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Attenzione: in questa
storia vengono toccati temi quali self-harm, DCA, depressione,
trauma, abuso sessuale e ci sono alcune descrizioni compatibili con il livello
di violenza normalmente presenti nella serie originale. Penso di non averli
trattati con superficialità, ma siatene consci se siete sensibili a questi
temi. (Ci tengo a precisare che comunque l’happy ending
c’è!)
Note:
1. questa storia è già stata finita e sarà lunga più o meno 14mila parole
2. vengono accennati gli eventi del libro purplehaze feedback, ma non è necessario averlo letto
1. la guerra è finita
2001,
Aprile
La prima volta che Fugo si spegne
una sigaretta addosso, ci pensa talmente poco che neanche se ne rende conto: il
dolore immediato lo spacca tanto da paralizzarlo e rimane lì, con il mozzicone incollato
alla pelle, finché non realizza che se continua a tenerla lì il dolore non
passerà. Nel buio non la vede ma la cenere lascia una striscia sulla sua
caviglia bianca, e non fa neanche in tempo a rientrare e accendere la luce che
la pelle si è già rigonfiata, piena di liquido.
Fugo ormai sono ore che non
pensa, anzi, forse sono giorni, l’ultima volta che si è sentito dentro il suo
corpo è stato quando ha scorso distrattamente il giornale facendo colazione. È
stato pochi istanti prima di leggere EX CARABINIERE TROVATO MORTO SULLA COSTA
IN SARDEGNA, a malapena un trafiletto, in fondo alla seconda pagina.
Un momento prima era lì, seduto,
con tutta una serie di stimoli che in maniera più o meno gradevole lo
ancoravano a terra, tra cui il profumo intenso del caffè davanti a lui, il mal
di testa che gli pulsava forte nella nuca, il rumore delle chiacchiere da bar
che sovrastavano quello del traffico appena fuori dalla porta; un attimo dopo
non c’era più niente.
Anche lì, in bagno, si sta di
nuovo guardando da fuori, fuori da se stesso. Ogni
tanto gli capita e il punto di vista è lo stesso che aveva quel giorno, quando
a tredici anni il suo professore di Diritto Internazionale ha coscientemente
deciso di compromettergli la crescita, la capacità di sviluppare relazioni
sociali, e la vita.
La visuale è quella: la terza
mensola della libreria di merda da cui Fugo si è permesso di estrarre il Codice
civile pochi istanti prima che andasse tutto a rotoli. Non gli è ben chiaro
come mai ogni volta che gli capita di guardarsi da fuori ripensi a quella
precisa mensola, né capisce perché gli riesca così facile immaginare che la
suddetta mensola in qualche modo lo segua, come un continuo ricordo dell’episodio
più vomitevole della sua intera esistenza, fatto sta che anche mentre infila
faticosamente la caviglia sotto il rubinetto e con la punta dell’indice
schiaccia la vescica che si è già formata per farla scoppiare, si sta guardando
dalla terza mensola di quella libreria.
La prima cosa che pensa è che
sembra un coglione, che sotto la lampadina di luce fredda del bagno si vede
benissimo che non si lava i capelli da giorni, che sembra più ratto che uomo, che
si fa anche un po’ pena da solo; la seconda cosa che pensa è che, oltre a
sembrare un coglione, lo è. Gli torna un ricordo, limpido come pochi altri
nella sua vita.
Il ricordo: Narancia aveva
iniziato a fumare, perché disgraziatamente i cazzi suoi non se li faceva mai e
aveva intercettato Buccellati mentre faceva lo stesso. Ovviamente non aveva
potuto fare a meno di imitarlo, aveva iniziato a fumare in camera (chiaro, perché
era una bestia) e quando Fugo era entrato e lo aveva trovato svaccato sul letto
a ciccare dentro una tazza del Napoli mezza spaccata, con la faccia da
imbecille, aveva infuso ogni suo grammo di pazienza nelle sue azioni
successive.
‘Posso?’, gli aveva domandato,
quasi sorprendendosi. ‘Eeeh, solo stavolta,’
era stata la risposta di Narancia, come una grazia furbetta, mentre gli porgeva
la sigaretta. Fugo l’aveva presa e gliel’aveva spenta sulla spalla, spingendo
di più per inseguirlo mentre si dimenava per scappare via, strillando.
Narancia non aveva più fumato in
camera.
Neanche Fugo, in effetti, fuma
per davvero. Il punto è che ha scoperto che se non mangia per dodici ore e poi
fuma una sigaretta inalando per bene il fumo e trattenendolo nei polmoni per un
po’, allora alla fine gli verrà mezzo da svenire e mezzo da vomitare, e
soprattutto ha scoperto che se in conseguenza di ciò si stende per terra con le
gambe alzate, riesce a dormire facendo sogni che sono solo strani invece di
essere orrendi.
Sono passati almeno cinque giorni
da quando ha letto EX CARABINIERE TROVATO MORTO SULLA COSTA IN SARDEGNA. Non ha
avuto il tempo di continuare a leggere l’articolo, perché in quel momento la
sua coscienza si è scollata dal suo corpo come quando apri un vasetto di yogurt
e rimane quello strato perfetto in sospensione, per la magia della fisica e del
grasso dello yogurt. Anzi, in realtà Fugo pensa che
sia più come quando fa la besciamella e la copre con la pellicola perché non
vuole che si formi la crosta sopra, perché fanculo i grumi, gli fanno schifo e
gli danno fastidio. Fugo ricorda di aver fatto le lasagne con Narancia e Mista un
paio di volte, e nessuno dei due comprendeva l’importanza della pellicola, ma
Fugo era ostinato e ce la metteva sempre. Ecco, lui esce da se
stesso così, come quando poi togli la pellicola dalla besciamella per metterla
sul ragù, senza neanche fare rumore, con un movimento pulito.
In ogni caso, riguardo l’EX
CARABINIERE TROVATO MORTO eccetera eccetera. Fugo è ritornato al bar il giorno
dopo, sperando di ritrovare il giornale, per ritagliare quel trafiletto
schifoso e tenerlo in un cassetto schifoso fino a quando non avrebbe trovato il
coraggio di leggerlo da cima a fondo, come a strappare un cerotto, come a
ficcarsi un coltello in pancia; il giornale non c’era più, e così l’ex
carabiniere trovato morto è rimasto solo una molla eccezionale per mettere in
atto idee terribili, come per esempio pensare potrei spegnere questa
sigaretta su di me e decidere di farlo entro i successivi due secondi.
La cosa più meschina che Fugo si
ritrova a pensare, mentre si sente svenire e quindi si stende sul pavimento del
bagno alzando le gambe sul bordo della vasca, guardando la luce fredda sul
soffitto e sperando che lo uccida come un antisettico miracoloso, è: fortuna
che è stato solo Abbacchio.
Ma, ovviamente, non è finita.
2001,
Aprile
Fugo suona il piano. È una delle
quattro cose che sa fare bene: il contabile, il criminale, la besciamella e il
pianista.
In realtà Fugo saprebbe fare una
enorme quantità di cose, ma tutte queste richiederebbero un livello di presenza
che lui non ha e quindi cui si accontenta di riscattare un paio di favori,
perché è incredibile il modo in cui la gente normale si affeziona a chi si
adopera per fare del bene, anche se quella persona è Bruno Buccellati, che
attualmente è considerato un traditore da stanare e appendere per il collo.
Almeno, così era fino a una settimana prima – sono giorni in cui tutto cambia e
si ribalta in fretta e Fugo non è più sicuro di nulla.
(Non pensa all’eventualità più
probabile, e cioè che siano morti proprio tutti. Fugo pensa che forse alla fine
anche la statistica si sbaglia ogni tanto.)
Così, giusto per impiegare il
tempo, e perché in effetti ha bisogno di soldi, si trova l’impiego di pianista
in un bar. Non a Napoli, mai più a Napoli se Dio esiste da qualche parte
e non lo odia ancora così tanto, ma a Salerno, che comunque non è abbastanza
lontano dagli artigli di Passione, ma se non altro è sulla soglia della tana
del lupo invece che nel suo letto.
Fugo continua a grattarsi le
croste che si formano sulle vesciche delle sigarette spente. Non vuole darsi il
tempo di guarire, e forse tutto sommato quando si fa male si sente rientrare un
pochino dentro la sua pelle. Le cose funzionano così: si gratta il bordo della
ferita – sente un brivido lungo la schiena. Solleva la crosta – sente la pelle
che tira, il pizzicorio del dolore. La stacca del
tutto, ricomincia a sanguinare di nuovo da capo, corre a fermare quel minuscolo
pianto prima che raggiunga il calzino di cotone – ed è incredibile, quasi un
miracolo, perché sulla schiena percepisce di nuovo i vestiti che indossa, sente
la presa della cravatta al collo, muove le dita dei piedi e si rende conto che
le scarpe gli vanno un minimo strette.
Quando non è impegnato a
trasformarsi in un centrino, Fugo suona il piano, e non è neanche tanto male.
Il vero peccato è che dopo le prime volte in cui deve ingranare e concentrarsi,
perché in effetti deve suonare jazz e le sue lezioni di infanzia erano state su
Wagner e Beethoven e cristiani vari, il lavoro smette di essere impegnativo, e
così, di nuovo, via: il suo corpo lì, lui fuori, a guardarsi dalla terza
mensola mentre mette tutto se stesso (poca roba,
davvero) dentro ogni esibizione. Riesce a pensare che sembra solo un pesce
fuori dall’acqua che non riesce a respirare e si dimena nella maniera disperata
che hanno le cose che non vogliono morire.
Ma alla fine, davvero, suonare
non è che gli faccia tanto schifo. Il proprietario del bar lo ha preso in
simpatia (come cazzo abbia fatto Fugo non ne ha idea)
e lo ha capito quel minimo che serve per sapere che è meglio lasciarlo in pace,
non parlargli, non chiedergli, magari pure non guardarlo neanche.
Poi, quando una sera Fugo rimane lì un po’ oltre il normale per raccogliere
la sua paga, è incredibile, come è vero Dio, per sbaglio ascolta una
conversazione che non lo riguarda e va di nuovo tutto in merda.
A quello là, Buccellati, gli
hanno fatto i funerali grandi.
È di nuovo da capo, come il
titolo di un improvviso trafiletto schifoso alla fine della seconda pagina di
un giornale che inizia per EX CARABINIERE TROVATO MORTO, ma forse è anche
peggio, perché è una frase spiccicata da uno stronzo che non conosce neanche, e
Fugo non è dotato nel mantenere la calma, per cui decide nel giro di due
secondi di fare proprio quello che il suo cervello nevrotico propone
febbrilmente.
Fugo prende il ragazzo che ha
parlato, gli spacca il naso a testate, lo butta per terra e gli rompe una sedia
sulla schiena; poi se ne va. Torna nell’appartamento in cui è in subaffitto,
accende una sigaretta, la fuma fino al filtro e se la spegne addosso, ma
neanche così riesce a dormire e passa la notte a guardare se
stesso dalla terza mensola.
2001,
Maggio
Fugo si ricorda le prime
conversazioni con Buccellati: ricorda che erano strane, perché Buccellati era
tutto strano sempre, ricorda che gli porgeva il caffè amaro, la mattina, senza realizzare
che per uno come Fugo la caffeina era un ottimo detonante per lo scazzo.
Quando una mattina
Fugo aveva rotto la serratura della porta del bagno a furia di sbatterla
ripetutamente senza apparente motivo (in realtà era aprile e lui non smetteva
di starnutire per l’allergia), il suo intuito era scattato e Buccellati aveva
comprato una scatola di infusi miscellanei. Poi, aveva iniziato a fargli sempre
la cortesia di mettere un pentolino sul fuoco quando preparava il proprio
caffè.
Era un atto di gentilezza che a
posteriori a Fugo aveva fatto strano perché, fino a quando non erano diventati
una squadra invece che un duo, Buccellati aveva mantenuto una certa
informalità, dove il fatto che Fugo obbedisse ai suoi ordini derivava più dalla
sua esperienza che da una reale differenza di rango.
Se non fossero stati entrambi
talmente disabituati e inadatti a stringere rapporti amichevoli, avrebbero
potuto persino diventare amici. Dopo, quando Buccellati era diventato a tutti
gli effetti il capo, era anche diventato strano pensare che un paio di anni
prima gli preparasse le tisane a colazione.
Oltre a questo ricordo, mentre
Fugo lavora e cioè suona (non più a Salerno, ovviamente), lo colpisce il fatto
che comunque all’epoca Buccellati aveva più o meno la sua stessa età ora, al
massimo diciotto anni, contro i suoi quattordici. Messa così, non lo stupisce
più di tanto che in realtà anche lui fosse un ragazzo imbarazzante, con modi di
fare che non avevano senso, e che talvolta riusciva anche ad avere tutti i
difetti di un adolescente, nonostante la sua posizione.
Buccellati era strambo, non ci si
poteva girare troppo intorno, era uno che si zippava il portafoglio dentro la
coscia perché tenerlo nelle tasche avrebbe rovinato il tessuto costoso dei suoi
pantaloni, e due ore dopo si ritrovava a buttare in mare i pezzi di qualche
criminale smembrato dal suo Stand. Un’altra ora dopo, come se nulla fosse,
ordinava una capricciosa e ci toglieva le olive.
Perché non prendere direttamente
una capricciosa senza olive? Fugo avrebbe voluto chiederglielo prima che
incassassero lui dentro una bara e la bara dentro un loculo a muro.
Fugo si ricorda anche di una
volta, terribile, in cui era tornato indietro dal supermercato perché aveva
lasciato il portafogli sul tavolo, e aprendo la porta dell’appartamento aveva
trovato Buccellati e Abbacchio sul divano, il primo a cavalcioni del secondo.
Per fortuna Buccellati era l’unico mezzo svestito, senza la sua solita giacca
bianca.
Al tempo Fugo aveva semplicemente
spento il cervello mentre il vomito gli risaliva a velocità record dalla bocca
dello stomaco e si era affrettato a prendere quello che gli serviva, mentre il
rumore di Abbacchio che si tirava su la zip dei pantaloni gli grattava il
cervello con la stessa piacevolezza di un gesso sulla lavagna. Buccellati lo
aveva inseguito giù per le scale, imbarazzato come non l’aveva mai visto da
quando si erano conosciuti, e Fugo aveva non-ascoltato con incredibile calma
tutto ciò che aveva da dire. Poi era andato a fare la spesa e non aveva per
niente pensato al fatto che anche solo vedere due persone in un contesto intimo
gli facesse venire voglia di strapparsi le unghie coi denti e cavarsi gli
occhi. Infine, aveva vomitato in un cestino della spazzatura lungo la strada.
Nonostante questo, pensa Fugo mentre suona, Buccellati e Abbacchio non avevano
neanche vent’anni. Questo fatto lo costringe a rimettere tutto in prospettiva:
l’immaturità di Buccellati quando qualcosa non andava secondo i piani e si
stizziva, la chiusura di Abbacchio quando non aveva voglia di stare a sentire
nessuno, il fatto che manco loro due, alle volte, sapessero che pesci pigliare.
E anche il fatto che decidessero di fare una sveltina sul divano mentre il
quattordicenne rompicoglioni che gli ronzava sempre intorno andava a fare la
spesa.
Se lo avesse realizzato prima,
forse si sarebbe risparmiato qualche scazzo. Adesso, gli viene solo da pensare
che sono morti troppo presto.
2001,
Settembre
Fugo viene prelevato. Riconosce un
sequestro quando lo vede messo in atto, principalmente perché lo ha visto messo
in atto, ma non gli è mai capitato di essere lui quello che perde coscienza per
il cloroformio piazzato sotto il suo naso. Soprattutto, un briciolo di fastidio
tutto sommato gli viene: chiunque sia il rapitore, lo ha trovato già mezzo
svenuto steso per terra sul tappeto del bagno, come un coglione. Vorrebbe
chiamare Purple Haze, ma perde i sensi prima di
poterlo fare.
2001,
Settembre
Mista lo odia. Fin lì, non c’è
tanto da stupirsi.
Pensandoci per più di cinque
secondi, Fugo realizza che quella è la sua occasione di ottenere il risultato
che non sarebbe mai capace di prendersi da solo: guarda fisso la pistola che
l’altro gli punta in mezzo agli occhi, poi guarda il suo proprietario, e ha la
ferma intenzione di fare un passo avanti.
È fantastico. Finalmente può
morire anche lui, così da non rischiare di dover guardare Narancia negli occhi
di nuovo dopo quello che è successo sei mesi prima.
Se non che, ovviamente, Mista non
lo ha fatto venire al San Siro di Milano per ammazzarlo. Anzi, non è stato
neanche Mista a decidere di farlo venire lì, perché in effetti se così fosse
magari lo ammazzerebbe pure.
Giorno Giovanna (Don Giorno
Giovanna) ha per lui degli ordini precisi e puntuali, un riscatto crudele che
per i più avrebbe l’aspetto di una grazia, di una seconda opportunità per fare
parte del nuovo mondo, ma Fugo sa bene cos’è: il lavoro sporco per i cani
sporchi. Ma, visto che ormai di suonare si è anche stufato, Fugo si deve
accontentare.
Se Don Giovanna vuole sottoporlo
a un test, può farlo, giacché se ne uscirà morto sarà un successo, e se ne esce
vivo c’è sempre tempo di morire più tardi.
Chiariti i particolari, una volta
che Fugo ha capito che la missione assegnatagli si piazza ambiguamente tra lavoro
sporco e suicidio, gli rimane solo una domanda. In realtà è più per
tirare fuori l’argomento che per avere una risposta vera, visto che quella la
conosce benissimo: mentre glielo chiede, si ritrova a essere un bambino come non
lo è mai stato nella sua vita.
Se è mai esistita la speranza,
quella vera, quella che permane anche quando non c’è proprio più niente
in cui sperare, quella che stava piccola piccola sul
fondo del vaso di Pandora, è quella che Fugo prova in quel momento.
“Ma è vero, Mista? Buccellati, è
davvero…”
Al cenno di Mista, Sheila E. si
chiude le orecchie con la stessa violenza con cui, probabilmente, uccide la
gente, e Fugo si domanda quanto faccia male bucarsi i timpani infilandosi
qualcosa nell’orecchio, pondera brevemente l’opzione come allettante
sostituzione delle sigarette spente sulla caviglia. Mista ha già abbassato la
pistola, ma Fugo pensa che forse dovrebbe continuare a puntarla, perché non sa
come potrebbe reagire alle sue prossime parole.
“È morto. Lui e Abbacchio, e
anche…”
Così Fugo viene a sapere di
Narancia. Non c’è, purtroppo, dolore fisico che potrebbe distrarlo dallo
strazio che lo assale.
2001, Settembre
Sei mesi non sono tanti, ma lo
diventano se la maggior parte delle proprie giornate si passano vegetando sul
pavimento del bagno. È quello che ha fatto Fugo: poi, esattamente come l’ultima
volta, quando c’è di mezzo Giorno Giovanna, le cose iniziano a muoversi con uno
scatto, come qualcosa che cede all’improvviso sotto un peso troppo grande.
Fugo vive gli avvenimenti della
Sicilia con una frenesia nevrotica che gli riaccende tutte le terminazioni
nervose che la depressione gli aveva bruciato.
Alla fine di tutto, si ritrova
seduto in un ristorante anonimo con in gola delle piaghe che bruciano come una
tortura infernale e in faccia uno sfregio che gli parte dall’angolo sinistro
della bocca e gli rincorre la guancia quasi fino all’orecchio. È orribile,
anche se non si guarda allo specchio da due giorni.
La pelle ha appena smesso di
spurgare acqua, ma è ancora di un rosso vivo che prima o poi diventerà
brunastro e poi su toni ancora più scuri. A quel punto, farà una crosta, come
tutte le ferite, come quelle che ha sulle caviglie, e Fugo sa già che gli
costerà fatica non andare a sollevarla.
Così, anticipando già il prurito
fastidioso e il sempre presente desiderio di darsi qualcosa a cui pensare che
non siano tutti i modi in cui Narancia potrebbe essere morto (non ha ancora
avuto l’occasione di chiedere, e comunque non ne avrebbe il coraggio), Fugo si
allontana poco poco dal tavolo e appoggia il piede di
traverso sul ginocchio destro.
Si gratta il bordo di una delle
ferite, una che ormai sta diventando sempre più insignificante ogni volta che
la crosta si riforma, con la pelle intorno tutta tesa – Fugo la sente come una
spina di acacia sulla carne morbida. Una volta, sui fiori dell’acacia,
Buccellati aveva fatto un commento felice, forse perché erano bianchi e
profumati come poche cose al mondo; Fugo non sa bene perché se lo ricordi. Magari
perché poi aveva iniziato ad accorgersi che quei cazzo di alberi stavano
dappertutto.
Allora inizia a sollevare la
crosta e ormai non sibila neanche più per il dolore, gli corre soltanto un
brivido sulla schiena – Fugo scuote la testa, come preso da un piccolo spasmo.
Chissà come è morto Narancia.
Magari gli hanno sparato. Magari il boss è riuscito a rompergli qualche osso
prima di farlo fuori. Magari anche dall’altra parte c’era uno stronzo con uno
stand assurdo e micidiale, che uccide solo esistendo, uno che se Fugo fosse
stato lì avrebbe potuto tenere impegnato. Magari ha fatto male, magari ha avuto
tutto il tempo per pentirsi di ogni cosa, magari ha persino maledetto
Fugo, quell’omm ‘e merda che per forse
Narancia è stato un po’ l’inizio di tutte le cose e poi non ha avuto neanche il
coraggio di venire a vederle finire.
Si accorge che Giorno Giovanna
sta seduto poco lontano quando ormai sta già passando alla prossima crosta,
tamponando il sangue della prima con il dorso della mano. Ora si sente le mani
sporche e, se avesse la forza di ragionare, avrebbe vergogna per il momento in
cui dovrà probabilmente portarle in vista. Purtroppo o
per sfortuna, il suo cervello è fisso a roteare vorticosamente su cose più
sgradevoli, per cui non se ne rende neanche conto.
Poi parlano un po’ e Giorno è
tutto fuorché umano.
Fugo ha visto il modo in cui
Sheila E si dipinge di devozione e va a morire per questo ragazzino, ha visto
il terrore di Murolo all’idea di finire tra gli sfavoriti di Don Giovanna. Si è
domandato da una parte quale sia il miracolo con cui Sheila E è stata portata a
nuova vita, e dall’altra quali cose atroci e disumane abbia visto il siciliano
con le sue carte. Quale sia stato il giudizio universale riversato dal nuovo
boss sul vecchio.
In ultimo, Fugo non riesce a
conciliare queste due cose all’interno del ragazzo che gli siede davanti. Come
accade con tutte le cose che non riesce a spiegare, prima Fugo si incazza e
poi, siccome incazzarsi non può, rimane paralizzato nella sua incapacità,
sbiancato dal suo essere inadatto, e non parla più di tanto anche dopo che il
miracolo divino gli ha curato le piaghe aperte in gola.
Giorno gli spiega cose, un
mucchio di cose, e Fugo le registra tutte da qualche parte in fondo al cervello
per analizzarle bene dopo, e poi fa il danno, e cioè gli dà la foto di quel
giorno sul molo prima di partire per Capri.
I morti sono tutti lì. L’ex
carabiniere trovato sulla spiaggia in Sardegna, il ragazzo amato da tanti a cui
hanno fatto i funerali grandi e Narancia, solo Narancia, che non era neanche
riuscito a diventare grande abbastanza da fare qualcosa di memorabile.
Fugo trema, la foto cade a terra,
e pensa che forse non la vuole mai più vedere, o che non vuole vedere
nient’altro che quella.
Perché io, finisce a
chiedergli, con le lacrime in gola che gli tagliano il fiato e lo costringono a
tirare dei respiri mezzi rotti. Perché io sono qui, e loro no?, ma è più un
capriccio inconsolabile da bambino che una vera domanda, perché Fugo lo sa che
un vero perché non esiste e, se esiste, neanche Giorno è capace di
spiegarglielo. Quando lo guarda attraverso le lacrime i suoi occhi sono morbidi
e duri al tempo stesso, solenni.
“Ti chiedo di fare un passo in
avanti,” dice Giorno, lo sguardo calcato del suo, “e se da solo non riesci a
farlo tutto intero, ne farò metà per te.”
Quando Fugo si inchina, esausto,
capisce o crede di capire. Metà del passo, per lui, suona come un miracolo.
2001,
Ottobre
Il problema quando il tuo amico
coglione muore, oltre al fatto che è morto, è che era un coglione, e tale
rimane anche dopo la sua dipartita.
Tutto quello che Fugo non aveva
la forza di rivangare perché faceva troppo male (musica, soprattutto, ma anche
luoghi condivisi, ricette, battute che capivano solo loro, quella roba lì) ora
agisce contro di lui. Qualsiasi piccola cosa è una miccia per i ricordi, ma
alla fine Fugo li rivanga con piacere sadico, sperando
magari che il dolore lo uccida, e poi si sente ancora più meschino; non riesce
neanche a piangere il suo amico senza che prevalga il suo egoismo infetto.
Fugo si ritrova ad ascoltare
Snoop Dogg seduto su una seggiola malandata in veranda, mentre la sigaretta tra
le sue dita brucia da sola, seicento gradi che poi sarà ben felice di spegnersi
addosso. Fugo piange lacrime secche che non gli scendono neanche fino al mento,
con le labbra strette in una linea bianca e compunta, e ripensa a tutte le cose
stupide che sono successe con quella colonna sonora.
Il suo primo stereo glielo
avevano regalato Fugo e Abbacchio. Un regalo combinato che in realtà era un
biglietto di scuse da parte di Fugo per una volta in cui lo aveva preso per la
nuca e gli aveva sbattuto la testa sul tavolo fino a farlo sanguinare, fino a
quando non gli si era aperto un taglio sul sopracciglio e da lì era uscito il
sangue che aveva macchiato la tovaglia bianca (da lì avevano smesso di avere
tovaglie bianche). Poi, non contento, visto che Abbacchio non era stato rapido nell’alzarsi
dal divano, Fugo aveva preso Narancia per la sua canotta (quella cosa di
cinghie era così afferrabile, porca puttana) e lo aveva gettato per terra, dove
poi aveva proceduto a dargli almeno quattro calci in viso e in grembo prima che
Abbacchio riuscisse a tirarlo via di lì, scaraventandolo contro il muro per
intontirlo e magari anche farlo ripigliare.
Narancia aveva imparato a non punzecchiare Fugo su certi temi, dove certi temi equivaleva
a scommetto che i prof ti adoravano. Magari ti portavano fuori a cena, eh,
Fugo? (con gesti osceni annessi). Fugo invece aveva imparato il prezzo
medio di uno stereo di qualità medio-bassa.
Aveva anche imparato che alcune
persone sono troppo buone, troppo luminose, per il mondo schifoso in cui si
ritrovano: Narancia, con la faccia gonfia e viola e spaccata, gli aveva chiesto
scusa almeno quindici volte e aveva chiesto se potesse abbracciarlo; era stata
una cosa imbarazzante, lui che lo stringeva e Fugo lì impalato, ogni suo senso
che gli urlava addosso di scappare, di strappare, mordere, urlare, correre,
via, via, via via via via. Invece era rimasto lì.
Una volta aperto il suo regalo,
Narancia aveva ufficialmente messo tutto quanto in un cassetto mentale, chiuso
per sempre. L’entusiasmo era stato troppo, soprattutto quando poi Buccellati
gli aveva dato un CD di Tupac a caso.
Nessuno sguardo spaurito, nessuna
esitazione nei giorni successivi, anzi. Comprati un CD, lo ascoltiamo
insieme, gli aveva detto, che musica ascolti? Fugo non gli aveva
dato una risposta, perché non ne aveva idea.
Snoop Dogg intanto continua a
parlare e nelle orecchie di Fugo ha la stessa sensazione della gomma morbida
che gli cola in bocca. Narancia è morto. Con difficoltà Fugo separa tra di loro
le parole che escono dalle cuffie, ma ricorda bene che questa era una delle
canzoni che ascoltava a ripetizione, e lui non aveva neanche mai provato a
leggerne il testo. Non che Narancia invece lo conoscesse: ovviamente faceva
schifo in inglese quanto in matematica.
In ogni caso, non è una canzone
dal significato straordinariamente filosofico, ma Fugo si sente comunque un
coglione a piangere sulle lyrics di Me & My Doggz.
2001,
Ottobre
Stranamente, ma neanche troppo,
l’unica cosa che gli gira in testa mentre Giorno Giovanna gli parla di affari è
‘cuzI’m a motherfuckingborn gangsta,
da una canzone che piaceva molto a Narancia. Come un disco rotto, sempre e solo
quella frase, perché in effetti l’unico tra di loro che è veramente nato per
fare quella vita è lui.
L’altra persona riguardo cui
poteva avere dei dubbi era Narancia. Magari non era nato per quella
vita, però l’aveva presa di sua volontà e indossata e molti avrebbero potuto
dire che gli calzasse anche bene.
Fugo ha dovuto ricredersi un paio
di settimane prima, quando lui e Mista hanno avuto una discussione. Mista lo ha
incrociato in corridoio a canticchiare sovrappensiero una canzone che
condividevano loro tre, insieme, e gli ha dato una spinta a piena forza contro
il muro; Fugo ha risposto perché l’ha preso di sorpresa, e poi hanno iniziato a
darsele veramente, mentre Mista gli urlava addosso.
Così ha finito per riportargli le
ultime parole di Narancia. Le ha strozzate fuori dalla sua gola mentre le
lacrime strozzavano lui, e mentre lui strozzava Fugo
con le sue mani giganti: Narancia voleva tornare a scuola. Ovviamente sotto
sotto ci voleva tornare, altrimenti non avrebbe fatto tutta quella fatica per
cercare di imparare le cazzo di tabelline con il peggior insegnante che la vita
potesse affibbiargli.
Considerando che Fugo poteva
finire in cattedra alla Federico II o direttamente alla Corte d’Assise,
considerando che Abbacchio voleva fare il carabiniere da quando aveva otto
anni, considerando che da quando Buccellati ne aveva dodici aveva iniziato a
smontare la gente per buttarla nel golfo, e che Narancia voleva tornare a
scuola, rimangono solo Mista e Giorno: Mista, probabilmente, metterebbe la
stessa determinazione nel fare l’assassino o il cassiere, per cui il discorso
per lui cade un po’. Quando prende una decisione, ci va fino in fondo, a
prescindere da quale essa sia.
Giorno, invece. In quei pochi
giorni di delirio che si erano susseguiti dopo il suo arrivo, Fugo aveva
trovato la sua una presenza stridente in mezzo alla loro squadra di derelitti,
come se un re che si sporca la faccia di terra per mescolarsi con la gente
normale, dimenticandosi della sua postura fiera, del suo sguardo brillante, del
modo in cui le sue spalle larghe potrebbero sostenere un mondo intero.
Ora, davanti a lui, mentre passeggia
per i corridoi della sua villa e gli spiega la sua visione per la nuova classe
politica che vuole in Italia, Giorno Giovanna ha ben ragione di essere un re,
forse anche di più, quasi un Redentore. Fugo continua a essere cattolico, forse
più perché a sua nonna e alla messa della domenica mattina associa alcuni dei
pochi ricordi felici della sua infanzia, e non sa bene se la sua possa essere
considerata blasfemia.
Probabilmente sì, ma quando
Giorno gli chiede di camminare con lui nel giardino si sente comunque come un
apostolo, magari un Matteo, che sente seguimi e segue, senza tanto
indugio. Finalmente Fugo capisce un po’ Abbacchio e le sue motivazioni per
votare la sua vita a un semplice uomo, anche se Giorno solo un uomo non sembra.
*
beeeeeeh.
buongiorno (?)
giusto altre due note:
1. purtroppo il grip che vento aureo ha sul mio
cervello è più o meno lo stesso che avete voi quando dovete aprire la macchinetta
del caffè chiusa strettissima
2. questa fanfiction è stata iniziata un po’ per sfogo, per cui per questo è un
po’ unhinged in questa parte. Poi migliora però per
cui se volete tenete duro (disse il bugiardo, sapendo che comunque doveva
peggiorare un altro po’)
3. fatemi sapere se devo alzare il rating ad arancione, sia ora che
successivamente, anche se non credo, ma io efp non l’ho
mai capito, per cui daje
bene ci vediamo!! ciaoooo
Note: meglio che abbiate finito
Stone Ocean per leggere questo capitolo, non per gli spoiler ma per capire
meglio cosa succede!
2. per sempre è finita
2002, Febbraio
Giorno ha il palato che Fugo aveva a sei anni. Non pensa che
sia una cosa nata dall’abitudine di una vita agiata, semmai dal fatto che
finalmente può comportarsi come gli pare, ma in ogni caso Don Giorno si nutre
di pasta al sugo quattro o cinque pranzi su sette, costringendo chiunque lo
circondi a fare lo stesso.
Mista cucina. Sono sempre stati loro due a farlo, dopotutto,
ma mentre Fugo lo faceva perché era il meno peggio, a Mista in effetti piace.
Fugo vorrebbe dire che non capisce perché Giorno non si
faccia servire da un cuoco vero, ma in realtà si ricorda tutte le domeniche
passate in grazia di Dio, quando mangiavano un chilo di pasta in cinque, e le
ricorda con affetto. La pasta era territorio di Mista, e lo difendeva
egregiamente.
Purtroppo, Fugo ricorda anche una delle prime volte in cui
Mista aveva preparato per tutti pasta al sugo: erano arrivati da un paio di
giorni, lui e i Pistols, il che significava che neanche dopo uno scontro
terminato con i cervelli di tre persone sparsi sul muro e sui loro vestiti si
poteva avere un po’ di silenzio. Al ritorno Fugo aveva guidato, mentre gli
altri due (più sei) si erano impegnati in discussioni dall’alto calibro
(cannibalismo, la prima di tante volte) sui sedili posteriori.
Ad un certo punto si era ritrovato ad accostare, con le mani
che tremavano mentre cercava di slacciare la cintura di sicurezza. Era sabato,
quale modo migliore di vomitare dentro un’aiuola sotto il sole di mezzogiorno
per inaugurare il fine settimana? Mista gli aveva fatto il tifo e urlato meglio
fuori che dentro con entusiasmo, Narancia aveva riso sguaiatamente. Fugo si
era svuotato fino a sentire le palle degli occhi che gli ruotavano indietro, le
dita bianche aggrappate al bordo del marciapiede come se dovesse trattenersi
l’anima in corpo per non buttare fuori anche quella.
Buccellati li aveva squadrati con il naso arricciato appena
avevano provato a mettere piede in casa. Mista, l’unico che era stato
risparmiato dallo spargimento di sangue (ovviamente: era lui il coglione che
aveva sparato), si era autodichiarato cuoco della giornata mentre Fugo e
Narancia andavano a farsi una doccia.
I vestiti li avevano buttati. Fugo aveva spinto di qua e di
là le mezze penne nel suo piatto, di un rosso intenso, con il profumo di
pomodoro e di basilico che gli otturava le narici e gli faceva venire di nuovo
da vomitare. Era riuscito a mandare giù quattro pezzi di pasta prima di
arrendersi. Del pane era stato spinto verso di lui: Buccellati lo guardava
silenzioso, senza commenti, ma non erano necessari. Narancia aveva finito anche
il suo piatto, e Fugo continuava a non capire come un ragazzo in crescita
potesse mangiare così tanto e rimanere così piccolo.
Poi, Buccellati aveva messo su il caffè.
Mentre gli altri sparecchiavano la tavola e Fugo lavava i
piatti, loro due si erano scambiati quelle poche informazioni necessarie per
considerare la missione della mattinata conclusa. Buccellati aveva commentato
qualcosa di positivo in riferimento a Mista, nonostante la descrizione degli
eventi che Fugo gli aveva riportato.
Fugo non ricorda le parole esatte, ricorda meglio il fatto
che avevano bevuto il caffè tutti insieme mentre Narancia gli chiedeva di nuovo
di spiegargli geometria.
Insomma, Mista ha sempre cucinato bene ed è naturale che
questa cosa non sia cambiata. Poi, il sugo fatto coi datterini è una cosa che
anche Fugo definirebbe strepitosa, se gli importasse qualcosa. A conti fatti,
invece, Fugo ha di nuovo l’immenso piacere di guardare tutto dalla terza
mensola della libreria di merda, mentre tiene in mano il pacco di spaghetti e
aspetta che l’acqua torni a bollire dopo averla salata, mentre con un terzo
occhio che non sapeva neanche di avere rivede la scena di Narancia che non
distingue baricentro, ortocentro e incentro e abbandona i buoni propositi di
geometria dopo dieci minuti di spiegazione.
Giorno intanto aspetta e lo guarda con la coda dell’occhio
(Fugo non lo sa) e strappa il pane a piccoli pezzi mentre guarda fuori, verso
il mare, ascoltando Mista parlare del niente.
2002, Marzo
Un giorno, Fugo si sorprende a formulare un altro pensiero
ributtante.
A posteriori, dopo lo sgomento iniziale, mentre si gratta
via qualche rimasuglio di crosticina delle ferite sulla caviglia, seduto e
ammutolito sulla veranda della villa di Giorno, si dice anche che forse non è
un pensiero così ingiustificato: di nuovo, da capo, si rende conto di fare
schifo.
Mista ha più o meno smesso di cercare la rissa vera con lui
(in realtà, ha già smesso da quella volta in cui ha cercato di strangolarlo
mentre gli spiegava cos’era successo in Sardegna e a Roma), ma non molla l’osso
sulle provocazioni. Per sua sfortuna, Fugo ha dalla sua il grande potere del
dissocio, il cui unico problema è che non riesce propriamente a fermarlo, ma
quello che conta è il risultato, e cioè: ci sono dei grossi buchi nella
comunicazione tra il suo cervello e il suo corpo e viceversa.
In questo modo, la rabbia che gli monta dentro si disperde
da qualche parte nel trasferimento da cervello ad arti, e così Fugo non
reagisce quasi mai. Le poche volte in cui si incazza e rompe qualcosa lo fa
perché l’argomento di discussione è triviale, come succedeva spesso in passato:
è molto più facile percorrere un sentiero già fatto decine di volte piuttosto
che uno quasi nuovo.
Fugo riesce a rompersi un dito prendendo a pugni il muro, e
quella è la prima volta che vede Mista ridere dopo mesi.
Mentre Giorno lo curava, purtroppo, Fugo ricordava quando la
stessa cosa era successa a Narancia. Lui non aveva avuto il privilegio di un
Don onnipotente, ed era rimasto con la mano fasciata per diverse settimane.
Perso in questo carosello di pensieri, Fugo si scollava da se stesso, e Giorno
gli parlava, e Gold Experience lo fissava con quello sguardo vuoto e nascosto,
e Mista è arrivato persino a dargli una pacca sulla spalla. Avrebbe voluto
essere abbastanza presente da sentire tutte queste cose, ma tant’è.
A prescindere da piccoli sprazzi di cameratismo estratti a
denti stretti dal prima, Mista non vuole saperne di lasciar perdere.
Fugo si domanda perché cazzo non riesca a scendere a patti
con tutto quanto da solo, perché debba per forza mettersi a sbrattare sale
sulle ferite di Fugo, punzecchiandolo di continuo, citando Venezia a ogni
occasione possibile, come se Fugo non vivesse in funzione di pentirsi delle sue
scelte.
Finalmente, una bella sera di primavera, particolarmente
infastidito, Fugo formula il suo pensiero ributtante: come starebbero le cose
se al posto di Mista ci fosse Narancia?
Che, detta così, può anche sembrare non troppo colpevole; il
problema è che per proprietà commutativa questa domanda si traduce anche in.
Come starebbero le cose se al posto di Narancia ci fosse
stato Mista?
Fugo non ci pensa. Strizza gli occhi, continua a grattarsi
le ferite che ormai stanno gocciolando sangue nuovo, e lo pulisce con il dorso
della mano. Merda. Merda.
Fugo ci pensa. Narancia lo avrebbe riempito di sberle,
sarebbe anche stato capace di rifilargli una coltellata. Dopo un quarto d’ora
di insulti e un quarto d’ora di mutismo, forse lo avrebbe anche ripreso con sé,
magari non proprio proprio perdonato, ma Fugo se lo ricorda quel ragazzino del
cazzo che gli chiede scusa quindici volte con la faccia tumefatta e poi lo
raccoglie e lo riaccoglie nella sua vita talmente semplice e diretta da non
ammettere sottigliezze come il risentimento.
Fugo non ci pensa. Mista è vivo, e lui può solo ringraziare
il cielo che lo sia, perché nonostante tutto dopo meno di un anno Mista sta già
smettendo di odiarlo, sta ricominciando a dirgli tieni quando gli porge
qualcosa e a dirgli vai a cagare, coglione quando Fugo fa una
precisazione saccente nei suoi confronti, rientrando dentro i pattern del prima.
Alla fine, forse, Mista vuole solo vedere qualcosa da lui,
una reazione, una verità. Purtroppo, l’asso nella manica di Fugo è un decennio
di esperienza nella repressione di qualsiasi emozione che non sia la rabbia, e
negli ultimi mesi anche quella è diventata strana, come se prima fosse stata
sangue che sgorgava da un’arteria, rosso e vivo e una fontana in pressione; ora
è sangue venoso, una cosa che cola, densa, scura, lenta. Lo sente che gli si
raggruma in gola piano piano, e prima o poi forse lo farà soffocare, ma non ci
sono l’allarme e la furia che c’erano prima e chiedevano di essere sfogati e
urlati.
Mista può rovistare quanto gli pare, anche se significa
estrarre un coltello piantato nel suo stomaco e risollevare i lembi della
ferita, raschiare e scavicchiare nella foga deleteria di tirare fuori qualcosa
di diverso da umori e budella; ma Fugo resiste, e si contorce, perché se si
facesse stendere e tirare non potrebbe sopportare l'essere aperto e visto.
2002, Aprile
È passato un anno.
Mista alla fine annuncia che ha capito una cosa. Smetto
di insistere con te, dice appena finito di cenare, aprendo il frigo e
prendendosi una birra, sei come l’acqua della pasta. Più la guardi
mentre aspetti che bolla, più tempo ci mette: questa realizzazione storica
avviene la sera dell’anniversario della morte di Abbacchio, quando finalmente
Fugo può veramente tirarsi fuori le interiora e assaporarle piacevolmente su
tutto il palato mentre Mista gli spiega come lo hanno trovato, morto trapassato
da parte a parte sulla spiaggia.
“Un casino, guarda, davvero una cosa terribile. Ti ricordi
quel tipo, aspe’, quello del porto, che ci andammo noi due?”
Fugo lo ricorda. Era l’inverno prima che arrivasse Giorno,
una vita fa. Era stata una settimana freddissima ma Mista teneva duro e si
rifiutava di indossare dei guanti perché lamentava poca sensibilità alle mani,
che quando devi far ruotare la tua vita intorno a una pistola è un po’ un
problema. Fugo gli aveva solo detto ‘se ti parte un colpo per sbaglio, ti
strappo la lingua e te la faccio mangiare’.
Ovviamente gli era partito un colpo per sbaglio. La cosa era
stata comica, perché Mista era stato capace non solo di fare ciò, ma anche di
centrare esattamente il fianco di Fugo.
Quello si era accasciato e aveva visto rosso, perché non era
mai stato colpito da un proiettile e non sapeva che facesse così cazzo
male, perché non aveva mai dovuto tollerare una missione con Mista soltanto,
con il suo chiacchiericcio infinito in macchina e il suo agitare continuamente
quella cazzo di pistola, con i Pistols che parlavano quando lui taceva e che
saltavano dappertutto, per cui già il tragitto era stato insostenibile, ma il
proiettile era stato semplicemente troppo.
Quando era tornato in sé e il profilo di Mista era ritornato
a essere una cosa umana invece che un ammasso di colori e puntini, c’era anche
una pozza di carne sciolta poco più in là; Purple Haze guardava con i suoi
occhi giallastri e vuoti il frutto della sua stessa esistenza, probabilmente
senza neanche capire cosa avesse davanti.
Fugo aveva osservato il suo Stand per un attimo mentre la
sensazione familiare dei succhi gastrici che gli risalivano in gola iniziava a
sopraffarlo. L’odore, poi, era la cosa peggiore, insostenibile nonostante
fossero all’aperto. Era la prima volta che Mista vedeva Purple Haze in azione,
e sarebbe stata anche l’ultima.
“Ecco, lui, quella volta davvero mi fece impressione. Non
pensavo che uno come te potesse fare una cosa del genere,” anche attraverso il
velo leggero dell’alcol, Fugo si ritrova a pensare e frignare che non era lui,
non era lui, era Purple Haze. Che era tutta un’altra cosa. “Ecco, comunque,
vedere Abbacchio è stato peggio.”
Fugo appoggia il bicchiere di vino per terra. Sono nella
villa, e Fugo si ritrova sempre più spesso a passare la notte lì, su uno dei
divani della biblioteca (perché ovviamente c’è anche una biblioteca e sembra
pure più grande di quella dell’università), ma stasera sono sul terrazzo,
seduti scomodamente sulle sdraio che Giorno ha fatto mettere su richiesta di
Mista, che aspettava il sole della primavera con trepidazione.
“Ah sì?” A Fugo tremano le mani e forse anche la voce, ma
tanto Mista è partito per la tangente e probabilmente non si renderebbe conto
dell’esplosione di Marte. Si tiene queste cose per sé da un anno.
“Guarda, uno non pensa a quanta roba c’è dentro un essere
umano finché non la vede sparsa per terra.”
Anche se Fugo ha visto almeno quattro o cinque scioglimenti
di persone in tempo reale davanti a sé, forse sta diventando un po’ troppo, ma
non ce la fa a fermarlo, sarebbe quasi una mancanza di rispetto. E poi anche
lui ha aspettato un anno.
“Allora lì ho pensato che peggio di così non poteva
diventare,” come un coglione, l’aveva pensato anche Fugo. “Ma poi c’è stato
Narancia. Lui è stato, voglio dire, c’era di mezzo Diavolo, quindi non l’abbiamo
neanche visto. Non l’abbiamo sentito urlare. Prima era lì, poi no. Anzi, era lì
ma impalato. Fugo, sai cosa vuol dire impalato?”
Fugo lo sa.
“Sì che lo sai, ovvio. Intendo, sai che aspetto ha, veramente,
quando succede davanti ai tuoi occhi?”
Fugo non lo sa.
“Allora, vedi, c’erano cinque sbarre. Due erano sul braccio,
poi altre due qui e qui, sul petto,” la mano di Mista lo segue nella
spiegazione, puntuale. La vista di Fugo inizia ad annebbiarsi. “La quinta,
però, cazzo, era la peggiore. Perché, guarda, passava da qui…” Mista si indica
il bicipite, flettendo il braccio, “e poi in testa. Da una parte all’altra,
eh.”
Mista gli spiega che era già tutto fatto, che ci hanno
provato, gli spiega anche dei quattro proiettili e dell’unica volta che ha
visto Giorno piangere.
“E alla fine c’è stato Buccellati. Quello è successo quando
pensavamo che fosse tutto finito,” Mista fa una pausa per finire il suo
bicchiere di vino, tutto d’un colpo. “E niente. Stavamo contenti e quando lo
avevamo lasciato nel Colosseo era vivo. Poi siamo arrivati là…”
Fugo si pianta le unghie nei palmi delle mani e si costringe
a rimanere lì, ad ascoltare. Stringe i denti finché non gli viene il mal di
testa.
2002, Agosto
Alla fine c’era un motivo se Mista e Narancia andavano così
d’accordo: erano simili. Stupidi uguale, senz’altro, con la stessa tendenza a
far implodere le situazioni piuttosto che placarle, e tutto sommato anche con
lo stesso buon cuore.
Questo è tutto molto bello, almeno fino a quando Mista non
inizia a tartassare Fugo dicendogli di trasferirsi anche lui nella villa, che è
grande e vuota e lui non può sempre solo conversare col suo capo o con una
tartaruga (Sheila E non fa conversazione con lui, pare lo odi, cosa che a Fugo
fa un po’ ridere).
"Ma tanto che ci devi fare a casa? Dormi in biblioteca
a giorni alterni." Sono in una delle cucine della villa, sono le due e
Mista parla masticando una pesca, e nonostante questo riesce comunque a
sembrare accusatorio.
Dal suo canto Fugo ha mangiato pasta in bianco,
incredibilmente di quella aveva appetito. Mista l’ha guardato masticare piano
tutte le mezze maniche che aveva nel piatto, anche se credeva che Fugo non se
ne stesse accorgendo, e gli è sembrato un interesse strano. Direbbe, quasi
amichevole. Ora sta bevendo un decaffeinato, fatto da Mista con la schiumetta
come quello del bar.
"Ah, ho capito. Hai la tipa e qua non la puoi
portare?"
Fugo si soffoca con il caffè. Gli viene in mente il fatto
che non cambia le lenzuola da tre mesi, il fatto che non c'è niente in frigo a
parte due bottiglie di tè freddo, il fatto che comunque non inviterebbe una tipa
a casa sua neanche se queste due condizioni non sussistessero. Mentre allunga
una mano per strappare un pezzo di scottex, Mista alza gli occhi al cielo.
"Ua, che scandalo che fai per niente. Allora magari il
tipo?"
C’è da fare un apprezzamento verso l’inclusività dimostrata
dal ragazzo, che senz’altro ha tutte le buone intenzioni del caso nel fare
un’osservazione del genere.
Purtroppo Fugo non prova un’emozione nei confronti di una
persona dal terzo governo Andreotti. Purtroppo inoltre Fugo sussiste nell’avere
un conato di vomito all’idea di essere anche solo toccato sulle braccia. È
anche vero che riavvicinarsi a Mista significa reinserire nella sua vita molti
stimoli fisici, quali: abbracci, sberle, capelli arruffati, pacche di
incoraggiamento, pacche di consolazione, eccetera. Tutto questo contribuisce a
riunire Fugo con il suo corpo e ne è grato.
Resta il fatto che Mista è un coglione.
"Cristo-"
"Ehi, stai tranquillo, scherzo. Comunque, non ci
sarebbe nulla di male."
Forse. Più o meno. A parte il suo generale problema con
l'idea di chiunque nel suo spazio fisico oltre i cinquanta centimetri di
vicinanza.
Fugo cerca di non pensare troppo al fatto che ha diciassette
anni e la libido di una tavola di compensato, allo stesso modo in cui evita di
pensare a molte altre cose. Il lavoro è sempre quello ma è fantastico, lo tiene
impegnato e non gli permette di avere granché tempo libero, anche perché di
quel tempo libero non saprebbe cosa farsene, visto che i suoi amici sono
sostanzialmente morti.
(È anche vero che Sheila E lo informa quando ha il
pomeriggio libero e poi lo fissa con due occhi enormi, in attesa di una qualche
risposta. Fugo, nonostante il suo spiccato intelletto, deve ancora capire bene
che risposta si aspetti.)
“Quindi mi fai capire che a casa non ci devi fare niente,”
Mista interrompe i suoi pensieri. “Che bella notizia!” E batte le mani come un
coglione, pieno di entusiasmo. “Dai, così non devi più pagare l’affitto e
risparmi per comprarti… Che vuoi comprarti?”
Fugo non si compra niente da un po’. In realtà Fugo non fa
niente (a parte schifo) da un pezzo, e continuerebbe a vivere in questa maniera
quasi volentieri.
“Un biglietto per il Brasile,” dice, piano e con il giusto
sarcasmo, “così posso levarmi dalle palle e non ti devo più stare a sentire.”
Mista esegue un lamento fastidioso che inizia con un pezzo
del suo nome (paaa) e continua con un nnaaaaa che viene
trascinato abbastanza a lungo da trasformarsi in una mano unghiata su una
lavagna di ardesia. Di nuovo, Fugo dovrebbe essere contento: questo livello di
normalità combacia perfettamente con il prima e non pensava che sarebbe
mai riuscito a riottenerlo.
In virtù di questo fatto, Fugo mette tutta l’anima nel
lasciare la forchetta nel piatto davanti a sé invece di afferrarla e bucare la
faccia del suo amico. Lo interrompe proprio mentre sta finendo di dire coooo
per passare all’ultimo ttaaaa.
“Perché dovrei venire a vivere qui? Che ne sai, magari mi
piace fare il pendolare. O avere i miei spazi.”
“Probabilmente puoi avere, tipo, cinque stanze per te. Se
c’è una cosa che non manca qua è lo spazio,” Mista smette di essere
insopportabile per un attimo, mette su quello sguardo da psicopatico che ha
sempre quando tortura la gente, vale a dire il suo sguardo serio. Ha gli occhi
scuri, quasi neri, “c’è tanto, tanto spazio.”
All’improvviso Fugo capisce. È costretto di nuovo a
ricordare, come se Mista gli avesse inchiodato le mani al tavolo invece che
parlato. Fugo ricorda, e sa che anche Mista ricorda, le prime settimane dopo
che lui era arrivato, quando erano finalmente diventati troppi per il bilocale
che fino ad allora era stato la loro casa. Stavano stretti come topolini, lì
dentro, e inciampavano l’uno sull’altro di notte andando in bagno.
Nonostante il delirio, c’era qualcosa di confortante nello
svegliarsi e trovare sempre qualcuno, ovvero non essere mai costretti a stare
da soli, con i propri pensieri e con le proprie colpe. Fugo sospetta che
Giorno, nonostante sia un ottimo capo, non sia eccellente né nel dialogo
amichevole né nell’amicizia in generale, che è strano detto da uno che i suoi
amici li aggrediva fisicamente, però Fugo lo sente vero.
Ha senso che Mista voglia un amico, nella villa, non un capo
o una tartaruga. Se Fugo può essere quell’amico, allora ci deve provare.
2002, Settembre
Fugo ha fame. Suppone che sia normale, con quello che (non)
mangia, ma al contempo vorrebbe che il suo metabolismo fosse più abituato,
temprato al rimasticarsi da solo. Ormai sono anni che va così, pensa, perché
cazzo mi sveglio ancora di notte coi crampi?
Il vero problema dei crampi è che ci sono a prescindere.
Quando non mangia, gli vengono per la fame. Quando mangia, gli vengono perché
evidentemente la rabbia e l'odio e l'acidità gli hanno iniziato a scavare
un'ulcera, e quella è quasi peggio della fame.
Non era così, tempo fa: Fugo si ricorda le sere in cui
andava in cucina a svuotare il pacco di taralli sempre presente nella mensola
più alta della dispensa, trovando Abbacchio a guardare le repliche della
Signora in Giallo. Non lo faceva per vera fame, ma perché gli piacevano i
taralli, perché aveva appetito e quattordici anni e non aveva mai avuto una
vera libertà riguardo i pasti.
Così, ogni tanto si sedeva vicino ad Abbacchio, che
sorprendentemente non lo cacciava; a differenza di quando compariva con
Buccellati, tra l’altro, non cercava neanche di nascondere il vino.
Abbacchio ovviamente soffriva di insonnia, qualcosa che
neanche l’alcol riusciva a tramortire. Quelle sere erano strane e, quando Fugo
era abbastanza stanco, riusciva quasi a immaginare di essere un ragazzo
normale, con un fratello maggiore normale, con cui guardare tv fino a tardi e
sgranocchiare taralli.
Di solito Abbacchio non mangiava quando beveva, ma qualche
volta Fugo il pacco di taralli glielo offriva comunque, e rischiava anche che
dicesse di sì. Poi gesticolava verso la televisione e mugugnava cose tipo: che
vecchia stronza, si porta in giro il malocchio come un cagnolino nella borsa.
E sghignazzava come non faceva mai da sobrio.
Ora Fugo si sveglia nel cuore della notte da un sonno
leggero, con lo stomaco che si contorce su se stesso.
Il buio che gli sta intorno è sempre lo stesso e se chiude
gli occhi e ci pensa abbastanza forte può quasi immaginare di avere di nuovo
quattordici anni. Fuori, però, fuori da camera sua non ci sarà né una piccola
sala con un divano sfondato e neanche un ventenne alcolizzato davanti alla
televisione.
Allora, piuttosto, Fugo pensa ai crampi. Se mangia allora si
calmano, ma poi ritorna la nausea, e non è sicuro di preferirla: quindi,
seguendo i passi del Miserabile Originale, Fugo va in cucina con
l'intenzione di sedersi davanti alla tv, sperando di trovare una replica della
Signora in Giallo, che tanto anche se hanno finito di girare gli episodi più di
dieci anni fa lui spera che non smettano mai di riproporre quelli vecchi.
È bizzarro, che Giorno sia già lì. Seduto al tavolo, con una
tazza di acqua davanti a sé, con le braccia si stringe la pancia come un
bambino. Fugo dà un colpo di tosse per avvertire della sua presenza, Giorno
ruota la testa nella sua direzione senza alzarla.
“Tutto okay,” gli chiede mentre cerca di riformulare un
percorso che sia sensato senza rivelare che la sua intenzione era quella di
mettersi a guardare le fiction per signore anziane. La sua domanda non esce
come una domanda ma come un’affermazione. Meccanicamente, Fugo si dirige verso
il lavandino per prendere un bicchiere d’acqua.
Giorno fa un sospiro profondissimo e riporta la fronte
contro il tavolo. Fugo non vuole girarsi a guardare, anche perché la cosa è già
abbastanza strana così: Giorno non è mai scomposto, il contesto più informale
in cui l’ha visto è il pranzo, con la pasta al sugo e tutto. Ha quasi paura di
voltarsi e trovarlo in pigiama.
“Sì,” che è fantastico. Nessun rischio di conversazione
personale o condivisione privata o confessione del perché Giorno sia in cucina
alle tre di notte accasciato sul tavolo. Fugo continua a non girarsi ma se lo
facesse noterebbe che la tv è accesa e con il volume al minimo.
“Okay. Io stavo solo, eh, bevendo.”
Allora si gira, perché sarebbe strano se continuasse a non
farlo. Poirot lo saluta con i suoi baffetti neri e Fugo sente una risata che
gli gorgoglia in gola e cerca di mozzarla, perché non ha intenzione di ridere
in faccia al suo capo senza apparente motivo. Prima che possa uscire, Giorno
ricomincia a parlare.
“Credo solo di avere sovrastimato.” Giorno non sovrastima
mai, né sottostima. Giorno stima esattamente. Di nuovo, Fugo pensa: strano. “La
mia capacità di… come dire.”
E, va bene, Giorno lo terrorizza. Lo terrorizza quello che
rappresenta (nuovo inizio, seconda possibilità, perdono, redenzione, Gesù
Cristo in persona) e quello di cui è capace (ancora non ha capito dove
sia il corpo di Diavolo, sempre che sia da qualche parte), ma in quel momento
sembra solo un sedicenne in difficoltà, e a Fugo non sembra niente di grave, ed
è anche un po’ curioso, per cui non ci può fare niente e si avvicina, prende
persino una sedia e si siede. Giorno volta di nuovo il viso per guardarlo, solo
leggermente miserabile.
“Mista ha portato veramente tanto cioccolato,” inizia,
perché in effetti Mista due giorni prima è tornato dalla Svizzera dopo aver
sistemato una faccenda e ha più o meno letteralmente svuotato la sua valigia in
un cestino per riempirla di stecche di cioccolato di ogni tipo prima di
ripartire.
Fugo non coglie però il collegamento tra i fatti e continua
a guardare Giorno con gli occhi rossi e scuri e compunti. A Giorno tremano le
labbra come se gli venisse da ridere e si stesse trattenendo, oppure come se si
vergognasse a dover parlare. Fugo di nuovo pensa: strano. Non sembra troppo una
statua.
“Purtroppo, Fugo, io adoro il cioccolato.”
Ah. Così, dopotutto, Don Giorno non è una figura evangelica
estratta da un Caravaggio. Nonostante l’assurdità della situazione e della
notizia, Fugo annuisce con serietà.
“Hai mal di pancia.”
Giorno, questa volta, ride davvero, e mugugna un po’
stringendosi l’addome, di nuovo rivolge il viso verso il tavolo ma continua a
ridacchiare piano.
“Tantissimo,” ammette, “stavo leggendo, mi sono distratto e
la cioccolata non finiva più.” Finalmente Giorno si mette seduto normalmente e
avvicina a sé la tazza d’acqua. Ci soffia sopra e Fugo capisce che è calda e
capisce anche che Giorno Giovanna è un po’ tocco, probabilmente, se si beve
acqua calda così senza niente. “Così ho finito il libro.” Prende un sorso
d’acqua. “E la cioccolata.”
“Ah, è chiaro.” Di nuovo Fugo annuisce, ancora stupito dalla
rivelazione non poi così tanto assurda che in effetti Giorno ha sedici anni e
dagli indizi contestuali probabilmente ha anche avuto un’infanzia dove non
poteva spesso permettersi di fare un po’ quello che gli pareva. In ogni caso,
il modo semplice e anche un po’ sciocco in cui all’improvviso si è tirato via
il piedistallo da sotto i piedi da solo mette Fugo in difficoltà, come se dovesse
reimpostare un po’ tutte le assunzioni su cui basa la sua vita oggi.
È talmente dispendioso in termini di lavoro mentale che il
cervello di Fugo fa una piroetta liscissima su se stesso e gli fa buttare fuori
delle parole che definire inaspettate è riduttivo.
“Narancia faceva lo stesso,” e continua ad annuire, come se
parlasse del tempo, “con i porcini.”
Giorno lo guarda, non ride più ma i suoi occhi sono attenti
e morbidi allo stesso tempo. Fugo pensa che quel genere di interesse, quello
che di solito sembra un po’ accondiscendente, un po’ tipo se ne parli ti fa
bene, se non lo tieni dentro a farlo marcire magari prende aria e diventa una
cosa bella, come il pane o i fiori o le nuvole, quel genere di attenzione,
dovrebbe farlo incazzare.
Fugo però con Don Giorno non si può incazzare, ovviamente, e
questo gli mette una condizione al contorno che lo obbliga di nuovo a
ricalcolare tutto.
Intanto che ricalcola, parla, per qualche motivo di merda
che non riesce bene a capire.
“Non è che qua i porcini si trovino facilmente. Quando
capitava di trovarli freschi Narancia ne comprava sempre molti, e poi
costringeva Mista,” Giorno non smette di guardarlo, Fugo si concentra sulle
linee venose del legno del tavolo, “a farli tutti sott’olio. Perché si
conservano a lungo.”
Il ricordo, parlato, minaccia di spaccarlo. Non sono cose
che andrebbero dette perché dirle dà loro un inizio e una fine e quindi un
corpo nel tempo. La verità è che questa non è che la terza, quarta volta, che
questo ricordo lo tampina, ma a doverle articolare le cose prendono una
tangibilità e un posto nella realtà che nella sua testa non hanno più.
Fugo è costretto a rivivere l’odore pungente dell’aceto di
vino, tanto forte che lo faceva tossire, e si ricorda che Mista rompeva il
prezzemolo con le mani invece di tritarlo.
“Mista sterilizzava i vasi, rispettava tutto il processo.
Pensa che misurava addirittura l’aceto e l’acqua.” Mista di solito non misura
gli ingredienti, e continua a non farlo, lui va a sentimento. Fugo aveva
provato a imitarlo, qualche volta, ma evidentemente di sentimento non ne aveva.
“Però era un po’ inutile. Narancia era capace di mangiarsi mezzo chilo di
porcini sott’olio in un pomeriggio. E poi, uh,” Fugo alza gli occhi dal tavolo,
Giorno in quel momento smette di guardarlo, porta gli occhi sulle sue stesse
mani intorno alla tazza d’acqua, “vomitava tutto o stava così tutta la notte.
Come te, ecco.”
Giorno storce il naso, probabilmente l’idea di vomitare non
lo allieta particolarmente. Fugo riesce a fare una smorfia che forse con un po’
più di fortuna sarebbe stata un sorriso.
“Penso che resisterò,” e con grazia riesce a soprassedere lo
sproloquio in sé, pur senza dare l’impressione di averlo ignorato. Fugo riesce
a provare un po’ di gratitudine, mentre fa spallucce.
“Mista di solito mi diceva meglio fuori che dentro.”
“Non fargli sapere che te l’ho detto, Fugo, perché è un po’
permaloso e potrebbe stizzirsi,” Giorno inclina la testa verso di lui come a
dovergli fare una confidenza. Ha gli occhi azzurri che sono brillanti anche nella
luce artificiale della cucina e Fugo per un attimo smette di pensare, “ma
talvolta Guido dice anche idiozie.”
Se glielo chiede Giorno, Fugo non andrà a dirglielo. Se
glielo chiede Giorno, Fugo potrebbe fare un po’ qualsiasi cosa.
2009
È incredibile, il potere del tempo. Fugo ogni tanto si ferma
e realizza: forse, con il giusto tempo, avremmo avuto una possibilità.
Se avesse riflettuto un po’ di più sull’offerta di Buccellati al tempo, se al
contrario non avesse pensato affatto quel giorno sul molo a San Giorgio
Maggiore.
Fugo non è troppo cambiato rispetto a tempo prima,
probabilmente complici anche il fatto che un po’ si lascia morire di fame da
quando ha sedici anni e la generale sua infelicità di vita a partire dai cinque
anni in su. Mista non aveva ancora così tanto da crescere ma è comunque
diventato più grosso, spacca le mele a metà usando pollice e indice con una
facilità impressionante e poi gliene porge metà, bonario.
La cosa divertente è che comunque non è lui quello che fa
più paura: evidentemente a Giorno tutta quella pasta al sugo è servita, perché
ormai si aggira intorno al metro e novanta, le sue spalle possono davvero
portarsi addosso il mondo, e si è lasciato crescere i capelli biondi fino a
farli diventare una cascata. Ha gli occhi più affilati. Aveva le orecchie un
po’ troppo grandi (Fugo se le ricorda, pare che sia capace di ricordare
qualsiasi cosa a patto che sia capace di fargli del male, perché anche le
orecchie di Narancia a sedici anni erano troppo grandi per il resto della sua
faccia) e ora non più: ha il viso squadrato ma ancora morbido, e a ventidue
anni forse ha smesso di crescere.
In uno dei tre giorni di vacanza che si è preso negli ultimi
sei anni, Fugo è andato a Firenze. L’ha visto, il David, è rimasto due ore in
quella stanza a guardarlo da ogni angolazione, trovando più similitudini che
differenze. C’erano anche i Prigioni, la corte inchinata davanti al re, e non
si è mai sentito più vicino a qualcosa nella vita.
Giorno gioca con lui a scacchi. Succede spesso da quando un
anno fa hanno seppellito la tartaruga nel giardino-vivaio-foresta della villa,
perché Polnareff era l’unico lì dentro con la pazienza di rimettersi davanti
alla scacchiera ogni volta, pur raccogliendo sconfitta dopo sconfitta.
Una volta, in macchina, gli aveva confessato che non era mai
stato un tipo troppo strategico, anzi, era una vera testa calda
(apparentemente i quarantenni parlano così), e Fugo aveva ascoltato in silenzio
per tutto il tragitto fino a Roma le storie di Polnareff.
Aveva preso con moderata noncuranza l’informazione ho
contribuito a uccidere il padre di Giorno, che era un vampiro immortale capace
di fermare il tempo. (Alla fine, stavano per entrare negli anni ’10 del
nuovo millennio. Quello che era successo negli anni ’80 poteva rimanere là.)
Il cervello di Fugo aveva preferito soffermarsi sulla nota capace
di fermare il tempo, ancora una volta stupito dalla poca fantasia della
gente.
Se lui avesse potuto fermare il tempo, non avrebbe
architettato piani di vendetta e di conquista del mondo, si sarebbe
accontentato di ritagliarsi degli anni in più per guarire, magari per arrivare
al suo personale quarto di secolo con un minimo di normalità in testa.
Invece, il suo potere è quello di uccidere la gente. C’è da
dire che in questo Purple Haze è piuttosto efficiente, come Fugo è efficiente
nel far lavorare il suo cervello nevrotico: per questo, Giorno lo vuole spesso
seduto davanti alla scacchiera a spostare pedoni e cavalli.
A differenza di tante altre cose a cui era obbligato da
bambino, gli scacchi non lo irritano più di tanto: quando si mette lì, a
pensare, il suo cervello si sbrodola dappertutto, comodo e morbido nella
possibilità di pensare a decine e decine di scenari diversi, tutti ugualmente
insignificanti. Perdere o vincere non è importante, quello che conta è dare
alla sua testa macinatrice di mostri qualcosa su cui arrovellarsi, qualcosa che
sembra della più vitale importanza anche se non lo è. L’obiettivo con cui
giocava da piccolo, per rendere la cosa più divertente, era quello di non
perdere neanche un pezzo, al massimo uno solo –ma è impossibile, i
sacrifici vanno fatti, a volte perdi la regina e vinci comunque e perdi quasi
tutto evinci comunque.
Fugo vince spesso. Anche Giorno vince spesso, ma Fugo
sospetta che ogni tanto guardi più lui che la scacchiera.
Giorno, enorme, forte, con la sua cascata di ricci biondi,
con il completo blu di lino leggero aperto sul petto, le spalle enormi che
tengono su il mondo, uno degli uomini più importanti di tutta Italia, guarda
più lui che la scacchiera.
Lui ha ancora il volto sfigurato, ovviamente, ci sono cose
che neanche il tempo riesce a sistemare. Le mani gli tremano quando fa troppo
freddo perché è magro perché non mangia perché non ci riesce perché c’è
qualcosa che non va in lui, da quella volta in Sicilia, da quando ha pensato
che poteva morire e che poteva avere il coraggio di occuparsene lui stesso.
Il suo stomaco è in pezzi, è stato un processo lungo ma ci è
arrivato, e Fugo se lo immagina, il Virus, che si attacca alla bocca dello
stomaco di un ragazzo di sedici anni e inizia a raschiare, sapendo che a
ventitré anni arriverà sul fondo.
La mano di Giorno è enorme quando prende i pezzi per
spostarli, Fugo tiene gli occhi sbarrati sulla scacchiera, a ogni mossa
dell’altro il suo cervello si stiracchia e si rimette comodo e sciolto e
ricomincia a catalogare e immaginare tutte le cose che potrebbero succedere.
Giorno continua a guardarlo con i suoi occhi verdi enormi.
Fugo cataloga e immagina tutte le cose che potrebbero succedere, e non ricambia
mai lo sguardo.
2012, Marzo
In un bel giorno di marzo, Fugo realizza due cose. La prima
è che tra meno di un mese avrà ventisei anni e saranno passati tredici anni da
quando aveva tredici anni.
Questa cosa lo fa inciampare mentre respira e una stretta
strana gli prende lo stomaco. Fugo ha una certa affezione per le cose
simmetriche, come le distribuzioni a due code o, ancora meglio, le Gaussiane.
Fugo, in realtà, vede benissimo anche il valore delle cose asimmetriche, ma
comunque non riesce a fare a meno di pensarsi ad un punto un po’ di svolta
della sua vita.
Ogni tanto continua a vedersi dalla terza mensola di quella
merda di libreria, ma succede di rado, solo quando è messo alle strette in
certi modi particolari: per esempio, Giorno alla fine ha davvero fatto un
tentativo, si può dire onorevole, e gli ha stretto le dita della mano destra
sopra la scacchiera mentre Fugo si allungava per muovere la sua ultima torre
rimasta. Lui non è riuscito a evitarsi il panico, più per il fatto in sé che
per il contatto fisico, ma perlomeno ha solo evocato Purple Haze dietro di sé
invece di afferrare il primo oggetto contundente a portata con l’intento di
lanciarlo contro il suo capo. Di nuovo, in quell’occasione Fugo si è ritrovato
a guardarsi da fuori, ma poi Giorno ha capito (Giorno capisce tutto, sempre),
ha ritirato la mano e non è successo niente.
Piano, ma neanche mettendoci troppo, lui è rientrato in sé
(sia Purple Haze che Fugo stesso). Nessun incidente.
Però Fugo pensa, forse, che se non avesse la faccia
sfregiata, se non pesasse cinquanta chili bagnato, se non fosse una macchina
della morte ambulante, forse gli potrebbe anche piacere l’idea di essere lui ad
allungarsi per stringergli le dita, la prossima volta.
Fugo guarda le mani di Giorno quando spostano documenti
sulla scrivania, sfogliano libri, arriva persino a immaginare come potrebbe
essere vederle correre sulle sue, di braccia. O magari, sul suo viso.
Se pensa che ha quasi ventisei anni si sente ridicolo. Però,
a piccoli passi, Fugo pensa che forse potrebbe riuscire ad arrivare in
moltissimi posti. Il suo personale tipo di terapia.
Quindi, anche solo in conseguenza di questo pensiero, sta
migliorando. Ha avuto bisogno di una decina di anni e le sue non sono vittorie
totali e probabilmente non lo saranno mai, ma Fugo sa che non è mai stato quel
tipo di vincitore.
Lui è uno che vince per astuzia e non per forza
schiacciante, un po’ come rimanere sul molo di San Giorgio Maggiore e sopravvivere
mentre tutte le persone a cui in qualche modo storto vuoi bene e che te ne
vogliono vanno incontro a morte quasi certa. Non è neanche sicuro che riuscirà
mai a mettersi il cuore in pace riguardo quegli specifici fantasmi, ma ormai
fanno male in una maniera diversa, quasi ovattata.
(Anche questo, in realtà, fa male, perché forse sente di
meritare una sofferenza che duri tutta la vita, mentre Abbacchio e Narancia e
Buccellati hanno smesso di soffrire da un pezzo. Fugo ci sta lavorando, ovvero
non ci sta pensando troppo.)
La seconda cosa che realizza è che forse potrebbe anche
abituarsi a questa vita.
Da quando Polnareff è morto, Fugo è diventato a conti fatti
il consigliere di Giorno, che significa che è un po’ il giullare della corte,
nel senso che ha il privilegio di poter parlare liberamente laddove altri
invece rischierebbero la vita a farlo (c’è da dire che anche Mista ha questo
privilegio, e lo sfrutta nelle maniere peggiori).
Lui e Giorno discutono, scherzano, si rimpalleggiano idee e
opinioni, nessuno dei due si trattiene nel criticare l’altro né tantomeno
nell’ammettere che un piano d’azione sia meglio di un altro.
Finalmente Fugo può lasciar correre la lingua riguardo ogni suo
fastidio, anche se questo significa contraddire Don Giorno; la decisione finale
in ogni caso spetta a lui, com’è ovvio, ma è anche questo il bello: Fugo non
deve decidere, Fugo non si può pentire. Deve solo tollerare le piccolezze, come
la pasta al sugo che comunque a pranzo si fa ancora almeno due volte a
settimana, e Mista che quando condividono una bottiglia di bianco leggero gli
ride dietro e gli dice che prima o poi deve darglielo al Don, un bacio, perché
è l’unica cosa che Giorno non si permetterebbe mai di prendersi da sé.
E Fugo inizia a pensare di pensarci.
Poi, all’improvviso, il tempo inizia ad accelerare.
2012, Marzo
La fine del mondo è strana e, a essere franchi, non gli pesa
neanche più di tutte le cose terribili che gli sono già successe.
Giorno fa un paio di telefonate, con un tono di voce che
rasenta vagamente lo stress, poi li guarda e apre le braccia come a dire non
lo so oppure non posso farci niente. Quella reazione è ben più
inquietante degli orologi che iniziano a correre; nemmeno Giorno Giovanna ha
potere sull’Apocalisse.
Giorno si siede davanti alla finestra a guardare il sole
tramontare e sorgere sempre più velocemente. Mista è al suo fianco, in piedi, e
Fugo fa lo stesso: quando guardano il Don, con la coda dell’occhio, hanno
l’impressione che sia stanco come non l’hanno mai visto.
*
Di nuovo buongiorno(sera)!! Piccole note:
1) ve lo aspettavate il canon compliant con stone ocean? Eeeh? B) (<-- si
sente smart per averci pensato perché è stato un elemento chiave nella
stesura)(in realtà è un pagliaccio)
2) non so come abbiamo fatto ad arrivare a Fugo e Giorno come pair, anche
perché io adoro Giorno e Mista, ma dopo aver letto purple haze feedback e avere
visto Giorno come lo vede Fugo, qualche pensiero l’ho fatto. Ad una certa poi
la storia mi ha portato lì e io non ho fatto opposizione. Sono anche carini da
OT3, e avevo in testa un po’ ci scene con Mista (che poi sono rimaste solo
citate magari) ma riuscire a inserire anche lui mi veniva difficile (di nuovo:
un sacco di temi possibili) e così è rimasto fuori. Alla fine non mi dispiace e
sono grande fan delle amicizie, e sia Mista che Fugo meritano un amico.
3) ho dimenticato di dirlo per quanto riguarda il primo capitolo: alcuni
elementi (es. Fugo che regala a Narancia il suo primo stereo dopo averlo
menato) che compaiono in questa storia sono ispirati ad altre storie che ho
letto su ao3 e che mi piacevano troppo, per cui li ho un po’ espansi o cambiati
per farli fittare (se volete delle fic rec devastanti basta che mi mandiate un
messaggio lol gli autori amano prendere Fugo e distruggerlo) (gli autori sono
io). Inoltre, mi dispiace, amo l’idea di Giorno
twink che rimane alto 172 cm a vita (persino Jolyne è più alta di lui, sì
cazzoooo) ma da quando ho visto queste
fanart ho deciso che Giorno ad una certa doveva iniziare a crescere e non
fermarsi più. Mi fa un po’ ridere l’idea di don giorno giovanna, più o meno
letteralmente uscito dalla creazione di adamo, che guarda questo ratto pallido
scavato dalle tragedie della vita e pensa: “hhhhm, sì. Voglio proprio quello”
ma sono entrambi due alieni per quanto riguarda i sentimenti e quindi le cose succedono
con una lentezza allucinante. Io me li immagino questi due che si riescono a
dare un bacio cioè probabilmente fanno esplodere marte
bene!!! Grazie ancora tantissimo a chi ha letto e recensito il capitolo
precedente!! Ci vediamo tra non molto per l’ultimo, che in realtà forse è più
un’appendice.
ciaooooo
Cate
Fugo ha tredici anni ed è all’università. Si trova dentro
l’ufficio del professore di Diritto Internazionale, ha una sensazione scomoda
nel petto, come se attendesse qualcosa di tremendo. Sa già come va a finire e
ha il sospetto che questo potrebbe dare pace a qualcuno, ma in lui fa solo
montare un panico da accadrà comunque e non posso farci niente. Infatti,
succede, e Fugo non può farci niente. La settimana dopo gli rompe la testa con
il Codice civile.
Bruno Buccellati lo raccoglie e gli prepara il caffè la
mattina mentre lui si chiude a chiave nella sua camera. Rompe la porta del
bagno perché si starnutisce sui pantaloni. Buccellati gli versa una tisana alla
malva in una tazza del Napoli e Fugo lo ringrazia borbottando.
Fugo conosce Narancia e sente qualcosa che si rompe, non sa
perché ma sa che gli sarà chiaro più avanti. Lo porta da Buccellati e gli fa
mangiare degli spaghetti veramente buoni, e poi un altro piatto, e un altro.
Quando se ne va dalla sua stanza di ospedale che ha di nuovo due occhi interi,
Fugo sa che è solo una virgola e non un punto, che lo rivedrà presto.
Le cose strisciano lente, i giorni sono lunghi e caldi e
straordinariamente soli, finché all’improvviso non è dicembre e Buccellati esce
una sera che piove a dirotto. Leone Abbacchio. Ex carabiniere trovato... gli
mancano le parole, lì sulla punta della lingua. Abbacchio non è gentile, non lo
è mai stato e Fugo lo sa anche se non ha senso che lo sappia, ma gli fa
comunque compagnia guardando la Signora in Giallo sulla Mediaset.
Narancia, di nuovo: si presenta con una spilla d’oro e una
faccia da schiaffi. Buccellati gli urla addosso in un napoletano che così
stretto Fugo non pensa di averlo mai sentito, e in qualche modo trova comunque
il modo di sorridergli appena la sfuriata è terminata e il capo li caccia via
con un gesto stizzito. Buccellati rimane di cattivo umore per un paio di
giorni, e Fugo si chiede se non sia perché anche lui ha il suo stesso orribile
presentimento.
Fugo non riesce a dormire. Guido Mista è arrivato da tre giorni
e dorme sul divano sfondato in sala, oltre la porta chiusa: ha insegnato loro a
fare il caffè con la schiuma come quello del bar e, quantomeno, è uno che
prende la mira prima di iniziare a sparare, anche se lo fa comunque quando gli
pare. Non sono in ogni caso due motivi abbastanza validi per lasciarlo russare
così forte, quindi Fugo scavalca Narancia sul pavimento della stanza e va a
scuoterlo nella maniera più brusca possibile.
Gli eventi iniziano a correre cedendo sulle loro stesse
ginocchia. Precipitano: Giorno Giovanna arriva come un vento forte che li
spinge in avanti. A Pompei non lascia Fugo indietro, si fa iniettare un siero
davanti ai suoi occhi, si contorce a terra come un indemoniato, Abbacchio si
taglia una mano, trovano una chiave, Fugo guarda una pozza di carne ribollire e
si scolla dal suo corpo con un gesto pulito, come un adesivo. Purple Haze gli
respira sul collo, un mostro venuto dai suoi incubi.
Non doveva essere Buccellati ad andare su, sul campanile.
Fugo lo pensa di sfuggita mentre vede lui e Trish allontanarsi dalla barca, ma
sotto sotto sa che non poteva andare diversamente. Non si stupisce quando
realizza che sa già come va a finire. Rimane sul molo, proprio perché sa già
come va a finire, e perché non vuole morire, e forse anche se lo volesse non
riuscirebbe a muovere un passo in avanti.
Narancia si butta in acqua e li segue strillando. Stavolta
esita per una sola manciata di secondi: gli altri sono ancora abbastanza vicini
al molo da permettere a Fugo di vedere il viso di Buccellati che si rilassa in
un’espressione di affetto che non gli ha mai visto fare. Fugo sa che, se si
buttasse, riceverebbe lo stesso sguardo, ma non può non rimanere sul molo. I
piedi gli restano incollati e la voce gli muore nei polmoni.
Abbacchio è il primo. Fugo legge di sfuggita un trafiletto,
e sa già come continua, sente le cose che succedono nello stesso modo in cui
parte un treno a vapore: accelerando piano e rumorosamente e con l'inerzia di
tonnellate di metallo, inarrestabili. Buccellati muore e gli fanno i funerali
grandi. Fugo si spegne le sigarette addosso e si stacca le croste e dorme sul
pavimento del bagno.
Giorno lo guarda piangere e gli viene incontro. Gli parla di
una flebile luce: se non fosse che Giorno splende più come un mosaico d'oro che
come una lucciola, potrebbe essere lui.
Mista gli gravita intorno come un asteroide destinato a
collassare su un pianeta: gli ruota attorno, cercando di tenersi a distanza, ma
sa come va a finire. Questo non rende il tutto meno doloroso, nemmeno i
racconti, anche se li ha già sentiti tutti. Anche le strette, i capelli
arruffati, gli fanno meno paura. Conosce già quelle mani, due volte.
Proprio perché sa come va a finire, Fugo è terrorizzato. Si
morde il labbro quasi da farlo sanguinare e sposta il suo alfiere in silenzio,
una mossa decisa con noncuranza a metà del ragionamento che stava facendo ma
non ce la fa più, doveva muovere e potrebbe impazzire. Giorno ha gli occhi
fissi sulla scacchiera e passa del tempo prima che alzi la mano per muovere il
suo pezzo: Fugo è rapidissimo, allunga la mano e gli stringe le dita. Sono
diritte e lunghe un po’ come le sue, ma Giorno è più grande, e così anche le
sue mani. Il suo sguardo si alza e incrocia quello rosso di Fugo: sembra
registrare quello che vede con riverenza stupita, come se stesse guardando un
quadro, e Fugo sostiene quegli occhi per un tempo mirabilmente lungo prima di
lasciar andare e permettergli di fare la sua mossa sulla scacchiera. Nonostante
tutto, anche quando Fugo riesce in qualche modo a vincere la partita, Giorno
non smette di fare il suo piccolo sorriso.
…
…
…
Fugo ha tredici anni ed è nell’ufficio del suo professore di
Diritto Internazionale. Gli tremano le mani e sente la bile che gli risale in
bocca, si chiede perché tra tutte le cose deve sentirsi intrappolato in questo
déjà-vu. Almeno finisce sempre uguale, con la testa spaccata del professore.
Buccellati li prende su dalla terra uno a uno, animali
inadatti alla vita ma perfetti per il suo circo, e ce n’è per tutti: il
pagliaccio, il leone, l’equilibrista, il mangiafuoco. Fugo ha l’impressione che
Narancia stia piangendo mentre si fa trascinare al Libeccio per un pasto
decente, forse anche lui sente quell’orrore nel petto, ma non oppone
resistenza. Fugo vorrebbe fermarsi e andare da un’altra parte, magari a
prendere un panino e chiuderla lì, ma non può, i suoi piedi camminano da soli.
Giorno arriva sempre come un Dio misericordioso su di loro.
Ormai la storia la sanno, anche se forse hanno dimenticato i particolari
peggiori. Fugo scopre un nuovo dolore quando cerca di stringere per un’ultima
volta la mano di Narancia sul molo di San Giorgio Maggiore e quello scivola via
senza guardarsi indietro. Pare che non riuscirà mai a salutarlo davvero, non
importa quante volte tutto questo succeda.
Sheila E e Cannolo Murolo lo accompagnano in Sicilia, a fare
qualcosa di rischiosissimo che non è più tanto rischiosissimo perché comunque chi
muore e chi vive lo sanno. Quando Fugo morde la capsula di Purple Haze e sente
la morte entrargli in gola, pensa che stavolta se lo sarebbe davvero
risparmiato.
Mista e Giorno gli chiedono di guardare film americani
insieme: commedie romantiche, quelle che piacciono a Mista. Devono tutti
imparare meglio l’inglese, e così Fugo dice sì. Ogni tanto si dimentica che c’è
anche qualcosa di bello, in tutto questo.
Quel giorno, è quasi comico: sono entrambi ad allungare la
mano sulla scacchiera. C’è un motivo di urgenza insensata nella cosa, come a
voler anticipare un’alba solo perché si sa che deve accadere. Giorno ruota la
mano mostrando il palmo verso l’alto e Fugo lo sfiora con la punta delle dita,
prima di premerle leggermente sulla pelle calda. L’altro risponde allo stesso
modo e Fugo si sente sobbalzare per la sorpresa di una causa-conseguenza così
immediata. È la prima volta che si sentono l’un l’altro, non è affatto la prima
ed è frustrante come le altre, perché lo intuiscono che poi ricomincerà tutto
di nuovo, Fugo vorrebbe che non dovesse essere tutto lì, e lo shock lo
stordisce: Fugo vorrebbe che non dovesse essere tutto lì. Lo sgomento lo fa
alzare, la sedia che striscia sul legno del pavimento fa un suono irritante, ma
lui lo ignora, va da Giorno, lo guarda dall’alto, e Giorno gli prende di nuovo
la mano, sbatte le palpebre con le stelle negli occhi. Fugo la stringe, si
china, gli posa un bacio sulle labbra.
…
…
…
…
…
…
…
Fugo è di nuovo rimasto incastrato: come sempre, le lasagne
sono compito suo.
Il ragù borbotta dentro una pentola enorme e sui vetri si è
formata una condensa che tra poco diventerà acqua e inizierà a gocciolare per
terra. La besciamella riposa lì a fianco, un mostro di due litri di latte e
burro e farina e noce moscata che Fugo ha coperto con la pellicola di plastica,
facendo attenzione a non lasciare bolle d’aria.
È solo, per il momento, gli altri sono andati a comprare le
ultime cose: il borbottio del ragù e la pioggia sulle finestre creano un rumore
di fondo piacevole e sono un ottimo complemento per il valzer che riempie,
piano, la stanza. A Fugo del Capodanno gli importa praticamente zero, ma il
primo di gennaio sulla Rai danno sempre il concerto in diretta da Vienna, e non
vede l’ora di riascoltare il Sul bel Danubio blu, ogni volta come la
prima. È un motivo buono abbastanza per essere di buonumore.
Non si gode la solitudine per più di qualche minuto. Sente
la porta del condominio chiudersi, un rumore lontano ma comunque forte
abbastanza nel silenzio, e ancora più forti sono gli schiamazzi che provengono
dalle scale, il tonfo dei passi di qualcuno che corre, le chiavi che girano due
o tre volte prima di riuscire a imbroccare il meccanismo giusto.
Così, finisce la pace. Negli istanti che passano tra il
momento in cui Fugo li sente entrare e quello in cui la testa di Mista fa
capolino dalla porta della cucina, si permette di pensare che forse il silenzio
gli piaceva più di questo.
Poi entrano anche Giorno, Narancia, Bruno, Leone, posano le
buste della spesa sul tavolo, si lamentano tutti del freddo (‘un freddo accussì,
a Napoli, nella mia vita mai’, dice Bruno, come se non lo dicesse ogni anno) e
della pioggia, Mista cerca di rubare un cucchiaio di ragù, Fugo gli urla di non
toccare e gli lancia una presina per cercare di scacciarlo, e tutto ritorna
normale.
“Fugo, dai! Neanche a me? Che sono il tuo migliore amico?”
Narancia lo supplica, unisce le mani in preghiera e, siccome ha ancora i mezzi guanti
addosso, sembra una povera fiammiferaia che gli chiede una moneta in una notte
fredda di gennaio.
“No,” Fugo gli prende il cappello e glielo tira giù fin
sotto il naso, “e non fatemi girare le palle,” dice soltanto, e Narancia si
dimena per levarsi il cappello di dosso, Mista si gira per disfare le buste
della spesa. Giorno invece tira fuori il cucchiaio di legno dalla pentola e,
sotto lo sguardo allibito di Fugo, se lo porta alla bocca, animato da una
serenità d’animo che Fugo stesso probabilmente non prova dal 1987, quando
neanche parlava.
Il cervello di Fugo si impalla addosso al palese
menefreghismo degli ordini dati: normalmente si incazza, ma con Giorno non può
incazzarsi, c’è qualcosa che glielo impedisce, forse perché a differenza degli
altri due non è un coglione, però neanche Abbacchio è un coglione, e lui gli
insulti se li becca sempre, e allora-
“E che cazzo, però allora dillo!” Strilla Mista, le braccia
aperte e rivolte verso il colpevole indifendibile. Giorno rimette giù il
cucchiaio nella pentola, pare che non stia neanche ascoltando. “Giorno ha
questi privilegi solo perché ti ci ammocchi, e che cazzo!”
Fugo un po’ si sente arrossire, e non perché si vergogni,
anche perché ormai è passato del tempo, ma perché Guido avrebbe meno tatto di
un batticarne su una polpetta di nonna. Ed è sempre strano pensare che gli
altri sappiano, e che siano okay e non siano strani, e che lui non sia
strano ad avere questa situazione e a volere tenerla. Per sé. Così, perché gli
piace e perché a Giorno ci tiene.
“Giorno non ha nessun privilegio-“
“Pannacotta, ti prego. Cos’ha lui che io non ho?”
Di nuovo Narancia, che è riuscito a sfilarsi il cappello e
che ora stringe quello in una mano e il grembiule da cucina di Fugo nell’altra,
“mi vuoi biondo come lui? Guarda che posso essere biondo anche io.” Narancia lo
tira per il grembiule, Fugo gli dà una sberla gentile sulla testa.
“Se lo vuoi intelligente come lui, invece, meglio che
ti accontenti,” Abbacchio commenta dall’altro lato della porta, e Fugo si
meraviglia del fatto che stesse ascoltando, “perché quello non succede neanche
se scende la Madonna.”
“Ehi!” Narancia molla la facciata da mendicante (strano, gli
riusciva bene) e spalanca la porta della cucina per andare ad aggredire
Abbacchio, che ha appena finito di togliersi il cappotto. Inamovibile, gli
blocca la testa in una specie di headlock da wrestling e poi lo lascia agitare
le braccia, dando l’immagine di uno strano agglomerato di fettuccine in
centrifuga.
“Comunque il ragù è buono, le lasagne saranno ottime,” si
intromette Giorno, a metà tra il diplomatico (rabbonirsi Fugo e anticipare il
prodotto finito agli altri) e il paraculo (ignorare tutto il resto).
In effetti probabilmente è per questo che lui la passa
sempre liscia, perché alla fine in qualche modo te la sa vendere, e tutto il
resto non lo tange. È una cosa che in chiunque altro lo manderebbe ai matti,
Fugo, che di cazzari devastanti ne ha incontrati un po’ nei suoi ventisei anni
di vita, ma forse di Giorno si fida proprio tanto, perché si rende conto che
crederebbe a qualsiasi scemenza gli dovesse propinare con quel modo di fare
così pacato e al contempo deciso.
“Certo, se mi lasciassi assaggiare anche la besciamella…”
Fugo alza entrambe le mani in aria, inspira profondamente e
si mette a urlare.
“Fuori! Via di qua! Tutti!”
Giorno ride, cristallino, e Fugo intercetta il suo sguardo e
un po’ ride anche lui. L’altro, prima di uscire, si china un poco e gli lascia
un bacio sui capelli.
“Uno non può neanche mettere via la cazzo di spesa,”
borbotta Mista, chiudendo il congelatore dove ha appena cacciato il sorbetto,
“quando avrai bisogno di me, Fugo, mi telefonerai, e io ti risponderò comunque
e ti aiuterò, perché sono un amico grosso così, e non ti farò neanche sentire
in colpa, proprio perché sono un amico grosso così, e allora un po’ spero che
ti sentirai in colpa.”
“Guarda, non penso,” gli risponde Fugo senza guardarlo, e
riprende a mescolare il ragù, “però me lo segno, in caso.”
Mista non gli risponde: se ne è già andato e ha messo vicina
la porta, senza sbatterla perché nonostante tutto incredibilmente non è un
animale. Fugo respira, ritorna a sentire la musica e la pioggia, insieme al
rumore ovattato degli altri, di là.
“Anche io sono incluso negli intrusi a cui spari a vista?”
Bruno socchiude la porta, sbucando solo con metà faccia. Si
vede già che se la sta ridendo.
“Se non hai mire espansionistiche verso il ragù, puoi avere
un visto turistico.”
“Ho mire di mettere il vino in terrazza, perché penso che il
frigo sia pieno.”
“Ah, sennò chi lo sente quell’altro. Se il suo Sangiovese di
sta gran ceppa non è esattamente a dodici gradi poi ci accende un petardo in
casa.”
Bruno apre la porta e la richiude. Ha due bottiglie di vino
rosso in una mano e nell’altra una di bianco: quella di solito se la dividono
loro due, che sono gli unici a preferirlo lì dentro, anche se poi Leone finisce
sempre per assaggiarlo dal bicchiere di Bruno, per decantarne i tannini e il
rumore e la sapidità e tutte quelle altre cazzate.
“Lo sai che in realtà sono io il rompiscatole da questo
punto di vista.”
“Lo so. Ma a te non è divertente prenderti in giro.”
L’altro sbuffa dal naso, se Fugo fosse girato lo vedrebbe
alzare gli occhi al cielo. Esce sul terrazzo, nasconde le bottiglie tra i vasi,
riparate dal vento, in mezzo alle pianticelle di Giorno che per qualche motivo
resistono anche all’inverno e ritorna dentro. Bruno si sfrega le mani per
levarsi la pioggia di dosso e si posiziona davanti ai fornelli, al suo fianco.
“Ma quindi questo ragù?”
È incredibile il fatto che, nonostante tutto, in ‘sta casa
siano tutti dei cazzari. Fugo ruota la testa verso l’amico, un’espressione di
neutro disappunto sul volto.
“Il suo visto turistico è appena scaduto di validità,”
pronuncia, indifferente, “si prega di rinnovarlo al più presto. Nel frattempo,
si levi dal cazzo.”
Bruno scoppia a ridere e gli dà un paio di pacche sulle
spalle prima di allontanarsi verso la porta della cucina, verso il casino che
gli altri stanno facendo. Quando apre la porta, Fugo intravede tutta la luce
che c’è di là: Narancia e Mista devono avere riacceso l’albero di Natale con le
sue luci lampeggianti tremende, perché ci sono dei flash di colore che in
giorni più infelici gli darebbero un tot di mal di testa. Fugo sente il coro di
disappunto quando qualcuno (presumibilmente Leone) stacca la presa, seguito dalla
voce un po’ sconsolata di Giorno che piange le sue ombre cinesi stroboscopiche,
e nuovamente quella di Leone che li manda tutti al diavolo.
“Noi ti aspettiamo di là,” gli sorride Bruno, e gli arriva
agli occhi. “Se hai bisogno, comunque, chiama.”
“Chiamo, chiamo. Tu vattene.” Fugo lo guarda con la coda
dell’occhio. “E veloce, magari.”
Una pausa.
“Fugo?”
“Ma te ne vai?”
“Sì, sì. Solo, ti vogliamo bene.”
Fugo si gira, un attimo preso in contropiede dalla casualità
dell’affermazione, e sente un’urgenza nel dover rispondere, come se Bruno
potesse sparire entro i successivi dieci secondi, lasciandosi dietro solo una
porta socchiusa e il silenzio. Anche se sa che non è realistico ogni tanto il
panico gli prende comunque, se avesse ancora sedici anni finirebbe a pensare
che uno come lui, per qualche ordine cosmico intrinseco, certe cose così felici
non le merita.
Quand’è così, si costringe a mettere a fuoco quello che ha
davanti, a concentrarsi sui suoni, invece di perdersi nella sua mente nevrotica:
Bruno è ancora lì, come anche gli schiamazzi al di là della porta. L’ha già
detto migliaia di volte nella sua vita e quindi è facile far uscire la voce;
Fugo risponde piano:
“Anch’io.”
*
Phew! Grazie davvero se avete letto fino qua. Le ultime lunghissime
note (mi dispiace amo le note…):
1. Per chiarire: questo capitolo racconta in velocità due reset generati da
Pucci nel finale di Stone Ocean. l’ultima parte è invece un po’ il mio reset
felice personale, un po’ come l’ultima scena di SO: hanno tutti vite diverse da
quelle che hanno in vento aureo, ma si sono reincontrati proprio come il gruppo
di SO, hanno fatto amicizia e beh ecco ora Fugo fa le lasagne per capodanno
2. Come già detto, quando ho iniziato a scrivere questa storia, era più uno
sfogo che altro, soprattutto il primo capitolo. Mentre scrivevo notavo due cose
in contrasto: volevo che finisse comunque su un tono ‘felice’, e al contempo
continuavo ad appesantire le condizioni di Fugo. Poi ho finito l’anime di Stone
Ocean e ho pensato che il reset potesse essere un buon modo per avere un happy
ending, dopotutto perché no (=non me ne frega niente)? Però non volevo che la
morale fosse ‘la storia finisce bene solo perché gli eventi traumatici sono
stati evitati’, e con questo spirito ho iniziato a scrivere il secondo
capitolo: se il reset non fosse avvenuto, in qualche modo Fugo sarebbe riuscito
a trovare un suo equilibrio e una sua serenità, come ho cercato di far capire
descrivendo gli eventi del 2012. Il reset è stato solo un “colpo di fortuna”
che gli ha permesso di abbreviare la strada (e di riavere i suoi amici…), e poi
sinceramente credo che se la squadra di vento aureo avesse avuto un po’ più di
fortuna nella vita, nessuno di loro sarebbe finito a fare il criminale
(compreso Giorno)
3. Il titolo “amico fragile” viene dalla canzone di de andrè, mentre i capitoli
vengono dal ritornello de “la guerra è finita” dei baustelle e sceglierla è
stata un po’ un controsenso, visto che parla di un suicidio, ma ho voluto
essere più letterale: dopo vento aureo, fugo decide che la sua guerra è finita,
e lo ripete più volte, come un mantra. idealisticamente deve capire cosa fare,
soprattutto per iniziare a guarire. E niente. Viva le storie di guarigione. E
soprattutto viva Greta e cioè whatachaos
(seguitela disegna de cristo) che mi ha aiutato a scegliere e mi supporta nei
miei deliri su jojo guardando i miei powerpoint sulla bruabba pure se jojo non
lo guarda
4. Avete presente kronk che si sveglia di notte e dice “IL CONTADINO. Alla
locanda. Non ha pagato il conto” e poi torna a dormire ecco sono io che mi
sveglio e dico “TRISH UNA. Non l’ho messa nella mia storia. Beh ci sarebbe
troppo da dire” e poi torno a dormire
Diciamo che comunque fugo come personaggio è bello complicato, e una storia
slice of life introspettiva non è abbastanza per esplorarlo per bene. Spero
comunque di avergli fatto giustizia (araki cristo!!!!) nello spazio che ho
avuto, e spero che la storia vi sia piaciuta se siete arrivati fino qui.
Grazie di cuore per i commenti e per aver letto!!!
baci
cate