carezza sulla testa. «Le carezze ti piacciono? Certo, quelle piacciono a tutti.»

Pepe sollevò il muso per farsi grattare anche sotto il mento. I suoi occhioni neri luccicarono di piacere e contentezza, lo scodinzolio accelerato dissolse il polverone che aveva gonfiato quando era corso fuori dalla cuccia.

Bruno sorrise, e si capì che si erano già simpatici. «Bravo cagnolino.»

Valentina si squagliò di tenerezza davanti a quella scena, a quel sorriso così dolce e malinconico da straziare persino il cuore di pietra di uno scoglio. Chissà perché si rallegrò nello scoprire l’espressione distesa di Bruno, il suo sorriso così semplice e sincero, e quel chiaro bagliore di genuina felicità aleggiargli attorno e privare il suo sguardo della solita ombra. Era la prima volta che succedeva da quando gli aveva posato gli occhi sopra.

Forse dovrei davvero imparare a giudicare le persone oltre la prima apparenza.

E con quel nuovo proposito a dare significato alla sua domenica e a farle pesare di meno il ritorno al lavoro che l’avrebbe aspettata l’indomani, Valentina inseguì il profumo del pranzo non aspettando altro che sedersi a tavola e rimpinzarsi con una generosa porzione di ravioli.

Si girò, stando attenta a non tornare a sbattere sul chiodo sporgente, e alle sue spalle accadde qualcosa.

Bruno sfilò la mano dal testone di Pepe. Pepe, preso da un ultimo impeto di affetto ed entusiasmo, si allungò oltre la staccionata e gli leccò il palmo. Avvenne in un lampo. Un lampo blu che baluginò lì dove il muso di Pepe aveva incontrato la mano di Bruno.

Valentina sgranò le palpebre, rintronata dalla luce di quella visione.

Cosa…

Si voltò di scatto.

Pepe trotterellò verso la sua cuccia, tutto contento, già lontano dalla staccionata su cui erano rimaste le impronte delle sue zampe sporche di terra. Bruno svoltò l’angolo e svanì nel vicolo, dietro la bottega del fruttivendolo, inseguito dalla sua ombra e dallo zampettare del gattino randagio che aveva deciso di accompagnarlo fino all’osteria.

Valentina si stropicciò gli occhi ed evocò il ricordo di quello che aveva appena visto. Un lampo blu sbocciato fra il muso slinguazzante di Pepe e la mano di Bruno, una sfumatura che gli aveva colorato la pelle come quando Sara si sporcava con la tempera maneggiando uno dei suoi pennelli.

Tempera blu sbavata dalla saliva di Pepe?

Valentina si diede un colpetto alla fronte e rise di se stessa, dimenticandosi subito di quel che era appena successo.

Doveva aver visto male.

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Capitolo 7
*** L’è permesso – Atto II ***


L’è permesso – Atto II

 

 

Eros collegò i morsetti del multimetro, uno rosso e uno nero, al pistone della pompa di benzina. Si assicurò che le prese fossero ben salde e tastò la lunghezza dei fili di gomma per accertarsi che non vi fossero interruzioni. «Ci siamo.» Si allontanò di un passetto, strofinò le mani unte sul panno allacciato alla cinta, e diede il segnale a Valentina. «Dai corrente.»

Valentina alzò il pollice. Spinse il tasto più grosso del multimetro, accese l’apparecchio, e strinse la manopola sotto il quadrante, senza però girarla. «A quanto?»

«Cominciamo con sette volt.»

Valentina annuì e girò la manopola fino a che la lancetta del multimetro non oscillò fino ai sette volt.

Dalla pompa di benzina si sollevò un ronzio basso, appena percettibile, e un ritmico tic-tic che confermò il passaggio della corrente attraverso il suo meccanismo.

Eros torse l’angolo della bocca in una smorfia poco convinta. Soffiò un lungo sbuffo, forse sollevato ma non poi così soddisfatto del risultato. «Be’, almeno abbiamo appurato che non c’è nessun cortocircuito.» Si sfilò il berretto e passò la mano sbavata di nero attraverso i ciuffi di capelli grigi appiattiti dal sudore. «Però il passaggio di corrente è ancora troppo basso. Non va bene.»

Valentina fece dondolare le gambe dal tavolo di lavoro su cui era seduta, proprio davanti alla parete a cui erano appese le chiavi a bussola e le brugole. Tornò ad avvolgere le dita attorno alla manopola. «Aumento il voltaggio?»

«No, no.» Eros sollevò la pompa di benzina e la tuffò sotto la luce più chiara proveniente dalla porta dell’officina che lui e Valentina avevano lasciato aperta per far circolare un po’ d’aria. «Scoperchiamo la capsula e riproviamo collegando i morsetti direttamente alla punta platinata. Passami il cacciavite, per favore.»

Valentina batté un saluto militare. «Agli ordini.» Scavò dentro la cassetta degli attrezzi stando attenta a non rovesciare qualche bullone, pescò uno dei cacciaviti più piccoli, uno di quelli con la punta a taglio, e lo passò a Eros.

Fece un doppio nodo alla bandana con cui aveva legato i capelli arruffati, diede un’altra piccola sgambettata lasciando oscillare la gonna attorno alle ginocchia e, intanto che Eros tornava al lavoro, Valentina socchiuse gli occhi per godersi appieno quel momento così magico, il più lieto di tutta la domenica e di tutta la settimana: lei e papà tutti soli in officina, circondati dalle moto dei clienti, dai motori estrapolati dai cofani delle automobili, dalle casse e valigie stracolme di attrezzi – ogni volta ne scopriva uno nuovo –, a respirare l’odore di benzina, di liquido per freni, e di olio lubrificante.

Quello era proprio il suo elemento, il luogo che Valentina più amava in tutto l’universo, e il mondo a cui sapeva di appartenere, proprio come il mare e le barche erano il mondo di Massimo e i quadri e i pennelli erano il mondo di Sara.

Quel pomeriggio stavano lavorando su una vecchia Augusta piena di ruggine che aveva fatto dannare Eros per tutta la mattina, un catorcio che bruciava una scandalosa quantità di fumo ogni volta che veniva accesa. Dopo pranzo, appena alzati da tavola e dopo aver aiutato Pia a lavare i piatti, Eros e Valentina si erano rifugiati in officina e si erano subito messi all’opera. Avevano smontato la pompa di benzina e avevano tirato fuori il multimetro per le misurazioni sui circuiti elettrici.

Valentina era dell’umore giusto, si sentiva reattiva e attenta. Merito dell’abbuffata di ravioli, di branzino con patate, e della doppia porzione di crostata alla ciliegia che ancora le addolciva la bocca e faceva cantare la pancia di contentezza. Se solo non fosse stato per un certo pensierino e per un certo paio di occhi scuri e misteriosi che non avevano ancora smesso di darle il tormento…

«Oggi a pranzo sei stata insolitamente silenziosa.» Pure Eros se ne accorse. Come si era sicuramente accorto di come anche in quel momento Valentina se ne stesse fin troppo tranquilla, anziché chiacchierare come al suo solito, insistendo di mettere di persona le mani sugli arnesi o di fare qualche giro di prova sulle moto appena aggiustate. «Anche se in effetti è tutto il giorno che ti comporti in modo strano.»

Valentina si morsicò il labbro. «S-strano?» Voltò lo sguardo e prese a rigirare la collanina fra le dita, sperando di nascondere il rossore fin troppo ovvio. «Ma che dici?» Fece dondolare la gamba accavallata, sfogò il formicolio propagato fino alle punte dei piedi. «Strano come?»

«Non saprei.» Eros diede un altro giro di vite. «Ma mi sembravi fin troppo pensierosa e distratta. E taciturna.» Finì di allentare la vite della pompa di benzina, sfilò l’involucro dalla capsula e mise in vista il pistone. «Anche questa mattina, poi, quando sei venuta qui in officina e c’era… aah.» Poggiò le nocche sotto il mento e distese i baffi in un sorriso accattivante, credendo di aver sgarbugliato chissà quale enigma. «Ma non mi dire che è successo qualcosa fra te e Bruno.»

Il cuore di Valentina scalciò e si mise a galoppare, il rossore delle guance bruciò fino alle orecchie, e i suoi occhi si riempirono di una luce che traballò sul verde delle iridi come la rugiada fa sull’erba del prato. «C-chi?» farfugliò lei. «Lo stagionale?» Invertì la posizione delle gambe accavallate, continuò a far dondolare il piede sotto gli sbuffi della gonna, e si fece aria al viso sudaticcio e già sporcato da qualche nera manata d’olio. «Ma figurati.» Il sorrisino teso e tremolante. «Cosa te lo fa pensare, poi?»

«Tanto per cominciare» disse Eros, «sei stata insolitamente fredda con lui.» Tornò a prendere i morsetti dei cavi che si collegavano al multimetro e fece contatto con la punta platinata della pompa di benzina appena scappucciata. «Non hai insistito per farlo rimanere a pranzo, e sei rimasta nascosta a origliarci mentre parlavamo. Un comportamento del genere non è da te.» Scosse il capo. «Non dalla Tina che non aspetterebbe altro che ficcare il naso nei discorsi degli altri, per lo meno. Soprattutto se sono discorsi che riguardano il lavoro in officina. Riaccendi il multimetro, per favore.»

Valentina corrugò un sopracciglio e snodò le dita dalla collanina. «Be’, ma magari – a quanto?»

«Dodici.»

Valentina fece come detto. Spinse il pulsante e regolò la lancetta del multimetro, lieta di avere qualcosa con cui tenere le mani impegnate e la mente distratta. «Magari questa volta ho realizzato pure io che stavate parlando di qualcosa di serio e di importante, e ho preferito non impicciarmi.» Arricciò la punta del naso in un’espressione da smorfiosetta. «Le persone crescono, sai, pa’?»

Eros picchiettò le dita sulla cima del pistone da cui non giunse il suono di alcun progresso, dato che il ticchettio era aumentato di poco e che ancora non stava compiendo quel giusto movimento che avrebbe dovuto farlo scattare su e giù come la lancetta di un metronomo. «Oppure in questi ultimi giorni ti stai sforzando di comportarti bene solo per ingraziarti il tuo papà?»

Valentina strizzò una piccola linguaccia fra le punte dei denti. «Come se avessi bisogno di ricorrere a certi stratagemmi per ingraziarmi i favori del mio paparino.»

Eros scosse la testa ma ridacchiò, stette al gioco. «Aah, Tina, Tina.» Spense il multimetro, sganciò i morsetti, e usò uno dei panni sporchi per asciugarsi il sudore dalla fronte e dal mento. «Cosa devo fare con te?»

Valentina esibì un sorriso raggiante, caldo come il sole estivo che bruciava contro le finestre dell’officina. «Tenermi qua con te in officina mentre lavori mi rende già la ragazza più felice del mondo. Ah!» Batté le mani, colta da una realizzazione improvvisa. «A proposito…» Allargò il sorriso. Non aveva ancora esaurito la scorta di ruffianerie. «La mamma stamattina mi ha detto che avevi qualcosa che mi dovevi mostrare.»

Pure lo sguardo di Eros si fece più brillante, «Ah, sì», come se si fosse improvvisamente rammentato di qualcosa di importante. «Te l’avrei mostrato già stamattina.» Alzò le spalle. «Ma tu stavi ancora dormendo.» Lasciò il panno con cui si era tamponato il sudore e si piegò a frugare nel cassetto dove di solito accumulava i cataloghi che gli spedivano i fornitori all’ingrosso oppure le officine delle città vicine da cui ogni tanto faceva arrivare qualche pezzo di ricambio. «E si sa che non c’è verso di svegliarti, la domenica, a meno di rovesciarti un secchio d’acqua in faccia.»

Valentina alzò gli occhi al cielo. Era lo stesso rimprovero che le aveva rivolto la mamma, ma se proveniva dalla bocca di papà allora era anche disposta a sorvolare. «E che cos’è?» domandò, di nuovo allegra. «Qualcosa di bello?» Si sporse ad allungare lo sguardo. Sgambettò i piedi frementi di emozione. Il petto solleticato da uno sciamante formicolio di curiosità. «Dai, dai, fammi vedere.»

«Tieniti pronta» le disse Eros. «Ti piacerà.» Sfogliò uno dei cataloghi, uno di quelli dai colori lucidi e vibranti che non erano ancora stati sbiaditi dal tempo o dal ripetuto girare delle pagine. Trovò l’angolo su cui aveva lasciato il segno, e girò la rivista davanti agli occhi luccicanti di Valentina. «Ta-daaan.»

Valentina sgranò lo sguardo sulla doppia pagina pubblicitaria su cui cadeva la luce del sole filtrata dalle polverose finestrelle dell’officina. Batté le ciglia, si concesse un sospiro. «Ma questa…»

Lo stemma azzurro della Piaggio occupava un posto d’onore affianco alla scheda che elencava le componenti dello scooter ritratto sui poster pubblicitari disegnati ad acquerello. Poter che somigliavano a quelli degli stabilimenti balneari che qualche volta vedeva appesi sotto i portici del paese. Raggi di sole che splendevano sul manubrio e sulla carrozzeria lucente; belle signore che, in sella alla moto, facevano sventolare gli sbuffi di gonna al vento; giovani ragazzi che, occupando il sellino in due, viaggiavano verso mari azzurri e strade che circumnavigavano i promontori verdeggianti.

I tre modelli al centro, i più grandi, ritraevano una moto verde, una bianca e una rossa, a imitazione della bandiera italiana. Sulla cima della doppia pagina, spiccava il nome a caratteri cicciotti e leggermente sbilenchi, come investiti da una zaffata di vento: La Vespa.

Gli avidi occhi di Valentina risucchiarono ogni particolare, ogni cifra e ogni scritta.

La carrozzeria portante con copertura integrale, il serbatoio posteriore, nessuna catena di cambio, la pedana posizionata dietro lo scudo di protezione, e i dati tecnici elencati nella tabella vicina dicevano che possedeva un motore ad aspirazione a valvola rotante. Rivoluzionaria!

Il cuore di Valentina accelerò, si colmò di un’emozione traboccante dinnanzi a cotanto splendore ultraterreno. «Oh, papà…» Valentina si strinse le guance, fulminata, ancor più cotta rispetto alle volte in cui posava gli occhi su un bel ragazzo, ancor più deliziata di quando si abbuffava di gelato al pistacchio o di quando annusava il profumo della pizza appena sfornata. «Ma chi è questa meraviglia?»

«È il nuovo modello della Piaggio.» Eros picchiettò l’indice sul titolo. «La Vespa.»

«Sembra comoda.» Valentina raccolse il catalogo dalle sue mani, sfogliò qualche pagina, tornò indietro sul disegno più grande che occupava la parte centrale della doppia facciata. Lo rigirò su e giù. «Ed è a due tempi, giusto?»

«Due tempi, tre marce, quattromilacinquecento giri.»

«Ma sicuro che si guidi così, stando con la schiena dritta? Non va reclinata o qualcosa del genere?»

«È una moto da città, Tina. E sarà un modello per uso familiare, dicono.» Eros annuì mettendosi a braccia conserte. «Una vera e propria rivoluzione. Bellissima a vedersi, comoda, e molto facile da guidare. Robe che potrai uscire di casa e saltarci in sella senza nemmeno cambiarti i pantaloni. Ho già deciso che ne ordinerò una prima partita e che proverò a piazzarle qui in paese. Pensa a quanti affari potremo fare adesso che stanno costruendo tutti quegli stabilimenti turistici in Riviera. Mezzi del genere saranno l’ideale per i campeggiatori o per chi trascorrerà le vacanze in città. E una moto del genere sarà abbordabile davvero da chiunque, anche da chi non può permettersi un’automobile.»

Valentina abbassò il catalogo, ammiccò con le sopracciglia, e lo ammaliò con uno dei suoi sorrisetti da marpiona. «Persino dalla tua cara figlioletta?»

Eros sospirò a malincuore. «Non ricominciare, Tina.» Le sfilò il catalogo dalle mani, facendola piagnucolare, e lo rimise a posto, sigillando il cassetto, forse già pentito di averglielo lasciato sfogliare. «Ne abbiamo già parlato.»

Valentina fece roteare lo sguardo e sventolò via una ciocca di capelli sfuggita alla bandana. «Sì, sì, lo so, ma ne abbiamo parlato tante volte quando ero piccola, e adesso è diverso.» Strinse i pugni e si caricò di determinazione. «Adesso posso pure pagarmi il corso per la patente, e potrei anche comprarmi da sola la moto, se è per questo, senza che tu e mamma scuciate una singola Lira. Sto mettendo tanti risparmi da parte.» Circa. «E secondo me in un paio di mesi potrei anche riuscire a…»

«Non fare finta di non capire quello che ti sto dicendo, Tina.» Eros ricominciò a lavorare alla pompa. «Qui non si tratta di soldi.» Frugò nella cassetta degli attrezzi fino ad estrarre un rotolo di carta vetrata. «Non si è mai trattato di questo. Sai bene che non approverò mai che tu salga su una moto. Ed è qualcosa che non cambierà, a prescindere da quanto adulta sarai e da quante moto potrai permetterti di comprare.»

Valentina sbuffò. «Almeno questo desiderio potresti concedermelo.» Incrociò le braccia al petto, fece tamburellare le dita. «Già sono condannata a una vita miserevole perché…»

«Esagerata.»

«Dicevo…» Valentina sventolò un indice all’aria. «Già sono condannata a una vita miserevole e a dei lavori che detesto solo perché non c’è verso di convincerti a farmi lavorare con te e a farmi tenere l’officina quando tu andrai in pensione.»

«Gestire un’officina meccanica è un lavoro serio, Tina.» Eros portò la pompa di benzina sotto la luce. La rigirò fino a far luccicare la punta platinata, socchiuse le palpebre per esaminarla da ogni angolazione. In effetti era in brutte condizioni. «Richiede un forte senso di responsabilità, un’organizzazione impeccabile, tanta voglia di fare, e soprattutto serietà. E tu non sei una persona seria.» Scosse il capo. «Non ancora.»

«Solo perché sono una ragazza?» Valentina cambiò tattica e si mise a punzecchiarlo. «Guarda che anche le ragazze possono fare il meccanico. Lo sai che persino la Regina Elisabetta faceva la meccanica quando c’era la guerra?»

Eros rise, non cedette alla provocazione. «Tu non sei di certo la Regina Elisabetta.»

«Ma sono comunque una ragazza seria e responsabile.»

Fra di loro cadde uno sguardo silenzioso ma cupo e abbastanza eloquente da far capire che nessuno dei due credeva a una simile fesseria. Una ragazza seria e responsabile. A Eros tremolarono le labbra e si chiazzarono le guance di rosso, tanto fu lo sforzo che stava compiendo per non scoppiare a ridere.

Valentina imbronciò una scura smorfia da offesa. Ricominciò a giocherellare con la collanina, a far dondolare le gambe dal bordo del tavolo, ma comunque non si arrese. «Eddai, pa’.» Quella era l’unica battaglia che sapeva avrebbe continuato a combattere fino alla fine dei suoi giorni, fino a che non avrebbe conquistato il suo più grande desiderio. «Lo sai che le moto e i motori sono l’unica cosa che amo per davvero. Se non mi impegno con il lavoro all’osteria e con tutto il resto è solo perché so che non si tratta della mia vera vocazione.»

«Non è comunque una buona scusa per trascurare le tue responsabilità.» Eros strofinò la carta vetrata sulla punta platinata della pompa di benzina, ne lisciò le irregolarità. «Essere adulti significa anche accettare di doversi impegnare in ciò che non ci piace.»

«Ma se tu mi lasciassi lavorare assieme a te sono sicura che saprei stupirti e che diventerei mille volte più motivata anche con tutto il resto» esclamò Valentina. «Quella sì che sarebbe un’esperienza che mi aiuterebbe a crescere e a diventare una ragazza più responsabile. Dammi una possibilità, su.»

«Non si tratta di te, Tina.» Il tono di Eros assunse una sfumatura più rassegnata, come se nemmeno lui fosse in possesso del potere necessario a esaudire il desiderio della figlioletta. «So benissimo che la tua passione per il mio lavoro è ben più seria di una cottarella occasionale, anche se è insolito per una ragazza. Sai benissimo che non credo a questo genere di pregiudizi.» Soffiò sulla punta della pompa di benzina, gonfiò una nuvoletta argentata che brillò alla luce del sole che batteva sul tavolo da lavoro. «Ma ciò non toglie il fatto che tu sei ancora troppo sconsiderata. Per questo non ti permetterò mai di salire su una moto, non finché camminerò su questo mondo.» Alzò l’indice bacchettone. «Perché ricorda: c’è solo una cosa più pericolosa delle moto, ossia…»

«Ossia i ragazzi che guidano le moto» annuì Valentina. «Lo so, lo so.» Si piegò verso Eros e ammiccò sfoggiando un sorriso da furbetta. «E se ti prometto che non mi innamorerò mai di un ragazzo a cui piacciono le moto?»

Eros, imperturbabile, continuò a lavorare e a strofinare la carta vetrata sulla pompa di benzina. «Preferirei che tu trovassi un bravo ragazzo con cui andare d’accordo piuttosto che una moto con cui metterti in pericolo.»

Valentina scosse il capo e fece subito per sviare l’argomento. «I ragazzi si stufano presto di me.»

«Magari non hai ancora trovato qualcuno che non faccia stufare te.»

Questo la stupì. Oh. E le diede qualcosa su cui riflettere.

«La punta è a posto.» Eros sfregò il pollice sulla punta platinata e riarrotolò la carta vetrata con cui l’aveva laminata. «Riproviamo a dargli la carica con il multimetro.»

Valentina annuì. Tornò a collegare i morsetti, ma intanto il rimuginare di quel pensiero non le dava tregua. Realizzò che non aveva mai vissuto come una tragedia il fatto di essere rifiutata da un ragazzo dietro l’altro. Il rifiuto era doloroso da metabolizzare, certo, ma oltre a quello…

Oltre a quello non è mai stato tragico dover rinunciare a tutti i ragazzi che mi hanno scaricata. D’accordo, quando succede mi concedo una giornata per sfogarmi, per piangere fino allo sfinimento, poi però mi faccio consolare da Sara, mi mangio un gelato, vado a passeggiare sulla spiaggia per schiarirmi le idee, e basta questo per farmi ritrovare il buonumore. Tempo una notte e sono di nuovo come prima.

E non capitava mai che ripensasse all’ultimo ragazzo che l’aveva piantata in asso, spezzandole il cuore e ferendo il suo orgoglio. Non le veniva mai in mente di riprovare a conquistarlo, di chiarire le incomprensioni, di parlargli per farsi concedere un secondo appuntamento o un’altra occasione di fare amicizia.

Forse perché non ho ancora trovato qualcuno per cui valga sul serio la pena riprovarci?

Valentina alzò la tensione del multimetro a dodici volt.

Il contatto sulla pompa di benzina prese bene, e il pistone, ticchettando, produsse il suono simile al ronzio di un grosso calabrone in volo.

Eros sembrò soddisfatto. «Bene.» Rinfilò il cappuccio alla pompa di benzina, lo avvitò, e fece per reinserirlo nella moto. «Direi che possiamo provare a rimetterla su e a vedere se fa ancora fumo. Mi reggi la torcia?»

Valentina scrollò la testa, «Oh», e si ridestò dai suoi pensieri. «Oh, sì. A…» Si diede una grattata alla bandana che cominciava a pruderle e a soffocarle la testa, inumidita di sudore come lo erano i suoi capelli. «Arrivo.» Smontò dal bordo del tavolo, resse la torcia, e aiutò Eros a riagganciare la pompa di benzina.

Lavorando, il sudore le imperlò la fronte, pizzicò sotto la bandana, e le rigò le guance, gocciolando dalla punta del mento. Valentina si asciugò, si impiastricciò la faccia di nero, strofinò il braccio sotto il naso e risucchiò un respiro più profondo che le arrochì il respiro. Faceva caldissimo, anche se ormai era calata la sera. Le pareti di cemento dell’officina avevano assorbito e trattenuto tutta l’afa che era ribollita sulle strade del paese durante il giorno, e ora l’umidità che galleggiava davanti alle finestrelle del garage odorava di benzina bruciata, di olio per motori, della gomma degli pneumatici, e delle marmitte incrostate di nerofumo. Una delizia da acquolina in bocca!

Eros si rialzò stringendosi la schiena e facendo scricchiolare le ginocchia. Si diede una pulita alle mani strofinando il panno fra le dita. «Metti in moto.»

Valentina girò la chiave nel cruscotto della Augusta e diede due giri di motore.

La moto borbottò, la marmitta scoppiettò, forti vibrazioni scossero le gomme e la carena, fino a che il ronzio accelerò, facendosi più lungo e regolare. Dal radiatore però evaporò una densa coltre di fumo color latte che sommerse Eros e Valentina. Sfrigolando, si innalzò fra le pareti, oltre il banco da lavoro, e riempì i fasci di luce che cadevano dalle finestrelle rettangolari.

Valentina arretrò per non finire soffocata. Tossì e sventolò la mano per dissolvere il gas di scarico che, dopo esserle serpeggiato fra le gambe, andò a dissolversi fuori dalla porta aperta.

Eros lasciò cascare il capo in avanti, schiacciato dal peso dello sconforto. «Dannazione.» Spense la moto senza nemmeno guardarla. Un gesto di sconfitta. «Be’, a questo punto direi che non so più che pesci pigliare.» Sfilò un altro panno dalla cinta e si pulì dal sudore e dallo sporco. Gettò lo straccio come un pugile che, rassegnato, fa cadere la spugna all’angolo del ring. «Lasciamola così, per il momento.» Raddrizzò il manubrio, usò un secondo straccio per sbatacchiare via il fumo che ancora annebbiava e soffocava l’aria dell’officina. «Domani faccio un paio di telefonate e magari ordino un’altra pompa, vedrò di fare una sostituzione completa. Eppure…» Corrugò le sopracciglia, si massaggiò le guance velate di barba, tamburellò le dita sulle labbra, e scosse il capo. «Eppure non mi sembrava ridotta così male, nemmeno prima di averle sistemato il pistone.»

Valentina ci rimuginò sopra. «Uhm.» Aggrottò la fronte e si strofinò il mento umettato di sudore senza curarsi delle altre sbavature d’olio che le macchiarono la pelle. Anche secondo lei c’era qualcosa che non quadrava. «Forse…» Si portò davanti al muso della moto, si accovacciò davanti alla griglia del radiatore ancora caldo da cui proveniva quell’indicibile quantità di fumo. Ci passò la mano sopra, si soffermò sui dadi, ne rigirò uno e scoprì che ballonzolava, che era fissato male. Quella realizzazione le accese lo sguardo, intonò un canto di vittoria che risuonò fino in fondo al petto, colmando il battito del suo cuore. «Non era la pompa di benzina.»

Eros fece scivolare lungo la guancia lo straccio che stava usando per frizionare il sudore dalla fronte. Socchiuse le palpebre e inarcò un sopracciglio. «Come?»

Valentina si scansò per mostrare anche a lui. «Vieni, pa’.» Lo chiamò con uno sventolio della mano. «Vieni a vedere. Il problema del fumo non viene dalla pompa di benzina, ma dal radiatore. Vedi?» Gli indicò i dadi scardinati. «Il serraggio dei dadi si è scardinato.» Ne raccolse uno e fece notare a Eros le incrostazioni di pasta fissante che ne circondavano l’orlo. «Si vede che hanno provato ad aggiustarli già prima di portarla da noi, ma invece che sostituirli li hanno semplicemente rincollati con la pasta per guarnizioni. È da qui che viene il fumo.» Mollò il dado, si spolverò le mani strusciandole sulla gonna – poi l’avrebbe buttata nel cesto della lavanderia –, e si godette il sapore di quel sorriso vittorioso che le aveva appena addolcito le labbra. Ancora più squisito di una fetta di torta alla ciliegia. «Adesso dovrebbe essere semplice, no? Ci basterà sistemare i dadi e vedrai che risolveremo in un battibaleno.»

Eros si piegò sulle ginocchia, fece correre le punte delle dita sulla griglia del radiatore, assottigliò lo sguardo. «I dadi…» Soppesò anche lui quel pessimo lavoro – un lavoro che lui non avrebbe mai approvato, ecco perché non aveva nemmeno considerato l’eventualità di un problema simile. Annuì. «Bella pensata.» Un sorriso di approvazione gli rasserenò lo sguardo, cancellò l’ombra di rassegnazione che poco prima l’aveva incupito. «Mi era completamente sfuggito.»

Valentina si sentì elevare fino al cielo, capace di correre attraverso una vaporosa scia di stelle, sbatacchiando le braccia fra nuvolette tiepide e dolci come zucchero filato, irradiata dalla luce di un arcobaleno spennellato nei suoi occhi lucidi di gioia. Neanche se le fossero sbucate un paio di ali si sarebbe sentita così libera e leggera, tanto da poter raggiungere la Luna e le galassie che la circondavano componendo un oceano di luci e di scintille.

Eros raddrizzò la schiena, strofinando un massaggio sulla colonna vertebrale, e fece per andare a prendere i pezzi di ricambio e gli strumenti adatti alla riparazione. «Torno subito.» Strofinò una carezza sulla bandana di Valentina, «Ora sistemiamo», e uscì dal garage.

Valentina rimase ad aspettarlo in officina. Gongolandosi per quella vittoria e per quella soddisfazione inaspettata, si dondolò avanti e indietro sui talloni e stropicciò le labbra beandosi del sorriso che era salito a scaldarle le guance e a irradiarle lo sguardo.

Per ora, l’unico uomo che voleva nella sua vita è il suo papà. L’unico che la capiva e che l’avrebbe accettata sempre e per sempre, a prescindere dal suo carattere difficile, dalle sue azioni impulsive, dalle sue idee folli, e dai suoi pensieri sconclusionati. Quindi basta piagnistei e basta frignare per i ragazzi. D’ora in avanti, si sarebbe data da fare e avrebbe impiegato tutte le sue forze per diventare una meccanica di prim’ordine. Quando sarebbe venuta l’ora, avrebbe ereditato lei l’officina. E sapeva che nemmeno i pregiudizi le avrebbero sbarrato la strada, perché sarebbe stata la sua dedizione a parlare a suo favore.

Però…

Però nonostante i buoni propositi e nonostante la prospettiva di un futuro così allettante, proprio non riusciva a togliersi dalla testa il pensiero di Bruno.

Si morsicò il labbro, e quel piccolo pizzico di dolore le frantumò il sorriso, prosciugando ogni goccia di calore dalle sue guance.

Ripensando a Bruno, a quel breve contatto di sguardi che c’era stato fra loro due quella mattina, al modo in cui lui era uscito dall’officina per incamminarsi da solo attraverso le deserte viuzze di Portorosso, la circondò un freddo abbraccio di tristezza. Un’esitazione che spense il battito che il suo cuore aveva cantato al ricordo di quella vicinanza.

Domani lo avrebbe sicuramente incontrato all’osteria, durante l’ora di cena. E così sarebbe stato per tutta l’estate. Lui l’avrebbe salutata come quella mattina in officina o l’avrebbe guardata di traverso come era successo durante i lavori in piazza? E lei come avrebbe dovuto comportarsi? Avrebbe dovuto far finta di nulla, approcciandosi con naturalezza, o avrebbe dovuto mantenere una rispettosa e delicata distanza?

Aah…

Con un braccio Valentina si asciugò il sudore dalla fronte, si stiracchiò sulle punte dei piedi, e si accostò alla porta aperta dell’officina per affacciarsi al rosso del tramonto, al verde delle terrazze vicine, al bianco dei panni messi a stendere. Inspirò a fondo riempiendosi dell’aria speziata della sera ma allo stesso tempo sentendosi schiacciare da un pesante senso di sconforto che nemmeno i profumi di sugo bollito, di marmellata appena imbarattolata, o di caffè appena schiumato riuscirono a consolare.

Se solo capire i ragazzi fosse facile come capire le moto.

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Capitolo 8
*** L’è permesso – Atto III ***


N.d.A.

Ebbene, dopo la bellezza di quasi quarantamila parole finalmente comincia a smuoversi qualcosa.

Quanto si vede che non so scrivere slow burn? Tipo tanto, vero?

Vocina della Coscienza: “Perché, Federica? Le altre cose le sai forse scrivere?”

 

Uuh. Ouch. 


L’è permesso – Atto III

 

 

In quel generico giù, riconobbi l’Italia, il suo spirito, quella sua cronica divisione interna per ogni cosa. Un Paese abituato ad avere un sopra e un sotto, un attico e una cantina.”

 

(Splendore, Margaret Mazzantini)

 

 

 

 

Valentina raccolse i piatti sporchi da uno dei tavoli a cui aveva servito gli spaghetti all’inizio della serata. Piatti sporcati dall’oleoso sugo di pomodoro, dell’aglio sminuzzato, e da qualche striminzita fogliolina di basilico. «Tutto a posto, signori?» Portò via anche la cesta del pane dentro cui era avanzata solo qualche briciola. Rivolse ai due ospiti dell’osteria un sorriso aperto e cordiale. «Avete mangiato bene? Era tutto di vostro gradimento?»

Lo stagionale più anziano porse a Valentina il suo piatto raschiato dalla scarpetta di pane e ricambiò il suo sorriso. Le guance rosee, l’espressione sazia e soddisfatta. «Tutto squisito.» Strusciò un angolino di tovagliolo sotto i baffi. «Il miglior piatto di spaghetti della mia intera vita.»

Quello che gli sedeva di fronte sollevò il bicchiere di rosso facendolo scintillare alla luce del lampadario. «Buono quasi quanto il vino.»

Giunse una risatina dal tavolo adiacente, il trillo di due bicchieri che fecero scontrare gli orli, e lo scricchiolio morbido di qualcuno che spezzava l’ultima fetta di pane per foderarla di fette di salame.

Anche Valentina continuò a sorridere, nonostante la stanchezza che cominciava ad appesantirle le guance, a gonfiarle le palpebre e ad appannarle la vista. «Riferirò i complimenti al cuoco.» Tenne il vassoio in bilico su un braccio solo e impilò i piatti l’uno sull’altro mettendo da parte il mazzo di posate. «Ma gradite qualcos’altro per concludere?» Adocchiò la caraffa vuota, sporcata solo da poche gocce di vino seccato sul bordo. «Un amaro digestivo? Un caffè?»

L’anziano alzò la mano in un gesto che parve quasi una resa. «A posto così, Tina» le disse. «Se prendo il caffè chissà poi quando mi addormento.»

Gli arrivò una sgomitata dal compare. «E se prendi l’amaro chissà quando ti svegli.»

Di nuovo tutti risero – una risata comune e solidale che coinvolse anche i tavoli affianco e che ravvivò gli occhi stanchi dei braccianti che avevano addosso l’odore di sudore, di mare, di nafta, e di polvere di cemento.

Due di loro, quelli che si erano appena goduti l’abbuffata di spaghetti, raccolsero le giacche buttate sugli schienali delle seggiole e puntarono le scale che dalla sala da pranzo del Gabbiano portavano alle camere da letto. Lo stagionale anziano e baffuto rivolse un ultimo sguardo a Valentina, forse attirato dal dondolio dei piatti sul vassoio. «Domani sei qui la mattina?»

Valentina impilò anche l’ultimo bicchiere, scosse la testa. «No» rispose. «Domani ho di nuovo il turno serale.»

«Allora ci rivediamo a cena.» L’anziano si guardò alle spalle, si sporse a buttare l’occhio anche verso Angelo che era indaffarato dietro il bancone, con le mani affondate nella schiuma di sapone che riempiva il lavabo e una fila di bicchieri puliti allineati sul panno umidiccio. Frugò nella tasca dei pantaloni, lasciò una monetina da cinquecento lire nel posacenere che nessuno di loro aveva usato, e strizzò l’occhiolino a Valentina. «Buonanotte, Tina.» Salutò anche gli altri pescatori e lavoratori rimasti seduti a giocare a carte, e seguì il compare che aveva già cominciato a salire le scale. «Buonanotte. Notte a tutti.»

Pure Valentina si guardò attorno, stupita di quel gesto e incantata dalla scintilla di luce schioccata dalla monetina che era trillata nel posacenere. È per me? si chiese. L’ha lasciata per me? Posso sul serio prenderla?

Alzò le spalle ed evitò di questionarsi troppo.

Raccolse la mancia, alzò la monetina da cinquecento lire, la rigirò facendola brillare sotto la luce calda e soffusa proiettata dal bulbo del lampadario. Le sue guance arrossirono, il cuore palpitò di gioia, e ogni ombra di stanchezza scomparve dagli occhi che luccicarono come smeraldi. Evviva! Mise la moneta al sicuro nella tasca del grembiule, già pensando di custodirla fino al suo ritorno a casa per poi infilarla nel barattolo dei risparmi su cui aveva appiccicato il ritaglio di una Vespa che aveva sgraffignato dal catalogo di papà. Tutti risparmi che stava mettendo da parte e che avrebbe speso solo per comparsi la moto dei suoi sogni.

Valentina portò via il vassoio con i piatti sporchi e, sgambettando in mezzo ai tavoli occupati dagli altri ospiti dell’osteria, si accorse di come il suono dei suoi passi, assieme al frusciare della sua gonna, rimbalzasse sulle pareti. Quella sera, infatti, gli ospiti dell’osteria erano più silenziosi del solito. Qualcuno chiacchierava a bassa voce – voci arrochite dall’aria di mare che si inaspriva durante i giorni più caldi –, lasciando udire il trillo dei bicchieri che di tanto in tanto venivano sollevati e poggiati sul tavolo, o lo stridio delle posate che sfregavano sui piatti o sulle scodelle di zuppa. Uno di loro gesticolava verso la finestra socchiusa da cui penetrava la luce del tramonto, «… ma se entro domani non torna a mettersi a posto allora si ricomincia tutto daccapo e chiamiamo un altro per le saldature. Cosa stiamo qui a perdere tempo a fare, sennò? Ho già avuto un problema del genere, ma anni fa, e ti parlo di quando ancora lavoravo…», forse discutendo degli ultimi lavori in piazza e dei ritardi con le consegne del materiale. Quello che gli sedeva di fronte annuiva distrattamente. Anche quelli che stavano giocando a carte lo facevano in maniera più riservata, solo concedendosi qualche breve imprecazione dopo una mano particolarmente sfortunata.

La sala da pranzo era così silenziosa che a Valentina riusciva più facile stare dietro al disco che faceva cantare il grammofonoLa Bohème di Puccini – rispetto alle chiacchiere dei pescatori che di solito avevano sempre qualcosa di interessante da raccontare e che valeva la pena essere origliato.

«Ah, Tina!» Angelo spostò i piatti sporchi dal vassoio al lavello colmo di un’acqua lercia su cui galleggiava una pellicola grigia e oleosa di sapone privo di schiuma. Alzò il mento e indicò a Valentina una delle caraffe smaltate che aveva appena finito di asciugare. «Porta un altro quarto di rosso al Tavolo Tre, e magari anche una scodella di pistacchi. Offriamo noi.»

Valentina annuì e si strofinò le mani sudaticce sul grembiule. «Subito.» Riempì la piccola caraffa e, dopo aver aggiunto qualche manciata di pistacchi alla scodella degli antipasti, ne approfittò per riprendere fiato, per massaggiarsi le spalle e la schiena, poggiandosi con i gomiti al bancone per far riposare i piedi e i polpacci indolenziti.

Lo sguardo appannato andò in cerca di conforto, scivolò verso il riverbero sempre più scuro che attraversava le tendine tirate davanti alle finestre socchiuse. Il cielo, da arancio, si stava facendo violaceo. Le ombre fra le case si erano allungate e il venticello che faceva sventolare gli orli delle tende era più umido e fresco, soffiava brividi che pizzicavano sulle braccia e sulla punta del naso, ti solleticava col profumo della sera, dell’erba bagnata e dei vapori della cucina.

Stava calando il tramonto ed era quasi ora di andare a casa. E quel giorno Valentina non si era lagnata del lavoro nemmeno una volta!

Sto proprio facendo progressi.

Impettita da quella piacevole e inaspettata vampata di orgoglio, Valentina portò vino e pistacchi al Tavolo Tre, questa volta sgambettando un po’ di meno.

Distratta e già proiettando i suoi pensieri verso casa o la spiaggia – il mare la sera non smetteva mai di farla sospirare di meraviglia – spostò lo sguardo dalla finestra alla coppia di stagionali che le avevano offerto la mancia.

I due salirono le scale e incrociarono il passo con qualcuno che non era ancora sceso a cenare. Una figura china e schiva, tenuta nascosta dalla penombra, che scaldò il cuore di Valentina ancor più dell’orgoglio di cui aveva appena assaporato il dolcissimo e prelibato sapore.

Bruno si appiattì con la schiena al muro per far passare i due colleghi, dando sfoggio di quel suo atteggiamento sempre un po’ schivo e remissivo, l’indole di chi si sente sempre d’intralcio e fuori luogo. Forse era per quello che scendeva sempre a mangiare così tardi, quando la sala da pranzo si svuotava e tutti abbandonavano i tavoli portandosi dietro le chiacchiere, le risate borbottanti, e quelle occhiate storte e sospettose.

Fra i tre ci fu uno scambio di parole che Valentina non riuscì a cogliere. I due stagionali che stavano salendo le scale gli chiesero qualcosa. Bruno scosse la testa, scollò la schiena dal muro e rivolse un cenno di mano ai colleghi, come per salutarli o augurare loro la buonanotte.

Smontò dall’ultimo gradino, si ficcò le mani in tasca, arricciò le spalle e attraversò le luci soffuse della sala da pranzo, il rossore del tramonto che filtrava dalla finestra annebbiata dal sottilissimo velo di vapore scivolato fuori dalla porta della cucina.

Anche con gli altri pescatori rimasti seduti ai loro posti volò qualche occhiata che si intrecciò nella penombra, accompagnata giusto da un’alzata di mento o da un guizzo delle sopracciglia. Bruno non sembrò cogliere volentieri quei segnali. Anziché unirsi a loro, andò a sedersi nel cantuccio più isolato, nell’angolino illuminato non dai lampadari che pendevano dal soffitto, ma dai paralumi a forma di conchiglia incastrati negli spigoli fra una parete e l’altra. Spinse le nocche sulla guancia, reclinò il capo stando poggiato sul gomito, e sfogliò un quotidiano pescato dalla pila di quelli che ogni tanto qualcuno abbandonava sul davanzale. Se ne rimase lì, silenzioso e discreto, circondato da quella sua perpetua aura di solitudine che rese il suo profilo distante e sfocato, come sommerso dalla nebbiolina che di solito sommergeva i piloni del porto durante le mattine autunnali.

Valentina finì di servire il vino e i pistacchi. Anche da quel tavolo volarono occhiate storte nei confronti di Bruno, qualche bisbiglio sibilato dietro i mazzi di carte.

«Dovremmo chiamarlo qui o…»

Quello che gli sedeva davanti corrugò la fronte – il muso duro intransigente – e scosse la testa sventolando la mano davanti al naso. L’altro fece spallucce. Ringraziò Valentina per il vino, pescò una manciata di pistacchi dalla ciotola, sfilò una carta dal suo mazzo e continuò a giocare in silenzio.

Valentina si intristì, e il peso di quella tristezza le cadde addosso facendole trascinare il passo fino al bancone dove Angelo aveva finito di disporre in fila i bicchieri asciutti. Si scostò una ciocca di capelli dalla guancia e sbirciò Bruno da sopra la spalla. Lo guardò attraverso una opaca patina di dolore e rammarico.

Forse è per questo che evita di esporsi e di socializzare. Sa che gli altri lo trattano e lo guardano in maniera diversa, e così cerca di non farsi ferire ogni volta di più.

Le venne da pensare che Bruno fosse un ragazzo molto solo e anche molto triste, privo di legami e di affezioni. Fu la stessa sensazione dolce e malinconica che aveva provato il giorno prima, quando lo aveva visto sorridere per la prima volta carezzando la testa di Pepe – l’unico abitante di Portorosso che in effetti sembrava averlo accolto in paese con il giusto e dovuto entusiasmo.

Persino io mi sono comportata male nei suoi confronti.

E quella realizzazione le arrecò un peso che Valentina non seppe come consolare.

Se davvero Bruno veniva da lontano come sospettava – da luoghi che non dovevano nemmeno essere nominati –, allora chissà quanto doveva essere difficile per lui vivere e adattarsi a una parte d’Italia così diversa rispetto a quella dove era nato e cresciuto. Come vivere in un Paese diverso.

Forse potrei essere io la prima a farmi avanti.

Mentre riempiva il vassoio con una cesta di pane appena affettato e con un mazzo di posate pulite, il cuore le si strinse in un singhiozzo di compassione.

Forse potrei aiutarlo a sentirsi un po’ più accettato qui in paese. Ma ho già fatto una così brutta impressione nei suoi confronti, e sicuramente non vorrà più rivolgermi la parola. Però…

Soffermò lo sguardo sul vassoio che stringeva fra le mani – il tovagliolo pulito, il bicchiere asciutto, le posate luccicanti. Una fiammella di determinazione sbocciò nelle profondità del suo animo.

No, c’è ancora qualcosa che posso fare.

Forse non poteva fare miracoli per aiutarlo ad andare più d’accordo con gli altri braccianti e pescatori, o per rendere il suo lavoro meno faticoso, ma poteva assicurarsi che lui si sentisse sempre a suo agio quando stava lì al Gabbiano. Ecco, poteva fare in modo che fosse sempre ben rifocillato e che non lasciasse mai il tavolo a stomaco vuoto e a bocca insoddisfatta. Tutti sapevano che la buona cucina era in grado di donare a chiunque un pizzico di buonumore.

E nessuno rimarrà mai insoddisfatto durante il mio turno di lavoro!

Equipaggiata di tutte le armi necessarie per affrontare una missione importante e speciale come quella – cesta del pane, tovagliolo, posate, bicchiere, e caraffa di acqua fresca – Valentina saltellò fino all’angolo più buio della sala da pranzo e apparecchiò in un lampo il tavolo di Bruno. «Buonasera.» Gli sorrise senza sforzo, lasciando correre quel suo sguardo velatamente stordito. «Fame, oggi? Hai già deciso cosa ordinare?»

Tenendo ancora le punte delle dita infilate fra le pagine del giornale, Bruno squadrò le posate, il bicchiere, la tavola apparecchiata. Sbatté gli occhi ancora persi in quella nebbiolina di smarrimento e si guardò alle spalle, come per capire se Valentina si stesse rivolgendo a lui o se stesse parlando con qualcun altro. La guardò in viso, increspò le estremità delle sopracciglia da dietro qualche ricciolo che gli ombreggiava lo sguardo. Realizzò che era proprio a lui che si stava rivolgendo.

Strinse le spalle, rattrappendosi in quella ormai familiare corazza di timidezza, e ripiegò il giornale. «Quello che c’è mi andrà bene.»

Valentina inzuccherò il tono di voce come se si fosse trattato di far venire a se stessa l’acquolina in bocca. Nulla di più facile. «Ma stasera abbiamo davvero l’imbarazzo della scelta.» Elencò le pietanze sollevando un dito alla volta. «Gnocchi al burro e salvia, tortellini in brodo, caciucco di pesce…»

«Ti dico che…»

«… spaghetti al pomodoro, branzino con patate, zuppa all’ortolana, penne all’amatriciana, trenette al pesto, lasagne alla bolognese – uhm, quelle effettivamente sono un po’ vecchiotte, e ormai sono diventate stantie, quindi ti consiglierei di…»

«Portami pure quello che ti pare.» Bruno tenne gli occhi bassi – i riflessi dell’acqua nella caraffa ondeggiarono sulle sue guance e nelle profondità di quelle iridi così scure. Giochicchiò con un angolino del tovagliolo, strinse le ginocchia e accartocciò le spalle. «Quello che si prepara più velocemente.»

Valentina soppesò il suo viso così scarno e il suo fisico asciutto, le spigolosità delle ossa che sporgevano dagli abiti gualciti, troppo larghi e cadenti. Pensò a quanto poco Bruno mangiasse a ogni pasto. Spiluccava il pane come un passerotto che becca, sorseggiava la minestra un cucchiaio alla volta, sminuzzava il pesce lasciando sempre metà porzione sul piatto, e non si concedeva mai un bicchiere di vino o una fetta di torta, come se si vergognasse di mangiare.

Doveva assolutamente ingolosirlo con qualcosa di sostanzioso.

«Dovremmo avere pronta un’impiattata di trenette al pesto che abbiamo appena servito agli altri tavoli» gli disse. «Ti porto quelle, se vuoi.»

Bruno la sbirciò da sotto i riccioli. Si passò una mano fra i capelli e, nonostante l’esitazione, attraverso il suo sguardo passò comunque una genuina luce di gratitudine. Annuì. «Grazie.»

Valentina sorrise e trotterellò via. Il fiocco del grembiule a svolazzarle sulla schiena e la chiavetta a scintillarle sul petto a ogni rimbalzo.

Giunta in cucina, si occupò lei stessa di impiattare le trenette. Abbondò con la porzione assicurandosi che il gomitolo di pasta fosse ben infarcito di patate e fagiolini; pulì gli schizzi di pesto che avevano macchiato i bordi del piatto, come aveva imparato da Angelo; depose al centro un largo bocciolo di basilico; e tornò da Bruno inseguita da una vaporosa scia di fumo che profumava di pecorino fresco e di pinoli tritati.

«Eccoci.» Posò il piatto sulla tovaglietta. Rinnovò il sorriso, «Buon appetito», e tornò dietro il bancone per sciacquare qualche posata, asciugare i bicchieri appena puliti, e per godersi la scena da una prospettiva poco invadente.

Bruno avvicinò la sedia al tavolo, allungò la punta del naso verso il fumo che evaporava dal piatto di pasta, e increspò la fronte in un’espressione ancora ombreggiata dal dubbio. Le spalle strette e i pugni serrati sulle ginocchia. Flesse il capo, socchiuse gli occhi, annusò ancora, e i tratti del suo volto si rilassarono. Attraversato da quella singola crepa, la sua corazza di difese si sbriciolò, la penombra che lo circondava si schiarì, e a Valentina sembrò quasi di percepire i battiti del suo cuore accelerare e scaldargli il petto.

Bruno raccolse la forchetta, affondò la posata nelle trenette, arrotolò, accostò il boccone alle labbra, diede un piccolo assaggio e masticò piano.

Si bloccò. Masticò ancora un po’, e i suoi occhi si accesero come stelle.

L’immaginazione scaturita dalla gioia di Valentina assemblò un’altra serie di immagini: nuvolette di cuoricini scoppiettarono attorno a Bruno, un coro angelico intonò una melodia di archi e flauti, il profumo del pesto si condensò in una cascata di freschi fiorellini di basilico che gli piovvero sulle spalle e fra i capelli.

Dopo essersi pizzicato il labbro fra i denti, forse per contenere un sorrisino inaspettato, Bruno mangiò con gusto e spazzolò l’intero piatto in meno di un minuto. Spezzò poi una fetta di pane e raschiò il fondo con la mollica, divorando anche quella in soli due bocconi.

Valentina accostò alla bocca una mano gocciolante di acqua e sapone. Ridacchiò con soddisfazione, fiera e appagata come lo era stata il giorno prima, quando era riuscita a risolvere l’inghippo della pompa di benzina davanti al quale persino Eros si era arreso.

Si asciugò le mani e tornò al tavolo di Bruno. Il sorriso ampio e formicolante bucava le guance pizzicate da un piacevole rossore. «Già finite?» Raccolse il piatto su cui non era avanzata nemmeno una goccia di pesto o un pezzetto di patata. Finse un ansito di stupore, come se non avesse sbirciato nulla dell’abbuffata. «Caspita, le hai proprio polverizzate. O erano eccezionalmente buone oppure era la tua fame a essere eccezionale.»

Bruno picchiettò un angolo del tovagliolo sulla bocca. «Erano…» Nonostante il capo basso, i suoi occhi brillarono e le sue labbra tremolarono in un sorriso che donò tepore e sollievo a quel volto sempre così malinconico e distante. «Buone.» Posò il tovagliolo e tossicchiò, riguadagnando compostezza. Ma quella luce non si estinse, rimase a splendergli attorno come un’aureola celestiale. «Buone davvero. Era tanto tempo che non mangiavo così volentieri.»

«Sono contenta di sentirtelo dire.» E Valentina realizzò che forse era sempre stata quella la causa del suo malumore. Bruno non mangiava come si deve, ovvio, e uno stomaco vuoto avrebbe fatto immusonire chiunque. Ma ci penserò io a rimpinzarlo a dovere. «Te ne porto un altro piatto?»

«Grazie» rispose Bruno, «ma credo di essere a posto almeno fino a domani pomeriggio.» Finalmente alzò la testa. I riccioli gli scivolarono da davanti gli occhi. «Le hai cucinate tu?»

Valentina sussultò. Il cuore emise un singhiozzo, scosso dall’incontro con quello sguardo che le aveva preso lo stomaco, strizzandolo in un piacevole e caldo capogiro che le diede le vertigini. «Co-come?»

«Le trenette al pesto» disse Bruno. «Le hai cucinate tu?»

Valentina si riprese e scoppiò a ridere. «Oh, no.» Sventolò via quell’idea così assurda. «No, no, figuriamoci. Non mi lascerebbero mai avvicinare ai fornelli della cucina, combinerei un disastro dietro l’altro. Pensa che prima di essere assunta qui ho lavorato per un po’ di tempo alla panetteria del paese, ma ho rischiato di mandarla in fallimento a forza di pasticciare con gli impasti. Persino a casa la mamma mi tiene sempre d’occhio quando provo a cucinare qualcosa, anche se si tratta solo di dover mettere a bollire il latte, perché dice che sarei capace di dare fuoco anche al frigorifero.» Con uno scatto del mento accennò al piatto di trenette. «Però le trenette al pesto sono le mie preferite, e le nostre qui in osteria sono buonissime, quindi sapevo che ti sarebbero piaciute.»

Bruno scosse il capo. «Nemmeno io sono bravo a cucinare.» Si guardò attorno – le vecchie reti da pesca appese alla sua nicchia di penombra, i pochi paesani che occupavano i tavoli della sala, solo gli acquerelli con le scene di mare a tenergli compagnia – e si strofinò il braccio. «Non che abbia mai avuto bisogno di essere capace, sai, siccome mangio sempre negli ostelli e nelle osterie dove alloggio.»

«Che fortunato che sei» sospirò Valentina. «Mangiare fuori ogni giorno senza nemmeno preoccuparti di dover lavare i piatti o scrostare le padelle.»

«Fidati, non è emozionante come sembra.»

«Ma dev’essere emozionante lavorare sempre in posti diversi, ed esplorare tutto il Paese, e non avere confini, e sentirti sempre libero di andare – ah!» Valentina posò il vassoio e batté le mani, ricordandosi improvvisamente di qualcosa di importante. «A proposito, avete combinato con quell’affare della camionetta? Quello di cui hai discusso ieri con mio papà.»

Bruno inarcò un sopracciglio, arricciò un’espressione da cui trasparì la limpida voce di quel pensiero: e tu come fai a saperlo?

Valentina arrossì di botto, e questa volta non fu una bella sensazione. «S-scusa» tossicchiò. «Forse io…» Bruciando di imbarazzo, fu lei a gettare lo sguardo al pavimento. «Ehm, forse ho ascoltato un po’ della vostra conversazione prima di, ehm, sbucare fuori in officina. Dunque, è risolto?»

Chiarita la cosa, il viso di Bruno tornò a distendersi, facendo sbiadire quell’ombra di turbamento. «Mhm.» Si strofinò la nuca. «Sì e no. Tuo padre ci ha aiutato a far funzionare quella che avevamo già. Ma ha ragione lui: forse sarà il caso di farne arrivare altre, perché solo con due camioncini sarà difficile accelerare i lavori, soprattutto se dobbiamo dividerli fra il porto e la piazza. Però c’è sempre il problema della mancanza di persone in grado di guidare mezzi del genere.» Incrociò le braccia sul tavolo, fece tamburellare le dita. Sospirò. «Eros ci ha visto giusto, mi sa. Ci vorrà ben più di un’estate per portare a termine la ricostruzione della chiesa

Il sorriso di Valentina splendette come il sole e scaldò allo stesso modo. «Allora anche voi rimarrete qui a Portorosso ben più a lungo del termine della stagione.»

Bruno socchiuse le palpebre, ma fra le sue labbra sbocciò la virgola di un sorriso accattivato che scivolò su Valentina con la delicatezza di una piuma, dolce e timido come il primo fiore primaverile che sguscia fuori dalla crosta di neve e ghiaccio.

Valentina, di nuovo catturata dall’amo di quello sguardo, sentì il petto colmarsi di un formicolio bruciante che la emozionò e la confuse. Prese a giocherellare con la collanina, ad annodarla attorno all’indice e a grattare le unghie sulla chiavetta. «Sc… scusami, non intendevo…» Si morsicò il labbro. «Stavo solo cercando di…» Succhiò un lungo respiro dalle narici. «Non volevo essere invadente, sul serio, è solo che credo che io e te siamo partiti con il piede sbagliato, e pensavo che sarebbe un peccato che ci tenessimo il muso per tutto il resto dell’estate, dato che tu ti fermerai qui per tutta la stagione. Volevo solo metterti a tuo agio, poi però mi sono anche resa conto che è la prima volta che ci parliamo civilmente, ed è strano perché in realtà non ci siamo nemmeno mai ufficialmente presentati, anche se ormai è già da un po’ che…»

Calma, Tina, si disse, a corto di fiato. Respira. Non c’è bisogno di agitarsi. Sii naturale. Sii te stessa.

Riguadagnato il controllo della sua lingua e del suo respiro, Valentina allungò la mano e si presentò a sguardo aperto. «Valentina Milani.» Una spolverata di rosa le tinse le guance maculate dalle lentiggini di stagione. «Puoi chiamarmi anche “Vale”, se ti è più comodo, ma qui in paese tutti mi hanno sempre chiamato “Tina”.»

Bruno batté le palpebre, esitò, guardò la mano di Valentina con curiosità e sospetto, lo stesso modo con cui aveva scrutato il piatto di trenette quando gli era apparso sotto il naso. E, proprio come quando si era ammorbidito grazie al caldo profumo di pesto al basilico, le sue labbra si incurvarono in un minuscolo sorriso, i suoi occhi si lasciarono carezzare dalla luce, e le grinze della sua fronte si rilassarono.

Accettò il gesto e avvolse la mano di Valentina nella sua – una mano nodosa, sottile e scura, indurita da una miriade di calli, da un guanto di cerotti che gli fasciavano le cicatrici più fresche. «Bruno Scorfano.»

Nonostante lo sforzo di contenersi, Valentina non poté fare a meno di spernacchiare una risata da citrulla.

Bruno corrugò un sopracciglio. «Perché ridi?»

Valentina, ancora aggrappata a quella mano così inaspettatamente calda, venne scossa da qualche altro singhiozzo di risa che le accese gli zigomi di rosso. «Scorfano?» Si coprì la bocca, singhiozzò con voce da monella. «Come il pesce? Quello tutto bitorzoluto che sembra uno scoglio?»

«Dove sarebbe il problema?»

«Ma dai, non può essere quello il tuo vero cognome.»

«Ti assicuro che non ne ho altri.»

«Ma non ho mai sentito di qualcuno che…» Valentina sfilò la mano da quella di Bruno e si avvolse le guance, fulminata da un lampo di genio. «Ooh, ho capito.» Spostò la brocca dell’acqua, si piegò sul tavolo in modo da avere il viso di Bruno proprio di fronte a lei, e accostò una mano alle labbra come se fosse in procinto di bisbigliare il più oscuro dei segreti. «Non è che è una specie di nome in codice? Come quelli che usavano i partigiani?» Il suo cuore fremette di eccitazione, il sorriso le bruciò le guance. «Sei una specie di spia che si sta ancora nascondendo e che non ha mai rinunciato alla sua identità segreta?»

Bruno torse l’altro sopracciglio, allibito, come se non fosse in possesso della risposta giusta, come se si stesse domandando se Valentina gli stesse parlando seriamente. Poi però rise anche lui – una risata più flebile e discreta rispetto a quella di Valentina – e si posò l’indice sulle labbra. «Ma non dirlo a nessuno, mi raccomando.»

Valentina scoppiò a ridere senza ritegno, senza alcun desiderio di contenersi. E infatti qualche pescatore si girò dagli altri tavoli. Fra di loro commentarono a bassa voce la scena, si scambiarono mormorii, qualche occhiata di disapprovazione, e tornarono alle loro bevute e alla successiva mano di carte.

Bruno se ne accorse, e l’incantesimo evocato dalla risata di Valentina si spezzò. La luce che per quel breve attimo era brillata nei suoi occhi si spense. Lo accerchiò un’ombra di disagio e malessere, e le sue spalle ossute si rattrappirono in un guscio protettivo. «Be’» tossicchiò. «Ti ringrazio per la cena.» Si alzò dalla seggiola e si rimboccò una spallina cadente della camicia troppo larga. «Prenderò più spesso le trenette, se saranno sempre così buone.»

Valentina ammiccò con le sopracciglia. «E se sarò io a servirtele?»

«Questo era scontato.» Bruno compì un piccolo inchino col capo, lo stesso cenno che le aveva rivolto il giorno prima, quando si erano salutati nel garage di Eros. «Buonanotte, Valentina-detta-Tina.» Attraversò in silenzio la sala da pranzo, imboccò le scale e sparì al piano di sopra, volatilizzandosi assieme al soffice tonfo dei suoi passi.

Valentina tenne gli occhi addosso a Bruno fino a che anche l’ultima traccia della sua ombra non abbandonò la sala.

Il sorriso da ebete a tremolarle sulle labbra, le guance paonazze, gli occhi luccicanti e storditi da quell’improvvisa e inaspettata botta di felicità che ancora le ronzava attorno come l’eco di quella risata così aperta e spontanea che le era brillata addosso come una pioggia di stelle cadenti.

Era da tanto che non si sentiva così libera di chiacchierare apertamente con qualcuno che non fosse Sara o Massimo, senza il timore di risultare troppo chiassosa o invadente, di essere zittita o scacciata.

Ma dagli altri tavoli persistettero quegli sguardi di disapprovazione, un vociare amareggiato che la strappò al suo bel sogno. «Ahi, ahi, ahi, Tina…» Tommaso buttò una carta dal suo mazzo. «Si può sapere cosa combini, ragazza mia? Con tutti i bravi ragazzi che ci sono qua a Portorosso…» Accennò alla rampa di scale. «Ti metti a fare il filo proprio a uno come lui?»

Valentina corrugò la fronte. La pioggia di stelle cadenti si dissolse, il rossore sbiadì dalle sue guance, e un freddo pugno di rabbia le strinse il battito del cuore. «Uno come lui?» Non volle nemmeno sapere a cosa si stesse riferendo. «Non so proprio di cosa stiate parlando.» Raccolse il piatto e le posate sporche, portò tutto a lavare dietro il bancone. «Io non sto facendo il filo a nessuno, chiaro? Sto solo chiacchierando un po’.»

«Con lui

«Sì, con lui.» Valentina strinse una mano sul fianco, dandosi un tono. «Perché? Cos’ha che non va? È gentile ed educato. E pure spiritoso.»

Matteo, che stava giocando assieme a Tommaso, gracchiò una risata sarcastica. «Sì, e ti dico anche un’altra cosa che è.»

Valentina trattenne il fiato e irrigidì. Già sapeva dove sarebbero andati a parare. «Che cosa?»

«Ooh, ma lo sai.» Matteo si guardò attorno da dietro il suo mazzo di carte, occhi socchiusi e cauti, e indicò verso il basso. «Che Bruno è di giù.»

Valentina si morse il labbro. La sua vocina stridette in un tono da finta tonta. «Di giù?»

«Dai, Tina.» Ora persino Matteo sembrò stupirsi della sua ottusità. «Non dirmi che non hai ancora capito che Bruno è un terrone.»

«Terrone lui?» Valentina non poté negare a se stessa di averlo pensato. Che sia per quello che ha un cognome così strano? Scorfano. Se l’è inventato per non rendere palese quello vero che sarà qualcosa come Esposito, Pappalardo o Mancuso? «Ma è impossibile.» Il suo fu un tono di protesta. «Non ha… non sembra per niente del Sud.» Be’, un po’ sì, in effetti. Un po’ tanto. Ma a parte il suo aspetto non c’è nient’altro che mi dà quell’impressione. «È così riservato, rispettoso e discreto. E poi non ha nessun accento strano.»

Tommaso si strinse nelle spalle. «Avranno imparato a nasconderlo, per camuffarsi meglio.»

Valentina scosse il capo e sventolò una ciocca di capelli dietro la spalla. «Sono tutte sciocchezze.»

«Anche se lo fossero, ti consiglio lo stesso di non pensare nemmeno di affezionarti a uno come lui.» Dallo sguardo di Tommaso trasparì un coinvolgimento sincero, un’espressione paterna e protettiva. «È uno stagionale, Tina. A lavoro finito lui se ne andrà da Portorosso e tu ti ritroverai con in mano solo un pugno di mosche e un cuore spezzato. Sei una brava e cara ragazza. Meriti di più di così.»

A quel commento Valentina si infuriò per davvero. Tremò di rabbia sentendo le orecchie fischiare, le tempie bruciare, i pugni andare a fuoco e i capelli sfrigolare. Ma chi si credono di essere per pensare di sapere cos’è meglio per me? «Io non mi sto affezionando a nessuno, chiaro?» Aprì il getto del lavello, sfilò lo strofinaccio dal grembiule e lo sbatacchiò sul bancone sporco. «Sto solo facendo amicizia, tutto qua.»

Gli altri pescatori le risero dietro. «Amicizia fra maschi e femmine? Ah!» Scossero la testa. Condivisero gli stessi sospiri e gli stessi sguardi sconsolati. «Fra tutte le balle che ho sentito in giro…» E continuarono a sbevazzare e a giocare a carte senza più curarsi troppo di quello appena discusso.

Ma Valentina se ne curò eccome. Proprio non sopportava che fossero gli altri a dirle cosa poteva fare o meno, soprattutto quando si trattava delle sue amicizie. E non aveva di certo intenzione di rinunciare a qualche momento di gioia e spensieratezza solo per fare un favore a quel branco di vecchiacci.

Ficcò le mani nell’acqua insaponata del lavello e, rimestando le posate sporche, grattando la spugna sui piatti incrostati, aguzzò un ghigno cominciando a pensare a quanto avrebbe potuto essere divertente impepare l’atmosfera di Portorosso con qualche scandalo. Solo perché era bello infrangere le regole.

Dopotutto, nuotare controcorrente era la sua specialità.

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Capitolo 9
*** Brava la vecchia – Atto I ***


N.d.A. 

Naturalmente, la vecchia misteriosa che compare all’inizio del capitolo è la nonna di Luca. Lei stessa ha ammesso di recarsi spesso a Portorosso nei weekend per giocare a carte… e vogliamo forse contraddirla? (u.u)


 

Brava la vecchia – Atto I

 

 

Nella sala da pranzo del Gabbiano d’Argento regnava un silenzio solenne e rispettoso, di quelli che non si udivano nemmeno in chiesa durante le prediche della domenica.

Sotto il bancone, dal piccolo frigorifero vibrava un ronzio lungo e insistente che, seppur basso e sottile, punzecchiava quel silenzio come un ago. Il lavello perdeva, e il gocciolare dell’acqua – plic, plic, plic – ticchettava sui piatti sporchi abbandonati uno sull’altro, dato che in quel momento c’erano faccende ben più urgenti da sbrigare rispetto al risciacquo delle stoviglie.

Uno dei gattini randagi che abitavano la strada si arrampicò fino al davanzale di una delle finestre lasciate aperte. Si affacciò all’interno della locanda, annusò l’aria intiepidita dal profumo della cena appena consumata, rizzò la coda e inarcò la schiena passando sotto le tendine, sperando di attirare l’attenzione degli ospiti che di solito riservavano a lui e ai suoi amici gli avanzi della giornata o qualche scodella di latte. Il micio fece su e giù un paio di volte lungo il davanzale. Tornò a infilarsi sotto la tendina, arricciò le vibrisse, e fece vibrare un canto di fusa che gli gonfiò la pelliccia. Gli occhietti socchiusi e fiammeggianti rivolti al gruppetto di uomini tutti radunati attorno a un unico tavolo. Occhietti oltraggiati di non trovarsi al centro dell’attenzione. Ma, per quella sera, il gattino avrebbe dovuto arrendersi al fatto di non essere il fenomeno più interessante di cui erano testimoni le quattro pareti dell’osteria.

Sul piatto del giradischi stava suonando il Gianni Schicchi. Un canto triste, lungo e lamentoso, anche se fin troppo melodrammatico. Si era infatti giunti all’atto in cui i Donati inveivano l’uno contro l’altro, piangevano l’eredità mancata, maledivano il defunto Buoso per averli lasciati a tasche vuote riempiendo invece di quattrini le tonache dei frati.

 

Ah! comprendo il dolor di tanta perdita… ne ho l’anima commossa...

 

Ma nemmeno questa era la cosa più interessante.

Un gruppetto di giovani stagionali aveva occupato il tavolo dove il vecchio Sergio, ogni sabato, si accomodava per concedersi il grappino del fine settimana. Di solito gli veniva offerto da tutti coloro che amavano circondarlo – soprattutto i forestieri, o i ragazzi più svampiti e curiosi – per farsi raccontare una storiella delle sue, e magari guadagnare qualche grassa risata scaturita dalla valanga di assurdità sparate a raffica dalla sua bocca impastata di alcol. Tuttavia, ora anche il tavolo del vecchio Sergio rispettava quel comune silenzio, perché quella sera nemmeno le sue avventure di mare erano la cosa più interessante.

Gli occhi di tutti i presenti puntavano un tavolo isolato dalla luce soffusa che, cadendo a cono dal lampadario, creava un effetto trascendentale nella penombra, come un riflettore da palcoscenico.

Nessuno fiatava. Qualcuno si spostò per godere di una visuale migliore o di una diversa prospettiva. Uno degli spettatori si allungò in avanti – lo scricchiolio delle suole premette sulle assi del pavimento – per sbirciare le mani di carte, per cogliere ogni battito di ciglia dei due contendenti, ogni sfrecciata scaturita dai loro occhi, il minimo tamburellare delle dita, qualsiasi ruga di concentrazione increspata fra le sopracciglia della Vecchia e tutte le goccioline di sudore che scendevano a solcare la fronte del povero Michele. Perché era quella la cosa più interessante, quella sera.

Il povero Michele allentò il bavero della camicia e deglutì. Strinse le palpebre, fissò le sue carte, poi il mazzo striminzito delle sue vincite, e infine il piatto scoperto che giaceva sul tavolo maculato dalle chiazze di vino rappreso.

Un Cinque, un Tre e un Asso.

Si strofinò il mento, attraversò con una manata le guance ispide di barba, tamburellò le dita sudaticce sul legno del tavolo e, paonazzo in volto, soffiò un lungo sospiro spostando di nuovo lo sguardo umettato di ansia dal suo mazzo alle carte illuminate dal cono di luce che cadeva fra lui e la Vecchia.

Qualcuno, lacerando una crepa nel silenzio generale, si girò per starnutire.

Quelli più vicini a lui lo linciarono con occhiatacce sbieche, altri allungarono gli indici davanti alle labbra, «Ssh!», e il poveretto fu costretto a tirare su le mani e a ingoiare lo starnuto successivo.

Bruno era confuso. Si sporse dalla sua seggiola per orientarsi nel silenzio, compatì il poveretto che era stato zittito per quell’unico starnuto, andò in cerca di una spiegazione negli sguardi di Valentina, Sara e Massimo che sedevano al suo stesso tavolo. Anche loro si erano fatti circondare da quell’atmosfera di raccolta in cui gli occhi di tutti brillavano della stessa luce di attesa, ansia e aspettativa.

Bruno si accostò alla spalla di Valentina per mormorarle: «Ma fate sempre così quando si gioca a…»

«Ssh.» Valentina sollevò l’indice ma non distolse gli occhi dalla scena, dalle carte che ormai, escluse quelle in mano e sul piatto, erano state tutte divorate e divise nei mazzetti che affiancavano i gomiti dei due avversari. «Questo è il momento decisivo.»

Bruno aggrottò un sopracciglio. Si grattò dietro l’orecchio, continuando a non capire. «Momento decisivo per cos…»

«Ssh!» Valentina gli posò l’indice sulle labbra. «Silenzio, Bruno.» Un ghigno le accese lo sguardo e le affilò il tono di voce. «Ora vedrai.»

Bruno trattenne il fiato bloccato dall’indice di Valentina e non poté fare a meno di constatare che avesse un profumo dolce, l’aroma dei cantucci alle mandorle che avevano sgranocchiato tutti e quattro dopo cena. Andò di nuovo in cerca degli sguardi di Massimo e Sara, ma niente, nessun appoggio, perché anche loro avevano occhi solo per la partita di carte. Così scosse il capo, arrendendosi, e allungò il collo per guardare meglio attraverso la luce del lampadario e godersi lo spettacolo come tutti gli altri.

Uno dei pescatori che monitoravano la partita si fece largo fra le spalle di due compari, sbirciò prima una mano e poi l’altra, si morsicò il labbro e accostò le nocche alla bocca per contenere un digrigno di anticipazione.

Quello che gli stava affianco gli mormorò qualcosa all’orecchio, si strofinò le mani sui pantaloni e tamburellò il piede a terra, impaziente quanto lui.

La Vecchia era l’unica anima in tutta l’osteria che non sembrava nemmeno sfiorata da quei bisbigli, da quegli ansiti di attesa, e da quei brividi di fuoco scoppiettati dagli sguardi di tutti.

Sorrise da dietro l’orlo del suo bicchiere di vino, bevve un sorso di rosso, fece oscillare quel che avanzava, e rivolse uno sguardo mellifluo e carezzevole al povero Michele. Il vino era dolce quasi quanto la vittoria che presto avrebbe consumato fra le sue mani. «Sto aspettando.»

Michele digrignò e strinse le dita tremanti sul mazzo di carte. «Un momento.» I tremori del suo ginocchio accelerarono, il rosso delle sue guance si dilatò fino alle orecchie.

La Vecchia chiocciò una risatina divertita e si pettinò dietro l’orecchio un boccolo di capelli grigi. «Vuoi forse farmi diventare più vecchia di quello che già sono?»

Michele risucchiò un aspro respiro fra i denti. «Un. Momento.» Passò il mazzo di carte da una mano all’altra, le abbassò, adocchiò quelle posate sul tavolo, e tornò a restringere lo sguardo sulle sue. «Poi non vale mettermi fretta. Non abbiamo mai stabilito un limite di tempo fra una mossa e l’altra.»

La Vecchia fece spallucce. «Vero.» Il sorriso sempre lì, a rilassarle un’espressione di totale appagamento. «Ma più tempo stai lì imbambolato a pensare e più io ho tempo di pianificare la mia prossima mossa.» Reclinò le spalle sullo schienale della seggiola e si fece aria con le carte, come una gran dama che si rinfresca con il suo ventaglio di piume di struzzo. «O la mia vincita, se proprio vogliamo essere precisi.»

Qualcuno fra gli spettatori rise.

Michele masticò un gorgoglio a denti serrati. Sudò freddo. Il colorito della sua faccia, da rosso, sbiadì assumendo una tinta giallognola e malaticcia. A fiato sospeso, pinzò fra pollice e indice una carta del suo mazzo.

Alle sue spalle, qualcuno tossì. Michele tirò via la mano dalla carta come se avesse sfiorato un ferro rovente. A quello che aveva tossito arrivò uno sberlotto sulla nuca.

«Non suggerire.»

«Non stavo suggere…»

«Ssh!»

Michele, dopo aver raccolto un lungo respiro di incoraggiamento, buttò giù una carta, un Nove, senza però guadagnare niente dal piatto.

La Vecchia sollevò le sopracciglia davanti a quella mossa, per nulla allarmata. Nemmeno una ruga fuori posto. Sfilò un Fante dal suo mazzo e fece scivolare la carta sul tavolo.

Uno dei pescatori che era in piedi alle sue spalle strinse la mano che aveva avvolto attorno al mento, in quella posa contemplativa, e strabuzzò le palpebre. «Ha buttato il Fante?» Diede una spallata al suo vicino e gli rivolse quello sguardo d’allarme. «E glielo lascia mangiare così?»

Anche lui scosse la testa. Gli occhi allucinati. «È pazza.»

Il più anziano fra di loro si fece sfuggire un ansito di stupore, realizzando per primo. «No…»

Michele cascò nella trappola. Buttò un Due, mangiò il Fante, e la sua mossa accese un sorriso furbo e smagliante fra le sottili labbra della Vecchia.

Anticipando l’ultima mossa, gli spettatori strinsero il cerchio attorno al tavolo, allungarono gli sguardi appendendosi alle spalle di chi stava loro affianco, e giunsero tutti alla medesima conclusione.

«… è un genio!»

La Vecchia buttò la sua carta rimanente, anche quello un Due, e si mangiò tutto quello che era avanzato nel piatto. «Tre, Due e fanno Cinque.» Batté il piccolo mazzo sul dorso, per pareggiare le carte appena guadagnate, «E Scopa per me», e chiuse la partita evocando il clamore di tutta l’osteria, compreso il tavolo dove erano seduti Valentina, Bruno, Sara e Massimo.

Qualcuno esultò e batté le mani, qualcun altro si girò a sgomitare il vicino, «Te l’avevo detto che era già vinta dall’inizio», altri invece compiansero il povero Michele che si era accasciato fino a toccare il tavolo con la fronte.

Il sorriso della Vecchia si distese in una rosea espressione di orgoglio e soddisfazione. «Una delle mie vittorie migliori, lo ammetto.» Fece scorrere le dita sul dorso del suo mazzo di carte mangiate, grosso il doppio rispetto a quello dell’avversario, e strizzò l’occhiolino a Michele. «Direi che non occorre contare i punteggi per capire chi ha vinto, o no? Non credo che quel Settebello ti sia bastato per raggiungermi.»

Michele masticò un’imprecazione gorgogliante, senza ancora riuscire a sollevare la faccia dal tavolo.

Gli altri lo consolarono. Sfilarono a turno per battergli pacche di solidarietà sulla schiena. «Su, su, non te la prendere.»

«Si vede che non era la tua serata.»

Michele strizzò le mani fra i capelli, ingoiando un rantolo. «È da tre settimane di fila che non è la mia serata.»

«Non è colpa tua.» L’ultimo che si era chinato a consolarlo lanciò alla Vecchia uno sguardo che serbava una luce sia di ammirazione sia di rispetto e timore. «È lei che è fin troppo irraggiungibile.»

E intanto le note del Gianni Schicchi, ora più alte e aggressive, tornarono a cantare e a mescolarsi agli schiamazzi dei pescatori.

 

Brava la vecchia, brava! Vecchia taccagna! Stillina! Sordida! Spilorcia! Gretta!

 

Michele finalmente alzò la faccia dal tavolo. Un Cinque di Coppe gli era rimasto incollato alla fronte. «Ecco, sentito?» Nero in viso, sventolò la mano verso il giradischi. «Anche lui lo dice. Brava la vecchia!»

La Vecchia accostò la seggiola sotto il tavolo. Si acconciò i capelli attorno all’orecchio, tutta orgogliosa e impettita. «Sarò anche brava e vecchia, ma non sono di certo taccagna.» Sfilò una monetina dalla tasca della gonna e andò a lanciarla nel posacenere vuoto posto sul bancone, pagando il suo bicchiere di vino rosso, sempre il solito. Rimboccò lo scialle allacciato attorno alle spalle, perché il fresco della sera cominciava a sibilare dalle finestre aperte, e andò a sprimacciare un buffetto sulla guancia di Michele. «Ci vediamo sabato prossimo» annunciò facendosi sentire da tutti i presenti. «Sempre se voi ometti avrete abbastanza fegato da prendere le carte in mano e da sedervi davanti a me.»

Qualcuno se la rise, «La prossima volta il vino glielo offro io», qualcun altro tornò a consolare il povero Michele, «Ti vendicherò io, te lo prometto».

«Nemmeno per sogno.» Uno dei pescatori, quello che si era mangiato le unghie per tutta la durata della partita a Scopa, si batté il pollice sul petto. «La prossima partita spetta a me, sono io quello che si merita la prima rivincita.»

«Facciamo prima ad aspettare che si prosciughi l’oceano, allora.»

Fra risate e borbottii, i pescatori e i braccianti si sparpagliarono, alcuni tornarono ai loro tavoli per finire di cenare, chiamarono Angelo per farsi portare un caffè o un altro giro di vino, altri invece si infilarono i berretti e salutarono, imboccarono l’uscita irradiata dalle ultime calde e violacee luci della sera, oppure salirono le scale per coricarsi in camera da letto.

Valentina, dopo essersi sporta dal tavolo per non farsi sfuggire quell’ultima micidiale mossa con cui la Vecchia si era aggiudicata la vittoria, si lasciò ricadere sulla seggiola. «Incredibile» sospirò, ammirata e strabiliata. «Non ne perde una. Chissà come fa.»

Sara si strinse nelle spalle. «Deve essere una specie di creatura sovrumana, o una cosa così.» Pescò una manciata di pistacchi dalla ciotola. Ne sbucciò alcuni distribuendoli fra lei e Massimo. «La prossima volta mi porto dietro l’album, così le faccio un ritratto mentre gioca.» Si fece saltare in bocca un pistacchio e, sgranocchiandolo, fece scivolare lo sguardo verso il profilo della Vecchia, verso lo sventolio dello scialle che creava una scia dietro il suo passo incalzante. «Le viene uno sguardo così intenso e profondo da fare invidia a un quadro di Botticelli.»

Uscendo dall’osteria, la Vecchia sorpassò anche il loro tavolo. Distrattamente, forse per caso, posò gli occhi su Bruno e venne colta da una piccola scintilla di luce, il guizzo di un’esitazione che per quell’istante le fece cadere il sorriso dalle labbra. Non ci mise troppo a riguadagnarlo, ad assottigliare le ciglia in quel furbo sguardo felino.

La Vecchia si lisciò una frangia dello scialle, strizzò l’occhiolino a Bruno, strappandogli un sussulto dalle labbra, e uscì dal Gabbiano inseguita dal gattino che era saltato giù dal davanzale per zampettarle dietro.

Bruno sgranò gli occhi. Irrigidì le spalle e s’impietrì, spiazzato davanti a quel gesto che lo aveva punto come un pizzicotto. «Chi…» Piegò un braccio sullo schienale e ruotò il busto per guardare la Vecchia andare via. «Chi era quella donna?»

Valentina scosse la testa senza però essersi accorta di quello scambio avvenuto fra la Vecchia e Bruno. «Oh, nessuno sa chi è, in realtà.» Allungò la mano verso la ciotola di pistacchi, agitò le dita senza toccarli, e puntò invece al piattino di cantucci che aveva servito per tutti e quattro assieme alla brocca di cedrata fresca. «Non vive qui in paese, e si presenta a Portorosso solo di sabato o di domenica.» Si ficcò due biscotti in bocca e, masticando a guance gonfie, arrochì la voce in un tono cupo e tenebroso. «Tipo i lupi mannari che vengono fuori solo con la Luna piena.» Pescò un terzo cantuccio e divorò pure quello, senza nemmeno aver ingoiato il boccone precedente.

Sara increspò le punte delle sopracciglia, squadrò Bruno con attenzione. Lei invece si era accorta eccome degli sguardi che si erano incrociati fra i due. «Non la conoscevi?»

Bruno scosse la testa, «No», incapace di scollare gli occhi dalla finestra socchiusa, riempita solo dalla luce del tramonto che sfumava sulle mura delle case vicine.

Valentina parlò con la bocca piena. «Come fa a conoscerla…» Si premette la mano sulle labbra per non sputazzare le briciole. «Se anche Bruno viene da fuori?»

«Lo so» disse Sara. «È solo che mi è sembrato…» Si grattò la nuca, arricciò il naso in una smorfia. «Mi è sembrato che ti avesse guardato in modo diverso. Come se ti conoscesse già.»

Pure Massimo si girò in direzione della finestra, come andando in cerca di una conferma. Ma la Vecchia si era ormai volatilizzata. Un’ombra scivolata nella sera, un sospiro di vento che fa ritorno al mare.

Bruno invece guardò in basso, si specchiò nel suo bicchiere di cedrata, tamburellò le dita sul vetro. «Le avrò ricordato qualcuno che conosce.»

«Già.» Sara, ancora impensierita, si massaggiò il mento e si batté l’indice sulle labbra. «O magari vi siete incontrati di sfuggita fuori Portorosso, dato che tu viaggi di continuo e che…» Scosse il capo facendo dondolare i riccioli sulle spalle. Sventolò via la questione che non era poi così importante. «Non fa niente, lascia stare. Era solo una mia impressione, tutto qui.»

«Oh» sospirò Valentina, «ma le tue impressioni di solito ci azzeccano sempre, Saretta.» Si succhiò le briciole dalle dita. «E il mistero della vecchia visitatrice è l’unico che non sei ancora riuscita a sgarbugliare.»

«Non è che ci sia poi molto da sgarbugliare o da svelare.» Sara pestò un pugno su una coppia di pistacchi, ne frantumò i gusci. «Lei viene qui, ordina da bere, si siede e gioca.»

«Ti sbagli» la corresse Massimo. «Lei non viene qui a giocare.» Accettò uno dei pistacchi sbucciati da Sara, lo sgranocchiò sotto i baffi. «Lei viene qui a vincere. C’è chi ha cominciato a chiamarla la Vecchia Cesara, perché è proprio come Giulio Cesare. Viene, vede, e vince.»

Valentina scoppiò a ridere. «Chissà se si chiama davvero così? Come Giulio Cesare. Cesara, Cesarina…» Fece spallucce. «Giulia.»

A Sara brillarono gli occhi. Mollò i gusci di pistacchi appena sbucciati e alzò lo sguardo sognante al soffitto, come se avesse appena pescato un’idea sensazionale dalle nuvole. «Giulia, eh?»

Valentina finì di riempirsi il bicchiere di cedrata. Ammiccò verso l’amica. «A che pensi, Saretta?» Le diede una spallata. «Un’altra idea delle tue? Rendici partecipi, dai.»

«Cosa?» Sara sbatacchiò le palpebre e scese dalle nuvole. «N-no, è solo…» Si strofinò i capelli, e un piccolo sorrisino imbarazzato le imporporò le guance. «Stavo solo pensando che forse stiamo annoiando un po’ troppo il povero Bruno con tutte queste sciocche chiacchiere di paese. Lui che avrà visitato così tanti posti e che avrà così tanto da raccontare rispetto a noi…»

Bruno scosse il capo. «Mi piace stare ad ascoltarvi.» Fece oscillare il suo bicchiere di cedrata, senza però berne neanche un sorso, e scostò con una rapida manata i riccioli che gli erano caduti davanti agli occhi. «Le vostre vite sono sicuramente più interessanti della mia.»

«Naaah.» Valentina gli scaricò una poderosa pacca fra le ossa delle scapole, facendolo sobbalzare. «E chi ci crede? Vedrai che fra una settimana avrai già cambiato idea. Portorosso è una tale palla.»

Sara le lanciò un cipiglio di rimprovero. «Tina!» Incassò la sua linguaccia a cui rispose con una sconsolata alzata di occhi. Radunò i gusci di pistacchi per tenersi impegnata ed evitare così di attaccare briga. «Non darle retta, Bruno. Ultimamente sta attraversando una brutta crisi esistenziale.»

Valentina accostò le labbra al suo bicchiere e, scura in viso, gorgogliò un borbottio a pelo della cedrata. «Una cosa, scusa?»

«Ma davvero, Bruno, come ti trovi qui a Portorosso?» Sara gli sorrise e intrecciò le mani sotto il mento. «È un bel paesino, non è vero? Quando finiranno di ricostruire la chiesetta poi sarà ancora più bello. Forse non è tanto movimentato, ma ti assicuro che siamo brava gente.»

Bruno flesse verso l’alto gli angoli della bocca. Il suo sguardo si addolcì, toccato da quel sorriso timido ma sincero. «Su questo non ho dubbi.» Si pettinò un altro ricciolo lontano dagli occhi e si guardò attorno – le pareti dell’osteria decorate dai quadretti di pesca, dai paralumi a forma di conchiglia, e dalle reti a cui erano incollate le stelle marine essiccate. «Mi trovo bene, sì. Mi piace lavorare qui.»

Valentina flesse il capo di lato, il nastrino sciupato le cadde davanti alle ciglia sfarfallanti. «Potresti fermarti anche più a lungo del termine della stagione, allora.»

«Ecco…»

«Però tu fai parte delle squadre che lavorano alla piazza, vero?» gli domandò Sara. «Non lavori al porto assieme a Massimo.»

Massimo bevve un sorso della sua cedrata. «Ma dimentichi che il mio non è un lavoro da stagionale.»

«Aah…» Valentina, scoraggiata, si accasciò di petto sul tavolo. «Che peccato.» Soffiò via il nastrino dal naso. Ritrovò il sorriso e lo rivolse a Massimo. «E noi che credevamo di aver finalmente trovato qualcuno che avesse qualcosa da condividere con te, Massimo. Qualcuno con cui parlare di pesci, di barche, o di robe così. Ogni tanto mi sembra un po’ ingiusto, sai, perché quando usciamo tutti e tre assieme di solito siamo sempre io e Saretta a far andare avanti la conversazione. Sai, Bruno…» Si sporse su di lui, spalla contro spalla, e nascose un bisbiglio dietro la mano, come in procinto di rivelare un grande segreto. «Ti dico una cosa che potrà sembrarti sconvolgente, ma io una volta che attacco a parlare non la finisco più.»

Bruno sollevò le sopracciglia. «Sul serio?» Prese un sorso dalla sua cedrata e, tossicchiando, camuffò un sorriso dietro il bordo del bicchiere. «Stento a crederlo.»

Massimo e Sara si scambiarono uno sguardo che ravvivò gli occhi di entrambi.

Sara si coprì la bocca e soppresse una risata spernacchiante, rossa in viso. «Non diamoci per vinte.» Toccò la spalla di Valentina con una soffice gomitata. «Magari in futuro Bruno e Massimo scopriranno di avere in comune qualcosa di inaspettato.»

Bruno e Massimo si guardarono di sbieco, entrambi silenziosi e riservati, e pure un po’ scettici, ma fra di loro successe qualcosa, si strofinò la scintilla di una piccola magia che nessuno dei due riuscì ancora a scorgere o a riconoscere nella sua natura. Qualcosa di inaspettato in comune. Senza saperlo, si ritrovarono già custodi di un futuro a cui non sapevano di appartenere, protettori di una piccola anima che si sarebbe legata a entrambi, che avrebbe donato alle loro vite la fiamma più preziosa, accendendo una luce che avrebbe colorato il loro mondo in un modo del tutto inaspettato.

«Forse è così.» Massimo posò il bicchiere di cedrata, ben presto dimenticandosi di quel commento. Sotto i suoi baffi sbocciò l’accenno di un sorriso. «Ma preferisco di gran lunga stare ad ascoltare voi ragazze piuttosto che le solite storie di pescatori che ormai conosco a memoria.»

«E a proposito di storie di pescatori che ormai conosciamo a memoria…» Valentina si riempì di nuovo le guance con tre cantucci alle mandorle, sgranocchiò il boccone, si succhiò le briciole dalle dita, e indicò il tavolo del vecchio Sergio. «Indovinate un po’ chi si è rimesso a blaterare una storiella delle sue?»

Tutti e quattro si girarono verso la direzione puntata dal suo indice.

La sala da pranzo si era acquietata, dopo la conclusione della partita a Scopa – niente più risate ed esulti, solo qualche occasionale scroscio d’acqua proveniente dal bancone, o il cigolio della porta della cucina che si apriva e si chiudeva. I pescatori rimasti all’osteria si erano distribuiti fra i tavoli, per svuotare le caraffe di vino o per mettere un punto alle chiacchiere che ora erano flebili e diradate come sussurri.

Anche le luci erano cambiate. Avevano spento il lampadario che era brillato sul tavolo della Vecchia come un riflettore, e fra le pareti galleggiava una luce calda e rossiccia che accentuava le ombre annidate fra le gambe delle seggiole e lungo la rampa delle scale. Avevano chiuso le finestre e sigillato fuori gli odori umidi e polverosi della strada. Il sole era calato in fretta e ormai il cielo era buio, tanto che non si distinguevano più le facciate delle case di fronte all’osteria.

Al tavolo del vecchio Sergio erano seduti tre degli stagionali giunti in paese assieme a Bruno. Erano forestieri, chiaro, perché ormai ogni abitante di Portorosso conosceva a menadito le storielle collezionate dalla memoria di Sergio. Ma quella sera anche i compaesani osservavano un rispettoso silenzio. Qualcuno, proprio come Valentina e gli altri, si era persino girato a tendere l’orecchio o a buttare uno sguardo da sopra la spalla, come alla ricerca di una nota sfuggevole, di un’immagine di diverso colore, di una sfumatura del racconto che non era stato in grado di cogliere la prima volta in cui l’aveva udito. O la seconda volta. O la terza. O la cinquantasettesima.

«… una nebbia bianca come il latte e densa come colla.» Il vecchio Sergio spalancò un gesto davanti a sé, come ad afferrare una manciata di quella nebbia e a dissolverla per scavarsi la strada nei meandri del ricordo. «Fitta da non riuscire a vedere nemmeno la punta del tuo naso. Battevo gli occhi e mi gocciolavano le ciglia. Robe che se allungavo la mano rischiavo di non trovarla più. Perduti, pensavamo.» Strinse il manico della caraffa fra le dita grinzose e macchiate di vecchiaia. Si riempì il bicchiere di vino rosso. «Siamo perduti, in queste condizioni. Non ci restava altro da fare che gettare l’ancora e aspettare che la nebbia calasse o che si alzasse un po’ di vento. Per la miseria,» sghignazzò, «persino navigare di notte senza Luna sarebbe stato più facile. Poi ormai avevamo già gettato le reti. Avremmo anche potuto riavvolgerle, ma avevamo paura persino a spostarci sulla plancia. Con tutta quella nebbia, un passo falso e finivi in acqua di sicuro. E chi ti trovava più, poi?» Sollevò il bicchiere, lo portò alle labbra. «Però a un certo punto…» Fermò la mano che teneva il bicchiere inclinato.

Non bevve. I suoi occhi si estraniarono, guardarono al di là delle pareti dell’osteria, al di là dei quadretti di pesca appesi fra i lampadari, al di là delle facce di chi gli sedeva vicino. I suoi erano occhi azzurri e collosi. Occhi di nebbia. La stessa nebbia del suo racconto, forse. Eppure vigili e presenti. Non erano di certo gli occhi di un pazzo.

Sergio inspirò dal naso – un sospiro che tremolò lungo le grinze della gola – e assaggiò un sorso del vino che si era appena versato. «Però ecco che a un certo punto si innalza un gorgoglio.» Strizzò le palpebre, fece schioccare la lingua fra i denti, gemendo disgustato, e posò il bicchiere. «Dapprima piano, come il brontolio di bolle che gorgogliano in fondo al mare.» Strusciò la mano sulla bocca diventata color prugna. «Siamo salvi.» Annuì più volte fissando il vuoto, tenendo lo sguardo proiettato su quella nebbia che vedeva solo lui. «Siamo salvi, ho pensato. Questi sono quelli del porto che stanno venendo a prenderci per riportarci a casa. Ma il gorgoglio aumentava e intanto nessuna barca sbucava dalla nebbia. La nostra barca, però…» Strinse la mano ancora aggrappata al bicchiere, e le unghie ingiallite stridettero sul vetro. «Quella ha cominciato a tremare. Prima la chiglia, poi tutte le assi della plancia, poi la transenna a cui ero aggrappato. Mi sono sentito quei tremori entrarmi dentro, prima dalle braccia, poi nelle ossa, poi piano piano a riempirmi tutto lo stomaco. Ecco, ecco, guarda…» Tirò su la manica della camicia e sporse il braccio tremante sotto gli occhi dei ragazzi che si erano allungati a guardare meglio. Sergio mise in mostra la pelle d’oca. «Guarda se non dico fesserie. Mi vengono ancora i peli dritti, se ci ripenso. E sono passati vent’anni.» Srotolò la manica e si diede una grattata alla stoffa. «Vent’anni! E quel gorgoglio, ah.» Parve non crederci nemmeno lui. «Ce l’ho ancora fisso nelle orecchie, e state sicuri che rimarrà lì finché campo.» Fece mulinare un dito affianco all’orecchio che sbucava dai ciuffi di capelli grigi. «Me lo porto nella tomba, me lo porto.»

Fra i tre stagionali che sedevano al suo stesso tavolo si intrecciarono occhiate sottili, gesti di mano che coprivano gli sghignazzi soffiati fra le labbra, piccoli tossicchi che camuffarono le irrefrenabili risatine salite a solleticare la gola.

Questo è matto da legare, dicevano i loro sguardi.

Sergio se ne accorse ma non se ne curò. Invece si versò dell’altro vino che gli scaldò la lingua e che lo aiutò ad andare avanti nel racconto. «La nebbia ha cominciato a ribollire e con lei anche l’acqua del mare. Tutt’attorno alla barca si era formata questa schiuma…» Fece oscillare il vino fra le pareti del bicchiere. «Come quella che fa l’acqua della pentola. E cantava allo stesso modo. Un ribollire lungo e metallico che ti squassava le budella.» Si aggrappò con una mano allo stomaco, diede una scossa sopra la cinta. «Era come se tutto il mare si fosse messo a respirare. Gettava bolle e vapore. Bolle e vapore. Uno dei miei non ha retto, quando la barca ha cominciato a tremare forte. Si è buttato a terra, le mani dietro la testa, e si è messo a gridare finché non se l’è fatta nei pantaloni, povero cristo.»

Uno dei ragazzi smise di forzare tutta quella compostezza. Si chiuse nelle spalle, si tappò la bocca, e rise fino a che le guance non gli diventarono rosse come ciliegie.

Sergio lo sbeffeggiò. «Ridi, ridi.» Si grattò le cicatrici ricamate sotto i duri e grigi peletti della barba. «Ma ti volevo vedere lì, io.»

«E tu?» Al ragazzo che aveva riso arrivò una pedata sotto il tavolo. Quello che lo aveva zittito rivolse a Sergio due occhi fermi e accattivati. «E tu cos’hai fatto?» Si appoggiò sui gomiti. «Te la sei fatta nei pantaloni pure tu?»

«Io non potevo neanche muovermi» gli rispose Sergio. «Ero ancora incollato con le mani alla transenna e non avevo certo intenzione di mollare la presa. In quei trenta secondi che il mare ha impiegato a prendere a bollire io ho avuto giusto il tempo di immaginarmi già catapultato fra le onde. E dentro quello che si nascondeva fra le onde.» Annuì. «Me lo immaginavo bene. Un’enorme bocca…» Unì le mani e spalancò le dita ritorte come a imitare lo schiudersi di un paio di fauci. «Che si spalanca attorno alla barca, che ci risucchia in un gargarismo solo, e che ci fa precipitare in fondo alla sua pancia, in un cimitero di barche che puzzano di pesce marcio, alghe ammuffite e legno vecchio.»

«Ooh» sospirò uno dei tre ragazzi, improvvisamente affascinato. «Come il pesce-cane di Pinocchio.»

«Ma non era un pesce-cane, no?» gli domandò l’altro. «E non vi ha inghiottiti. Voglio dire, se sei qui…» Fu lui questa volta a versargli da bere. «Sarà stato qualcos’altro.»

«Qualcos’altro?» Sergio accettò il bicchiere di vino appena riempito ma non bevve. I suoi penetranti occhietti azzurri scintillarono nella penombra. «Vorresti sapere cos’era?»

Tutti annuirono e stettero zitti, con il fiato sospeso e gli sguardi fermi. Persino Bruno non proferì parola. Lui che non era riuscito a scollare lo sguardo dal loro tavolo da quando Sergio aveva cominciato a raccontare.

Il vecchio Sergio trasse un lungo respiro che gli gonfiò il petto e gli arruffò i baffi. «Ebbene cos’era.» Bevve l’ennesimo sorso di vino fin troppo abbondante e batté il bicchiere sul tavolo. Schioccò la lingua. «Tonni.» Grufolò un singhiozzo di risata che gli fece tremolare le grinze della gola. «Tonni, ecco cos’erano! Il più grosso e indomabile banco di tonni su cui avessi mai posato gli occhi.» Si indicò una palpebra arrossata dal vino. «Mai vista una roba simile e mai più la rivedrò. Dopo che l’acqua aveva cominciato a gorgogliare, dopo che i tonni erano saliti in superficie e si erano messi a lottare contro le reti, a sbattere le code, a far schiuma, a boccheggiare, e a farci dondolare di qua e di là per sbregare le corde, hanno cominciato a pestare dei tonfi…» Picchiò un pugno sul legno, e anche per gli ospiti che occupavano i tavoli più isolati fu impossibile ignorare il proseguire del racconto. «Sulla chiglia della barca.» Ne batté un altro, e un altro ancora, e uno dei tre ragazzi che sedevano con lui fu costretto a sollevare la caraffa per evitare che finisse rovesciata. «Uno dopo l’altro, come quando ti bussano alla porta. Non ressi nemmeno io. Mi cedettero le ginocchia e caddi come un sacco di patate, con le gambe in poltiglia e il cuore che mi schizzava dalla lingua. Ho battuto il naso, vedete, qui…» Si strofinò due dita sulla narice destra, percorse la lunghezza del naso fino a dove la radice si gonfiava in un bitorzolo spigoloso e sporgente. «E da quel giorno mi è rimasto storto.»

Uno dei tre ragazzi si sporse a bisbigliare alla spalla di quello che gli sedeva vicino. «Magari fosse l’unica cosa a essere rimasta storta.»

L’altro rise a bocca chiusa e fece mulinare l’indice affianco alla tempia.

«E poi accadde…» Lo sguardo di Sergio cambiò, come cambiò anche la luce che lo circondava.

All’interno del Gabbiano d’Argento calò la stessa nebbia del suo racconto. Grappoli di fumo si contorsero attorno ai bulbi dei lampadari, la luce rossiccia si fece scura e bluastra, le ombre si addensarono agli angoli della sala da pranzo, sommersero gli altri ospiti dell’osteria e raggelarono la calura estiva. I quadretti di pesca presero vita, le onde scrosciarono e grugnirono, gettarono schizzi di schiuma che colpirono le chiglie delle barche e che annaffiarono gli scogli scorticati dai sibili del vento.

Dalle labbra del vecchio Sergio evaporarono arabeschi di condensa grigia che lo sommersero. I suoi occhi erano le uniche scintille di luce in quella profonda oscurità. «Accadde qualcosa che mi porto ancora qui.» Si indicò il cuore battendo due volte sulla stoffa della camicia. «E che ancora mi viene da sognarmi la notte.»

Valentina, sporgendosi a mormorare all’orecchio di Bruno, fece scricchiolare la sua seggiola. «Questa è la parte bella.»

Ma Bruno neanche la udì, circondato com’era dalla nebbia e sommerso dal buio, dall’odore di mare che gli bruciava le narici e che gli penetrava le ossa. Gli occhi scuri fissi su quelli di Sergio.

«Ci stavamo quasi convincendo a prendere le reti che ci erano rimaste e a catturare tutti i tonni che riuscivano a saltare fuori dall’acqua» andò avanti a raccontare il vecchio. «Un paio ci erano riusciti, sissignore. Avevano tranciato le reti a colpi di coda, come fossero alghe. Presi dalla frenesia della fuga, erano saltati fino alla plancia, dandosi da soli in pasto alla morte. Cadevano come rane dal cielo.» Strinse la mano aggrappata al bicchiere di vino. «Poi però…» Il suo braccio tremò, e Sergio si concesse quell’attimo di tregua per bagnarsi le labbra. «Poi però venne un altro colpo. E non fu un colpo come gli altri. Più un…» Il suo sguardo vacillò, si perse nella bruma evocata dalle sue stesse parole. Sergio strizzò le palpebre. Riemerse dopo una breve scrollata di capo. «Come se ci fosse venuta addosso un’altra barca. Come se ci avesse speronato. Un craaack…» Premette le unghie sul legno laccato e allungò un graffio sul tavolo. «Come di artigli che sbriciolano il legno. Facile come sbucciare una crosta di pane. E poi di nuovo il tonfo, la barca che dondola e che si assesta. Degli squish lenti…» Strizzò due volte la mano. Le vene bluastre pulsarono sotto quella pelle vecchia e raggrinzita come pergamena. «Come di zampe bagnate che si muovono e che si avvicinano. Ma c’era ancora la nebbia. C’era la nebbia e noi non vedevamo niente. Io mi ero accorto dei tonni saltati sulla barca solo perché ogni tanto qualcuno mi colpiva con la coda, altrimenti non sarei stato capace di vedere nemmeno quelli. Prendi l’arpione…» Scosse forte il braccio e uno dei ragazzi che sedevano lì con lui dovette spingersi indietro per non finire colpito. «Prendi l’arpione, Sergio, e tirati su, ché questo è grosso e dobbiamo accopparlo in due. Così mi aveva detto Carmine, che in effetti era il padrone della barca. Quello che lui voleva si faceva. E lui voleva portarsi a casa il tonno. Quel tonno che a sentirlo cadere e rimbalzare pareva grande quanto un delfino. Ma io avevo sentito i passi.» Scosse il capo, e attraverso la sua gola traballò una risata rauca. Una risata triste. «E i tonni non hanno le zampe, questo è certo. Carmine mi tirò su di peso, mi spinse l’arpione fra le mani, calpestando una pozza d’acqua, perché ormai la plancia era allagata, e assieme scavalcammo uno dei tonni che ormai avevano smesso di muoversi. Ci facemmo strada attraverso la nebbia e tutto il vapore che veniva su dal mare ribollente che continuava a gorgogliare come un paiolo sul fuoco. Facemmo – ah, non lo so…» Alzò le spalle. «Cinque passi in tutto? Carmine si fermò solo a toccare la spalla di Toni che aveva attaccato a farfugliare il Rosario, e poi…» La voce gli si spezzò fra le labbra e rimase sospesa sulla punta della lingua.

Attorno a lui galleggiò un silenzio fitto come la nebbia di cui parlava il suo racconto.

Gli stagionali non avevano fiato in bocca, i loro occhi sgranati non battevano ciglio pur di non lasciarsi sfuggire nemmeno un’immagine di quella memoria. Gli altri ospiti dell’osteria, i pescatori e i vecchi compaesani, facevano solo finta di non starlo a sentire, perché anche fra di loro vigeva quel silenzio carico di pietà ma anche di rispetto.

Persino il Gianni Schicchi, pur continuando a girare in sottofondo, cantava piano, con riservatezza. Note che appartenevano più a un lamento che a un canto.

 

Addio, Firenze, addio cielo divino, io ti saluto con questo moncherino, e vo randagio come un Ghibellino…

 

Uno dei tre ragazzi, quello che prima si era spostato per non prendersi in faccia la manata di Sergio, si rimise comodo facendo scricchiolare la seggiola nel silenzio. Deglutì e riacquistò l’uso della parola. «E poi?»

Gli occhi di Sergio, assorbiti dalle sfumature rossicce che galleggiavano nel fondo del bicchiere di vino, si rianimarono, riacquistarono un barlume di luce e tornarono al presente. Il vecchio inspirò dalle narici. Sul suo volto aguzzo e raggrinzito si plasmò un’espressione che lo rese più vecchio e più giovane allo stesso tempo. «E poi…» Assunse quello sguardo lì, quello che le persone anziane mostrano quando si affacciano a ricordi lontani, appannati dalla patina di un tempo ormai andato. «Cosa vuoi che ti dica? E poi lo vedemmo.» Rigirò il bicchiere, sbuffò con disappunto. Agguantò la caraffa e si versò dell’altro vino. Non aveva mai smesso di ingollare una sorsata dopo l’altra, durante il racconto. Forse per schiarirsi la memoria o forse per attutire il peso dei ricordi.

«C’era una pozza di sangue che si era mescolata all’acqua di mare.» Sergio fece schioccare la lingua. La voce inasprita dall’alcol. Gli occhi di nuovo persi e distanti, incavati nell’ombra. «Me ne accorsi perché il mio stivale fece un suono più sordo e molliccio quando la calpestai. Sollevai la suola e mi accorsi che era nera. Li ho ancora, quegli stivali. Non li ho mai più rindossati. Il sangue era di uno dei tonni. Era stato sventrato. E quella cosa che l’aveva sventrato era ancora lì.»

Due degli stagionali si guardarono di sbieco. L’altro stropicciò un sopracciglio, scettico. Uno dei pescatori di Portorosso, uno di quelli che non si era girato e non aveva mai alzato gli occhi dal tavolo, ingoiò uno sbuffo strusciandosi la mano sulle labbra.

«La sua bocca fece un suono molle e poi secco» andò avanti a raccontare Sergio. «Il suono di un lupo che affonda i denti nel ventre di un pollo crudo e che lo spolpa facendo scricchiolare le ossa della cassa toracica. La cosa tirò su il muso e si girò a guardarci. Aveva ancora un pezzo di pesce fra le zanne. Zanne grosse così…» Mostrò le dita aperte a stringere un vuoto delle dimensioni del coltello che giaceva nel piatto sporcato dagli avanzi della cena. «Che sbrodolavano sangue che poi gocciolava sul suo collo, e sul suo petto, e fra le sue zampe di pinna che avevano graffiato il pavimento della plancia. Occhi gialli e accesi come lanterne, pupille sottili e dritte come quelle dei serpenti.» Bevve un altro sorso di vino che andò giù come fosse stata acqua. «Uno sguardo che mi ghiacciò il cuore in petto.» Questa volta, la sua mano non tremò. «Il mostro soffiò uno sbuffo dalle narici e spruzzò altre gocce di sangue che gli rotolarono fra le squame. La sua coda ebbe un guizzo, ricadde sul bagnato e ci fece arrivare addosso quello schizzo, a me e a Carmine. Fu quello a risvegliarmi, credo. Non so nemmeno quanto rimanemmo lì impalati come stoccafissi. Tanto.» Annuì. «Tanto abbastanza da farmi rivedere tutta la mia vita. Ero io ad avere in mano l’arpione. Carmine aveva le reti. Carmine mi si aggrappò al braccio, forse per proteggermi, forse per prendermi l’arpione, ma io avevo ancora gli occhi su quella cosa, su quei denti, sulla coda dritta e tesa come una falce, su quello sguardo che sembrava avermi strappato l’anima dal petto. Così gridai.» Sospirò. Le sue spalle si alzarono e si abbassarono, rimasero molli, schiacciate dal peso di quelle parole che ronzavano nel silenzio. «Gridai e lasciai l’arpione. Caddi a terra e mi trascinai all’indietro, strisciando su acqua e sangue, fino ad arrivare a Toni, a stringermi a lui, e a chiudere gli occhi senza sapere se li avrei mai più riaperti. L’ultima cosa che vidi fu Carmine che si piegava a raccogliere l’arpione e che spariva con un salto nella nebbia.»

Anche sul tavolo di Valentina e gli altri galleggiava quel silenzio surreale. Sara guardò in basso, si grattò il polso. Un’espressione addolorata e compassionevole a rabbuiarle gli occhi. Massimo scrutò la scena con attenzione da sotto l’ombra delle sopracciglia. Valentina si scostò distrattamente una ciocca di capelli finita sul naso, mentre Bruno quasi non respirava. Le mani incerottate pietrificate attorno al bicchiere di cedrata e le spalle rigide, una posa sulla difensiva, come se fosse stato lui il bersaglio dell’arpione appena scoccato dalle parole di Sergio.

«Poi ci fu un altro tonfo» proseguì Sergio. «Un ruzzolone che fece sbandare la barca di qua e di là, un grido rauco come di qualcuno a cui cavano le interiora con una mano sola, e poi ancora un rovescio di sangue. Sangue bollente e fumante.» Rabbrividì. «Una puzza da torcere lo stomaco. Il sangue era così tanto che ormai riuscivo a vedermici riflesso sopra. Ma non volevo vedermi.» Scosse il capo, e il suo fu il gesto disperato di chi prega di essere risparmiato dalla crudeltà di quel ricordo. «Non volevo vedere più nulla. E infatti fu così. Rimasi lì fermo a piangere abbracciato a Toni fino a che anche il ribollire del mare e il boccheggiare dei tonni non finì. Carmine intanto ci chiamava. Era vivo. Bene, pensai. Almeno questo. Ma ancora non potevo alzarmi. Ancora non potevo aprire gli occhi e accettare di ritrovarmi davanti a quello…» Deglutì. Gli traballò il mento. «Quello che avevo visto. Qualsiasi cosa fosse. Però poi si alzò il sole.» Sollevò gli occhi e indicò il bulbo del lampadario che pareva essere diventato più opaco. «Un sole bianco e freddo come una nuvola autunnale. La nebbia si diradò fino a ridursi a una foschia che potevamo sventolare via con un solo colpo di mano. E allora io e Toni ci facemmo coraggio. Ci alzammo assieme, attraversammo la plancia ormai asciutta su cui si sentiva solo il rumore appiccicoso delle nostre suole che calpestavano il sangue secco. E lo vedemmo.» I suoi occhi, arrossati dal vino e sciupati dalle rughe, vacillarono. «E quello che vedemmo fu peggio di qualsiasi pesce, di qualsiasi squalo, di qualsiasi mostro.»

Uno degli stagionali trasse un sospiro crepitante di attesa. «Che cos’era?»

L’altro lo assecondò. «Era sul serio un mostro marino?»

«No» rispose Sergio. «No, era peggio.» I suoi occhi emersero dall’ombra. Erano umidi, laccati di dolore come quelli di un cane che guaisce. «Era un uomo.»

Bruno girò la testa verso la parete.

I tre stagionali strabuzzarono lo sguardo. Qualcuno, dal fondo della sala, spostò una seggiola e bisbigliò al vicino.

Seguì una ridacchiata, ma Sergio annuì senza notarla. «Proprio così: un uomo.» Non nutriva alcun dubbio. «Un uomo come me…» Alzò il mento sui giovani che si stavano bevendo ogni parola di quella storia. «Come te, come lui. Carmine era accasciato affianco al corpo e piangeva. Solo ora riuscivo a sentire i suoi singhiozzi, tanto erano soffocati. Non l’avevo mai visto piangere. E piangeva per il mostro. L’uomo che prima era un mostro aveva ancora l’arpione conficcato nella pancia. Gli occhi spalancati nel vuoto. Occhi grigi e vuoti, non più gialli come quelli di un serpente. Niente squame, niente pinne, niente coda.» Sventolò una mano a indicarsi il viso e il petto. «Pelle, capelli, mani e piedi come noi. Era immobile ed era morto. E lo avevamo ucciso noi.»

Bruno, con la faccia ancora rivolta all’ombra incuneata nello spigolo fra le due pareti, strinse la mano tremante attorno al bicchiere di cedrata e ci fece stridere le unghie sopra. Bevve un sorso, ma la cedrata scese a forza, dolorosa e pungente. Fu un breve gargarismo che propagò il suo eco in un silenzio che non era stato tanto fitto nemmeno durante la partita di Scopa.

Tutti quelli di Portorosso, quelli che già conoscevano la storia, osservarono quel silenzio con rispetto.

Gli stagionali invece se la risero. «Questa sì che è grossa.»

«Fra tutte quelle che ho sentito quest’anno… o in tutta la mia vita.»

«Un mostro marino trasformato in uomo.»

I due si scambiarono una sgomitata d’intesa. «Magari è stata la Fata dai Capelli Turchini a trasformarlo in un ragazzo vero, chi lo sa.»

«E anche per stasera direi che abbiamo bevuto abbastanza.»

Sergio si scaldò. I vapori dell’alcol ribollirono all’altezza delle guance diventate dello stesso colore del vino. «Prendetemi in giro, fatelo pure.» Sbatté il bicchiere vuoto sul tavolo. «Credete a quello che volete, ma io so quello che ho visto.» Si indicò la palpebra. «E vi assicuro che questi occhi non mi hanno mai ingannato in mare. I mostri marini esistono. Esistono e possono trasformarsi, per questo non li riconosciamo. Mutano forma per mescolarsi ai mostri terreni come noi.»

Uno dei tre giovani corrugò la fronte. «A chi hai dato del mostro terreno?»

«Che assurdità.» L’altro stagionale si strinse nelle spalle, per nulla allarmato da quella prospettiva. «Anche se i mostri marini esistessero, perché scomodarsi a risalire la superficie? Perché dovrebbero confondersi e mescolarsi alla gente normale?»

«Per approfittarsi di noi.» La voce di Sergio era un gorgoglio aspro e carico di risentimento. Era un fuoco che gli bruciava sulla lingua. «Non aspettano altro che noi abbassiamo la guardia per guadagnare la nostra fiducia, e arrivare così al momento più adatto per divorarci uno dopo l’altro, conquistando così la terra oltre che il mare. E magari lo stanno già facendo.» Puntò l’indice tremante su tutti coloro che lo stavano fissando. «Magari i mostri marini sono sempre vissuti in mezzo agli uomini senza che noi sospettassimo nulla. Chissà…» Socchiuse gli occhi, riducendoli a due fessure impenetrabili. Si guardò attorno, cauto e sospettoso. «Magari uno di loro potrebbe trovarsi qua a Portorosso proprio mentre noi parliamo.»

A Bruno andò di traverso la cedrata. Mise giù il bicchiere e tossicchiò allentando il colletto della camicia. Tamburellò la mano per camuffare un leggero tremolio, abbassò la testa per grattarsi il collo, e tenne lo sguardo ben distante dal tavolo del vecchio Sergio. Le sue guance divennero color cenere.

«Ci provino» sbottò uno dei pescatori più giovani. «Ci provino a far strusciare le loro code qui sulle strade di Portorosso.» Bussò col pugno sulla parete a cui erano appesi i vecchi arpioni. «Gliela facciamo assaggiare noi la giusta accoglienza che si meritano.»

Le guance di Bruno, da grigie, assunsero una malaticcia sfumatura verdognola. Bruno smise di grattarsi il collo e spinse il bicchiere di cedrata ancor più distante da lui. Non lo toccò più.

Tutti esultarono per assecondare quello che aveva accennato agli arpioni.

«Ma sì, che vengano!»

«Che vengano pure. Tanto qui non avrebbero scampo.»

«E se vengono per rimanere allora ci rimarranno per sempre. Appesi alla parete di casa mia.»

Angelo si intromise nel baccano sollevato dal gruppetto, impilò i bicchieri vuoti sul vassoio e si diede un tono per placare la cagnara. «Datevi una calmata, tutti quanti voi.» Spezzò il discorso sul nascere, prima che degenerasse. Lo aveva visto succedere fin troppe volte. «Sergio, per stasera mi sa che hai bevuto abbastanza.» Aiutò il vecchio ad alzarsi, a raccogliere la giacca dallo schienale. «Suvvia, fai il bravo e vai a casa a farti una bella dormita, prima di non riuscire nemmeno ad alzarti dalla seggiola.»

Sergio lo fulminò di sbieco, se lo scansò di dosso con una gomitata. «Non ho bisogno che mi veniate a dire quello che devo fare.» Nonostante le proteste e nonostante l’iniziale barcollamento, alla fine si lasciò davvero condurre verso la porta. «E un giorno o l’altro rimpiangerete di non avermi creduto, un giorno di questi vedrete tutti che ho ragione.» Si dimenò per svincolarsi dalle mani di Angelo che lo avevano aiutato a indossare la giacca. Lanciò un ultimo monito che rimbombò fra le quattro pareti della sala. «E quando vi ritroverete davanti a un mostro marino sarà troppo tardi!»

Un paio di risate lo inseguirono, «Troppo tardi per venire a chiamare te», fino a che la porta si chiuse e i passi zoppicanti di Sergio si dissolsero nella notte.

Sara scosse la testa, contrariata dalle risate di quei tre citrulli, dal loro tono di scherno. «Povero Sergio.» Sistemò la seggiola, accostandosi di più a Massimo, alla sua presenza così rassicurante che sapeva sempre come confortarla e tranquillizzarla, e pescò un pistacchio dalla ciotola. «D’accordo che racconta un sacco di storie assurde, ma prendersi gioco di lui in questo modo è davvero – Bruno?»

Bruno saltò sulla sedia come se Sara lo avesse punto fra le natiche. «E-eh?» Emerse dall’ombra, puntò gli occhi vacillanti su Sara e, come se si fosse dimenticato di respirare fino a quel momento, tirò su una sorsata di fiato che lo soffocò. «Cosa?»

«Stai bene?» Sara mollò il pistacchio. «Mi sembri…» Flesse il capo di lato, socchiuse una palpebra e arricciò la punta del naso. «Verdognolo.»

Pure Valentina si girò a squadrarlo. I suoi occhi si accesero di stupore. «Ooh, è vero.» Gli posò l’indice sulla guancia. «È vero che sei proprio grigio in faccia. Ti senti male?» Gli aprì una mano sulla fronte ghiacciata come faceva la mamma quando doveva tastarle la febbre. «È qualcosa che hai mangiato?»

«N-no.» Bruno si tirò indietro, scansandosi dal tocco. «Sto bene, sul serio.» Arruffò i riccioli che gli cadevano sulla fronte, si nascose sotto la loro ombra. «È solo che…» Riprese fiato e riguadagnò colore. Le sue labbra tremolanti si stirarono in quello che avrebbe dovuto essere un sorriso rassicurante. «È solo che tutte queste storie di mostri marini e di cacce spietate in mare mi hanno proprio lasciato senza parole.»

Valentina si accontentò di quella scusa, la accolse di petto, come una gran rivelazione. «Aah. Tutta fifa, allora. Ma tranquillo, Bruno, tranquillo.» Gli sbatacchiò un paio di pacche rassicuranti sulla spalla. «Qui da noi non c’è proprio niente di cui avere paura.» Si indicò il muscoletto del braccio e strizzò l’occhiolino. «Finché ci siamo noi a proteggerti nessun mostro marino ti farà mai del male. Giusto, ragazzi?»

Sara e Massimo annuirono senza indugi.

Bruno allentò il colletto sbottonato della camicia, distese i tratti del volto che tornò dolce e rilassato, e spostò di nuovo l’attenzione sul tavolo da cui Sergio si era alzato, sulla seggiola su cui la sua presenza sembrava essere rimasta impressa. «Quel vecchio signore sembrava parecchio convinto di quello che diceva.»

«Oh.» Valentina sventolò la mano come se si fosse trattato di un argomento di poco conto. «Quello era solo il vecchio Sergio. Un tempo era un grande pescatore. Conosceva il mare come nessun altro qui in paese, e papà mi raccontava spesso di tutte le sue imprese e dei suoi viaggi in giro per le acque d’Italia. Portorosso si è fatta un nome nei paesi vicini anche grazie a lui.»

Massimo annuì e approvò. «Un grande uomo di mare, senza ombra di dubbio.»

«Sì, ma negli ultimi anni si è proprio un po’ svitato.» Valentina fece mulinare l’indice sulla tempia. «C’è chi dice che la troppa aria di mare gli ha rimbambito il cervello, o che si è preso troppe onde in faccia, o che ha sbattuto la testa su uno scoglio. Racconta di continuo di questi incontri con i mostri marini. Lui con i mostri marini è proprio fissato, sono la sua ossessione da quando è tornato indietro con quella storia, però nessuno ci ha mai dato troppo peso.» Rise, ma non fu una risata malvagia come quella spernacchiata dai tre stagionali. «Anche se in effetti è uno spasso da ascoltare.»

«Non è poi così divertente vederlo scivolare nel delirio.» Sara fu più seria a riguardo, intransigente e protettiva. «Poveretto.» Scosse di nuovo la testa e ripescò il pistacchio che prima aveva lasciato cadere. «Quella storia, quella che ha appena raccontato, risale a un periodo in cui lui lavorava in Sicilia, anche lì in un villaggio di pescatori vicino a Messina.» Lo sgusciò e se lo tuffò in bocca. «È tornato qui in paese completamente sconvolto da quello che è accaduto, e da allora non è mai stato più lo stesso. Chissà cos’avrà visto.» Si strinse nelle spalle. «Chissà cos’è successo veramente.»

I quattro ragazzi lasciarono cadere un velo di silenzio per rispettare la drammaticità di quella disgrazia. Per un po’ si udì solo il cri-crack di un altro pistacchio frantumato fra le dita di Sara, lo scroscio con cui Valentina si riempì il bicchiere di cedrata, e il disco del Gianni Schicchi che nel frattempo era ricominciato daccapo.

 

tutta la vita piangeremo la tua dipartita!

 

Bruno allontanò una manciata di riccioli che continuavano a cascargli sugli occhi. Tenne la mano sulla fronte e sorrise a capo basso. Fu un sorriso nascosto e ombroso. Trasudava solitudine e malinconia. «Mostri marini…»

Valentina rosicchiò il cantuccio appena pescato dal piattino. «Tu ci credi?»

Bruno scosse la testa. «Non ne ho mai visto uno.»

«Nemmeno io.» Valentina finì il suo biscotto e si spolverò le mani. «Però sarebbe interessante se esistessero davvero, no? Secondo me esistono.»

Bruno socchiuse le palpebre. Quel mezzo sorriso che prima gli era svirgolato fra le palpebre incrinò su di lui un’espressione accattivata. «Come fai a dire che esistono se non ne hai mai visto uno?»

«Be’» rispose Valentina. «Se è per questo non ho nemmeno mai visto una giraffa, eppure non faccio fatica a credere che esistono.»

«Ma ci sono milioni di persone che hanno visto delle giraffe.» Sara intrecciò le mani sotto il mento, fece dondolare il piede accavallato. «E poi ci sono un mucchio di fotografie stampate sui libri, sui giornali e nelle enciclopedie. Dei mostri marini non c’è nessuna prova certa, solo il racconto di qualche pescatore un po’ troppo brillo.»

«Secondo me semplicemente nessuno si sforza abbastanza di crederci» disse Valentina. «Oh!» Batté le mani. «Ci sono!» I suoi occhi scintillarono, folgorati da un’illuminazione improvvisa. «Magari pure i mostri marini non credono negli esseri umani.»

Bruno si posò il dorso della mano sulle labbra, ridacchiò a bassa voce. «Forse è davvero così, sì.»

Massimo accostò il bicchiere di cedrata alla bocca, senza bere, e sollevò le sopracciglia rivolgendo a Bruno uno sguardo sottile e sorpreso. Non seppe cosa pensare di quella strana risata.

Valentina districò una spettinata ciocca di capelli crespi e se la pettinò dietro la spalla. «Be’…» Soffiò via il nastrino che le era cascato sul naso. «Anche se i mostri marini esistessero, qui non avremmo di che preoccuparcene. Con tutti i pescatori che ci sono, se uno di loro emergesse non sopravvivrebbe nemmeno un giorno senza rischiare di finire arpionato. Sarebbe un mostro marino un po’ scemo a decidere di venire proprio qui a Portorosso, con tutti i posti che ci sono al mondo.»

«Già.» Bruno tornò a piegare il capo fra le spalle, a strofinarsi la nuca e a rintanare lo sguardo nell’ombra. «Proprio il più scemo di tutti.»

Questa volta fu Sara a stropicciare lo sguardo, notando la sua reazione così insolita.

«Ma Massimo che va di continuo in mare dovrebbe saperla più lunga di noi.» Valentina inviò a Massimo una strizzata d’occhio. «È lui il massimo esperto.»

Sara rise e le lanciò un guscio di pistacchio. «Scema.»

Valentina si tolse il guscio di pistacchio dalla spalla e, fremente di curiosità, si rivolse ancora a Massimo. «Tu cosa faresti se ti trovassi davanti a un mostro marino?»

Massimo corrugò le sopracciglia. Guardò nel suo bicchiere di cedrata, si affacciò al riflesso della sua espressione meditabonda, e alzò le spalle soffiando un sospiro. «Farei tutto quello che sarebbe giusto fare per proteggere Portorosso dai pericoli.»

Sara fece tamburellare le dita sul tavolo. «E se il mostro fosse innocuo?» Glielo domandò mostrando un cipiglio di rimprovero. Ma era ovvio. Lei non approvava le ingiustizie, tutto quell’odio ingiustificato.

«Ma i mostri non sono innocui» la rimbeccò Valentina. «Si chiamano mostri proprio per quello.»

Sara scosse la testa. Non convinta, spostò l’attenzione su Bruno che sembrava condividere la sua stessa espressione contrariata. «E tu, Bruno?» gli domandò. «Tu cosa faresti se dovessi incontrare un mostro marino?»

Anche Bruno ci pensò su, come aveva fatto Massimo. Strinse le mani sulle braccia incrociate, tamburellò le dita, fece ciondolare il capo di lato per allungare lo sguardo verso gli acquerelli che ritraevano le barche che cavalcavano le onde e i pescatori che raccoglievano le reti sulla spiaggia. La sua fronte venne scalfita da una piega che riempì i suoi occhi di una tristezza remota e irraggiungibile. «Gli chiederei cosa lo abbia spinto a uscire dal mare.»

Valentina, Sara e Massimo incrociarono gli sguardi – Valentina corrugò un sopracciglio e Sara si strinse nelle spalle. Scese un silenzio di raccoglimento in cui tutti e tre maturarono l’impressione che si fosse accesa la luce in una stanza di cui non contemplavano nemmeno l’esistenza.

Che risposta strana.

«A proposito di uscire in mare…» Massimo scostò la sua seggiola, si alzò per primo dal tavolo e dovette piegare la testa per non urtare il lampadario. «Domani il mare non si riposa, anche se è domenica. Scusate se vado già via, ma domattina devo alzarmi presto per il lavoro.» Si infilò il basco, accennò una piccola riverenza. «Grazie per la compagnia.»

«Oh!» Sara scattò in piedi, e un sorriso spontaneo le accese le guance di rosso. «Aspetta, aspetta, ti accompagno.» Avvolse il braccio di Massimo, gli strizzò un occhiolino di complicità. «Così ti proteggo dai mostri marini durante il tragitto verso casa.»

Massimo sorrise, e anche a Valentina venne da ridere.

«Ci si vede in giro.» Sara si piegò a baciare la guancia di Valentina. Strofinò i riccioli di Bruno e, reggendogli il mento fra le dita, guardandolo dritto negli occhi, gli mormorò: «Tratta bene la mia Tina, eh, ragazzone».

Bruno stropicciò la faccia di chi non sapeva che dire o come reagire a quel commento.

Sara sventolò un ultimo saluto anche verso gli altri tavoli, «Notte notte!», e guidò Massimo all’uscita.

Gli ospiti rimanenti le risposero in coro. «Buonanotte.» Si richiuse la porta, scese un silenzio più fitto – rumore di risciacquo e di posate strofinate sotto il lavello –, e la sala sembrò essere diventata un po’ più ampia ora che Massimo non sedeva più a uno dei tavoli.

Rimasta sola assieme a Bruno, Valentina spinse all’indietro un’altra manata di capelli spettinati, si accasciò di peso sullo schienale della seggiola. «Aah, che discorsi, vero?» commentò. «Mostri marini di qui, mostri marini di là.» Scosse la testa e tamburellò l’unghia sulla brocca di cedrata ormai prosciugata fino al fondo. «Più che morire arpionati, mi sa che venendo qui a Portorosso morirebbero di noia. Se io fossi un mostro marino me ne andrei a visitare ben altre città.»

Il placido sguardo di Bruno si ravvivò. Lui si appoggiò sul gomito, il pugno spremuto sulla guancia, e increspò un’espressione incuriosita davanti a quell’affermazione. «Non ti piace Portorosso?»

Valentina, per distrarsi, si mise a giochicchiare con la collanina. «Sai, non è che non mi piace» rispose. «È che sono vissuta qui per tutta la vita, senza mai conoscere altri posti e altri paesi. Ormai è diventato tutto così, non lo so…» Accennò alle pareti, ai quadretti di pesca che le sembravano ogni giorno più opachi e miserevoli, come fotografie sbiadite dal tempo. «Prevedibile e scontato. Persino le storie dei pescatori mi sembrano sempre le stesse, a lungo andare. È che ogni tanto mi viene da dirmi: Tina, tu non sei fatta per una vita così, e devi darti da fare per agguantare quello che vuoi adesso che sei in tempo, prima di diventare vecchia e di non avere più nemmeno la forza di uscire di casa. A te non capita mai?»

Bruno si strinse nelle spalle, rigirò un guscio di pistacchio fra le dita, e non aggiunse altro.

Valentina se l’aspettava. La buttò sul ridere, sventolò la mano. «Ma no, ovvio che uno come te non può capirmi. Tu che viaggi di continuo e che avrai visto chissà quanti posti diversi.» Sospirò, affliggendosi. «Chi mai è più libero di te? Non sai quanto ti invidio e cosa non darei per provare a vivere una vita come la tua, anche solo per un giorno

Bruno scosse la testa. «Affatto» le rispose. «Proprio perché mi sposto di continuo da una città all’altra mi viene facile apprezzare una vita tranquilla, anche se scontata e forse un po’ monotona.»

«Cioè, a te andrebbe bene fermarti a vivere qui a Portorosso?»

«Non ho detto questo. Però penso…» Bruno sospese quel filo di fiato fra le labbra socchiuse. Il suo sguardo tornò a macchiarsi di quella strana ombra di tristezza e nostalgia che rese i suoi occhi umidi e ancora più scuri, incredibilmente distanti. «Penso che mi piacerebbe essere in grado di fermarmi da qualche parte, prima o poi.» Annuì. «Costruirmi una vita un po’ più serena, senza essere sempre scosso da un viaggio all’altro. Mi piacerebbe trovare un posto dove…» Sventolò un gesto all’aria. Un gesto sbrigativo. «Sai, sentirmi libero di stare tranquillo una volta per tutte. Una casa su cui so di poter contare giorno dopo giorno.»

«Perché dici di non poterlo fare?» gli domandò Valentina. «Cos’è che te lo impedisce?»

Bruno socchiuse la bocca, fece per parlare, poi però tornò a bloccarsi, si rimangiò quel singhiozzo di fiato che gli fece vibrare il mento. «Ecco…» Abbassò gli occhi. Si rimpicciolì rattrappendo le spalle, si grattò il braccio compiendo quel gesto di protezione con cui si difendeva le prime volte in cui Valentina aveva cominciato a osservarlo. Come se stesse nascondendo un segreto, una vergogna, un lato molle e vulnerabile del suo cuore.

Angelo chiuse la porta della cucina, spense la luce dietro il bancone e attraversò la sala da pranzo scuotendo il mazzo di chiavi della locanda. «Tina, io vado.» Le posò vicino al giradischi che stava ancora suonando, anche se più piano, soffiando una musica leggera e tiepida come una pioggerellina primaverile. Tutti gli altri tavoli erano vuoti, la sala era deserta. I pescatori si erano dileguati, chi per tornare a casa e chi per ritirarsi nelle camere del piano di sopra. Valentina non si era nemmeno accorta che se ne fossero andati. «Ti lascio le chiavi» le disse Angelo. «Pensi tu a chiudere?»

Lei annuì e batté un saluto militare. «Come sempre.»

Angelo lanciò un’occhiata anche a Bruno, e una vena di conflitto gli solcò lo sguardo, come se si stesse chiedendo se fosse una buona idea lasciarli da soli. Ma che motivo aveva di dubitare, ormai? Era più di una settimana che Valentina si fermava all’osteria ben oltre il suo orario di lavoro pur di chiacchierare con Bruno. Non era ancora accaduto nulla di scandaloso. E, in tutta onestà, Bruno non gli aveva mai dato l’impressione di essere una di quelle canaglie capaci di approfittarsi, nemmeno di una ragazza ingenua come Valentina.

«Ricorda di spegnere il giradischi.»

Valentina annuì e sventolò un saluto. «Notte notte.»

La porta si chiuse. Lei e Bruno rimasero finalmente da soli, avvolti dalla gentile penombra, dal caldo riverbero dell’unico lampadario rimasto acceso, solleticati dal profumo tiepido e speziato della cena appena consumata e da quello più fresco e pungente delle pozze di acqua insaponata che ancora galleggiavano nel lavello.

Valentina sorrise, e per la prima volta in vita sua si rallegrò del dono offerto da quel silenzio, da quel ritaglio di solitudine così appartata e confortevole. «Metto su il caffè?»

Pure Bruno le sorrise, complice di quella piccola gioia appartenente a loro due soli. Le rispose con le sue stesse parole. «Come sempre.»

Si spostarono al bancone del bar e si distribuirono i compiti. Valentina armeggiò con il macina-caffè e con la moka, mentre Bruno la aiutò ad apparecchiare con le tazzine, i cucchiaini, la scodella dello zucchero e il bricco del latte. Già da una settimana portavano avanti quel loro piccolo gioco, la parte che Valentina preferiva di tutta la sua giornata. Ormai non sentiva più nemmeno il peso di dover andare al lavoro. La mattina si svegliava e, anziché grugnire di frustrazione scacciando gli abbagli del sole filtrati dalle saracinesche, ficcando la testa sotto il cuscino e faticando persino a far scivolare un piede fuori dalle coperte, andava a spalancare la finestra e salutava con un sorriso l’attesa che la separava dalla sera, dal momento in cui si sarebbe seduta affianco a Bruno circondandosi del suo profumo speziato di mare, di bergamotti e di terra umida.

Bruno non era un ragazzo loquace, e condivideva poco di se stesso, ma Valentina parlava per quattro, e lui non sembrava mai infastidito dalle sue chiacchiere. Non alzava mai gli occhi al cielo e non tamburellava nemmeno il piede per scandire l’impazienza. Invece il suo sguardo mutava, i suoi occhi scuri si riempivano di luce, e i tratti del suo volto si rilassavano come si distendevano anche le sue spalle. In quei momenti, era come se Bruno facesse cadere un enorme peso dalla schiena, concedendosi un respiro dopo aver trattenuto il fiato troppo a lungo. Era come vederlo conquistare una pace che chissà perché si stava negando.

A Valentina piaceva l’idea di star conoscendo Bruno una pagina alla volta, come lo sfogliare di un libro. Con naturalezza e senza fretta, solo per il piacere di leggere, non di arrivare alla conclusione della storia. Pensava a questo, mentre preparava il caffè. Aveva scoperto infatti che a Bruno il caffè piaceva poco forte, senza latte, e con solo un cucchiaino di zucchero. Berlo prima di andare a dormire non gli disturbava il sonno, ma allo stesso tempo non lo aiutava a sentirsi più sveglio appena alzato. Il vino invece proprio non gli piaceva, e quello non lo beveva mai.

Valentina spense la fiamma, tolse la moka gorgogliante dal fornello, prima che il caffè traboccasse dal becco, e andò a riempire le due tazzine già apparecchiate sul bancone, senza smettere di blaterare. «… mi hanno insegnato che non bisogna schiacciare troppo il caffè nel filtro, altrimenti quando l’acqua sale e gorgoglia rimane tipo incastrata troppo a lungo, e quindi il sapore viene cattivo perché ristagna, no.» Si accomodò, tirò a sé la scodella dello zucchero, e cominciò ad aggiungere una cucchiaiata dietro l’altra. A lei il caffè piaceva dolce. «E invece è meglio che tipo respiri quando viene su e – Bruno?» Piegò la testa di lato, il cucchiaino fra le labbra, per andare in cerca dello sguardo di Bruno rivolto al giradischi. «Mi stai…»

«Che bella canzone.»

Valentina si accorse solo in quel momento che i toni dell’opera erano cambiati. «Oh.» Dagli sbraiti e dai lamenti dei Donati, dalla voce tonante e imperiosa di Gianni Schicchi, si era arrivati al canto triste e soave di Lauretta, alla sua preghiera rivolta al padre.

 

vo’ andare in Porta Rossa a comperar l’anello!

 

«Ti piace?» Finito di aggiungere lo zucchero, Valentina completò il suo caffè tuffandoci dentro anche una generosa versata di latte. «È la prima volta che la senti? È piuttosto famosa, sai.»

Bruno scosse la testa. Accettò la scodella dello zucchero passata da Valentina e aggiunse un cucchiaino solo. «Non sono molto esperto di musica classica.»

 

e se l’amassi indarno, andrei sul Ponte Vecchio, ma per buttarmi in Arno!

 

«È un’opera?» domandò Bruno.

Valentina annuì. «Il Gianni Schicchi di Puccini.» Soffiò sulla sua tazzina e bevve un sorso. «Non lo conosci?»

«No.» Bruno si accostò al grammofono per tendere l’orecchio. Aggrottò un sopracciglio e trattenne il respiro, assorto e concentrato. «Che strano.»

 

Mi struggo e mi tormento! O Dio, vorrei morir…

 

«Anche se so che le parole sono in italiano non riesco a capirle bene come dovrei.»

Valentina rise. «Capita spesso con la lirica, sì. Forse perché i cantanti parlano per assecondare la musica e non badando tanto al senso compiuto delle frasi.» Sventolò il cucchiaino per aria. «O qualcosa del genere. Ma a questa musica non servono le parole per essere capita.» Si posò la mano sul cuore. «Deve essere sentita dentro.»

«Di cosa parla?»

«Oh, è una storia molto divertente, in realtà.» Valentina fece ondeggiare sul fondo della tazzina quel che era rimasto del suo caffè. «Parla di un vecchio riccone che muore e che lascia tutti i suoi soldi e i suoi averi a un convento di frati. La sua famiglia chiaramente si sente offesa e indignata. Sperano che ci sia un modo per annullare il testamento, così si rivolgono a Gianni Schicchi.» Picchiettò l’indice sulla fronte. «Un uomo molto astuto che ha la fama di essere il più abile in tutta Firenze nel risolvere questi guazzabugli legali. Sai, tipo l’Azzeccagarbugli.»

Bruno accostò la sua tazzina alle labbra, arrestò il gesto e corrugò un’espressione stordita. «Azzecca-cosa?»

«L’Azzeccagarbugli» rispose Valentina. «Quello dei Promessi Sposi

Bruno piegò il capo e si strofinò la nuca, sempre più confuso. «Promessi Sposi?»

«Uh?» Valentina batté le ciglia. Ora fu lei quella basita. «I Promessi Sposi. Sul serio non hai mai…» Si morsicò il labbro, scacciò dalla testa un certo pensiero, e sorvolò. «Non fa niente. Comunque…» Succhiò il resto del suo caffè. «Lui all’inizio si rifiuta di aiutarli, dato che sa di essere malvisto da tutta la famiglia, ma sua figlia Lauretta è innamorata proprio di uno dei Donati, Rinuccio, e così lei prega il padre di esaudire il loro desiderio e in questo modo benedire l’unione fra lei e il suo amato.» Accennò al giradischi con un’alzata del mento. «Questa è l’aria che Lauretta canta quando lo prega di cambiare idea e di aiutarli. O mio babbino caro. Sai, in Toscana dicono babbo invece che papà, come fa anche Pinocchio.»

 

Babbo, pietà, pietà!

 

«Tu in Toscana ci sei mai stato?»

«No.» Bruno scosse la testa, bevve il suo caffè, ma ancora non riusciva a staccare gli occhi dal disco. «In Toscana no, in effetti.»

«Io vorrei tanto andarci» disse Valentina. «Ma anche da altre parti, mi andrebbe bene. Pensa che io non sono neanche mai uscita dalla Liguria.»

Gli occhi di Bruno si fecero nebbiosi, attraversati dal vapore che risaliva l’orlo della sua tazzina. Di nuovo sembrò perdersi. Privo di peso, socchiuse le palpebre e si lasciò trascinare da quella melodia, da quella voce che sembrava essere scesa dalle nuvole, da un paradiso ultraterreno. «Innamorata di un giovane proveniente da una famiglia disprezzata dal padre.» Posò la tazzina vuota e sospirò. Un soffio di fiato che gli ammosciò le spalle ossute che annegavano fra le pieghe della camicia troppo larga e cadente. «Che storia tragica.»

«Un amore proibito!» esclamò Valentina, raggiante. «E gli amori proibiti sono sempre i più appassionanti.»

«E com’è che va a finire?»

«Nel migliore dei modi, in realtà.» Valentina raccolse le tazzine sporche, le mise a lavare sotto il getto del rubinetto. «Gianni Schicchi finge di essere il vecchio morto, detta di nuovo il testamento al notaio, e lascia a se stesso gli averi più preziosi di Buoso, intascando pure i soldi con cui gli altri membri della famiglia lo avevano corrotto per farsi lasciare la parte più grossa. E i Donati non possono nemmeno smascherare l’inganno, perché altrimenti verrebbe fuori che sono coinvolti anche loro. Assolutamente geniale.»

«E la storia d’amore?» Bruno aprì un canovaccio pulito, si fece porgere le tazzine bagnate e le asciugò. «Quella come finisce? Lauretta e Rinuccio riescono a sposarsi?»

«Oh, sì» annuì Valentina. «Schicchi infatti usa parte dei soldi che ha ottenuto proprio per finanziare il matrimonio ed esaudire il desiderio della figlia. Per fortuna questa è una commedia, non una tragedia.»

«A me sembra piuttosto macabra per essere una commedia.»

«Ma mai macabra quanto le storie del vecchio Sergio sui mostri marini, eh?»

Risero tutti e due – anche se la risata di Bruno non fu poi così allegra – e a loro si unì pure il canto del cucù appena sbucato dall’orologio a pendolo.

Valentina alzò il naso al soffitto, adocchiò il pendolo, l’uccellino che si rintanò dietro le finestrelle della sua casetta, e si accorse solo allora che era già passata la mezzanotte. «Oh» sospirò a malincuore. «Ma è già mezzanotte? Seriamente?» Già ora di andare a casa.

Bruno tossicchiò. «Scusami.» La aiutò a riporre le tazzine nella credenza, a dare un’ultima pulita al bancone, e a ripiegare lo strofinaccio. «È colpa mia. Mi sono perso nel discorso e ti ho fatto fare tardi.»

«Ma scherzi?» trillò Valentina. «Non devi scusarti neanche per sogno. Chiacchierare con te è la parte più divertente di tutta la giornata.»

Bruno scosse via i riccioli dalla fronte, le sorrise. «Ed è per questo che ultimamente lavori sempre la sera fino a tardi e che chiedi sempre i turni pomeridiani anziché quelli di mattina?»

Valentina sobbalzò. «Ehm…» Arrossì, sentendo le guance scottare, e si coprì la bocca con il dorso della mano. «Si nota tanto? È così ovvio?»

«Non è che fai molto per nasconderlo.»

«È vero.» Valentina fece scivolare lo sguardo al pavimento, raccolse la collanina e la rigirò fra le dita che le tremolavano per l’imbarazzo. «Mi dispiace. Ti dà fastidio? Se ti ho offeso in qualche maniera allora…»

«Affatto» rispose Bruno. «Non mi piacciono le persone subdole, quelle che agiscono alle spalle degli altri. È rassicurante avere un’amica dall’animo così spontaneo e trasparente.»

«Oh.» L’emozione di Valentina, dalle guance, scese a batterle nel cuore e a colmarle il petto di una gioia nuova e del tutto inaspettata. Allora anche lui mi considera sua amica, evviva! Quella sì che era una dichiarazione che non si era mai sentita rivolgere da nessun altro ragazzo, Massimo a parte. «Anche…» Risollevò lo sguardo, sventolò via il nastrino che le era cascato dai capelli. «Anche io sono contenta» confessò a sguardo aperto, regalandogli il più sincero dei sorrisi. «Sono davvero contenta di poter fare affidamento su un amico come te, Bruno.» Ed era vero. Standogli affianco, si sentiva libera di essere se stessa proprio come quando rideva e chiacchierava in compagnia di Sara e di Massimo. Non doveva sforzarsi di tenere a freno la lingua, di badare alle buone maniere, di essere più garbata e signorile. La Tina di sempre.

Bruno sembrò accorgersi di quella sua gioia, del calore che le aveva imporporato le guance. Se ne compiacque e la assecondò. «Rendo Portorosso un po’ meno prevedibile, che dici?»

Valentina trillò una risata che le solleticò la pancia. «Questo è poco ma sicuro. Anche se non spericolata come vorrei.»

«Spericolata o meno, per te non è sicuro andare a casa da sola a quest’ora di notte.» Bruno distolse lo sguardo dall’orologio a parete a cui aveva appena lanciato un’occhiata, anche lui richiamato dal cinguettio del cucù. Sistemò la seggiola accostandola al bancone, si lisciò le pieghe della camicia. «Ti accompagno.»

«Non ti preoccupare.» Valentina lo precedette verso la porta, prima di lasciarsi tentare. Prima di rischiare di rovinare tutto, di far scoppiare la bolla di quell’incantesimo. «È tardi. E tu vorrai sicuramente andare a dormire dato che oggi hai lavorato per tutto il giorno.»

«No, non c’è problema» la rassicurò Bruno. «Tanto casa tua non è troppo distante, e non sarà una camminata a stancarmi.» Si infilò le mani nelle tasche – Valentina lo sentì strofinare la stoffa al loro interno –, la raggiunse e di nuovo le regalò uno di quei miti e dolci sorrisi che ogni volta erano capaci di rubarle un battito. «Andiamo?»

Sfiorati dalla luce rossiccia dell’unico lampadario ancora acceso, gli occhi scuri di Bruno si riempivano di sfumature più calde. La sua pelle era selvatica terra del Sud arroventata dal sole di luglio, e profumava allo stesso modo. Se glielo avesse chiesto, Valentina avrebbe potuto stringergli la mano dura di calli e inseguirlo fino in capo al mondo, o fino alle profondità dell’oceano, facendosi rapire come i marinai delle leggende si facevano rapire dal canto delle sirene.

«Sì.» Si limitò a ricambiare il sorriso, a superare la porta con il cuore che sfarfallava di gioia e i piedi che erano piume al vento, e a fargli strada. «Sì, andiamo.»

Si avviarono nella notte.

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Capitolo 10
*** Brava la vecchia – Atto II ***


Brava la vecchia – Atto II

 

 

«… non è ancora completamente piena.» Valentina abbassò l’indice che aveva appena puntato contro il cielo notturno, volgendolo a quella splendida Luna di stagione che, anche se non del tutto piena, brillava di vita propria standosene appesa così pacificamente al cielo cobalto. Limpida e calma come uno specchio d’argento, fredda e vibrante come il gocciolio dell’acqua piovana, tanto bassa e larga da dare l’impressione di poterci spalancare le mani attorno e di coglierla dal cielo come un frutto proibito, come una perla staccata dal cuscino della sua ostrica. Valentina sorrise alla Dama sovrana del cielo. «Ma anche così secondo me è bellissima.» Non riuscì a scollarle lo sguardo di dosso e non ebbe intenzione di farlo. Non le importava se, camminando con il naso all’insù, avrebbe rischiato di inciampare. «E poi oggi non c’è nemmeno una nuvola, quindi si vede davvero bene, anche se secondo me la Luna più bella è sempre quella che si specchia sul mare.» Accorgendosi che il tepore e la presenza di Bruno non erano più al suo fianco, rallentò il passo. Rimbalzò di qualche passetto all’indietro per raggiungerlo. «Lo sai che quando la Luna ha quella forma lì si chiama gobbosa

Bruno alzò gli occhi al cielo per la prima volta da quando erano usciti dall’osteria. Si sfilò una mano dalla tasca dei pantaloni, si scostò una manciata di riccioli dalla fronte che si era stropicciata in una sottile ruga di scetticismo, e calcò le ciocche sotto il basco. «Gobbosa?» L’argento della Luna si depositò fra i fili delle sue ciglia, delicata come una spolverata di rugiada. Formò fisso un punto di luce in fondo alle pozze nere in cui si tramutavano i suoi occhi quando venivano riempiti dall’oscurità della notte.

«Sì, sì» annuì Valentina, con l’aria di chi la sapeva lunga. «Gobbosa!» Raccolse di nuovo fra le mani la sagoma della Luna. Ne percorse il bordo smussato, non ancora completamente tondo, a cui mancava un arco di luce. «Perché ha la gobba.»

«Oh.» Bruno tornò a infilarsi la mano in tasca, strinse le spalle, riprese a camminare a sguardo basso, e calciò via un sassolino che andò a rimbalzare sullo zoccolo di una casa contro cui erano appoggiate due vecchie biciclette. «Certo.»

Valentina e Bruno, passeggiando nel silenzio, attraversarono le luci basse e calde proiettate dalle finestre ancora aperte che si affacciavano alla strada. Ombre si spostarono dietro le tendine. Chiacchierio di voci estranee. Qualche bambino rise e canticchiò assieme al timbro metallico e un po’ rovinato di una vecchia radio.

Una sagoma si sporse da una terrazza per sbatacchiare la tovaglia. Dai giardini e dai balconi si diffondeva il buon profumino delle cene appena consumate. Pesce bruciacchiato, vino rosso, insalata all’olio, salsa di pomodoro fatta bollire nel soffritto di aglio e cipolla, caffè nero, e bucce di anguria spolpata. Un profumo decisamente più arieggiato rispetto a quello umido e stantio che si respirava nella sala del Gabbiano d’Argento.

Valentina non aveva mai smesso di chiacchierare per tutto il tragitto che dall’osteria li stava conducendo verso casa sua. Bruno non sembrava esserne disturbato, così lei continuava a rovesciare parole su parole, come un torrente in piena. Un’argentina e ridente cascata di stelle che illuminano la notte e che ne riempiono il silenzio come un allegro coro di campanelle e sonagli.

«Quando ero piccola» proseguì a raccontare Valentina, «papà mi aveva insegnato quel vecchio detto per capire quando la Luna sta per diventare piena e quando sta per diventare nuova. Lo sai, quello che fa: gobba a ponente Luna crescente, gobba a levante Luna calante. Peccato solo che non mi ricordo mai qual è il ponente e qual è il levante.» Si strofinò la nuca, rimpicciolita da un improvviso moto di imbarazzo. «Non si direbbe che sono cresciuta proprio in un villaggio di pescatori, vero?»

Bruno strinse i pugni dentro le tasche e sollevò le spalle. Quell’espressione sempre un po’ spaesata ad annebbiargli lo sguardo. «Se lo dici tu.»

«Ma io sono un’esperta di queste cose!» Passarono davanti a una casa color pesca da cui giunse il cigolio di un cancello che veniva chiuso seguito dall’abbaiare di un cane che si acquietò nell’immediato. «Quando ero piccola, sai, ero capace di spendere ore su ore solo guardando il cielo di notte.» Compì una piccola giravolta su se stessa, facendo dondolare la gonna attorno alle ginocchia e battendo uno schiocco con i sandaletti sulla pietra polverosa. Procedette all’indietro lasciando che fosse la Luna a indicarle la via, che a guidarla fosse la scia di cielo racchiusa dai tetti delle case da cui pendevano i fili del bucato. «Il che può sembrare a dir poco assurdo, dato che io preferisco di gran lunga il giorno alla notte, e che di solito per me è difficile stare ferma a guardare qualcosa senza potermi muovere e senza potere chiacchierare con qualcuno. Però le stelle e la Luna sembrano fatte apposta per farti fantasticare sulle cose più assurde, vero? Per esempio, quando ero piccola mi immaginavo sempre di poter saltare in sella a una moto volante e di raggiungere la Luna, e di scoprire che è fatta proprio come la nostra terra di quaggiù, solo…» Spalancò le braccia, mimò una piccola esplosione. «Tutta d’argento.» Ogni stella del firmamento si riflesse nel suo sguardo scintillante di entusiasmo. «Montagne d’argento, prati d’argento, mari d’argento, pesci d’argento. Non sarebbe fantastico? Oh!» Batté le mani. «Ma sarebbe ancora più fantastico se tipo si potesse costruire, ecco…» Appiattì un palmo e distese il braccio, imitando il decollo di un razzo che perfora le nuvole. «Una specie di rampa!»

La ruga di preoccupazione che poco prima aveva solcato l’espressione di Bruno si trasformò in una vera e propria smorfia di sconcerto. «Una rampa?»

«Ma certo!» esclamò Valentina. Non era forse ovvio? «Una rampa gigante che arriva fino alla Luna, così uno può saltare sulla sua moto e può viaggiare quanto vuole fino alle stelle e allo spazio, come se si trattasse di tuffarsi a fare il bagno in un mare che…» Accostò i palmi appiattiti, rigirò le mani su e giù. «Che però è sottosopra.» Senza però far cadere quel suo sorriso così pieno di speranza. «Un mare sottosopra che però non si rovescia. Rendo l’idea?»

Bruno allargò le palpebre, ammorbidì la tensione della fronte velata d’ombra. «All’incirca.» E sbatacchiò gli occhi come se facesse ancora fatica a mettere a fuoco quell’idea così fuori dal comune.

Valentina gli sorrise, senza lasciarsi avvilire da quel suo sguardo un po’ smarrito. Si fece anzi cogliere da un pizzico di irrefrenabile curiosità nei confronti del suo silenzio. Un silenzio dietro cui però si celava sempre una vigile attenzione.

Intrecciò le mani dietro la schiena, si rimise a camminare dritta sotto i lampioni, saltellando da una scia di luce all’altra, e reclinò il capo di lato. «E tu?»

Bruno carezzò il poster sbiadito e screpolato di un film che avevano proiettato al cinema qualche mese prima. «Io?»

«Sì» annuì Valentina. «Tu.» Passarono sotto un portico ad arco. Lì dentro, dove l’aria era più fresca e buia, la voce di Valentina fece vibrare un sottile eco che rimbalzò loro attorno come una terza presenza. «Qual è la cosa più assurda a cui credevi quando eri piccolo?»

Bruno arricciò un angolo della bocca. «Ecco…» Di nuovo spinse all’indietro i riccioli caduti a nascondergli gli occhi e si grattò dietro l’orecchio. Il basco troppo largo gli scivolò sulla punta del naso. «Non saprei proprio.»

Valentina sventolò i capelli dietro la spalla, rigirò una ciocca crespa fra le punte delle dita. Si sciolse in un sospiro. «Oh, io invece potrei stare anche tutta la notte a raccontare delle fantasie in cui credevo.» Uscirono da sotto il portico. Una volta tornati all’aria aperta, li accolse una vampata di venticello tiepido e profumato. Un aroma di erba umida, di terra concimata, dei gerani che la Signora Agnese coltivava sulle terrazze di casa sua assieme alle piantine di limone. Un profumo dolcissimo invece giungeva dal retrobottega del fruttivendolo, si mescolava a quello di polline cosparso dai ginepri che crescevano a confine con la spiaggia, e anche a quello del mare che ora si stagliava alla loro destra, di un livello più in basso rispetto alla pendenza della viuzza deserta.

Il ciottolato scuro e umido tratteneva la pozza di mare su cui erano frastagliati i raggi della Luna. La cascata di luce d’argento formava un orticello di stelle – proprio una seconda Via Lattea – che dondolava sospinto dalle onde più lente e lunghe. La spuma di mare si scioglieva sugli archi di scogli rosicchiati dall’andirivieni delle maree, leccava le chiglie delle barchette da pesca assicurate ai piloni, e cantava una nenia triste come il lamento di una sirena che piange la sua solitudine.

«Una volta, quando ero alle elementari…» Valentina trotterellò fino al muretto di pietra che si affacciava al panorama della spiaggia bluastra. «Ho raccontato questa cosa della Luna anche a Sara, e lei mi ha detto che comunque sarebbe impossibile, perché sulla Luna non si respira bene come qui, e perché in realtà le stelle sono una specie di ammasso di fuoco e gas che brucia di continuo e che quindi noi non potremmo nemmeno avvicinarci.» Allungò un braccio per scostare un ramo di pino che rischiò di impigliarsi al suo fiocco. «Che cosa assurda, no?» Più avanti, dietro i rami sporgenti della pineta, il colle di Portorosso si riversava in mare somigliando al fianco scosceso di una montagna su cui la vegetazione cresceva a macchie morbide e gonfie, come muschio. «Ma se lo dice Sara ci credo, dato che lei sa sempre tutto. Però mi piace lo stesso continuare a sperare in quello che credo io. È disonesto, secondo te?»

«No.» Bruno scosse la testa, «Non direi», e si girò a guardare un gattino che era saltato dietro i bidoni della spazzatura. «I sogni non sono mai disonesti.»

«Ooh.» Valentina compì un rimbalzo che la portò fino in cima al muretto. «Che cosa dolce da dire.» Allargò le braccia e ci passeggiò sopra come un’equilibrista sulla corda. «Ma questa non è nemmeno la cosa più assurda a cui credevo. Io ero una di quelle bambine che pensava che qualsiasi cosa potesse crescere dalla terra, solo piantandocela. Tipo…» Compì un saltello su un piede solo, dondolò un po’, Bruno le corse appresso, ma lei riprese subito equilibrio. «Se pianto un fusillo, nasce l’albero dei fusilli.» Un altro saltello sulla gamba opposta. «Se pianto un bullone, nasce l’albero dei bulloni. E se pianto un chicco di caffè, nasce l’albero dei chicchi di caffè.» Arricciò la punta del naso. Annuì. «E forse questo è anche giusto.»

Bruno accostò una mano alle labbra e soffiò una risatina appena percettibile.

«Ma è per questo che ero terrorizzata di mangiare l’anguria.» Valentina saltò giù dal muretto e si spazzolò la gonna sulle ginocchia. «Ero convinta che se avessi ingoiato anche solo un seme poi mi sarebbe cresciuto l’albero delle angurie nella pancia. Una volta mi sono persino messa a piangere perché credevo che di lì a poco sarei esplosa come un palloncino. E pensare che adesso mi piacciono così tanto. Mi piace mangiarle con i biscotti, ci credi? Ci inzuppo i Savoiardi nel sugo.»

Bruno strabuzzò le palpebre strozzandosi con un singhiozzo di fiato. «Cosa…»

«E tu a queste cose ci pensavi mai, da piccolo?» Valentina indicò i filari di ginepri che ombreggiavano la strada e che carezzavano le mura delle case punteggiate dalle luci gialle che riempivano le finestre. «Tipo agli alberi che crescono anche dall’altra parte del mondo e a quello che c’è sulla Luna?»

«Ecco…» Bruno sbatté le palpebre, ancora sospeso nell’assurdità del racconto di Valentina – i Savoiardi inzuppati nel succo d’anguria? – e così tornò ad abbassare lo sguardo ai suoi piedi. «Non tanto, no.»

«E non ti viene mai nostalgia a guardare il cielo di notte?» Valentina si accostò al suo fianco, addolcì il tono di voce. «Sai, dato che sei sempre lontano da casa, sempre in posti diversi… ma dicono tutti che la Luna è uguale dovunque la si guardi. Secondo te è così?»

«Non ci ho mai fatto troppo caso.»

«Davvero?» Valentina si strofinò il mento, rimuginandoci su. «Uhm…» Si rimise a saltellare e a passeggiare sul muretto di cinta anziché sulla strada. «Effettivamente è un po’ difficile osservare la Luna se si tiene sempre lo sguardo basso come fai tu.» Si piegò in avanti. «Dovresti sollevarlo più spesso, sai? Hai degli occhi così belli, è un peccato che siano sempre nascosti.»

Bruno si premette la mano sul basco e se lo spinse sul viso per nascondere la spolverata di rossore dilatata sulle guance. «Be’» farfugliò. «E tu…» Si morsicò il labbro, sbirciò da sotto il berretto. «Tu dovresti guardare un po’ meglio dove metti i piedi. Attenta.» Acchiappò la mano di Valentina prima di vederla sdrucciolare sulle pietre più lisce. «Vedi?» la rimbeccò. «Così va a finire che cadi.»

«Non cado, non cado.» Valentina non scese, ma allo stesso tempo strinse la presa sulla mano di Bruno, sulla sua pelle tiepida e dura, consumata dal lavoro. Distese le dita, le intrecciò alle sue – nemmeno Bruno si sottrasse – strofinando il tocco fra le bende arrotolate alle vesciche e alle ferite. Accolse il cinguettio di gioia cantato dal suo cuore che era stato pizzicato da quell’emozione calda e dolce. Si affidò alla sensazione di sicurezza e solidità trasmessa dalla semplice vicinanza di Bruno, dal tocco della sua mano. Una mano che sarebbe stata capace di sostenerla anche attraverso una tempesta di nuvole o fra le onde di un mare in burrasca. Valentina sorrise e lo guidò a passo svelto. «Sto solo facendo qualche saltello.»

Bruno la assecondò senza altre polemiche. Continuò a tenerle la mano strizzando una stretta più forte a ogni rimbalzo compiuto da Valentina. «Sarei comunque molto più tranquillo se tu camminassi come le persone normali.»

Valentina ridacchiò, «Sciocco Bruno», come se non avesse aspettato altro che un’occasione di rispondere in quel modo. «Ormai dovresti aver capito che io non sono come le persone normali.»

Da dietro l’ombra dei riccioli, le sottili labbra di Bruno si stesero in un sorriso. «Su questo non posso darti torto.»

«Ma non è una cosa brutta, vero?»

«Affatto.»

«Oh!» Valentina sfilò la mano da quella di Bruno. «Guarda, guarda!» Indicò il muretto che veniva subito dopo il breve tratto di strada che diramava fra casa sua e il cancello del vicinato. «Vuoi vedere come salto?» Compì qualche passo all’indietro per caricare la rincorsa, molleggiò sul posto per contenere l’eccitazione. «Salto da un muretto all’altro, vedrai, è facilissimo.»

«Tina, no.» Bruno allungò le mani verso di lei senza però sapere dove posarle per fermarla ed evitare la catastrofe. «Ti fai male.»

«No, se prendo la rincorsa. Ecco, guarda…» Valentina grattò la suola del sandaletto sulla pietra, si leccò il labbro e restrinse lo sguardo sul muretto dove già si vedeva atterrare dopo il salto. «Tre, due, uno, via!»

«Tina!»

Valentina compì due falcate di corsa. Il suo sandalo sdrucciolò sull’orlo del muretto e la fece scivolare. «Who-ooh!»

Bruno spalancò le braccia e la acciuffò al volo prima di vederla schiantarsi a terra. «Attenta.» Se la strinse al petto, arretrò e si appoggiò di schiena al muro della casa più vicina. «Ti sei fatta male?»

Valentina scrollò la testa. «Male?» Sfilò una mano dalla spalla di Bruno e si attraversò la fronte con quel gesto, allontanando i capelli che le erano finiti davanti agli occhi. «N-no…» Allungò le punte dei piedi verso terra – il tallone scivolò fuori dal sandaletto che era sdrucciolato – e sollevò lo sguardo. «Sto be…» Sfiorò il naso di Bruno con il suo. Respirò lo strofinio di quel contatto così morbido e lieve che però la attraversò come una scarica elettrica. La vertigine che ne nacque le fece girare la testa, la spinse a stringere ancor più forte le braccia aggrappate alle spalle di Bruno per non sentirsi precipitare.

Ansimando, il suo petto premette su quello di Bruno, condivise un battito che risalì la gola lasciandole la bocca asciutta. I visi così vicini. Le labbra socchiuse, immobili in quel sospiro che non era riuscito a scendere fino alla pancia, che si era fermato al cuore. Gli occhi specchiati gli uni negli altri, bagnati dai raggi della Luna concentrati nelle striature dell’iride. Gli occhi di Bruno per la prima volta aperti, accolti da un riverbero limpido e privo di ombre che luccicava fra i fili delle sue ciglia.

Strano, fu il pensiero di Valentina.

Visti da lontano, così di sfuggita, aveva sempre creduto che Bruno avesse gli occhi neri, o di un marrone molto scuro. Invece ora, scrutandoli così da vicino, Valentina scoprì che erano di un grigio plumbeo e levigato, striati da sfumature metalliche, perfetti come gemme gemelle partorite dagli abissi dell’oceano più profondo.

Non erano blu, non erano azzurri, non erano verdi, eppure Valentina sentì che era racchiuso tutto un mare lì nelle profondità di quelle iridi marmoree, liquide come le nuvole dietro le quali esplodevano e si scioglievano i diluvi più violenti. Le ricordarono davvero un oceano in burrasca. I giorni in cui il mare si ingrossava, diventando grigio e laminato come una distesa di piombo. Quando i nuvoloni di temporale si abbassavano, premevano sull’orizzonte nero e soffiavano i ruggiti di un vento che gonfiava le onde e le innalzava, rendendole affilate come lame. Creste gelide. Un ghiaccio nero che si schiantava sugli scogli della riva innalzando una grandine di schizzi che ti sferzava il viso lasciandoti fradicio e tremante. Un’aria di sale che ti tagliava le guance e ustionava le labbra.

Quando era bambina, durante simili giornate di tempesta, Valentina vinceva la paura del maltempo e dei tuoni mettendosi in ginocchio sullo sgabello e appiccicandosi alla finestra della cucina, disegnava fiori e cuoricini sulla condensa che si formava sul vetro, contava le gocce di pioggia che lo rigavano fino a grondare sul davanzale, scuoteva le manine per vedere muoversi le ombre sulle pareti bagnate da una luce grigio-azzurra che le dava l’impressione di trovarsi all’interno di un acquario. Rassicurata dai racconti di papà e coccolata dalla cioccolata calda preparata dalla mamma, Valentina sorrideva e arrossiva anche dinnanzi al cielo buio, alle nuvole infiammate dai lampi, e al torrente di acqua piovana che inondava e rotolava lungo le stradine. Nulla avrebbe potuto nuocerle. Nemmeno la ferocia di quel mare capace di rovesciare le barche e inghiottire i pescherecci.

Era quella la sensazione che provava stando abbracciata a Bruno, più vicina che mai a quegli occhi tristi dentro i quali sembrava esserci in bilico il luccichio di un pianto nascosto e represso, soffocato in fondo all’anima. Ma lei era al sicuro. Il cuore batteva lento e tranquillo, in pace, come avvolto da un’alcova di piume.

Valentina si ricordò di respirare – il battito nato da quel singhiozzo le pizzicò le guance –, e per la prima volta in vita sua le bastò il silenzio, l’occasionale fruscio della brezza serale e il frinire dei grilli. Riconobbe il profumo speziato di Bruno mescolato anche a quello più familiare e legnoso dell’osteria. Ma nel suo respiro si mescolava il tiepido profumo di caffè, quello fresco e zuccherato della cedrata bevuta assieme a Sara e Massimo.

Chissà le sue labbra di cosa sapevano? Di caffè o di cedrata? Se Valentina vi avesse premuto la bocca sopra lo avrebbe scoperto. Le sarebbe bastato abbassare solo un po’ il viso, schiudere le labbra e assaggiare il fiato della sua bocca, succhiandogli l’aria da quella pelle dura e sottile bruciata dal sole.

Chissà…

Incoraggiata dal formicolio di quel desiderio sbocciato in fondo alla pancia, Valentina posò una mano tremante sulla sua guancia spigolosa, liscia e sbarbata, e sentì le braccia di Bruno stringerle il torso, il suo corpo venire paralizzato da una scossa. Vide i suoi occhi laccarsi di una luce affamata che non gli aveva mai visto addosso.

Si lasciò annegare in quegli occhi scuri senza il timore di rimanere senza fiato. Accolse gli ululati della tempesta, domandandosi come fare per raggiungerne le profondità, lì dove si respirava anche senza ossigeno, lì dove c’era caldo anche senza i raggi del sole.

La chiave appesa alla sua collana scivolò da sotto lo scollo della camicetta, si depositò fra loro due e gettò una scintilla d’oro.

Una chiave…

Ma quale chiave avrebbe dovuto girare per portare alla luce i misteri che Bruno era così bravo a tenere nascosti, sepolti negli abissi del suo animo?

Una chiave girò davvero nella toppa. Scattò una serratura, la porta di casa si aprì cigolando, un fascio di luce discese il portico, si stiracchiò lungo la strada fino ad attraversare Bruno e Valentina, innalzando le loro ombre sulla parete a cui erano ancora appoggiati.

La sagoma scura di Eros si materializzò sulla soglia di casa, la mano ancora aggrappata al pomolo della porta. Eros accennò un passo, strabuzzò gli occhi assemblando la scena che gli si era palesata davanti – Valentina aggrappata alle spalle di Bruno, le braccia di lui a stringerle i fianchi –, e compì un piccolo rimbalzo all’indietro che gli lasciò addosso un’espressione tramortita, come se fosse stato sorpreso da un piccolo sberlotto sul naso. «Tina?»

Valentina bruciò di imbarazzo. Il rossore che le si era depositato sulle guance accese un piccolo fuoco che crepitò sulla pelle del viso, arroventandola fino alle orecchie. «Pa-papà!»

Bruno la rimise giù. Aspetto che lei ritrovasse l’equilibrio sui sandaletti e le sfilò le braccia dai fianchi. Si diede una sistemata alla camicia sgualcita, arruffò i riccioli davanti agli occhi e gettò lo sguardo a terra come se avesse avuto qualcosa di cui vergognarsi. «’sera, Eros.»

Eros strinse le sopracciglia, indurì le rughe della fronte e squadrò Bruno con diffidenza e stupore, come se non potesse credere che fosse lui quello stretto dall’abbraccio di Valentina. Spostò quello stesso sguardo di rimprovero sulla figlia, ingrossò un tono da papà arrabbiato. «È questa l’ora di tornare a casa? Stavo già venendo a cercarti.»

Valentina scacciò via il nastrino dalla guancia, sfruttò quello sventolio di mano per farsi aria al viso accaldato da un piccolo broncio di rabbia. Proprio sul più bello dovevano essere interrotti? «Stavo lavorando, papà.»

«Non torni mai a casa così tardi» le disse Eros. «E a quest’ora l’osteria è chiusa da un pezzo.»

«Ma lo sai che di sabato è sempre…»

«È colpa mia, Eros.» Bruno si fece avanti – un passo solido e privo di incertezze –, si sfilò il basco e piegò il capo con umiltà. «Perdonami. Sono io che mi sono trattenuto troppo a lungo dopo cena, e così le ho fatto fare tardi. Per questo mi sono offerto di riaccompagnarla di persona.» Ruotò la coda dell’occhio su Valentina. «Ma ti assicuro che non succederà più.» Le sorrise, le fece l’occhiolino.

Valentina non si sentì scottare più per l’imbarazzo, ma per una fiamma di gioia sorta a illuminare la notte. Il suo cuore si gonfiò, colmandosi dell’allegria ultraterrena che provava forse solo da bambina, quando correva a piedi nudi sulla spiaggia, quando spalancava le braccia immaginando di spiccare il volo assieme ai gabbiani, o quando chiudeva gli occhi sognando di star sguazzando nei mari d’argento che, ondeggiando, riempivano i crateri della Luna.

Eros sollevò il mento e guardò Bruno di traverso, dandosi un tono da papà protettivo, forzando la sua espressione ad apparire più scocciata di quello che era in realtà. Non gli riuscì a lungo. Allentò la tensione con un sospiro, si passò una mano fra i capelli e si grattò la nuca. «Sbrigati a entrare.» Allargò lo spiraglio della porta per far passare Valentina. «E va’ a scusarti con tua madre per averla fatta preoccupare.»

Valentina annuì, però rimase immobile. Si appese alla mano di Bruno e gliela strinse per non farlo andare via. «Arrivo subito, pa’.» Nonostante il piccolo brivido di esitazione trasmesso dalla mano di Bruno, Valentina non cedette. Tenne lo sguardo fisso su Eros che era ancora sulla soglia, contornato dall’aura di luce che riempiva le pareti dell’ingresso. Non accennava a rientrare in casa, a lasciarli soli, così Valentina incurvò un sorrisino attraverso cui fece stridere un grugnito di impazienza. «Arrivo. Subito.» Spremette più volte la mano di Bruno. Lui era il solo a non aver afferrato il senso di quello che stava succedendo.

Eros invece capì. Capì eccome. Gli bastò soffermarsi solo per un istante sugli occhi di Valentina per capire quello che stava frullando nella selvaggia testolina di sua figlia. Nonostante questo, diede le spalle ai due ragazzi e fece per rientrare. «Cinque minuti.» Rientrando sbatté la spalla sulla trave portante, urtò il solito chiodo sporgente che gli strappò un filo della manica della camicia. Si massaggiò il braccio, «Questo maledetto chiodo…», e si infilò nella luce giallognola dell’ingresso. I suoi passi scomparirono dietro la porta che rimase socchiusa.

Restò il silenzio del paese insonnolito, il miagolio di un gattino distante, lo srotolarsi di una saracinesca che veniva abbassata dalle case del vicinato.

Valentina sfilò la mano da quella Bruno. Non aveva più paura di vederlo scappar via. «Scusa per papà» gli disse. «Ha fatto un po’ il brontolone, ma lo conosco e so quando è davvero arrabbiato. Sono sicura che è stato felice che tu mi abbia riaccompagnata a casa.»

«Non ti preoccupare.» Bruno si infilò le mani in tasca, spostò lo sguardo altrove. «È bello che si preoccupi per te.» Diede una strofinata a terra con la suola della scarpa. «È quello che farebbe un bravo padre, credo.»

«Uh?» Valentina non seppe come interpretare quell’ultimo commento. «Credi?»

«Però Eros ha ragione. È tardissimo.» Bruno non tardò a cambiare discorso. «E se tu domani devi alzarti presto per venire a lavorare al Gabbiano…»

«Tranquillo.» Valentina scosse la testa. «Domani è domenica, e io ho la giornata di riposo.»

Negli occhi di Bruno si accese una scintilla, come se una stella fosse piovuta dal cielo e avesse sbriciolato una magia d’argento sul suo viso. «Sei libera tutto il giorno?»

«Dall’alba al tramonto, e anche oltre.»

«Oh.» Bruno serrò i pugni conficcati nelle tasche, strinse le spalle rintanandosi in quel suo tremante guscio di timidezza. «Se vuoi, allora, io e te potremmo…» Rigirò il piede a terra, guardò la parete più vicina. «Anche vederci fuori dall’osteria, sai, senza che tu sia impegnata a lavorare. Potresti, tipo, portarmi a vedere Portorosso. Non ho avuto tante occasioni di esplorarla, sai, dato che sono sempre stato a lavorare alla chiesa. E lo so che hai detto che per te ormai è un posto scontato e che non c’è niente di interessante da vedere, ma visto che io non sono di qui potrebbe anche piacermi, e…» Sfilò una mano dalla tasca e si grattò sotto il basco. «Sì, insomma, qualcosa così. Se per te va bene.» Tossicchiò. «Vederci fuori dall’osteria, intendo.»

Valentina esitò. Il sorriso le cadde, spento dalla stessa desolazione che fa appassire i fiori. «Oh.» La assalì il freddo alito di una paura che riconobbe. Un’ombra di malessere scese su di lei, le stritolò il collo scaricandole un brivido lungo la schiena e risucchiando un vuoto in fondo allo stomaco.

Stava per succedere di nuovo? Stava per compiersi lo stesso destino a cui andavano incontro tutti i ragazzi che le si approcciavano? L’amicizia con Bruno stava per andare in frantumi?

Bruno colse quella sua esitazione. Quella nuvola scesa a oscurare il suo viso di solito sempre così solare e luminoso. Su di lui si dipinse un’espressione colpevole e mortificata. «Non ti va?» Arretrò. Un passo vacillante. «Scusami, sono stato un po’ brusco. Ho azzardato troppo.» Si calò il basco davanti al viso. «Non volevo…»

«N-no.» Fu Valentina a gettare lo sguardo a terra, ad arricciare una ciocca fra le dita e a nascondersi dietro a quel gesto. «No, non è…»

«Cioè, sì, è chiaro che non vuoi.» Gli piovve addosso un sospiro triste. «Perché dovresti, poi?»

«Io…»

«È tutta colpa mia, mi dispiace, non dovevo chiedertelo d’improvviso.» Bruno si coprì la faccia dietro il basco. «E io di solito non sono così, non so che mi è preso. Facciamo che non ti ho detto niente, va bene? Che stupido.» Si scollò dal muro e scappò via come se gli fosse esploso un incendio sotto i piedi. «Ci vediamo lunedì.»

«Bruno, aspetta!» Valentina sventolò un braccio per aria. «Io sono contenta che tu me l’abbia chiesto, per davvero.»

Bruno rallentò…

«È solo che ho paura che succeda quello che succede sempre!»

e solo a quel punto arrestò la fuga. Si voltò a guardarla di striscio da sopra la spalla. «Cos’è che succede, di solito?»

Valentina si morse il labbro. «Be’, lo sai.» Raccolse la collanina dal petto, la rigirò fra le dita sudaticce di imbarazzo. «I ragazzi mi chiedono di uscire, trascorriamo assieme un pomeriggio – mai una giornata intera, perché non c’è verso che resistano così a lungo – e loro si stufano subito di me perché scoprono come sono davvero e non come mi hanno immaginata quando mi conoscevano appena.»

Bruno flesse il capo di lato. «E hai paura che possa succedere così anche con me?»

Valentina annuì. «Non voglio che tu ti stufi di me.» Fece rimbalzare la chiavetta fra le nocche, la grattò sotto l’unghia del pollice. «E se conoscerci meglio rischia di rovinare le nostre serate all’osteria e se ti facesse passare la voglia di chiacchierare con me, allora…»

«Non succederà.» Bruno tornò indietro. «Ti giuro che non ti immagino in nessun’altra maniera rispetto a come ti vedo ora, e che non voglio che tu sia diversa dalla ragazza che sei. Non hai nessun bisogno di fare colpo su di me, Tina.»

Valentina sollevò la punta del naso, ancora scettica ma incapace di trattenere il brivido di un piccolo sorriso fiorito all’angolo della bocca. «Sul serio?»

Bruno annuì. «Mi permetti di dimostrartelo?»

«S-sì.» Valentina distese il sorriso che le colorò le guance di rosso. «Sì, d’accordo.» Batté le mani e si impennò sulle punte dei piedi. «Allora domani passiamo la giornata assieme e io ti porto in giro per tutta Portorosso. Mi passi a prendere domani mattina?»

«Domani mattina.» Bruno si rinfilò il basco e piegò una piccola riverenza. «Buonanotte, Tina.» Si avviò, senza far abbaiare Pepe che era già a dormire nella sua cuccia.

Vedendolo andar via, Valentina si godette il formicolio di quell’aspettativa che la fece sentire in procinto di toccare la Luna. Vedendolo andar via e separandosi da lui, Valentina sentì che assieme a Bruno se ne andava il fiammeggiare di quella luce che aveva cominciato a inseguire senza nemmeno rendersene conto.

 

♡♡♡

 

Valentina rincasò accompagnata dall’impressione di star passeggiando su un soffice tappeto di nuvolette, sospinta dai battiti del suo cuore simile a una farfalla racchiusa nel petto, e illuminata da una scia di luce che le brillava sulle labbra sorridenti. Chiuse la porta, si sfilò i sandali, e attraversò il corridoio fischiettando come un fringuello in primavera. Un grazioso passerotto che sbatacchia le ali al sole, che vola fra i petali rosa di un pesco in fiore, che si posa sul ramo dell’albero e che gonfia il petto per cantare al mondo intero quelle dolci note di pura felicità che gli vorticano attorno fino a…

«Cosa stai confabulando, signorina?»

Valentina si girò, bloccandosi sulla soglia della cucina.

Eros sedeva al tavolo. Un bicchiere di vino in mano e lo sguardo distratto posato fra le pagine di giornale che ogni tanto girava umettandosi le dita. I piatti appena lavati a sgocciolare sulla grata affianco all’acquaio, il pane per la colazione già affettato nella cesta affiancata dai vasetti di marmellata.

Non si era fidato di Bruno fino al punto di lasciare soli lui e Valentina, dopotutto.

Valentina alzò gli occhi al cielo. Evitò di sollevare un dramma, di farsi rovinare il buonumore. «Non sto confabulando niente, pa’.»

«E cos’è questa storia di Bruno?» Eros ripiegò il giornale e si alzò da tavola.

Pure Valentina entrò in cucina, attraversò la sua luce tiepida, i suoi odorini buoni. «Quale storia?» Andò a riempirsi un bicchiere d’acqua dal rubinetto, tanto per avere qualcosa con cui distrarsi fra le mani. «Stiamo solo facendo amicizia.» Si portò il bicchiere alle labbra. «È forse vietato? Guarda che a Portorosso non esistono solo Sara e Massimo, e lo sai quanto è difficile per me trovare qualcuno che mi soppor…» Singhiozzò. La sua mano tremò, scosse il bicchiere, e le fece cadere uno zampillo d’acqua fra le dita. Valentina corrugò la fronte e fece tamburellare le unghie sul vetro. «Che vada d’accordo con me.» Buttò giù un sorso gorgogliante.

Trascorso un sospiro, «Tina…», Eros posò il suo bicchiere di vino, si asciugò i baffi strofinandovi una nocca sopra. «Non metto in dubbio che Bruno sia un bravo ragazzo e non mi sto di certo lamentando del fatto che andiate d’accordo.» Il suo tono di voce era dolce e paziente. Forse persino comprensivo. «Ma è uno stagionale.»

Valentina lo riconobbe. Era il tono con cui papà le si approcciava quando voleva aiutarla e proteggerla, la voce che la consolava dopo una caduta dalla bici o una litigata con la mamma. Anziché sentirsi al sicuro, però, Valentina provò solo un sottile brivido di frustrazione. «E allora?» Ancora con quella storia, come le avevano detto anche Angelo, e Tommaso, e gli altri pescatori dell’osteria. Come se lei e Bruno avessero covato l’intenzione di complottare una fuga d’amore fino in capo al mondo. «Non posso avere un amico? Perché vi comportate tutti come se stessimo tipo per sposarci solo perché ci siamo simpatici?» Gettò il bicchiere nell’acquaio. «Siete proprio dei vecchi trogloditi.»

«Nessuno ti impedisce di avere un amico, Tina, soprattutto se ti rende felice.» Eros la raggiunse. «Ma io ti conosco, e questa volta mi sembri, non so, più coinvolta del solito. Non vorrei che ti affezionassi a Bruno più del necessario.» Le carezzò la guancia, indugiò su quel tocco fino a che lei non si girò a guardarlo negli occhi. «E non vorrei che poi tu soffrissi nel separarti da lui, a stagione finita.»

Valentina fece fatica a sostenere lo sguardo così premuroso di papà. Sapeva che aveva ragione. Sapeva di essere già stata attraversata da un pensiero simile. «Ma non succederà.» Raccolse la mano di Eros, gli batté una soffice carezza sul dorso. «Rilassati, pa’.» Per ora non aveva intenzione di pensarci. Per ora, tutto quello che le importava era godersi il resto dell’estate conoscendo Bruno un giorno alla volta, come se avessero avuto a disposizione tutto il tempo dell’universo. «Non hai sempre detto che preferiresti vedermi assieme a un bravo ragazzo piuttosto che con una moto? Ecco. Bruno è un bravo ragazzo e non ha nemmeno una moto, quindi non hai nulla da temere.» Scivolò via dalla luce della cucina, si slacciò il nastrino dai capelli, e sbadigliò, abbracciata da una nuvoletta di sonno che si fece pressante all’altezza delle palpebre e delle spalle. Sventolò via l’ombra di quel problema inesistente. «Non c’è niente di pericoloso in uno come lui.»

Ma questo era ancora tutto da vedere.

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Capitolo 11
*** Lauretta mia – Atto I ***


Lauretta mia – Atto I

 

 

Sabato sera, prima di coricarsi, Valentina aveva azzardato una follia e, dopo essersi lavata i capelli, ci aveva arrotolato qualche bigodino rubato dai belletti della mamma. Pessima idea. Domenica mattina, dopo un’ora trascorsa a combattere con colpi di spazzola, spalmate di balsamo, grattate di pettine, e dopo aver ottenuto solo le lacrime agli occhi e la testa in fiamme, sarebbe stata capace di tuffare una mano sotto l’acqua santa giurando di non ripetere mai più una simile follia, anche a costo di raparsi a zero.

Valentina affondò un’altra spazzolata nelle ciocche ancor più crespe e nodose del solito. Agguantò il manico con entrambi i pugni, strinse i denti, trattenne il fiato, e tirò torcendo il capo verso la spalla. «Su, su, andiamo.» Un altro strattone, questa volta più violento, che le gonfiò le vene dei polsi. «Forza, stupidi capelli.» Un forte bruciore diramò dietro le orecchie, le punse gli angoli delle palpebre annacquate da lacrime di frustrazione. «Non traditemi proprio oggi.» Strattonò ancora, sentì le setole scricchiolare, qualcosa che si sfilacciava, ma la spazzola rimase incastrata come una mosca nella tela del ragno.

Valentina sbuffò, facendo defluire il rossore dalle guance. Mollò la spazzola che rimase appesa alla zazzera di nodi, e sgranchì le mani indolenzite.

Ma no: non era ancora il momento di arrendersi.

Incrociò le gambe sullo sgabello su cui era appollaiata, si girò verso lo specchio che aveva evitato fino a quel momento, per non dover fronteggiare la sua immagine così trasandata, e rivolse al suo riflesso un’espressione agguerrita. Un’occhiata truce concentrata sulla spazzola che non ne voleva sapere di staccarsi dai suoi capelli.

«Stupidi capelli.» Tornò ad agguantare il manico, inviò un flusso di energia bollente verso le dita contratte e i muscoli delle braccia. «Vi faccio vedere io chi…» Tirò, si sbilanciò sul fianco ma resistette alla scarica di dolore scesa fino al collo. «Chi…» La spazzola saltò via dai capelli, guizzò dalle sue mani, e Valentina venne sbalzata dallo sgabello.

«Ah!»

Si ribaltò sul pavimento, sbatté sulle gambe del letto che a sua volta urtò l’appendiabiti che le fece piovere addosso l’ammasso di gonne e camicette che ogni volta si dimenticava di piegare e di mettere in ordine. Valentina emerse da sotto una gonna a fiorellini, sventolò via la manica di una camiciola color panna, e si massaggiò la testa. «Ourgh…» Raccolse la spazzola dal pavimento, la rigirò dalla parte delle setole a cui era rimasto incagliato un groppo di capelli che, così crespo e nodoso, somigliava a un riccio di mare.

Valentina soffiò via una ciocca sopravvissuta che le era piovuta sulla punta del naso. Una nube di depressione scese a incupire la sua espressione già abbastanza amareggiata.

Be’, mi arrendo. Questo è proprio il meglio che posso fare.

Si rialzò dal pavimento e mise a posto la spazzola nel cassetto della toletta, senza però curarsi di riordinare gli abiti caduti dal trespolo. Pescò il nastrino verde smeraldo dal portagioie, se lo allacciò ai capelli facendo in modo che il fiocchetto nascondesse le ciocche strappate, e si girò verso l’abito che aveva preparato la sera prima, lasciandolo per tutta la notte fuori dal guardaroba in modo che prendesse aria e non puzzasse di naftalina. Non lo indossava spesso, solo nelle occasioni speciali, perché era il suo preferito e temeva sempre di sciuparlo o di macchiarlo.

Era un bell’abitino estivo, color verde prato, orlato di bianco, le spalline a sbuffo e la doppia frangia della gonna che cadeva sopra le ginocchia, dondolando a ogni passo. Fresco e leggero da indossare come un turbinio di petali floreali spruzzati dalla rugiada del mattino.

Dopo esserselo infilato, Valentina chiuse l’ultimo bottone sul petto, fece sventolare il nastro attorno alla vita e compì una mezza piroetta sollevando il fruscio della stoffa che sventolò leggera attorno alle gambe. Il battito d’ali di una farfalla che scuote il manto d’erba da cui ha appena spiccato il volo.

Quelle poche volte in cui si concedeva di indossarlo erano di solito le sagre di paese, oppure a Pasqua, o in certe domeniche particolarmente soleggiate, quando lei e Sara e Massimo se ne andavano a gironzolare nei dintorni di Portorosso, alternando nuotate in spiaggia e scarpinate fra le vigne e i boschetti. Domeniche speciali, appunto.

E oggi è una domenica specialissima, pensò con un sorriso.

Già non vedeva l’ora di scoprire se lo sguardo di Bruno si sarebbe illuminato nel vederla con un vestito più grazioso rispetto a quelli che di solito lei indossava per andare a lavorare.

Speriamo solo che non si accorga però che i capelli sono più disastrati del solito.

Sapeva anche che l’abito verde per lei era una garanzia. Il verde le aveva sempre donato in maniera naturale, e quel giorno, grazie al sole splendente regalato da quella calda mattinata estiva, il colore dei suoi occhi era proprio uguale a quello che sfarfallava sul suo abito quando ne scuoteva le frange. Un verde brillante come un germoglio che si stiracchia schiudendosi sotto la luce di un mattino dorato che profuma di erba umida, di boccioli appena fioriti, e di polline sparpagliato dalle corolle variopinte.

Le guance di Valentina pizzicarono, rosse di emozione, incapaci di nascondere lo spasmo di quella gioia che le rimbombava allegra nel petto.

Quella che stava assaporando era un’emozione del tutto diversa da quella che di solito provava prima di uscire con gli altri ragazzi, quando un formicolio di nervosismo le chiudeva la pancia, la spingeva a sistemarsi di continuo i capelli, a lisciarsi le pieghe della gonna, e ad asfissiarsi di profumo per essere sicura di far colpo almeno grazie a quel lato di se stessa. Prima di mettersi a parlare e di guastare ogni sforzo.

Ma Bruno la sera prima le aveva detto che non c’era bisogno di far colpo su di lui, ed era quello che Valentina provava in quel momento, perché sapeva di non star uscendo con un ragazzo qualsiasi. Stava uscendo con un suo amico. E quella consapevolezza la riportò indietro, la ringiovanì facendola tornare bambina, le spolverò addosso la luminosa sensazione di gioia e di aspettativa che provava da piccola, quando lei e Sara e Massimo si davano appuntamento per giocare in piazza, o per andare a correre in bici o a nuotare in spiaggia. Le piacque quella sensazione. Era familiare ma anche del tutto nuova, come assaggiare un nuovo gusto di gelato dopo un inverno di astinenza.

Chissà se oggi anche lui sarà un po’ diverso o se sarà quello di sempre?

Ecco un’altra cosa che non vedeva l’ora di scoprire. Valentina moriva dal desiderio di vedere Bruno sotto una luce che non fosse quella bassa, polverosa e un po’ lugubre che di solito regnava nella sala da pranzo dell’osteria, quando la locanda veniva annebbiata dal buio della sera, dai vapori esalati dalla porta della cucina, e quando le pareti tremavano per il baccano scosso dai vocioni dei pescatori che si radunavano dopo il lavoro, urtando i tavoli, spostando sedie, e soffocando l’ambiente con le loro ombre e le loro presenze così ingombranti e rumorose.

Ma oggi non ci sarà niente e nessuno a ingombrarci. Oggi saremo soltanto io e Bruno.

Sospinta da quel battito di gioia che le alleggerì il passo, Valentina imboccò la porta, ci ripensò, tornò in camera, si affacciò un’ultima volta allo specchio, raddrizzò il nastrino fra i capelli, aggiustò la collana attorno al colletto dell’abito, lucidò la chiavetta e la fece ricadere sui bottoni che le attraversavano la chiusura del busto. Sollevò il mento, si guardò a destra, a sinistra, e sorrise. Profilo perfetto. Un po’ trasandato, ma perfetto così com’era.

Pronta!

Calzò i sandaletti, trotterellò giù dalle scale facendo svolazzare la gonna, e andò incontro al buon profumino della colazione che aleggiava dalla cucina. Profumo di latte tiepido e cremoso, di pane tostato e imburrato, e di fondi di caffè.

Papà e mamma stavano già brontolando di primo mattino, e Valentina, avvicinandosi, colse solo qualche frammento della loro discussione.

«… annaffiate troppo tardi» si lagnò Pia. «E così va a finire che rimangono umide e vanno marce. Non voglio che facciano la stessa fine delle peonie.»

Lo scroscio del rubinetto si interruppe, «Ma adesso il sole batte forte e sale troppo presto», e la voce di Eros si mescolò allo strofinio della spugna che grattava una superficie di vetro. «Si brucerebbero se…»

Eros era infatti chino a sciacquare le tazze e le posate nel lavello.

Pia invece chiuse la dispensa da cui aveva appena recuperato il sacco della farina – il tagliere per lavorare la pasta all’uovo era già preparato sul tavolo – e ora si stava allacciando il grembiule in vita. «… e ricordati delle grondaie.» Mamma versò una montagnetta di farina sul tagliere, usò una forchetta per scavare al centro un piccolo cratere. «Ché è già una settimana che sono intasate di foglie. Alla prossima pioggia ci ritroviamo con il tetto sfondato se non…»

«Giorno, ma’! Giorno, pa’!» Valentina fece irruzione in cucina, e la sua presenza splendette come un secondo sole mattutino che abbaglia le finestre, fa schiudere i fiori e che richiama il canto degli uccellini. Aprì il coperchio della moka ancora sul fornello – caffè prosciugato –, frugò poi fra gli scaffali, dentro il barattolo di biscotti, e cercò qualcos’altro con cui riempirsi il pancino prima di uscire. «Che c’è per colazione? Ooh, la marmellata di lamponi!» Infilandosi fra le schiene di Eros e Pia, si fiondò sui due vasetti di marmellata al lampone lasciati sul davanzale. «È quella del Signor Oreste? Buooona.» Pescò cucchiaio e coltello dal portaposate, e andò in cerca della cesta del pane fresco da fare a fette.

Pia ruppe anche l’ultimo uovo, gettò i gusci, e si diede una pulita alle mani strofinandole sul grembiule. «Alla buon’ora, signorina.» Il tono aspro come se per colazione si fosse mangiata un limone intero, buccia compresa. «Finalmente sveglia.»

Pure Eros, lo sguardo concentrato su una delle ultime tazze da sciacquare, si unì alla voce del rimprovero. «Quante volte dobbiamo ripetertelo che l’esistenza della domenica non è una buona scusa per poltrire tutto il giorno?»

«Hai sentito tuo padre?» Pia rigirò le mani nell’impasto che stava lavorando. «Hai idea di che ore sono?» Alzò lo sguardo verso l’orologio a parete. «Già le…» Le sue labbra si pietrificarono. Le palpebre si strinsero, gli occhi immobili, fino a che una crepa di incredulità non frantumò la sua espressione allucinata. «Le…» Grumi di impasto colarono dalle sue mani rattrappite. «Otto e un quarto?»

«Le cosa?» Eros fece cadere la tazza nell’acquaio e anche lui sgranò gli occhi verso l’orologio. La lancetta dei secondi si muoveva e batteva il tempo, non era un’illusione. «Già sveglia a quest’ora, Tina?»

«Impossibile.» Pia andò a rigirare il braccio di Eros, portò alla luce il quadrante dell’orologio da polso e picchiettò un’unghia sul vetro. «Non è che sono rotti tutti e due?»

Valentina in un’altra occasione si sarebbe indignata davanti a simili insinuazioni, ma quella mattina era troppo di buon umore per permettere a quelle accuse di buttarla giù. «Che esagerati.» Saltò a sedere sullo spigolo del tavolo, da perfetta signorina beneducata. Affondò il cucchiaio nel barattolo di marmellata ai lamponi e ne schiaffò una porzione abbondante su una delle fette di pane che aveva impilato sul piatto. «È davvero così strano vedermi sveglia a quest’ora?»

«Se si parla di te sì.» Eros recuperò la tazza che gli era caduta e finì di asciugarla. «Di domenica e nei giorni di festa nemmeno le cannonate ti tirerebbero fuori dal letto prima di mezzogiorno.»

«Oh, insomma.» Valentina addentò la sua fetta di pane e marmellata. Il pane era squisito, croccante e ancora tiepido, dolce come un biscotto, mentre la marmellata aveva un sapore fresco e zuccherino, e profumava proprio come un cespuglio di lamponi selvatici. «Se mi alzo tardi non va bene.» Raccolse un’altra cucchiaiata di marmellata e la spalmò su una seconda fetta di pane. «Se mi alzo presto non va bene lo stesso. Decidetevi, una buona volta.»

Pia la linciò con un’occhiataccia che avrebbe potuto abbrustolirla proprio come una fetta di pane tostato a puntino. «Non usare quel tono, signorina.»

«Se sei già in piedi allora puoi anche venire a darmi una mano in officina.» Eros si asciugò le mani e sorrise alla figlia, senza quasi accorgersi del rimprovero di Pia. «Ieri un cliente mi ha portato una Lancia che volevo proprio farti vedere. È uno di quei modelli usciti l’anno scorso, sai, quelli…»

«Scusa, pa’, magari un’altra volta.» Valentina si succhiò le dita sporche di briciole e di schizzi di marmellata. Saltò giù dal tavolo e si aggiustò la gonna svolazzante. «Oggi esco, sto fuori tutto il giorno, non aspettatemi a pranzo.»

Pia si fece cadere il broncio. In compenso tornò lo sguardo allibito. «Esci?» Si scambiò un’occhiata sbieca con Eros. «Per andare dove?»

Lui le fece da eco: «E con chi?»

Valentina invece sorrise. Non poté farne a meno. «Con un amico.» E quella frase batté sul suo cuore gonfio di allegria. Si depositò sulle sue labbra sorridenti, dolce e fragrante proprio come le fette di pane e marmellata che si era appena gustata per colazione. «Ci vediamo stasera.» Andò a baciare entrambi i genitori, lei e il suo respiro di lampone. Sventolò la manina, «Ciao ciao», e svolazzò verso la porta d’ingresso, leggera e contenta come una farfallina che rimbalza da una corolla all’altra.

Un sospiro incredulo traballò fra le labbra socchiuse di Pia. «Ma…»

«Tina, aspetta.» Eros la inseguì fino alla soglia della cucina, invano.

Valentina ignorò entrambi. Non aspettò, non tornò indietro, e non diede altre spiegazioni. Sapeva che avrebbero capito.

E se non capiranno, pazienza.

Uscì di casa accolta dal sole del mattino. Si riparò dai raggi più bassi, dalla forte luce che batteva sulla rugiada dei gerani e sulle finestre del vicinato, rendendole bianche come specchi. Attraversò lo sventolio colorato dei panni appena lavati e messi a stendere sul balcone, respirò a pieno petto il profumo di bucato fresco e di fiori gocciolanti di rugiada, e scese i gradini d’ingresso stando attenta a non urtare il chiodo sporgente che Eros non aveva ancora raddrizzato.

Fuori dal portone di casa, riparato dal cantuccio di penombra racchiuso fra le case del vicinato, dove le grondaie si incontravano e dove le mura erano schiacciate una all’altra, c’era già qualcuno che la aspettava.

Bruno strofinò un’ultima carezza fra le orecchie di Pepe che, scodinzolando, gli era corso incontro appendendosi con le zampe sul cancelletto per sporgersi, sollevare il muso e farsi fare le coccole. Si girò verso Valentina, dopo aver udito lo scatto della porta e i suoi passi scendere i gradini di pietra, e diede un piccolo colpetto all’insù con la fronte per scostarsi i riccioli dagli occhi.

Le sorrise, e il suo fu un sorriso semplice e dolcissimo, disteso sulla sottigliezza delle sue labbra asciutte. Sotto la luce di primo mattino, la pelle di Bruno bruciava come bronzo, palpitava come quel sole rovente, anche se appena sorto, che infiammava le tegole e che galleggiava sulle stradine di pietra. I suoi splendidi riccioli color cioccolato ricadevano folti e gonfi, incorniciavano i tratti del volto spigoloso. «Eccoti.»

Pizzicato dall’allegria della sua voce che ormai aveva imparato ad amare e a riconoscere, il cuore di Valentina sobbalzò di gioia. Cantò una melodia tanto soave che sicuramente nemmeno il giradischi dell’osteria aveva mai suonato prima.

Bruno quel giorno sembrava ancora più giovane. Il corpo esile e mingherlino che annegava negli abiti sempre un po’ cadenti. Pure lui era vestito in maniera diversa. Pantaloni più puliti e meno sbiaditi e sfilacciati rispetto a quelli che di solito indossava per il lavoro. Una camicia blu troppo larga per le sue spalle ossute, i primi bottoni aperti e il colletto simile a una coppia di ali svolazzanti. A Valentina venne da pensare che si fosse fatto prestare gli abiti da uno degli altri braccianti, da qualcuno alto come lui ma ben più robusto. Però non gli stavano male. Gli donavano un certo fascino da vagabondo, e accrescevano quell’aura di mistero che lo seguiva sempre come un’ombra, celando chissà quanti segreti.

E su di lui il colore blu sta inaspettatamente bene, pensò Valentina, sentendosi arrossire.

Bruno sfilò la mano dalla pelliccia di Pepe, lo salutò, e si accostò al portone di casa, facendosi raggiungere. «Pronta ad andare?»

Valentina squittì una risata gioiosa, ma solo dopo essersi ripresa da quel breve attimo di delizioso stordimento, come quando a marzo correva a tuffare il naso fra i rami delle acacie, dove sbocciavano i grappoli di mimosa più profumata che avevano lo stesso aroma del miele, facendosi venire il capogiro. «Prontissima!» Balzò giù dagli ultimi gradini – un lampo verde nell’oro del mattino – e gli andò incontro. Avvolse il braccio di Bruno e lo condusse attraverso la stradina che portava al centro di Portorosso, dove le vie si allargavano e si incontravano come ruscelli che fanno ritorno a uno stesso laghetto.

Così avvinghiata a lui, il primo profumo che la raggiunse fu quello dei suoi capelli insaponati, poi quello fresco degli abiti puliti che comunque serbava un qualcosa dell’osteria dove alloggiava, il buon odorino della cucina calda, delle lenzuola sempre fresche che lei stessa piegava e stendeva sui materassi. E poi l’inconfondibile profumo che poteva appartenere solo a Bruno, all’anima del Sud Italia, ai fiori d’arancio, alle bucce dei bergamotti, alla vegetazione selvaggia e assolata, a una spiaggia impregnata dalla salsedine delle onde che inzuppano la sconfinata distesa di sabbia. Però quel giorno aveva anche qualcosa di diverso, di più speziato, come di cannella, di pepe, e di legno di cedro.

Valentina socchiuse gli occhi, si strinse ancor più forte al suo fianco, aprì il respiro a quel profumo, e fu come farsi raccogliere da un vento di Scirocco che soffia sui campi spolverati di polline, larghi oceani di grano che danno rifugio al frinire delle cicale.

Al di sotto della prima scorza di profumi dolci – quel profumo grezzo ma squisito che ti si scioglie in bocca come crudo miele di castagno –, Valentina ritrovò anche il profumo aspro del mare. Il mare grigio e buio a cui si era affacciata la notte prima guardando nel profondo degli occhi di Bruno, quando si era sentita risucchiare. Un mare in tempesta, impetuoso, temuto anche dai pescatori più coriacei. Ma Valentina non aveva paura. Non si era mai sentita tanto al sicuro in tutta la sua vita.

Bruno tossicchiò, e il suo braccio vibrò contro il petto di Valentina. «Hai…» La sua voce tremolò, forse in imbarazzo per averla così vicina, e infatti la sua spalla irrigidì, fece un po’ di resistenza all’abbraccio pur non sottraendosi. «Hai riposato bene questa notte?»

Valentina riemerse dal vortice di profumi, dal gorgo di mare nero che la chiamava a sé, e sorrise. Era bello riconoscere il solito timido Bruno, dopotutto. «Come un ghiro.» Si scollò dal suo braccio, lasciandogli spazio e respiro. Ci sarebbe stato tempo per accorciare le distanze. «Ho ricaricato le energie per essere bella pimpante.» Strinse le mani sulla schiena, camminò all’indietro senza incertezze. Non aveva bisogno di guardare davanti a sé per riconoscere la strada e percorrere le sue curve. «Allora, da dove cominciamo la gita? Dove vuoi che ti porti?»

«Dove vuoi tu» rispose Bruno. «Mi fido della tua guida.»

«Allora lascia fare a me.» Valentina tornò al suo fianco e si batté la mano sul petto, tutta inorgoglita. «Sono una vera esperta. Spero solo che non ti dispiaccia camminare un po’.»

«Non mi stanco mai.»

«Allora siamo in due.»

Risero assieme, come due ragazzi qualsiasi, come due vecchi amici, mentre il glorioso mattino appena sorto su Portorosso li accoglieva nella sua luce, nel profumo di quell’estate che era dolce proprio come il sorgere di un primo amore.

 

♡♡♡

 

Eros e Pia, dopo aver inseguito la fuga di Valentina, si affacciarono dalla porta di casa che lei si era dimenticata di accostare e di chiudere. Conoscendola, era molto probabile che l’avesse fatto apposta.

La videro uscire dal portone di casa, avvolgersi al braccio di Bruno che la stava aspettando, dargli una piccola spallata e accelerare la corsetta per farsi seguire. «Allora siamo in due.» Risero entrambi. E i due ragazzi si allontanarono addentrandosi fra le strette stradine del paese, circondati dalle sfumature color rosa e arancio delle casette del vicinato. Attraversarono anche le ombre dei panni umidicci appesi ad asciugare fra le finestre, ed erano già lontani, perché le loro parole sfuggirono alle orecchie, facendosi distanti e irraggiungibili come il canto dei gabbiani che svolazzavano sopra i tetti dalle parti del porto.

Dopo essersi ripresa dall’impatto fulminante di quella scena, Pia scosse la testa ancora un po’ stordita, richiuse la bocca ammutolita, e sgranò lo sguardo su di Eros, incredula. Le mani ancora sporche dell’impasto all’uovo che aveva abbandonato sul tavolo della cucina. «Ma tu ne sapevi qualcosa?»

Eros torse un sopracciglio e boccheggiò, sconvolto e a corto di fiato pure lui. «N-no.» Ripensò a quell’ultimo brevissimo sguardo che Bruno aveva fatto scivolare sopra la spalla e che si era incontrato con il suo. «Cioè, io…» Sul serio poteva fidarsi di lui? Quando lo aveva visto dargli la schiena, affiancarsi al passo saltellante di Valentina, e girare l’angolo della strada, sparendo nell’ombra, gli era salito un brivido lungo la schiena. Un brivido freddo come un graffio solcato da una scheggia di ghiaccio. Non fu una sensazione incoraggiante. Dopotutto, non sapeva nulla di quel ragazzo.

Ma quand’è che lui e Tina sono entrati così in confidenza, poi?

Dunque era quello il motivo per il quale Valentina ultimamente si faceva sempre dare i turni serali e che tornava sempre a casa tardi dal lavoro in osteria. In più c’era anche stata la scenata della notte prima fuori dalla porta di casa, anche se Valentina aveva negato qualsiasi interesse.

Stiamo solo facendo amicizia” gli aveva detto.

Ed Eros le aveva pure creduto, il fesso. «Diciamo…» Si strofinò la testa, assalito da un improvviso sentimento di colpevolezza davanti allo sguardo ancora così spaesato di Pia. «Diciamo all’incirca.»

Pia strinse la fronte in una ruga di accusa rivolta a Eros. Sventolò via un filo di capelli scivolatole sulla guancia, stando però attenta a toccarlo con le nocche e non con le dita sporche di impasto, e si sporse ad allungare un ultimo sguardo verso Valentina e Bruno che erano appena scomparsi dietro l’angolo. «Ma quello non è uno degli stagionali?» I suoi occhi cerchiati d’ombra vacillarono. «Quello…» Si guardò attorno, circospetta, come se persino le api o i fiorellini fossero stati in grado di udirla, di svergognarla, e di spargere in giro i sussurri di quel segreto. Si accostò alla spalla di Eros, abbassò la voce. «Quello che dicono che è…» Indicò verso il basso.

Eros si strinse nelle spalle, impotente e colpevole, e la sua espressione parlò da sola. Poteva forse negarlo?

Pia sbiancò. Si posò la mano sul cuore come se fosse appena stata fulminata da un infarto, e vacillò sulla fragilità delle sue gambe che parvero in procinto di spezzarsi come rametti. Dovette appoggiarsi allo stipite per non sentirsi svenire. «Oh, Signore Benedetto.» Si ripulì le mani sporche sul grembiule, si fece il segno della croce e se ne ritornò in casa.

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Capitolo 12
*** Lauretta mia – Atto II ***


Lauretta mia – Atto II

 

 

Valentina affrettò il passo per saltellare davanti alla vetrina del panificio, eccitata a tal punto da sentire i piedi volare, guidati dal battito del cuore così caldo e libero da farla sentire più leggera e vaporosa di una bianca nuvoletta estiva che galleggia nell’infinito azzurro del cielo. «Ecco, ecco, vedi: questa invece è la panetteria dove ho cominciato a lavorare.» Non era ancora stanca di parlare nonostante le labbra in fiamme e il prurito che le grattava la gola. «Quella dove lavoravo prima di venire a fare la cameriera al Gabbiano.» Si appiccicò alla vetrina senza però premere le mani sul vetro. Si spostò di lato, sbirciò all’interno piegando le spalle in avanti e aguzzando la vista attraverso la penombra del locale che era ormai chiuso e deserto, considerato che si era già fatto pomeriggio inoltrato.

Valentina portò una mano davanti alla fronte, respinse il riflesso del sole che batteva sul vetro e che luccicava sulle grate dove erano riposte le ceste delle pagnotte, delle focacce, delle rosette, e delle ciambelline al forno. «Ooh» sospirò, atterrata da un’improvvisa stretta di delusione. «Ma non vendono più i cornetti alla crema? Che peccato, erano così buoni. In effetti è tanto che non passo di qui anche solo per fare un saluto.»

Pure Bruno si affacciò, affiancandola, e diede anche lui una sbirciata all’interno della panetteria. Compì un passetto indietro e alzò lo sguardo verso l’insegna verniciata su una tavola di legno laccato. «Questa è la panetteria che hai rischiato di mandare in fallimento a forza di pasticciare con gli impasti?»

«Esatto» esclamò Valentina. «Proprio quel – ehi!» S’immusonì e gli scoccò un grugno offeso.

Bruno alzò le mani e rattrappì le spalle. «Sei stata tu a dirmi che è andata così.»

Il grugno di Valentina non resse a lungo. Le guance si sgonfiarono in una risata chiocciante, e lei scosse la testa dimenticandosi in fretta del confronto. «Sì, lo so che sono stata io a dirtelo per… ooh!» Valentina andò a punzecchiare Bruno con una serie di sgomitate, gli strizzò un occhiolino d’intesa. «Ma allora ti ricordi sul serio quello che racconto

Bruno flesse un sopracciglio. «Non dovrei?»

A malincuore, Valentina scosse la testa e spinse all’indietro il nastrino che le si era sciupato fra i capelli. «Tutti prima o poi si stufano di sentirmi parlare» confessò. «Tutti tranne Sara e Massimo, ovvio. E anche papà.» E ora anche Bruno si era unito alla cerchia. Lui che non la zittiva mai, che non si guardava attorno sperando in una via di fuga per mettere in salvo le orecchie, e che era disposto a seguirla dovunque lei lo guidasse senza mai sbuffare o lamentarsi. Anzi, sembrava rilassarsi passeggiandole affianco, ancor più rispetto a quando lavorava in mezzo agli altri braccianti o a quando sedeva da solo al tavolo dell’osteria.

Forse anche lui si sente al sicuro sapendo di avere affianco qualcuno che non lo giudica, dopotutto.

«Ma ti avevo già assicurato che con me non c’è bisogno di fingerti qualcuna che non sei.» Bruno tornò ad affacciarsi alla panetteria, sbirciò all’interno della vetrina riparandosi anche lui la fronte dal riflesso del sole. Si soffermò sulle forme di pane e di paste glassate che erano esposte affianco ai sacchi della farina, ai cubetti di lievito, e ai pacchetti di taralli. La fine e minuscola piega di un sorriso gli incurvò le labbra. «Sembra tutto delizioso.» Chiuse gli occhi. Annusò allungandosi verso il lucernario rimasto socchiuso, attratto dal profumo degli impasti tiepidi, dello zucchero caramellato, e delle spolverate di sale e rosmarino. «E c’è anche un buon profumo.»

Valentina sorrise. «Sì, è vero» sorrise. «Il profumo è una delle cose che mi piaceva di più del lavorare qui, in effetti.» Raccolse la catenina della sua collana e la arricciò attorno all’indice. «Quello e il poter mangiare tutto il pane che volevo, naturalmente.» Compì ancora qualche passo davanti alla vetrina, indugiò con lo sguardo sulle corone di grano che decoravano il bancone, sui girasoli e sui papaveri finti che coloravano le ceste del pane. «Ma alzarsi sempre alle quattro di mattina dopo un po’ cominciava a diventare davvero troppo stancante, per me che non sono affatto una mattiniera. E forse era per quello che lavoravo così male. In un certo senso è stato un bene che io poi abbia smesso e che sia venuta a lavorare al Gabbiano. E poi, ehi…» Tornò a sgomitare Bruno, a trillare una risatina di complicità. «Senza il mio lavoro all’osteria forse non sarebbe stato così facile per noi due fare amicizia.»

Bruno alzò le spalle. «Forse è vero, sì.» Camminò al di fuori dell’ombra proiettata dalla tenda della panetteria, scese i tre gradini che lo riportarono sulla via principale, schivò i rametti di una giovane piantina di ulivo che cresceva fuori dalla bottega del salumiere, e indicò a Valentina la stradina che curvava e che si restringeva fra le mura delle case. «Per di qua, giusto?»

«Sì, sì.» Valentina corse ad affiancarlo, si spolverò le frange della gonna, e giunse le mani dietro la schiena, inseguita dallo schiocco dei sandaletti che battevano la pietra. «Ti porto fino in cima a – salve, Signor Oreste!» Si allungò a sventolare un saluto sorridente al Signor Oreste che si era appena affacciato dalla terrazza di casa. «Grazie per la marmellata, era squisita!»

Il Signor Oreste sbatacchiò le palpebre, stordito come se gli fosse arrivato il sole negli occhi. «C-ciao, Tina.» L’acqua versata dal suo annaffiatoio traboccò dal vaso delle povere orchidee, attraversò le grate della terrazza, e piovigginò in strada facendo brontolare il garzone dell’enoteca che era appena uscito a dare una spazzata al marciapiede.

Più Valentina e Bruno si addentravano nel centro del paese, più i mormorii aumentavano, occhiate oblique volavano nella loro direzione, le tendine dei bar si schiudevano per far sbucare sguardi incuriositi, ombre si affacciavano alle finestre per spiare quell’innocua passeggiata allietata dal sole domenicale.

Due pescatori di ritorno dal porto bisbigliarono fra di loro reggendo i rotoli di reti sulle spalle. L’edicolante che era uscito dalla bottega non staccò gli occhi da Bruno e Valentina fino a che loro non svoltarono l’angolo. Pure la Signora Agnese si ritrovò ammutolita come uno stoccafisso, stecchita davanti ai cordoni del bucato proprio mentre stava finendo di appendere un lenzuolo.

Una parte di Valentina se ne infischiava altamente, lasciando che quelle occhiate le rimbalzassero addosso come fa la pioggia sulla tela dell’ombrello. Dall’altra parte accolse quegli sguardi con un sorriso deliziato. Il petto le si gonfiò di un’emozione eccitante, al pensiero di rendersi partecipe di un pettegolezzo così innocente eppure così scandaloso.

Ciò che davvero le faceva scoppiare il cuore di entusiasmo era la consapevolezza che tutta Portorosso la stesse vedendo assieme a Bruno. Quegli sguardi strabuzzati avevano lo stesso dolce e piccante sapore di una piccola ma meritata rivincita.

Bene, pensò. Che lo sappiano. Che lo vengano a sapere tutti, persino il Papa, per quel che mi riguarda. Che sappiano tutti che c’è qualcuno che mi fa sorridere in questo modo e che è felice di starmi affianco dopo tutti questi anni di rifiuti da parte di un paesino che avrebbe sempre dovuto essere la mia grande famiglia.

E così Valentina continuò a portarsi Bruno a zonzo, e per un po’ entrambi passeggiarono per Portorosso come una coppietta di animali esotici da cui tutti prendono le distanze, scambiandosi sguardi intimoriti ma anche bisbigli affascinati. Prima o poi si sarebbero stufati, ne era certa. E non era su quei vecchi bacucchi che Valentina voleva rivolgere le sue attenzioni, in quella giornata tanto speciale.

«Da qui in poi c’è un po’ di salita» disse Valentina, «su per questa stradina.» Accelerò il passo facendo sventolare il verde della gonna attorno alle ginocchia. Nella fretta, il suo braccio sfiorò la camicia di Bruno, la stoffa pulita e profumata di sapone. Bastò quel contatto per farle salire un caldo brivido di benessere lungo la schiena. «Ma vedrai, una volta che arriviamo in cima la ricompensa sarà enorme.»

«Ri…» Bruno flesse il capo, stropicciò la fronte, e si grattò la nuca. «Ricompensa?»

Valentina squittì una risata che splendeva della gioia più sgargiante. Gli fece cenno col mento per farsi inseguire. «Vieni!»

Sfilarono sotto l’ombra delle tende, dei balconi, e degli ombrelloni fuori dai bar, attraversarono il profumo della frittura di pesce, delle piante appena annaffiate, e del Chinotto appena stappato. Dinnanzi a loro, il verdeggiare del colle curvava al di sopra dei tetti color pastello e incontrava l’azzurro un po’ polveroso del cielo di metà pomeriggio.

Valentina allungò il braccio a indicare l’immediata curva di strada in salita di cui non si scorgeva ancora la fine. «Per di qua di solito passano le processioni, sai, tipo quando c’è l’Immacolata o la Via Crucis, e si va dalla piazza fino in cima al monte. Quando le facciamo di sera è davvero il massimo perché ci sono tutte le candeline sparse per la strada, ed è davvero suggestivo, sembra di camminare attraverso un fiume di lucciole. Oh, ecco, vedi…» Sorpassato il piccolo cavalcavia sopra cui scorrevano le rotaie della stazione, furono accolti dal verde più aperto e brillante dei colli che si erano spalancati come ali. «Quaggiù invece cominciano i campi di vigne. La nostra uva è buonissima, sai, d’autunno è davvero un’impresa trattenersi dall’abbuffarsi mentre si vendemmia e – ah!» Valentina batté le mani, attraversò la strada senza nemmeno guardare a destra e a sinistra, si aggrappò a una piccola transenna che dava sul pendio per mettersi poi in punta di piedi e volgere l’indice al paesaggio. «E guarda, guarda.» Puntò un piccolo casolare di pietra e mattoni ombreggiato dal colle dei vigneti e ombreggiato dalle aiuole di rose bianche. «Laggiù c’è la mia vecchia scuola. Il giardino è sempre aperto, infatti noi ragazzini ci andavamo a giocare sempre anche di sabato e di domenica. Hanno sempre detto che avrebbero costruito un campo da calcio vero, con le porte, e le linee per terra e tutto, ma alla fine non è mai successo, e così quando si voleva giocare decentemente si andava sempre in piazza.» Smontò dalla transenna e si diede una sistemata alla gonna stropicciata. «A te piace giocare a calcio?»

Bruno si sporse a sua volta dalla curva. Individuò la scuola con sguardo attento e affascinato. «Uhm.» Tornò a guardarsi attorno, si strofinò le mani sui pantaloni e scosse la testa, di nuovo rattrappito nel suo guscio di timidezza. «Non molto, in realtà.»

Valentina ne fu sorpresa. «No?» Non si era mai sentito di qualcuno a cui non piacesse giocare a calcio. «A me invece piace tantissimo. Ma agli altri bambini si arrabbiavano sempre quando io volevo giocare con loro perché dicevano che non passavo mai i tiri, che ero troppo violenta, e che non vale prendere a calci il portiere quando ormai ha parato per rubargli la palla dalle mani. Forse un po’ è vero.» Rise, e la sua fu la risata dolce e soleggiata che solo i ricordi di infanzia sanno posare sulle labbra di una ragazza ancora così giovane. «Ma per fortuna ci sono tanti altri giochi. Il mio preferito era quello di salire sulle radici o sui rami degli alberi e far finta che fossero motociclette. Poi mi caricavo dietro Sara e Massimo e mi immaginavo di portarmeli in giro per il mondo. Oh, eccoci.»

Riprendendo a passeggiare, avevano raggiunto la curva più ampia del colle, quella che si apriva sulla luce terrosa del pomeriggio che scaldava la pietra e le mura delle botteghe. Una luce verdeggiata dagli alberi più folti e dai cortili che maculavano gli spazi fra le casette più distanziate fra loro. Li accolse un profumo più fresco rispetto a quello che si respirava nel centro del paese. Un profumo di ulivi e di piantine di limoni, del vento salmastro esalato dal respiro del mare.

«Vedi lassù?» Valentina saltellò e indicò la cima mozza della Torre Antica appena sbucata dietro i comignoli. «Quella è la Torre Antica, la si vede già da qui. Quando arriviamo in cima, poi – perché ridi?»

Bruno si premette la mano sulla bocca, si piegò in avanti per forzare un tossito che coprisse la sua risata. «Scusa, scusa» sghignazzò. «Non è per…» Scostò i riccioli cascati sulla fronte, risollevò il capo. Dopo aver riso, i suoi occhi scuri e umidi erano diamanti grezzi estrapolati dal terriccio. «È che sembra che tu abbia una storia per ogni sasso di Portorosso.»

Valentina si concesse il tempo di un battito per superare il guizzo di emozione trasmesso dal contatto con quegli occhi. Sorrise, come scaldata da una tenera carezza inaspettata. «Ma te l’ho detto che sono una vera esperta, no? Anche se non mi sembra un gran vanto, voglio dire, conoscere tutto di una città così piccola e insignificante.»

«Per me non è insignificante» replicò Bruno. «Poi, dal modo in cui ne parli, si sente che ci sei sinceramente affezionata.»

Le sopracciglia di Valentina compirono uno scatto verso l’alto. «Sul serio?»

Bruno annuì.

«Oh.» Valentina si posò la mano sulle labbra e rise, arrossendo. «Non l’avrei mai detto, sai.»

La loro passeggiata in salita incrociò la discesa di un gruppo di compaesani che si dirigevano verso il centro del paese, con ogni probabilità verso la piazza. Li guidava la corsa di un furgoncino Ape che Valentina e Bruno schivarono saltando sul marciapiede. Il furgoncino sgasò tossendo qualche bolla di fumo, fece sporgere il ragazzo accucciato nel portapacchi che poi fece cenno al guidatore di andare avanti.

Dietro di loro, seguiva un altro piccolo gruppetto di uomini e donne. Alcuni sorreggevano delle impalcature sulle spalle, travi e panche ripiegate, e altri ancora spingevano carriole contenenti damigiane, pile di piastre da cucina, tovaglie arrotolate, lanterne a olio e rotoli di luminarie. Due donne in fondo al gruppo biascicarono qualche protesta, una slanciò la mano verso l’Ape corsa giù dal tornante del colle, e l’altra mollò il manico della sua carriola per aggiustare il fazzoletto annodato alla matassa di capelli grigi.

Bruno si girò per inseguirli con lo sguardo, prima che il gruppetto si dileguasse giù per il colle. «Stanno già preparando la vendemmia?» domandò. «Non è un po’ presto?»

«Veramente» disse Valentina, tornando a rimbalzare dal marciapiede sulla strada, «non stanno preparando la vendemmia, ma la sagra.»

«Sagra?» Una scintilla di curiosità accese gli occhi di Bruno. «Quale sagra?»

«La Sagra del Basilico» rispose Valentina. «Quella della prossima settimana.» Allungò il passo come se stesse già trotterellando fra i profumi dei chioschi, i vapori delle fritture, e le note musicali strimpellate dall’orchestrina. «È la nostra festa preferita, forse ancora più di Ferragosto, anche perché questa dura ben quattro giorni, da giovedì a domenica, e non si festeggia solo qui a Portorosso, ma anche nelle altre quattro delle Cinque Terre. La parte più bella è sempre la domenica, perché la sera sparano i fuochi d’artificio da tutte le città sulla costa, e tutto il cielo e il mare sono illuminati.» Sporgendo lo sguardo dal tornante della salita, la vista del paese rimpicciolito e così distante le scaricò una lieve vertigine lungo le gambe. Valentina dovette alzare la mano per ripararsi da un lampo di sole che, specchiandosi nella pozza di mare trattenuta dall’abbraccio del porto, era rimbalzato fino a lei. «E poi viene un sacco di gente da tutta la Riviera. Una volta sì che era la Sagra della Vendemmia. Poi però negli anni abbiamo deciso di anticiparla ed è diventata la Sagra del Basilico. No, ecco, ho cambiato idea. La parte più bella non sono i fuochi d’artificio, ma tutto quello che si prepara da mangiare.»

Bruno soffiò una risatina. «Tutto a base di basilico, immagino.»

«Non solo, no.» Valentina elencò sulle punte delle dita. «Ci sarà anche il chiosco delle frittelle e delle noccioline candite. Poi la grigliata di pesce, e di quella ce ne sarà tanta. Oh, e anche le patate fritte al rosmarino, quelle sono proprio il massimo. Te le farò assaggiare, te le preparano proprio davanti agli occhi.»

«Mi stai ufficialmente invitando?»

«Magari è così. Allora…» Valentina distese un sorriso sornione, assottigliò lo spazio fra le ciglia luccicanti. «Ci verrai?»

Bruno però non sembrò abboccare all’amo di quello sguardo. Non ancora. «Stento a credere che sia tu a invitare me.» Si infilò le mani nelle tasche della camicia, guardò altrove. «E che i ragazzi non facciano la fila per invitare te.»

Quel commento avrebbe dovuto lusingare Valentina, e invece le rovesciò addosso solo un getto di umida e fredda tristezza. Una tristezza fin troppo familiare. «Te l’ho detto.» Raccolse una ciocca profumata, anche se crespa, e la arricciò di qua e di là. «I miei appuntamenti finiscono sempre nel disastro. I ragazzi mi confondono, proprio non li capisco. Anzi: non riesco a capire cosa loro si aspettano da me.» Sventolò la ciocca dietro la spalla. «Mi fanno un sacco di complimenti e mi guardano tutti ammaliati perché dicono che ho dei begli occhi, poi però, quando si tratta di vedere anche tutto il resto di me, mi piantano in asso con la stessa velocità con cui mi sono ronzati attorno.»

«Be’…» Il tono di Bruno si ammorbidì. «Effettivamente hai dei bellissimi occhi.» E lui trasalì come se avesse calpestato un riccio a piedi nudi. «Cioè…» Piegò il capo contro la spalla, si nascose arruffando i riccioli, poi però prese coraggio e sollevò la mano con cui si era coperto. Gli occhi come due pozze scosse dal lancio di un sassolino. Un sorriso sincero ma imbarazzato a tremolargli sulle guance diventate di un cupo color mattone. «Sono troppo scontato?»

Valentina rise di gusto, facendo luccicare il verde dei suoi bellissimi occhi, e scosse la testa. «Per niente.» Nonostante fosse una frase che si era sentita rivolgere un’infinità di volte, era la prima volta che la faceva sentire così sazia e appagata. Ancora meglio di un’abbuffata di pasta o di gelato. «Ti ringrazio per il complimento, comunque.»

Bruno alzò le spalle come se si fosse trattata di una scaramuccia da poco. «Chissà quante volte te l’avranno detto.»

«Ma nessuno mi è mai sembrato sincero come te. E comunque…» Valentina intrecciò le dita dietro la schiena. Fu lei ad avvicinare il passo a quello di Bruno. «Anche io stento a credere che tu sia così libero di gironzolare assieme a una ragazza senza avere un’orda di ammiratrici alle calcagna.»

Bruno tornò a gettare lo sguardo ai suoi piedi, a nascondersi sotto i riccioli rovesciati davanti agli occhi. Strinse le labbra, tossì, «Non ho mai avuto una ragazza», e si strofinò la nuca.

«No?» Valentina si sorprese – ma nemmeno troppo – di sentirsi sollevata davanti a quella confessione. Fu un peso che si sciolse dal petto. Valentina pensò che, nell’apprendere il contrario, quel peso si sarebbe indurito come una brace e avrebbe bruciato come un tizzone ardente. «Anche io stento a crederci.»

«Ti giuro che è la verità» confessò Bruno. «Forse perché sono un po’ troppo riservato.» Di nuovo una brusca alzata di spalle. «O perché non so mai cosa dire. Forse perché parlo poco o perché non ho mai qualcosa di realmente interessante da dire, quindi preferisco starmene zitto. Ma in realtà nessuna ragazza si è mai interessata a me, prima d’ora.» Tornò a rinfilarsi le mani in tasca, strusciò le suole sulla strada di pietra. «Forse è anche perché sanno che non ne varrebbe la pena, dato che giro di continuo, e che spendo tanto tempo a lavorare.»

«Ma per me ne vale la pena eccome» disse Valentina. «Vedi? Magari anche loro ti giudicano solo superficialmente.»

«E forse hanno anche ragione. Non so se ci sarebbe poi molto altro da apprezzare su di me.» Bruno sollevò una spallina della camicia che gli cadeva larga, rigirò il colletto sbottonato sotto cui le lingue di sole s’infilavano per baciargli la pelle scura. «Non che io faccia molto per rendermi un po’ più simpatico di quello che sono.»

«Guarda che con me non devi sforzarti di essere più simpatico di quello che già sei, lo giuro.» Valentina lo dichiarò senza il minimo dubbio. «E poi, se devi sforzarti di essere qualcuno che non sei, allora forse è segno che quella persona non ti accetta per quello che sei veramente e che non siete fatti l’uno per l’altra. Non so se ne varrebbe la pena.»

«Dai l’impressione di saperla lunga a proposito.»

«In realtà anche io lo sto imparando da poco.» Valentina si scansò per schivare il braccio di una pianta grassa che aveva rischiato di pungerle la stoffa del vestito. «Forse riesco a capirti perché il tuo è un po’ l’opposto del mio problema, se ci pensi. Se le ragazze ti evitano perché sei timido e perché parli troppo poco, io ai ragazzi smetto di piacere perché parlo fin troppo. Dicono che sono logorroica. Secondo te io sono logorroica?»

«Sì.»

«Cosa?»

Bruno alzò le mani, scattò all’indietro rimbalzando sullo spigolo di una casa e lì rimase. La faccia strabuzzata dall’incertezza e dall’imbarazzo. «Mi hai chiesto tu di dirtelo, io ti ho solo detto la verità.»

Valentina però non se la prese. Anzi, si mise a ridere. «Ma Santo Cielo.» Si spalmò una manata sulla faccia, grugnì un sospiro esasperato. «Vedi, ecco perché hai così poco successo con le ragazze» lo bacchettò. «Noi signorine amiamo essere trattate con garbo e delicatezza, e a volte è meglio una piccola e innocua bugia rispetto a una brutale verità.»

Bruno socchiuse una palpebra e alzò il sopracciglio. «Cos’avrei dovuto dirti, allora?»

«Avresti dovuto girarci un pochino attorno, per esempio.» Valentina sventolò l’indice e salì sulle punte dei sandali per compiere una giravolta attorno a Bruno. «Dire qualcosa del tipo: ma no, Tina, che dici? Non sei per niente logorroica, Tina. È un piacere ascoltarti, Tina. Conversare con te è una vera delizia per il mio udito

«Solo perché sei logorroica non significa che non mi piaccia ascoltarti e chiacchierare con te.»

Valentina ricadde sulle suole, «Oh», atterrata dal tonfo al cuore che l’aveva ammaliata e stordita. Sgranò gli occhioni luccicanti. La spolverata di rossore risalì le guance lentigginose, la radice del naso, e poi dietro il collo, avvolgendola in un caldo abbraccio.

Questo sì che è inaspettato.

Percorsero ancora un tratto di salita che si alternava fra la lunga strada di pietra e qualche gradino da scavalcare nelle curve più ripide, quelle abbracciate dal fianco del monte stritolato da una rete di contenimento attraverso cui cresceva l’edera e la sterpaglia selvatica. L’altezza della Torre Antica si avvicinava al di là delle cime degli alberi che, riversi sulla strada, ne frastagliavano l’immobile profilo di pietra.

Le case non erano poi così insonnolite come ci si sarebbe aspettato da una domenica pomeriggio accaldata come quella. Una signora uscì a carezzare un gattino pezzato che era salito sul balcone, gli riempì la ciotola con gli avanzi di frattaglie di cui il suo grembiule era ancora sporco. Due anziani signori chiacchieravano sulla soglia di casa, entrambi accomodati su seggiole di paglia, mentre sorseggiavano vino bianco e gesticolavano irrompendo di tanto in tanto in qualche fragorosa risata. Due bimbi giocavano sul terrazzo, seduti, facendo avanzare eserciti di soldatini e facendoli scontrare sotto i fortini issati sui panni del bucato.

La brezza soffiò, fece dondolare le lenzuola messe ad asciugare e fece ruotare un segnavento a forma di pesce. La vegetazione s’inchinò. Le foglie verdi, come scaglie, fecero danzare e svolazzare mille sfumature da cui si sparpagliarono i piumini di polline e i petali rosa degli oleandri.

Quella che li raggiunse e che solleticò loro le narici fu una zaffata di salsedine risalita dalla distesa di mare che ora si spalancava verso l’infinita vastità dell’orizzonte, dove le nuvolette sfumavano e venivano inghiottite dalla scura linea d’acqua.

Incapace di tenere troppo a lungo lo sguardo distante da Bruno – e di inghiottire la parlantina che le bruciava in fondo alla lingua –, Valentina tornò all’attacco sfoggiando il suo notorio ghigno da marpiona. «E così non hai mai avuto una ragazza, eh? Che strano…» Attraversò i capelli con le punte delle dita, rigirò il nastrino fra i polpastrelli, guardò verso il mare alleggerendo il tono di voce e fingendo un vago disinteresse. «E io che pensavo che con tutti i posti che hai girato, con tutti i paesi in cui sei vissuto… dai l’impressione di essere uno che seduce una ragazza a ogni viaggio.»

Lo sguardo di Bruno si aprì alla luce, e lui rivolse a Valentina un minuscolo sorriso piacevolmente sorpreso di aver ricevuto quella confessione. «Sul serio?»

«Ovvio» annuì lei. «Sai, una specie di vagabondo rubacuori. Uno che ti conquista solo per poi andarsene lasciandoti il cuore infranto…» Si strinse una mano al petto e allungò l’altro braccio verso il cielo, come ad afferrare una delle nuvolette che pascolavano nell’azzurro. «Che salta sul treno in corsa seminando alle sue spalle un’orda di ragazze in lacrime che sventolano i fazzoletti e che strillano: nooo!» Si schiacciò il dorso della mano sulla fronte e rovesciò il capo all’indietro, lasciando che il viso le si squagliasse in un’espressione disperata. «Torna da me, Bruno, torna da me!»

«Ti assicuro che non esiste nulla di più lontano dalla realtà.»

«Ma prima o poi avrai incontrato almeno qualcuna che ti piace, no?»

Bruno stropicciò le labbra in una smorfia e grattò le unghie sui fondi delle tasche dentro cui aveva infilato le mani. «Non ho girato poi così tanto.» Anche lui guardò verso il mare. Si lasciò carezzare dal vento che gli spazzolò i riccioli lontano dagli occhi. «Ho cominciato a lavorare quando avevo quindici o sedici anni, e poi non ho fatto altro che spostarmi senza mai avere il tempo di legarmi davvero a un qualche paese o a una qualche città.» Alzò le spalle. «E adesso…»

«Già» fece Valentina. «Ecco una cosa che ho sempre voluto chiederti. Bruno…» Si bloccò in mezzo alla strada e si girò a guardarlo. A guardarlo dritto in quegli occhi scuri e carichi di misteri remoti e bui come l’oceano aperto. «Quanti anni hai?»

La bocca di Bruno si macchiò di un sorriso intrigato. «Io?» La superò sfiorandole la spalla, accelerò il passo molleggiando un po’ sulle ginocchia, e nascose la faccia di chi stava cominciando a spassarsela, di chi era in procinto di cominciare a giocare come i bambini che poco prima aveva visto divertirsi sulla loro terrazza. «Secondo te quanti ne ho?»

«A istinto?»

«A istinto.»

«Uhm.» Valentina lo inseguì. Si strofinò il mento, si accigliò, e di nuovo si soffermò su quel viso così dolce, seppur spigoloso. Un viso ancora sgrezzato nei quali gli occhi scuri assorbivano ogni ombra e ogni riflesso di luce. La folta zazzera di riccioli color cioccolato. Gli abiti che cadevano larghi. Il fisico asciutto che sembrava il carapace di un insetto appena sgusciato fuori dal suo bozzolo e che non aveva ancora imparato a spiegare le ali e a prendere il volo. Proprio la posa che si trascinano dietro i ragazzini che crescono troppo in fretta, le spalle ingobbite dal peso di un’età adulta caduta sulla schiena all’improvviso, da una notte all’altra. «A occhio ne dimostri sedici» confessò. «Ma se dici di aver cominciato a lavorare quando avevi quindici anni allora devi averne sicuramente di più.»

Bruno strinse le labbra e inghiottì una risatina. «Sedici?» Si toccò la faccia, risalì lo zigomo su cui era visibile il segno bianco di qualche taglietto. Forse ferite del lavoro o della rasatura. «Non so se prenderlo come un complimento o meno.»

«Non ti abbattere.» Valentina lo consolò picchiettandogli una serie di pacche sulla spalla. «So perfettamente cosa provi. Anche a me dicono sempre che dimostro meno anni di quelli che ho.»

«Dovresti esserne contenta» rispose lui. «Significa che avrai una vita lunga e che invecchierai lentamente.»

«Se lo dici tu ci credo.» Valentina sospirò e le sue spalle si afflosciarono. Un gesto da cui trasudò una grigia amarezza. «Ma non è lo stesso facile farsi prendere sul serio dalla gente quando tutti ti considerano poco più di una bambina. Ah. Io comunque ne ho venti.» Alzò due dita e chiuse l’altra mano a formare uno zero. «Venti tondi tondi.»

«È un bel numero.»

«E tu, allora?» Di nuovo Valentina lo incitò con una spallata. «Tu quanti ne hai?»

Bruno sollevò le sopracciglia, e lo scatto di quel cipiglio fece traballare una luce di imbarazzo nelle profondità dei suoi occhi larghi e lucidi come gemme levigate. Si strinse nelle spalle, si morsicò il labbro e inspirò dalle narici. «Di…» Allontanò lo sguardo. Avvolse il collo in un massaggio, si grattò la testa, e rispose con un tossito. «Diciannove.»

Valentina allargò un sorriso esultante. «Lo sapevo!» Saltò a pie’ pari, batté le mani e accolse con focoso entusiasmo quella piccola conquista. «Lo sapevo che non potevi essere maggiorenne. Hai un viso così gracile, e dei lineamenti così dolci e asciutti. E sei pure un po’ mingherlino.» Sussultò. Si tappò la bocca e arrossì. «Scusa.»

Bruno scosse la testa. «Fa niente.» Raddrizzò le spalle e rilassò la postura. «In fondo hai ragione.» Di nuovo si diede una grattata alla guancia sbarbata, e attraverso la fronte si dipinse una triste ruga di delusione. «Ma sembro davvero così giovane?»

Valentina annuì. «Però sei parecchio alto. Almeno quando non ti ingobbisci. Magari significa che crescerai ancora, devi solo aspettare. Solo il tuo atteggiamento vissuto ti tradisce un po’.»

Questa volta Bruno rise di gusto, reggendosi la pancia, ma sempre con una mano davanti alla bocca. Un altro modo per nascondersi, pensò Valentina. Come se per lui non fosse legittimo lasciarsi andare.

Represso qualche ultimo singhiozzo di risa, «Vissuto?», Bruno si affrettò a passarsi una nocca sulle ciglia umettate e a darsi una sistemata ai riccioli. «Incredibile» sospirò. «Sono più giovane di te.» Un’ombra di colpevolezza scese a rabbuiargli il volto. «E io che ti ho pure dato della ragazzina…»

«Ragazzina?» domandò Valentina. «Ma quando?» Il ricordo le lampeggiò in testa. «Aah…» Le suscitò una smorfia simile a quella che aveva arricciato proprio quel giorno, quando lei e Bruno si erano ritrovati uno davanti all’altra, circondati dal via vai di gente che come loro lavoravano ai ruderi della piazza, e Bruno le aveva rivolto la parola solo per dirle di levarsi dai piedi. «Il giorno della ristrutturazione, è vero.» Tornando a quel pomeriggio, a respirare l’odore di malta fresca e dell’acqua ferrosa che zampillava nella fontana della piazza, Valentina scoprì che quel ricordo era sì pungente, ma allo stesso tempo nemmeno troppo sgradevole, come il primo morso dato a un cibo piccante.

Bruno la anticipò. «Mi dispiace.» Il suo tono era sincero. Il suo sguardo presente. «Quel giorno sono stato decisamente troppo scorbutico con te.»

Valentina alzò le spalle, si finse più irritata di quello che era. «Scuse accettate. Ma anche io, in effetti…» Arricciò la collanina fra le dita, si mise a giochicchiare con la chiavetta. «È vero che quel giorno ti stavo solo intralciando. E forse…» Abbassò lo sguardo sui sandaletti che avanzavano lungo la strada di pietra, sulla sua ombra fiancheggiata da quella di Bruno. Un bruciore di imbarazzo le arrossò la fronte e le orecchie. «Forse è vero che quel giorno mi ero messa a lavorare ai ruderi della chiesa solo per avere una scusa di starti un po’ vicino.»

Gli occhi di Bruno s’illuminarono, raccolsero una luce di stupore, ma la sua espressione era ancora incrinata di scetticismo. La faccia di chi non riceveva mai dichiarazioni simili, di chi non sapeva se crederci o meno. «Sul serio?»

Valentina annuì. «Mh-mh.» Tenendo la testa così bassa, i capelli le scivolarono sulle guance, nonostante il nastrino che li teneva pettinati all’indietro. «Sei deluso? Ti ho offeso? Scusami, io non…»

«Ma no, no» le rispose Bruno. «Figurati. Nient’affatto. Perché dovrei essere offeso?» Si portò di un passo più vicino a lei. «Ma ti ringrazio comunque per avermelo detto.»

Valentina tirò su la testa. Sciolse la tensione con una risatina ancora tremolante di imbarazzo. «Tanto non avrei potuto fingere di non essere interessata a te ancora a lungo. Per quanto io mi sforzi, non riesco mai a tenere nascoste le mie intenzioni, o i miei pensieri, o quello che provo.»

«Significa che sei una persona sincera» le disse Bruno. «Dovresti apprezzarlo.»

«Ma anche tu sei una persona sincera.» Valentina si sporse a sgomitarlo, allargò il sorriso da guancia a guancia, e ammiccò. «O forse c’è qualche segreto che mi tieni nascosto?»

Gli occhi di Bruno si infossarono in due pozze d’ombra. Le pupille si persero nel vuoto, vacillarono. Il viso perse colore, nonostante fosse irradiato dal cielo soleggiato, e le guance sbiadirono, si chiazzarono di uno smorto colorito cenere che sembrava quello di un poveraccio soffocato dal suo stesso fiato. A Valentina parve quasi di vedere un battito del suo cuore staccarsi dal petto e precipitare ai suoi piedi come un sasso.

Bruno allentò il bavero della camicia, tossicchiò, affondò una pesante manata attraverso i riccioli, nascondendosi dietro quel gesto, e rispose con voce graffiata di disagio. «Ma figurati.» E non aggiunse altro.

Valentina non seppe come interpretare quella reazione, non seppe come raggiungere e penetrare quell’ombra precipitata su Bruno come una nuvola di maltempo, così fece quello che faceva sempre quando non capiva qualcosa: smise di pensarci. «In realtà, sai…» Saltellò a passo svelto, si girò verso una coppia di gattini balzati sul muretto per godersi il sole, e tornò sull’argomento di prima. «Non riesco proprio a essere felice del fatto che la gente mi considera più giovane di quello che sono. So che succede perché, anche se mi sforzo di essere un po’ più adulta di quello che sono, alla fine finisco sempre per comportarmi da ragazzina immatura.»

Bruno – il colorito risanato e lo sguardo di nuovo fermo, anche se sempre un po’ in ombra – non sembrò vederla come una tragedia. «Ognuno ha i suoi tempi, e ognuno ha il suo modo di crescere, un po’ come succede con le piante e con gli alberi. Secondo me non ha senso sforzarsi di sembrare più adulti di quello che si è, o paragonarsi agli altri.» Alzò il mento a indicare la vegetazione circostante. «È un po’ come se un girasole si paragonasse a un abete, o se un ulivo si paragonasse a un papavero.»

«Ooh.» Valentina si riempì il petto di un sospiro meravigliato. «Questa è una cosa che nessuno mi aveva mai detto prima.» In realtà, Bruno le regalava un sacco di frasi carine che non si era mai sentita rivolgere da nessuno. «Ma per te sarebbe facile sembrare un po’ più grande di quello che appari. Forse basterebbe che ti lasciassi crescere un po’ di barba.»

«Ci ho provato.» Bruno si massaggiò le guance lisce, fatta eccezione per qualche taglietto fresco e qualche piccola cicatrice visibile solo quando il sole gli batteva direttamente in faccia. «Ma mi cresce troppo rada e troppo ispida. Mi dà solo fastidio.»

«E i baffi?»

«Lo stesso. Sono troppo sottili e patetici.» Bruno fece roteare gli occhi. «Sembro un pesce-gatto.»

Valentina rise spernacchiando dal naso, come se le fosse andato di traverso un sorso d’acqua. Si tappò la bocca, si arricciò in avanti e rise sganasciandosi, fino a far fuggire i gattini che si erano appollaiati sul muretto.

Pure Bruno ne fu contagiato. Non poté fare a meno di sorriderle. «Ti fa tanto ridere?»

Valentina rise ancora. «Sì.» Le guance tutte rosse, la pancia indurita dagli spasmi irrefrenabili, e gli occhi annacquati di felicità. «Sei proprio buffo quando vuoi.»

«Anche la tua risata è buffa.»

«Sul serio?» Valentina si toccò le labbra, incrociò gli occhi guardandosele con stupore. «Io invece l’ho sempre trovata così sgraziata e sfacciata. È che non posso farci molto, se mi viene da ridere così.»

«È bello sentirti ridere.»

«E per me sarebbe bello vederti con i baffi. E io ho tutto il tempo del mondo per vederteli crescere addosso.» Valentina riprese fiato con un sospiro. Un sospiro che le umettò gli occhi di tristezza. «Almeno, per il tempo che ti fermerai qui.»

Pure a Bruno cadde il sorriso. Pure lui sembrò condividere quel dispiacere. «Già.»

Lo scricchiolare dei loro passi e l’occasionale stridere dei gabbiani frammentò il silenzio che era sceso ad avvolgerli e ad allungare la distanza che separava la loro camminata. Valentina raccolse una frangia della gonna, la sventolò arricciando le dita alla stoffa, e quel lampeggio verde le ridonò il buonumore, distraendola dai brutti pensieri. «Poi, sai…» Perché Valentina non aveva intenzione di rovinarsi un momento speciale come quello pensando al giorno in cui Bruno sarebbe salito sul treno e se ne sarebbe andato da Portorosso. Non ancora. «Quello dei tuoi baffi è un problema che in qualche modo capisco. Li vedi i miei capelli?» Raccolse una ciocca sopravvissuta alla strigliata di quella mattina e gliela mostrò. «Sono piuttosto corti per una ragazza, no? Ma non li lascio crescere di proposito perché sono talmente crespi che finirei per ritrovarmi in testa solo un cespuglio di nodi.» Affondò le punte delle dita fra i capelli, stando attenta a non sciupare il nastrino, e se li scostò dietro la spalla. «Non sai le pene che pativa mia mamma per pettinarmi quando ero piccola. Finivo sempre per piangere e strillare come una disperata perché la spazzola si incastrava di continuo nei nodi, e lei tirava, e io la pregavo di smettere, ma lei insisteva che non potevo uscire di casa in quelle condizioni. Nemmeno i balsami con cui mi imbrattava funzionavano. Poi sono cresciuta, ho cominciato a curarmeli da sola, ma non è che posso fare miracoli. E lei continuava a rimbeccarmi: Tina, pettinati. Tina, tieni bene quei capelli. Tina, sembri una strega, vedi di darti una sistemata. E così a un certo punto mi sono scocciata e li ho tagliati.» Si diede una sonora spolverata alle mani, come Ponzio Pilato davanti alla bacinella d’acqua. «Problema risolto.»

Bruno annuì, sembrò approvare quel gesto. «A volte la soluzione più drastica è la migliore.»

«Vero?» disse Valentina. «Peccato che la mamma dice che sto malissimo con i capelli così corti, ma a me non importa.» Uno sbuffo le imbronciò le guance. «Le mamme a volte sono delle tali rompiscatole.»

Bruno strinse i denti sul labbro inferiore, irrigidì le spalle, e inspirò dal naso. «Già.» Girò il capo, guardò in disparte. «Davvero.»

Valentina non fece in tempo a domandarsi il perché di quella reazione così scostante, di quella sua improvvisa freddezza, che erano già arrivati in cima al Monte Portorosso.

«Oh, ecco la torre.» Valentina precedette Bruno, incalzò una corsa che le fece superare l’ultimo tratto della salita. «Vieni, vieni, andiamo fino a lì!» Giunse alla base della Torre Antica, ne attraversò l’ombra proiettata dalla cima mozza, e si affacciò al paesaggio che scendeva dal piccolo monte e che riempiva la vista abbagliata da un sole che pian piano stava cominciando a calare.

Valentina si riparò gli occhi dalla luce, arricciò il naso solleticato dal venticello salmastro soffiato dal mare, e sorrise alla vista sì familiare ma che comunque era sempre in grado di strapparle un battito di emozione dal petto. Una fotografia che avrebbe potuto ritagliare e conservare per sempre in fondo al suo cuore. La strada di pietra che scendeva dritta e ripida, i raggruppamenti di case che le crescevano attorno come macchioline di fiori color pastello, il verde dei colli frammentati dai filari di viti che non erano ancora mature, il blu del mare lastricato dai riflessi di un sole sempre più largo e vicino all’orizzonte, e più in basso, lucente nella roccia brulla, il serpeggiare della ferrovia che abbracciava il monte e che proseguiva sotto le gallerie della costa.

Il vento soffiava più forte, lì in cima. Scuoteva le chiome dei pruni e degli oleandri e trascinava il profumo della terra nuda, dei campi lavorati, ma anche quello più tiepido e dolciastro proveniente dalle case più vicine che si affacciavano alla strada. Qualcuna aveva le finestre aperte, e da lì aleggiava il vapore della cena che stava già cominciando a bollire sui fornelli e a rosolare nelle padelle oliate con aglio e salvia. Nei cortili, il bianco dei panni messi ad asciugare e il rosso e il viola dei fiorellini che abbellivano i balconi.

Valentina si girò, chiamò a sé Bruno che l’aveva appena raggiunta. «Qui siamo proprio sulla cima del Monte Portorosso. C’è una bella vista, vero?»

Bruno attraversò l’ombra gettata dalla torre, fece strusciare una mano sul muretto di cinta che gli arrivava alla spalla, e anche lui andò ad affacciarsi al panorama che si spalancava dallo spiazzo dove nasceva la seconda stradina, quella che scendeva ripida e che faceva ritorno in paese come un torrente di sole. «Sì.» Bruno raccolse i riccioli che il vento gli aveva sparpagliato sulla fronte, si liberò lo sguardo tenendo la mano accostata alla guancia.

I suoi occhi, bagnati dall’oro del sole, scavalcarono il verde del colle e volsero al mare. Risucchiarono ogni sua striscia di luce, il bianco delle onde, il blu che cominciava a scurirsi, a somigliare a uno specchio nero. L’immensa vastità che si rovesciava al di là dell’orizzonte, per scomparire e riversarsi in chissà quali terre lontane.

Bruno inspirò e trattenne un sorso di fiato che gli fece tremare le labbra. La sua espressione mutò. Si riempì di una nostalgia dolorosa che gli fece lacrimare addosso un’ombra amara e tangibile proprio come un pianto. «Sì, davvero.»

Valentina si accorse di quell’ombra di dolore scesa a stringersi attorno a Bruno nel momento in cui i suoi occhi si erano riempiti dell’immagine del mare. Non sapeva perché fosse successo, ma sapeva di voler rimediare. Voleva allungare il braccio e raccogliergli la mano prima che il mare lo inghiottisse. Così scavò nelle sue memorie, rievocò ricordi felici che sperava potessero rallegrare pure lui, tenendolo a galla. «Sai» raccontò. «Quando eravamo bambini, io Sara e Massimo venivamo a giocare quassù praticamente ogni giorno. Di solito facevamo le gare in bici, e la discesa era sempre la parte più emozionante.» Indicò la via di pietra che, superata la tettoia della prima piccola casetta, precipitava lungo il ripido fianco del colle. «Da qui si fila giù che è una meraviglia. Non serve nemmeno pedalare perché la bici va da sola.»

Bruno corrugò un sopracciglio, perplesso, ma almeno l’ombra sul suo viso si era sciolta e la sua espressione si era distesa, di nuovo in luce. «Mi sembra molto pericoloso.»

«Solo quando ti si rompono i freni.»

«Cosa…»

«Ma non usavamo solo le bici.» Valentina trotterellò fino al muretto di cinta, ci incrociò le braccia sopra e spinse lo sguardo ancora più in là, oltre i comignoli e oltre i recinti dei cortili che fiorivano lungo la pendenza. «Certe volte riuscivamo a recuperare delle cassette di legno, di solito quelle che avanzavano a mio papà in officina o al papà di Massimo in pescheria. Ci agganciavamo le ruote e costruivamo queste specie di piccole automobili in cui si riusciva a stare anche in tre, e con quelle ci buttavamo giù lungo la strada.» Slanciò un braccio verso il cielo. «Era come spiccare il volo! Non sai quante botte ci siamo presi. Ma, come dico sempre io: i lividi scompaiono dopo una settimana, i bei ricordi durano per sempre.»

Bruno ci mise un po’ prima di riuscire a battere le palpebre sgranate. Poi scosse il capo, ma un sorriso gli addolcì la curva delle labbra. «Una frase del genere poteva uscire solo dalla tua bocca.» Anche lui andò a sporgersi dal muretto. Le braccia incrociate e le spalle curve. Tutto il bronzo del sole a brillare sulle sue guance. «Vedi? Lo dicevo che la tua vita è ben più spericolata della mia.» E di nuovo il mare catturò il suo sguardo e lo trascinò lontano, rapendolo proprio come avrebbe fatto il canto di una sirena bella e dannata. Gli occhi di Bruno rabbuiarono, raccolsero le sfumature dei fondali più profondi. Sfumature dipinte dalle onde che durante le tempeste schiaffeggiano la spiaggia, si aggrappano come artigli alla battigia di ciottoli, e che poi tornano indietro, risucchiate dal moto perpetuo che impedisce loro di abbandonare il mare, di staccarsene.

Valentina venne raggiunta da quelle immagini, e quella visione la soffocò, ghiacciandole il petto e bloccandole un nodo di fiato in gola.

Di nuovo Bruno si era perso proprio davanti ai suoi occhi, come se si fosse arreso alla forza del mare e si fosse fatto inghiottire dai suoi abissi, dalle fauci dei suoi scogli aguzzi e dalla brezza salmastra. Valentina non sarebbe mai stata in grado di affondare la mano in acque simili e di riportarlo alla luce. Si diede della sciocca solo per averlo pensato, per aver creduto di essere abbastanza forte.

«Ci sono un mucchio di isole.» Bruno spinse le spalle in avanti, strinse le palpebre. Indicò un punto dell’orizzonte con un’alzata di mento. «E quella laggiù?» chiese. «Anche laggiù c’è una torre.» Il suo sguardo puntava l’Isola del Mare. «È abitata?»

Valentina si stropicciò le palpebre e si riprese dallo stordimento che le aveva sfumato la vista e costretto il fiato nel petto. «Oh» sussultò. «Quella…» Guardando anche lei verso l’isola, socchiudendo le ciglia inondate dall’oro così caldo del sole sempre più basso e vicino al mare, si tuffò in un dolce fiume di ricordi. «Quella è l’Isola del Mare.»

Era così facile da riconoscere, anche da quella distanza. L’isola più grande delle altre, circondata da un arcipelago di piccoli scogli sbriciolati dalla sua costa di ciottoli e arbusti. La lunga pendenza foderata da un tappeto di erba alta, un boschetto di alberi folti e tondeggianti che crescevano proprio sul picco, dove la roccia sprofondava di strapiombo nel mare e dove il rudere della torre vegliava come un guardiano silenzioso.

«Ormai è abbandonata» disse Valentina, «e la torre è solo un rudere. Una volta però era un faro, ma ti parlo davvero di tantissimi anni fa, quando nemmeno i miei genitori erano nati. Papà però ci è tanto affezionato. Dice che è un po’ il simbolo di Portorosso, e quindi delle nostre vite e di tutte le vite che sono venute prima di noi.» Sfilò un piede dal sandaletto per grattarsi la caviglia opposta. Raccolse la collanina scivolata dal colletto dell’abito, la rigirò fra le dita gettando qualche scintilla dalla chiavetta. «Quando ero piccola mi portava spesso a vederla, girando attorno all’isola con la nostra barca. Dice sempre che un giorno la comprerà, quando avrà abbastanza risparmi da parte, e che ristrutturerà la torre per farla tornare a essere un faro.» Alzò le spalle. «Io in realtà non lo capisco.» Mollò la collanina che tornò a rimbalzarle sul petto. «Perché affannarsi così tanto per un’isoletta così piccola e per una torre sgangherata? E poi a cosa servirebbe un faro, qui a Portorosso? Le uniche barche che navigano qui sono quelle da pesca. Non è che dovremmo accogliere navi da carico o navi da crociera.» Rinfilato il piede nel sandaletto, si tenne appoggiata sul muretto con un gomito solo. Spinse le nocche su una guancia e inclinò il capo di lato. «E in realtà a me piace l’idea che la torre resti così, un po’ decadente.» I suoi occhi si incantarono. «Ha un che di misterioso. Se tornasse perfetta poi non sarei più in grado di fantasticarci sopra.»

Bruno le sorrise. Lo sguardo intrigato e di nuovo aperto alla luce. «E quali sarebbero queste fantasie?»

«Be’» rispose Valentina, «tipo che lì attorno ci vivono le sirene, o che sulla torre ci abita uno spiritello che viene fuori solo quando è notte, tipo una specie di custode

«Sirene?» Bruno alzò le sopracciglia e le rivolse un’occhiata giocosa, come quelle che si erano scambiati quando avevano scommesso sulle rispettive età. «Pensavo che qui a Portorosso vivessero solo i mostri marini, non le sirene.»

Valentina stette al gioco, scoppiò in una risata che dapprima somigliò a un tossito e che poi si allungò in un’allegra spernacchiata che le vibrò fra il bianco dei denti, pizzicando sulle guance arrossate di emozione. Ridendo così di colpo, piegata sulla pancia, Valentina urtò il gomito di Bruno con il suo e gli cadde sulla spalla, sprofondando nella bolla del suo profumo, in quell’aroma selvatico di mare, di scorza di agrumi e di spezie.

Bastò un singolo respiro, e ogni singhiozzo di risata si sciolse dalla sua bocca, le lasciò addosso solo la scia di un battito caldo che le gonfiò il petto e le riempì lo sguardo di una luce rinata. Quella vampata di profumo dolce e aspro le fece girare la testa spingendola a voltarsi verso Bruno, a domandarsi cosa potesse racchiudere quel desiderio che insorgeva ogni volta in cui lei provava a raggiungere i suoi occhi così scuri e sfuggevoli, incredibilmente profondi. Gli occhi di Bruno che adesso erano di nuovo rivolti al mare, rapiti da una malinconia straziante, da un amore crudele che avrebbe potuto stringergli le braccia attorno e portarlo via per sempre, dove Valentina non sarebbe mai stata in grado di raggiungerlo.

Un amore che era la cosa più pericolosa. Ancora più pericolosa delle moto e dei ragazzi che guidano le moto.

Sarà per questo che non riesco proprio a toglierti gli occhi di dosso, misterioso straniero?

Quella consapevolezza le donò un battito di coraggio inaspettato. Valentina assecondò quel prurito caldo, si lasciò attrarre da quel desiderio. Spostò il gomito strusciando il braccio sulla pietra polverosa, mosse la mano per raggiungere quella di Bruno, gli sfiorò una nocca incerottata con le punte delle dita, si appese al suo calore, alla piccola scossa che si era strofinata fra la loro pelle.

Bruno posò gli occhi sulla mano di Valentina che aveva raggiunto la sua. Non si sottrasse, ma se ne stupì e se ne meravigliò, come se una farfalla colorata gli fosse volata sul palmo durante una pungente giornata invernale. Alzò lo sguardo andando incontro a quello di Valentina – Valentina si morsicò il labbro e pigolò un mugugno che le rimbalzò nello stomaco –, e il suo viso si distese, ritrovò la sua pace.

Bruno schiuse le dita e le offrì la mano aperta, il palmo rivolto verso l’alto.

Fremente di desiderio, Valentina fece scivolare le dita sulle sue – dita callose e ruvide –, intrecciò le punte delle falangi a quelle incerottate di Bruno, e fu così che i loro occhi si incontrarono, separati solo dal rovescio di sole che grondava loro addosso, riflettendosi nel verde smeraldo delle iridi di Valentina.

Quella luce si raccolse anche negli occhi grigi di Bruno, nelle pozze di ombra racchiuse dai fili delle ciglia.

Una vertigine fece rabbrividire Valentina, le fece capire che in quegli occhi vi era racchiuso un mondo del tutto estraneo a Portorosso, a qualsiasi realtà lei avesse mai conosciuto.

Sentendo il petto bruciare per la mancanza di fiato, Valentina deglutì, e il forte tonfo del cuore la costrinse di nuovo a mordicchiarsi il labbro per non pigolare un gemito che le strinse la bocca dello stomaco, lì dove quel nodo di emozione aveva spanto una pozza calda che era salita a pizzicarle le guance, a tapparle le orecchie, e a farle girare la testa. La sensazione che aveva provato la prima e unica volta in cui aveva assaggiato del vino, buttando giù d’un fiato un bicchiere di rosso durante un pranzo di Natale.

Per riappropriarsi del fiato perduto, per non sentirsi annegare e trascinare verso il basso dalle gambe che si erano fatte molli e dondolanti, Valentina desiderò che si ripetesse quello che era accaduto la notte prima, quando lei era scivolata e crollata fra le braccia di Bruno.

I piedi cominciarono a pungerle, e solo in quel momento Valentina si accorse di essersi tesa sulle punte. Ma il bruciore che le scottava sulle guance e sulla bocca – così vicina a quella di Bruno, così tiepida del suo profumo di aranci e rosmarini – era ancora più forte.

Di nuovo così, lei e Bruno assieme, come se non fosse esistita nessun’altra realtà al mondo, né sulla terra né nel mare. Era un’immagine così viva e tangibile, nella sua mente, che la sentiva galoppare nel sangue e ribollire nel profondo della sua anima impaziente. L’immagine delle labbra di Bruno appese alla sua bocca e il suo respiro a scenderle nel petto, a gonfiarle il cuore e a farlo scalpitare, donandogli vita nuova, risucchiandolo nel perfetto blu dei suoi segreti e dei suoi misteri.

Se solo potessi…

Un lampo grigio schizzò loro addosso – bang! –, rimbalzò sul muretto facendo esplodere lo spigolo di un mattone. Scintille di pietra gli grandinarono addosso – le braccia di Bruno scattarono a proteggere Valentina –, punsero le guance, abbagliarono la vista piovigginando fra le ciglia, e strapparono Valentina al suo sogno, «Ah!», facendole cacciare un gridolino di spavento.

Sulla cima del monte li raggiunse un forte rombo, lo scricchiolare e lo stridere di pneumatici sulla salita di pietra, una vampata di polvere che gli sbuffò addosso un pungente odore di gas di scarico che poi si abbassò, scivolando sul profilo di una camionetta che aveva frenato proprio affianco alla torre. In piedi, sulla pedana del portabagagli, una minacciosa ombra nera strinse su Bruno il suo sguardo infiammato di cattiveria, gli abbaiò addosso con voce tonante, «Ehi, terrone!», mentre la sua mano sporca di terra faceva rimbalzare una pietra sul palmo. Una pietra grossa come il suo pugno e appuntita come quella che aveva appena scagliato.

La nuvola di odio che dall’inizio dell’estate era gravitata su Portorosso si schiuse, denudò il lampeggiare infiammato del temporale, e si preparò a far esplodere la sua letale e malvagia tempesta di fulmini.

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Capitolo 13
*** Lauretta mia – Atto III ***


N.d.A.

Mi sono assentata per un po’, quindi inserisco questa piccola noticina iniziale per rassicurarvi sul fatto che non sono sparita né ho intenzione di abbandonare la storia (né tanto meno la saga). Ahimè, si sono accumulati una serie di fattori che mi hanno costretta a rallentare il processo di scrittura – orari di lavoro un po’ ballerini, il tanto temuto arrivo dell’estate, e qualche piccolo problemino di salute che mi ha costretta a spendere il tempo libero in giro per esami e visite mediche. Tante belle cose, insomma.

Ma pian piano vado comunque avanti, quindi spero che avrete piacere di continuare a seguirmi nonostante la cadenza degli aggiornamenti un po’ altalenante. :)

Vi auguro una buona lettura e un fantastico proseguimento della stagione estiva! (^-^)/


 

Lauretta mia – Atto III

 

 

Lampi bianchi e grigi colpirono il muretto – bang! –, gettarono pungenti schizzi di mattone che accompagnarono l’esplosione di altre pietre – bang! bang!cadute ai piedi di Bruno e Valentina.

Dopo aver gridato, «Ah!», con ancora il cuore in gola e quel sobbalzo di paura a bruciarle nel petto, Valentina saltò all’indietro e sbatté sul muretto. «Ma cosa…» Sollevò una gamba per schivare l’esplosione successiva – bang! – che le schizzò una grandine di pulviscolo in mezzo alle caviglie.

Bruno le si parò davanti. «Attenta.» E la protesse dietro le sue braccia alzate, prendendosi in faccia e sul petto gli zampilli scintillati dalle pietre esplose fra i suoi piedi.

Accompagnando la caduta dell’ultimo sasso, una sgommata risalì la cima del monte, innalzò una curva ondata di polvere e di gas di scarico, fece ruggire il motore di una camionetta che frenò proprio affianco alla torre. Il nuvolone plumbeo si abbassò e si diradò, denudò il muso ammaccato della camionetta, una figura scura in piedi sulla pedana del portabagagli, il suo sguardo iniettato di una cattiveria tale da fargli brillare gli occhi di rosso e da affilargli la bocca in un ghigno aguzzo.

«Ehi, terrone!»

Il ragazzo fece rimbalzare una pietra nel palmo della mano sporca. Una pietra grossa e appuntita come quelle che aveva appena scagliato addosso a Bruno, scheggiando il muretto e forando la strada da cui erano schizzati gli zampilli di polvere e sassolini.

Pure i due giovani che erano appollaiati nell’abitacolo della camionetta si sporsero dai finestrini abbassati. Le loro urla gettarono insulti che caddero tuonando proprio come i lanci delle pietre. «Tornatene a casa, terrone!»

«Qui non ti vogliamo!» Quello seduto al posto di guida staccò la mano dal volante e la chiuse a coppa attorno alla bocca. «Porta la tua sporcizia da un’altra parte!»

«E va’ a rubare il lavoro a casa tua!»

L’altro sghignazzò. «Ma che dici?» Si sporse a sgomitare quello che gli sedeva affianco. «Da lui mica c’è.»

Risero tutti e tre. Bocche che si sganasciarono, facce sfregiate da cattiveria e stupidità.

Bruno quasi non reagì, eccezion fatta per la ruga di un sottilissimo broncio appena un po’ scocciato sceso a stringergli le sopracciglia e a ombreggiargli la fronte. Era più preoccupato di tenere Valentina al sicuro che di reagire alle provocazioni. «Stai bene?» Le toccò le braccia tremanti, risalì le spalle che sobbalzarono, avvolte da quel soffice gesto di premura, e la fece girare per controllarle anche la schiena. «Ti hanno colpita?»

Valentina non lo ascoltò, e non ebbe nemmeno tempo di godersi il ruvido ma caldo tocco di Bruno sulla sua pelle – davvero il bacio di un sole estivo che brucia sulla nuca e sulle spalle – perché fu lei quella a vederci rosso e a ribollire di rabbia. Violenti lampi d’ira le martellarono le tempie, i suoi occhi si accesero come braci, brividi incandescenti risalirono il viso e sfrigolarono sulle guance diventate paonazze. «Farabutti disgraziati.» Sgusciò fuori dalle braccia di Bruno, senza nemmeno darsi il tempo di rattristarsi per quella rinuncia, per essersi privata del suo tocco e del suo calore, e si piegò per raccogliere i sassi caduti ai suoi piedi. «Dai, dai, scendete.» Ne strizzò uno dentro il pugno, pungendosi il palmo e le dita, e lo scagliò addosso alla camionetta. «Scendete, sporchi codardi!»

Il sasso rimbalzò sul cofano incrostato di ruggine – cleng! –, rotolò a terra inseguito dalla pietra che Valentina scagliò subito dopo – cleng! –, colpendo il paraurti.

Il ragazzo seduto affianco al posto di guida si ritirò all’interno del finestrino abbassato, batté sulla spalla del compare, facendogli segno di svignarsela, e quello ruotò il volante schiacciando il piede sull’acceleratore, ingranando la retromarcia e facendo sputare un tossito nero alla marmitta.

Terminati i sassi, Valentina rimbalzò su un piede solo, si sfilò il sandalo, e lanciò pure quello. «Tornate indietro e diteglielo in faccia se siete tanto coraggiosi!» Anche l’altro sandalo volò via disegnando un arco roteante e atterrando ai piedi della camionetta che ormai aveva già raggiunto il tornante della discesa.

Il ragazzo seduto nel portapacchi si girò verso Valentina e le scoccò un’ultima occhiataccia oscurata dalla vampata di polvere e gas che si era innalzata dietro la loro ritirata. «E tu sei una gran puttana!» Gli pneumatici sgommarono e sfrecciarono giù dalla discesa del monte. Il rombo si allungò e si allontanò inghiottito dalle facciate delle case, svanì assieme alla sagoma della camionetta e all’ultimo eco di risa gracchiato dall’imbecille alla guida.

Valentina inciampò sui suoi piedi impolverati e rimase lì, immobile e sbigottita. Il braccio ancora alzato dopo il lancio dell’ultimo sandalo, la mano rossa e tremante, gli occhi sgranati, e la bocca socchiusa in un’espressione frastornata, come se uno dei sassi le avesse colpito la fronte e zittito ogni pensiero.

Le avevano appena dato della puttana?

«Tina, lascia perdere.» Bruno le fu subito affianco con la sua presenza silenziosa e rassicurante. «Non fa niente, sul serio.» Le raccolse il braccio e glielo fece abbassare. Sospirò assecondando quel gesto mite, un po’ arrendevole. «Ormai ci sono abituato.»

Valentina strabuzzò gli occhi. «Abituato?» Nel sentirglielo dire con una tale leggerezza, il cuoricino le si spezzò facendo riecheggiare un tonfo sordo in fondo al petto che si era stretto in una morsa di dolore e compassione. «Non mi sembra molto confortante.» Sfilò il braccio dal tocco di Bruno. «Vieni maltrattato sul serio così spesso?»

Lui fece spallucce. «Non ha importanza.» Solo allora alzò lo sguardo su di lei. «Mi dispiace solo che abbiano preso di mira anche te.»

«Ma era a te che volevano fare del male.» Valentina si portò una mano davanti alla fronte, per respingere i raggi di sole sempre più bassi e rossi, e puntò lo sguardo sulla scia di polvere che si stava diradando lungo la discesa. Il rombo sputacchiante della camionetta si era già allontanato attraverso la stradina che usciva dal paese, quella che circumnavigava le vigne arrampicate sui versanti dei colli. Valentina ripensò a quel piccolo scontro e si rese conto di non aver riconosciuto le facce dei ragazzi che li avevano aggrediti. Forse non era gente di Portorosso. Forse era gente che proveniva dai paeselli vicini. Magari ragazzi che venivano a lavorare lì durante la settimana, o che frequentavano le botteghe per arrangiare affari con i pescatori, o che semplicemente passavano in paese solo per bighellonare con altri perdigiorno nei dintorni della piazza, standosene spaparanzati sulle seggiole del bar. Gente che aveva saputo dell’arrivo di Bruno assieme agli altri stagionali e che si era fatta viva solo per divertirsi a tormentarlo. «Se li riacchiappo li gonfio di botte.» Di nuovo fumante di nebbia e con i lampi agli occhi, Valentina strizzò i pugni rabbrividiti e si mise in marcia a piedi nudi per inseguire la scia di gas scaricata dalla camionetta. «Gliele suono di santa ragione fino a che…»

«Tina, no.» Bruno la fermò tornando ad avvolgerle il braccio. «Non camminare scalza, sennò ti fai male.» Con cautela, spostando il tocco dalle braccia alle spalle e ai fianchi, allontanò le dita, le strizzò a vuoto come indeciso su dove poterle posare, e fasciò la schiena di Valentina tenendo lo sguardo stirato di lato per non rischiare di posare gli occhi sul suo petto. La sollevò da terra. «E-ecco.» Lasciò che fosse lei ad aggrapparsi alle sue spalle, le punte dei piedi nudi tese verso terra, come quelle di una ballerina, e la portò a sedere sul muretto vicino. «Sei ferita?» Strusciò il tocco sulle sue braccia, flesse la testa andando in cerca di graffi o di lividi. «Ti hanno colpita?»

Valentina impiegò qualche secondo per tornare in sé, per far prendere aria al petto e per convincere il cuore a rallentare dopo essersi ritrovata così vicina a Bruno. Vicina come lo era stata solo la notte prima. «N-no.» E ancora le sembrò una sensazione così nuova, così estraniante. Le braccia di Bruno avvolte al suo torso, una presa solida ma delicata. Il seno premuto alla sua spalla ossuta. I riccioli di lui a solleticarle il collo e il suo profumo così intenso da farle girare la testa, da darle l’impressione di essersi immersa nell’acqua bassa della riva e di aver tirato sul col naso, riempiendosi i polmoni di un’aria fredda, salata e dissetante. Un vento che non le era mai capitato di respirare sulla terraferma.

I loro sguardi si incontrarono, e quel contatto così improvviso fece sobbalzare entrambi.

Bruno si affrettò a piegare il capo a terra e a tossicchiare. «Ri… rimani ferma qui.» Le diede le spalle. «Recupero i sandali. Tu non mettere i piedi per terra.»

Valentina annuì e, senza nemmeno accorgersene, portò una mano a massaggiarsi la fronte, tastandola come la mamma faceva quando da piccola le controllava la febbre. Ora infatti si sentiva bruciare proprio come in quelle occasioni. Lo stesso stordimento a darle il capogiro e a far scoppiettare bolle di luce attraverso la vista abbagliata dal rossore del tramonto prossimo.

Bruno si piegò a raccogliere i sandaletti che Valentina aveva lanciato. Lei, vedendolo così chino e umiliato, pensò a certi ragazzi che d’estate andavano a lavorare nei campi, a raccogliere patate e pomodori dall’alba al tramonto, affondando i piedi nudi nella terra nera, spellandosi le mani fino alle ossa, bruciandosi sotto il sole che picchiava le loro teste come un pugnale, riuscendo però a racimolare giusto i soldi sufficienti per un pasto. E ancora l’eco di quegli insulti a ferirle le orecchie. “Terrone!”

Non avrebbe voluto provare pena per lui, ma fu proprio quello che accadde. Si sforzò di nasconderlo ingrossando un tono di rimprovero. «Non dovresti permettergli di trattarti in quel modo.»

Bruno tornò da lei e si inginocchiò davanti al muretto per rimetterle i sandali ai piedi. «Ti ho detto che non mi importa di quello che dice certa gente.»

«Ma a me sì.» Valentina, piegandosi in avanti, su di lui, gli diede il buon esempio sventolando il pugno chiuso. «Reagisci, Bruno. Tira fuori le zanne.»

Bruno strinse le labbra e soffocò una risatina. «Le zanne.» Sfiorò il piede di Valentina per farglielo alzare e infilarle il sandalo sulla punta. Scosse il capo, di nuovo serio. «Non credo sarebbe una buona idea, no.»

«Ma dovresti avere più considerazione di te stesso.»

«Non mi sento nella posizione più adatta per lamentarmi, tutto qui.» Bruno spinse il sandalo fino in fondo e passò all’altra gamba. «E soprattutto non voglio dare loro la soddisfazione di vedermi arrabbiato, dato che è proprio quello che vogliono.» Sulla scia di quel movimento, la sua mano risalì il dorso del piede e sfiorò la caviglia di Valentina. «Per certa gente non ne vale la pena.» La fece sussultare. Un ansito lieve e scosso di stupore.

Entrambi si immobilizzarono sentendo quella scarica di energia fluire fra di loro, accendere una luce, una fiamma, un battito che non era né quello di Bruno né quello di Valentina, ma qualcosa di completamente nuovo. Era fuoco che penetrava una barriera di ghiaccio, frantumandola. Un dito che toccava la corolla di un fiore, facendolo schiudere e sprigionando il più dolce e squisito dei profumi.

Bruno si tirò indietro, forse spaventato da quella sensazione così insolita e improvvisa. Dondolò sulle gambe accovacciate, rimbalzò in piedi, si diede una spolverata ai pantaloni, un’aggiustata ai riccioli che tornarono a piovere sul suo sguardo di nuovo grigio e distante. «Ma non è una tragedia, sul serio.» Aiutò Valentina a scendere dal muretto, questa volta solo prendendola per mano, senza avvolgerle le braccia attorno. «Ormai ho imparato a riconoscere le persone così. Danno tanto fiato alla bocca, ma alla fine rimangono troppo codardi per affrontarti a viso aperto.» Si assicurò che lei fosse in grado di reggersi da sola, senza traballare, e solo allora sfilò la mano dalla sua. «Poi nessuno mi ha mai realmente fatto del male. Finché ci sarà qualcuno disposto ad accettarmi, a darmi un lavoro, un tavolo su cui mangiare e un letto in cui dormire, allora non avrò nulla di cui lamentarmi.» Un’altra stretta di spalle. «Tutto il resto è irrilevante.»

Gli occhi di Valentina si annacquarono di tristezza e demoralizzazione. «Sei davvero di poche pretese.»

«Più che altro, ho imparato ad accontentarmi» le rispose Bruno. «So di vivere in un mondo che non mi appartiene, perciò io…» Spalancò gli occhi abbagliati da un improvviso lampo di panico, si morsicò il labbro e si sbatté una mano sulla bocca, diventando grigio in faccia.

Persino una svampita come Valentina non tardò ad accorgersi di quella reazione così violenta, delle ultime parole che Bruno si era affrettato a rimangiarsi. Un mondo che non gli appartiene?

«Ma allora…» Ripensò ai bisbigli che avevano cominciato a chiocciare da una bocca all’altra da quando Bruno era arrivato a Portorosso. A tutto quello da cui l’avevano messa in guardia i vecchi pescatori dell’osteria, e a tutti quegli indizi ormai impossibili da ignorare. «Allora è vero.»

Bruno, la mano ancora accostata alla bocca e la faccia color cenere, rattrappì le spalle in un gesto protettivo, sulla difensiva. Boccheggiò, «C-che cosa è vero?», ancora strozzato da quel sorso di panico che gli era andato di traverso.

«Lo sai…» Valentina intrecciò le punte delle dita, guardò in basso, si grattò le pellicine attorno alle unghie, e cercò di buttarla nel modo più delicato possibile. «Che sei di giù.»

Bruno irrigidì le spalle e inspessì quella buia corazza dietro la quale si era rifugiato. Scivolò di un passetto indietro e si portò la mano davanti al petto, come in procinto di difendersi da un’altra raffica di sassi. Lo sguardo vacillò come la sua voce. «Di giù

«Ma sì» ribadì Valentina. «Del Sud.»

«Del Su…» Gli occhi di Bruno tornarono ad aprirsi alla luce. La sua faccia si distese e riacquistò colorito. Un lungo sospiro gli svuotò lo stomaco e il petto, e rilassò la tensione che gli teneva le spalle contratte. «Aah, già.» Dopo aver allargato il bavero della camicia e dopo essersi fatto aria al collo e alle guance, Bruno si passò una mano fra i capelli e tenne il palmo premuto sulla fronte. I suoi occhi, seppur visibilmente rincuorati, guardavano ancora lontano. «Del Sud.» Lo sussurrò mentre il suo sguardo era proiettato all’orizzonte, verso la luce del mare. Mentre chissà quali pensieri gli attraversavano il cuore. «E chi lo sa.» Affondò le mani nelle tasche dei pantaloni e fece scattare le spalle in un rimbalzo. «Potrebbe darsi.» Imboccò anche lui la strada in discesa che conduceva verso il centro del paese, la stessa via attraverso cui era sgommata la camionetta guidata dai ragazzi che l’avevano aggredito. Una strada che faceva correre le sue curve davanti a casette lunghe e strette come sardine inscatolate.

Valentina gli trotterellò dietro, rallegrata di vederlo di nuovo sorridente, di sentirlo vicino, così ne approfittò per indagare su quella curiosità che pizzicava come un boccone di pasta all’olio e peperoncino. «Secondo me sei pugliese.» La maggioranza delle chiacchiere che giravano all’osteria, nei bar e nelle botteghe, lo dipingevano il più delle volte come un siciliano. Ma il fatto che la sua voce non fosse graffiata da nessun accento rendeva difficile la scommessa. «Oppure sei campano?» A Valentina sfuggì un ansimo di orrore che la costrinse a coprirsi la bocca. «Non dirmi che sei di Napoli. Ma no…» Scosse la testa. «Sei troppo silenzioso e ben educato per essere di Napoli.»

«Cosa…» Bruno la guardò di sbieco. «È così che vi insegnano da queste parti?»

«Ah-ah!» Valentina gli spinse l’indice sul naso. «Hai detto da queste parti. Allora è vero che non sei del Nord, tanto meno ligure.»

Bruno alzò le sopracciglia, basito, e si scostò il suo dito dalla punta del naso. «Sono questi i discorsi con cui di solito fai scappare i ragazzi?»

L’espressione gioiosa di Valentina si sbriciolò in mille pezzi, e con lei si ruppe qualsiasi voglia di ridere e di scherzare. Quelle parole la trafissero, ferendola come se Bruno le avesse affondato una coltellata nello stomaco.

Bruno piegò il capo, anche lui vittima di quella nube di disagio e malumore che aveva tappato la luce del sole e che era scesa a piovigginare sulle loro teste. Si limitò a grattarsi la nuca e a rimanere in silenzio, forse perché non sapeva come rimediare, o cosa dire per scusarsi con lei.

Continuarono semplicemente a camminare in silenzio uno affianco all’altra, senza guardarsi, solo accompagnati dal flebile strusciare dei loro passi in discesa, dallo spadellare proveniente da qualche finestra aperta, dai miagolii dei gatti che si corteggiavano nei giardini, dal fruscio della brezza che faceva sventolare il bianco del bucato, e dal vociare di qualche bambino che rideva dalle terrazze.

Valentina si morse il labbro, insofferente davanti a quel piccolo strappo di imbarazzo – uno strappo imbarazzante proprio come quelli che ti scuciono la gonna quando ti pieghi ad allacciarti i sandali. Raccolse la collanina dal petto e come al solito si mise a rigirare e a grattare la chiavetta dorata. Sapeva di dover rimediare, ma come?

La voce di Bruno le venne incontro ancor prima dei suoi stessi pensieri. «È molto bella.»

Valentina si fece paonazza. Il ghiaccio che prima le aveva morso la pancia si infiammò in una vampata che le arroventò le guance. «Be…» Le unghie stridettero sulla chiavetta. «Bella?»

«La tua collana.» Bruno la indicò con un’alzata di mento. «Ho notato che la indossi sempre. È graziosa.»

Valentina lasciò uscire il fiato. «Ooh» sospirò. «La collana.» Sventolò via il nastrino che le si era sciupato fra i capelli. «Giusto.» Sorrise. Pensò con gioia a quanto poco fosse bastato per farle dimenticare l’incidente e tirarle su il morale. «Ti ringrazio. Ne vado molto orgogliosa, in effetti.» Lasciò ricadere la collana sul petto, sui bottoni dell’abito verde, e si sporse a urtare Bruno con un affettuoso colpo di spalla. «Ma com’è che hai notato che la indosso sempre?» Ammiccò. «È solo qui in basso che mi guardi?»

Le guance di Bruno presero fuoco, si chiazzarono come mattoni. «N-no!» Lui sobbalzò all’indietro e sbatté la schiena sul muro di una casa. «Io…» Usò una mano per coprirsi il viso. «Io non intendevo…» Si nascose dietro le braccia e gesticolò per sventolare via quel discorso. «Non è come sembra, lo giuro, è solo che…»

Valentina scoppiò a ridere. «Scherzavo» esclamò. «Era uno scherzo, Bruno, rilassati.» Andò a sbatacchiargli qualche pacca rassicurante sulla spalla. «Per mille sardine, si vede proprio che non sei abituato a divertirti. Ma rimedierò io a questa tragedia, non temere.»

Dopo una rapida adocchiata alla mano di Valentina che gli stava rimbalzando sulla spalla ricurva, Bruno sospirò e si rilassò per davvero. «Conto su di te.»

Ripresero a passeggiare sotto l’ombra delle case oscurate dal tramonto, circondati dai profumi di cucina, di soffritto all’aglio e di pasta ai ceci, e Valentina si rimise a giocherellare con la collana, a sollevarla dal petto e a rigirare la chiavetta per farla brillare di mille scintille dorate. «Pensa che questo è l’unico vero gioiello che posseggo, escludendo i vecchi gioielli della nonna e della bisnonna, ma quelli la mamma non me li fa nemmeno toccare, dice che passeranno a me solo quando mi sposerò. Che è come dire che posso anche fare a meno di sognarmeli. Comunque, questa l’ha fatta fare papà per il mio battesimo. Vedi…» La avvicinò allo sguardo di Bruno e batté l’unghia sulla V forgiata sull’impugnatura a bulbo. «C’è incisa la V di Valentina.»

Bruno si chinò, increspò le sopracciglia, scrutò la collana con più attenzione, senza però toccarla. «Come mai proprio una chiave?»

«Perché questa è la Chiave di San Valentino.» Valentina lasciò ricadere il ciondolo sul petto. «Quella della leggenda.»

«Non la conosco.»

«È molto antica.» Valentina sospirò. «E molto triste. In pratica…» Bruno non sembrò intenzionato a interromperla – ooh, incredibile! –, così Valentina proseguì il racconto senza farsi pregare. «San Valentino teneva un bellissimo giardino in cui permetteva ai bambini di giocare anche quando lui non c’era, a patto che tenessero curate le piante, gli alberi e i fiori.» Carezzò il gioiello che le brillava sul petto. «Questa è la chiave che apre il cancello di quel giardino. I bambini l’hanno ricevuta da una colomba che San Valentino ha inviato loro quando era rinchiuso in prigione per via delle persecuzioni. Regalarsi piccole chiavi nel giorno di San Valentino è una tradizione. E io sono nata il quattordici febbraio, per questo papà mi ha chiamata Valentina.» Giunse le mani dietro la schiena, compì un passo che le sventolò la gonna attorno alle ginocchia, e squittì una risatina. «Facile da ricordare, no?»

«Uhm.» Bruno chiuse gli occhi, volse il viso alla luce del sole, si fece sfiorare i riccioli dalla bassa brezza serale che fischiava fra i balconi e i terrazzi delle case circostanti. «Valentina.» Assaporò a fondo le sillabe di quel nome, come se ora producessero un suono diverso danzandogli sulle labbra. «E tuo padre si chiama Eros.» Pure lui sorrise. «Un uomo che porta il nome del Dio dell’Amore dà a sua figlia il nome del Santo Patrono degli Innamorati. Non avrei saputo scegliere qualcosa di più appropriato.»

Valentina ridacchiò, già pregustandosi il fatto che per una volta era lei a saperla più lunga di qualcun altro. «In realtà si sbagliano in molti. Ma vedi…» Sventolò l’indice. «Eros non è il Dio dell’Amore. Afrodite è la Dea dell’Amore.»

«Sul serio?» Un luccichio di curiosità si accese negli occhi di Bruno, rendendoli ancora più profondi. «Allora Eros di che cos’è il dio?»

Valentina gli scivolò davanti curvando la gamba come una pattinatrice, frenò il passo di Bruno e, socchiudendo le ciglia, guardò attraverso di lui, oltre lui, «Del Desiderio», lì dove quello stesso desiderio si annidava e cresceva ogni volta in cui andava incontro alla luce e alle ombre di quel ragazzo così misterioso.

Pure lo sguardo di Bruno si riempì dello stesso vasto spazio di luce. Quella scintilla di luce che si accendeva fra lui e Valentina ogni volta in cui si sfioravano, o si osservavano in silenzio, respirando la reciproca presenza e assaporando la semplice vicinanza che li univa.

Le sue labbra si schiusero, raccolsero un filo di fiato. «Del Desiderio.» Bruno accostò una mano al viso di Valentina – lei si morsicò il labbro e fremette, elettrizzata da quell’istante di aspettativa –, e le scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, in quello che avrebbe potuto somigliare allo sbuffo di una carezza. «E qual è il tuo più grande desiderio, Valentina?»

Valentina non ebbe dubbi. Nel rispondergli, i suoi occhi si accesero come fari e il suo cuore rombò come un diesel. «Una moto!»

Bruno strabuzzò lo sguardo di chi ci sente male. «Una moto?»

«Sì, sì» annuì Valentina. «Una moto tutta mia.» Batté le mani e si elettrizzò di entusiasmo come avrebbe fatto una bimba davanti a una bottega di dolciumi. «Una moto con cui poter scorrazzare in giro da mattina a sera, ed esplorare ogni angolo del mondo a velocità turbo, e sentire il vento fra i capelli senza preoccuparmi di spettinarmi. Una vita che sarebbe in pratica un viaggio continuo, senza limiti e senza confini, un po’ come quella che… oh!» Allungò l’indice sul petto di Bruno, «Ho trovato!», mentre un’altra idea geniale la fulminava dall’alto di quel glorioso colpo di genio. «Potresti venire anche tu con me.»

Bruno flesse un sopracciglio, ancora perplesso. «Ma io non so guidare una moto.»

«Sciocchino» lo canzonò Valentina. «La guiderei io. Tu staresti dietro.»

«E dove mi porteresti di bello?»

«Fino alle stelle.» Valentina volse l’indice al cielo. «Fino a toccare la Luna!»

Quell’entusiasmo finì per contagiare anche Bruno, suscitando in lui il brivido di un sorriso. «A sguazzare nel mare d’argento dei tuoi sogni assieme ai pesciolini stellari, immagino.»

«Esatto!» Ma allora è proprio vero che mi ascolta quando parlo.

«Salire su una moto guidata da te.» Bruno scosse il capo, ma il sorriso era sempre lì ad addolcirgli la curva delle labbra. «Fossi matto. Conoscendoti, saresti persino capace di usare una scogliera come rampa di lancio.»

Valentina ansimò di meraviglia. «Che idea geniale.» Questa sì che avrebbe dovuto ricordarsela. «Vedi…» Riprendendo a passeggiargli affianco, batté una pacca incoraggiante sull’ossuta schiena di Bruno. «È così che riusciremo ad arrivare fin sulla Luna. Con una rampa gigante.» Però poi scosse il capo, abbandonandosi a un sospiro melodrammatico. «Aah, peccato che per ora sia solo un sogno. Povera me, chissà se un giorno riuscirò sul serio ad avere una moto tutta mia.»

«Ma scusa» le disse Bruno. «Eros fa il meccanico. Dovrebbe essere facile per lui procurarti una moto.»

«Magari.» Valentina si avvilì rievocando quella discussione su cui lei e papà si erano scontrati così tante volte. «Ma, anche se avessi una moto mia, papà non mi permetterebbe comunque di salirci. Papà dice che c’è solo una cosa più pericolosa delle moto, ossia i ragazzi che guidano le moto. Ma, ehi…» Tornò a punzecchiare Bruno, questa volta picchiettandogli l’indice sulla spalla e allargando un aguzzo ghigno da furbona. «Se tu non guidi le moto potrebbe essere un punto a tuo vantaggio rispetto agli altri ragazzi per entrare nelle sue grazie.»

Bruno sollevò le sopracciglia e socchiuse una palpebra, non del tutto certo di aver afferrato il messaggio. «È comunque strano che sia proprio un meccanico a dire una cosa del genere, e a nutrire tutti questi pregiudizi nei confronti delle moto.»

«Credo dipenda tutto da quello che è successo allo zio» gli spiegò Valentina. «Vedi, quando c’era la guerra – oh, e a proposito: tu l’hai fatta la guerra? Hai fatto il militare?» Si coprì le labbra e gracchiò una risatina di scherno. «Non mi dire che eri davvero un partigiano, Signor Scorfano.»

Il sorriso di Bruno si appassì, e la luce che poco prima era brillata nei suoi occhi si estinse, rese il suo sguardo buio e distante. In quello stesso sguardo Valentina riconobbe l’espressione fitta di ombre e di dolori che tante volte aveva letto nei volti degli anziani, quelli che raccontando degli anni di guerra si sforzavano di dimenticare. O di ricordare. «A modo mio.» Bruno voltò il capo e si massaggiò la nuca, si nascose dietro i riccioli che gli erano scivolati sulle guance. «A modo mio direi che l’ho fatta.»

«In che senso?» Povera di tatto, la curiosità di Valentina schizzò alle stelle. Davvero il rombo di una motocicletta che sfreccia su una rampa puntata al cielo. «Sei proprio stato sui campi di battaglia? E combattevi con il fucile e le granate? Sei stato a piedi fino in Russia oppure eri uno di quelli che andavano nel deserto in Africa? Ma no, aspetta, se hai solo diciannove anni allora è impossibile che…»

«Cosa dicevi che è successo a tuo zio?»

«Ah, sì.» Valentina si diede un colpetto alla fronte. «Giusto.» Si rinfilò sui binari giusti e riprese a passeggiare a sguardo dritto. Fu facile scordarsi di tutto il resto. «In pratica, mio zio faceva parte di un battaglione motorizzato, quando c’era la guerra. Ma la Prima, non l’ultima. Quella del Quindici-Diciotto.» Allungò il braccio per sfiorare il ramo di un albero di limoni che sporgeva dal muretto di cinta di una delle case. «Stazionava sul Carso, sul Monte Grappa, e un giorno ha avuto un incidente. So che la motocicletta che guidava ha avuto tipo un guasto, o le si sono rotti i freni, una cosa così.» Intrecciò le mani dietro la schiena. Un lungo sospiro le appesantì le spalle. «Lui è franato giù dalla scarpata che stava percorrendo e purtroppo è morto. Per papà è stato un colpo durissimo. Lui e lo zio erano fratelli, ed erano molto legati. Papà a quei tempi stava facendo l’apprendistato per diventare orafo, poi però ha deciso di mollare tutto e di diventare meccanico, proprio per imparare ad aggiustare i motori e in questo modo impedire che le moto e le auto uccidessero altre persone come è successo con lo zio.»

Bruno annuì. Lo sguardo ammirato e ravvivato da una profonda luce di rispetto. «È una causa nobile.»

«Lo so.» Valentina sorrise, lieta di potersi sentire così orgogliosa. «Papà è proprio l’uomo migliore del mondo. Se solo fosse un po’ meno protettivo. Ma immagino sia normale, dato che sono la sua unica figlia.» Tambureggiò un pugno sul petto. «Ma un giorno gli dimostrerò di essere una ragazza seria e responsabile, realizzerò il mio desiderio e allora anche io avrò una moto tutta mia.»

«E non c’è un qualche desiderio che potrei aiutarti a realizzare subito?»

«Adesso?»

«Sì, adesso.»

«Oh!» Anche quella era una domanda sulla quale Valentina non nutriva dubbi. «Vorrei tantissimo un gelato.» E il suo pancino gorgogliante applaudì quella risposta.

Bruno invece sembrò deluso. «Un gelato?» Chissà cosa si aspettava. «Ma…» Guardò verso il sole, rosso come una fetta d’arancia, che stava calando dietro i tetti delle case. «È quasi ora di cena.»

«Che importa?» Valentina alzò le spalle. «Per il gelato c’è sempre spazio e tempo. Vieni!» Prese Bruno per mano, accelerò il passo lungo la discesa che curvava attraverso la ripidezza dei tornanti, e con pochi rimbalzi di corsa raggiunsero assieme la piazza di Portorosso.

Distanti alla fresca umidità che avevano respirato circondati dalla vegetazione del monte, vennero accolti dagli odori del porto e del mare, del pescato fresco, delle piante annaffiate, del caffè del bar, dei fondi di vino avanzati nei bicchieri, e da quello dell’acqua ferrosa che zampillava nella fontana.

Un pallone da calcio volò fra le gambe di un paio di bambini che stavano giocando davanti alla drogheria. Una signora passò loro affianco, borbottò un rimprovero facendoli allontanare dalle finestre, e andò a sedersi sulla panchina, fra altre due anziane che stavano sgranando baccelli di fagioli riempiendo i secchi deposti ai loro piedi. Poco distante, il Signor Moretti sfilò fra i tavolini del bar, andò a posare due tazze di espresso davanti a una coppia di pescatori che stavano chiacchierando facendosi aria con i berretti. Il furgoncino Ape che Valentina e Bruno avevano incrociato durante la salita del monte si rimise in moto e lasciò la piazza dopo che un gruppetto di persone si era radunato per sistemare le panche e le lanterne appena scaricate, tutto quello che sarebbe servito ad allestire la sagra della settimana successiva. Una ragazzina, dopo essersi accovacciata a carezzare un gattino grigio, si rialzò spolverandosi la gonnella, corse dalla mamma che l’aveva appena chiamata, le diede la mano e saltellò all’ombra delle terrazze succhiando il cono gelato che le stava gocciolando fra le dita. Fuori dalla latteria, seduti dietro i vasi di aiuole a cui erano appoggiate un paio di biciclette, c’erano anche…

«Oh!» esclamò Valentina, non appena li vide. «Guarda, ci sono anche Sara e Massimo.» Tenne stretta la mano di Bruno e sventolò il braccio libero verso i suoi amici. «Ciao, Sara e Massimo!»

Sentendosi chiamare, si girarono entrambi.

Trascorso il primo inevitabile lampo di stupore, Sara spostò lo sguardo da Valentina a Bruno. Si sfilò il mozzicone di matita che le pendeva dall’angolo delle labbra e sorrise, salutò di rimando. Massimo arruffò i baffi, forse sorridendo pure lui, e scosse piano la mano stando attento a non muovere troppo il braccio su cui Sara stava prendendo le misure del tatuaggio che era disegnato più volte sui mazzi di fogli sparpagliati sul loro tavolino.

Sempre trascinato dalla stretta di Valentina, Bruno si sorprese di vederli lì. «Quei due sono sempre assieme?»

Valentina rise. Per lei invece era così ovvio. «Ma è naturale, dato che sono fidanzati.»

Bruno slargò le palpebre. «Ma dai.»

«Giuro!» Valentina allentò la presa, senza però lasciare la mano di Bruno, e rallentò la corsetta per potergli stare affianco. «Ti sorprende tanto? Pensavo che ormai si fosse capito. Ma se ti fermerai qui a Portorosso ancora a lungo dovrai abituarti a vederli assieme. Sara è molto protettiva nei confronti di Massimo.»

Lo sguardo di Bruno, scettico, tornò a posarsi sul profilo di Massimo, a soppesare la sua stazza immensa se paragonata a quella di Sara, o alla sua, o a quella di chiunque altro fosse presente lì nella piazza. Vederlo seduto sulla sedia del bar era come vedere un uomo adulto appollaiato su una seggiolina per le bambole. «Massimo non mi dà l’impressione di essere un ragazzo che ha bisogno di essere protetto, ecco tutto.»

«Ti sbagli.» Valentina glielo rivelò senza nascondere una punta di tristezza. «In realtà Massimo è un ragazzo molto timido e introverso, anche se può sembrare il contrario. Fin dall’asilo è sempre stato preso di mira dai prepotenti, sai…» Si toccò la spalla e abbassò la voce. «Per via del braccio.»

Bruno sussultò, «Oh», e questa volta sembrò capire al volo.

Valentina annuì. «Io e Sara eravamo le uniche a batterci per difenderlo. Così siamo diventati amici, e da allora non ci siamo mai più separati. Forse perché siamo sempre stati capaci di accettarci l’un l’altro, nonostante le reciproche stranezze.» La luce dei ricordi le arrossì le guance. «Massimo è stato fortunato ad aver incontrato una come Sara. Ma lei è un’artista, è naturale che sappia sempre guardare al di là della prima apparenza, trovando quel qualcosa di speciale che gli altri occhi non riescono a vedere. Deve essere per questo che ha tanta pazienza con me. Vieni, vieni…» Di nuovo spremendogli la mano intrecciata alle sue dita, condusse Bruno verso la porta della latteria che si era appena aperta per far uscire due ragazzini con il naso già tuffato nei loro coni gelato. «Per fortuna c’è poca gente, anche se è domenica. Te l’ho detto che sono tutti indaffarati con i preparativi della sagra. Offro io!»

Com’era facile da immaginare, Valentina era proprio quella ghiottona che Bruno si aspettava che fosse. Dopo essere uscita dalla latteria reggeva infatti fra le mani un cono gigante su cui dondolavano ben tre gusti di gelato: pistacchio, malaga e zabaione. Bruno, che non soffriva nemmeno della metà del suo appetito, si era accontentato di un cono alla stracciatella.

Una volta fuori, i due erano balzati a sedere sul ciglio di un balcone spoglio, senza alcun vaso di fiori a colorare il riflesso sulla finestra, mentre la piazza che si apriva davanti a loro continuava a muoversi, a vivere e a respirare come un prato fiorito che si inchina al passaggio del vento, sprigionando un coro di profumi e suoni diversi.

Gustandosi un piccolo assaggio di gelato e riportando alla mente la manciata di monetine che Valentina aveva depositato sul bancone della latteria, Bruno provò una tardiva fitta di colpevolezza. «Non serviva che pagassi tu» le disse. «Avrei voluto offrire io.»

Valentina si ingozzò con una vorace succhiata al gusto di pistacchio e, leccandosi i baffoni di gelato, scosse la testa. «Ma sarebbe stato disonesto.» Succhiò i rivoletti che avevano già cominciato a gocciolare dal cono. «Dato che il mio gelato è grande il triplo del tuo. E poi è solo un gelato, mica diventerò povera.»

Bruno sorrise. Sembrò felice di vederla entusiasmarsi per qualcosa di così semplice. «Da come te lo stai mangiando si direbbe che non stessi aspettando altro da tutto il giorno.»

«Per me ogni momento è un buon momento per un gelato.» Valentina fece mulinare l’indice attorno al suo cono. «Anche se ogni volta è un dilemma, perché non so mai se lasciare il pistacchio per ultimo o per primo. Perché se lo metto in cima, allora è il primo che mangio, e quindi poi il sapore viene cancellato dagli altri.» Affondò un altro morso sentendo l’uvetta sultanina, dolcissima, sciogliersi fra i denti e unirsi all’aroma speziato dello zabaione. «Ma se lo lascio per ultimo, poi i gusti di sopra si squagliano e si mescolano, contaminandolo.»

Bruno annuì ripetendo «Contaminandolo…», sempre con lo sguardo estraniato e sospeso di chi era irrimediabilmente sedotto da ogni parola che fuoriusciva dalla bocca di Valentina.

«Il gelato al pistacchio è il mio preferito» annunciò lei, dopo aver schioccato un bacio sull’indice appiccicoso di gelato, «nel caso qualcuno te lo chiedesse.»

«Lo terrò a mente.»

«A te piace il tuo?»

«Sì.» Come a confermarlo, Bruno leccò un altro assaggio, sgranocchiò il cioccolato fondente e assaporò il gusto cremoso del gelato che gli riempì le guance, saziante proprio come una sorsata di latte mattutino. «È buono.» Strofinò una nocca sull’angolo della bocca. «Non mi capita spesso di mangiarlo. Grazie per avermelo offerto.»

«Figurati.» Beandosi di contentezza, Valentina fece dondolare le gambe dal balcone su cui sedevano. «Ti offro anche un milione di gelati, se ti fa felice. Ecco, ci sono!» Gli rivolse il cono gelato, facendo gocciolare qualche schizzo fra le dita. «Potemmo farla diventare tipo la nostra abitudine della domenica.»

Bruno soffiò una risata. «È una buona idea, sì.»

Soddisfatta, Valentina finì di leccare il suo gelato e sbranò fino all’ultima briciola di cialda.

Bruno riuscì ancora a sorprendersi davanti alla sua voracità senza confini. «Hai davvero un appetito formidabile per…»

«Non dire per una ragazza.» Valentina gli pigiò l’indice sul naso. Lo trafisse con un’occhiataccia. «Perché la cosa che noi ragazze mangiamo poco è una balla colossale.»

Bruno flesse un sopracciglio. «Veramente stavo per dire per quest’ora del giorno.» Piegò la testa per scostarsi dal dito di Valentina, si strofinò il naso, e pure lui finì di sgranocchiare gli ultimi bocconi del suo cono. «Eppure a pranzo abbiamo mangiato bene, e fra poco è pure ora di cena.»

Valentina sogghignò. «Guarda che fame è il mio secondo nome. E poi…» Si leccò le dita sporche e si pulì con una salvietta da bar che aveva sgraffignato quando erano passati davanti ai tavolini della piazza. «Poi io ho sviluppato una teoria. Ti va di sentirla?»

«Sono tutto orecchi.»

Dal cuore di Valentina zampillò un guizzo di gioia ancor più dolce del gelato di cui si era appena abbuffata. Ecco un’altra frase che non si era mai sentita rivolgere da nessuno dei ragazzi con cui era uscita. «In pratica, ci sono due stomaci.» Sollevò due dita. «Uno è quello normale per la colazione, il pranzo e la cena, e l’altro è quello per il gelato, le torte, i panini, la pizza, la focaccia, e tutto il resto. Così puoi mangiare comunque tutto quello che vuoi in qualsiasi ora del giorno senza rischiare di rovinare gli altri pasti.»

Bruno socchiuse le labbra, sospese il fiato come in procinto di ribattere, poi però gli scappò una mezza risata che lui camuffò scuotendo la testa. «Ne sai una più del diavolo.»

«In senso buono o in senso cattivo?»

«In senso buono, direi.»

«Oh.» Valentina rinnovò il sorriso. «Bene, allora. Però vedi, se chiacchiero mentre mangio poi mi concentro sul parlare e non sul mangiare e mi si squaglia tutto il gelato fra le dita.» Rigirò le mani, sprimacciò le dita che continuava a sentire appiccicose, nonostante le avesse ripulite con la salvietta. «La prossima volta lo prendo nella coppa, che forse è meglio. Aspetta…» Rimbalzò giù dal balcone, «Mi do una sciacquata alle mani», e corse alla fontana.

Finito il suo gelato, pure Bruno rimise i piedi a terra, ma cauto, senza più alcuna traccia di sorriso a baciargli la sottile linea delle labbra o a colorargli le guance. Compì un paio di tremolanti passetti, seguì Valentina schivando qualche seggiola del bar e attorniando l’ombra della fontana. Alzò gli occhi verso il getto d’acqua eruttato dalla bocca del mostro marino che veniva strangolato dai pugni del pescatore, stropicciò la fronte in una cupa smorfia di inquietudine, e s’irrigidì tornando a innalzare quella corazza di difesa che sembrava essersi un po’ ammorbidita dopo quella giornata all’insegna di sole, chiacchiere e gelati. «Tina…» Bruno ostentò un passo verso di lei, vide Valentina tuffare le mani sotto il getto della fontana, premere un ginocchio sulla pietra per allungarsi verso l’acqua più fresca. Ci ripensò e tornò indietro, rattrappendosi nell’ombra. «Tina, scendi, è pericoloso.»

«Pericoloso?» Valentina si arrampicò anche con l’altro ginocchio. Diede una strofinata alle mani tuffate sotto l’acqua, schizzò qualche goccia che scintillò sulle sue braccia, e si girò verso Bruno. «Cos’è pericoloso?»

«Stare sulla fontana in quel modo.» Bruno compì uno scatto e la raggiunse, tese il braccio, le sfiorò un lembo della gonna, ma Valentina fu più rapida e saltò in piedi sul bordo di pietra. Lo sguardo di Bruno, alzandosi su di lei, vacillò riempiendosi di tutta quell’acqua che, rovesciandosi nella vasca della fontana, frammentava una cascata di scintille bianche e azzurre. «Vieni giù, dai.» Le avvolse il polso. La sua mano era fredda e tremava. «Rischi di scivolare e di battere la testa.»

Valentina sfilò il polso dalla sua presa e gli acchiappò la mano. «Se mi tieni la mano non scivolo.»

Bruno indurì il braccio, torse la spalla e guardò all’indietro senza però riuscire a sottrarsi alla sua stretta. «Se continui a camminare lì sopra smetterò di reggertela.» La sua voce si era inasprita, rauca come un soffio d’inverno.

«Ma dai» sbuffò Valentina. «Guarda che tutti ci camminano sopra.» Batté il sandalo sulla pietra. «Non è così bagnata.»

«Ma rischi di schizzarti e di prendere freddo.»

«Ma se oggi si scoppia dal caldo.»

«Scendi, Tina.» Bruno strinse la presa. Inspirando, un brivido di terrore gli stridette fra i denti, gli sporcò le guance di un malaticcio color cenere. «Per favore.»

«È solo acqua.» Gli occhi di Valentina si accesero di malizia. «Non dirmi che hai paura dell’acqua.»

«Tina.» Un altro passo all’indietro da parte di Bruno. «Guarda che ti mollo.»

E un altro strattone da parte di Valentina. «Non mi succede niente, sono solo quattro gocce.» Si piegò a immergere la mano sotto il getto. «Ecco, guarda…» E schizzò gli zampilli su di Bruno. «Così.»

Bruno saltò all’indietro. «Tina!» Incrociò le braccia davanti alla faccia come se Valentina lo avesse inondato con dell’olio bollente anziché con acqua fresca, e la mollò di colpo, facendo sbilanciare entrambi.

Senza più appoggio, Valentina traballò sui suoi piedi, sbatacchiò le braccia all’aria, «Whoo!», scivolò all’indietro e – splash! – cascò dentro la fontana, finendo annaffiata dal getto che usciva dalla bocca del mostro marino.

Bruno invece cadde col sedere all’asciutto, sul cemento della piazza, e lì rimase, accasciato sul gomito e con una mano aggrappata al petto che sobbalzava come se il cuore minacciasse di schizzargli fuori dalle costole, sconquassato dal rauco fiatone che faceva boccheggiare la sua faccia diventata cinerea.

Sara e Massimo accorsero prima ancora che Valentina avesse tempo di sputare l’acqua ingollata. «Tina», «Tina!».

Valentina batté le palpebre rigonfie e neanche li vide arrivare, stordita e inondata dalla continua caduta dell’acqua fredda che le appannava la vista, bruciando sulla pelle assolata e riempiendole le narici con un dolciastro odore di ferro. Strinse i pugni premuti sul pavimento della fontana, e ancora non fu in grado di sottrarsi mentre il getto continuava a sciogliersi sulla sua testa, a colare fra i capelli incollati alle guance, a tambureggiare nelle orecchie, a inzuppale il vestito e a raccogliersi nello specchio d’acqua in cui era immersa fino ai polsi e alle caviglie.

Sara scavalcò il bordo, tuffò i piedi nell’acqua, si piegò su di lei e le avvolse il gomito. «Cos’è successo?»

Pure Massimo si chinò a porgerle il braccio. «Stai bene?» Aiutò Valentina ad alzarsi e la sostenne aprendole la mano sulla schiena. «Hai battuto la testa?»

«N…» Una volta sottratta al getto di acqua scrosciante, le orecchie di Valentina smisero di fischiare. Lei scrollò la testa, sbatacchiò le ciglia lacrimanti, e la vista tornò libera, solo un po’ sfocata. «No.» Ancora inebetita, sorretta dalla mano di Massimo e dalle braccia di Sara, si fece condurre all’asciutto, fuori dalla fontana. Si succhiò le labbra che sapevano di acqua ferrosa e dolciastra, si passò una mano attraverso le ciocche di capelli incollate alla faccia, e solo allora si accorse che altre persone si erano girate verso la scena, che qualcuno si era sporto dalla soglia del bar, che i bambini avevano smesso di giocare a calcio, e che le chiacchiere delle anziane signore si erano infittite.

«Che pasticcio.» Sara la asciugò con un fazzoletto che aveva sfilato dalla tasca dei pantaloni. Raccolse le gocce che continuavano a piovigginarle dal mento e dalle guance. «Ma come hai fatto a cadere?»

«E…» Valentina strusciò la mano sul viso e tirò su col naso. Il sapore di acqua di fontana le scese giù per la gola, tremolò sulle labbra umide e infreddolite. «Ecco, io…»

Dopo averle asciugato anche la fronte, Sara si girò verso Bruno che non si era ancora alzato da terra. Bruno che era all’asciutto, al contrario di Valentina. Sara digrignò i denti, divenne rossa peggio dei suoi capelli, pestò un passo che avrebbe potuto sbriciolare le mattonelle di cemento, e strizzò i pugni. «Cosa le hai fatto?»

Solo allora Valentina si riprese con una rapida scrollata di capo. Sputò una ciocca di capelli che le era finita in bocca e fece per raggiungere Sara, per mettersi fra lei e Bruno. «Sara, smettila.» Incespicò su un sandalo, ma il largo braccio di Massimo le fu di nuovo attorno, sorreggendola e impedendole di cadere. «Non è successo nie…»

«I-io…» Bruno alzò la testa e, da sotto lo scompiglio di riccioli, si guardò attorno con una faccia ancor più frastornata di quella di Valentina. Gli occhi di tutta la piazza gli erano puntati addosso. I bambini erano voltati verso di loro, la palla da calcio rimbalzò fra le gambe del più piccolo e rotolò via senza che lui la fermasse; una delle anziane toccò il braccio di quella seduta affianco a lei e indicò la scena con un’alzata di mento, bisbigliando al suo orecchio; il giornalaio uscì dalla bottega per curiosare, allarmato da tutto quel trambusto; pure il Signor Moretti smise di strofinare il panno sul tavolino che stava ripulendo, socchiuse la bocca come per intervenire. Ma rimase zitto. Solo l’interrotto scroscio della fontana a scuotere il fitto silenzio di ghiaccio che aveva annebbiato la luce del sole e raggelato gli sbuffi di venticello estivo.

Un brivido risalì la schiena ricurva di Bruno, lo fece rimpicciolire, schiacciato fra le ombre della piazza che lo fecero somigliare a un piccolo insetto accerchiato da un ammasso di piedi, da passi in procinto di spiaccicarlo. Ansimò, ancor più pallido, e si strofinò la gola traballante. Lo sguardo allucinato rispecchiava tutta l’agonia patita dal mostro marino strozzato dalle mani del pescatore di pietra. Anche Bruno sembrava così: in procinto di soffocare come un pesce estrapolato dal mare.

Bruno raddrizzò il braccio su cui era piegato, premette un piede a terra, si diede la spinta, sdrucciolò, tornò a cadere sulla spalla e ricominciò a tremare. Si guardò indietro, si soffermò su Valentina che era ancora sorretta da Massimo e riparata da Sara. La guardò con quegli occhi lucidi e strabuzzati che forse le stavano chiedendo scusa o che forse la stavano accusando di qualcosa, di un male terribile e imperdonabile.

Poggiandosi su entrambe le mani e spingendo sulle ginocchia, Bruno riuscì ad alzarsi da terra. Si strofinò il palmo sulla camicia, piegò la testa fra le spalle, sfilò gobbo sotto gli sguardi di tutti, superò i due bambini costretti a schivarlo per non finire urtati, e corse via dileguandosi dalla piazza.

Vedendolo fuggire in quel modo, il cuore di Valentina soffrì, ferito da un colpo sordo e lancinante. La accecò il terrore che Bruno se ne sarebbe andato per non riapparire mai più, uscendo dalla sua vita proprio come vi era entrato. Inaspettatamente.

«Sei tutta zuppa.» Sara tornò a occuparsi di Valentina, le aggiustò una spallina dell’abito, le scollò la gonna dalle gambe e sbatacchiò l’orlo gocciolante. «Devi andare a cambiarti prima di prendere freddo. Ma si può sapere che ti ha fatto? È stato lui a buttarti nella fontana?»

«N-no.» Valentina si passò una mano sulla fronte bagnata e si scollò il nastrino sciupato dalla guancia. Goccioline più piccole piovvero dalle orecchie e dai capelli, le rigarono le braccia. Attorno a lei si dilatò una pozza che annerì il pavimento della piazza. «Ma no, non è stato lui. Sono solo scivolata e…»

«Ma era lì che ti stava tenendo» insistette Sara. «Si può sapere perché ti ha mollata?»

«Perché l’ho schizzato» rispose Valentina. «Gli ho schizzato un po’ d’acqua e lui mi aveva detto di non…»

Di allontanarmi perché era pericoloso. È solo per questo che si è spaventato? Per l’acqua? Bruno ha paura dell’acqua? Impossibile. Non sarebbe mai venuto a lavorare in villaggio di pescatori se fosse così terrorizzato di avvicinarsi persino a una fontana. Ma anche se fosse… perché non me l’ha detto subito?

«… meglio se ti accompagniamo a casa.» Sara raccolse la mano di Valentina, addolcì il tono di voce. «Tina, vieni. Andiamo ad asciugarci.»

«Aspetta.» Massimo si diresse all’entrata del bar. «Vado al bar a vedere se hanno un asciugamano da…»

Mi sta forse nascondendo qualcosa? Attorniata e assordata da quello sciame di pensieri, Valentina nemmeno udì quello che le stavano dicendo i suoi amici. No, per la miseria, no e ancora no. Fra di noi non dovrebbero esserci segreti, e io non gli permetterò di piantarmi qua come una scema. Non senza una spiegazione!

Si strofinò la faccia, si morsicò il labbro umido e tremolante, soffiò dalle narici le ultime goccioline d’acqua che le avevano bagnato il respiro, slanciò all’indietro una frustata di capelli gocciolanti, calciò via i sandali che ruzzolarono contro la base della fontana, raccolse la gonna fradicia e pesante, e compì quell’unica azione che credeva non si sarebbe mai ridotta a fare in tutta la sua vita.

«Tina!» Il grido di Sara la inseguì, di nuovo in allarme, senza però riuscire a frenare la sua fuga. «Tina, aspetta! Dove vai?»

Corse dietro a un ragazzo.

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Capitolo 14
*** Lauretta mia – Atto IV ***


Lauretta mia – Atto IV

 

 

Valentina sbatté spalla e gomito sulla porta del retro del Gabbiano d’Argento, quella che sapeva essere sempre aperta per le pulizie di fine giornata, quando venivano portate fuori le giare e le bottiglie di vino vuote. Risalì con un balzo i tre gradini che collegavano la dispensa alla cucina deserta, marciò attraverso l’ambiente chiuso che odorava di conserva di pomodoro e di pesce sott’olio, e spalancò la porta della sala da pranzo con una pedata volante.

Slam!

Quel colpo improvviso rimbalzato sul muro fece trasalire Angelo che stava dando una spazzata a terra prima dell’apertura serale. «Gha!» La scopa gli guizzò dalle mani, lui la riacchiappò al volo colpendosi il naso con il manico, e si girò a strabuzzare lo sguardo frastornato verso la comparsa di Valentina. «Ti-Tina!»

Valentina gocciolò dalla gonna, dai capelli, dal nastrino sciupato che colava sul suo grugno ansimante. Quella macchia di acqua scura si raccolse attorno ai suoi piedini nudi e insozzati dalla corsa a perdifiato per le vie e i gradini che risalivano le alture di Portorosso. Valentina strizzò le mani sulla stoffa fradicia della gonna, dilatò le narici ancora inondate dal ferroso odore della fontana, soffiò uno sbuffo di aria e schizzi d’acqua, e si strusciò il braccio sulla faccia fradicia e già gelida all’altezza delle guance e della punta del naso.

Non badò al richiamo di Angelo. Non incrociò il suo sguardo nemmeno di striscio. Mollò la gonna che le cadde sulle ginocchia, pestò la pozza d’acqua – ciaf! –, spinse via una delle seggiole, e attraversò la sala da pranzo già puntando le scale che davano al piano di sopra.

Angelo era ancora troppo disorientato per fermarla, per proiettare la semplice presenza di Valentina lì all’osteria. Aggrappato al manico della scopa come un marinaio si aggrappa all’albero maestro della sua nave durante una burrasca, la seguì con lo sguardo. «M-ma cosa fai qui?» domandò. «Oggi non lavori e…» Gli occhi gli caddero sulla scia di passi bagnati che Valentina gli aveva seminato davanti passando in mezzo ai tavoli. Questo sì che lo destò, accendendo in lui un lampo di stizza, una scura ruga infossata fra le punte delle sopracciglia. «Sei tutta bagnata! E pure scalza!»

Valentina si appese al corrimano, scavalcò i primi gradini con la gonna fredda e gocciolante che le si appiccicava ai polpacci a ogni falcata.

Angelo la inseguì, stando però sulle punte dei piedi per non calpestare le impronte d’acqua. «Tina, non salire.» Salì qualche gradino, scivolò, e si aggrappò anche lui al corrimano per non finire con il naso per terra. «Stai allagando tutto il pavimento. Tina!» Prese fiato per ingrossare la voce. «Tina, torna giù subito!»

L’urlo giunse alle orecchie di Valentina e le rimbalzò addosso, senza farla rallentare, senza farla voltare, quando lei aveva già raggiunto il piano di sopra.

Valentina spinse una mano fra i capelli bagnati, scollò le ciocche appiccicose dalla bocca infreddolita dall’acqua di fontana, tirò su col naso soffocandosi con il saporaccio di ferro e pietra, stropicciò la vista appannata dalle ciglia gocciolanti, e squadrò quella che sapeva essere la camera di Bruno, l’ultima in fondo al corridoio.

Schiumando fiotti di rabbia fra i denti digrignati, fischiando fumo dalle orecchie come una teiera, e sentendo friggere le gocce d’acqua di cui erano imperlate le guance paonazze, Valentina divorò la lunghezza del corridoio con poche nude falcate.

Ciaf, ciaf, ciaf!

Raggiunse la porta e vi pestò tre volte il pugno sopra – tunf! tunf! tunf! –, imprimendo sul legno una chiazza scura e umida. «Bruno!»

Eco a parte, nessuna risposta.

Valentina strizzò i pugni, tirò fiato dalle narici fino a sentirle bruciare, e alzò la voce. «Bruno, apri la porta!» Sentì il sapore ferroso dell’acqua scivolarle fra le labbra e gorgogliare in fondo alla gola. «So che sei qui!»

Da dietro la porta, solo un breve silenzio, un fruscio come di piedi che scivolano sul pavimento, prima di… «Vattene, Tina.»

Superato il battito di sollievo di cui Valentina si era saziata nel trovarlo lì, nell’apprendere che per lo meno Bruno non si era volatilizzato dal paese, una vampata di rabbia tornò a montare dal petto. Una rabbia cieca e bollente che avrebbe potuto far evaporare tutta l’acqua che stava continuando a gocciolare dai suoi capelli e dalla sua gonna. «No!» Valentina si appese alla maniglia, senza realmente aspettarsi di trovarla sbloccata. La smanettò più volte su e giù, tirò, diede una spallata in avanti, ma la porta non si mosse. Nonostante quell’ostacolo a barricarla, Valentina non si diede per vinta. Rimanendo aggrappata alla maniglia con entrambi i pugni, accostò la bocca alla porta. «No che non me ne vado» gridò. «Non prima che tu mi abbia dato una spiegazione.»

Un sospiro esausto e ovattato da parte di Bruno. «E che spiegazione vuoi che ti dia?»

«Cos’è successo prima?» La rabbia di Valentina si affievolì, lasciò spazio a una genuina incomprensione, la stessa che l’aveva stordita ronzandole attorno alla testa quando era finita col sedere sul pavimento della fontana e con il getto dell’acqua ad annaffiarle la faccia, plasmando goccia dopo goccia quell’espressione rintronata dal tuffo e dalla fuga di Bruno. «Perché sei scappato in quel modo?»

La sua gonna gocciolò nel silenzio che aveva riempito il corridoio – plic, plic, plic! In fondo alle scale, Angelo brontolò fra sé e sé e strofinò qualcosa sul pavimento, molto probabilmente asciugando le impronte bagnate che Valentina si era seminata alle spalle quando aveva attraversato la sala da pranzo.

Da dietro la porta della sua camera, Bruno raccolse un altro sospiro, e anche lui indurì il tono di voce. «Non ho nulla da dirti e non c’è niente da spiegarti.» Seguì uno spostamento di passi, uno scricchiolio delle assi del pavimento. La voce di Bruno suonò più vicina alla porta. «Ti avevo detto di startene lontana dalla fontana e di smettere di camminarci sopra, o almeno di lasciarmi andare. Tu non mi hai dato retta e così è successo tutto questo pasticcio. Fine della discussione.»

Valentina stirò la bocca in un ghigno affilato e tremante. «Fine della discussione un corno» sbraitò. In barba alle buone maniere e al linguaggio da brava signorina. «A prescindere da quello che mi avevi detto non è normale reagire in quel modo solo per quattro schizzi d’acqua.»

«E non è normale nemmeno insistere per una cosa così stupida.»

«Allora spiegamelo tu come avrei dovuto reagire» sbottò lei, «dato che sono tanto stupida da non capirlo da sola, a quanto pare.»

Un altro sospiro da parte di Bruno, «Vai via, Tina», questa volta più trascinato ed esasperato. «Non ti devo nessuna spiegazione.»

Valentina contrasse la mandibola in un ringhio. «Oh, sì che me la devi, invece.» Staccò i pugni dalla maniglia, strinse al petto le braccia conserte, e pestò a terra un piede nudo, sollevando un sonoro splash! dalla pozzanghera d’acqua che le si era allargata attorno. «E me ne starò piantata qui nel corridoio, fradicia, infreddolita, solo per colpa tua, fino a che non uscirai a dirmi tutto quello che c’è da dire. Quindi ti conviene aprire la porta, Signor Scorfano, se non vuoi che…»

Lo scatto della serratura la ammutolì, facendole balzare il cuore in gola. La porta si aprì accompagnata da un lento cigolio – screeek –, e allungò un piccolo spiraglio dentro il quale brillava la luce della camera da letto. La sagoma di Bruno si materializzò nello spazio di luce. Le dita serrate attorno alla maniglia, le spalle dritte, un’ombra ad avvolgerlo come una nebbiolina di fuliggine, e gli occhi scuri che bruciavano sotto la massa di riccioli che gli incorniciava la fronte e le guance.

Valentina mosse le labbra, succhiò ancora una volta il sapore dell’acqua di fontana che comunque le lasciò la bocca asciutta, socchiusa come quella di un pesce appeso all’amo, e ingoiò il battito del cuore che aveva sentito pulsare fin sulla lingua, come una scossa elettrica. Anche il suo sguardo impallato era lo stesso di un pesce boccheggiante ancora appeso alla canna da pesca. Sgranato e fisso su Bruno, rabbuiato da una vampata di soggezione che, risalendo la schiena come un graffio, le aveva inturgidito la pelle d’oca lungo le braccia e dietro la nuca, soffiando via tutta la sbruffonaggine che aveva sfoggiato solo qualche istante prima, picchiando i pugni sulla porta che ora era finalmente aperta. Valentina cominciò a considerare che sarebbe stato meglio se fosse rimasta chiusa.

Bruno aggrottò la fronte. Dentro a quegli occhi nei quali di solito il mare galleggiava placido e tranquillo come una pozza solitaria, ora sbuffavano venti di tempesta, le onde si accavallavano gonfiandosi in creste di schiuma, e il fondale si ribaltava schiantandosi sugli scogli anneriti. Gli occhi grigi, immobili e ardenti, infossati nell’ombra che gli si era spalancata attorno e che aveva inghiottito l’intero corridoio.

Per la prima volta, Valentina si sentì rimpicciolire davanti a lui, come se l’acqua che continuava inesorabilmente a gocciolare dal suo vestito fosse stata cera, come se lei fosse stata una candela consumata dal calore letale che bruciava negli occhi di Bruno. Per la prima volta lo guardò come avrebbe guardato un adulto, e non come il ragazzino timido e sbarbato per il quale si era presa una cotta.

«Vuoi che i ragazzi ti prendano sul serio, Tina?»

Trafitta da una piccola scossa che le succhiò un vuoto in fondo allo stomaco, Valentina raggelò, ancora immobile e muta come uno stoccafisso appeso a essiccare. Gli occhi vacillarono, larghi e storditi. «I-io…» Goccioline d’acqua vibrarono fra i fili delle ciglia, piovigginarono dai capelli zuppi, le rigarono il volto e si sciolsero lungo il petto e sotto la gonna, come tante fredde e viscide zampette. «Io, uh, s-sì. Cioè…» Scosse la testa, cominciò a riprendersi. «Cioè, certo.» Strinse i pugni e immusonì lo sguardo, nella speranza di riguadagnare almeno un briciolo della dignità perduta. «Certo che voglio che mi prendano sul serio.»

Bruno stritolò la maniglia che ancora stava impugnando. Le sue falangi scricchiolarono. «E allora vedi di cominciare a crescere e a comportarti come una persona seria.» Chiuse la porta in faccia a Valentina e tornò a far scattare la serratura.

Di nuovo sola, abbandonata nella penombra del corridoio, Valentina si sentiva incapace di muoversi, di richiudere le labbra, o di rimettere in moto le rotelline della sua testa per formulare un pensiero compiuto, una frase sensata. «Io…» Ma cos’è successo? «Io, uhm…» E la sfiorò il dubbio – solo un debole e pallido dubbio – di essere lei quella in torto, per una volta.

Altra acqua tiepida le gocciolò dai capelli, le entrò negli occhi e nel naso, la costrinse a strofinarsi le mani sulla faccia, e quel gesto così brusco e improvviso riaccese in lei una scintilla di lucidità, accelerò il battito del cuore e le chiazzò le guance di rosso. «Io mi comporto già come una persona seria.» Valentina schiacciò un pugno e lo pestò di nuovo sulla porta di Bruno. «Hai capito, sbruffone che non sei altro?» Il rimbombo risuonò fino alla fine del corridoio, richiamò l’attenzione di un altro degli ospiti che si affacciò dalla sua camera per sbirciare e tendere l’orecchio verso la lite. Valentina nemmeno se ne accorse. «E non ho bisogno che sia uno come te a dirmi di cominciare a crescere. Anzi, sai che ti dico? Che non ho bisogno di te proprio per niente.»

«Buon per te» le rispose Bruno, sempre da dietro la porta.

«Già» sbuffò Valentina. «Infatti.» Strusciò la mano sotto il naso e tirò su un umido risucchio di fiato. «Buon per me. E me ne starò meglio da sola. Da sola, hai capito? Quindi tieniti i tuoi segreti, le tue spiegazioni e le tue stramberie, e fammi il favore di non rivolgermi mai più la parola.»

«Bene.» Nessun cambiamento di tono da parte di Bruno, solo la più fredda e spietata indifferenza. «Penso che è proprio quello che farò.»

Valentina fece schioccare i denti in un basso e gorgogliante rantolo di frustrazione, si morsicò il labbro umido e tremante, strizzò i pugni sbiancati. I rimbombi del cuore gonfio di rabbia la assordarono, allungarono un fischio che le fumò dalle orecchie. «Bene!»

«Benissimo.»

«Benissimo lo dico io!» Valentina scaraventò un calcio sulla porta. «Ahu!» Si massaggiò il piede indolenzito, saltellando sull’altro, e grugnì un’ultima imprecazione. Fece dietrofront – la girandola di capelli bagnati le frustò la guancia –, schiacciò i pugni ai fianchi e riattraversò il corridoio percorrendo la scia d’acqua che aveva gocciolato quando era salita dalle scale.

Marciò davanti allo sguardo allibito del ragazzo che si era affacciato dalla porta socchiusa della sua camera. Lo trapassò con un’occhiataccia rovente. «Che diavolo guardi?» gli abbaiò in faccia. «Non c’è niente da vedere.»

Lui rannicchiò il capo fra le spalle, tornò a infilarsi nella sua camera e chiuse la porta.

Per scendere le scale, Valentina raccolse di nuovo la gonna con entrambe le mani, per non sentirla incollarsi alle ginocchia a ogni passo. Sorpassò Angelo che stava ancora brontolando dopo aver gettato un paio di stracci asciutti sul pavimento bagnato, e sbuffò da sotto i capelli tornati a scivolarle davanti agli occhi, soffiando sulla cupa nuvoletta di quell’umiliazione. E intanto già cominciò a convincersi che non le importava, che comunque non era tutta quella gran perdita, che sarebbe stata bene anche senza Bruno, come stava benissimo prima che lui arrivasse in paese, prima che lui le scombussolasse la vita.

Ma il suo cuore era di tutt’altra opinione. Triste e singhiozzante, ancora volto verso la cima delle scale, verso la fine del corridoio, verso la camera dentro cui Bruno si era rinchiuso. Era triste e addolorato perché aveva perso un amico, per di più così all’improvviso, senza nemmeno aver capito il perché.

Fu destabilizzante. Era come se il vento le avesse strappato il cappotto di dosso nel bel mezzo di una bufera invernale, lasciandola spoglia e infreddolita, o come se una mano dispettosa fosse scesa a rubarle il cono gelato da davanti il naso proprio prima di una leccata. Freddo sulla pelle, amaro in bocca, un doloroso e insanabile buco in mezzo al petto.

Valentina continuò a rosicchiarsi il labbro che ormai cominciava a sapere di sangue, succhiò indietro fiato e lacrime, ingoiò un bruciore che sentì pizzicare sulle guance e agli angoli degli occhi, e contrasse le pieghe del viso per indossare quella sua espressione da: va tutto bene, non è una tragedia, posso farcela, lo supererò come ho sempre superato mille altre delusioni come questa.

Dopotutto non era la prima volta che veniva scaricata da un ragazzo. Com’era la vecchia regola? Una notte di pianto, un gelato di consolazione, e l’indomani si sarebbe svegliata con un sorriso più abbagliante del sole, rinata.

Ma sì, in fondo chi ha bisogno di lui?

Uscì dall’osteria che addirittura sorrideva, nonostante le labbra ancora serrate fra i denti tremanti e nonostante gli occhi rossi ridotti a due gonfi lucciconi.

Anzi, stavolta sarà ancora più facile delle altre.

Un ghigno di conforto e di autocompiacimento la aiutò a raddrizzare la testa, ad allargare le spalle, e a respirare a pieno petto.

Scommetto che entro stasera mi sarò già dimenticata che al mondo esiste un individuo di nome Bruno Scorfano.

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Capitolo 15
*** Lauretta mia – Atto V ***


Lauretta mia – Atto V

 

 

Valentina si prese la faccia fra le mani, rovesciò la testa all’indietro e ululò un latrato di sofferenza che si innalzò oltre le terrazze e i tetti delle case, spalancandosi contro il cielo arrossato dal tramonto e facendo volar via uno stormo di gabbiani. Straziata dalla morsa di disperazione che le stava stritolando il cuore come un cappio, sprigionò una bruciante raffica di singhiozzi. Strizzò le palpebre da cui straripò uno scoppio di lacrime zampillanti che le si rovesciarono fra le dita, sulle guance, e che gocciolarono fino alla bocca, aggiungendo sale al sapore del gelato al pistacchio di cui si era abbuffata dal momento in cui aveva fatto ritorno in piazza.

«E…» Un singulto mozzò il fiato di Valentina, ricacciò indietro la voce che suonò più stridula. «E poi…» Un altro singhiozzo. «E poi lui ha d-detto…» Ai singhiozzi si sostituì il rimbalzare di un rauco tossito che le devastò la pancia e il petto. Valentina scansò la coppa di gelato vuota, l’ultima che aveva spazzolato con poche cucchiaiate, e accettò il fazzoletto dalla mano di Massimo che le sedeva affianco, allo stesso tavolino, lui assieme a Sara. Si tamponò le palpebre rosse e gonfie, si asciugò le guance che tornarono disgraziatamente a bagnarsi, inondate da quella cascata di lacrime senza fine. «E poi mi ha de-detto che io devo c-crescere e imparare a…» Risucchiò un singhiozzo dal naso. «A comportarmi come una persona s-s-seria pe-perché…» Le giunse in soccorso un altro fazzoletto asciutto, questa volta dalla mano di Sara. «Perché lui non farà alcuno sfor – sigh! – zo a starsene senza di me.» Valentina strofinò il fazzoletto sotto gli occhi, lo rese subito zuppo. «E che…» Grasse e bollenti lacrime le annacquarono la vista, sfumarono l’immagine rossiccia della piazza inondata dalle prime luci del tramonto, distorsero le figure dei passanti che si sforzavano di non fissare troppo quel suo spettacolo pietoso, e fecero luccicare il continuo rovesciarsi dell’acqua della fontana ancora circondata dalle chiazze scure gocciolate dagli abiti di Valentina dopo la sua emersione dalla vasca.

Fu facile per Valentina ritornare sulle immagini dell’incidente, sulla corsa con cui aveva inseguito Bruno fino al Gabbiano d’Argento, e sull’istante in cui Bruno le aveva chiuso la porta in faccia. Il suo cuore soffocò per la disperazione, per il senso di solitudine e di disfatta che l’aveva pugnalata quando si era ritrovata a fare marcia indietro lungo il freddo e buio corridoio dell’osteria. «E mi ha anche detto che lui non mi deve nessuna spiegazione di quello che è successooo.» Ricominciò a piangere tuffando la faccia contro le braccia che aveva incrociato sul tavolo. Un suo gomito urtò le coppe di gelato vuote, fece cadere un cucchiaino sporco che rimbalzò sul tavolo facendo franare la montagna di fazzoletti umidi di lacrime che si erano ammucchiati singhiozzo dopo singhiozzo.

Sara e Massimo, seduti ai due fianchi di Valentina, si scambiarono un’occhiata avvilita e demoralizzata. Sara si strinse nelle spalle, e per la prima volta anche lei sembrò impotente davanti alla disperazione della migliore amica. Nemmeno i suoi abbracci erano stati in grado di calmarla e di placare quel pianto inconsolabile.

Fu a Massimo che toccò il compito di rimanere integro, la roccia del trio. Posò la mano sulla schiena di Valentina – la larga mano che copriva l’intera ampiezza delle sue spalle – e la carezzò per placarne i tremori, i singhiozzi che non smettevano di scuoterla. «Su, su, non piangere così.» Le rimase vicino con le sue premure e con tutto l’affetto che aveva da darle. «Vedrai che si sistemerà tutto.»

Ancora con il viso infilato fra le braccia incrociate, Valentina scosse la testa. «Questa volta no.» Tirò su una faccia da paura. Gli occhi grandi e verdi che annegavano nel mare di pianto, le guance umide color ciliegia, le labbra gonfie e rabbrividite dal respiro appesantito. Si scollò una ciocca di capelli dalla bocca, diede un’altra asciugata al gocciolare delle lacrime, e gettò il fazzoletto appallottolato in una delle coppe sporcate dagli avanzi di tutto quel gelato di cui si era abbuffata fino a congelarsi la lingua e a farsi venire il mal di testa. «Questa volta non è come le altre.» Tirò su col naso. «Questa volta…» Reclinò una delle coppe dentro cui era avanzato un fondo di gelato sciolto, leccò gli ultimi rimasugli dal dorso del cucchiaino. «Questa volta non sto piangendo per un capriccio o per frustrazione. Questa volta sto…» Lanciò il cucchiaino dentro la coppa vuota – cleng! –, e quello squillo così miserabile suonò proprio come l’emblema di una sconfitta che aveva toccato ogni fronte. Realizzando di essere pure a secco di gelato, la disperazione di Valentina raggiunse il culmine, suscitò in lei un lamento straziato che le graffiò la gola e che bruciò agli angoli degli occhi di nuovo caldi e appannati. «Questa volta sto male sul seriooo.» Tornò a cadere di faccia sulle braccia incrociate. I capelli rovesciati sulle guance assorbirono l’eco di ogni suo vagito.

Sara scansò il mucchio franato di fazzoletti umidi, sbirciò dentro a due delle coppe di gelato rischiando di farne cadere una terza giù dal tavolo, e arricciò il naso in una smorfia. «Tina» le fece. «Si può sapere quanti gelati hai mangiato, oggi?»

Valentina si strofinò il naso con il dorso della mano e stropicciò le nocche contro gli occhi. «Non ancora abbastanza.» Si girò verso la porta della latteria che aveva appena sentito aprirsi con il solito scampanellio. Chiamò il commesso e si fece preparare un’altra coppa di gelato al pistacchio. Quando arrivò, Valentina ingollò subito un’avida cucchiaiata che aveva il sapore di lacrime, di sconfitta e di delusione. «Questa volta nemmeno tutti i gelati al pistacchio del mondo riusciranno a consolarmi e a farmi dimenticare una tragedia simile.» Affondò di nuovo il cucchiaino, succhiò un altro dolce boccone, passandolo da una guancia all’altra, e si accorse di qualcosa di triste e di terribile.

Il gelato al pistacchio non aveva più lo stesso sapore di un tempo. Non le trasmetteva alcuna gioia, non la consolava, non saziava il vuoto che le martellava nella pancia e che piangeva nel suo cuore. Al contrario, il sapore del gelato al pistacchio spalancò un’altra finestra di ricordi appartenenti a quello stesso pomeriggio, a quando Valentina si trovava seduta in quella stessa piazza, a quando la luce del tramonto non era ancora così bassa e rossa, e a quando il fresco che saliva dalla fontana non era così fitto e umido, acidulo come acqua di grondaia.

Il sapore del gelato al pistacchio le si squagliò fra le guance e la riportò al momento in cui il cono che le gocciolava fra le dita aveva meravigliato Bruno, Hai davvero un appetito formidabile”, quando lui ancora le sorrideva, le parlava, rideva con lei, e la guardava con tutto quel trasporto, affascinato da ogni usa parola, dall’assurda vivacità dei suoi discorsi. La riportò a quando Valentina ancora credeva di poter nutrire una speranza con lui. Anzi, a quando ancora credeva di essergli amica.

Forse è proprio per questo che sto soffrendo tanto, rispetto alle volte in cui sono stata scaricata dagli altri ragazzi.

Le altre volte in cui le era capitato di subire un dolore come quello, infatti, tutto ciò che Valentina aveva perso era stata una relazione superficiale basata su chiacchiere inutili che cadevano nel vuoto come sassi gettati in un pozzo. Sguardi troppo impacciati per incontrarsi e cuori troppo distanti per comprendersi. Perdendo Bruno, non aveva perso uno spasimante qualunque. Aveva perso un amico. Esisteva forse dolore peggiore al mondo?

«Oh no.» Fra lacrime e singhiozzi, nell’animo di Valentina sorse il gelo di un timore ancor più spaventoso. «Aspettate.» Sollevò il cucchiaino. Una goccia di gelato al pistacchio colò, cadde sull’orlo della coppa, rigò il vetro fino ad arrivare alla base del gambo, scivolando come una delle sue lacrime. Valentina rabbrividì. «E se da adesso in poi non riuscirò mai più a mangiare il gelato al pistacchio perché il suo sapore mi farà sempre tornare in mente la catastrofe di oggi?»

Sara alzò gli occhi al cielo, si fece scivolare sul gomito e fece sprofondare una mano fra i capelli. Sospirò. «Tina…»

«Va bene il tuffo nella fontana…» Valentina succhiò la cucchiaiata di gelato, prima che potesse sciogliersi. Non voleva andasse sprecata, per quanto amara fosse. «E va bene anche la più totale umiliazione subita davanti a mezzo paese. Ma il gelato al pistacchio…» Una violenta vampata di rabbia pulsò dai battiti del suo cuore e salì a infuocarle le guance, a martellarle le tempie, a tingerle la vista di rosso com’era successo quando si era vista chiudere in faccia la porta da Bruno, quando poi, in preda all’ira, aveva picchiato una pedata sul legno. «Questa proprio non gliela perdono.» Raschiò il fondo della coppa di gelato, boccone dopo boccone, singhiozzo dopo singhiozzo, fino a che il sale delle sue lacrime non si mescolò con la dolcezza della granella di pistacchio.

Il Signor Moretti del bar lì affianco scansò la tenda d’ingresso e uscì a sbatacchiare una tovaglia a quadri. Rigirò il panno fra le mani, piegandolo più e più volte, e intanto si chinò a bisbigliare qualcosa a uno dei pescatori a cui poco prima aveva servito il caffè. Gli sguardi di entrambi svolazzarono su Valentina, le loro orecchie si tesero per catturare i suoi singhiozzi, le rughe dei loro volti si raggrinzirono, accigliandosi per decifrare quel che le stava accadendo attorno. Erano gli stessi sguardi pieni di domande e perplessità che Valentina si era sentita rivolgere quando era sgusciata fuori dall’osteria, sconfitta e gocciolante, quando Sara e Massimo erano corsi da lei poco prima che scoppiasse in lacrime, zampillando proprio come la fontana che l’aveva ridotta in quello stato. Erano stati Sara e Massimo che poi l’avevano accompagnata ad asciugarsi e a cambiarsi d’abito. Ora Valentina indossava uno dei vecchi vestiti di Sara che le andava un po’ largo sui fianchi. Casa di Sara era più vicina alla piazza, e Valentina aveva preferito evitare di allarmare i suoi genitori presentandosi da loro conciata in quello stato pietoso. Chissà cos’avrebbero pensato di lei. Chissà cos’avrebbero pensato di Bruno.

Di nuovo asciutta, occhi e guance a parte, Valentina si era fatta riaccompagnare in piazza, dandosi così il tempo di calmarsi prima di rincasare. Aveva tanto insistito per consolarsi con dell’altro gelato, e così eccola lì, a disperarsi su quell’abbuffata mentre il popolino della piazza si muoveva attorno a lei, qualcuno chiudendo le serrande della bottega, qualcuno apparecchiando i tavolini per gli aperitivi della sera, qualcuno incamminandosi verso la salita del monte, ma tutti passandosi di orecchia in orecchia il pettegolezzo di quel che era capitato davanti alla fontana.

Quelle occhiate così pungenti e quei bisbigli così sottili e fastidiosi le piovigginarono addosso, più freddi e sgradevoli dell’acqua di fontana che l’aveva annaffiata dopo esserci caduta dentro. Valentina piegò la testa, arruffò davanti agli occhi qualche ciocca di capelli ancora umidiccia, e aprì una mano per nascondersi e per continuare a mangiare il suo gelato a bocconi sempre più piccoli.

Massimo scivolò più in avanti sulla sua seggiola, facendola scricchiolare. Strofinò un’altra carezza sulla schiena di Valentina, consolandola come quando da piccoli inciampavano correndo per strada, o quando cadevano dai rami degli alberi, o quando sbattevano la testa sugli scogli durante una nuotata. La protesse sotto la sua ombra, respingendo quelle occhiate così fitte e sfacciate che su di lui rimbalzavano come gomma sull’acciaio. «Non sentirti troppo triste.» La sua mano si distese, ampia e salda, e le coprì l’intera ampiezza delle spalle. «Adesso sembra una tragedia, lo so, ma vedrai… ci sono tanti altri pesci nel mare.»

Sara socchiuse una palpebra, gli scoccò quella che avrebbe dovuto essere un’occhiata di rimprovero, ma si tradì con un mezzo sorrisino tremolato all’angolo della bocca.

Valentina tirò su col naso. Pensò: che battuta prevedibile da parte sua. Ma allo stesso tempo fu grata di quel tentativo, di quella magra consolazione. «Sì.» Si diede un’altra asciugata a una riga di lacrime colata fino al mento. «Lo so.» Non era nemmeno la prima volta che si sentiva rivolgere quelle stesse parole. Eppure, solo adesso le suonava come una frase così crudele e azzeccata. Questa volta, sentiva di essersi lasciata sfuggire l’unico pesce su cui valeva la pena gettare qualche rete in più e stringere forte la presa attorno alle cime di corda pur di non farselo scappare, anche a costo di scorticarti le mani, pur di non vederlo scomparire nell’infinito blu del mare aperto. «Eppure…» Gli occhi si appannarono, ricominciarono a scottare e ad annacquarsi. Un nodo di dolore e di tristezza a spingere sul petto, a toglierle il fiato dalla gola. «Eppure ci tenevo così tanto. Questa volta…» Accettò un altro fazzoletto asciutto dalla mano di Sara. «Questa volta ero davvero sicura che quello che provavo per Bruno non fosse un capriccio dei miei, o una di quelle cotte che mi vengono di solito e che passano dopo una settimana.» Tamponò il viso di nuovo fradicio, accaldato e appiccicoso. «Questa volta credevo davvero che con Bruno ci fosse qualcosa di più rispetto a quello che ho sempre provato con i ragazzi con cui sono stata finora.» Si soffiò il naso. Una nuova irrefrenabile raffica di singhiozzi tornò a bruciarle la gola e a sconquassarle il petto e la pancia.

Ci fu un nuovo scambio di sguardi fra Sara e Massimo. Sguardi più comprensivi, questa volta. Sinceramente toccati. Sara e Massimo conoscevano Valentina. Conoscevano la voce dei suoi capricci e riconoscevano gli spasmi del suo dolore. Seppero entrambi che la sua sofferenza era genuina.

«Ma perché dovrebbe aver smesso di significare qualcosa, Tina?» Sara accostò la seggiola, si fece spazio fra i mucchi di fazzoletti appallottolati e allontanò qualche coppa di gelato vuota dentro cui tintinnarono i cucchiaini sporchi. «Perché dovresti aver perso la sua amicizia o… o quel qualcosa che stava nascendo fra voi due?»

Un altro singhiozzo scosse le spalle di Valentina. «Ma te l’ho detto.» Lei rigirò il fazzoletto e si strofinò il naso con l’unico angolino rimasto asciutto. «Te l’ho detto che si è recluso in camera e che si rifiuta di parlarmi.»

«Questo perché ti sei agitata troppo, e forse lui…»

«Io?» strillò Valentina, paonazza e indignata. «Io mi sarei agitata troppo?» Due braccianti che stavano trasportando una scala verso i ruderi della chiesetta si voltarono verso quel gridolino così acuto e improvviso. «È lui quello che di punto in bianco si è fatto prendere dal panico senza nemmeno spiegarmi cosa l’abbia fatto agitare in quel modo.» Valentina sbatacchiò l’indice in direzione dell’osteria. «Scappa così all’improvviso, si rintana in camera rifiutandosi di spiegare, e poi anche osa insinuare che sono io quella che prendo le cose poco sul serio!»

A Sara sfuggì un’inevitabile ridacchiata che lei nascose dietro la mano. «Un po’ è vero che tendi a prendere le cose poco sul serio, Tina, lasciatelo dire.»

Valentina sgranò gli occhi da cui si staccò qualche gocciolone di pianto. «Cioè, tu…» Soffiò un ansimo triste e scandalizzato. Le palpebre arrossate si gonfiarono, trattennero il peso delle lacrime che ballonzolarono fra le ciglia luccicanti. «Tu gli stai dando ragione?»

«No.» Sara le sfiorò un polso. Lo sguardo fermo e paziente. «Sto solo dicendo che forse la cosa migliore per entrambi sarebbe…»

Valentina si prese la faccia fra le mani e ululò un altro latrato di disperazione. Lacrime zampillarono fra le dita e piovvero sul tavolino sporcato dalle chiazze di gelato al pistacchio. «Pure la mia migliore amica mi abbandonaaa.» Si gettò su Massimo, si fece circondare e sostenere dalla forza del suo braccio, e gli inondò il petto di lacrime.

«No!» Sara tentò un nuovo approccio. «No, io sto solo dicendo che fra voi due potrebbe esserci stato solo un grosso malinteso, e che quindi la situazione non è irrisolvibile come ti può sembrare adesso.»

Valentina strizzò le dita sulla maglia di Massimo, soffocò gli ultimi singhiozzi contro il suo petto, il suo scoglio più sicuro, e si fece consolare con qualche altra carezza strofinata fra le spalle. «E perché adesso mi stai incoraggiando?» Si girò a sbirciare in direzione di Sara. Una minuscola scintilla di speranza, o forse di sfida, luccicò nel suo sguardo infradiciato dalle lacrime che si rifiutavano di cessare di scorrere. «Credevo che anche tu sospettassi qualcosa di losco riguardo Bruno.»

Sara sospirò. Arricciò le labbra come quando si impensieriva su un dilemma. «Però eri sempre così felice e sorridente quando stavi con lui, le volte in cui vi incontravate all’osteria. Si capiva che ti sentivi a tuo agio assieme a Bruno. E che eri felice di averlo come amico.»

Valentina tirò su col naso, si stropicciò gli occhi brucianti e appannati. «Anche con gli altri ragazzi sorridevo sempre.»

Ma Sara scosse la testa. «È diverso» rispose. «Chiunque se ne accorgerebbe. Perché quando uscivi con gli altri ragazzi…» Si grattò dietro l’orecchio, guardò verso la fronte come in cerca di chissà quale immagine o rivelazione. «Non so, era come se stessi sempre cercando di dimostrare qualcosa a qualcuno. No, ecco, ecco.» Schioccò le dita. «Era come vederti andare in giro con un paio di scarpe scomode o con il tacco troppo alto solo perché stavi cercando di dimostrare di essere in grado di camminarci. Con Bruno non ti comportavi in maniera diversa dal solito, sembravi sempre te stessa.»

Massimo annuì, assecondò quella metafora. «Come vederti correre scalza.»

Valentina socchiuse le labbra, raccolse un sospiro tiepido che sgonfiò un po’ di quel dolore che le pesava sul petto. Oh. «Da…» Spostò quello sguardo timido ma speranzoso da Massimo a Sara. «Davvero?»

Sara annuì di rimando. «Perché dovrei ostacolare qualcosa che ti rende felice? Che razza di amica sarei?»

Valentina non si diede tempo di rallegrarsi davanti a quella confessione e a quelle parole di sostegno – se era Sara ad essersene accorta allora significava che era vero per forza, dato che il suo intuito non falliva mai –, perché la consapevolezza di aver perduto un legame tanto prezioso la fece di nuovo annegare in una risacca di lacrime e singhiozzi. «Tanto…» Ricacciò uno spasmo in fondo al petto, sentendo tornar su il sapore del gelato. «Tanto ormai è inutile pensare a questo, perché lui ha già deciso che non mi rivolgerà mai più la parola.» Stando aggrappata al petto di Massimo, lo chiamò tirandogli un paio di volte la manica. «Massimo…» Si arrampicò con le mani fino alle sue spalle. Il viso di Massimo si specchiò nei suoi occhioni larghi, bagnati e supplichevoli. «Massimo, tu sei un ragazzo. Tu cosa faresti se ti dovesse succedere un guaio così con una ragazza? Primo o poi la rabbia ti passerebbe, vero? Non le smetteresti di parlare per il resto dei tuoi giorni, no?»

Massimo, dopo aver ricevuto un’occhiata complice da parte di Sara, una guizzante alzata di sopracciglia, ci pensò su. «Forse…» Di nuovo fece da sostegno a Valentina aprendole la mano sulla schiena. «Forse potresti spiegargli che non sei arrabbiata con lui. E così anche Bruno non avrebbe paura di dirti cosa…»

«Ma io sono arrabbiata con lui.»

Sara scosse la testa. «Tina, ascolta.» Fece come Massimo. Le posò una mano sulla spalla. «Massimo forse sta solo cercando di spiegarti che se tu e Bruno vi parlaste con più calma allora tu potresti fargli capire che non deve avere paura di un tuo giudizio, e che tu saresti disposta ad ascoltarlo e ad accettare qualunque cosa lui abbia da…»

«No.» Valentina strizzò i pugni, rossa e paonazza di pianto. Gli occhi umidi e furiosi, ancora gocciolanti, e un ringhio ad accartocciarle la bocca sporca di gelato al pistacchio. Per la prima volta s’impuntò senza possibilità di resa. «No, questa volta no. Niente spiegazioni e niente salti mortali.» Diede un taglio netto all’aria. «Ne ho abbastanza di correre dietro ai ragazzi come se per me non esistesse nessun’altra ragione di vita, e ne ho abbastanza di comportarmi come se non potessi fare a meno di loro a qualunque costo.»

Dall’oscura nebbia che era scesa a sporcare i ricordi di quel pomeriggio, emersero gli occhi scuri e spietati di Bruno, quell’ultimo sguardo che le aveva rivolto dalla soglia della sua camera, quando Valentina aveva sentito il fuoco della sua rabbia bruciarle addosso come freddissima acqua di mare. Taglienti sferzate di vento che schiaffeggiano le onde di un oceano in tempesta. “E allora vedi di cominciare a crescere e a comportarti come una persona seria.”

Un sordo tonfo di dolore precipitò in fondo al suo cuore. Valentina ne ignorò il rimbombo. Fronteggiò quel ricordo a muso duro. «Bruno vuole vedere una Tina più matura e consapevole di sé?» Si batté una mano sul petto. «Bene, e allora una Tina più matura e consapevole di sé è proprio quello che avrà. Una Tina che non ha alcun bisogno di lui e che non sentirà affatto la sua mancanza.»

Di nuovo un’occhiata sbieca e consapevole, nemmeno troppo sorpresa, volò fra Sara e Massimo.

Sara abbassò le palpebre, sospirò a lungo. «Odio dovertelo dire» confessò, «ma ti stai comportando esattamente come se anche adesso stessi cercando di riconquistartelo. Non sei molto coerente.»

«Ma non sarò io a riconquistarlo.» Valentina si asciugò le ultime lacrime strusciando il dorso della mano sul calore umidiccio delle guance. Scosse la testa. «Questa volta non sarò io a farmi avanti per la prima mossa. Se davvero per Bruno conto qualcosa, allora dovrà essere lui quello a riavvicinarsi e a degnarmi di una spiegazione.»

«Uhm.» Sara si appoggiò sul gomito. Il pugno sotto il mento e una sottile scintilla di furbizia a luccicarle fra le ciglia. «E se non dovesse succedere?»

Valentina strinse i denti, ingoiò il fiotto amaro rigettato dal battito di quella paura. Cercò di essere forte, di farsene una ragione. «Allora pazienza» gorgogliò. «Andrò avanti con la mia vita con o senza di lui. Anche da sola. Non ho bisogno di un ragazzo per sentirmi felice. Dopotutto…» Si aggrappò al braccio di Massimo e gli sorrise, provando l’immediato sollievo di saperlo al suo fianco. «Massimo è l’unico ragazzo che merita di far parte della mia vita.»

Le guance di Sara presero fuoco come i suoi capelli. «Ehi, giù le zampe.» Pure lei si aggrappò al suo ragazzo, fece la linguaccia a Valentina. «Massimo è mio.»

Risero tutti e tre, e grazie a quella risata Valentina riconquistò parte della serenità che temeva di aver perduto. La sua disperazione forse non era inconsolabile come poteva sembrare. Forse l’abbuffata di gelato era servita a qualcosa, dopotutto. Forse fingere di non pensare a Bruno sarebbe stato più facile del previsto.

Ma la verità era un’altra. Il suo cuore singhiozzava di tristezza provando ad allontanarsi dai ricordi preziosi che lei e Bruno avevano condiviso durante quella giornata d’oro. Tutto di Bruno le mancava. I suoi sorrisi rari ma dolci, i suoi occhi misteriosi ma gentili, la spensieratezza delle loro chiacchiere e la gioia delle loro risate, quella scossa calda che l’aveva attraversata quando le loro mani si erano sfiorate, il caldo e appagante senso di stordimento in cui era sprofondata quando si era aggrappata alle sue spalle, e il modo in cui le loro anime si erano quasi toccate.

Valentina nel suo profondo seppe che non sarebbe mai più stata in grado di rinunciare a tutto questo. Perché lei non era forte, non era orgogliosa, e non era nemmeno abbastanza testarda. Era solo stupidamente e irrimediabilmente innamorata.

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Capitolo 16
*** Lauretta mia – Atto VI ***


Lauretta mia – Atto VI

 

 

Il lunedì mattina per Valentina cominciò tragicamente proprio come tragicamente si era conclusa la sua domenica sera.

Svegliata dalla luce filtrata dalle tapparelle che si era per l’ennesima volta dimenticata di abbassare, Valentina mugugnò un latrato sofferente che aveva lo stesso disgustoso sapore del mare di lacrime che si era dovuta ingoiare il giorno prima. Lacrime che solo l’affetto e le premure di Sara e Massimo erano riusciti ad asciugare. Si rigirò nel letto e tirò le coperte fin sopra gli occhi, abbattuta da quella vocina interiore che le intimava di non alzarsi, di tenere la testa ficcata sotto il cuscino, di tornare a chiudere le palpebre e di rifugiarsi nell’abisso dei suoi sogni, dove gli unici ricordi di Bruno erano quelli gioiosi e sorridenti, addolciti dal sapore del gelato al pistacchio e incorniciati dalla musica del giradischi che aveva sempre tenuto loro compagnia durante le tarde serate all’osteria. Non desiderava altro. Rimanere a letto fino a calcificarsi fra le coperte, come un piccolo bozzolo preistorico, e saltare il lavoro fino ai giorni della pensione. Tutto pur di non essere costretta a trascinarsi fino al Gabbiano d’Argento e a fronteggiare il viso di Bruno, affrontando quindi la faccia di quella sconfitta, dell’ennesima perdita, di un altro cerotto da dover appiccicare sul suo cuore ferito.

Eppure un’altra vocina si accostò all’altro orecchio. La incoraggiò facendole sperare che proprio rivedendo Bruno all’alba di un nuovo giorno si sarebbe riaccesa la speranza di tornare sua amica, di vederlo sorridere un’altra volta. E fu proprio quella vocina di cui Valentina decise di fidarsi. Fu quella la vocina che la aiutò a far scivolare i piedi fuori dalle coperte, a vestirsi, a pettinarsi, a montare sulla bicicletta e ad andare al lavoro come tutte le mattine, sperando che fosse Bruno a venirle incontro, che anche lui mal sopportasse quella lontananza che si era spalancata fra di loro.

E aveva sperato male.

Appena arrivata all’osteria, proprio nel momento in cui Angelo stava servendo i primi caffè della mattinata, Valentina scoprì che Bruno era già uscito a lavorare, saltando la colazione e portandosi dietro il pranzo al sacco. Non avrebbe fatto ritorno se non a tarda serata.

E quella giostrina continuò a ripetersi anche nei giorni seguenti. Valentina arrivava, e Bruno aveva già lasciato la sua camera. Lei si slacciava il grembiule, dava la buonanotte, inforcava la bicicletta per la via di casa, e lui faceva ritorno all’osteria.

Cominciò a insinuarsi in Valentina il fastidioso presentimento che Bruno la stesse evitando di proposito, e quella sensazione la avvizzì come un fiorellino appassito, lasciato deperire senza sole e senza acqua.

Vedendo Valentina lavorare priva di entusiasmo, senza neanche una risata a cinguettare dalla sua larga bocca chiacchierona, seguendola con sguardi stupiti mentre strofinava il panno sul bancone tenendo però la testa bassa, fluttuando da un tavolo all’altro gocciolando malumore come una grigia nuvola di pioggia, posando bicchieri di vino e piatti di zuppa di pesce senza nemmeno riuscire a snocciolare un sorriso, persino gli anziani pescatori si accorsero che doveva esserle capitato qualcosa di brutto. Quando provarono a interrogarla a proposito, Valentina rispose in modo brusco ed evasivo, deviando l’argomento. «Sarà il tempo, sarà l’aria viziata, sarà il pesce avariato. Un mostro marino mi ha mangiato la lingua…»

Poi anche alle loro orecchie giunse il pettegolezzo riguardante l’incidente della fontana.

Gli anziani e abituali frequentatori dell’osteria non sembrarono particolarmente turbati dall’accaduto. Molti si seppellirono dietro le pagine dei giornali e finsero di non saperne nulla, altri si limitarono a consolare Valentina con quegli sguardi di chi la sapeva lunga, «Coraggio, coraggio, su col morale, son cose che succedono», altri ancora apparvero persino sollevati. Dopo aver sorseggiato il solito bicchiere di vino di fine giornata, avevano scosso la testa con disappunto e avevano borbottato sotto i baffi qualcosa a proposito di “Moglie e buoi dei Paesi tuoi”. Certi di loro, invece, aspettando che Valentina fosse girata di schiena, si scambiarono qualche gomitata e, coprendosi la bocca, bisbigliarono: «Non dirmi che lei è già…», arrotondando una carezza attorno al ventre.

Valentina per una volta non diede peso alle chiacchiere che si consumavano alle sue spalle. Doveva piuttosto convincersi di avere la testa sgombera dal pensiero di Bruno e dalla speranza di potersi riappacificare con lui. Lavorando ogni giorno al Gabbiano, tuttavia, era difficile distogliere lo sguardo dalle scale che davano alle camere degli ospiti senza nutrire la più minima speranza di vederlo scendere, sedersi a uno dei tavoli, e magari ordinare un piatto di trenette al pesto che ogni sera Valentina sperava di potergli servire.

Nel frattempo, a Portorosso i giorni si susseguivano, indifferenti e ignari del dolore che si stava consumando nel cuore spezzato di una delle anime che lo popolavano.

Si arrivò a giovedì, e con esso giunse l’inaugurazione della Sagra del Basilico. Valentina attese invano di essere pervasa da quella dolce sensazione di aspettativa e trepidazione che provava da piccola, quando le bastava annusare l’aria della piazza, il profumo del mosto, delle focacce al pesto e della frittura di pesce, per capire che fosse finalmente arrivato il momento di indossare il suo abito più fresco e vistoso e di farsi travolgere dal colorato vento della festa.

Quell’anno non successe. Il suo petto non accennò a scaldarsi. Il suo cuore rimase triste, sospirante. Le guance pallide e le labbra smorte, prive di sorriso. Eppure era tutto come al solito, non c’era nulla fuori posto! Le solite musiche strimpellate dall’orchestrina di fisarmoniche, i soliti profumi a evaporare dai chioschi dove si cuocevano le noccioline candite, i soliti colori delle solite bandierine appese da una terrazza all’altra, e le solite risate che accompagnavano lo squillo dei bicchieri da cui il vino zampillava a ogni brindisi.

Forse era tutto troppo come al solito. Forse Valentina sperava in qualcosa di diverso, quell’anno. Forse ci aveva sperato fin troppo.

Si era già immaginata di trascorrere la sagra assieme a Bruno, di fargli assaggiare le patate al rosmarino, le frittelle zuccherate, la focaccia col pesto appena macinato, e la macedonia di frutta sciroppata. Aveva sperato di poter ballare con lui ogni notte, e all’ultima sera di guardare i fuochi d’artificio tenendosi per mano davanti al mare. E magari coronare i festeggiamenti con qualcos’altro. Qualcosa che aveva a che fare con un abbraccio lungo quanto la notte intera, con le loro mani intrecciate, con sguardi brillanti come le stelle appese in cielo, e con le labbra di Bruno posate sulle sue, il suo respiro a soffiarle nel petto, squagliandole il cuore.

Siccome Il Gabbiano d’Argento aveva dato il suo attivo contributo alla sagra, fornendo vino, piatti, posate e tovaglioli, Valentina quella settimana si era offerta di partecipare al doppio turno, ed era stata tanto indaffarata da potersi permettere di far finta di non star pensando a Bruno, nel frattempo.

Giovedì si tenne il consueto raccoglimento da parte di tutto il paese che si era radunato in piazza per assistere alla cerimonia inaugurale capitanata dal discorso del Sindaco Visconti. Valentina approfittò della sua pausa per infilarsi in mezzo alla piccola folla che aveva riempito la piazza, sotto lo sventolio colorato delle bandierine e il dondolio delle luminarie ancora spente. Allontanandosi dal blaterare del Sindaco, sbocconcellando dalle botti riempite dall’uva appena colta, Valentina si alzò sulle punte dei piedi, lagnandosi mentalmente di non poter approfittare della spalla di Massimo come era successo il giorno della ristrutturazione, e si guardò attorno, soppesando ogni volto, ogni sorriso, ogni berretto, in cerca di una figura soltanto. Ma niente Bruno nei paraggi.

Venerdì ci fu l’apertura della lotteria organizzata da Marina Marsigliese, già arrivata alla sua seconda edizione. L’anno precedente, il primo premio era stata una bicicletta da corsa, di quelle professionali, con i cerchioni da montagna e la levetta del cambio incorporata al manubrio, ed era stata vinta dal figlio del macellaio. Quell’anno, la ricompensa era ancora più esclusiva: una piccola barchetta a remi. E in palio c’erano addirittura un paio di quadri dipinti da Sara, più la carne di un pesce spada catturato da Massimo e dai suoi colleghi durante una battuta di pesca al largo.

Valentina tentò la fortuna, «Se non si è fortunati in amore si è fortunati nel gioco», acquistò un biglietto, e ritirò il suo succulento e fortunatissimo premio: una scatolina di fiammiferi grande la metà del suo palmo. Di nuovo niente Bruno all’orizzonte.

Sabato si temette il peggio. All’alba, Portorosso si risvegliò sommersa da una nebbiolina estiva che, scivolando fra le case e sotto i portici, non accennò a dissolversi nemmeno nel primo pomeriggio, inzuppando il paese con l’odore salmastro di mare ingrossato e di cielo basso e nuvoloso, di pioggia in agguato. I raggi del sole di mezzogiorno però trafissero la cappa di nuvole e nebbia, diradarono il maltempo, rispedirono l’odore di burrasca in fondo al mare, e brillarono allegri fino all’ora del tramonto. Un tramonto mozzafiato striato da sfumature color pesca e color pompelmo. Un tramonto che faceva sperare in una domenica calda e soleggiata.

Valentina non ebbe comunque modo di godersi le luci della sera e il profumo del mare al tramonto. Finito il turno di lavoro in osteria, si trattenne più del solito aiutando a riordinare la dispensa. Dopo aver rotto un piatto e fatto cadere due bicchieri – i suoi occhi incollati alla salita delle scale e all’ombra che si incuneava nel corridoio del piano di sopra –, era stato Angelo a spingerla fuori per farla andare a casa prima del buio. E prima che combinasse altri guai. Si raccomandò di fare attenzione, e soprattutto le augurò di divertirsi l’indomani alla sagra, in quello che sarebbe stato l’ultimo giorno di festa. Valentina dubitava che ci sarebbe riuscita. Cominciava a pensare che l’idea migliore per lei sarebbe stata quella di trascorrere a letto l’intera domenica.

E la domenica giunse infine. Era trascorsa una settimana esatta dal fattaccio della fontana e dall’ultima volta in cui Valentina e Bruno si erano rivolti lo sguardo e scambiatosi la parola. Valentina aveva ormai perso ogni speranza di potersi riappacificare con lui. Libera dal lavoro, si fece quindi tentare dall’idea di trascorrere la mattina ad ammuffire nel buio della sua camera, a inzuppare il cuscino di lacrime, per alzarsi solo nel tardo pomeriggio – sì, saltando pure il pranzo! –, sfogandosi magari con qualche riparazione in officina e barricandosi in garage fino all’ora di cena.

Però poi, dopo essere stata consolata e incoraggiata da Sara e Massimo, si lasciò trascinare fino alla sagra, se non altro per assistere allo spettacolo dei fuochi d’artificio e per consolarsi con una lauda cena che le avrebbe scaldato il cuore e riempito lo stomaco. «Mangiare qualcosa di buono ti aiuterà a superare il momento» le assicurò Sara.

Dandole fiducia e mettendosi d’impegno per divertirsi, Valentina si lasciò trascinare cercando di non pensare troppo al fatto che il termine della sagra significava l’avvicinarsi della vendemmia. E che l’arrivo della vendemmia preannunciava la fine dell’estate. E che la fine dell’estate avrebbe segnato la partenza degli stagionali, il momento in cui le camere dell’osteria si sarebbero svuotate, il giorno in cui Portorosso sarebbe tornato a essere un paese grigio, triste e noioso come lo era prima dell’arrivo di Bruno.

 

♡♡♡

 

Valentina tamburellò le dita sulla tovaglia di cerata che rivestiva il lungo tavolone inondato dalla tiepida luce delle fiaccole a olio che dondolavano fra i filari di bandierine colorate appese fra un gazebo e l’altro. Ci avevano appena strofinato una spugna umida, sulla tovaglia se ne vedevano ancora le tracce, ma le dita di Valentina si sporcarono comunque, si appiccicarono agli aloni di vino rosso sgocciolato dai bicchieri da cui avevano bevuto i pescatori che avevano cenato lì prima di loro, sedendosi sulla stessa porzione di panca. E il vino continuava a scorrere dalle brocche, dalle botti e dalle caraffe, schiumava rovesciandosi nei bicchieri, frizzando come un torrente che ruggisce scendendo i versanti di roccia. Un vino scuro e pesto quasi quanto l’espressione che quella sera immusoniva la faccia di Valentina.

Strusciando lungo la panca per far passare un gruppo di persone che stava trasportando un carico di vassoi in mezzo ai tavoli, Valentina si stropicciò la gonna sotto il sedere. Si piegò in avanti, la aggiustò con solo un paio di strattoni, e si rimise a sedere. Grattandosi i polpastrelli appiccicosi, scrostò gli avanzi di briciole di pane che le si erano incollati sotto le unghie. Usò il dorso della mano per spazzolare via dalla tovaglia i granelli di zucchero piovuti dalle frittelle di cui odorava il profumo vanigliato, dato che una cartaccia talmente unta da risultare trasparente era rimasta appallottolata lì nell’angolo, dentro una delle vaschette di cartone dentro cui era avanzato un singolo gamberetto cotto in pastella. Anche quello un avanzo degli ospiti precedenti.

Le arrivò addosso una vampata di fumo nero appena scoppiettato dal chiosco dove stavano grigliando il pesce fresco. La nuvoletta annerì le lanterne, fece imprecare uno dei cuochi che abbassò il fuoco facendo aria con una carta di giornale, galleggiò sopra le teste della piccola coda di persone in attesa di servirsi che intanto si erano allungate a sbirciare i pentoloni roventi.

Valentina tossì e sventolò via quella zaffata che aveva carbonizzato il profumo delle squame spruzzate di aceto e di bagna al limone. Guardò da un’altra parte, oltre la girandola di colori che svolazzava sulla piccola pista da ballo, oltre il luccichio degli strumenti a fiato impugnati dall’orchestrina elevata dal palchetto. Sbuffò, tornò a incrociare le braccia sul tavolo, ad accasciarsi, e a sporcarsi i gomiti su altre chiazze di vino rappreso, sbavature di olio lavato male. Soffocando un grugnito di nervosismo, Valentina scivolò più in là, contro il fianco di Massimo, dove forse il tavolo era più pulito.

Attese invano che la vicinanza con Massimo le infondesse quel dolce e tiepido brivido di sicurezza che l’avrebbe aiutata ad acquietare i battiti del cuore e che le avrebbe rasserenato la luce degli occhi. Non accadde. Al contrario, un viscido prurito di impazienza si impossessò di lei, le solleticò lo stomaco e formicolò attraverso le dita tamburellanti, facendole salire la voglia di mettersi a giocherellare con la collanina, o ad attorcigliarsi i capelli. Ma aveva le mani sporche. Non voleva rischiare di impuzzolentirsi di fritto.

Da sotto la vaschetta di avanzi che era stata lasciata lì, su uno dei vassoi abbandonati, sbucava uno dei volantini su cui era stampato il programma della sagra. Il nome delle orchestre che avrebbero suonato, i piatti tipici che sarebbero stati serviti, le piccole mostre che avrebbero allestito e presentato durante il giorno, tutto. Valentina lo acchiappò, lo arrotolò, lo srotolò, ne stropicciò gli angoli fra le dita sudaticce, e sbuffò ancora una volta facendo dondolare le gambe sotto la panca. Ricominciò a guardarsi attorno, fingendo di andare in cerca di Sara che si era offerta di compiere un giro dei chioschi per comprare qualcosa da mangiare per tutti e tre. Non la vide. Se l’era inghiottita il torrente di persone che continuava a riversarsi sulla piazza, a incrociare il passo sotto le luci, a piegare la testa per non impigliarsi alle bandierine, a schivare gli steli delle lanterne a olio, e ad alzare le braccia per portare i vassoi e i bicchieri sopra la testa, evitando così di urtare qualcuno mentre trasportava la cena verso le panche e i tavoli dove, fra facce estranee e schiene ricurve, si mescolavano voci, risate riecheggianti.

«… l’anno scorso non c’era, sono contenta che abbiamo insistito tanto per…»

«… dicevano che avremmo finito entro settembre, ma secondo me andrà avanti fino alla fine dell’anno. Peccato. Speravo proprio di…»

«Oh! Guarda, guarda, lì c’è il chiosco del pesto! Chissà se hanno la focaccia, quella con il provolone che ti…»

«… forse facevo meglio a mettermi lo scialle addosso. Con tutte ‘ste correnti vedrai che domani mi…»

«Mamma, mamma, le frittelle! Ci sono le frittelle, mamma! Possiamo prendere le frittelle? Quelle con…»

Gli occhi di Valentina, luccicanti di nervosismo e di impazienza, soppesarono la folla, le luci colorate che turbinavano sulla pista da ballo gremita di coppiette – abiti a fiori che sventolavano fra le ginocchia, scarpette di vernice che schioccavano sul cemento, berretti che venivano lanciati in aria, capelli sciolti che ondeggiavano sulle spalline a sbuffo, sorrisi bianchissimi scambiati fra gli sguardi dei danzatori che si seducevano cadendo l’una fra le braccia dell’altro.

L’orchestrina di fiati e fisarmoniche tesseva una diversa scia di musica a ogni brano. Quando si interruppe e le trombe soffiarono il loro ultimo squillo, i ballerini atterrarono dalle piroette e applaudirono gli inchini dei musicisti. «Grazie, grazie.» La larga bocca sorridente del fisarmonicista si accostò al microfono, fece passare un fischio di assestamento, e di nuovo si rivolse a tutto il paese. «Per il prossimo ballo, un pezzo speciale. Dedicato a…»

Due colpi di bacchette e le danze ricominciarono. Sul palco si intrecciarono scambi di coppie. Certi fecero spazio ai gruppetti di bambini che prendendosi per mano si misero a saltellare in cerchio, ballando al ritmo degli applausi e delle risate di chi li circondava. Altri, più piccini, si rincorsero brandendo bastoncini di stelle filanti che frizzavano fra le loro dita.

«La mia brilla di più, la mia brilla di più!»

Vicino ai chioschi delle focacce e della frittura di pesce, una tettoia decorata da reti da pesca e da ghirlande di foglie di vite ombreggiava una bancarella più larga delle altre. Sul bancone erano esposti i cesti impagliati offerti dagli empori del paese. Cesti stracolmi di forme di formaggio, insaccati, vasetti di marmellate e di pesto, bottiglie di vino, caramelle al limone e miele, pacchi di biscotti alle noci. Un muro di premi colorava l’intera parete della bancarella. Premi per la casa, mestoli e padelle per la cucina, servizi di posate e pirofile, vassoi di ceramica, candele fatte a mano, ninnoli di porcellana, cornici d’argento, vasi di fiori, e persino un orologio a cucù.

Padrona di quella caverna di tesori, Marina Marsigliese strillava per attirare l’attenzione sulla lotteria che aveva organizzato anche quell’anno, «… pochi biglietti ancora disponibili! Pochi biglietti disponibili e i premi più grossi ancora in palio! Affrettatevi a…», e che aveva promosso distribuendo volantini in ogni bottega e in ogni bar del paese. Sembrava che quella strategia avesse sortito un certo effetto, considerato il bel mucchietto di persone che si stavano accalcando attorno al chiosco sventolando mazzi di biglietti per ritirare i propri premi.

Un gruppo di ragazzi, fra i quali Valentina riconobbe alcuni dei braccianti che alloggiavano all’osteria, si separarono dalla folla, si infilarono sotto il gazebo e andarono a sedersi sull’altro lato del suo stesso tavolone, poggiando vassoi di piatti e bicchieri rigati dal vino strabordante. La loro panchina dondolò sotto quel peso improvviso. «Ammettilo, una giornata così ci voleva.» Uno di loro cominciò a sgranocchiare i suoi spiedini di calamari. «No, seriamente, quanti giorni di riposo abbiamo avuto da quando siamo qui? Tre?», «Sembra ieri che è cominciata l’estate, però», «Io questo autunno ho pure la vendemmia, e a novembre comincia la stagione al largo», «Portaci tanti pesciolini, mi raccomando», «Ehi, ehi, non fare l’ingordo, e comincia a passare adesso un po’ di pesce.» Fra le risate, infilarono a turno le mani nelle vaschette di frittura di pesce, spezzarono le focacce dalla cui pasta morbida gocciolarono chiazze di pesto e filò il formaggio fresco. «… secondo me sei già andato a scroccarlo in giro», «E avevi anche detto che avresti offerto da bere», «Ma allora ha vinto davvero alla lotteria?», «Sì, la caffettiera nuova», «E dove lo devi fare il caffè?», «Se vuoi te la vendo. Prezzo doppio», «Sempre il solito», «Che culo di…» E continuarono a ridere, a bere, a spassarsela come stavano facendo tutti in paese durante quella domenica sera tanto allegra e tanto speciale. Tutti tranne Valentina.

E il cuore di Valentina si inaridì, dopo aver pulsato speranzoso viaggiando verso quelle voci, quei sorrisi attraverso i quali sperava forse di riconoscere qualcun altro. Valentina tornò a cadere seduta senza nemmeno essersi accorta di essersi sporta in quella maniera, andando in cerca di un volto soltanto in mezzo a quell’accozzaglia di occhi che non erano scuri e profondi come i suoi, di capelli che non erano ricci e folti come i suoi, di profili che non erano alti e magri come il suo.

Delusa, di nuovo accasciata sulle braccia incrociate, contro il fianco di Massimo che non aveva mai cessato di tenerle compagnia, Valentina riprese all’amo quella discussione che fra di loro non si era mai realmente conclusa. «D’accordo, d’accordo, proviamo con un’altra ipotesi…» Alzò lo sguardo su Massimo, e sentì finalmente di star andando incontro a un qualche spiraglio di luce. «Se tu litigassi con Sara e se lei a un certo punto ti gridasse qualcosa del tipo che non vuole più avere niente a che fare con te e che starebbe bene anche da sola, tu le crederesti?»

Massimo sollevò le sopracciglia in quello che forse era un cipiglio di scetticismo o di incomprensione.

Valentina fece mulinare una mano per aria. «Cioè, passata un po’ di rabbia poi sarebbe facile pensare che un discorso così è solo passeggero. Poi però sarebbe facile parlarsi una volta calmate le acque, no? Ecco, ecco…» Schioccò le dita. «È una metafora di pesca.» Questa fu sicurissima di averla azzeccata. «Tu le metafore sulla pesca dovresti capirle. È più facile andare a pesca quando l’acqua è calma e limpida, vero? È più facile capire dove sono i pesci.»

Massimo socchiuse le palpebre, distese le labbra in un piccolo sospiro contemplativo. «Uhm.» Fece ondeggiare il bicchiere di chinotto che stava sorseggiando in attesa che arrivasse da mangiare. «In realtà non è sempre così.» Bevve un sorso. «Certe volte i banchi salgono verso la superficie proprio durante le burrasche, quando le onde si ingrossano.»

Una macchia d’ombra appannò gli occhi di Valentina, «Ooh», che tornarono subito a intristirsi, a farsi mogi come quelli di un cane che aspetta invano sulla soglia di casa.

«Ma i ragazzi non sono pesci, Tina» la rassicurò Massimo. «E di solito non proviamo mai rancore troppo a lungo. Per noi è molto più facile scusarsi per un torto, piuttosto che rassegnarsi a soffrire la solitudine.»

Valentina strinse le spalle, non seppe se credergli o meno. «Ma se tipo si trattasse di dover serbare un pochino di rancore…» Dopo essersi strofinata le mani prima sulle braccia e poi sulle pieghe della gonna, cedette alla tentazione delle cattive abitudini e si mise a giochicchiare con la collanina. «Allora quanto durerebbe? Un giorno? Una settimana? E sarebbe peggio se fossi io quella a lasciar passare ancora del tempo? Oh, del tipo…» Sollevò l’indice. «Se tu litigassi con Sara preferiresti che fosse lei a fare il primo passo per ricongiungersi o preferiresti essere tu il primo ad andare da lei?»

«Ecco…»

«Perché ci ho pensato» insistette Valentina, «e secondo me a un certo punto è anche una questione di galanteria, credo. Se lascio che sia Bruno a venire da me, allora è come se gli stessi offrendo la possibilità di compiere un gesto galante, ma se io continuo a ignorarlo troppo a lungo allora forse lui penserà che non mi importa più niente di noi e lascerà perdere.»

Massimo le sorrise da dietro l’orlo del bicchiere. «E invece a te importa di lui?»

«Certo!» squittì Valentina. «Io…» Si coprì le labbra sentendo le guance scottare per l’imbarazzo di quella contraddizione. Per la facilità con cui quella risposta le era sfuggita dalla bocca senza che lei fosse stata in grado di controllarla. «Oh.» E meno male che avevo promesso che non avrei mai più ripensato a lui.

Massimo arruffò i baffi in una risata bassa ma limpida. «Pensavo che la tua intenzione fosse quella di non concedergli più neanche una possibilità.»

Valentina fece scivolare le mani dalle labbra e si arrese a un sospiro sconsolato. Le sue guance non erano più rosse. «Quello l’ho detto quando ero arrabbiata.»

«E adesso non sei più arrabbiata?»

«No.» Purtroppo. «Sono solo…» Valentina arricciò il filo della collana attorno all’indice. Strofinò l’unghia sul rilievo della chiavetta. «Un po’ avvilita. E infastidita.»

«Forse dovresti dirglielo, allora» le suggerì Massimo. «Secondo me lo apprezzerebbe.»

«Ma così farei la figura della disperata.»

«Affatto. Ti comporteresti da vera amica.»

«Oh?» Nel dubbio, Valentina gli rivolse un’occhiata attraverso cui brillò una punta di curiosità.

Massimo posò il bicchiere, si asciugò i baffi passandovi una nocca sopra. Non sorrideva più, però. Il suo sguardo era assorto, volto oltre il tavolo, oltre la marmaglia di gente che camminava loro attorno, oltre le luci che delineavano i profili scuri delle bancarelle e dei gazebo contro il cielo di quella notte sempre più blu. Sembrava che, attraverso quello sguardo, Massimo stesse scavando dentro pensieri che da tempo dimoravano nel profondo del suo cuore. «Bruno è un ragazzo molto taciturno. Non sembra aver legato con molta gente da quando è arrivato a Portorosso, nemmeno con gli stagionali come lui. Deve essere dura ritrovarsi così all’improvviso senza più nessuno con cui parlare o con cui tenersi compagnia.» Rivolse a Valentina uno sguardo amorevole. «Senza più qualcuno che lo faccia sentire benvoluto. Secondo me anche lui soffre molto la vostra separazione.»

Ripensando al giorno della rottura, a quando aveva visto Bruno rintanarsi nella solitudine e nel buio della sua camera, Valentina considerò che: è vero. A questo non avevo proprio pensato.

Per Valentina era stato diverso. Lei aveva sempre potuto contare sul sostegno dei suoi amici. Aveva sfogato tutte le sue lacrime piangendo sul petto di Massimo, consolata dalle sue carezze forti e affettuose, e aveva placato i singhiozzi rincuorata dai consigli e dagli incoraggiamenti di Sara. Nonostante la tristezza, non si era mai sentita sola nel suo dolore.

Io almeno ho Sara e Massimo che mi consolano. So che loro non mi abbandoneranno mai, e infatti mi sono sempre stati vicini quando piangevo e mi disperavo. Ma Bruno? Per lui deve essere molto più difficile consolarsi, se è sempre da solo.

Nel lampo di quel pensiero le tornò alla mente il suo profilo solitario, seduto sempre nel cantuccio più isolato e ombreggiato della sala da pranzo, con lo sguardo rivolto fuori dalla finestra, circondato da quella perpetua e oscura malinconia che velava i suoi occhi di una luce polverosa, triste e distante.

E io non l’ho nemmeno considerato. Ho pensato solo al mio, di dolore, ignorando completamente i suoi sentimenti. Che egoista che sono.

«Si meriterebbe un’amica migliore di me, questo è certo.»

Massimo scosse la testa, rispose senza incertezza. «Ogni ragazzo del mondo sarebbe fortunato ad avere un’amica come te, Tina.»

Le guance di Valentina avvamparono di emozione. Il suo cuore si gonfiò di amore e di dolcezza, batté caldo sciogliendo tutto il peso che in quella tragica settimana le era gravato sul petto. «Ooh.» Ritrovando un po’ della pace perduta, Valentina circondò Massimo con un abbraccio che comunque non riuscì a chiudere attorno alla stazza delle sue spalle. «Ma tu e Sara siete gli unici amici che voglio tenermi stretta per tutta la vita.»

Pure Massimo le avvolse il braccio attorno alle spalle e la tenne stretta. La sua mano così grande e solida la sostenne e la strofinò fra le scapole, infondendole quella sensazione di protezione e di serenità che solo lui era in grado di trasmettere.

Valentina gli posò la guancia sul petto. Inspirò il suo profumo che quel giorno era un po’ diverso, più fresco e muschiato, ma che rimaneva lo stesso che era solito circondarla quando si abbracciavano da bambini. «Tu rimarrai mio amico, Massimo?» Come se avesse avuto bisogno di chiederglielo… «Anche se litigheremo, faremo sempre la pace, vero?»

Massimo le rispose con quei suoi occhi così miti e gentili. «Sempre.» Le strofinò una carezza sulla testa, stando però attento a non sciuparle il nastrino. «Si aggiusterà tutto, vedrai. A prescindere da come andranno le cose con Bruno o con qualsiasi altro ragazzo, io e Sara ci saremo per sempre.»

Un bagliore di luce rossa, simile al dondolio vibrante di una fiamma, si spostò in mezzo alle persone che si scambiavano continuamente i posti a sedere sulle panche. Si fece spazio infilandosi fra le spalle di chi era rimasto in piedi, sollevò le braccia per non urtare qualcuno con i vassoi stracolmi che reggeva fra le mani, e raggiunse il loro tavolo. Una breve esitazione le strappò dal petto un finto ansito scandalizzato. «Un abbraccio senza di me?» Corrugando la fronte ma tradendo quel broncio con un sorriso, Sara fece tamburellare un piede a terra. «Lo devo considerare un tradimento?»

Valentina sbirciò verso i vassoi coronati da un velo di condensa tiepida. Arricciò il naso, solleticata dal profumo di pesce in pastella, di succo di limone, di focaccia al pesto e formaggio fuso. Batté le mani, «Evviva, si mangia!», contenta come una bimba che spalanca gli occhioni davanti a un tavolo imbandito per il Cenone di Natale. Quando Sara appoggiò i vassoi, la mano di Valentina fu la prima ad allungarsi verso il tepore aleggiato dalle vaschette e dai piatti. Per primo scelse uno spiedino di calamari fritti. «Ma dov’eri sparita?» Addentò un morso. Si fece aria alla bocca perché il boccone scottava. «Ci hai messo un’eternità.»

Sara passò a Massimo le focacce al pesto e si servì anche lei dallo stesso piatto. «Qualcuno ha vinto uno dei miei quadri alla lotteria.» Smangiucchiò il suo boccone, raccolse con l’indice uno schizzo di pesto che le era sfuggito dall’angolo della bocca e si succhiò il dito. «Solo fortuna, chiaramente. Era una lotteria.» Le sue labbra, su cui l’indice era ancora posato, si flessero in un sorriso ammaliato. «Ma il quadro gli è piaciuto talmente tanto che ha chiesto se il pittore era di qua, e io ero proprio nel chiosco vicino a fare la fila per la focaccia. Mi hanno chiamata e lui ha voluto fare quattro chiacchiere, mi ha chiesto se avevo con me altri lavori da potergli mostrare. Un tipo proprio buffo, di Levanto, vestito in giacca e cravatta. Vestirsi in giacca e cravatta per una sagra di paese, ci credete?»

Massimo versò dell’altro chinotto nei loro tre bicchieri. «Forse è un critico d’arte.» Sorrise alla fortuna di Sara. «Forse sei appena entrata nelle sue grazie senza nemmeno saperlo.»

Sara ricambiò il sorriso. Le guance rosse e compiaciute. «Chissà, chissà…»

Pure Valentina li assecondò con l’allegria di una risata. «Mi sa che sei tu quella ad aver vinto alla lotteria, oggi. Uhm…» Sfilò un altro calamaro dallo spiedo e, oltre le schiene delle persone che sedevano agli altri tavoli, adocchiò il chiosco della lotteria, il bancone su cui erano esibiti i premi più grandi che solleticarono in lei un certo desiderio. «Quasi quasi faccio un altro tentativo anch’io, dopo.»

Massimo strinse le spalle. «Di sicuro non può capitarti nulla di peggio della scatola di fiammiferi.»

Sara lo stuzzicò con una gomitata. «Già…» E si alzò a sussurrargli all’orecchio. «Magari questa volta vincerà un bel posacenere per completare la tragedia.»

Valentina colpì Sara con una spallata. «Oh, sta’ zitta» protestò. «Ma aspetta…» Spostò la vaschetta dentro cui fumavano gli spiedini di pesce, sollevò il piatto delle focacce, cercò anche dietro i bicchieri dentro cui frizzavano le bollicine del chinotto, e corrugò la fronte in un’ombra di disappunto. «Niente patate al rosmarino? Questo allora lo considero un sabotaggio.»

«Non fare la schizzinosa, Signorina Milani.» Sara affondò un morso nel suo quadratino di focaccia al pesto, succhiò il formaggio fuso come avrebbe fatto con una forchettata di spaghetti. «Se spendessimo troppo poi non ci avanzerebbero soldi per le frittelle.»

«Per quello che m’importa…» Valentina smangiucchiò dell’altro pesce dal suo spiedino, e scoprì di non essere scossa da alcun piacevole gorgoglio di appetito. Il suo pancino rimase muto e triste persino fiutando il delizioso profumino della focaccia al pesto che era la sua preferita, ancor più rispetto a quella con i pomodorini. Allontanò la vaschetta di calamari in pastella. «Non ho fame proprio per niente, mi sa.» E tornò a buttarsi giù. La faccia sprofondata dentro le braccia incrociate e un pesante sospiro di cordoglio a farle sobbalzare la schiena ricurva.

Lo sguardo di Massimo si macchiò di preoccupazione, andò in cerca del sostegno di Sara. «Questo sì che è insolito.»

Sara scosse la testa. «Ha solo bisogno di farsi tornare il buonumore. Ecco, ecco…» Frugò in cerca di qualcos’altro che aveva portato al tavolo assieme ai vassoi di cibo caldo. «Guarda cos’altro ti ho preso.» Esibì un mazzo di foglie di vite che splendettero verdi e rigogliose fra le sue mani. «Ta-daaan

Valentina sollevò il muso lungo dalle braccia incrociate. Il nastrino blu con cui si era raccolta i capelli le scivolò davanti alle sopracciglia corrugate. «Vuoi che mi mangi le foglie di vite?» Allontanò il nastrino pettinandoselo dietro l’orecchio. «Mi hai scambiato per una capra?»

Sara alzò gli occhi al cielo. «Sono per farci le corone, sciocchina.» Le sciolse il fiocco, le sfilò il nastrino dai capelli – la massa disordinata di ciocche castane esplose invadendole le guance e gli occhi –, e cominciò a intrecciare i rami di vite. Steli morbidi, malleabili e ancora verdi, che svolazzarono fra le sue mani rapide ed esperte come quelle di una vecchia sarta sovrana dei suoi aghi e dei suoi fili. «Ora stai ferma e buona mentre te ne intreccio una. Vedrai che ti tirerà su il morale.»

Valentina affondò una mano fra i capelli, rovesciò all’indietro le ciocche che le erano finite sugli occhi, e sospirò. «Una coroncina di foglie verdi…» Guardò sotto il tavolo, raccolse un lembo della sua gonna e lo sventolò di qua e di là fra le sue ginocchia. «Proprio oggi che mi sono messa il vestito blu.»

Sara piegò un altro ramoscello, unì l’intreccio e rigirò le foglioline per evitare di strapparle. Sorrise. Un sorriso di chi la sapeva fin troppo lunga. «E come mai ti sei messa proprio quello blu?»

«Perché quello verde porta sfortuna.» Pronunciando quella sentenza, Valentina evocò il ricordo della domenica scorsa, quando il suo bell’abitino verde si era fatto un lavaggio a freddo nell’acqua della fontana. Ciclo pesante di lacrime e sconfitta. Quel giorno, la camicia che Bruno indossava era di colore blu, lo stesso blu dell’abito che Valentina indossava ora. Le piaceva molto quella camicia, e aveva notato quanto gli stesse bene fin dal primo istante in cui lo aveva trovato ad aspettarla fuori dalla porta di casa. Chissà se Bruno l’avrebbe indossata di nuovo? Chissà se se la sarebbe fatta prestare ancora una volta? E lui avrebbe notato l’abito diverso di Valentina? Quello stesso blu?

Come se mi importasse qualcosa. Valentina stropicciò una ciocca di capelli fra le dita e si nascose dietro quel gesto, facendo finta di non star guardando attorno, di non star scavando in mezzo alla folla di facce estranee e familiari. Come se mi aspettassi sul serio di trovarlo qui ad aspettarmi.

Sara annodò l’ultimo intreccio di ramoscelli ed esibì la coroncina di foglie degna della testa di un imperatore romano, o di un piccolo Bacco pitturato in un quadro di Caravaggio. «Ecco qua!» La adagiò fra i capelli di Valentina, le aggiustò una fogliolina che altrimenti le avrebbe pizzicato l’orecchio, e batté le mani. «Bellissima.»

Valentina sorrise. Sfiorò le foglie che le solleticavano la fronte, le sentì fresche e morbide, strofinò la spirale di un viticcio fra i polpastrelli, stando attenta a non sciuparla, e arrossì, riguadagnando un po’ di buonumore e quel tanto atteso gorgoglio affamato che le permise di godersi un’abbuffata di pesce e focaccia con i suoi amici.

Attorno al loro tavolo e fuori dal gazebo, la sagra proseguiva. L’orchestrina attaccò un’altra canzone, i piedi dei ballerini strofinarono un’altra danza sul pavimento del palchetto. Nuvole di vapore bianco e colloso si gonfiarono dai chioschi che profumavano di aglio e basilico e di frittura dolce. Le luci vibrarono e sciamarono nella notte sempre più inoltrata ma allo stesso tempo più luminosa, vegliata da una Luna piena che somigliava davvero a una di quelle lanterne di carta che dondolavano dalle terrazze affacciate alla piazza.

Marina Marsigliese non perse tempo e si sganasciò da dietro il bancone della sua bancarella. «… ultimi biglietti disponibili!» Si sporse da sotto l’intreccio di reti da pesca a cui aveva appeso i premi più piccoli, piccole cornici portafoto, quadretti di ceramica da inchiodare al muro. «Ultimi biglietti disponibili e il primo premio ancora in palio! E ricordatevi che il ricavato di quest’anno va tutto in favore della ristrutturazione della piazza e della chiesa, perciò sotto a chi tocca, tirate fuori i portafogli e…»

«Marina!»

«I portafogli li devono tirare fuori per forza!»

In disparte, lontano dalla cagnara più chiassosa, il Sindaco Visconti con fascia tricolore attorno alla spalla, la moglie al seguito, e il pargolo in fasce a dormirgli fra le braccia, era circondato da un modesto capannello di persone. Pochi privilegiati che, fra una chiacchiera e una bevuta, ricevevano l’onore di potersi sporgere e sorridere al bimbo che sonnecchiava, quando il sindaco concedeva di scostare un po’ la copertina per vantarsi delle somiglianze già scolpite nel suo visetto da neonato. «… anche io da piccolo li avevo così grigi, poi però cambiano, diventano più verdi. Quel genere di occhi che cambiano a seconda del tempo. Il mento invece è proprio come quello di mia madre. Dal suo ramo della famiglia è sempre…»

Sul palchetto colorato dalle lanterne, i ballerini intrecciarono una danza saltellante che, a ritmo di battiti di mani, mescolò le coppie, fece svolazzare le gonne e scintillare i sorrisi, e intanto fece spazio a un gruppetto di bambini che seguirono la musica unendo le manine in un girotondo ridacchiante.

Valentina si intenerì, nonostante il malumore. Scoprì che le mancava quella spensieratezza e quella gioia di vivere che poteva appartenere solo ai bambini, ai loro cuoricini ansimanti che avevano ancora tutto un mondo da scoprire. «Vi ricordate quando eravamo piccoli e anche noi ballavamo tutti e tre assieme?»

Sara finì il suo boccone di focaccia, si succhiò l’indice e si fece scappare una ridacchiata. «Possiamo andare a ballare assieme anche adesso, se vuoi.»

«Non è quello che intendo.»

«E allora che discorso è?»

«Nel senso…» Valentina si stiracchiò in avanti, di nuovo a corto di appetito e di ottimismo, spalmando il petto sul tavolo e incrociando le braccia urtando i vassoi con i gomiti. Sospirò – l’odore di vino rappreso le punse le narici – soffiando via una fogliolina di vite che le era piovuta sul naso. «Avete presente quando eravamo piccoli e sembrava tutto facile, e non vedevamo l’ora di diventare grandi perché credevamo che essere adulti significasse automaticamente fare tutto ciò che si vuole quando si vuole? Ecco…» Strinse i pugni, scosse un peso invisibile. «Mi piacerebbe tanto prendere la bambina che la pensava così e scuoterla e gridarle addosso: no, scema, è tutta una bugia! Goditi la vita da bambina finché puoi, perché un giorno la rimpiangerai

Sara e Massimo si scambiarono un’occhiata perplessa. Sara sospirò, avvilita, ma raddolcì il tono. «Sicura di non voler qualcos’altro da mangiare, Tina?» Le avvicinò il vassoio con gli spiedini di pesce misto che gettavano un fumo caldo, rinfrescato da una spruzzata di limone. «Così ti tira su il morale.»

Massimo alzò il mento a indicare la pista da ballo. «Forse avrebbe sul serio bisogno di ballare per divertirsi un po’.»

Valentina scosse la testa tenendo i pugni serrati. «Non riuscirò mai più a divertirmi per il resto della mia vita» brontolò. «Né a ballare, né a indossare vestiti verdi, né a mangiare il gelato al pistacchio.»

Sara la toccò con una soffice spallata, ammiccò con le sopracciglia. «Stai continuando a pensare a Bruno, o sbaglio?»

«Pfui!» Valentina tenne lo sguardo alto e distante, arricciò le dita a una ciocca di capelli. «Non mi è neanche passato per la testa.»

«Guarda che se non lo vai a chiamare tu ci vado io» la ammonì Sara. «Ne ho abbastanza di vederti deprimere in quel modo.»

Valentina spalancò la bocca in un ansimo indignato, staccò il petto dal tavolo tirando su le spalle con un rimbalzo. «Non lo faresti.»

Sara sfilò un gamberetto dallo spiedino, sgranocchiò il suo boccone arricciando le labbra in uno scaltro ghigno da furbastra. «Mi basterebbe alzarmi e compiere giusto una decina di passi.»

«E perché?»

«Perché Bruno è proprio laggiù.»

«Dove?» Tramortita da quel violento e improvviso colpo al cuore che le aveva succhiato il sangue dalle guance e raggelato il fiato in petto, Valentina si voltò inseguendo la direzione puntata dall’indice di Sara. «Quando?» boccheggiò. «Adesso? Ma come ha – oddio, è lui.» Incrociò le braccia sulla testa, si rattrappì stringendosi nelle spalle, e scivolò a nascondersi dietro la schiena di Massimo.

Soffiò una boccata di fiato, sgonfiandosi il petto. Si toccò i fremiti della gola, risalì il mento tremolante, spinse le dita sulle pulsazioni del cuore che sentiva martellare sulla lingua e sulle tempie. Batté gli occhi. Rischiarì la vista che si era di colpo offuscata, e riguadagnò il controllo dei suoi pensieri, del suo udito ovattato, del suo corpo formicolante, di quel timore che si acquietò come la superficie di un lago che torna limpida e piatta dopo essersi agitata per la caduta di un sasso.

Al sicuro dietro la stazza di Massimo e affiancata dalla presenza protettiva e confortante di Sara, Valentina sollevò la corona di foglie di vite e si sporse a sbirciare in direzione di Bruno.

Poche persone si mossero attorno a lui, si salutarono, piegarono la testa per entrare sotto il gazebo senza urtare le lanterne, posarono vassoi, scivolarono lungo le panche per far spazio a quelli appena arrivati, e lui non sembrò curarsi di tutto quel movimento. Anche gli altri fecero come se lui non fosse esistito, ponendo la sua presenza alla pari di uno di quei soprammobili messi in palio alla lotteria.

Bruno sedeva da solo, come era solito fare in osteria, e il fatto che la gente gli camminasse attorno senza nemmeno sfioralo, come respinti da un muro invisibile, lo faceva sembrare ancora più isolato. Persino le luci delle lanterne non riuscivano a raggiungerlo, a riempirgli lo sguardo. Erano respinte da quella zona d’ombra che, circondandolo, lo segregava in una dimensione del tutto sua.

Bruno smangiucchiava delle patate fritte, quelle al rosmarino, pescandole con una forchetta di plastica da dentro una vaschetta foderata di carta di giornale. Mangiava lentamente, come al solito, senza sollevare gli occhi dal tavolo e senza dare la reale impressione di gustarsi quello che stava assaggiando, come un frate a digiuno.

Riconoscendo Bruno in mezzo alla gente, Valentina sentì qualcosa dentro di lei guarire e rinvigorirsi, il bruciore di una ferita che veniva spalmato via dal bacio di un balsamo rinfrescante. Un soffio di calore le riempì il petto, delicato come una carezza, e le corse nel sangue, sciogliendo il ghiaccio di quel torpore che l’aveva appesantita durante tutta la settimana. Era quella gioia e quello stupore che Valentina provava durante i primi giorni di primavera, quando spalancava la finestra della sua camera e inspirava dopo tanto tempo il profumo del polline e della rugiada. Le nuvole di maltempo si creparono, lasciarono cadere un raggio di sole che illuminò i colori di un prato fiorito.

Bruno indossava i suoi soliti abiti da lavoro un po’ slargati e un po’ sbiaditi, ma puliti. Anche lui dava l’impressione di non essere nella forma più sfavillante, proprio come Valentina. E la tristezza di quella considerazione ricordò a Valentina le parole che Massimo le aveva rivelato poco prima.

Bruno è un ragazzo molto taciturno. Non sembra aver legato con molta gente da quando è arrivato a Portorosso, nemmeno con gli stagionali come lui. Deve essere dura ritrovarsi così all’improvviso senza più nessuno con cui parlare o con cui tenersi compagnia. Senza più qualcuno che lo faccia sentire benvoluto.”

E lei non lo aveva nemmeno considerato. Aveva sempre e solo pensato al suo di dolore, mai a quello di Bruno. E così era sempre successo anche con gli altri ragazzi, con ogni amicizia spezzata, con ogni storia d’amore appassita ancora prima di fiorire. Lei aveva sempre e solo visto la sua parte.

Che si arrivata finalmente l’ora di crescere?

Bruno rosicchiò un’altra patatina che aveva infilzato con la forchetta di plastica – chi mai mangiava le patatine con la forchetta, poi? –, e spinse all’indietro una manata di riccioli, lasciandosi catturare da quella luce palpitante che era bruciata dallo sguardo di Valentina premuto su di lui.

Scomparve lo sciame di gente, si abbassarono le luci delle lanterne. Lo scroscio di un mare remoto spazzò via la musica e il chiacchierare delle voci, mentre un forte e acido odore di salsedine coprì il profumo del fritto di pesce e delle focacce al pesto. C’erano solo gli occhi di Bruno, quel grigio rubato al mare d’inverno, al suo burrascoso cielo di piombo, alle sue onde laminate, all’infinita vastità della sua solitudine. Bruno era così vicino che a Valentina sarebbe bastato allungare una mano per raggiungerlo, toccargli il viso sbarbato e annerito dal sole, risalire la spigolosità della sua guancia, affondare il tocco nella sua foresta di riccioli, e aggrapparsi a lui, a quel mondo dove solo lui sarebbe stato capace di condurla.

Fu invece la mano di Sara a raggiungere Valentina, a toccarle il polso, «Tina», e a riportarla alla realtà. Il suo sguardo tenero e apprensivo, senza più alcuna voglia di stuzzicarla o di prenderla in giro. «Tutto bene?»

Un brivido risalì il braccio di Valentina dal punto dove Sara l’aveva sfiorata. «Uhm.» Valentina sbatté gli occhi, si svegliò dal sogno, assorbì i colori delle lanterne, soffiò il fiato trattenuto nel petto. «Sì? I-io…» Si strofinò la testa smuovendo il fruscio della coroncina di foglie di vite. «Io devo solo…» Nell’indecisione e nello stordimento, Valentina tornò a guardare verso Bruno, ad aggrapparsi alla sua presenza prima che potesse sfuggirle di nuovo.

E di nuovo lo vide rintanarsi, chinare la testa dietro le sagome che gli sfilavano davanti, e allontanarsi da lei gettando ombra sul viso coperto dai riccioli.

Bastò quell’attimo di dolore e delusione per far capire a Valentina che ormai non le importava più nulla del rancore o dell’orgoglio. Bruno era l’unica cosa che importava. L’unica che valeva la pena rincorrere e tenersi stretta. «Io mi alzo un attimo.» E così fece, urtando il tavolo e reggendone i bordi per non far rovesciare i bicchieri di chinotto. Si spolverò le pieghe della gonna, aggiustò la coroncina dondolata fra i capelli, e compì un primo passo. «Torno subito.»

Sara strinse la presa, «Tina», la bloccò sotto la pressione del suo sguardo spaventato. Forse anche lei stava rivivendo l’incidente della fontana tramite i ricordi specchiati negli occhi di entrambe. «Sei sicura?» le fece. «Ti accompagno da lui, se vuoi. O ti accompagno a casa. Preferisci tornare a casa?»

Quella proposta in qualche modo diede a Valentina ancora più coraggio. No, non voleva tornare a casa. Voleva affrontare Bruno, voleva farcela. E ce l’avrebbe fatta da sola.

«Va tutto bene.» Valentina sfilò il polso dal tocco di Sara, le strofinò sulla spalla una carezza rassicurante accompagnata da un sorriso. «Andrà tutto bene, davvero. Mica mi mangerà.» Sventolò un saluto rivolto a entrambi i suoi amici. «Conservate un po’ di focaccia anche per me.»

Il tragitto che la separava da Bruno fu più lungo e faticoso da percorrere di una salita in bici lungo la pendenza del Monte Portorosso, anche perché lui teneva di nuovo lo sguardo basso, ombreggiato da quel muro di solitudine che lo faceva sembrare irraggiungibile. Ma Valentina sapeva che anche lui la stava guardando, che la sua immagine era sempre stata fissa lì, nelle profondità di quegli occhi scuri e immensi. Allo stesso tempo era anche grata che Bruno non la stesse fissando nelle pupille. Sapeva che non sarebbe resistita a lungo, in quel caso, e che sarebbe stato facile e immediato farsi risucchiare nel baratro. Ora invece voleva rimanere a galla. Voleva tenere a galla entrambi.

Camminando un passo alla volta, Valentina torse le spalle per infilarsi fra le schiene della gente che si spostava attorno ai tavoli, schivò le scintille spruzzate dalle stelle filanti che i bambini continuavano ad accendere e a sventolare come bacchette magiche, attraversò una scia di vapore che la solleticò col profumo vanigliato delle frittelle, alzò una mano per scostare una lanterna che aveva rischiato di urtarle la testa, e si infilò sotto le travi del gazebo.

Si accostò a Bruno come quella sera all’osteria, quando si erano davvero conosciuti, quando lei gli aveva sorriso posandogli sul tavolo il piatto di trenette al pesto. Valentina raccolse un profondo sospiro, ma questa volta il sorriso non le riuscì. «Sei emerso dagli abissi?»

Bruno si strozzò con una patatina al rosmarino. Tossì, ansimò, si picchiò un pugno sul petto, e continuò a sputare un tossito dietro l’altro come se gli stessero uscendo i polmoni dalla bocca. Valentina non fece in tempo a reagire, ad aiutarlo battendogli una mano sulla schiena, che Bruno risucchiò una vorace boccata d’aria, riprese controllo del suo respiro, nonostante gli occhi allucinati e le mani tremanti aggrappate alla gola. Strabuzzò uno sguardo sbiadito dal color grigio cenere che gli aveva chiazzato le guance. «C-c-che cos’hai detto?»

Valentina non capì. Aveva forse detto qualcosa di male? «Dagli abissi.» Indicò dietro di sé. «Sei emerso dalla tua camera. Dagli abissi della tua camera.»

Bruno dilatò le palpebre, acquietò il liquido vacillare dei suoi occhi, e rilassò le rughe della fronte, la contrattura del volto. «Aah.» Aprì una mano sul petto, lo sgonfiò buttando fuori l’aria dalla bocca. «Dalla mia camera.» Inspirò dal naso, si prese la fronte, grattò fra i riccioli che gli dondolarono fra le dita. «Giusto» mormorò. «Quegli abissi. Dalla camera.» Si fece aria allargando il colletto della camicia, riprese colore sulle guance, e diede un ultimo tossito per schiarirsi la voce striminzita dallo spavento. «Diamine, Tina» protestò. «Dovresti dosare un po’ meglio le tue parole.»

Lei gonfiò un broncio da offesa, piantò sul petto le braccia conserte. «Be’, e allora tu dovresti…» Arricciò l’indice a una ciocca di capelli che era ruvida e secca come la sua voce. «E tu dovresti dosare un po’ meglio le tue reazioni, ecco.»

Dosare le sue reazioni…

Il silenzio che si allungò fra loro due, fitto e consapevole, diede tempo a entrambi di tornare indietro, di sfogliare le immagini degli ultimi ricordi costruiti assieme. L’infrangersi del tuffo, l’odore ferroso dell’acqua schizzata fuori dalla fontana, lo sfrecciare della fuga di Bruno inseguito dalle falcate nude e fradice di Valentina, la sfuriata sulla soglia della camera, e il tonfo della porta sbattuta.

Qualcuno passò dietro Valentina, si sedette a un altro tavolo senza accorgersi di averla urtata, e lei fu costretta a spostarsi per non farsi pestare i piedi da una coppietta che si diresse ridendo verso la pista da ballo.

Bruno notò quel tremolio di disagio che aveva colto Valentina, il gesto di nervosismo con cui lei stava continuando ad arricciarsi la ciocca di capelli. Scivolò più in là e le fece spazio sulla panca. «Ti va di sederti?»

Valentina sospirò, arrendevole. Fece scivolare l’indice dalla ciocca arricciata e accettò annuendo. Si sedette sulla panca, ma compì un rimbalzo e si mantenne distante da Bruno, senza toccarlo. Però il suo corpo s’incendiò, il suo cuore lanciò un ruggito di protesta e gridò per il desiderio di accostarsi a lui, al suo profumo di agrumi e salsedine. Anche la sua pelle bruciò, bisognosa del suo tocco, di sentire quelle mani fresche posarsi su di lei, scivolarle sulle spalle, lungo le braccia, addolcire quel fuoco che le stava ribollendo nel sangue, lenire la pressione che le schiacciava il petto, e donarle un nuovo soffio d’aria nei polmoni.

Un altro tossicchio da parte di Bruno. «È bella, la coroncina.» Rigirò la forchetta fra le dita. Un lampeggio di luce grigia brillò da sotto i riccioli che gli cadevano davanti alla fronte. «Ti dona.»

«Oh» ansimò Valentina. «Gra…» Si toccò la coroncina, ricordandosi improvvisamente di averla addosso. «Grazie.» E ora le sembrò così stupida, miserevole come il suo umore che temeva avrebbe potuto appassire le foglie di vite. «Me l’ha intrecciata Sara.»

Le sopracciglia di Bruno compirono un guizzo, e lui, seguendo quell’impulso, si voltò ad adocchiare Sara e Massimo che non avevano mai smesso di tenere monitorata la situazione – Sara assottigliò le palpebre, mentre Massimo le posò la mano sulla spalla per placare quella sottile cornice di fiamme che stava cominciando a bruciare dalla sua aura.

Bruno scosse la testa. Raccolse la vaschetta di patate fritte da cui aveva spiluccato solo un paio di forchettate. «Ne vuoi un po’?» La posò fra lui e Valentina. «Sono ancora calde.»

Valentina strinse le labbra. Nonostante il gorgoglio del pancino ingolosito, scosse la testa. «No, grazie.»

Lui invece ne mangiò un’altra, sempre con la forchetta. «Sono molto buone» disse. «Saporite. Avevi ragione a riguardo.» Finalmente le rivolse uno sguardo più aperto e confidente. «Mi sarebbe piaciuto dividerle con te, stasera.»

Valentina affondò i denti nel labbro, passò dal tormentarsi i capelli al tormentare la collanina. «È solo per questo che sei venuto alla sagra, allora?» Grattò le unghie sulla chiavetta nell’intento di non rendere palese il tremolare delle dita. «Solo per fare uno spuntino?»

«No.» Bruno posò la forchetta. «Volevo parlarti, Tina. Di quello che è successo domenica scorsa.»

Lei cercò di non cedere troppo. Di non sperare troppo. «E come sapevi che io sarei stata qui?»

«Credevo che l’invito fosse ancora valido.»

«Magari non lo è più.»

«Vuoi che me ne vada?»

«No.» Valentina ammosciò le spalle, sciolse il peso di quella pressione che sentiva di non essere più in grado di sostenere da sola. «Anche io vorrei…» Raccolse una ciocca di capelli sfuggita alla coroncina, tirò su il capo. «Vorrei che mi spiegassi. Che ci chiarissimo su…»

Un gruppo di giovani pescatori appena arrivati alla sagra raggiunsero l’altro lato della tavolata, scavalcarono la panca e occuparono i posti liberi proprio davanti a Bruno e Valentina. «… domani mattina chi ti viene a recuperare, poi?», «Senti chi parla. La scorsa domenica nemmeno ti reggevi per tutto quello che…» Appoggiarono i loro vassoi traballanti di focacce e fritto misto, sistemarono le caraffe di vino che tintinnarono contro le torri di bicchieri, mandarono in frantumi quella bolla di intimità che si stava inspessendo attorno ai due.

Bruno arricciò una smorfia di disappunto. «Forse è il caso di spostarci.» Si alzò per primo, sbatacchiò le mani sui pantaloni e ne offrì una a Valentina. «Vieni?»

Davanti a quel gesto, a quella mano scura, callosa e incerottata che la stava chiamando, Valentina fu trafitta da un guizzo al cuore, un singhiozzo di paura irrazionale che la punse in fondo al petto. Chissà perché le lampeggiò in testa l’immagine di Bruno proiettata davanti alla distesa del mare d’inverno, le onde grigie come cemento, le nuvole tanto basse da coprire la linea d’orizzonte e da soffocare i pendii dei monti affacciati alla costa. Quella mano aperta che forse, una volta stretta, l’avrebbe trascinata nell’oscurità degli abissi o che forse l’avrebbe tenuta a galla quando il vento si sarebbe abbassato, soffiandole in faccia, bruciandole negli occhi, e risucchiandola fra le onde ingrossate.

Valentina si girò e guardò verso Sara. L’appiglio sicuro dinnanzi ai ruggiti della tempesta che sentiva ululare in lontananza.

Prontissima, Sara si alzò, indurì le spalle nella sua più minacciosa posa da mammina protettiva, e già compì uno scatto col piede per raggiungere Valentina, prenderla per mano, e condurla al sicuro. La mano di Massimo passò dalla sua spalla alla sua schiena, la strofinò e la tranquillizzò, ma anche i suoi occhi puntarono Bruno, attenti come quando scandagliavano il mare in cerca di pesce, o a caccia di minacce che sarebbero potute saltare fuori dall’acqua, dilaniare le reti e sgranocchiare i remi della barca.

Valentina fu grata di quella premura, di quella vicinanza e di quella protezione, ma sentiva che quella era una battaglia che dipendeva solo da lei. «Sì.» Si alzò a sua volta, passò affianco a Bruno sfiorandogli la spalla, carezzata e inebriata dal suo profumo di sale, spezie, e sapone di Marsiglia, senza però prenderlo per mano come avrebbe voluto fare. Strinse i pugni per resistere alla tentazione, guardò dritta davanti a sé per non cadere nell’incantesimo dei suoi occhi grigi. «Vieni, conosco un posto.» Si fece seguire e lo allontanò dalla confusione, dalla musica di trombe e fisarmoniche, dai fumi della frittura di pesce, e dalle risate di tutta quella gente estranea al loro piccolo mondo.

 

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Capitolo 17
*** Lauretta mia – Atto VII ***


Lauretta mia – Atto VII

 

 

«Paura dell’acqua?» Valentina sollevò la coroncina di foglie di vite che le era scivolata davanti agli occhi. Rivolse lo sguardo a Bruno che le camminava affianco, accelerò il passo facendo schioccare i sandaletti sui gradini di pietra che risalivano la stradina, e si portò più vicino a lui. Il suo cuore ansimò, nonostante la presenza di Bruno che riusciva sempre a rasserenarle l’animo. Ma ora lo sentiva lontano, irraggiungibile. Distante come le luci delle lanterne, i profumi del pesce grigliato, e le musiche della sagra che via via si stavano allontanando alle loro spalle. «Sul serio?» Valentina aveva ancora quel sospiro di stupore sospeso fra le labbra, quell’espressione sorpresa, forse addirittura rasserenata dal fatto di aver conquistato una spiegazione, ma non del tutto convinta. «E da quanto tempo ne soffri?»

Bruno strinse le mani che teneva affondate nelle tasche dei pantaloni. Chiuse le spalle nella sua solita posa ricurva, come se stesse sostenendo un carico sulla schiena, e trascinò un altro passo sul lungomare rialzato rispetto al livello della spiaggia e del piccolo porto dove le barchette da pesca galleggiavano come cigni addormentati. «L’ho sempre avuta, per quello che riesco a ricordarmi.» Nonostante la pressione dello sguardo di Valentina, gli occhi di Bruno non si fecero catturare dai suoi. Si alzarono al cielo, oltre i rami dei pini marittimi, e si aprirono alla luce della Luna che, piena e bianchissima come una perla di fiume, si rifletteva ondeggiando sullo scuro specchio di mare raccolto dalle alture dei colli tondeggianti. Arrampicate nelle più alte nicchie dei monti terrazzati, le luci di Corniglia erano un lontano grappolo di luci colorate. Stelle cadute dalla trapunta della notte e spolverate su quello scenario da presepe. «È qualcosa che ha sempre fatto parte di me, tutto qui.»

Stropicciando un sopracciglio, fiutando con cautela quella confessione così fredda, Valentina guardò a sua volta verso il mare che costeggiava la loro camminata, al di là della cinta di pietra che abbracciava la curva della via. Il profumo dolce e salmastro della costa era molto più intenso, ora che si stavano allontanando dal centro del paese. «Quindi sei tipo rimasto traumatizzato da piccolo?» E quello che fronteggiò era all’apparenza un mare così innocuo. Un mare striato dal riflesso della Luna piena che vegliava sospesa come una delle lanterne di carta che avevano appeso alle bancarelle e ai gazebo eretti nella piazza del paese. La musica di trombe e fisarmoniche si fece ancora più distante. Stava diventando ovattata come un suono che, provenendo da un’altra stanza, rimbalza su una porta chiusa. «Tipo sei caduto in acqua, e sei quasi annegato, e quindi ti è rimasta addosso la paura? Oppure hai rischiato di soffocare facendo il bagnetto da bambino? Sai quante volte che capita…»

«No, no.» Bruno scosse la testa. «Niente di simile, davvero. È solo…» Calciò un sassolino che rotolò giù da una piccola gradinata, e quel saltellio tenne loro compagnia per qualche istante, prima di sbattere su una parete e di finire inghiottito dal silenzio della notte. «È solo una mia paura, tutto qua. Niente traumi, nulla che l’abbia scatenata o che mi abbia sconvolto.» Ammosciò le spalle con un sospiro. «Ce l’ho e basta.»

Valentina strinse le labbra, cominciava a capire. Eppure, chissà perché, non provò alcun sollievo, nessuna consolazione. Si mise a braccia conserte. «Non me ne avevi mai parlato prima.»

Un’altra alzata di spalle da parte di Bruno. «Non è che ci sia stato poi così tanto tempo per discuterne. Insomma…» Stando sempre a capo basso, sfilò una mano dalla tasca e si diede una grattata fra i riccioli. «Ci conosciamo da così poco.»

«Ma in quel poco tempo ci siamo sempre parlati di tutto» rispose Valentina. «Sia durante le serate in osteria sia durante…» Strinse le dita sulle braccia incrociate. Una fitta di dolore le penetrò lo stomaco, «Durante quella domenica», riempiendole la bocca di un sapore acidulo e ferroso, lo stesso dell’acqua di fontana.

Il ricordo di quella domenica fece calare un’ombra di silenzio che rese la notte più buia, la Luna più fosca, l’aria più fredda. Per Valentina fu inevitabile guardare alle sue spalle, oltre le alte mura delle case colorate dalle luci della sagra, oltre l’intersecarsi delle stradine che, scendendo dalle curve del monte, conducevano alla piazza della fontana. «Domenica scorsa avresti potuto dirmelo.» Il suo sandaletto sdrucciolò su un gradino di pietra, la fece tentennare. «Avresti potuto farlo prima che io combinassi il guaio.»

«Lo so» annuì Bruno. «E mi dispiace che sia andata a finire in quel modo.»

Sospirando, Valentina grattò i brividi che si erano arrampicati lungo le braccia conserte. Il peso sul petto si sciolse, ma fu una sensazione fredda e sgradevole che le lasciò le labbra amare. «Dispiace anche a me.» Cominciò a riconoscere i primi segni di arrendevolezza che le fecero passare la voglia di intestardirsi, di fare la dura. Per ottenere chissà cosa, poi. «Mi dispiace aver rovinato tutto.»

Bruno scosse la testa. Raccolse una manciata di riccioli piovuti sulla fronte, e per la prima volta le rivolse lo sguardo, quegli occhi scuri laccati dall’argento della Luna. «Non hai rovinato nulla, Tina.»

«Ma ti ho fatto del male.» Valentina strofinò un’altra volta le braccia raggrinzite dai brividi, fin sotto le corte maniche dell’abito, e cominciò a pentirsi di non aver portato con sé uno scialle o una mantellina. Eppure sembrava una serata così calda. «E tutto perché non so mai quando fermarmi.»

«Anche io ti ho fatto del male» confessò Bruno. «E non volevo.» Rallentò, si mantenne al suo passo e le rimase vicino. «Mi dispiace, Tina. Sul serio.»

Valentina sorrise sentendo le guance scaldarsi e pizzicare. Prese fiato, respirò indurendo i muscoli del ventre già solleticato da quella vicinanza improvvisa, da quel profumo che riconobbe, da quel desiderio che si riaccese come un languorino e che la implorò di stringersi a Bruno, di sciogliere quei tremori scambiandosi un abbraccio che avrebbe aggiustato tutto. «Per un tuffo nell’acqua?» Arricciò una ciocca di capelli fra le dita, mosse il fruscio di foglie della coroncina, e nascose il rossore dietro quel gesto. I viticci le fecero il solletico alle orecchie. «Se fosse capitato a te sarebbe stato peggio.»

Le labbra di Bruno accennarono un sorriso sottile. «Per lo meno abbiamo capito che non è una buona idea darci appuntamento vicino all’acqua e alle fontane.»

Oh. «Quindi…» Valentina si morsicò il labbro, imbarazzandosi per lo squittio della sua voce. Si nascose dietro le foglie di vite che le cadevano sulla fronte e d’un tratto si fece timida. Il cuore accelerò e si scaldò come una brace, batté speranzoso spalancandosi a quel desiderio. «Ci sarà un prossimo appuntamento?»

«Dipende.» Un fascio di Luna si depositò sulla guancia di Bruno, attraversò i suoi riccioli e brillò nelle profondità di quello sguardo che solo ora sembrava essersi spogliato di ogni segreto, di ogni mistero. «Se tu lo vorrai.»

Un singhiozzo di gioia soffocò il respiro di Valentina, ma lei non si diede tempo di esultare davanti a quella dichiarazione, di infiammarsi davanti alla selvatica bellezza di Bruno che sembrava mutare e trasformarsi proprio come fa la Luna ogni notte. Stropicciò la ciocca di capelli anche con l’altra mano, continuò a giochicchiarci rosicchiandosi il labbro per nascondere quel sorrisino inebetito che cominciava a imbarazzarla. «Sarà un po’ difficile stare lontani dall’acqua, dato che Portorosso è tutta costruita sul mare.» E questo le fece venire in mente che… «Ma…» Sussultò, e l’ultima sbavatura di sorriso cadde dalle sue labbra, cancellò anche il fremito più lieve. «Ma allora non capisco. Perché sei venuto a lavorare in un villaggio di pescatori, se hai così tanta paura dell’acqua?»

«Io non sono un pescatore.» Bruno posò una mano sulla cinta di pietra che abbracciava la curva del promontorio, vi fece scorrere il palmo. «E non lavoro vicino all’acqua.» Vi incrociò le braccia sopra, si affacciò al mare che bagnava le frastagliature della costa, gli alti scogli della spiaggia, e che rifletteva le luci di Portorosso specchiate nel bacino del porticciolo. «E in ogni caso non posso permettermi il lusso di scegliere. Ho bisogno di lavorare. Dovunque mi chiamano, io vado.»

«Anche se ti fa paura?»

«Anche se mi fa paura.»

«Ma non ti senti lo stesso al sicuro, non è vero?» Anche Valentina andò ad affacciarsi, a poggiarsi con i gomiti sulla pietra. «È per questo che eviti sempre di stare in mezzo alla gente? Così puoi sempre metterti al sicuro quando ne hai bisogno?»

Un sospiro sconsolato svuotò il petto di Bruno, gli sciolse un peso dalle spalle. «Forse.» E la sua voce, di solito sempre così rauca e bassa, ora si ammorbidì, come se stesse permettendo a una parte nascosta di se stesso di dichiararsi, di denudare quella verità. «Forse è davvero così.»

Valentina reclinò il capo, socchiuse le palpebre. «Però con me non è successo.»

«Di te mi fido, Tina.»

«Lo so.» E questo la sconfortò, invece che rincuorarla. «E io ti ho deluso, vero?»

«No.» Bruno le rispose senza nemmeno pensarci. «Affatto.» Si passò una mano attraverso i riccioli, si strofinò la nuca e stropicciò un sospiro sofferente. «Vedi, è solo che…» Sulla sua fronte calò un’ombra di tristezza che nel buio della notte lo fece apparire così fragile, un fuscello che il maltempo sarebbe stato capace di sradicare dalla terra dopo una singola sferzata di vento. Il suo sguardo tornò a tendersi verso il mare, verso un luogo dove Valentina era sicura non sarebbe mai stata capace di raggiungerlo. E solo ora se ne accorse. Si accorse che da lì si vedeva l’Isola del Mare su cui già avevano fantasticato assieme. «Lo so che avrei dovuto dirtelo prima» sospirò Bruno. «Ma la paura dell’acqua è sempre stata una mia debolezza e non mi è mai piaciuto parlarne. Mi fa sentire…» Strinse i pugni poggiati sulla pietra. «Vulnerabile.» Arricciò le spalle. «E inadeguato.»

Valentina scivolò di un passo più vicino, ma senza ancora toccarlo. «Nel senso che te ne vergogni?»

Bruno fece ciondolare la testa in avanti in quello che non si capiva fosse un sì o un no. «Più o meno penso sia così.»

Una spinta di coraggio avvampò nel cuore di Valentina, la aiutò a sbarazzarsi di ogni timidezza, di ogni incertezza. «Ma tu con me non ti devi vergognare di niente, di nessuna paura, lo giuro.» Voleva sentirsi forte e protettiva come erano sempre forti e protettivi Sara e Massimo nei suoi confronti. Voleva che Bruno si sentisse al sicuro con lei proprio come lei si sentiva al sicuro con lui. «Io non sono una che ti giudica.»

«Non potevo ancora saperlo.»

«Ma adesso che lo sai…» Valentina scivolò ancora più vicina. Strinse i pugni sulla pietra del muretto, trattenne il desiderio di allungare le dita, di raggiungere quelle di Bruno, di aggrapparsi a lui e di non lasciarlo andare mai più. Fu un desiderio difficile da contenere. Era come stringere una brace bollente, e quel dolore le tolse il fiato, accelerò i battiti del cuore che soffocava di impazienza. «Ti fiderai di me?»

Fra Valentina e Bruno si condensò uno sguardo grigio e avvilito, ma allo stesso tempo brillò un lume eccitato. Quella scintilla di follia che si accende negli sguardi dei bambini poco prima che compiano una monelleria. Entrambi sapevano di starsi cacciando in un guaio poco raccomandabile. Ed entrambi sapevano di essere due bambini cattivi.

Bruno chinò lo sguardo, di nuovo si nascose sotto la caduta dei riccioli. «Forse ci stiamo cacciando tutti e due nei guai, Tina.» Passò uno sbuffo del vento risucchiato dal mare. Il dondolio dei suoi capelli sulle guance scoprì gli occhi scuri in cui la luce della Luna era un punto fisso, come un diamante. «In guai che non hanno niente a che fare con l’acqua o con le fontane.»

Valentina strinse di nuovo i pugni per contenere quel brivido che le era corso addosso, pungente come un graffio. «Nel senso…» Nel senso che non riesco a sopportare l’idea di non rivederti mai più e che potrei non essere capace di lasciarti andare quando sarà il momento di separarci? «Nel senso che ci piace stare assieme e nel senso che c’è un sacco di gente a cui questa cosa potrebbe scocciare?» Come se mi fosse mai importato di quello che pensa la gente di quello che faccio…

Bruno annuì. «Non avremmo dovuto rivederci.» Si guardò alle spalle. La musica della festa, le risate e le voci allegre, una nebbiolina di fumo dolce a galleggiare sopra le bancarelle dove si cucinava, le bolle di luce che, fluttuando come fuochi fatui, coloravano le pareti del paesino arrampicato sul monte di scoglio. Un mondo così distante dal loro. «Forse sarebbe stato meglio se fra noi fosse tutto finito con l’incidente della fontana. Sarebbe stato molto più semplice.»

«Ma tu non vuoi che finisca così, vero?» insistette Valentina. «Nel senso…» Ancora un passetto, un altro pezzetto di distanza che si accorciava, un altro battito del cuore proteso verso Bruno. «Se sei tornato a cercarmi, anche solo per spiegarti e per fare la pace…» Strinse le spalle e, spingendo le unghie nei palmi, accennò un sorrisino pietoso. «Forse speri che succeda qualcos’altro fra noi due?»

Bruno strinse le labbra ma non rispose. Un’altra carezza di vento gli passò attraverso, lo fece rabbrividire e irrigidirsi, come se il poveretto stesse respingendo un lato di se stesso che stava tenendo sepolto da chissà quanto tempo.

Valentina si disfò di quel sorriso tirato senza più la paura di mostrarsi bigia in volto, senza più il timore di parlare apertamente, a cuor sincero. «Lo sai» sospirò, «questa non è la prima volta che rischio di perdere l’amicizia con un ragazzo.» Si grattò sotto la coroncina di foglie. Cominciava a darle il prurito. «E non è nemmeno la prima volta che mi sento piantata in asso dopo un appuntamento finito male. Eppure…» Se la sfilò dalla testa, non curandosi dell’esplosione di capelli crespi e arruffati, e la posò sul muretto. «Quando sei corso via e mi hai lasciata lì nella piazza, come se non volessi tornare mai più, è stata la prima volta in tutta la mia vita in cui ho avuto l’impressione di aver perso qualcosa di insostituibile. Qualcosa che nessun altro ragazzo sarebbe in grado di darmi.» Sbirciò il profilo di Bruno, la sua presenza che era ancora lì a confortarla, a trasmetterle il coraggio di aprirsi a quella confessione. «Rendo l’idea?»

«Sì» annuì Bruno. «Perché sento che è così anche per me.» I suoi occhi navigarono oltre il mare, oltre i confini della riviera, oltre i grappoli di luce distribuiti sui monti che, pur riflettendosi nelle profondità del suo sguardo, sembravano lasciarlo indifferente. Il suo rimase lo sguardo di chi sapeva di non appartenere a quelle luci, al calore che trasmettevano. «Io non ho una casa» disse Bruno. «Mi sposto di continuo da un paese all’altro, mi scordo facilmente di tutte le persone che conosco, di tutte le facce che incrocio. In realtà non mi è mai pesata questa vita. Ogni volta che faccio la valigia me ne vado senza alcun rimpianto, senza nulla che mi trattenga o che mi spinga a volermi fermare. Questa è la prima volta che succede il contrario.» Gli angoli delle sue labbra scivolarono verso l’alto, addolcirono il suono di quelle parole. «È la prima volta che sento che esiste una buona ragione per cui varrebbe la pena di restare senza lasciare che tutto diventi solo l’ombra di un ricordo.»

Gli occhi di Valentina s’inumidirono di speranza. «E potrei…» Valentina intrecciò le punte delle dita, si grattò le unghie. Il cuore le bruciò nel petto. «Potrei essere io quella ragione? Forse?»

Bruno si girò a guardarla. Occhi straziati da una malinconia che faceva male al cuore. «Perché, Tina?» Nella sua voce, oltre quel superficiale velo di incomprensione, trasparì come una supplica. «Mi conosci appena, e quando abbiamo provato ad avvicinarci è finito in un disastro. Perché per te dovrei essere così importante?»

Valentina fece scivolare i gomiti giù dal muretto, strinse i pugni e aggrottò la fronte. «Perché?» Un forte rossore le pizzicò le guance, avvampò fino alla pancia, ma la dissetò. Il suo cuore finalmente si spalancò come un fiore al mattino su cui si è appena rovesciato uno scroscio d’acqua limpida e dolce. «Ma non lo hai ancora capito che sono innamorata di te, sciocco che non sei altro?»

Un sorrisino più limpido frantumò le labbra di Bruno. «Per averlo capito lo avevo già capito.»

Valentina sobbalzò. «Oh?» Si coprì la bocca con entrambe le mani e spinse lo sguardo a terra, sentendo quella vampata di emozione risalire il petto e incendiarle le orecchie. Sul serio il suo animo era così trasparente e le sue emozioni così facili da decifrare?

Bruno strinse le spalle, e quel piccolo accenno di sorriso distese la tensione del suo volto, lavandogli di dosso la crosta di tutti i suoi misteri, di tutte quelle ombre che sembravano perseguitare la sua pace. «Ma credo avessi bisogno di sentirtelo dire chiaramente per crederci fino in fondo.» Tornò a guardare verso il mare. Si pettinò una manciata di riccioli dietro l’orecchio, incorniciando quel suo profilo spigoloso. E fu proprio sorridendo che dimostrò per la prima volta l’età che aveva, quella sua ingenua e grezza dolcezza da ragazzino sbarbato. «È la prima volta che me lo dicono, sai?»

Valentina fece scivolare le dita dalle labbra e rabbrividì. «Quindi…» Tutt’a un tratto non ebbe più voglia di sorridere. «Ora che te l’ho detto cosa succederà?» Risollevando lo sguardo da terra, si accorse di come fosse umido e appannato. Gli occhi scottavano, già sorreggevano il peso delle lacrime che, in bilico fra le ciglia, stavano per rotolarle lungo le guance. L’emozione che le gorgogliava nel petto era una nuvola gravida di un diluvio che stava per esploderle addosso, annaffiandola di un dolore, di un’acqua amara che aveva già dovuto ingoiare tante volte. «Mi rifiuterai anche tu?» Il respiro corto le fece vibrare il mento. «Mi dirai che non vuoi più avere niente a che fare con me perché sono chiassosa e logorroica e infantile?» Si tappò gli occhi con le nocche, si strofinò il bruciore fra le palpebre prima che si sfogasse in un disastro. La sua voce si fece stridula, rotta di dolore. «Mi scaricherai e mi volterai le spalle come hanno sempre fatto tutti gli a…» Singhiozzò. «Altri?» Si coprì di nuovo la bocca, strizzò gli occhi per non essere costretta a guardarsi mentre dava spettacolo di sé, e si girò spalancando una prima falcata di fuga verso casa, lontana da Bruno, lontana da quell’anima che non poteva appartenerle, e lontana dall’ennesima arpionata al cuore.

La mano di Bruno raggiunse quella di Valentina – l’intenso calore trasmesso dal suo palmo, la ruvidezza dei calli incerottati –, la strinse e la attirò a sé, rubandole un sussulto di sorpresa.

Attraverso il velo di lacrime, «Oh?», Valentina si riavvicinò alla figura di Bruno, come un’onda che viene richiamata dal suo mare.

La scura mano di Bruno le toccò la guancia, la fece ansimare, e lei sentì quel contatto scaricare una scossa calda e benefica che discese il petto squagliando il nodo che le impediva di prendere fiato, di respirare, e che poi risalì accendendo una luce di gioia nei suoi occhi umidi e ancora traballanti di confusione.

Le dita di Bruno si intrecciarono alle sue, strinsero la presa con cui l’aveva trattenuta, ma senza farle alcun male, e la mano che lui le aveva posato sulla guancia scivolò dietro l’orecchio, sprofondò fra i capelli e le fece posare il capo sul suo petto.

L’abbraccio si chiuse ed evocò una fiamma, un palpito di vita che bruciò fino alle stelle.

Valentina aprì le labbra sulla camicia di Bruno e gettò un ansimo gutturale, sentendo quella vertigine spalancare un vuoto che le fece ballare le ginocchia. Tremò. Strizzò le dita sulla camicia di Bruno per non sentirsi precipitare e schiacciò la guancia sul suo petto magro e ossuto, sfiorando con le labbra il freddo di un bottone. Soffiò fuori il fiato finalmente libero. Il suo cuore si sgonfiò di ogni tensione, batté lento, in pace, come se avesse trovato la sua culla di bambagia.

Abbracciata da quella pace e da quella sicurezza, da quelle braccia magroline ma salde attorno alla sua schiena, Valentina chiuse gli occhi, inspirò il profumo di Bruno, e si lasciò risucchiare dovunque lui l’avrebbe condotta.

Fra i suoi piedi sbocciò un campo di lavanda che, sospinto da una tiepida brezza marina, le dondolò fra le caviglie, cospargendo il suo forte profumo. Il profumo di Bruno era del tutto differente da quello degli altri ragazzi, persino da quello di Massimo che Valentina aveva abbracciato poco prima. Anche Massimo profumava di mare, ma la sua era una freschezza muschiata, come quella che trasuda dai campi e dagli orticelli. L’aroma familiare degli abiti vecchi ma puliti, della cucina casereccia dove si affettano pomodori e si sminuzzano ciuffi di prezzemolo ed erba cipollina. Bruno non aveva nulla di tutto questo. Bruno era una pura sorsata di mare, del suo vento freddo e salato che ti brucia le labbra e ti infiamma le narici.

Strano però che Bruno sapesse così tanto di mare, lui che diceva di aver paura dell’acqua e che quindi non poteva aver mai fatto il bagno in spiaggia e che sicuramente non andava nemmeno ad arrampicarsi sugli scogli.

Ma la carezza del mare raggiunse anche i piedi di Valentina, la spuma risalì le gambe, si ritirò lasciando che fosse il sole del Sud Italia a infuocarle la pelle. Dietro il suo orecchio, gli schianti delle onde morsicavano la spiaggia d’oro che contrastava con l’azzurro turchese di un mare senza confine, e Valentina seppe che quella era la pace.

Si appoggiò con l’altra guancia al petto di Bruno, spostò l’orecchio, raggiunse il battito del cuore che sembrava un eco del suo. Sorrise beata. Dopo una settimana trascorsa a ingoiare amari singhiozzi di ansia, a compiere ogni passo sentendo la tensione bruciare sulle spalle e sotto i piedi, ritrovò la pace lì fra quelle braccia che non l’avevano mai stretta in quel modo, nemmeno per acchiapparla al volo dopo i salti dal muretto o per proteggerla dalle sassate dei prepotenti.

Bruno inspirò, e inspirando strinse l’abbraccio attorno a Valentina, fece correre le ruvide punte delle dita fra i suoi capelli, lungo il collo, fin dove nascevano le ciocche più corte e soffici. Le sue labbra le sfiorarono la guancia, sussurrarono parole tiepide. «Quello che io e te stiamo facendo non è una buona idea, Tina.» La sua voce era un rauco eco del mare, quello che ululava dentro le grotte di scogliera durante le burrasche. O la voce di una conchiglia, quando la appoggi all’orecchio e lei ti trasporta in riva al mare, davanti alle onde che si accavallano e che si rompono una dopo l’altra. Bruno intrecciò una mano ai capelli di Valentina, la aprì dietro la nuca, e fu un tocco che, nonostante i brividi, le fece bene, la sostenne placando il ronzio delle vertigini. «E se tu non sarai abbastanza coraggiosa da lasciarmi andare poi nemmeno io sarò in grado di farlo, e così non avremo scampo tutti e due. Pensa alla tua vita, alla tua famiglia e ai tuoi amici. Sul serio vale la pena rischiare di perdere tutto per qualcuno che conosci a malapena?»

Valentina – guancia e orecchio ancora premuti sul petto di Bruno, sul basso vibrare della sua voce – riaprì gli occhi e abbandonò la spiaggia scaldata dal sole, il profumo del campo di lavanda, l’azzurro delle onde, tornando lì dove doveva essere. Inghiottì, sentendo la bocca secca, e raccolse un respiro tremante per riuscire a cacciare fuori la voce. «Non m’importa.» Strizzò i pugni sulla camicia di Bruno, scosse la testa assecondando la testardaggine di quella voce dentro di lei che le gridava di non lasciare andare quel ragazzo per nessuna ragione al mondo. «Non m’importa di quello che potranno dire in paese, e non m’importa nemmeno quello che potranno pensare di me e di noi. Non ho alcuna intenzione di rinunciare a te.»

Bruno annuì, e Valentina sentì lo sfregarsi del suo mento fra i capelli. «Potresti, sì.» Allentò l’abbraccio per potersi staccare e affrontarla a viso aperto. «Ma tu lo vorresti, Tina?» Un fascio di Luna gli scivolò sulla guancia, inspessì le ombre del suo volto, annacquò l’oscurità dei suoi occhi. «Ti starebbe bene cominciare ad affezionarti a me pur sapendo che un giorno potrei andarmene da Portorosso?»

Valentina scosse di nuovo la testa con ferocia, i capelli a dondolarle sulle guance bollenti. Proprio non riusciva a capirlo. «Perché dobbiamo pensarci già adesso?» protestò. «Perché dobbiamo comportarci come se tu dovessi andartene già domani?» Questa volta fu lei a stringergli la mano fra le sue. «Io non ti ho ancora perso, Bruno. Anzi…» Un improvviso e caldo fiotto di imbarazzo la fece ridacchiare. Gli occhi bassi e d’improvviso timidi. «A dirla tutta temo di non averti nemmeno conquistato.»

«Invece sì.» Bruno ricambiò il sorriso, e il suo fu un sorriso così dolce e sereno, come se avesse scoperto nella sola presenza di Valentina la pace che aveva perduto o che gli era stata negata. «Mi hai conquistato dal primo momento in cui ti ho guardata negli occhi.» Sfilò la mano dalle sue e le scostò una ciocca spettinata dalla guancia. Fu un gesto così fluido e delicato, nonostante la ruvidezza delle sue dita nodose e incerottate. «E dal primo momento in cui tu hai guardato oltre quello che tutti si soffermano.»

Valentina avrebbe dovuto sentirsi lusingata – chi mai le aveva rivolto una simile dichiarazione? –, eppure non ebbe tempo di compiacersi, così addolorata dalla tristezza che si era dipinta negli occhi di Bruno durante quella confessione. «E su cos’è che si soffermano?»

«Lo sai.» Bruno strinse le spalle, si grattò la testa. «Su di me» sospirò. «Su come sono e su come non sono. Su come mi comporto e su come non mi comporto.» Sollevò lo sguardo verso la scogliera brulla e frastagliata che si rovesciava nel mare. Le luci della lontana Corniglia incastonate fra le curve dei colli, quelle più vicine di Portorosso, del suo monte e del suo porto. Davanti a quella luce, il profilo di Bruno tornò in ombra. Lo circondò un sudario di solitudine. «Sul fatto che non potrò mai fare parte di questo mondo, per quanto mi sforzi di adattarmi.»

Valentina lo capì. O, almeno, credette di capirlo. La raggiunse l’eco di quelle parole cattive che chissà quante volte avevano perseguitato il povero Bruno, “Tornatene a casa, terrone, qui non ti vogliamo”.

«E se si trattasse di fare parte del mio di mondo?» Valentina gli raccolse le mani. «Mio soltanto.» Fu una presa salda che avrebbe dovuto trasmettergli tutta la sicurezza di cui aveva bisogno. «Dimentica Portorosso, dimentica il tuo lavoro, e dimentica il fatto che siamo nati in due mondi differenti che si rifiutano di capirsi. Se si trattasse di stare con me, tu…» Si alzò sulle punte fino a sentire male ai piedi. Gli occhi lucidi di speranza. «Tu vorresti rimanere?»

Bruno posò lo sguardo sulle loro mani ancora giunte. Non si sottrasse alla stretta che le avvolgeva. «Tu mi vorresti assieme a te?» Strinse le dita, si lasciò catturare dagli occhi di Valentina che, nonostante l’oscurità della notte, splendevano del verde più cristallino. «Nel tuo mondo?»

«Sì.»

«Perché, Tina?»

«Perché anche tu…» Valentina inspirò a fondo. Lasciò che quelle parole scivolassero fra le sue labbra senza incertezza. Nemmeno uno sbuffo di timore a contaminarle il cuore che batteva libero e gioioso. «Anche tu hai sempre guardato oltre, fin dal primo momento in cui ci siamo incontrati. Tu dici che è una cattiva idea rimanere assieme perché la gente ci ostacolerà, o ci giudicherà male, ma io non ho paura. È come se tu mi facessi credere in un coraggio che non so nemmeno di avere.»

La fronte di Bruno si contrasse in una ruga di amarezza. Lui scosse il capo, inasprì la voce. «Non c’è proprio niente di coraggioso in uno come me.»

«Perché dici così?»

«Perché ho sempre avuto la tendenza a scappare.» Bruno sfilò le mani da quelle di Valentina. Si piegò sotto il ramo di un pino marittimo che cresceva rigoglioso sulla via terrazzata, e tornò a poggiarsi con i gomiti sulla cinta di pietra affacciata al mare. «Se qualcosa mi fa paura, non mi fermo ad affrontarla. Scappo e basta, com’è successo domenica scorsa davanti alla fontana. Scappo sempre dalle mie paure perché forse non c’è mai stato nulla che realmente mi abbia dato il coraggio di rimanere, nulla di così importante da trattenermi.» Si grattò un braccio. Nascose quella vergogna voltando il capo dall’altra parte. «O forse solo perché sono un codardo di natura.»

«Non sei un codardo, Bruno» gli disse Valentina, addolorata dal fatto che lui provasse qualcosa di simile nei confronti di se stesso. «E non c’è neanche niente di male ad avere un po’ di paura. Però mi devi lo stesso fare una promessa.» Gli tornò affianco, anche lei lasciandosi circondare dal profumo dei pini e da quello dei timi e dei corbezzoli che crescevano nei giardini vicini. «Che non scapperai più da me com’è successo domenica scorsa, d’accordo? Se avremo un problema lo risolveremo assieme. Se avrai paura io ti aiuterò ad affrontarla e ti proteggerò. Qualunque cosa succederà, noi rimarremo assieme e non ci abbandoneremo.» Fece scivolare la mano fino alla sua. «Questo puoi farlo?» Gliela sfiorò, risalì il tepore della sua pelle ruvida. Accennò un sorriso. «Per me?»

Bruno le sorrise di rimando, annuì. «Posso, sì.» Carezzò la mano di Valentina, evocò la scintilla di una scossa che spalancò un battito del cuore più caldo e luminoso, una fiaccola nella notte. «Perché se ci sei tu, sento che non c’è niente che possa farmi del male. Sento che potrei affrontare qualsiasi paura.» Le si accostò, e le loro spalle si toccarono, accesero di nuovo il calore di quella fiamma più calda del sole del Sud Italia da cui proveniva. Bruno fece scivolare il dorso della mano sulla guancia di Valentina – Valentina dovette mordersi la bocca per contenere un mugugno di piacere –, e le carezzò la curva del viso, dal mento allo zigomo, dove cadevano le ciocche in disordine. «Anche la più pericolosa.» Socchiuse le palpebre, si pizzicò le labbra scosse da un tremolio, e accostò la fronte a quella di Valentina, raggiungendola con il suo respiro tiepido, lo sfiorare del naso.

Il cuore di Valentina si strinse, singhiozzò di gioia e fremette di anticipazione, gridò di desiderio spalancandosi verso quegli occhi grigi e socchiusi, verso quelle labbra che stavano per raggiungere le sue. La solleticò un brivido, una ridacchiata da bambina dispettosa che voleva ancora giocare. «Però…» Valentina scivolò distante dal tocco di Bruno, gli volteggiò attorno compiendo una mezza piroetta, e giocò a farsi inseguire come una ninfa che saltella fra i rami del bosco. «Alla faccia delle galanterie.» Raccolse un lembo della gonna e saltò a sedere sul muretto. Gomiti sulle ginocchia, guanciotte rosse chiuse fra i pugni, i piedini dondolanti. «Hai lasciato che fosse una signorina a porgerti una dichiarazione d’amore, invece che farti avanti per primo.»

Bruno sbatacchiò le palpebre, ancora stordito dal lampeggio blu sfarfallato dalla gonna di Valentina nell’istante in cui lei gli aveva volteggiato attorno. Scosse la testa e si prese la fronte, paonazzo anche lui, stordito dopo essere stato strappato così all’improvviso dalla speranza di quel bacio che non era riuscito a cogliere. Lo sguardo di un bambino che chiude le mani attorno a una farfalla che poi gli svolazza sotto il naso, fuggendo verso un altro fiore. Ridacchiò. «Mi dispiace» le disse. «Ma in tutta onestà non ti facevo così all’antica.» Si appoggiò di schiena al muretto, affianco a lei. Le strizzò l’occhiolino. «Una ragazza scavezzacollo come te…»

«Ma la galanteria non passa mai di moda.» Valentina si posò la mano sul petto e sollevò il mento atteggiandosi da gran dama. «Nemmeno per le ragazze scavezzacollo come me.»

Risero assieme, e sprigionando la calda allegria di quella risata tornarono a incrociare gli sguardi sotto l’argento della Luna e il blu della notte. Valentina trattenne il fiato, sentendosi di nuovo sprofondare in quel mare in cui l’ovale ondeggiante della Luna si specchiava. Quel mare che apparteneva al cuore di Bruno e che ora, forse, avrebbe cominciato ad appartenere pure a lei.

Un fischio spiccò il volo alle loro spalle, li svegliò dal sogno, e fece voltare entrambi verso il bacino di mare abbracciato dai fianchi della scogliera. Un botto raggiunse il picco del cielo notturno e spalancò l’esplosione di un soffione di luce gialla che si specchiò nell’acqua del porto, colorando le pendici del monte e le case del paesino arrampicato sul promontorio. Grida di esultanza provenienti dalla piazza di Portorosso accompagnarono la pioggia crepitante del primo fuoco d’artificio a cui seguirono altri fischi, altri botti, altri soffioni verdi, bianchi e rossi che proiettarono la loro luce anche negli occhioni spalancati di Valentina.

«I fuochi?» Valentina batté le mani e rimbalzò per la sorpresa. «Oh» esclamò. «Mezzanotte!» Piegò le gambe sul muretto, scivolò fino a Bruno, e si aggrappò alle sue spalle. Lo scosse e gli indicò i colori che si alternavano nel cielo. «È mezzanotte, Bruno, hai visto?»

Bruno sollevò una mano davanti alla fronte e sorrise davanti a uno scoppio di luce che gli colorò le guance di blu. «Con la Luna piena, per giunta.»

Valentina rise. «Sì.» Tese anche lei la mano verso la Luna bianca e perfetta, verso un altro fischio a cui seguì l’esplosione di una bolla di luce verde. «È bellissima, vero?»

«Sì.» Bruno accostò una mano al viso di Valentina, alla sua pelle colorata dal verde e dal rosso dei fuochi artificiali che continuavano a scoppiare e a sfrigolare nell’alto della volta celeste. Fece scivolare le nocche sul profilo della sua guancia, le scostò una disordinata ciocca di capelli che cadeva sull’angolo delle sue labbra. Le sorrise. Gli occhi scuri bagnati da una luce di incanto e devozione. Occhi in cui si specchiavano le infinite galassie di stelle che quella notte luccicavano anche sulla superficie del mare, rendendolo vasto e profondo come un secondo cielo notturno. «Bellissima.»

Sfiorata da quel contatto, Valentina ansimò e chiuse gli occhi, si morse l’interno del labbro succhiando il mugugno di piacere suscitato dal calore di quel tocco così semplice e gentile. Sovrappose la mano a quella di Bruno, la raccolse, si fece carezzare, lo sfiorò con le labbra, respirò nella ruvidezza del suo palmo duro di calli, socchiuse gli occhi isolandosi dallo scoppiare dei fuochi d’artificio, dalle voci distanti che esultavano dalla piazza del paese, e venne raggiunta dal battito rapidissimo del suo cuore. Incapace di resistergli, Valentina si allacciò a quel suono, si lasciò trascinare fino alla sua origine, fino alla sua anima, fino a quel bacio che ora poteva finalmente spalancarsi e sprigionare il suo caldo scoppio di luce.

Valentina spinse le labbra su quelle di Bruno, sottili ma calde. Urtò la punta del suo naso – il dondolio di un ricciolo a sfiorargli la fronte –, e inspirò venendo raggiunta e risucchiata dal profumo di lui, dagli scrosci della spuma di mare, dal fischio del vento che erode gli scogli, dal frusciare dei campi di lavanda e rosmarino, dalla durezza della terra nera bruciata dal sole estivo che scotta sotto i piedi nudi.

Chiuse gli occhi e mosse le labbra, schiuse il bocciolo di quel bacio e, guidata da un selvaggio impulso di audacia, fece scivolare la lingua nel sapore di Bruno, incontrando l’asprezza della salsedine, una dolcezza piccante come quella della menta o del succo dei limoni. Il suo cuore s’infuocò, fiorì come una rosa e riempì di luce e di profumo il giardino della sua anima, dissetandola.

La bocca di Bruno irrigidì e lui rispose al bacio. Strinse le braccia attorno ai fianchi di Valentina, la attirò a sé strappandole un gemito che lui divorò succhiandole le labbra e battendo le ciglia sulle sue.

Tremando, percependo quella forte scarica di brividi sciogliersi nello stomaco e ribollire in fondo al cuore così gonfio e ansimante, Valentina soffrì un violento capogiro che la costrinse ad aggrapparsi alle spalle di Bruno per non sentirsi cadere dal muretto.

Come dopo un tuffo nel mare, Valentina fece scivolare le labbra da quelle di Bruno, separò il bacio con uno schiocco umido, riemerse dalla bolla di luce che li aveva avvolti, e ingoiò una sorsata d’aria che la rinfrescò tambureggiando al ritmo del suo cuore.

Una bruciante vampata di emozione le infuocò le guance, scalpitò in fondo al suo petto, scottando sulla bocca che serbava ancora il dolcissimo e fresco sapore di quel bacio, il primo della sua vita.

Bruno era così bello avvolto dalle ombre bluastre della notte. Le sue braccia salde e sicure attorno ai fianchi tremanti di Valentina. Gli occhi scuri ardevano di desiderio. Le luci variopinte dei fuochi d’artificio, come fiori che sbocciano uno dopo l’altro, si riflettevano nell’oscurità del suo sguardo stupito e commosso, spalancato su quella magia che li aveva appena uniti.

Valentina posò la mano sulla sua guancia magra e caldissima. Le labbra di Bruno erano ancora così vicine, vibravano come le sue, a corto di fiato, e Valentina sentì il petto protestare per quella mancanza d’aria, per quel vuoto improvviso. Sentì la sua anima reclamare quel vento di mare, quell’aria speziata, e gridare di volere ancora più fiato, ancora più labbra, ancora più baci – ancora, ancora, baciami ancora e non smettere più.

Valentina si aggrappò a Bruno sprofondando con le dita fra i suoi riccioli, e fu come spalancare le mani attraversando la distesa di un campo fiorito profumato dal sole, dalle erbe selvatiche, e dal mare che bagnava la spiaggia su cui ora Valentina correva a piedi nudi, come da bambina. Onde di acqua tiepida si infrangevano spruzzando fra le sue caviglie, spirali di vento si spalancavano attorno alla sua corsa agitandole i capelli e le frange della gonna, facendola ridere di una gioia senza freni e senza confini. Lo baciò di nuovo, spalmandosi sulla freschezza delle sue labbra umide, e quel bacio spalancò uno squarcio di luce nell’oscurità dell’oceano più profondo, placò gli ululati della tempesta e diradò le nuvole, lavando l’azzurro del cielo.

La Luna piena bruciava su di loro come il più splendente dei soli.

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Capitolo 18
*** Dunque era vero – Atto I ***


N.d.A.

Anno nuovo… e nuovo arco narrativo!

Trascorriamo assieme un 2024 ricco di emozioni e colpi di scena. ʚ(˃ ᵕ ˂ )ɞ


 

Dunque era vero – Atto I

 

 

Valentina strinse entrambi i pugni sul manico dell’ombrello, lo inclinò in avanti in modo che la sbieca raffica di pioggia rimbalzasse sul telo, invece che inondarle le spalle e la schiena, e accelerò la corsa controvento schiaffeggiando sotto le suole il torrente d’acqua che scivolava seguendo la pendenza della stradina in discesa. Fredde gocce grosse e dure come ghiaia le colpirono le caviglie, le sporcarono l’orlo della gonna sventolante, e finirono spremute all’interno degli stivaletti fradici – squish, squish, squish! –, facendola rabbrividire fino alle ossa.

Valentina ansimò, sfiancata dallo sforzo della corsa, rallentata dal bruciore dei polpacci e del petto, graffiata dalle unghiate di freddo che le grattavano la gola e il naso, e soffocata dalle bianche nuvolette di condensa che a ogni falcata sbuffava fra le labbra umide e tremanti. Senza smettere di correre, sbirciò da sotto l’ombrello gocciolante, socchiuse le palpebre per inquadrare il termine della stradina che conduceva al retro del Gabbiano d’Argento. Al di là del grigio e lucente velo di pioggia, la lampada appesa alla parete traballava come una fiaccola nella nebbia, illuminava il retro dell’osteria, la nicchia che racchiudeva la porticina attorniata dalle cassette dell’ortofrutta, dalle vecchie giare di olio e di vino, e da un paio di seggiole rotte buone solo come legna da ardere.

Anche le finestre dell’osteria brillavano della stessa fosca luce ambrata spanta dalla lanterna. L’angolino di una tenda sventolò, tornò ad appiattirsi sull’interno della finestra, e l’ombra che l’aveva mossa scomparve, raggiunse anch’essa il retro del locale. Angelo aprì la porticina, si tenne riparato sotto il portico, al di sopra dei gradini, e spalancò il braccio per far cenno a Valentina di spicciarsi, di accelerare la corsa. «Corri, corri, sbrigati!»

Valentina abbracciò la saggezza di quel consiglio e allungò falcate più rapide che pestarono zampilli d’acqua sulla pietra già bagnata. Strinse un ringhio fra i denti, stritolò le mani attorno all’impugnatura dell’ombrello e gonfiò i muscoli delle braccia per non sentirselo strappare dalla presa. Il vento le ululò una zaffata in faccia. La pioggia gocciolò dalle ciglia e dai capelli, le riempì le labbra di un aspro e freddo sapore di ferro, picchiò sulle dita e spanse abbondanti rigagnoli che gocciolarono fra le nocche e lungo il manico dell’ombrello.

Raggiunta l’osteria, scese i tre gradini che conducevano alla porta sul retro, abbassò l’ombrello gocciolante e lo richiuse non appena varcata la soglia, giusto in tempo per farsi avvolgere dall’asciugamano che Angelo le aveva immediatamente buttato sulle spalle.

«Vieni, vieni» le fece lui. «Entra, prima di beccarti un…»

«Etchù

«… accidenti.»

Dopo lo starnuto, Valentina tirò su un risucchio dal naso gocciolante, «Stupidissima pioggia», e si lasciò strofinare la schiena e i capelli dall’asciugamano con cui Angelo l’aveva circondata. Profumava di bucato, del sapone grezzo con cui lavavano anche i grembiuli e le tovaglie.

Un violento brivido le scosse le braccia, discese i pugni, e fece tremolare anche l’ombrello che Valentina stava ancora stringendo fra le dita bagnate. Scivolando dalla punta e gocciolando dagli orli della sua gonna, dalle suole degli stivaletti inzuppati, l’acqua piovana si raccolse in una pozza e si allargò attorno ai suoi piedi. Soffriggendo di frustrazione, Valentina gettò l’ombrello in un angolo dello sgabuzzino, contro le damigiane e i sacchi di farina. «Stupidissimo e inutilissimo ombrello!» Raccolse l’asciugamano dalle mani di Angelo e finì di strofinarsi da sola, frizionando per bene attorno al collo e dietro le orecchie.

Angelo compì un passo indietro e si portò le mani ai fianchi, piegò la testa e si concesse una manciata di secondi per studiare l’immagine di Valentina da sotto le sopracciglia increspate. «Ti sei fatta la strada a piedi da casa tua?» le domandò. «Con questo diluvio? Perché non sei venuta in bici? Saresti andata più veloce e ti saresti bevuta un po’ meno pioggia.»

Valentina si diede un’ultima energica strofinata ai capelli. Dopo un ennesimo starnuto con successivo risucchio di fiato dal naso, il suo faccino rosso di freddo sbucò da sotto l’angolo dell’asciugamano ancora penzolante sulla sua testa. «E come faccio a tenere l’ombrello, andando in bici?»

Angelo strinse le spalle. «Giusto anche questo.» Tenne accesa la luce del piccolo corridoio e, reggendole la schiena ingobbita dai tremiti, guidò Valentina fuori dal retro.

Raggiunsero entrambi il tepore della cucina che precedeva la sala da pranzo. Non c’era nessuno, oltre che il profumo del latte e del caffè che avevano scaldato per colazione, più una pentola a pressione che stava ribollendo e gorgogliando sui fornelli, spandendo un buon odore di zuppa all’orzo e verdure che avrebbero servito per pranzo assieme ai crostini di pane. Sul tavolo della cucina, era preparato il ripiano di legno su cui Angelo aveva già cominciato a mescolare farina e pan grattato per preparare la panatura con cui avrebbe rivestito le sogliole al burro da cuocere in padella.

«Finisci di asciugarti, prima di metterti al lavoro.» Angelo si riallacciò il grembiule in vita, arrotolò le maniche fino ai gomiti. «Per ora non c’è bisogno di aiuto in cucina, quindi puoi cominciare con le camere, e poi dà una pulita ai tavoli prima di mezzogiorno, dato che… ah! No, aspetta.» Indicò uno degli armadietti, il cassetto più basso. «Tira fuori un paio di zerbini, quelli infilati nel cassetto della dispensa sotto le tovaglie, e mettili in ingresso.» Spinse le spalle all’indietro, buttò un’occhiata all’anticamera, e si grattò dietro l’orecchio stropicciando una smorfia perplessa. «Non oso immaginare il macello che verrà fuori quando tutti rientreranno per il pranzo.»

Valentina fece ciondolare il capo in avanti e assecondò quel brontolio di demoralizzazione. «Non oso nemmeno io.» Ma osava eccome. E, osando immaginarlo, nella sua testa si susseguirono una carrellata di immagini ritraenti quel pantano di fango e pioggia schiaffeggiato dagli scarponi dei braccianti, dagli stivali dei pescatori che sarebbero entrati in osteria slacciandosi i pastrani gocciolanti e sfilandosi i berretti fradici per bersi un cicchetto dopo il lavoro. Bagnati tutti come se fossero cascati dalla barca. Tutta l’acqua da asciugare, sulle seggiole e sui pavimenti, per non parlare delle impronte fangose che li avrebbero seguiti salendo fino alle camere.

E chissà quante altre volte succederà, dato che la stagione delle piogge è appena cominciata.

Sforzandosi di non suonare troppo lagnosa di mattina buon’ora, Valentina si sfilò l’asciugamano di dosso, strinse il fiocchetto senza riuscire comunque a mettere in ordine i capelli così umidi e arruffati, diede una scrollata alla gonna, e andò ad affacciarsi alla finestra che dava sulla stradina inondata. Il suo pallido broncio si specchiò sul vetro annacquato. «Non è giusto» sbuffò, fiatando sulla finestra un velo di condensa che successivamente pulì con una manata. Dietro quel gesto, Portorosso in tutta la sua grigia desolazione. Un mantello d’autunno era già scivolato sui tetti del paese, basso e fuligginoso come una cappa di nebbia. Le sue lacrime di pioggia scurivano le facciate delle case e velavano le alture delle viti terrazzate di cui quella mattina non si scorgevano le cime. Il respiro di brina faceva rabbrividire gli alberi, scuoteva le prime foglie secche spogliando i rami degli alberi, spandeva odori di fumo, di cenere, di terra bagnata e indurita, che sopprimevano quelli più dolci di un’estate che ormai era già un ricordo. «Perché non può essere estate tutto l’anno?» Valentina si allontanò dalla finestra. Combattendo il malumore, si rimboccò anche lei le maniche e si mise al lavoro. Tornò in cucina, si inginocchiò per frugare nei cassetti in cerca degli zerbini asciutti. «Ha cominciato a piovere solo una settimana fa e io sono già stufa.»

Angelo scosse la testa. «Ne avrai ancora un bel po’ da lagnarti.» Aggiunse dell’altra farina nella ciotola dove la stava mescolando assieme al pan grattato. Ci spolverò sopra anche una generosa dose di sale. «Alla radio dicono che andrà avanti così fino a fine mese. Bisogna aspettare che cambi la Luna, lo sai. Ha cominciato a piovere quando c’era la Luna piena, quindi è ovvio che adesso continuerà fino a quella nuova.»

«Oh, uffa.»

«Altro che uffa.» Strofinandosi una grattata sul mento – uno sbuffo di farina rimase a imbiancargli la barba – Angelo rivolse uno sguardo più grave fuori dalla finestra. Uno sguardo che si tese ben oltre i gradini che risalivano il carruggio, ben oltre le grate delle terrazze deserte e i tetti delle case arrampicate sul colle. «Anche alla buon’ora, direi. Hai visto che disastro, le vigne? Ormai quest’annata ce la siamo giocata, da’ retta a me.»

Valentina rise, cogliendo certamente una scintilla di ironia, e pestò il piedino sul tappeto appena deposto per appiattirne le curve e le grinze. «E meno male che gli stagionali si sono fermati apposta qualche settimana in più per darci una mano con la vendemmia.»

«E a proposito di questo, Tina…» Dopo essersi ripulito dalla farina rigirando le mani sul grembiule, Angelo guidò Valentina fino a un cantuccio della cucina, le porse un fazzoletto dentro cui infagottò dei biscotti, poi usò un ramaiolo per versare il caffellatte avanzato in una tazza che coprì con un piattino capovolto. «Fammi un favore, prima di cominciare le faccende…» Le fece chiudere le mani attorno alla tazza per evitare che si rovesciasse. «Porta questo a Bruno nella sua camera.»

Il pensiero di Bruno di primo mattino, da dolce e burroso proprio come il profumo dei biscotti infagottati, «Di sopra?», diventò amaro e stomachevole come quello del caffè cattivo, lasciato ristagnare nei suoi fondi neri e sabbiosi. «Ma, aspetta, Bruno non…» Non è uscito per il lavoro? Di nuovo? «È ancora malato?» Le scivolò addosso un brivido. Un cupo e fitto moto di apprensione che era più freddo e sgradevole di tutta la pioggia che Valentina aveva dovuto attraversare per correre fino all’osteria.

Angelo annuì, si strofinò una nocca sotto i baffi e soffiò uno sbuffo che gli infittì un’ombra attorno alle grinze delle palpebre. «Un malanno stagionale, sembrerebbe.» Si mise a braccia conserte, guardò verso l’alto, verso il soffitto che li separava dalle camere da letto, e tambureggiò un piede a terra. «Gli avevamo proposto di far venire il medico, di farsi visitare, ma si è rifiutato. Dice che è normale. Che gli passerà. Che gli succede sempre con l’arrivo del freddo e della pioggia. È sensibile ai cambi di stagione, a quanto pare.»

Valentina rabbrividì, nonostante il tepore della tazza avvolta fra le mani. «Oh…» Volse anche lei lo sguardo verso l’alto. Gli occhi umettati da una tristezza grigia e inconsolabile come il cielo che stava lacrimando fuori dalle finestre. Era da una settimana che Bruno si era ammalato, da quando erano cominciati i giorni di pioggia. Una settimana trascorsa potendosi vedere e salutare solo sulla soglia della camera. Una settimana in cui Valentina si era sentita ancora più prigioniera di lui, tarpata dietro un muro che le impediva di raggiungerlo, di abbracciarlo forte, di carezzargli quel suo viso ruvido, bruciato da sole e dall’aria di mare, sollevandogli le guance che era sicura sarebbe riuscita a far arrossire, a far sorridere come quando si divertiva a fargli il solletico al naso, a giocherellare con i suoi riccioli. Per farlo sentire meglio, gli avrebbe fatto poggiare il capo sul grembo, o sul petto. Lo avrebbe ricoperto di baci per lenire tutto quel dolore che lo tormentava e da cui lei avrebbe voluto liberarlo. Bruno…

Angelo sollevò un sopracciglio cisposo, intercettò quel baluginio di dolore luccicato in fondo allo sguardo di Valentina. Sospirando, le aprì una mano sulla schiena e la incoraggiò a prendere le scale. «Vai, vai, va’ da lui…» Un minuscolo sorrisino d’intesa. «Magari sono altre le visite di cui Bruno ha bisogno per rimettersi in sesto.»

Valentina sorrise, assecondò ben volentieri l’incoraggiamento. Attraversò la sala da pranzo che aveva cominciato a popolarsi – solo un paio di clienti, facce anonime chine sulle loro tazze e sui piattini di pane imburrato –, reggendo la colazione fra le mani e guardando verso le scale che la separavano da Bruno. Salendo il primo gradino, lo sguardo sempre fisso sull’oscurità che la attendeva al termine delle scale, sentì cadere su di sé il freddo peso della loro lontananza, di tutta quella pioggia che li divideva e che, dietro la sua nebbia, sembrava nascondere segreti inconfessabili. Camminò ancora, lo scricchiolio delle scale e il tintinnante traballare della tazza ad accompagnare ogni suo passo, e venne punta da un altro brivido, questa volta sulla nuca, penetrante come un ago. Lo riconobbe. Era quella vocina interiore che lei tante volte decideva di ignorare e che invece adesso le bisbigliava all’orecchio di voltarsi, di scendere le scale e di allontanarsi dal pericolo che la attendeva al piano di sopra, dietro una porticina che – guai a lei! – le conveniva non aprire.

 

♡♡♡

 

«Bruno?» Tina dovette destreggiarsi per non far cadere la colazione. Fece scivolare la tazza coperta nella stessa mano con cui reggeva il fagotto di biscotti, e usò quella libera per bussare alla porta di Bruno. Ma fece piano. Soffici tocchi di nocche, senza troppa insistenza, nel caso lui fosse stato ancora a letto a riposare. «Bruno, sei sveglio? Ti ho portato un po’ di colazione.»

Dietro la porta, un fruscio delle lenzuola e lo scricchiolare di molle che cigolavano, forse perché Bruno si era scostato la coperta di dosso e si era alzato dal letto. «A…» L’inconfondibile asprezza della sua voce ovattata dalle pareti della camera da letto. «Arrivo.» I suoi passi strusciarono fino alla porta. La maniglia scattò e l’anta stridette aprendo uno spiraglio.

In quella fioca striscia di luce si allungò l’ombra di Bruno, si materializzò la sua sagoma sottile, la camicia abbottonata male che cadeva larga attorno alle spalle ricurve, i riccioli scompigliati a incorniciare il grigio pallore del viso in cui erano incastonati un paio di occhi foschi e cerchiati di nero. Occhi polverosi che sembravano aver assorbito tutta la pioggia che batteva sul vetro della sua camera. Occhi che comunque, anche se solo per un istante, si ravvivarono nell’incontrare lo sguardo di Valentina, il suo viso amico nella penombra. Le sottili labbra di Bruno, screpolate dallo stesso malessere che gli aveva sciupato le guance, vibrarono e si curvarono in un sorriso piccino ma dolce. «Tina.»

Valentina ricambiò il sorriso, e fu un gesto che la colmò di pace, che scacciò l’ombra di ogni timore e la voce di qualsiasi brutto presentimento. Si diede della sciocca per essersi fatta raggiungere in primo luogo da quell’antipatico sibilo di paura. Cosa ci sarebbe stato da temere nei confronti di Bruno, poi? «Sei vivo, allora.» Gli porse il fazzoletto con i biscotti, la tazza bollente coperta dal piattino. «Angelo mi ha detto di portarti questa. È un po’ di colazione, così ti tieni in forze.»

Bruno stirò la fronte, socchiuse gli occhi come se fosse rimasto accecato da un lampo improvviso. «Ah.» Usò le nocche per stropicciarsi le palpebre. «Certo» mormorò. «Grazie.» Raccolse la colazione dalle mani di Valentina, si girò tenendosi stretto nelle spalle che, così larghe e ossute, gli davano rifugio, e tornò a infilarsi nella semioscurità della camera da letto attenuata solo dal tiepido riverbero della lampada a olio la cui fiamma traballava sul suo comodino. «Ringrazia anche Angelo da parte mia.» Poggiò tutto sul ripiano. Si infilò il maglione pesante sopra la camicia e sistemò le coperte che erano scivolate verso il pavimento. «Mi dispiace non poter nemmeno scendere per la cena, ma…» Si attraversò la faccia con un massaggio sprimacciato prima alla radice del naso e poi, a piccoli movimenti circolari, sul gonfiore delle palpebre. «Be’, temo di non essere in gran forma, ultimamente.» Rivolse uno sguardo amareggiato, pieno di risentimento, alla finestra inondata da quel grigio torrente senza fine. «Tutta questa pioggia…»

Valentina annuì, intrecciò le dita e grattò le pellicine attorno alle unghie per tenersi indaffarata con le mani ancora calde dopo essere state avvolte attorno alla tazza bollente. «Sarà sicuramente un malanno di stagione.»

«Sì» soffiò Bruno. «Mi capita spesso. Sono…» Sgranchì un pugno, lo accostò alla bocca e si girò per tossicchiare, «Sensibile all’umidità», lasciandosi scomparire dietro la disordinata caduta dei riccioli.

Valentina sorvolò quella sensazione che le era passata attraverso, simile al bisbiglio che l’aveva raggiunta durante la salita delle scale. Quel freddo spiffero di disagio trasmesso dal gesto di Bruno, quel suo rifugiarsi stando di schiena, come se lo avesse fatto per nasconderle qualcosa. «E se venisse il dottore a visitarti?» Si addentrò nella camera da letto. Profumava di cedro, di cera per legno, dell’olio che bruciava nella lampada, delle sfere di naftalina infilate nei cassetti del guardaroba. «Potrebbe darti qualcosa. Uno sciroppo o…»

«Non cambierebbe molto» la smontò Bruno. «Non sono tipo da…» Strinse le spalle, creandosi attorno un guscio ancora più rigido, e si grattò il braccio su cui ciondolava la manica del maglione. «Un tipo da medicine.» Volgendosi di nuovo alla finestra coperta a metà dalla saracinesca abbassata – il rumore della pioggia grandinava facendone vibrare i riflessi acquosi e ondeggianti –, il suo sguardo si distese in una fioca espressione speranzosa. «Speriamo solo che torni fuori un po’ di sole.»

Valentina si morse il labbro. Proprio non avrebbe voluto dargli quella delusione. «Dicono che pioverà per tutto il mese.»

«Già.» Bruno lasciò cadere la fronte sul vetro, schiacciato dal peso di una disgrazia grande quanto la sua stessa esistenza. La pioggia che rigava la finestra si riflesse nelle profondità dei suoi occhi grigi, fece scivolare una colata di ombre lungo le guance, dando l’impressione che il cielo gli stesse piangendo addosso. «Fra tutti i guai che potevano succedermi…» Un lungo sospiro gli ammosciò le spalle. «E proprio adesso che c’è da lavorare per la vendemmia e l’imbottigliamento del vino.»

Valentina si stupì di sentirglielo dire. «Non ti preoccupare per quello.» Scostò la seggiola vicino al guardaroba, l’unico mobile che occupava la stanza, oltre al letto e al comodino. La giacca di Bruno era appesa con un appendiabiti di ferro a una delle ante, e Valentina si sforzò di non guardarla per schivare la raffica di pensieri che le suscitava. Si fece invece più vicina a Bruno, sospinta dalla scossa che le aveva trasmesso quella paura, la peggiore. Il timore di saperlo lontano. «In fondo è solo lavoro. La salute è più importante del lavoro. E gli altri capiranno se non puoi uscire ad aiutarli.»

«Ma se io non lavoro non posso nemmeno tenermi in salute.» Bruno si lasciò scivolare lontano dalla finestra, dal suo liquido bagliore grigio. «Se non lavoro non vengo pagato. E se non vengo pagato…» Sedette sul letto facendo cigolare il materasso sotto il suo peso. Le mani sprimacciarono il cuscino contro l’arco della testiera, lisciarono le lenzuola sgualcite, la coperta di lana a quadri. Si guardò attorno – le pareti spoglie, eccezion fatta per il quadro di una Madonnina che teneva le mani giunte – con quella faccia che sapeva già di addio, il muso di un cane randagio che si ritrova di nuovo a vagare per strada, ad annusare le ombre dei vicoli in cerca di riparo. Guardò anche la tazza di caffellatte e il fagotto di biscotti. Nei suoi occhi, l’abisso di fame appartenente a un ragazzo che sapeva che presto quel cibo avrebbe potuto non essere così generoso. «Non passerà molto tempo prima che mi caccino.»

Valentina ingoiò l’acre sapore di una botta di panico che le aveva asciugato la bocca e raggelato le guance. La colse una vertigine, il vuoto senso di perdita che provava nell’immaginare la sua vita senza più Bruno affianco. «Ti aiuterei io.» Andò a sedersi anche lei sul letto, nonostante Bruno stesse ancora tenendo lo sguardo voltato. «Posso aiutarti io, finché non ti sarai rimesso in sesto e sarai di nuovo in grado di lavorare. Sono abbastanza parsimoniosa, sai? Ho dei…»

«Non potrei mai chiederti una cosa simile» la interruppe lui. Il tono cupo e intransigente, come nell’atto di difendersi da un’offesa neanche troppo velata. «Non sarei mai in grado di accettare.»

«E se tu venissi a stare da me?»

Bruno accostò una mano alla bocca, soffiò una risata che gli gonfiò le guance e gli ridonò il buonumore. «Da te?» Allontanò i riccioli ciondolati sulla fronte, e finalmente portò gli occhi alla luce, carezzato di profilo dal tepore della lampada che gli imbruniva i tratti del viso, rendendo il suo sguardo più caldo. «Mi raccoglieresti come un gattino randagio…» Sfiorò la guancia di Valentina, le scostò una ciocca dietro l’orecchio. «E mi faresti dormire su un cuscino ai piedi del tuo letto?»

Valentina socchiuse le ciglia, rabbrividì di piacere quando il tocco di Bruno le carezzò l’arco dell’orecchio, spandendo una tiepida scia lungo il collo. Stirò le labbra in un sorriso ebbro e inebetito. «Lo farei di sicuro. Anche se…» Si accostò di più a lui, al suo tocco, come un assetato si tenderebbe verso il fresco getto di una fontana. Le spalle unite, le mani vicine sulla coperta di lana, la sua voce sussurrata attraverso lo scrosciare dell’acqua che batteva sulla finestra. «Non saresti costretto a startene sotto il letto.» E proprio ora si trovavano sul letto della camera di Bruno dove si erano appartati tante volte durante l’estate. Percependo la vicinanza dei loro corpi, il calore della mano che sfiorava la sua, la scia di brividi a ribollire sulla pelle come il bruciore del sole, Valentina riconobbe lo sprigionarsi di quel desiderio che le galoppava nel cuore, quella voglia matta che, nonostante i baci e le carezze, rimaneva sempre insoddisfatta, come un buco nello stomaco che nemmeno cento gelati o mille piatti di pasta riuscivano a saziare.

Stringendo i denti sul labbro inferiore che fremeva di desiderio, affamato di baci, Valentina adagiò la tempia sulla spalla di Bruno, dove il suo profumo nascosto era più intenso, così vicino alla sottile e nuda curva del collo. La mano scivolò sulla sua, divaricò le dita per intrecciarle, sfregò sul ruvido delle nocche nodose e ossute.

Bruno respirò a fondo, raccolse e si avvolse di tutta quella tensione che gli impietrì la schiena. Strizzò i pugni sulla coperta e raggiunse Valentina posandole la fronte sui capelli. Il calore delle sue labbra accostato alla guancia. Il respiro che, scivolando dietro l’arco dell’orecchio, bruciava fino alla base del collo.

Valentina arricciò la bocca che teneva ancora morsicata, ingoiò un mugugno che cadde nel petto e che le accese le guance di rosso. Fece scivolare la mano sul polso di Bruno, risalì il braccio, la stoffa ruvida del maglione, la spigolosità della spalla, sprofondò sotto i riccioli e gli avvolse il tepore del collo, infilandosi nel rifugio di quel profumo che ora riusciva a riconoscere, che la dissetava come un sorso di limonata in un giorno di agosto, come un tuffo nel mare nel pomeriggio più assolato. Le labbra posate sull’angolo della sua bocca, solo uno spazio minuscolo a separarle, la vicinanza di un battito, di un respiro.

Bruno socchiuse la bocca che, tremando, si abbeverò di quel respiro, per poi tornare a girarsi, ad allontanarsi da Valentina sottraendosi al tocco di quella carezza che era quasi riuscita a sbriciolare la corazza. «S-scusa» gemette. «Forse…» Strusciò a sedere più lontano, fino all’angolino del letto, proprio davanti al traballare della lampada che accentuava le ombre intagliate sulle spigolosità del suo viso e sui misteri del suo sguardo. Strinse le gambe. Sollevò la spallina del maglione per nascondere l’invitante sporgenza del collo, la sua pelle modellata nel bronzo. «Forse non dovremmo. Rischio di contagiarti, sai, e non vorrei…»

«Oh.» Valentina si riprese dal rossore schiaffeggiandosi le guance che sentiva pulsare e racchiudere il martellio del cuore saltato in bocca. Si rimise composta, sventolò il nastrino lontano dalla fronte, lisciò la camicetta dell’abito facendo cadere la chiavetta sui bottoni che nemmeno il Buon Senso sarebbe stato capace di tenere chiusi a lungo, e si rimproverò per essere stata così insensibile. «Certo.» Il cigolio del letto che molleggiava sotto il suo peso ora la mise in imbarazzo. «Scusami, non volevo forzarti. È solo…»

«Va tutto bene.» Bruno si prese la fronte, sfregò le mani sotto i capelli per massaggiarsi le tempie. «Non hai nulla da scusarti, lo giuro.» La guardò con quegli occhi dolci e tristi che, per quanto poveri, sarebbero stati capaci di regalarle il mondo intero. «Manchi anche a me, sai, Tina.»

Zampilli di gioia cinguettarono dal cuore di Valentina, le colmarono il petto di un’aura dorata che sembrò asciugare tutta la pioggia come se un nuovo sole estivo fosse sorto a irradiare il cielo di Portorosso. «E a me manchi ancora di più.» Si allungò ad abbracciarlo, e da quell’abbraccio sbocciò un bacio che lei gli posò sulla guancia e che Bruno toccò subito, forse per conservarne il calore. «Ora mangia qualcosa e poi fai ancora un po’ di nanna» disse Valentina. «Devi guarire presto.» Doveva guarire presto perché il profumo dei suoi capelli non era più quello del vento soleggiato, della salsedine e dei campi di lavanda e rosmarino, della terra aperta alla luce. Avevano l’odore del cuscino, delle lenzuola pesanti appena cambiate, dei pasti stantii che Bruno consumava lì in camera, senza nemmeno scendere in sala da pranzo. Il profumo era sbiadito dalla sua pelle come la luce era sbiadita dai suoi occhi. «Così puoi tornare a lavorare e guadagnare tanti soldi e comprarmi un castello fatto di panna e gelato.»

Sospirando, apparendo ancora più fragile fra le forti braccia di Valentina, Bruno fece scivolare il viso sulla sua spalla, adagiò la guancia nell’incavo del collo, accolse l’affetto di quelle carezze lasciando che si portassero via tutto il buio, tutto il dolore che gli schiacciava il petto. «E i coni di cialda al posto delle torri.»

«Geniale.» Di controvoglia, Valentina dovette sciogliere l’abbraccio, privarsi di quel calore, e tornare alla porta. Sulla soglia, prima di addentrarsi nel corridoio, sventolò un ultimo saluto già pregno di nostalgia. «Ciao, Bruno.»

Anche lui la salutò con la mano. Il riflesso della pioggia a cadere dalla finestra e ad annacquare la sua sottile figura ingobbita sul bordo del letto dove vi sarebbe rimasto per chissà ancora quanto.

Valentina scese le scale, tornò al lavoro rallegrata dal canto del cuore che pigolò ancora qualche cinguettio di gioia prima di appassire, avvizzito come un fiorellino inondato dalla prima tempesta autunnale. Le rimase addosso quel cruccio di cui si faceva inevitabilmente peso ogni volta in cui era costretta a separarsi da Bruno, a lasciarlo in balia di quell’oscura solitudine che nemmeno il suo affetto era in grado di lenire e consolare.

 

♡♡♡

 

Fine della giornata di lavoro, fine delle faccende e delle pulizie, ma ancora niente fine della pioggia che continuava imperterrita a scrosciare sui tetti di Portorosso e a innaffiare le finestre dell’osteria, abbondante come se il mare stesso fosse sorto dal bacino del porto e si fosse rovesciato sulle stradine del paese con la stessa prepotenza di un’alta marea. Portava con sé il freddo odore del ferro delle grondaie, del fumo dei comignoli accesi, e della salsedine di cui erano imbevute le pareti delle case.

Valentina spazzò via le briciole di pane dal tavolo della sala da pranzo che aveva appena finito di sparecchiare. Strizzò fra i pugni lo straccio umido e lo strofinò sulle chiazze di vino che stavano già cominciando ad asciugarsi. Doveva sbrigarsi a pulirle prima che diventassero troppo appiccicose.

Senza smettere di grattare il panno sul tavolo, guidata da un desiderio che le aveva dato il prurito per tutta la giornata, fece scivolare lo sguardo alle sue spalle, verso le scale che portavano al piano di sopra. Sospirando, Valentina abbracciò la speranza di vedere Bruno scendere i gradini in quel preciso istante, circondato da un’aura di luce e benessere tanto splendente da abbagliare gli ospiti che ancora occupavano la sala da pranzo, invece che saperlo soffocato da quella nube di tenebra che lo teneva prigioniero da quando si era ammalato.

Due pescatori seduti allo stesso tavolo all’angolo si riempirono un altro bicchiere di vino a testa, facendo squillare il vetro e lasciando zampillare qualche goccia color prugna sulla superficie di legno laccato. Chiacchieravano fra un sorso e l’altro, incuranti del baccano che la pioggia battente mitragliava sui vetri delle finestre. «… non me ne parlare, ieri ci ho litigato tutto il giorno e solo a ripensarci mi viene il mal di testa. Ma sai com’è quando s’impunta, non c’è stato verso di fargli cambiare idea. Si è già sistemato, a quanto pare. Ha fatto tutto da solo. Bah», «E tua moglie cos’ha detto? Ci è rimasta male?», «E come vuoi che ci sia rimasta? Dopo vent’anni che…» Seduto da solo al tavolo affianco, il vecchio Sergio strinse fra le dita tremanti il suo bicchierino di grappa, ne buttò giù un sorso che gli fece tremare il mento e strizzare le rughe graffiate attorno alle palpebre. Volse alla finestra lo sguardo umido e vacillante. Occhi abbacinati, giallognoli e collosi, che assorbirono il caldo tremolare delle luci riflesse sull’oscurità del vetro inondato dal torrente d’acqua che ogni tanto faceva brontolare il cielo, mescolando le crepe delle sue nuvole tanto basse da inghiottire i profili delle case adiacenti.

Valentina sistemò le seggiole attorno al tavolo che aveva appena finito di pulire. Si spostò su quello più vicino, impilò i piatti sporchi che avevano lasciato gli ospiti, li dispose sul vassoio assieme alle posate e alla cesta del pane vuota, e anche lì cominciò a strofinare il panno umido, insistendo su una macchia di sugo di pomodoro che faceva un po’ di attrito ogni volta che ci passava lo straccio sopra. Un altro sospiro le appesantì il cuore e le ingrigì le guance. I suoi occhi tristi e scuri come il cielo fuori dalle finestre. Continuò a fissare le scale, a proiettarsi al piano di sopra, a desiderare di tornare da Bruno per poterlo abbracciare, magari donandogli del sollievo facendogli posare il capo sul grembo e carezzargli i riccioli fra un bacio e l’altro.

Magari potrei anche portargli un piatto di minestra. Quella lo farebbe sentire meglio di sicuro.

Angelo passò affianco a Valentina grattando la scopa sul pavimento e spingendo polvere e briciole dentro la pattumiera che reggeva sottobraccio. Le parlò senza accorgersi del suo sguardo assente e distratto. «… qui in sala da pranzo e poi puoi anche andare a casa. Secondo me però ti conviene aspettare che finisca di piovere almeno un po’, altrimenti rischi di arrivare a casa fradicia. Oggi non sei venuta in bici, no? Se vuoi…»

Ma Valentina non lo stava a sentire. Un unico pensiero a occuparle la testa e a isolarla da qualsiasi altra voce. Forse potrei davvero tornare su da lui, sì. Perché era solo il pensiero di Bruno a parlarle. Solo il ricordo di quegli occhi tormentati che aveva scorto in lui quella stessa mattina, quando era salita a portargli la colazione. Davvero gli occhi umidi e addolorati di un piccolo ammalato, ma non solo. Scavando nel loro profondo, osservandoli mentre fuggivano alla vista della pioggia battente e della finestra inondata dall’acquazzone, Valentina vi aveva letto qualcos’altro. Un timore, o forse un presagio, che le aveva trasmesso un brivido più freddo e viscido di tutte le gocce di pioggia che le erano cadute addosso durante la corsa per raggiungere la porta dell’osteria. Lo stesso brivido che si prova davanti alla furia di una burrasca, durante quell’attimo sospeso in cui il mare si ritira per gonfiare un’onda che poi andrà a schiantarsi sugli scogli, risucchiando chiunque possa venire travolto dalla sua sberla.

Sospirando e inghiottendo il dolore di quel vuoto, Valentina provò proprio qualcosa di simile: la sensazione che Bruno stesse per venire strappato dalle sue mani, rubato dalla forza di un’onda anomala, dalla ferocia del mare di cui lui aveva tanta paura.

«… ma non ci sarà troppo lavoro, quindi se vuoi puoi anche prenderti la mattinata libe – Tina?» Angelo diede un’ultima spazzata a terra, si appoggiò sul manico della scopa, e flesse il capo per raggiungere lo sguardo sfuggente di Valentina. «Mi ascolti, sì o no?»

Valentina ansimò. «Che…» Lo straccio le cadde dalle mani, si afflosciò sul punto del tavolo ripulito dalla chiazza di pomodoro ormai scomparsa. Valentina scosse il capo e si stropicciò gli occhi stanchi, affaticati dalla nebbia di quella giornata bigia e dal peso di tutti quei pensieri brontoloni. «Che cosa?» Schiuse le palpebre appannate e tornò sotto le luci tiepide dei lampadari ancora accesi, avvolta dal profumo pepato degli ultimi piatti di pesce impanato che lei stessa aveva servito per cena. Davanti a lei, il profilo di Angelo la stava ancora squadrando di sbieco, con sospetto e apprensione. «S-scusa, Angelo, non…» Andava tutto bene, era al sicuro. Si trovava al Gabbiano, all’asciutto e al caldo, non in mezzo a una tempesta di mare, a subire le frustate di vento e gli schiaffi delle onde. Andava tutto bene. «Non ti ho sentito.»

Angelo sospirò, senza stupirsene più di tanto. «Ti ho chiesto se volevi fermarti qua ancora per un po’ prima di tornare a casa.» Raccolse scopa e pattumiera e accennò al tempaccio fuori dalle finestre. «Aspetta almeno che piova un po’ di meno, sennò con questo acquazzone rischi di ammalarti pure tu.»

«Ah.» Valentina si grattò una tempia, sperando con quel gesto di diradare il groviglio di pensieri. «Sì, forse…» Sollevò un sorriso stentato, freddo e nebbioso come il suo sguardo. «Forse è una buona idea.»

Angelo annuì. «In cucina è avanzato un po’ del latte e cacao che ho preparato stamattina. Te ne scaldo una tazza, vuoi?»

Valentina sospirò. «Grazie.» E in effetti qualcosa di dolce era proprio quello che ci voleva per superare l’amaro incontro di quella mattina con Bruno. Qualcosa di caldo per sciogliere i brividi di freddo che non avevano mai smesso di formicolare sotto i vestiti, viscidi e pungenti come le gocce di pioggia che tambureggiavano sui tetti e le finestre di tutto il paese.

Dopo aver ripiegato lo straccio, dopo aver riportato vassoio e bicchieri in cucina, dopo essersi slacciata il grembiule e dopo aver accettato la tazza di cioccolata calda dalle mani di Angelo, Valentina andò a sedersi in sala da pranzo. Scelse il tavolo sistemato nell’angolino di solito occupato da Bruno, quello illuminato dal paralume a forma di conchiglia, quello circondato dai quadretti di pesca appesi alla parete. La finestra affacciata ai gradini del carruggio dove di solito i gattini del porto si radunavano in attesa che qualcuno offrisse loro gli avanzi del pranzo o qualche lisca di pesce. Ma nemmeno un gattino nei paraggi, quella sera. La pioggia li teneva lontani. Tutta quella pioggia che, colando sulla finestra e facendo ondeggiare il suo riflesso bluastro sulle pareti della sala, sembrava gocciolare anche dalla tempera dei quadri. Lo scrosciare dell’acquazzone si mescolava all’interno delle cornici, scuoteva i cieli annuvolati, crepitava sulle creste delle onde sfumate di bianco e di grigio, gonfiava le pennellate di colore che schizzavano fuori dai dipinti, si rovesciava sulle barche e sui pescatori che le navigavano, bagnava le loro facce contorte dall’orrore, dalla visione di quel mare nero e spalancato come la bocca di un mostro abissale.

Valentina rigirò la tazza fra le mani infreddolite e arrossate dai calli del lavoro. Stropicciò le dita scottate dal calore della ceramica, tornò a raccogliere la tazza per il manico, e soffiò sulla superficie della cioccolata, sparpagliando la nuvoletta di vapore che le inumidì le guance e il naso. Bevve un sorso, fece schioccare la lingua, arricciò la bocca in una smorfia delusa. Per quanto calda fosse, la cioccolata non era né dolce né buona quanto sperava.

Forse perché manca qualcosa di fondamentale…

Sospirò e posò la tazza. Stringendosi le spalle in un abbraccio solitario, sopprimendo un brivido, si accorse di quanto il suo cuore soffrisse la mancanza di Bruno. Le mancava il suo profumo, le mancava posare la guancia sul suo petto e farsi carezzare i capelli da quelle mani sottili e ruvide. Le mancava il brivido di anticipazione che la elettrizzava ogni sera, prima della chiusura dell’osteria, quando i pescatori cominciavano a posare i bicchieri, a raccogliere giacche e berretti per raggiungere la porta, quando Valentina sapeva che in sala sarebbero rimasti solo lei, e Bruno, e le chiacchiere e i sorrisi che si sarebbero rivolti sedendosi a quello stesso tavolo, fra quelle stesse pareti che ora non riuscivano a trattenere nemmeno un raggio di luce.

Le mancava il profumo del caffè zuccherato. Le mancava la musica del grammofono, il singhiozzare dei dischi più vecchi e consumati. Le mancava quell’espressione d’estasi che ogni tanto si dipingeva sul viso di Bruno quando le sue orecchie si tendevano verso le canzoni più tragiche e malinconiche. Quel modo che Bruno aveva di chiudere gli occhi, di flettere le sopracciglia verso l’alto, e di trattenere il respiro come se una mano fosse sprofondata a stringergli il cuore, come se quella musica avesse racchiuso il potere di trascinarlo in una corrente di ricordi simile al calore di un abbraccio.

Anche Valentina chiuse gli occhi, inspirò il profumo tostato della cioccolata calda, più dolce rispetto a quello del caffè. Ripensando con nostalgia a quelle serate estive, canticchiò a bocca chiusa la melodia di O mio babbino caro, quella che era rimasta la loro canzone, sua e di Bruno. Si sentì diventare triste ed estraniata come lo era diventato Bruno la prima sera in cui l’avevano ascoltata assieme, e il ricordo fu così forte e penetrante da farle male al cuore.

«Rischi di ammalarti pure tu.»

Nel sentirsi rivolgere la parola, Valentina riaprì gli occhi, cadde dai ricordi, e venne accolta dalla luce bassa e tiepida delle pareti, dal battere incessante della pioggia sulla finestra, e dal profumo di pomodoro e brodo di pesce che fumava dagli ultimi piatti della cena serviti da dietro il bancone della cucina. Si girò interrogando con lo sguardo il pescatore che le aveva appena parlato, che aveva ripetuto la stessa frase di Angelo, anche se pronunciandola con un tono ben più acido e ostile.

Il pescatore, uno dei due seduti al tavolo affianco a quello del vecchio Sergio, posò il suo bicchiere di vino mezzo vuoto, pescò un grissino dalla cesta del pane e strappò un morso croccante. Accennò al piano di sopra con un’alzata del mento. «Tu e il tuo ragazzino.» Strofinò una nocca sotto i baffi per ripulirsi dalle briciole. «Strano che non vi siate ammalati assieme, con tutto il tempo in cui siete stati appiccicati.»

L’altro annuì. Pigiò una fetta di pane nel suo piatto e fece scarpetta nella salsa di pomodoro avanzata dalla sua porzione di stoccafisso. «Anche troppo, a dire la verità.»

«Vedi, Tina, dovresti cogliere l’occasione per…» Il pescatore finì di sgranocchiare il suo grissino al sale. «Tornare a prendere le distanze da lui.» Strinse le spalle in un gesto rassegnato. «Sennò chissà quali schifezze rischia di attaccarti.»

Valentina premette le mani attorno alla tazza di cioccolata, senza curarsi della ceramica bollente che le scottava la pelle, e corrugò la fronte facendosi nera in volto. «Io non mi ammalo mai.» Ed era vero, lei aveva sempre goduto di una salute di ferro, fin da neonata. Non un raffreddore, né una febbre, né un’influenza. Nemmeno una di quelle brutte tonsilliti che costringevano i suoi compagni di classe a letto per tre settimane di fila.

Soffiò sulla sua tazza e sorseggiò dell’altra cioccolata. Amarissima. Aggiunse un altro abbondante cucchiaino di zucchero che sparse qualche grano sul piattino, ma nemmeno quello riuscì ad addolcire le sorsate che seguirono. «E vedrete che presto anche Bruno tornerà nel pieno delle forze.»

«Nel pieno delle forze?» Il pescatore si tuffò in bocca il suo boccone di pane inzuppato di salsa al pomodoro. Sospirò. «Bah, staremo proprio a vedere.»

«Io onestamente dubito che quel ragazzo sia mai stato nel pieno delle forze.» L’altro volse lo sguardo alle scale, all’ombra che si infittiva sui gradini più alti e nascosti. «Così gracilino, così…» Alzò un sopracciglio. «Cagionevole…»

Il petto di Valentina bruciò d’indignazione. «Ma non lo è affatto» esclamò lei. «È solo…» Ma anche Valentina fu costretta ad affrontare il ricordo dell’aspetto sciupato che Bruno aveva mostrato proprio quella stessa mattina. La sua pelle ingrigita come le nuvole autunnali che si erano sparpagliate su tutta Portorosso, i suoi occhi nebbiosi come il cielo annacquato dalla pioggia, quella sua espressione bigia e triste che rifletteva tutto il maltempo che si stava rovesciando sul mare freddo e ingrossato dal diluvio costante. «Si è solo preso un’influenza, ecco tutto.»

«O un mal di lavoro.» Il pescatore raccolse la brocca di vino per riempire il suo bicchiere e quello del compare. «Ecco cosa si è preso sul serio.»

«Cosa vuoi aspettarti da quelli come lui?» L’altro scosse la testa. La faccia raggrinzita da un’espressione contrariata, da ramanzina. «Buoni a nulla. Buoni solo a darci problemi.» Accostò il bicchiere alle labbra e arruffò i baffi, affilò la lingua. «Questi ter…»

«Smettetela!» Valentina picchiò la tazza sul sul tavolo. Una goccia di cioccolata schizzò fuori, bruciò cadendole sul dorso della mano, ma lei nemmeno se ne accorse. Nessuna fiamma era più incandescente di quella sprigionata dalla rabbia che le ardeva in petto come un tizzone.

«Oh, non prendertela troppo a cuore, Tina.» Il pescatore posò il bicchiere e ammorbidì il tono di voce. La fredda ramanzina diventò una paternale. «E soprattutto cerca di non prendertela troppo a cuore quando Bruno se ne andrà.»

La bocca di Valentina cadde aperta, si lasciò sfuggire un gemito. «A…» Un brivido le conficcò in petto una scheggia di gelo. «Andare?» Un freddo alito di paura soffiò sotto i vestititi, strinse la sua pancia in un nodo di panico, oscurò il suo sguardo gettandole addosso quell’ombra che lei aveva sempre percepito alle sue spalle, silenziosa ma inesorabile come l’arrivo dell’autunno. «E perché mai dovrebbe andarsene?»

«Perché è uno stagionale.» Il pescatore alzò il mento e rivolse un cenno fuori dalla finestra annacquata. «E la pioggia se lo porterà via.»

«E soprattutto perché qui non c’è posto per gli scansafatiche» disse l’altro. «Comincia ad abituarti all’idea di non rivederlo in giro, Tina, credi a noi.»

Su Valentina franarono le parole che suo padre le aveva rivolto all’inizio dell’estate, quando aveva cominciato a notare i suoi occhioni sognanti posati sul misterioso straniero, quando l’aveva vista tornare a casa accompagnata da Bruno, quando li aveva sorpresi abbracciati fuori dalla porta, persi l’uno nello sguardo dell’altra.

È uno stagionale, Tina.” Gli occhi di Eros si erano addolciti, avevano condiviso quel dispiacere. “Non vorrei che ti affezionassi a Bruno più del necessario. E non vorrei che poi tu soffrissi nel separarti da lui, a stagione finita.”

Persino Angelo le aveva detto qualcosa di simile. “A lavoro finito lui se ne andrà da Portorosso e tu ti ritroverai con in mano solo un pugno di mosche e un cuore spezzato. Sei una brava e cara ragazza. Meriti di più di così.”

Durante l’estate, Valentina nemmeno ci pensava. Aveva evitato di farlo. L’arrivo della stagione fredda le era sembrato un tempo così remoto. Credeva che sarebbe bastato scacciare il pensiero di una partenza di Bruno per impedire che accadesse, e invece ora si ritrovava a sbatterci il naso contro. La crudele violenza di un muro comparso senza preavviso dietro la curva di una strada. Valentina non seppe se sentirsi più irritata o spaventata da quelle parole, perché ormai rinunciare a Bruno non era più un’opzione. Pensava che sarebbe stato più facile dire addio a Portorosso che dire addio a Bruno. Se si fosse trattato di scegliere, se si fosse trattato di doverlo seguire fin dove lo avrebbe trascinato la tempesta

Se la pioggia se lo porterà via…

«Con la pioggia…» A un gorgoglio delle nuvole e a una zaffata di pioggia crollata sulle finestre, seguì un brontolio del vecchio Sergio che fece voltare Valentina verso il tavolo dov’era seduto. Gli occhi lucidi, chini sul bicchiere di grappa che reggeva fra le dita grinzose e tremanti. Le guance chiazzate di rosso, il mento traballante, la bocca impastata dal fiato caldo di alcol. «I mostri marini…» Sergio singhiozzò, bevve un altro sorso di grappa che gli arrochì la voce. «I mostri marini escono con la pioggia. Vengono fuori dal mare solo quando piove, perché…» Picchiò il bicchiere sul tavolo e annuì a se stesso. Gli occhi abbacinati fissi su un punto del tavolo sporcato dalle briciole della sua cena. «Perché se c’è il sole non sono più mostri marini.»

Valentina riconobbe quelle farfugliate che aveva udito tante volte uscire dalla bocca del vecchio. Chissà per quale motivo ora le fu impossibile ignorarle.

Sergio torse un braccio dietro di sé, strizzò un paio di volte la mano a vuoto prima di riuscire a recuperare la giacca gettata sullo schienale della seggiola. «I mostri marini sono mostri marini solo se…» Si alzò, barcollò, tornò a cadere seduto, e sbatacchiò l’unico braccio che era riuscito a infilare nella manica della giacca. «Solo se nuotano nel mare. Poi salgono sulla barca e diventano umani.»

Valentina rabbrividì, le guance ghiacciate e un la pelle d’oca lungo le braccia. Assurdo. Aveva sentito quella storia e quelle fandonie tante di quelle volte che persino lei sarebbe stata capace di ripetere il racconto per intrattenere gli ospiti dell’osteria. Allora perché adesso la sconvolgeva tanto?

Aspre risate di scherno crepitarono dal tavolo dei due pescatori, gli unici ospiti rimasti in tutta la sala da pranzo. «Sta’ attento a tornare a casa, allora.»

Si scambiarono una sgomitata di complicità. «Con tutta questa pioggia chissà quanti mostri marini salteranno fuori per sgranocchiarti.»

«Oppure sarai proprio tu a trasformarsi in un mostro marino, Sergio

Risero ancora, e l’eco di quelle stolte risate rimbalzò fino alle orecchie di Sergio, accese le sue guance di un rosso cupo come tutto il vino che era stato servito durante il pasto. «Voi…» Il vecchio tornò a rimbalzare in piedi, ma un altro capogiro lo fece barcollare e sbattere sullo spigolo del tavolo. «Voi non sapete quello che dite!» Compì un passo, inciampò sui suoi stessi piedi, sventolò la mano da sotto la manica della giacca infilata solo per metà. «Se solo…»

«Buono, buono, Sergio.» Angelo lo acchiappò al volo prima di vederlo finire con il naso per terra, lo calmò strofinandogli una soffice pacca sulla schiena. «Hai esagerato anche stasera, vero? Cosa devo fare con te?»

Una stretta di compassione afflisse il cuore di Valentina. Proprio non ce la fece a rimanere lì a guardare, così si alzò e andò anche lei ad aiutare. «Tutto bene?»

Angelo annuì. Raccolse l’altra manica della giacca di Sergio e lo aiutò a finire di indossarla. «Forse è meglio se lo riaccompagno a casa io, sennò rischiamo di trovarlo sul fondo di un tombino.»

Sergio grugnì e lo spinse via. «Fandonie!»

Valentina scosse la testa, si abbandonò a un sospiro. «Fai il bravo, Sergio, su. Ecco…» Lo aiutò ad abbottonare la giacca e gli rimboccò il colletto. «Copriti bene e vai a casa a riposare al caldo e all’asciutto. Domani mattina sarai come nuovo, vedrai. E magari avrà anche smesso di piovere.»

Sergio ingoiò un altro singhiozzo che odorava di grappa alla prugna. Incrociò le gambe nel tentativo di un passo, dondolò fra le braccia di Angelo, allungò una mano e sembrò che con quel gesto volesse aggrapparsi al tavolo. Invece afferrò Valentina per il polso. Una presa forte e fredda, ruvida di calli e pungente come le sue vecchie ossa sporgenti. Una presa che non le lasciò scampo. «Devi stare attenta.»

Di nuovo quel freddo spasmo penetrò il petto di Valentina, le gelò il sangue e la lasciò pietrificata. Quelle parole pesarono, non erano il farneticamento di un vecchietto un po’ brillo. Sergio si stava riferendo a lei. «Co-cosa?»

Sergio torse le labbra sotto i baffi. «Con la pioggia…» Strinse la presa tremante con cui si era aggrappato al polso di Valentina. Le unghie ruvide penetrarono la carne, le vene bluastre pulsarono sotto la pelle sottile e raggrinzita come carta. «I mostri marini vengono fuori con la pioggia.» Tirò su la faccia. Gli occhi rossi, sporgenti, scintillarono incassati nella ragnatela di rughe che ramificava dagli angoli delle palpebre, animati da una scintilla di follia che brillò nel nero delle pupille. «Devi stare attenta ai mostri marini, perché quando non c’è la pioggia noi non ci accorgiamo che esistono.»

Valentina trattenne il fiato. Bianca in volto, ingoiò quel singhiozzo di paura che le soffocò i battiti del cuore. Strinse il pugno, indurì la spalla e tirò indietro il braccio, ma il polso rimase intrappolato fra le dita rachitiche di Sergio. Quella resistenza inaspettatamente forte le trasmise una scossa di terrore che bruciò come uno schiaffo in pieno viso. Quello scherzo non le piacque più. Non sembrò più uno scherzo.

Angelo spinse via Sergio reggendolo per le spalle ricurve. «Su, Sergio, adesso basta» gli disse. «Ti accompagno a casa, altrimenti la pioggia farà uscire il mostro del raffreddore anziché il mostro marino.»

Sergio brontolò sotto i baffi, ma alla fine mollò il polso di Valentina, ammosciò la tensione della schiena, e si lasciò condurre verso la porta senza ulteriori proteste.

Prima di uscire, Angelo rivolse un ultimo cenno d’intesa a Valentina. «Lo accompagno a casa.» Si infilò anche lui il cappotto e recuperò l’ombrello dall’angolino dell’anticamera. «Non ci metterò molto. Tu rimani qui a dare un’occhiata, d’accordo? Così quando torno puoi andare a casa anche tu.»

Valentina sbatacchiò gli occhi, soffiò fuori il fiato che aveva trattenuto e che cominciava a bruciarle in fondo al petto, e annuì apatica, senza nemmeno rendersi conto di quello che Angelo le aveva appena detto. Si massaggiò il polso sul quale sentiva essere rimasto impresso il freddo bracciale di quella presa che l’aveva avvolta e trascinata nel buio di quella visione da incubo – i mostri marini vengono fuori con la pioggia. Batté ancora le palpebre e forzò la vista a rischiarirsi, a rintracciare un ordine nel nugolo di confusione attraverso cui le era impossibile vedere, perché fitto come quella nera cappa di nuvole temporalesche che da una settimana stavano annaffiando i tetti e le strade di Portorosso. “Devi stare attenta ai mostri marini, perché quando non c’è la pioggia noi non ci accorgiamo che esistono.”

Dopo che Angelo e il vecchio Sergio se ne andarono dall’osteria, nella sala da pranzo scese un nebbioso velo di quiete. Solo le chiacchiere costanti, ma basse e distanti, dei due pescatori, più lo stridere di un cucchiaio che raschiava il fondo della scodella e lo sbriciolarsi di un tozzo di pane che veniva spezzato per raccogliere gli avanzi di sugo. Tutti suoni che il rumore della pioggia così fitta non faceva fatica a coprire.

Valentina tornò al suo tavolo, alla sua cioccolata ormai non più tanto calda. Avvolse le mani attorno alla tazza, fece tamburellare le dita, si morse il labbro e rifletté. Rifletté sulle parole del vecchio Sergio, su quell’ombra di paura che era scesa su Bruno da quando erano cominciati i giorni di pioggia. I brividi che la assalirono furono gli stessi di cui era già stata vittima quella domenica estiva, il giorno dell’incidente della fontana, quando aveva rischiato di perdere Bruno, quando lo aveva visto cadere, rimpicciolirsi sotto l’ombra della statua del pescatore, annaspare di terrore dopo aver schivato gli zampilli dell’acqua, e infine fuggire senza nemmeno guardarsi indietro.

Valentina rivolse lo sguardo alla finestra, alla luce grigia che inondava le sue guance e il tavolo su cui era seduta. Pioggia battente sul vetro e sui gradini che scendevano il carruggio, la strada deserta, le terrazze senza fiori, una nebbia d’acqua a inghiottire il paesino. Sulla stessa parete della finestra, colorati dal rossiccio tepore del paralume a forma di conchiglia, i soliti quadretti di pesca che sembravano rigurgitare il rumore di tutta quell’acqua scrosciante. Valentina si sentì risucchiata nel nero di quelle onde. Si ritrovò a battere le suole sul pontile scivoloso di sangue, a sputacchiare l’acqua di mare schiaffeggiata sulla sua faccia, e ad aggrapparsi alla balaustra per non cadere sulle ginocchia, vittima delle gambe molli e tremanti di paura. Si ritrovò catapultata nel racconto del vecchio Sergio. Il racconto del suo incontro con il mostro marino.

Mostri marini che sono mostri marini solo quando nuotano nel mare.

I mostri marini esistono” aveva detto Sergio quella sera d’estate, quando tutta l’osteria aveva osservato un rispettoso silenzio per ascoltare il suo racconto, persino coloro che ormai lo sentivano da trent’anni a quella parte. “Esistono e possono trasformarsi, per questo non li riconosciamo. Mutano forma per mescolarsi ai mostri terreni come noi.”

Ma quando non c’è la pioggia sono come noi, realizzò Valentina. Per questo non ce ne accorgiamo. Mollò la presa dei denti sul labbro, prima di sentirlo sanguinare, e continuò a rimuginarci sopra rosicchiandosi l’unghia del mignolo, stropicciando la fronte in una smorfia buia di pensieri. Ma come facciamo a non accorgercene? Forse perché è la pioggia a bagnarli. In mare sono bagnati, con la pioggia sono bagnati. È l’acqua a renderli mostri marini, allora? Ma allora, quando non sono bagnati…

Era un uomo.” E, come ogni volta, negli occhi arrossati di Sergio si erano dipinti un dolore e un rimorso che nemmeno cento anni di lacrime sarebbero stati in grado di lavare dalla sua anima. “Proprio così: un uomo. Un uomo come me, come te, come lui.”

Bruno si era impressionato durante il racconto di Sergio. Tutti se n’erano accorti. Sara aveva notato la sua faccia sbiancata, Massimo aveva fiutato la sua paura arruffando i baffi e scrutandolo attraverso un cipiglio di sospetto.

Bruno ci aveva messo poco a riprendere colore e a sdrammatizzare stirando un minuscolo e fragile sorriso che gli aveva spezzato la linea delle labbra. “È solo che tutte queste storie di mostri marini e di cacce spietate in mare mi hanno proprio lasciato senza parole.” Così si era giustificato, ma intanto la sua faccia agonizzante era la stessa di un pesce boccheggiante ancora agganciato all’amo. La stessa che aveva mostrato quando aveva rischiato di bagnarsi con l’acqua della fontana. Magari proprio perché lui…

Valentina scosse la testa con forza, sentendo il dondolio dei capelli sulle guance. Si rifiutò di crederci.

No, no, che storia assurda.

Bruno si era spaventato davanti al racconto del vecchio Sergio perché già sapeva che stava parlando di un mostro marino come lui? Ma quelle erano solo leggende. Storielle di vecchi pescatori dalla mente corrosa dalla troppa acqua di mare e dai troppi bicchieri di vino.

Oppure no? continuò a domandarsi Valentina. Perché, mettendo insieme i pezzi, tutto tornerebbe.

La nebbia si diradò, il temporale si ritirò mettendo a tacere il brontolio dei tuoni e il rovesciarsi della pioggia. Scoprì un cielo quieto come la mente di Valentina che tornò limpida, tanto che le fu possibile affacciarsi a certe immagini distanti che credeva irrilevanti ma che ora assunsero un’importanza inaspettata, un significato del tutto nuovo.

Bruno aveva paura dell’acqua. Dell’acqua del mare, dell’acqua della pioggia, dell’acqua delle fontane, e non ne toccava nemmeno una goccia né davanti a Valentina né davanti a nessun altro. La evitava come il Diavolo avrebbe evitato l’acqua santa, in effetti. Anche quella volta di Pepe, poi… quel giorno in cui lo aveva carezzato dal cancello di casa, e il cagnone gli aveva leccato la mano per ringraziarlo delle coccole. Anche se distante dalla scena, Valentina aveva scorto quell’abbaglio blu baluginare sul suo palmo, dapprima scambiandolo per un’allucinazione o un gioco di luci.

Un picchiettare impaziente delle dita di Valentina sul tavolo, e i suoi pensieri volarono attraversando quella stessa sala da pranzo, raggiunsero i ricordi di quella sera che aveva già visitato ma che continuavano a venirle incontro.

E tu, Bruno?” Sara si era rivolta a Bruno con un sorriso speranzoso. Cercava sostegno. Sperava di poter contare sulla sua bontà d’animo per sconfiggere tutte quelle spietate idee di cacce ai mostri marini, di arpioni lanciati fra le onde, di mari intrisi di sangue. “Tu cosa faresti se dovessi incontrare un mostro marino?”

Bruno si era stretto nelle spalle, arricciandosi in un piccolo guscio. Si era fatto meditabondo come lo era diventato Massimo davanti alla stessa domanda, ma lui aveva anche sollevato lo sguardo verso i quadretti di pesca, come in cerca di un appiglio, di ricordi a cui aggrapparsi. “Gli chiederei cosa lo abbia spinto a uscire dal mare.”

Sara e Massimo si erano azzittiti davanti alla stranezza di quella risposta. Valentina non aveva tardato a far sentire la sua. “Con tutti i pescatori che ci sono, se uno di loro emergesse non sopravvivrebbe nemmeno un giorno senza rischiare di finire arpionato. Sarebbe un mostro marino un po’ scemo a decidere di venire proprio qui a Portorosso, con tutti i posti che ci sono al mondo.”

Già.” Bruno aveva sospirato. Aveva fatto ciondolare il capo nascondendosi sotto l’ombra di quel gesto, aveva risposto con amarezza. “Proprio il più scemo di tutti.”

Ma c’era stata anche quella giornata trascorsa a zonzo per Portorosso. Il loro primo vero appuntamento. L’agguato in cima al monte, la crudeltà con cui i ragazzi l’avevano aggredito, e il modo in cui Bruno non aveva quasi battuto ciglio davanti ai loro insulti, lasciando che fosse Valentina a sfogare tutta la sua rabbia. Bruno si era limitato ad alzare le spalle, indifferente a insulti e sassate. “So di vivere in un mondo che non mi appartiene” si era giustificato.

Un mondo che non gli apparteneva. Ma perché? Perché veniva dal Sud? Però la parlata di Bruno non era sporcata da nessun accento, da nessuna inflessione dialettale. Bruno somigliava a un ragazzo meridionale, ma non c’era nient’altro oltre il suo aspetto che lo riconducesse al Sud Italia. Forse perché non veniva dal Sud. Forse perché veniva da…

Sei emerso dagli abissi?”

Bruno si era strozzato con il boccone di patata fritta, si era agguantato la gola soffocando un tossito dopo l’altro, aveva strabuzzato lo sguardo cinereo in un’espressione allucinata. “C-c-che cos’hai detto?”

«Abissi» mormorò Valentina, nel tepore della sala da pranzo dell’osteria, senza nemmeno accorgersi di aver schiuso le labbra per lasciarvi scivolare attraverso quella parola. I mostri marini vengono dagli abissi. Escono dal mare solo quando c’è la pioggia? No. Sembra che escano dal mare solo quando piove perché è la pioggia che continua a farli sembrare mostri marini. Come i lupi mannari con la Luna piena? Ma i lupi mannari sono sempre lupi mannari, anche quando è giorno e loro hanno l’aspetto di esseri umani.

Valentina spinse in avanti i gomiti premuti sul tavolo, affondò le dita fra i capelli, spremette un massaggio sulle tempie e strizzò gli occhi, mugugnando un lamento addolorato. Le stava venendo il mal di testa. Non era da lei soffermarsi così a lungo per ragionare su un dilemma, nemmeno sui suoi conflitti interiori. Lei non pensava ai problemi, li affrontava e basta.

Forse dovrei fare così anche ora.

Valentina alzò lo sguardo verso la scalinata che conduceva al piano superiore dell’osteria. L’oscurità che si infittiva al termine dei gradini le sembrò ancora più cupa, pesta e fredda, come l’antro di una grotta marina dentro cui l’eco di un ruggito rantola affamato.

Dovrei salire da Bruno e parlargli apertamente.

Valentina si passò un’altra nervosa manata fra i capelli, arricciò l’indice attorno al nastrino, lo grattò fra i polpastrelli che cominciavano a sudare di nervosismo.

Ma come si affronta un discorso simile? Ehi, scusa, Bruno, non è che per caso sei un mostro marino? Uno di quelli che emergono dagli abissi e che passeggiano in mezzo a noi con l’aspetto di normali esseri umani? Che coincidenza che tu sia capitato proprio in un paese di pescatori che farebbero a gara per farti la pelle e appendere la tua coda al muro, eh?

Ma se Bruno fosse stato un mostro marino, se si fosse reso conto che Valentina ora conosceva il suo segreto, a quel punto cosa sarebbe successo? Si sarebbe arrabbiato? Sarebbe fuggito? Sarebbe arrivato a farle del male pur di non far trapelare quel segreto fino alle orecchie sbagliate?

Valentina deglutì. Si massaggiò la gola tremante per sciogliere il groppo pastoso di quella paura scesa a strozzarle il cuore, e tornò a fronteggiare i quadretti di pesca. Quello più vicino alla finestra, alla sua grigia tenda di acqua piovana, ritraeva un pesce-cane che saltava fuori dall’acqua infrangendo la nera superficie del mare. Il mostro spalancava le fauci e azzannava la prua di una nave da pesca, dilaniandone le assi e strappandone le vele. Uno dei pescatori veniva inghiottito dalla voragine del mare. L’altro, nonostante le braccia protese al cielo e le mani aggrappate alle cime di corda sventolanti, scivolava verso la bocca del mostro che era in procinto di divorarlo, di triturarlo come aveva appena triturato la plancia e i remi della barchetta ribaltata dalle onde e dai colpi di pinna.

Magari sarà così anche per me. Era una realtà sempre più viva nella mente di Valentina. Forse il Bruno-Umano un giorno non avrà più alcun controllo sul Bruno-Mostro-Marino che non esiterà ad azzannarmi, a trascinarmi fino in riva al mare per divorarmi il fegato.

Una paura remota e ancestrale artigliò le viscere di Valentina, strizzò la sua presa ed evocò un conato di nausea che le diede il capogiro. All’interno delle cornici, Valentina vide l’acqua del mare tingersi di un rosso cupo, accavallarsi sulle rocce e i ciottoli della spiaggia depositando lingue di alghe sbrindellate da unghiate, abiti da pescatore dilaniati da morsi. La marea si ritirava, la coda pinnata di un mostro marino disegnava una curva sulla superficie dell’acqua, scompariva ritirandosi negli abissi dove i cadaveri delle sue prede sarebbero marciti fino a diventare tutt’uno con il fondale, con i relitti delle barche sfasciate dalle sue zampate.

Per la prima volta nella sua vita, Valentina non si sentì più al sicuro in quella che era la sua casa, il suo paese. Sospettava quel terribile segreto che non poteva condividere nemmeno con Sara e con Massimo ai quali aveva sempre confidato tutto. Non poteva coinvolgerli. Bruno avrebbe potuto fare del male anche a loro.

Stringendosi ai suoi brividi, al peso di quell’angoscia, Valentina poteva solo aspettare. Poteva solo aspettare che la pioggia cessasse, che le nuvole si ritirassero verso l’orizzonte del mare accompagnando sul fondo degli abissi quel mostro marino che ora si trovava in agguato proprio fra le asciutte e sicure mura di Portorosso.

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Capitolo 19
*** Dunque era vero – Atto II ***


Dunque era vero – Atto II

 

 

Un altro giorno di pioggia, un’altra nottata insonne, e un’altra lunga mattinata di lavoro all’orizzonte. Ma questa giornata, già alle prime fioche luci dell’alba, si prospettava diversa dalle altre. Valentina fu capace di fiutare nell’aria quel presagio già quando, giunta sulla soglia dell’osteria, chiuse l’ombrello e lo scrollò facendolo sgocciolare prima ancora di aprire la porta d’ingresso del Gabbiano d’Argento. Riparata dal terrazzino del piano superiore, si guardò alle spalle – il grigio della strada, i vasi senza fiori, nessun panno messo a stendere sui balconi, le finestre chiuse, la cascatella d’acqua che zampillava rotolando dai gradini del carruggio –, e rabbrividì sotto il cappotto, maledicendo i brontolii del cielo che continuava a rigurgitare pioggia su pioggia, giorno dopo giorno, come una burla nei suoi confronti.

Valentina avrebbe preferito che non piovesse, almeno quel giorno.

Stringendo i pugni, raccogliendo un respiro bianco e tremante che poi soffiò dalle labbra intorpidite dal freddo e dall’umidità, tornò a fronteggiare la porta dell’osteria. Non permise a quella visione di demoralizzarla. Si caricò di determinazione lasciando che in fondo al petto si accendesse una fiamma di coraggio. Si preparò a tutto quello che la aspettava oltre la soglia.

Aprì la porta, accompagnandola con una lenta spinta di spalla. Si lasciò accogliere dal tepore dell’anticamera, dalla soffice luce del lampadario che le trasmise lo stesso avvolgente calore di un fuocherello appena acceso, lo stesso profumo resinoso e lo stesso colore ambrato. Respirò i profumi dolci della cucina, dell’olio e del vino, e quello mieloso della cera per legno con cui giusto ieri avevano lucidato tavoli e seggiole. «’giorno» biascicò, lasciando rimbalzare quel saluto nel vuoto silenzio della sala da pranzo. La voce era ancora impastata dal sonno, dalla bocca cattiva a causa della colazione saltata, e dal fiato umido che si condensò in un’ultima bolla sfumata fra i brividi delle sue labbra.

Valentina strofinò le suole sullo zerbino già sporcato da qualche incrostazione di fango e da una manciata di briciole di foglie secche. Ficcò l’ombrello bagnato nell’angolo. Si grattò la testa, sistemò il nastrino fra le ciocche gonfiate dall’umidità. Vedendola conciata così, qualcuno avrebbe potuto dire che avesse appena infilato l’indice in una presa della corrente. Abituandosi alla luce più calda della sala da pranzo, Valentina batté una palpebra alla volta, sentendole collose e insabbiate di stanchezza. Un’altra grattata alla tempia e una strofinata al nasino infreddolito. Aveva la testa ovattata dal sonno, pesante come una boccia piena d’acqua. Le orecchie fischiavano, assordate dall’incessante baccano dell’acquazzone e da quello ancor più doloroso dei suoi pensieri. Un tremolio costante le percorreva la schiena – brividi ancor più fitti e pungenti di quelli che le scivolavano sulla pelle quando le gocce di pioggia riuscivano a penetrarle gli abiti.

Inspirò, sentendo quel singhiozzo di fiato tornarle su e costringerla a massaggiarsi la gola e il petto. Il cuore di Valentina era strozzato da un cappio d’ansia che si stringeva ogni volta in cui lei provava a guadagnare una boccata di fiato più profonda, ogni volta in cui tentava di visualizzare le future immagini di quella giornata – mostro marino, zanne a punta, squame taglienti come gusci di conchiglia, coda a lancia capace di sfasciare una barca e di abbatterla con un colpo solo, occhi da rettile che brillavano nel buio come braci, fauci spalancate e alito putrescente che odora di carcasse di pesce – su cui aveva vegliato per tutta la notte. Una notte trascorsa a fissare il soffitto con occhi spalancati, le mani strizzate sulla coperta, i piedi arricciati in fondo al letto, e grovigli di nausea a sobbalzarle nello stomaco.

Ma oggi non aveva intenzione di farsi fermare dall’ombra dei dubbi o dalla voce della paura. Valentina aveva trascorso tutta la notte a riflettere su come approcciarsi a Bruno, su come potergli porgere una domanda tanto assurda. In conclusione, aveva realizzato che la soluzione migliore sarebbe stata quella di affrontarlo di petto, senza mezzi termini, senza giri di parole che comunque lei non sarebbe stata in grado di formulare. Sarebbe quindi salita al piano di sopra, avrebbe bussato alla porta della camera di Bruno, avrebbe aspettato che lui la facesse entrare, permettendole di sedersi sul letto. Poi lo avrebbe guardato negli occhi e gli avrebbe chiesto: “Bruno, sei o non sei un mostro marino che viene dal mare?” Sì, era proprio così che gli avrebbe chiesto. E quando Bruno le avrebbe risposto…

«Tina?» Angelo attraversò la sala da pranzo e posò su Valentina uno sguardo stupito. Sorresse la pila di tazze sporche che aveva sistemato sul vassoio che teneva sollevato con una mano sola. «Sei già qui?» le domandò. «Come mai così presto?»

Valentina accennò un sorriso di circostanza, sperando che il cupo grigiore che le cerchiava le palpebre non tradisse quella gessosa maschera di buonumore. Sfilò dalla manica la scusa migliore che si era già preparata durante il tragitto da casa all’osteria. «Ho preferito uscire di casa prima che si mettesse a diluviare forte come ieri.» Ma sta già diluviando forte come ieri, sciocca!

Ignorando la vocina della coscienza – quel giorno aveva voci ben più sagge e importanti da ascoltare – Valentina sbatacchiò la gonna sgualcita dalla corsa, strinse il nastrino fra i capelli dando una pettinata alle ciocche già crespe e gonfie, e attraversò anche lei la sala da pranzo accolta dai soliti e familiari profumini provenienti dalla cucina, quello del caffè appena schiumato dalla moka, quello del latte caldo che ancora fumava nel pentolone, e quello della crostata di amarene che Angelo aveva sfornato di mattina buonora.

Respirando quei profumi tiepidi e dolci, camminando attraverso l’aria asciutta e riscaldata dell’osteria, a Valentina sembrò di star galleggiando in una dimensione sospesa in cui non era padrona né del suo corpo né dei suoi pensieri. Quella mattina, ogni più piccola parte di sé era rivolta solo a Bruno. «Si sono già alzati tutti?» Si è già alzato Bruno? ecco quello che avrebbe voluto chiedere. «C’è già qualcuno a fare colazione?» Si disfò del cappotto, si strofinò le maniche del maglioncino che aveva indossato assieme alla gonna, la prima che aveva pescato dal guardaroba, e raggiunse la dispensa della cucina senza nemmeno essersi allacciata il grembiule in vita. Recuperò un vassoio, una manciata di cucchiaini, tazze asciutte, bicchieri puliti. «Se vuoi do una pulita ai tavoli.»

Angelo la raggiunse, scosse la testa. «No, stai tranquilla, li ho già preparati io.» Trasferì le tazze sporche dal vassoio all’acquaio, aprì il rubinetto evocando un vaporoso scroscio di acqua calda. «Tira fuori le tazzine da espresso, piuttosto, e dai una pulita a quelle grandi da caffellatte.»

«Agli ordini.» Ma Valentina avrebbe saputo essere delicata con Bruno, certo che sì. Si sarebbe premurata di fargli capire che lei non temeva di conoscere la verità, e che non avrebbe avuto paura del Mostro Marino Bruno esattamente come non aveva paura del Bruno Umano. Anche Bruno non avrebbe dovuto avere paura di condividere il suo segreto con lei.

Valentina sfilò un ultimo bicchiere dalla credenza. Una scia di tremori percorse il braccio ancora sollevato, la costrinse a stringere la presa per non far cadere il bicchiere. Impietrita, l’ultima sorsata d’aria a premerle sul petto, si morse il labbro, assorbì il pungente e ferroso sapore del vento piovano che aveva respirato per le strade del paese. Forse è un rischio. Posò il bicchiere sul vassoio, assieme al resto delle posate, e si strofinò le mani per sciogliere quella zampettata di brividi che, come una pioggerellina di spilli, le aveva accapponato la pelle. Forse sto davvero rischiando di essere divorata. Ma quella fredda scossa di paura non riuscì comunque a spegnere la fiamma, a privarla del desiderio di rischiare. Lo stupido e irresponsabile cuore di Valentina conosceva la verità: la paura di perdere Bruno era ben più terrificante di quella di finire sbranata da un mostro marino.

Guardò in alto, verso il soffitto che la divideva dalle camere del piano di sopra. Il peso sul petto si alleggerì, i brividi scivolarono via dalla pelle, i respiri successivi furono tiepidi e appaganti. Solo sapere che Bruno era lì vicino le colmava il cuore di fiducia e sicurezza. Valentina socchiuse gli occhi, si alzò sulle punte dei piedi per raggiungere la sua presenza anche solo col pensiero – il tocco della sua pelle ruvida e indurita dai calli, la tenerezza dei suoi rari sorrisi che poi si trasformavano in baci dolci e premurosi, le carezze sprofondate nella morbidezza dei suoi riccioli, tutto il mistero celato dietro quegli occhi grigi e gentili avvolti dalla costante penombra dei suoi segreti.

Valentina sorrise pensando che entro poco sarebbe stata assieme a lui, in quella camera profumata di legno, di lenzuola pulite, di abiti da lavoro e di saponetta al limone, dove si era sempre sentita al sicuro e dove lei e Bruno, abbracciati, le mani intrecciate e le guance vicine, avevano trascorso i momenti più indimenticabili di tutta l’estate. Non c’era assolutamente nulla di cui avere paura.

«Bruno è ancora malato, vero?» Valentina sistemò bicchieri e posate sui tavolini ancora vuoti, eccezion fatta per tovaglie e tovaglioli. Compì una mezza piroetta sulle punte dei piedi, saltellò fino a raggiungere Angelo. Raccolse la sua pila di tazze pulite e se la caricò sul vassoio per occuparsi anche di quelle. «Immagino non sia sceso a fare colazione. Gli porto io qualcosa.» Buttò un rapido sguardo verso la porta socchiusa della cucina. «È avanzato un po’ di caffè? E il latte è ancora caldo? Oggi per colazione c’era la crostata, vero? Gli porto una fetta anche di quella.»

Angelo strinse e riaprì le mani rimaste vuote, batté gli occhi ancora fissi sui palmi, compì un piccolo rimbalzo con la testa come se si fosse visto esplodere le tazze fra le dita. «Ma…» Un rauco sospiro di stupore gli tremolò fra le labbra rimaste socchiuse. «Ma come?» Rivolse lo sguardo a Valentina. Le sue sopracciglia si flessero verso l’alto, stropicciarono le rughe della fronte in un’espressione mortificata che gli fece luccicare gli occhi bagnati da una profonda compassione. «Non dirmi che non lo sai.»

Valentina fece per posare una delle tazze sul tavolo più vicino, ma la sua mano raggelò, bloccando il gesto a mezz’aria. Il tono sconsolato con cui Angelo aveva pronunciato la frase le trapassò la pancia come una coltellata, spezzandole il fiato nel petto e succhiandole il calore dalle guance.

Un freddo presentimento le artigliò le caviglie, si arrampicò su per le gambe e le fece tremare le ginocchia. «Non…» Valentina deglutì. Aveva la bocca impastata. Con ancora la mano stretta alla tazza e l’altra a sorreggere il peso traballante del vassoio, si girò verso Angelo, fronteggiando quegli occhi che sembravano chiederle scusa. «Non so che cosa?» E di nuovo ci fu quella vocina, quel pungente brivido soffiato dietro l’orecchio, che le disse di non voler per davvero conoscere la risposta che stava per arrivare.

Angelo guardò in basso. «Oh, Tina…» Si diede una nervosa grattata alla nuca, rimpicciolì le spalle, e di nuovo sfoggiò quella grigia espressione così avvilita e disarmata. Colpevole solo per sapere che… «Bruno è andato via.»

Attorno a Valentina si spalancò una voragine nera che inghiottì la luce del lampadario, soffiò un alito di ghiaccio sul tepore della sala da pranzo, sui profumi della cucina, e si riflesse nel baratro nero che aveva accerchiato i suoi occhi spalancati. I brividi di freddo aggrappati alle sue caviglie si arrampicarono lungo le gambe, le graffiarono la schiena, raggiunsero le spalle rattrappite, si tramutarono in un paio di mani viscide che si chiusero a strozzarle la gola. Le orecchie fischiarono, spensero il suono di ogni suo pensiero. Le venne da vomitare.

«Stamattina si è alzato all’alba» disse Angelo, senza sapere che Valentina non lo stava più nemmeno ascoltando. «Ha preso la sua valigia ed è andato subito alla stazione. Diceva che…»

Le pareti della stanza le trottolarono attorno, infittirono spire di ombre che, accerchiandola, sempre più strette e soffocanti, accrebbero quel nodo di nausea che le aveva ribaltato lo stomaco. Ancora frastornata dall’impatto improvviso di quella notizia, Valentina tremò. Tremò come se si fosse trovata sotto il diluvio che si stava consumando fuori dall’osteria. La pioggia a inzupparle le scarpe, a gocciolarle dagli abiti e dai capelli. La morsa di freddo a intorpidirle le guance, brividi incessanti a farle ballare le ginocchia. Non è vero. Socchiuse la bocca bianca e secca per guadagnare un filo di fiato e placare il bruciore scavato nel petto. Sbatté le ciglia per dissolvere la macchia nera che le aveva riempito la vista, fece scivolare un piede in avanti per tastare la solidità del pavimento e non sentirsi precipitare. Non è vero, sta mentendo, è una bugia, Bruno è di sopra, è di sopra e io adesso vado da lui. Urtò il tavolino, ansimò per lo spavento, e perse le forze sulle braccia diventate molli come gomma. Le mani, inerti, si schiusero e lasciarono scivolare il vassoio di tazze che precipitò sul pavimento.

Crush!

«… pensavo che tu – Tina!» Angelo si inginocchiò e si affrettò a raccogliere i cocci che erano esplosi sparpagliandosi fra i piedi di Valentina. Allungò una mano per tenere lontane le sue gambe immobili. «Non ti muovere, non calpestarli.» Si tastò la vita, le tasche vuote del grembiule, senza trovare lo strofinaccio. Si alzò dal pavimento facendo scricchiolare i cocci più piccoli sotto le suole. «Prendo una scopa e la pattumiera.»

Valentina non lo stava nemmeno ascoltando. Aveva ancora le mani aperte e lo sguardo fisso nel vuoto, vacillante come il suo respiro e come i battiti del suo cuore. Non si era nemmeno resa conto di quello che era successo. Non aveva nemmeno sentito il peso del vassoio scivolarle dalla presa e lo schianto delle tazze di porcellana frantumate sul pavimento. Le tazze si sarebbero potute rompere anche sulla sua testa – anzi, le sarebbe potuta crollare addosso l’intera osteria – e lei non avrebbe comunque battuto ciglio, non avrebbe mosso nemmeno un passo per schivare l’impatto. Bruno. Andato via? Cosa vuol dire che è andato via? «A…» Il nodo di fiato le si sciolse sulla lingua, spanse un calore pungente che risalì le guance e bruciò agli angoli delle palpebre già gonfiate dal primo sgorgo di lacrime. «Andato?» pigolò. La nera voragine di vuoto si annidò questa volta al centro del suo petto, come se la mano che prima l’aveva strangolata fosse penetrata in lei, strappandole il cuore e ogni suo battito di vita.

Guardò di nuovo verso il soffitto – occhi accerchiati da un’ombra grigia, i primi caldi grappoli di lacrime a vacillare fra i fili delle ciglia. Soffocò una pesante fitta al cuore che rispecchiava il vuoto lasciato da Bruno. Bruno che non si trovava più lassù in camera.

Angelo spazzò dentro la pattumiera anche l’ultimo bianco frammento di porcellana volato fin sotto le gambe del tavolo, usò lo strofinaccio umido per raccogliere dal pavimento anche le briciole più piccole e taglienti. «Fino a ieri non ne sapevo nulla nemmeno io.» Si aggrappò con una mano al tavolo, fece leva col braccio, e si rimise in piedi. Scosse la testa. I suoi occhi macchiati da una sincera compassione nei confronti di quella poveraccia di Valentina. «Non ha detto niente a nessuno. Stamattina ha fatto la valigia ed è andato alla stazione dicendo che la camera era libera e che non sarebbe tornato. Pensavo te l’avesse detto.» Le fu più vicino di un passo. Moderò il tono di voce come se qualcuno fosse stato lì a spiarli. «E pensavo che tu sapessi già qualcosa dato che tu e Bruno eravate diventati così…» Le parole gli vacillarono fra le labbra socchiuse. Angelo inspirò dal naso, strinse le spalle, rigirò il fagotto di cocci che aveva raccolto dal pavimento, e se lo infilò nella tasca del grembiule. «Ecco, amici.»

Gli occhi di Valentina si incendiarono gettandole sul viso un’ombra color carbone. Le goccioline di lacrime, ancora in bilico fra le palpebre, bruciarono di indignazione, accecandola davanti a quell’affermazione che avrebbe voluto fare a brandelli con le sue stesse mani.

Amici? Lei e Bruno? Era forse uno scherzo? Bruno non era un suo amico. Bruno era il suo ragazzo. L’ennesimo che mi pianta in asso, a quanto pare.

«Oh, Tina…» Accorgendosi dell’insorgere delle lacrime e del rossore delle guance, percependo il bruciore dei suoi brividi e udendo il gorgoglio della sua rabbia, Angelo le posò una mano sulla spalla. Un gesto paterno e protettivo. Anche lui soffriva nel saperla così sconvolta. Così umiliata. «Mi dispiace.» Strofinò una carezza gentile. «So che tenevi molto a lui, e che ti eri affezionata.»

Valentina inspirò a fondo dal naso. «Già.» Strizzò i pugni sui fianchi. Le nocche sbiancarono e le braccia ripresero a tremare come la sua voce. «Già, infatti.» E ora guarda come vengo ripagata…

Angelo strinse la mano che ancora teneva poggiata sulla spalla di Valentina. Soffiò un sospiro grave, amareggiato. Si strofinò la nuca e arricciò le labbra sotto i baffi. «Ora, ecco…» Mollò la spalla di Valentina e con la stessa mano gesticolò a mezz’aria, si allontanò di un passo da quei brividi scoppiettanti che temeva avrebbero potuto ustionarlo come l’olio che zampilla da una padella rovente. «Io non vorrei fare la parte di quello che rigira il dito nella piaga, ma noi te l’avevamo detto di non legarti troppo a lui. Sapevi che Bruno era qui solo di passaggio, e sai come funziona il lavoro degli stagionali.» Il suo sguardo tornò a luccicare, a esprimere una compassione sincera. «Sapevi che Bruno non sarebbe potuto fermarsi qua a lungo.»

A lungo…

Valentina aveva ancora addosso la maschera di quello sguardo impallato, fisso sul soffitto dove stavano galleggiando tutti quei pensieri che lei sentiva evaporare come nuvolette dalla sua testa rintronata.

Fermarsi qua a lungo. E infatti Bruno se n’è andato. Ma da quanto se n’è andato? All’alba, ha detto? Ma anche adesso è mattina presto, sono sicura che il primo treno non è ancora passato in stazione. Forse…

Una scintilla di luce schioccò davanti al suo sguardo, bruciò la fredda tensione che le aveva contratto le spalle, e rilassò la tensione dei pugni, quella delle unghie che avevano solcato profondi segni rossi nei palmi. Un caldo formicolio le riempì la pancia, pizzicò le guance e fece tornare i colori nei suoi occhi spalancati.

Forse c’è ancora una speranza. Una piccola. «I…» Valentina si bagnò le labbra da cui era soffiato quel sibilo. «Il treno…» Rivolse lo sguardo ad Angelo, non più allo spoglio soffitto. I suoi pensieri fecero ritorno a terra, dove dovevano essere. «Il treno» ribadì. «A che ora…» Valentina strofinò una mano sugli occhi per far riassorbire le lacrime che era riuscita a tenere imprigionate fra le ciglia. «A che ora ha detto che aveva il treno?» Era di nuovo padrona del rimbombo della sua voce, del fitto pulsare delle sue tempie, del sangue che le bruciava in gola e fra le guance, del battito del suo cuore che, accelerando, stava già minacciando di scappare dal petto e di volare in direzione della stazione. «Almeno questo te l’ha detto?»

Angelo strinse le labbra, sollevò le spalle. «Dunque…» A braccia conserte, si massaggiò il mento, sfregò il ruvido velo di barba arrampicato sulle sue guance. «Prendeva la prima corsa delle sette, se non sbaglio.»

La corsa delle sette.

Valentina torse il capo per lanciare uno sguardo fulmineo all’orologio appeso alla parete. La lancetta dei secondi batté e avanzò, segnò le sette meno dieci.

Il cuore di Valentina si spalancò e accolse la gloriosa speranza di quella visione, tutta quella luce che le ridonò fiato nel petto e forza nelle gambe.

Sono ancora in tempo!

«Ma non so nemmeno dove fosse diretto» borbottò Angelo. «Se verso Genova o verso La Spezia. Ma può anche darsi che stia tornando in Veneto dove ha lavorato la scorsa estate, quindi non – Tina!»

Più veloce del tempo che scorreva, Valentina era già volata via, seguita dallo sventolio della gonna e dal ruzzolante eco dei suoi passi in corsa.

«Tina, aspetta!» Angelo la rincorse attraverso la cucina, fino all’anticamera ancora macchiata dalle pozzanghere di pioggia che Valentina aveva seminato dietro di sé dopo essere entrata. «Non fare pazzie» la ammonì. «Non sai nemmeno se…»

Valentina scagliò una pedata sulla porta che rimbalzò sul muro esterno, tornò indietro solo di poco, e spalancò davanti a lei la grigia visione della strada, del paese inondato dal torrente di pioggia. Si tuffò sotto il diluvio come si sarebbe tuffata nel mare se si fosse trattato di andare a recuperare Bruno negli abissi più profondi. La pioggia le martellò il viso e le spalle, le rotolò fra i capelli e scivolò, viscida e fredda, sotto gli abiti, fino a gocciolarle di nuovo dentro gli stivaletti. Valentina frenò la corsa schizzando fangosi zampilli dalle pozzanghere. Tornò indietro, raccolse l’ombrello abbandonato sulla soglia, lo spalancò, si rimise a correre controvento. Una folata d’aria la investì, gonfiò il telo dell’ombrello tirandola indietro, la costrinse a fermarsi una seconda volta, ad aprirlo fino in fondo, a scuoterlo senza riuscire a far scattare la levetta della chiusura.

Valentina soffocò fra i denti un grido di frustrazione. I capelli bagnati a gocciolarle sulle labbra, la pioggia a pungerle le guance arrossate, e le dita pizzicate dagli scatti ripetuti della chiusura dell’ombrello. «Maledizione, stupido affare del…» Scagliò l’ombrello contro la parete della casa più vicina – il telo si spalancò come una corolla –, e lo calciò per levarselo dai piedi. Saltò oltre un rigagnolo di pioggia rigurgitato da una grondaia e corse in direzione della stazione, inseguendo quella speranza di essere ancora in tempo, di non averlo ancora perso.

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Capitolo 20
*** Dunque era vero – Atto III ***


Dunque era vero – Atto III

 

 

Correre risultava difficile con gli abiti pregni di acqua piovana a pesarle sul corpo in affanno, ma in qualche maniera Valentina riuscì ad attraversare il paese, a saltare dai gradini dei carruggi, e a raggiungere il vicolo che portava alla stazione. Il petto le scoppiava di fatica, i piedi bruciavano per lo sforzo e spremevano acqua dai stivaletti a ogni falcata. A ogni sbuffo, i capelli sventolavano e s’incollavano alla faccia fredda e fradicia su cui il diluvio continuava a grondare, a rotolare dietro le orecchie, lungo il collo, e a scivolare sotto la stoffa dell’abito. Valentina strusciò una manata sulle guance, raschiò via una frustata di capelli gocciolanti, sputacchiò le gocce di pioggia che continuavano a rovesciarsi abbondanti e prepotenti su di lei come se si fosse trovata sotto il getto della doccia.

Individuata la scalinata al termine del vicolo, Valentina allungò un paio di falcate più lunghe – lo sforzo così improvviso, come uno strappo, le fece esalare una gonfia nuvoletta di fiato bianco –, e scavalcò i gradini che conducevano alla piattaforma del binario. Ciaf, ciaf, ciaf! – schiaffeggiarono i suoi stivaletti a ogni rimbalzo. Valentina socchiuse le ciglia annacquate, aguzzò la vista attraverso la nebbia grigia, qualche filo di capelli scivolato fra le palpebre, e rivolse lo sguardo al cielo. Riconobbe le lamine delle tettoie color rame, la ringhiera che confinava con la terrazza che dava sulla vista del mare, ma ancora non scorse alcun pennacchio di vapore, nemmeno la sagoma lunga e nera della locomotiva grufolante, né il suono delle rotaie che vibravano al passaggio del treno, o il risucchio della galleria che inghiottiva la corsa dei vagoni.

Un luminoso raggio di speranza crepò i nuvoloni di maltempo. Era ancora in tempo? Il treno non era ancora arrivato? Oppure era già partito? Se fosse già partito, se Valentina non avesse fatto in tempo, se il treno avesse già portato via Bruno…

Oh, ti prego…

Valentina invocò quella preghiera sentendo un artiglio di dolore strizzare il cuore in uno spasmo.

Ti prego, ti prego, ti scongiuro.

La banchina della stazione si allungò seguendo la parete di pietra arrampicata sull’altura del monte. Nell’avvicinarsi, Valentina continuò a pregare. Ansimò umide nuvolette di fiato che scivolarono disperdendosi verso l’alto, del tutto simili all’incenso della chiesa. Sperò che la voce del suo cuore potesse raggiungere un qualcuno di misericordioso, un’orecchia celestiale che potesse udirla e accontentare quel suo unico desiderio.

Ti scongiuro, non portarmelo via.

I suoi occhi si appannarono, inondati da un’acqua tiepida che bruciava ben più della pioggia. La vista sfocata di grigio delineò l’ambiente familiare che si aprì sul binario della stazione attraversato dalla griglia dei binari.

Fa’ che sia ancora qui.

A raggiungerla per prima non fu il profilo di Bruno, ma la macchia ovale dell’ombrello che gli offriva riparo. Una bolla blu che galleggiava nel grigio del diluvio, circondata da una vibrante nebbiolina di gocce di pioggia che rimbalzavano sul telo per poi grondare ai piedi della persona che stava impugnando il manico. Bruno era lì in piedi, fosco ed evanescente come un miraggio, come il ricordo di un sogno. L’unico viaggiatore in attesa nel binario deserto. Una semplice valigia di cuoio poggiata ai suoi piedi, le sue scarpe sfondate, i soliti vecchi abiti troppo larghi e sbiaditi su cui quel giorno aveva indossato una giacchina scamosciata fin troppo leggera per la stagione. Teneva la schiena voltata. La mano scura e incerottata reggeva l’impugnatura dell’ombrello che lo nascondeva dalle spalle in su.

Quell’apparizione abbagliò gli occhi di Valentina come il lampo di un miracolo. Era la sua preghiera che si realizzava. Un sorriso dorato le illuminò lo sguardo. Il peso dell’ansia si sciolse dal cuore, spanse una gioia e un sollievo tali da commuoverla, da darle l’impressione che il sole fosse sorto al di sopra delle nuvole anche in una giornata piovosa come quella.

Bruno…

Dapprima, Valentina continuò a correre e a sorridere. Ce l’ho fatta. A sorridere con un tale ardore da sentire male alle guance. È ancora qui, sono ancora in tempo, sono… Incazzata nera, ecco cos’era!

Una violenta vampata di rabbia gorgogliò fra i denti e le abbrustolì la fronte e le guance. La dolce carezza di calore e sollievo che poco prima le aveva attraversato il cuore s’incenerì in una tuonata d’ira che le fece lampeggiare gli occhi e fischiare le orecchie.

Valentina arrestò la corsa strusciando una frenata improvvisa sul ciglio delle rotaie che la separavano da Bruno. Strizzò i pugni freddi e gocciolanti, inspirò forte risucchiando il bruciante sapore della pioggia, e sprigionò il suo grido più feroce, «Bruno Scorfano!», tanto impetuoso che rimbombò fino alla piazza, fino alla cima del Monte Portorosso, fino in fondo al mare, fin sopra le nuvole che avrebbero potuto pietrificarsi e così interrompere il rovesciarsi del diluvio.

La pioggia non si fermò. Continuò a cadere, ad allargare le pozzanghere sul cemento e a scrosciare sulle lamine della tettoia, ma l’urlo di Valentina attraversò il binario, raggiunse le orecchie di Bruno facendogli compiere un piccolo rimbalzo da sotto l’ombrello.

Bruno s’impietrì, scosso da quell’eco che doveva avergli strappato il fiato dalla bocca, come un manrovescio. Strusciò a terra la punta di un piede e si girò di profilo, inclinò leggermente l’ombrello e fece sbucare lo sguardo stordito da sotto i riccioli che cadevano folti sulle guance, toccandogli le labbra socchiuse in un sospiro di stupore che rimase sospeso in quel modo, «Tina?», in una bianca nuvoletta di fiato. Un lume di stupore fissò un punto di luce nelle profondità dei suoi occhi grigi dentro i quali erano raccolti tutti i liquidi riflessi di quella pioggia che gli gocciolava attorno, cadendo e disfandosi come tante file di perle trasparenti lasciate scivolare dalle punte dell’ombrello. «Ma cosa…» A quel sospiro di sollievo seguì una ruga infastidita, un cipiglio che gli stropicciò la fronte rendendo la sua espressione buia e contrariata. «Cosa ci fai qui?»

Valentina ingoiò un affanno dietro l’altro. La gola graffiata dal fiatone, il petto dolorante per i continui sobbalzi, il picchiettare della pioggia a scottarle le guance, e qualche fastidiosa ciocca di capelli ancora incollata alle labbra umide e rigonfie. «Io?» Raccolse una manciata di ciocche bagnate e le frustò lontane dalla guancia. Aggrottò la fronte, sfoderò un truce sguardo di minaccia nei confronti di Bruno. Uno sguardo che avrebbe potuto far evaporare ogni singola goccia di pioggia. «Cosa ci fai tu qui, semmai.» Compì un passo in avanti – splash! – calpestando una delle pozzanghere che avevano maculato la banchina. «Cosa credevi di fare, eh? Prendere baracca e burattini e sparire da un giorno all’altro? Andartene via così, senza dirmi niente?» Gli occhi si annacquarono di un calore diverso. Il calore delle prime lacrime che bruciarono sgorgando dalla ferita che le aveva lacerato l’animo nel momento stesso in cui aveva saputo della sua fuga. «Senza nemmeno salutarmi?»

Bruno abbassò gli occhi e si nascose dietro l’ombrello, protetto dal brusio della pioggia che gli brontolava attorno. Soffiò un lungo respiro dalle narici, irrigidì le spalle e strinse la presa attorno al manico. «Tanto, prima o poi saresti comunque venuta a saperlo.» Tornò a darle la schiena. «Non sono bravo con gli addii, Tina.» Le sue parole erano ancor più fredde della nebbia di maltempo che gli galleggiava attorno. «E già sapevo che tu ci saresti rimasta male quando me ne sarei dovuto andare. Ho voluto risparmiarti l’inevitabile sceneggiata, ecco tutto.»

Valentina strinse i denti in un basso ringhio gorgogliante. «Be’» abbaiò, «e adesso la sceneggiata ti è venuta dietro.» Incrociò le braccia al petto. Quel gesto evocò un brivido che le scosse le spalle. «Come la mettiamo, allora, eh? Non hai proprio niente da dirmi?»

«Fatica sprecata.» Bruno tornò a piegare l’ombrello in modo da poterle lanciare uno sguardo più fine da dietro la tenda di perle d’acqua. «Perché tu non sei venuta qui solo a salutarmi, non è vero? Sei venuta qui per impedirmi di partire.»

Valentina non ebbe nemmeno il tempo e la forza di indignarsi. «E secondo te non avrei dovuto? Dopo tutto quello che ci siamo detti…» Un altro passo le fece attraversare il tuffo di una seconda pozzanghera. «Dopo tutto quello che c’è stato fra di noi…» I primi timidi sguardi scambiati attraverso la penombra dell’osteria, la conquista dei primi sorrisi, la gioia scalpitante delle prime volte in cui lei e Bruno si erano tenuti per mano. «Dopo un’intera estate in cui noi due…» E poi il primo bacio sulla vista del mare, sulla Luna piena specchiata nel bacino del porticciolo, i fuochi d’artificio a colorare la festa di quella notte così magica. Tutti i baci che poi erano seguiti. Baci che sembravano parlare più di mille promesse. «Secondo te mi dovrei rassegnare a lasciarti andare via così?»

«No.» Bruno si guardò indietro, senza però muovere un singolo passo. Guardò verso i tetti di Portorosso, verso tutto quello che ormai si era lasciato alle spalle. «Sapevo che sarebbe stato impossibile. E sapevo che sarebbe anche stato inutile cercare di spiegarti le mie ragioni.» I riccioli scivolarono in avanti, nascosero i suoi occhi. «Per questo ho voluto partire prima di incontrarti un’ultima volta.»

Un ansimo raggelò il petto di Valentina. «U-ultima?» singhiozzò lei. «Cioè, tu…» Si portò una mano al cuore, lì dove quel colpo l’aveva ferita. «Tu hai davvero intenzione di mollarmi in questo modo?»

Bruno scosse la testa. Sulla sua fronte aggrottata tornò a calare un’ombra di rabbia. «Smettila di farla sembrare una questione che riguarda solo te, Tina.» Diede un colpetto di spalla al manico dell’ombrello, scrollando una rovesciata d’acqua più abbondante, e tornò a girarsi, a nascondersi. «E soprattutto smettila di far finta di capire cose che non ti competono

Valentina sentì una vena esploderle sulla tempia, annebbiarle lo sguardo di un rosso cupo e iracondo. Che non mi competono? «Ma tu chi ti credi di essere?» Sciolse le braccia conserte e tornò a schiacciare i pugni tremanti sui fianchi. Si sporse dal ciglio delle rotaie per alzare la voce e sbraitare così al di là dello scroscio della pioggia. «Chi ti credi di essere per illudermi e scaricarmi in questo modo, come se quello che abbiamo trascorso assieme non avesse significato niente? Ah, certo.» Strusciò la mano bagnata sotto il naso altrettanto bagnato, risucchiando una sorsata di fiato che le annacquò la gola. La pioggia in bilico fra le ciglia, come le lacrime che Valentina ancora si rifiutava di versare. «Dev’essere stato proprio divertente giocare con i miei sentimenti per un’estate intera, farmi tutta quella compassione spiattellando quelle tue storielle da ragazzino randagio privo di legami e di affetto, e poi comportarti ancora peggio di tutti gli altri. Sei proprio un bastardo, lo sai?»

Bruno alzò le spalle. Fu di un’indifferenza disarmante. «Non è la cosa peggiore che mi sono sentito dire.»

«Oh, tu…» Valentina si rifiutò di riconoscere quell’estraneo che le si palesava davanti. Non poteva credere che sotto la pelle di Bruno potesse esistere un individuo tanto freddo e spietato. Credeva di potersi fidare di lui. Credeva… «Credevo che fossi diverso.» Abbandonato il ringhio di ferocia, Valentina piegò il capo in avanti. I capelli di nuovo incollati alle guance, i rivoletti di pioggia a gocciolarle dal mento e dalla punta del naso. «Credevo fossi migliore di tutti quei ragazzi che mi hanno spezzato il cuore, e invece…» Strizzò le dita sulla gonna bagnata. «E invece tu sei ancora peggio di loro. E io che ho fatto di tutto per correrti dietro e che…» Sollevò i lembi dell’abito, sentendo l’umiliazione colarle addosso, fredda e sgradevole come la pioggia che non accennava a concederle una tregua. «E che mi sono ridotta in questo modo solo per fare in tempo e impedirti di andartene. Si può sapere perché è già la seconda volta che finisco conciata in queste condizioni per colpa tua? Prima nella fontana, e ora sotto la pioggia, e ogni volta…» Preannunciate da un singhiozzo, le prime inevitabili lacrime scesero a scottarle le guance. «E ogni volta io vengo sempre lasciata indietro.»

Il respiro di Valentina si ruppe in una raffica di singhiozzi che le fecero ingoiare pioggia e lacrime. Valentina si tappò gli occhi allagati, strofinò fra le palpebre inondate. Il pianto ormai senza freni offuscò il grigio del cielo, della stazione, della parete del monte, e le impedì di accorgersi della colpevolezza dipinta nello sguardo di Bruno.

La voce di Valentina pigolò di dolore. «Perché, Bruno?» Valentina strofinò i pugni sugli occhi, raccolse le lacrime dalle guance. Il gesto di una piccola bimba. «Perché mi hai trattata così? Se sapevi che alla fine avresti comunque deciso di partire e di lasciarmi…» Un altro singhiozzo. Altra pioggia le sbrodolò dal naso e dalla bocca, costringendola a darsi un’altra strofinata alla faccia. «Avresti anche potuto fare a meno di illudermi. Avresti dovuto lasciarmi in pace invece che farmi innamorare di te e poi spezzarmi il cuore senza pietà. Be’, sai che ti dico?» Il fiato le bruciò la gola, scese a soffocarle i battiti nel petto. «Spero almeno che tu ti sia divertito, Bruno, perché io…» Un altro scoppio di pianto, «Io non ho…», che questa volta lei non riuscì a controllare, annegando in un’amarissima alluvione di lacrime.

Lo sguardo di Bruno era ben lontano da quello di qualcuno che si stava divertendo. Tutt’altro. Quell’ombra di colpevolezza ora faceva più fatica a rimanere nascosta, nonostante il costante gocciolio della pioggia che lo teneva coperto sotto l’apertura dell’ombrello. «Tina…» Bruno teneva gli occhi bassi, gli angoli delle labbra torte in una tremolante smorfia di disagio e di vergogna. Strinse la presa attorno al manico fino a far scricchiolare le falangi, come se anche lui stesse compiendo lo sforzo di non crollare come stava crollando Valentina. «Non piangere, Tina» le disse. «Non ne vale la pena, credimi. Non per uno come me.» Scosse il capo, più rassegnato di lei. «E soprattutto non servirà a trattenermi qui.»

Valentina tirò su col naso. «Conto davvero così poco per te?» singhiozzò. «Non vuoi…» Deglutì un tiepido e asprigno sorso di lacrime e pioggia che in qualche modo acquietò il feroce ruggito del suo cuore. I suoi grandi e lucidi occhi verdi, brillanti nel grigio del maltempo, del tutto simili a quelli di una gattina tremante abbandonata sul ciglio della via. «Non vuoi nemmeno dirmi addio?»

«Forse non è un vero addio.» Bruno scivolò di un piccolo passo indietro, urtò la valigia con la gamba e tornò immobile, come se con quel gesto avesse trovato un appiglio, come se si fosse aggrappato a tutto ciò che gli restava, all’unica certezza della sua vita. «Magari un giorno ci rivederemo.» Ma non c’era alcun tono di speranza in quella frase, nessuna dolcezza e nessuna luce. Parole fredde come la maschera che era diventata la sua faccia. «Magari la prossima estate tornerò a lavorare qui.»

Invece di rassicurarla, quell’affermazione la rese ancora più furibonda. «Io non voglio aspettare fino alla prossima estate» esclamò Valentina. «Non voglio dirti addio, non voglio vederti andare via senza nemmeno sapere se un giorno ci rincontreremo. Avevi detto…» Spinse all’indietro una manciata di capelli – spruzzi d’acqua zampillarono fra le dita – e boccheggiò, sentendosi già soffocare al solo pensiero di non rivedere mai più Bruno, di non poterlo mai più abbracciare, e poter respirare sulla ruvida pelle del suo collo, e morsicare di baci le sue labbra che sapevano di sale, rosmarino e caffè. «Avevi detto che per me ne sarebbe valsa la pena.» Sorse un altro velo di lacrime. Attraverso la vista appannata, sbocciarono le luci dei fuochi d’artificio che avevano colorato la notte del loro primo bacio, la prima volta in cui Valentina aveva succhiato ogni sapore da quelle labbra così aride, bisognose e assetate di lei. «Avevi detto che questa volta era diverso anche per te» piagnucolò. «Che avevi finalmente trovato un buon motivo per rimanere senza sentirti costretto a vagabondare da un paese all’altro.»

Bruno tornò a scuotere la testa, forse già estraneo a quei ricordi. «Non far finta di non aver sempre saputo che io me ne sarei andato una volta arrivato l’autunno, Tina. Sai come funziona la mia vita e sai come funziona il mio lavoro.»

«Potresti cambiarlo.» Una misericordiosa vocina di speranza le giunse in soccorso. «Non sei costretto a continuare a vagabondare e a fare lo stagionale per tutta la vita. Potrei…» Il cuore di Valentina sobbalzò, le intiepidì le guance e le rischiarì la vista. «Ecco, potrei aiutarti io. Potrei aiutarti a trovare lavoro a Portorosso, e a sistemarti in una casa tutta tua.»

Le labbra di Bruno tremolarono in un sorriso cupo e carico di amarezza. «E rubare casa e lavoro a voi che siete legittimi abitanti di Portorosso, facendomi così odiare e perseguitare ogni volta in cui metterei piede fuori di casa?» Un’altra scrollata di capo. «Temo proprio che non sia una buona idea.»

Valentina riconobbe il fatto che lui potesse anche avere ragione, dunque… «Allora…» Dunque giunse alla conclusione che aveva già tratto ancor prima di correre alla stazione. «Allora fammi venire con te.»

«Non dire assurdità.» Bruno lo disse con una tale velocità che Valentina sospettò che lui già si aspettasse una tale uscita da parte sua. «Venire con me?» Bruno finalmente trovò il fegato di rivolgerle lo sguardo, quei suoi occhi grigi e duri come piombo. «E in favore di cosa? Qui a Portorosso c’è tutta la tua vita. Hai una famiglia, un lavoro, dei genitori che ti amano, degli amici che farebbero di tutto per te.» Socchiuse le palpebre, affilò un tono provocante. «Sul serio saresti disposta ad abbandonare tutto questo per inseguire qualcuno come me che non ha nulla da offrirti tranne che una vita fatta di incertezze?»

«Sì.» Valentina rispose con la medesima sicurezza. Testa alta e sguardo aperto, non un’ombra di paura a rimpicciolirla. «Perché tu sei già importante per me tanto quanto lo sono la mia famiglia e i miei amici. Bruno, tu…» Un respiro profondo. Il petto si alzò e si abbassò, accogliendo l’aspro e polveroso odore di pioggia. Nonostante il peso della stoffa bagnata a schiacciarlo, il cuore di Valentina non era mai stato tanto leggero. «Tu non sei un’incertezza, tu sei una delle poche certezze che sono sicura di volermi tenere stretta. Credevo…» Però quel timido pigolio di dubbio tornò a rompere la sua vocina bagnata dai precedenti singhiozzi di pianto. «Credevo di esserlo diventata anch’io per te.»

Bruno arricciò la bocca formando una profonda fossetta nella guancia. Tornò ad appiattire le labbra, a voltare il capo e a sbuffare dalle narici. «Questo non cambia comunque le cose.»

«Solo perché sei tu quello che si sta sforzando di non cambiarle» ribatté Valentina. «Come credi che io mi sia sentita quando mi hanno detto che tu te n’eri andato? Quando ho creduto di averti perso, allora l’ho capito.» Annuì. «Ho capito che io sarei disposta persino a rinunciare alla mia vita a Portorosso pur di stare con te.»

«Ma sarò io che ti impedirò di venirmi dietro e di rinunciarci» le disse Bruno. «Anche se adesso ti sembra di volerlo, non ci metteresti molto a pentirti della tua fuga, fidati. Adesso ti sembra così allettante, così avventuroso, così diverso dalla vita che hai sempre fatto qui, vero? Perché tu sei una a cui piace andare controcorrente. Ma è solo di questo che si tratta, Tina. Di una ribellione e di uno strappo alla regola.» Diede un altro colpetto al manico dell’ombrello. La sua voce sfumò in un brusio grigio del tutto simile a quello della pioggia. «Magari come lo sono stato io.»

Valentina ansimò, inorridita. «No!» scattò. «No, non è vero!» Si sporse, la suola dello stivaletto sdrucciolò dall’orlo della banchina, il suo braccio si tese senza riuscire a raggiungere Bruno al di là delle rotaie. Se solo avesse potuto stringerlo, se solo avesse potuto scuoterlo, e strappargli dalla testa tutti quei pensieri orribili. Pensieri che certe volte avevano sfiorato persino le sue di orecchie. «Tu non…»

«Ci metteresti poco a renderti conto di aver commesso un colossale errore.» Gli occhi di Bruno si animarono di una profondità diversa. L’accusa di un peccato imperdonabile. Un dolore più intimo e tangibile che pareva lacrimare anche sull’asciutto delle sue guance. «E in più spezzeresti il cuore a tuo padre, facendogli un torto simile. Non mi renderò complice di qualcosa del genere.» Scosse il capo, forse annunciando il rifiuto definitivo. «Non mi renderò complice della distruzione di una famiglia.»

Rabbrividendo, soffrendo una piccola vertigine che fece traballare l’immagine delle rotaie su cui era in bilico, Valentina arretrò, tornò al sicuro con entrambe le suole sul cemento bagnato della banchina. «Ma non è vero che si distruggerebbe. Si…» Alzò le spalle, ancora non del tutto certa del reale significato di quel discorso. «Si allargherebbe soltanto. Anche tu diventeresti la mia famiglia. Questo secondo te non sarebbe abbastanza?»

«Io…» Il fiato di Bruno rimase sospeso, bianco e vaporoso, sul tremore delle labbra che non portarono la frase a termine. Bruno strinse i denti. Rughe di cordoglio gli solcarono i bordi anneriti delle palpebre. Quando parlò, la sua voce suonò fragile come tutta quell’acqua da cui si stava proteggendo. «Io non me la merito una famiglia.»

Valentina non capì. Però aveva colto quella piccola esitazione nella risposta di Bruno, quella crepa nella corazza che la spronava a continuare a grattare per raggiungere la parte molle. «Parli come se fra noi due non fosse successo nulla, come se quello che abbiamo condiviso valesse meno di niente. È così, eh, Bruno?» La pioggia era tanto abbondante sul suo viso che lei quasi non si accorse di essere nuovamente sull’orlo delle lacrime. «Per te io non sono significata niente?»

Bruno strusciò la manica della giacca su naso e bocca, sviò la questione. «Vedrai che entro la prossima estate ti sarai già dimenticata di me.»

«E tu?» gli domandò Valentina. «Anche tu ti sarai già dimenticato di me?»

Un altro tremore scivolò fra le labbra socchiuse di Bruno, un’altra ruga di conflitto gli solcò la fronte. I denti strinsero, succhiarono un pesante respiro che gli impedì di continuare a mentire. «No.» Il rumore della pioggia scrosciava incessante nel silenzio della stazione, batteva aspro sulla tettoia laminata e scivolava frammentandosi in piccole cascatelle lungo la vegetazione arrampicata sulla parete del monte. «No» ammise di nuovo Bruno. «Non credo che potrò mai farlo.» Lo confessò con una faccia pietosa, di sconfitta.

Valentina non ebbe nemmeno il tempo di risollevarsi, di continuare a sperare, perché…

«Ascolta, Tina.» Da sotto l’ombrello, Bruno alzò lo sguardo e lo volse ai tetti di Portorosso che sbucavano nella striscia di cielo racchiusa fra le nubi e la nebbia di pioggia. «Quello che c’è stato fra noi due…» Annuì. «È stato bello. Sono stato bene assieme a te, e per questo ti ringrazio. Sei stata sul serio la cosa più bella che mi sia capitata da quando sono arrivato a Portorosso. Anzi, forse…» Le sue spalle si arricciarono in un improvviso e tenero moto di timidezza. «Forse fin da quando ho cominciato a…» Ingoiò un sussulto pizzicandosi il labbro fra i denti. «A viaggiare.»

Il cuore di Valentina si spalancò davanti a quella dichiarazione, ne accolse la luce, il calore di una speranza che forse poteva ancora rincorrere.

«E mi rendo conto che la colpa di tutto questo è soprattutto mia» le confessò Bruno, frantumando quel battito. «Non avrei dovuto farmi coinvolgere tanto pur sapendo che un giorno me ne sarei andato a prescindere dalla mia volontà e dalla tua. Per questo è meglio se ci diciamo addio adesso, capisci? È meglio ora prima che diventi davvero impossibile farlo.»

Ma Valentina aveva abbandonato quell’ipotesi già da tanto tempo. «Per me è già impossibile dirti addio» gli disse. «E sono sicura che anche una parte di te, una parte piccola piccola, non vuole lasciarmi andare.»

Bruno scosse la testa. «Non doveva succedere.»

«Cos’è che non doveva succedere?» Gli occhioni abbandonati di Valentina luccicarono di dolore e consapevolezza. «Che ci innamorassimo per davvero?»

«Questa cosa…» Il braccio di Bruno che impugnava l’ombrello riprese a scuotersi, e quei tremori gli aggredirono le spalle, lo fecero irrigidire in quella corazza che lui ancora si rifiutava di far cadere. «Quello che potrebbe succedere se io e te rimanessimo assieme va al di là di quello che proviamo o vogliamo.» Un suo sibilo di rabbia condensò un fiotto bianco. «E tu non te ne rendi nemmeno conto.»

«Spiegami tu di cosa dovrei rendermi conto, allora» rispose Valentina, con altrettanta rabbia, perché il suo cuore continuava a stringere i pugni, a pestare i piedi e a rifiutarsi di capire. «Perché dobbiamo lasciarci, se è vero che nemmeno tu lo vuoi?»

«Perché non c’è verso che funzioni. Io e te siamo…» Dopo un sospiro, il tono di Bruno tornò freddo. L’ombra dei riccioli a celare il mistero racchiuso nel suo sguardo. «Troppo diversi.» Con la mano che non reggeva l’ombrello, Bruno rimboccò la giacca scamosciata, scivolò di un passetto all’indietro. «Non hai la minima idea di quello a cui andresti incontro, Tina.»

«Co-cosa…» Valentina fu attraversata da un brivido più freddo e pungente delle gocce di pioggia che le stavano graffiando la schiena. Sbatacchiò le ciglia gocciolanti, stordita e disorientata. Le parole di Bruno – così strane, troppo strane – distorsero i suoi pensieri come il diluvio stava distorcendo il panorama annacquato da tutto quel grigio.

«Sei mai uscita da Portorosso, Tina?» Adesso il tono di Bruno fu tanto duro e freddo da suonare come un’accusa. «Sai cosa significa vivere in un luogo che non ti appartiene? Lontana dalla tua casa, senza la certezza di avere ogni giorno la sicurezza di un tetto sulla testa o del cibo sulla tavola? No.» Nei suoi occhi scuri lampeggiò una fiamma di rabbia e risentimento. «E credimi quando ti dico che non vuoi nemmeno sapere cosa si prova. Non hai idea della vita a cui stai andando incontro.»

Valentina abbassò il capo ma, a pugni stretti, continuò a sostenere il suo sguardo. «E tu, allora?» Si aggrappò con entrambe le mani all’abito fradicio, sentendolo gocciolare fra le dita. Non aveva ancora intenzione di mollare la presa. «Tu sai già a quale vita stai andando incontro, fuggendo da un posto all’altro? Dov’è che andrai, questa volta? Cosa farai quando te ne sarai andato da Portorosso?»

Bruno alzò le spalle, buttò un’occhiata superficiale alla gola del tunnel da cui il treno non era ancora sbucato. «Magari seguirò il consiglio di chi non mi vuole vedere qui in giro.» Sbuffò dal naso e arricciò un ghigno disgustato. «Magari me ne tornerò giù

Valentina allontanò una manciata di capelli bagnati dagli occhi, li fece gocciolare dietro l’orecchia, giù per il collo. «Giù dove?» Calma. Patteggiò con se stessa di rimanere calma, nonostante la vena provocatoria delle sue parole e i battiti accelerati del cuore che scalpitava d’impazienza. «Giù al Sud…» Ora era lei la pescatrice, l’acchiappa-merluzzi, e come tale si preparò a gettare la sua rete più robusta, a scoccare il suo arpione più affilato e letale. «O giù negli abissi?»

Bruno sgranò lo sguardo che, sbiancando di colpo, mutò in una spettrale maschera di orrore. Le nuvole si pietrificarono, la pioggia smise di cadere, lo scrosciare si interruppe, il cielo annerì e gettò sulla stazione un drappo d’ombra che rese l’ambiente gelido e immobile, come se il cuore del mondo avesse smesso di pulsare, come se il respiro del tempo si fosse fermato.

Non una parola da parte di Bruno, non un fiato. Solo il vacuo vacillare dei suoi occhi che parevano essere sprofondati nello stesso abisso di oscurità appena precipitato dal cielo.

Quando la pioggia ricominciò a cadere, quando il suono del diluvio tornò a martellare il cemento, le pozzanghere, e a scandire lo scorrere del tempo, anche Valentina riprese a respirare. Strizzò i pugni per percepire lo scorrere dell’acqua fra le dita, mosse le punte dei piedi dentro gli stivaletti zuppi per assicurarsi di avere ancora le suole ben piantate a terra. Sapeva che l’arpione aveva centrato il bersaglio. Eppure non aveva nulla da festeggiare, nulla di cui essere orgogliosa, non se Bruno era ancora così distante da lei. Così scosso e smarrito. Così asciutto.

«Credevi davvero che non ci sarei mai arrivata?» gli disse Valentina. «Non sono stupida fino a quel punto, sai?»

Bruno batté le palpebre, contrasse la fronte, e si disfò di quell’espressione vacua e terrorizzata, rispondendo a muso duro ma con schietta sincerità. «Non ho mai pensato che tu lo fossi.»

Le labbra di Valentina si sciolsero in un roseo sorrisino da ebete – Ooh – che subito si ruppe per lasciar spazio a un grugno imbufalito – No, no, arrabbiata. Valentina si colpì con un piccolo schiaffetto alla guancia. Arrabbiata, Tina, concentrati. Tu sei arrabbiata con lui! «Tu non vieni dalla terraferma come noi, non è vero, Bruno? Sei una di quelle creature del mare, una di quelle che ha visto anche il vecchio Sergio.» Il cuore accelerò, le arroventò la bocca ora incapace di fermarsi, di smettere di spiattellare tutto quello che sapeva di aver capito. «Per questo dici di aver paura dell’acqua e non la tocchi mai davanti agli altri, per questo non esci mai dalla tua stanza quando piove, per questo sei scappato dalla piazza quando ti ho schizzato con l’acqua della fontana, e per questo la mano ti è diventata blu quando Pepe te l’ha leccata.»

Il pugno di Bruno stritolò il manico dell’ombrello, rabbrividì facendo tremolare anche la caduta delle gocce di pioggia rotolate dal telo blu. Lui scosse il capo, si girò, e si strofinò la mano libera sui pantaloni. «Tutte sciocchezze.»

Valentina strinse la presa, tirò la lenza. «Se sono solo sciocchezze allora dimostramelo» esclamò. «Dimostrami che non è vero. Ma ti giuro che anche se fossi…» Girò attorno alla pozzanghera più larga per sporgersi dal bordo della banchina che cadeva sulla griglia di binari. Ed era ancora troppo lontana. «Anche se tu fossi una specie di mezzo pesce o di mezza sirena a me andrebbe bene lo stesso. Non smetteresti mai di piacermi per un motivo simile. L’unica cosa che non mi sta bene è che tu continui a mentirmi, quindi vieni qua e dimostramelo. Dimostrami che se te ne stai andando è davvero solo perché hai paura di essere scoperto.» Si rese conto di essere di nuovo sull’orlo del pianto solo quando sentì il fiato sobbalzare in petto e gli occhi ricominciare a scottare. «Dimostrami che non te ne stai andando solo perché ti sei stufato di me.»

Bruno rimase nascosto nel suo silenzio, nella sua solitudine, protetto da quell’impenetrabile muro di dolore che nemmeno l’acquazzone riusciva a sciogliere. «Va’ a casa, Tina.»

Valentina digrignò i denti facendo schioccare la mandibola. «No.» Pestò il piede a terra schizzando acqua grigia e polverosa fino al ginocchio. «Non me ne vado neanche per sogno» gridò, incurante del dolore al petto e del bruciore alla gola. «Questa volta no, Bruno. Io le bugie non le dico, al contrario di te, e non ti ho mentito quando ti ho detto che sei il primo per cui sento che vale la pena stringere la presa e impedirti di andartene. Quindi non ti lascerò. Non senza una spiegazione.» Annaspò soffiando bolle di fiato bianco che le pizzicarono le guance diventate fredde come la pietra. «Non senza la tua parola sul fatto che mi sto sbagliando.»

La bocca di Bruno tremò. «Mi dispiace, Tina.» Dopo quel sibilo mortificato, lui piegò il capo in un triste gesto di disfatta, lasciandosi sommergere lo sguardo dalla caduta di riccioli. «Temo proprio di non potertela dare.»

La rabbia di Valentina divampò in un’ultima feroce fiammata che, come il lume di un fiammifero appena acceso, rimpicciolì e morì nella stessa velocità con cui era sbocciata. I brividi le scivolarono via dalla pelle, sciacquati e raffreddati da tutta quella pioggia che non si fermava, che lacrimava come lacrimavano i suoi occhioni, tristi e sconfitti davanti alla crudeltà di quell’acqua che alla fine si sarebbe sul serio portata via Bruno. Fu facile immaginarlo. Un’onda di pioggia lo avrebbe raccolto, strappandolo alle braccia di Valentina, e lo avrebbe trascinato nelle profondità del mare a cui apparteneva. «Se proprio non c’è possibilità che io possa tenerti qui con me, allora…» Valentina singhiozzò. «Allora non lo farò.» Si strofinò un occhio, sentendo il calore delle lacrime mescolarsi al freddo delle gocce di pioggia. «E se è vero che tu non vuoi più avere niente a che fare con me, allora non ti costringerò, perché non voglio farti del male o renderti infelice.» Tirò su col naso, «Ma ti chiedo solo un’ultima cosa», ricacciò i singhiozzi in gola, «Solo un ultimo desiderio».

Bruno piegò il capo di lato lasciando che i riccioli scivolassero e scoprissero una scintilla baluginata in fondo al suo sguardo. Inarcò un sopracciglio, storse la punta del naso in una smorfia insospettita e diffidente. «Quale?»

Valentina spalancò le braccia. Copiosi rivoli d’acqua gocciolarono dagli orli delle maniche. «Vieni qui» ordinò a Bruno. «Vieni qui e abbracciami un’ultima volta.» Un’abbondante versata di lacrime discendere le gote arrossate, nonostante l’assenza di singhiozzi. Gli occhi di Valentina ancor più belli sotto quel cielo grigio che piangeva come stava piangendo anche il suo cuore. «Un ultimo abbraccio.» Rivoletti lacrimarono anche dal luccichio dorato della collanina, da ogni sua ciocca di capelli, da ogni fibra del suo abito, e la infradiciarono fino alle ossa, fino alla biancheria intima. «Solo uno.»

Le guance di Bruno tornarono a sbiancare e la sua bocca si mangiò un sussulto, come se un pugno gli avesse centrato lo stomaco. Arretrò urtando la valigia che giaceva ai suoi piedi. «Va’ via, Tina.» Si aggrappò al manico dell’ombrello con entrambi i pugni. La fronte nera di rabbia e quel baluginio di timore a vacillare nel grigio delle sue iridi. «Non rendere le cose ancora più difficili di quello che già sono.»

«Sei tu che le stai rendendo difficili!» strillò Valentina. «Ti ho chiesto un abbraccio. Un abbraccio solo, porca miseria! Direi che almeno questo me lo devi.»

«No» fu la lapidare risposta di Bruno. «Non ti devo un bel niente.»

Valentina sbuffò gettando schizzi di acqua dalle labbra infreddolite. «Bene.» Raccolse con entrambe le mani le pieghe della gonna che, pesante e bagnata, finì per sbrodolare una pozzanghera attorno ai suoi stivaletti. «Se non sarai tu a darmi un ultimo abbraccio…» Indurì le spalle come una vera guerriera – uno di quei gladiatori romani che da piccola vedeva illustrati nei libri di Storia –, pronta a tuffarsi nei boati della battaglia. «Allora me lo vengo a prendere io.» Per raggiungere l’altro lato della banchina non si preoccupò di prendere il sottopassaggio, tanta era la paura che Bruno potesse fuggire non appena distolto lo sguardo da lui. Valentina avanzò di un passo, compì un saltello, e cadde sul letto di pietre attraverso cui correva la linea delle rotaie.

Bruno cacciò un rauco grido inorridito. «No!» Si slanciò verso di lei. «No, Tina! Ferma!»

Ma Valentina avanzò. Con soli due passi scavalcò i binari, raggiunse l’altra sponda, e sollevò il ginocchio per arrampicarsi e risalire la piattaforma.

Bruno – la bocca ancora aperta in quell’urlo spezzato a metà – guardò verso la gola della galleria da cui sarebbe dovuta piombare la corsa del treno. Grazie al Cielo rimase vuota, nera e muta.

Valentina si rialzò dalle ginocchia, fece ricadere la gonna stropicciata sulle gambe sporche, si diede una spolverata alle mani arrossate e maculate di piccoli sassolini, e lanciò a Bruno un penetrante sguardo di sfida scoccato da sotto i capelli incollati alla faccia. Il nastrino sciupato le cadeva miserevolmente davanti a un occhio e sulla guancia, come una lacrima verde. A noi due, Bruno. Una volta per tutte.

Bruno si tenne aggrappato al manico dell’ombrello – il gesto di un cavaliere che impugna la sua spada per difendersi dalle fauci del drago che gli è appena balzato davanti, inondandolo col suo fiato di fuoco, bollente e letale. «Tu sei pazza.»

Valentina sogghignò. «Ma dai.» E forse lo era per davvero, perché un isterico singulto di risa le rimbalzò proprio in fondo al petto. Il prurito di una curiosità e di un’eccitazione che crebbe grattandole le pareti dello stomaco. Un languorino che avrebbe brontolato fino a quando non sarebbe stato saziato. «Vediamo fin dove posso arrivare con la mia pazzia, allora.» Avanzò verso Bruno, un passo alla volta.

E Bruno arretrò. «Stai indietro.» Sbatté sullo spigolo di una colonna, e all’impatto gemette come se lo avessero accoltellato alla schiena. Si voltò, urtò la colonna con l’ombrello che si piegò grondando per davanti. Bruno ci girò attorno schivando le gocce che avevano rischiato di bagnargli i piedi, ma inciampò una seconda volta, sempre più in bilico, sempre più alle strette davanti all’ombra di Valentina che si allargava su di lui. «Non sto scherzando, Tina.» A corto di fiato, soffocato dalla mano di terrore che gli era sempre più stretta attorno alla gola, Bruno guardò Valentina con occhi lucidi di rabbia e di supplica. «Stammi lontana, altrimenti…»

«Altrimenti cosa?» Valentina avanzò di un altro passo. «Mi mordi?» Sfoderò un mezzo ghigno che un po’ folle lo era per davvero. «Mi mangi? Mi trascini fino al mare e mi sbrani le budella?»

«Non sai quello che dici.»

«Aiutami a capirlo.»

«Non vuoi saperlo.»

«Questo lo stabilirò io.»

«Vattene!» Bruno scappò giù per quelle che credeva essere le scale del sottopassaggio. Sei o sette gradini che lui divorò in sole due falcate. Si ritrovò a sbattere le mani su una porta di ferro traballante – crash! – su cui era appeso un triangolo giallo che racchiudeva una saetta sbarrata. La centralina elettrica.

La caduta della pioggia arrivava anche lì, scivolava lungo i gradini di pietra, rimbalzava lungo la discesa come un banco di vivaci pesciolini trasparenti, e si accumulava attorno agli scarponi di Bruno appiccicati con i talloni alla porta sprangata. Lo scroscio del diluvio picchiava incessantemente sull’apertura dell’ombrello che continuava a proteggere Bruno, a tremare per i brividi che lo scuotevano mentre stringeva il manico con sempre più forza. «Va’ via» strillò contro Valentina. Strusciò un piede a terra e mollò due calci all’aria come per tenere lontano un serpente. «Non ti avvicinare!»

Valentina scese anche l’ultimo gradino e avanzò, senza fretta, perché ormai Bruno era con le spalle al muro, il sottoscala era troppo stretto, e lui non poteva sviarsela risalendo i gradini senza il rischio di essere toccato o di perdere l’ombrello, bagnandosi.

Bruno colpì la porta di ferro con una manata – slam! –, si aggrappò alla maniglia, la sbatacchiò su e giù, diede un colpo di spalla, ma la serratura rimase chiusa, irremovibile. Sollevò lo sguardo da sotto i riccioli e implorò Valentina con occhi terrorizzati, pietosi e supplichevoli. Tornò ad agguantare il manico dell’ombrello con entrambi i pugni – l’unico appiglio che gli impediva di precipitare, di farsi inghiottire dalla risacca di pioggia. «Tina…» Bruno strizzò gli occhi, fece strusciare le suole all’indietro fino a spingersi nell’angolino del sottoscala. Rabbrividì. Un primo singhiozzo asciutto gli rimbalzò in gola. «No.»

Valentina continuò ad avvicinarsi, fradicia, gocciolante, lenta. Paziente. Non c’era fretta, nonostante il bruciore alle gambe, i rimbombi del cuore, e il nodo d’ansia che cominciava a formarsi in fondo alla lingua diventata arida e stopposa. Adesso era lei che cominciava ad avere paura di quello che stava per affrontare, di quello che si sarebbe palesato una volta che avrebbe ottenuto da Bruno le risposte che cercava.

«Tina, ti prego.» Bruno si coprì sbattendosi entrambe le mani sulla faccia. L’ombrello ancora aperto sopra di lui, incastrato fra il braccio e la spalla, continuava a coprirlo e a respingere i rimbalzi dell’acqua. «Non…» I forti tremori delle gambe lo costrinsero verso il basso, a rannicchiarsi nell’angolino. Le ginocchia contro il petto e la schiena spalmata sul muro. L’ombrello ora simile al cappello di un fungo appena sbocciato dall’umido della terra. «Non farlo.»

Valentina si accovacciò davanti a Bruno lasciando che la gonna bagnata le si afflosciasse attorno come la corolla di una rosa marcita sotto un acquazzone troppo abbondante. Deglutì. Respira. Coraggio. Distese le braccia, porse a Bruno le mani bagnate e infreddolite senza nemmeno sapere a cosa stesse andando incontro, cosa doversi aspettare da quel gesto. Provò a deglutire di nuovo ma, nonostante l’abbondanza di acqua a correrle sulle labbra, non ci riuscì, e soffocò il fiato nel tentativo. Attraverso le gocce di pioggia che la separavano da Bruno, si materializzarono gli acquerelli appesi alla parete dell’osteria. Mostri marini dai denti aguzzi che possono sgranocchiare le ossa di un pescatore come fossero grissini, la coda a lancia tanto affilata da poter sbrindellare le reti da pesca, artigli talmente grossi da sbriciolare le assi di una barca, squame spesse come corteccia, occhi ardenti e maligni come quelli delle serpi.

Raggiunse il viso di Bruno, fece scivolare le dita bagnate sotto le sue mani tremanti, le sporcò immediatamente di blu, e gli avvolse le guance facendolo impietrire, come se con quel contatto gli avesse scaricato una scossa elettrica sulla pelle. Valentina mosse i pollici formando piccoli cerchi, spanse il tocco blu anche sul resto del viso, rendendo la sua pelle più morbida e cedevole.

Bruno sbatté le spalle al muro, torse il capo all’indietro, strizzò gli occhi e inspirò un forte sibilo fra i denti tremanti.

Valentina allargò le mani e sfregò ancora, dal mento agli zigomi, spandendo il blu e sfumandolo nelle zone di pelle più ruvida in un colorito viola che luccicava dove le squame umide si frastagliavano. Anche lei sussultò, ansimò di stupore, «Oh…», batté le ciglia gocciolanti e sgranò gli occhi assorbendo tutto il blu di quella trasformazione, di quella verità che finalmente veniva a galla come gli scogli durante la bassa marea.

Le spalle di Bruno si ammosciarono, ogni fibra di tensione si sciolse dal suo corpo, e lui cadde con il capo in avanti, sospirando. Una sua mano era posata su quella che Valentina gli aveva avvolto attorno alla guancia, le squame a contatto, mentre l’altra era ancora impugnata al manico dell’ombrello che ora proteggeva entrambi. I riccioli caduti in avanti a nascondergli gli occhi, a ombreggiare quella sconfitta, a sfiorare il blu smaltato che gli splendeva sulle guance. Ormai non tremava più. Non sembrava avere nemmeno voglia di scappare. Non aveva più paura, era solo rassegnato. E ferito.

Valentina riguadagnò fiato solo quando il rumore della pioggia, l’unico a riempire il silenzio, cominciò ad assordarla, e solo quando le goccioline sciolte dai suoi capelli cominciarono a pizzicarle le guance e a entrarle in bocca. «M-ma allora…» Deglutì. «Allora è vero.» Era davvero così che funzionava, come aveva detto il vecchio Sergio. Creature del mare che quando sono asciutte assumono un aspetto umano. Ma che quando si bagnano diventano…

«Mi dispiace, Tina.» Bruno mosse la mano sotto quella di Valentina, si grattò la faccia squamata, come sperando di scorticarsi dalla faccia quella sua seconda pelle. Persino le unghie mutarono al contatto, facendosi bluastre e spigolose. «Non volevo che tu lo scoprissi in questa maniera» mormorò. «Non volevo che tu lo scoprissi affatto. Speravo che andandomene…» Un fiotto di emozione si ruppe nella sua voce, come se anche lui si fosse liberato della prigionia in cui lo costringeva quell’identità nascosta. «Speravo che sparendo dalla tua vita ci saremmo entrambi dimenticati di questa storia, prima che diventasse troppo importante per tutti e due. Volevo che tu conservassi un altro ricordo di me, non volevo che tu mi vedessi così.» I suoi occhi sbocciarono da sotto i riccioli. Grigi, grandi, striati come il mare d’inverno, belli oltre ogni dire. Gli occhi che Valentina amava. «Interamente.»

Un battito di paura sprofondò nel petto di Valentina. Fece esplodere un colorato vortice di sapori dolci e aspri, il desiderio intrecciò un valzer con l’angoscia, la curiosità prese per mano la paura e la accompagnò attraverso quella spinta di frenesia che si prova prima di compiere un guaio, un salto nell’ignoto. Interamente. Stava per compiere la più grande stupidaggine della sua vita? «Mostramelo, allora» disse. E la sua fu una voce bassa e adulta. Persino lei stentò a riconoscerla. «Mostrami come sei…» Stava decisamente per compiere la più grande stupidaggine della sua vita. «Interamente.»

Gli occhi di Bruno rabbuiarono, sembrarono ammonirla. Sembrarono volerle dire: sei sicura? Guarda che dopo non si torna più indietro.

Ma lo sguardo di Valentina era alto e risoluto. Gli occhi fermi e affidati a quelli di Bruno che sapevano sostenere il peso dei suoi timori. La pioggia grondava inesorabile, rimbalzava sull’ombrello e formava piccole pozze dove i rivoli più abbondanti si raccoglievano e assunsero il colore della fanghiglia. Mostrami. Valentina annuì. Non ho paura.

Bruno inspirò dal naso. Allentò la presa sul manico, lasciò scivolare l’ombrello dalle dita, lo fece cadere e rotolare di lato. Chiuse gli occhi, piegò di poco la testa all’indietro, e accolse la pioggia che gli si rovesciò sul viso, fra i riccioli, sulle guance, sulle spalle, dietro le orecchie, e ogni goccia, grande e piccola, era una macchia blu che brillava scivolando come smalto, poi unendosi alle altre e spalancando i colori di quella magia.

Folte squame gli sbocciarono fra i capelli. I riccioli tempestati dalla pioggia si tinsero di viola, si infoltirono e vibrarono proprio come avrebbero fatto larghi petali floreali sotto un getto d’acqua. Petali d’alga color indaco e glicine caddero attorno alle orecchie, gocciolarono, e allargarono i padiglioni in pinne sottili e sventolanti simili a ventagli.

L’acqua colorata scivolò come tempera sulla fronte di Bruno, lungo le guance, macchiò la sua faccia di blu, e accrebbe lo sbocciare delle squame che gli appiattì il naso riducendolo a due fessure. Le narici appena formate si dilatarono, risucchiarono l’aria annacquata, e sbuffarono una sottilissima nuvoletta di vapore bianco. Gli abiti scurirono. Creste di pinna si sollevarono sotto le maniche della giacca, e lo splash! della sua coda sbatté sul cemento bagnato su cui lui e Valentina erano accasciati.

Valentina si portò le mani alla bocca per contenere un gemito risucchiato dalla gola. «Ah.» Il cuore le saltò fra le guance, e quel battito la attraversò come una scarica elettrica, le infiammò il sangue e accese un prurito d’allarme, una vocina dietro l’orecchio che le ordinò di prendere le scale e scappare, se voleva avere salva la pelle, se non voleva finire con la gola dilaniata dai morsi e la pancia aperta a suon di unghiate.

Ma c’era anche una parte di se stessa, la più piccola, rumorosa e stupida e irrazionale parte del suo animo, che riconosceva il Bruno di sempre, nonostante l’aspetto diverso. Dietro il brillare delle squame, Valentina riconobbe lo sguardo del ragazzo di cui si era innamorata. Riconobbe il profumo e la voce del mare da cui si era sempre sentita chiamare e che adesso era lì, davanti a lei.

Bruno…

Bruno sventolò le orecchie scosse dalla caduta della pioggia. Sollevò una zampa pinnata, la usò per tirare su i capelli simili ad alghe che gli erano finiti sul muso, perché bagnati erano ancor più folti rispetto a quando erano asciutti. «Ecco…» Batté le palpebre. La pupilla si assottigliò e si allungò nell’iride ora di un grigio freddo e tagliente che nell’oscurità brillava di una luce perlacea, simile all’interno di un’ostrica. «Questo sono io.» Un minuscolo abbaglio bianco luccicò dalle punte delle zanne quando lui aprì la bocca per parlare. «Adesso lo sai.» La sua voce però era la stessa. Non ruggiva e non gorgogliava. Parlava come avrebbe parlato indossando il suo aspetto di sempre. Guardava Valentina negli occhi. La pioggia gli gocciolava dalle squame che, muovendosi sotto il suo lento e regolare respiro, riflettevano sfumature violacee. «Hai paura?»

Valentina aveva ancora le mani accostate alle labbra, ammutolita. Le abbassò, le socchiuse, singhiozzò per recuperare il fiato, poi semplicemente scosse la testa, e seppe di essere sincera.

Bruno si spostò, forse solo per aggiustare la posizione delle gambe, e la sua coda scivolò assecondando il movimento. La punta compì un rimbalzo sul cemento, la pinna schizzò un piccolo zampillo d’acqua, e quello spruzzo raggiunse Valentina, facendola di nuovo ansimare per lo spavento.

Bruno tese la zampa, «No», però non la toccò. Strinse le dita in un pugno, forse temendo di spaventare Valentina rivolgendole le unghie. «Non ti farò del male, lo prometto.»

A Valentina si gonfiarono le guance, e lei spernacchiò da dietro le mani premute sulla bocca. Rise forse più per il disagio che per il sollievo, ma fu una risata che le fece bene, calda e dolce nella pancia come una sorsata di camomilla. Non ne poté fare a meno: era tutto troppo assurdo, troppo eccitante. «L-lo so…» Anche lei aggiustò la posizione delle gambe, si rimboccò la gonna ormai rovinata, e affondò una grattata fra i capelli fradici e scompigliati. «È solo che…»

Bruno piegò lo sguardo, restrinse le spalle e sembrò perdere sicurezza. «Ti faccio impressione?»

Valentina rimase sincera fino in fondo. Glielo doveva. «Solo…» Si grattò di nuovo la testa, sorrise d’imbarazzo, e unì pollice e indice a racchiudere uno spazio poco più piccolo di un fagiolo. «Solo un po’.»

Bruno abbassò gli occhi e le orecchie, raccolse la coda attorno a sé, proteggendosi dietro quella corazza che Valentina credeva finalmente di aver oltrepassato. «Scusami.»

Valentina si affrettò a scuotere la testa e ad agitare le mani, dandosi della stupida. «Ma no, no, va tutto bene, tutto bene, sul serio, sei bellissimo.» Ah! «Cioè…» Si morse il labbro, ansimò, e un colorito paonazzo le scoppiò sulle guance, abbrustolendo ogni fredda goccia di pioggia che l’aveva fatta rabbrividire.

Bruno risollevò la fronte. Un baluginio di stupore a scintillare in fondo agli occhi, a intenerire il suo muso di squame.

«C-cioè…» Valentina arricciò attorno all’indice una gonfia e scompigliata ciocca ribelle. «Sei bellissimo come lo eri anche prima, ovvio.» Le scappò un’altra risatina.

Bruno, dopo aver stretto le labbra, si unì a lei e rise per la prima volta dopo tanto, troppo tempo. «Una bellezza non proprio tipica, forse.» Sollevò il dorso della zampa davanti ai denti in modo che non fossero troppo visibili mentre continuava a ridere.

Valentina sospirò. Il petto caldo e leggero, una ben meritata nebbiolina rosea ed euforica a ovattarle la testa, dopo tutte quelle nere lacrime di dolore e paura. Non c’era nulla da temere, ovvio, e si diede della sciocca per averlo pensato in primo luogo.

Raggiunse una delle zampe – mani? – di Bruno, e la avvolse. Era bagnata, certo. Le squame lisce e morbide quando venivano carezzate, leggermente gommose quando si premeva delicatamente con i polpastrelli, ma un po’ ruvide se le si strofinava contropelo. Si stupì di trovare la mano tiepida anziché viscida. Le piaceva quella sensazione. Le piaceva tutto del Bruno-Pesce come le piaceva tutto del Bruno-Umano. «Sei sul serio sempre tu?» gli domandò. «Non è che c’è una specie di Secondo Bruno che viene fuori quando ti trasformi e che quindi perde tutta la memoria del Bruno di prima?»

Bruno scosse la testa. Altra acqua gocciolò dai capelli d’alga e dalle orecchie a pinna. «No.» Sorrise, e di nuovo scoprì quella coroncina di luce perlacea che brillava in mezzo al blu delle labbra. «Sono sempre io. Il solito Bruno, te lo giuro.» Voltò la zampa, raccolse la mano di Valentina, e chiuse piano le dita, facendole sentire appena la debole e innocua pressione delle unghie a punta. «E tu sei Valentina. Sei nata il quattordici febbraio, il tuo gelato preferito è quello al pistacchio, il tuo più grande desiderio è avere una moto, sei appassionata di meccanica, da piccola eri brava a giocare a calcio ma eri anche troppo violenta, perciò preferivi giocare alla motocicletta mettendoti a cavalcioni sulle radici degli alberi. I tuoi migliori amici si chiamano Sara e Massimo. Adesso lavori all’osteria che si chiama Il Gabbiano d’Argento, il che è un peccato, a detta tua, perché non hai più occasione di fare scorpacciate di dolci e panini come quando lavoravi in panificio

Questa volta Valentina dovette proprio reggersi la pancia per contenere una risata senza ritegno. «Ehi, ehi, vacci piano.» Però si tenne aggrappata alla zampa di Bruno, rispose alla sua stretta e alla sua vicinanza. «Fra un po’ nemmeno io conoscerò tutte queste cose su me stessa.» Sollevò la zampa di Bruno davanti allo sguardo di entrambi. Distese le dita sul suo palmo e gliela fece divaricare, scoprendo il velo di pinna che cresceva anche fra le falangi. Glielo sfiorò con l’indice, percorse la consistenza simile a una pergamena umida, attraversò le sottili venature che si infittivano dove le dita di Bruno si separavano, e notò che… «Hai solo…» Piegò la testa di lato, inarcò un sopracciglio. Le contò di nuovo. «Quattro dita?»

Bruno ammosciò le orecchie e socchiuse una palpebra, spiazzato. La sua zampa fremette contro la mano di Valentina. «Sul serio è di questo che ti stai preoccupando?»

«Non è che mi preoccupa» protestò Valentina. «È che mi incuriosisce. Dove finisce l’altro dito?»

«Non hai più paura?»

«No.» E Valentina seppe di non averne per davvero. Strisciò in avanti con le ginocchia – al diavolo gli strappi sulla gonna – per essergli ancora più vicina. Strinse la zampa di Bruno fra i suoi palmi, come racchiudendola in un piccolo nido, e seppe di star ancora stringendo la mano di quel Bruno che non era mai scomparso. Era lui. Era sempre stato lui. «Perché so che sei tu.»

Il sorriso di Bruno però si affievolì. «Mi perdoni, Tina?» Lui abbassò le orecchie e chinò lo sguardo, di nuovo assumendo quella posa colpevole che lo aveva piegato quando si teneva nascosto sotto l’ombrello. «Mi perdoni per non avertelo detto prima?»

«Sì.» Valentina annuì. «Sì, perché ora me l’hai detto. Cioè…» Fece spallucce, le scappò un’altra ridacchiata. «In realtà l’ho scoperto io da sola, ma ormai non ci sono più segreti fra di noi, giusto?»

«Sì» rispose Bruno. «Giusto.» Di nuovo i suoi occhi aperti alla grigia luce della pioggia. Il brillare metallico delle iridi e l’infinito nero delle pupille a forma di spicchio. «Niente più segreti.»

Il cuore di Valentina accelerò, irradiato di fascino come lo erano i suoi occhioni incantati, mentre la pioggia continuava a cadere loro addosso, a scurire i loro abiti, a risplendere sul blu delle squame di Bruno, a gocciolare dai suoi capelli, e a picchiettare sulla sua coda che emise un altro fremito lungo la punta.

Bruno notò quel suo sguardo così fermo, intimo e avvolgente come un abbraccio. Forse lo fraintese. «Scusami.» Sorrise ma tornò a nascondersi. Si toccò la faccia, abbassò le orecchie e rimboccò il bavero della giacca attorno al collo, assumendo un’espressione triste e sola. Era di nuovo conscio del suo aspetto, di quella bizzarra nudità che lo rendeva diverso. «Sono orribile, vero?»

Valentina scrollò la testa con feroce convinzione, determinata a fargli dimenticare quell’assurdità. Avvolse le guance bagnate di Bruno e posò un bacio sull’umido e molle tepore delle sue squame, sentendo le sue orecchie fremere di emozione e schizzare goccioline d’acqua.

Bruno la circondò con un abbraccio tanto impetuoso da far ansimare entrambi. Se la strinse al petto – la coda curva attorno a lei e una zampa a reggerle la nuca – e le premette la faccia sulla spalla, facendole il solletico al collo con i suoi umidi capelli d’alga. Respirò forte, trasmise quel tremore al petto di Valentina, e gemette un singhiozzo disperato, forse commuovendosi. Forse aveva sempre sperato in qualcosa di simile. Aggrapparsi a qualcuno che lo accettasse in ogni sua forma, a un luogo sicuro, a un posto in cui finalmente fermarsi senza più sentire il bisogno di scappare, a quell’abbraccio che lei gli stava ritornando tenendosi aggrappata alle sue spalle e respirando sui suoi abiti bagnati.

Accadde proprio così.

Sopra di loro, la banchina del binario tremò al passaggio della locomotiva. Il vapore soffiò un fischio acuto che si lasciò dietro una scia bianca e vaporosa, il treno finì inghiottito dal nero della galleria, e proseguì il suo viaggio lungo la costiera ligure. La valigia di Bruno, abbandonata sulla piattaforma del binario, rimase con lui a Portorosso.

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