Condottiero

di sacripante23
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Risveglio ***
Capitolo 2: *** Persone riservate ***
Capitolo 3: *** Tra i canali ***



Capitolo 1
*** Risveglio ***


CONDOTTIERO: 
chi esercita il mestiere delle armi ed è sotto contratto con l’autorità ducale; si impegna ad essere sempre pronto ad una improvvisa chiamata per mettere le sue capacità a servizio delle autorità di Braavos
 
RISVEGLIO
 
I vessilli della Condotta tremolavano alle loro spalle, dietro le lance. I dothraki erano già lì, come una fiumana di occhi spaventati o terribili, volti sanguinanti, grida, cavalli, spade. Selvaggi grossi, barbuti e coraggiosissimi, che cercavano di trafiggere ed assalivano spada alla mano, poi tornavano indietro e ripetevano il carosello. 
Erano tenuti a bada dalle corazze, ma ancora per poco, erano troppi. Vedeva che i rotellieri accanto a lui, scudo contro scudo, sguainavano i costolieri e si mettevano in guardia. Le frecce dei barbari fischiavano nell’aria e sfoltivano le loro file, le punte, sporche di sangue, ferivano e mutilavano; e Dante, che tirava fendenti e stoccate sporgendosi oltre la fila di corazze con le lunghe aste di frassino, afferrò la cintola di un dothraki che si era insinuato fra le lance. La corazza della sua lancia che gli stava di fronte, rapido, sguainò la daga che portava alla cintura e l’affondò nell’inguine del selvaggio finché il sangue gli arrivò alle mani. 
Tutto intorno era un labirinto di lance aggrovigliate tra cui imperversava la carneficina. Le malconce file indietreggiavano calpestando i corpi dei loro colleghi e lasciando il prato disseminato di cadaveri. Dante venne travolto dal flusso e riflusso delle file degli uomini, tra i vestiti sporchi e ruvidi, l'odore del sudore, della polvere e del sangue, corpi avvinghiati presi in una lotta disperata, al coltello: ormai le altre armi erano inutilizzabili. Un attimo dopo, tra gli schianti delle aste, i nitriti dei cavalli feriti e il cozzare delle spade, un’altra orda della cavalleria dothraki gli piombò addosso. 
Dante cacciò un urlo; squarciò il campo di battaglia e la realtà lo attendeva con le prime luci del mattino. 
"Braavos... fottimuli maledetti..." grugnì Dante scivolando fuori dal piccolo letto da campo strizzando gli occhi per il terribile dolore nella testa "Sono a Braavos"
Attraverso una persiana mal chiusa filtrava un lembo di luce che attraversava la sporca stanza, andando a colpirlo in piena faccia. Chiuse gli occhi, rilasciando un profondo respiro mentre tornava con la memoria alla sera prima; piena di boccali di vino che lo avevano stordito fino all'incoscienza, abbandonandolo fra alle solite promesse di non toccare mai più il vino sfuso dell'Anguilla Verde. 
Tre mesi cosparsi di simili promesse e giuramenti, aumentati con l'aumentare delle sue visite in quella e in altre oscure bettole del Porto degli Stracci. 
Il vero problema era che gli mancavano i soldi per potersi permettere di meglio. Certo, c'erano i compiti che gli passava la Casa Rionale. Le ronde notturne che svolgeva nei punti peggiori della grande città, ma erano saltuari e difficilmente era più di qualche soldo. La perdita di quella condotta era stata un disastro, un disastro peggiorato dall'ultima grida che informava che non ci sarebbero stati ulteriori offerte del Palazzo: la crisi dothraki era finita e con essa gli obblighi nei confronti di Pentos. Per uomini come Dante, la battaglia delle Colline Rocciose, aveva portato solo ferite, incubi ed una mezza borsa che era finita subito fra spese di rimpatrio, ferite da curare e che solevano dolergli quando l’umidità aumentava. Stentava a rimanere a galla in quell'enorme calderone che era la Città Segreta. 
Si guardava intorno ed indovinava più che vedere i quattro mobili che erano stati accatastati in quella stanza, al terzo piano di un fatiscente edificio al confine fra il Porto degli Stracci e la zona interna della città. Il lettino da campo ripieno dei suoi vestiti e della cappa che indossava durante il giorno; il mobile con il lavabo e la brocca per il mattino; un baule tutto tarlato ed infine una cassapanca che conteneva l'aria della città, dal Titano alle paludi circostanti. 
Era giunto il momento di aprire le persiane. L'eco distante delle voci e delle urla in una babele di lingue proveniente dal Porto lo richiamava alla realtà. Con un lieve brivido, accarezzando la cicatrice ancora arrossata, Dante si era messo sulle spalle il pesante mantello di lana grezza per ripararsi contro l'umida foschia di una tipica mattinata autunnale. Incespicando e borbottando contro il dolore al capo, si era avvicinato alla corda che assicurava i due pannelli di legno al chiodo ricurvo che sporgeva dal muro. 
Ora altra luce si riversava nella stanza, mentre gli occhi di Dante si chiudevano istintivamente, ma solo per un momento. Ancora una volta la familiare vista dei tetti, comignoli e grassi piccioni che incorniciavano l'ambiente urbano si presentavano ai suoi occhi. Un caos geometrico di mattoni e pietra, aggrovigliati in un mosaico che faceva da contrappunto alle ristrette viuzze. Molte avevano un canaletto che si poteva superare con un salto ed il cui odore di acqua salmastra arrivava fino alle sue narici e si confondeva con quello di torba bruciata che si fondeva con la leggera foschia che baluginava fra le vie ed i tetti. 
La presenza continua dell'acqua più o meno corrente permetteva alla maggior parte degli odori della citta, di corpi, di scorie e di animali nei rari appezzamenti di terreno, di dileguarsi al largo, oltre le isole che sorreggevano il possente Titano e da lì via nel mare aperto. 
Uno dei fatti che più seccava Dante era l'impossibilità di poter vedere dall'unica finestra del misero appartamento la statua simbolo ed orgoglio della città. Purtroppo aveva immediatamente appreso al suo ritorno dai campi di battaglia che quella possibilità rappresentava un lusso da pagare a caro prezzo e che lui non poteva permettersi. 
Presi gli stivali malconci da sotto il giaciglio, indossati ed allacciate le stringhe di cuoio, Dante si muoveva verso il piccolo lavabo per darsi una ripulita e togliersi il velo di barba che indossava da un paio di giorni. Quella sarebbe stata una mattinata particolare e valeva la pena avere un po' più di cura nell'aspetto. 
Il dolore al capo e un buco nello stomaco che non accennava a placarsi gli suggerivano che sarebbe stato meglio mangiare qualcosa prima di avviarsi. Aperto il piccolo baule e tirata fuori la borsa di pelle che conteneva l'avena in suo possesso, diede un'occhiata alla scarsella che portava alla vita. Sapeva benissimo quanto vi fosse all'interno, ma non riusciva a togliersi l'abitudine di controllare. 
90 soldi. 
22 denari e spiccioli. 
3 grossi e una manciata di trillini. 
Niente piastre. Non parliamo poi di scudi o pile.
In qualunque modo volesse vederla, ecco a quanto ammontavano le sue disponibilità liquide dopo tre mesi di vita in quelle condizioni. Con un sospiro la borsa di cuoio veniva aperta e una misura di avena per la farinata depositata nella scodella di latta, mentre la scarsella era religiosamente richiusa. 
In fondo alle scale, dietro una curva a gomito, Dante era ora nel piccolo cortile che l'edificio aveva in comune con quello accanto. Al centro, riparato da una piccola tettoia, si trovava il forno comune. A quell'ora vi erano già persone in attesa. Mentre un vecchietto girava con enorme attenzione un mestolo dentro una padella annerita dall'uso e l'aria si riempiva dell'odore di cibo, 
Dante si era posizionato all'estremità della panca, in fondo alla fila. 
"Salve condottiero"
A parlare era stata la moglie di un tintore che aveva la bottega ad un paio di calli di distanza. Era giovane, graziosa e sposata con un uomo che aveva il doppio della sua età. Era stato un buon matrimonio, ammetteva lei stessa, per una donna senza famiglia e con la paura del bargello sempre a due battiti di distanza. Neanche il marito poteva vantare la propria nascita braavosiana, ma il fatto di avere a proprio nome una attività stabile ed onesta nella città in cui i mercanti erano principi, faceva sì che le guardie incaricate di controllare la chiusura dei cancelli che al tramonto sprangavano l'accesso alla città per tutti gli stranieri che gravitavano attorno al Porto degli Stracci, chiudessero volentieri un occhio. 
"Buondì madama" disse Dante con un leggero piegare del capo.
La donna aveva dei progetti per l'attività del marito, una volta che avesse ereditato. Naturalmente avrebbe avuto bisogno di un socio con cui condividerle. Il guaio era che, probabilmente, con la sua salute cagionevole, il pover'uomo non sarebbe riuscito a sopravvivere fino al compimento dei 15 anni di attività economica ininterrotta che la legge del Duca stabiliva come limite per poter chiedere con successo l'iscrizione nei ruoli cittadini di se stessi e della propria famiglia. 
Era sempre stata la stessa Essie a raccontare tutto questo a Dante, una sera in cui lei lo aveva invitato a bere una coppa di vino, mentre il marito era impegnato in una transazione di affari lontano da casa. 
"Come sta oggi? Novità riguardo al suo ingaggio?"
Dante poteva rispondere solo con un cenno di diniego, mentre occhieggiava a che punto la coda si fosse mossa. 
"Finora nulla, ma oggi ho un appuntamento promettente. Dovrei ricevere buone notizie più tardi"
"Qua attorno? Potrebbe venire da me ad aggiornarmi"
"Il luogo dell'appuntamento è fissato in Piazza delle Gilde"
"Ooh! A due passi dai Bagni della Luna!" la donna sospirava "Immagino che dovrei augurarvi buona fortuna"
"Madama sarebbe troppo buona nel farlo"
Da quella fatidica sera la donna aveva perso qualsiasi attrattiva per Dante. Con una scusa aveva declinato l'invito a fermarsi di più ed aveva preso velocemente l'abitudine di scegliere osterie ben lontane da dove abitava. 
"Mi chiedo però se valga la pena continuare a provare, messer condottiero...Quanto tempo è passato? Cinque mesi?
"Tre mesi, se le è gradito" 
Il suo incubo ad occhi aperti era trovarsi una mattina nel letto della donna, mentre disteso sul pavimento stava il marito di lei con due palmi di coltello nel ventre. 
"E se non ci fosse niente per Lei? Dovrebbe pensare a qualche alternativa" adesso scuoteva il capo e lanciava sguardi di fuoco "Uomini come Lei possono andare molto lontano nella vita con la giusta persona al loro fianco..."
Guardandosi attorno poteva vedere che il vecchio si stava allontanando con il proprio paiolo fumante, mentre la donna prima di lui stava riprendendo in mano le pentole. 
"Mi scusi madama" in due passi Dante le stava di fronte e le sbarrava la strada al forno "Le dispiacerebbe cedermi il suo posto?"
La casalinga lo stava fissando con uno sguardo gelido negli occhi
"Oggi sono proprio di fretta" si affrettava ad aggiungere "Debbo sbrigarmi ed essere in movimento il più velocemente possibile" 
Non era la prima volta che la massaia si era concessa il lusso di accettare le sue richieste e non ci voleva molto a capire verso dove saettavano di tanto in tanto gli occhi preoccupati del suo interlocutore. 
"Ma certo messere. Se siete così pressato dall'urgenza di questo appuntamento..."
"La ringrazio" aveva ribattuto Dante con un inchino un po' più pronunciato di quello che aveva destinato alla sua persecutrice. Messa la scodella sulla griglia bollente ed aggiunto un po' d'acqua dalla piccola borraccia che aveva portato con sè, si concentrò nel preparare la farinata, mentre con la coda dell'occhio poteva osservare la moglie del tintore fare una smorfia di disappunto e tornare sui propri passi. 
Finito il pasto e con lo stomaco in ordine, sbarbato e con la mente snebbiata, Dante aveva avuto cura nell'indossare il proprio cappello floscio con la penna purpurea; oltre a fare un bel contrasto rispetto al farsetto di color azzurro polvere, la cappa verde scuro e i pantaloni alti al ginocchio e gli stivali in cuoio ingrassati, quella penna indicava la sua appartenenza ai condottieri. 
Nel caso, improbabile dopo quella grida, di una ripresa delle ostilità da parte della città di Braavos lui sarebbe stato uno dei primi professionisti delle armi ad essere consultato ed impiegato con regolare contratto palatino da parte del Duca in persona. Nel frattempo aveva licenza di esercizio della propria attività all'interno dell'ambito cittadino come lancia spezzata per commissioni legali, membro attivo dell'omonima gilda. In cambio era a disposizione della città per attività di difesa comune come le ronde notturne che ogni tanto svolgeva per conto delle case rionali o per il bargello, a capo dei cancelli del Porto degli Stracci. 
In altre parole era il segno distintivo che lo indicava come qualcosa in più di un bravo spaccone e violento. 
Si era fermato un attimo a guardare la propria immagine riflessa nel canale che ancora fumigava e dovette ammettere che i colori di pantaloni e farsetto erano un pò sbiaditi e la camicia tradiva una tonalità giallognola, ma il ritocco che aveva dato al colore del berretto teneva e la cinquedea che portava sul lato sinistro della cintola, vicina al costoliere, risplendeva grazie ai rilievi damascati dell'impugnatura. 
Raddrizzata la schiena, marciava deciso e con la convinzione che stavolta sarebbe stata l'occasione buona verso il ponte di pietra che lo avrebbe portato verso il Canale degli Eroi e Piazza delle Gilde. 
Questa sempre piena di mercanti, assistenti, artigiani ed altri professionisti. Tutti pronti a cercare un affare o a siglarlo in lunghe e concitate contrattazioni oppure in rapidi cenni e con una vigorosa stretta di mano. Le cappe blu notte e nere dei magistri e dei custodi si mischiavano, in una variopinta fantasia degna della tavolozza di un pittore, con i vestiti più o meno ricercati e sgargianti di impresari, giovani promesse, professionisti dell’avvocatura, dell’ambito notarile, della sapienza accademica e, perché no, anche del clero e di avventurieri di ogni risma. 
A fare da contrappunto a tutti questi individui stavano individui di evidente estrazione sociale inferiore, probabilmente provenienti dalla Teppa, che esercitavano la professione di borseggiatori e simili, controbilanciati dagli uomini pieni di buon acciaio alle dipendenze della Terza Spada di Braavos che rispondeva alle corti dei Placiti. 
In ultimo si aggiungevano i venditori ambulanti che cercavano sempre in luoghi come quello di fare buoni affari, mentre dal Canale degli Eroi imponenti barche e scialuppe più modeste, alcune a nolo, facevano sbarcare altri personaggi in un andirivieni di individui che sottraevano e aggiungevano in continuazione a quel calendoscopio di varia umanità che era la piazza di fronte alla Casa delle Cupole, dove risiedevano gli uffici delle più importanti corporazioni. 
Dante però non giungeva dal lato del canale, bensì si era fatto largo in una viuzza adiacente, passando per ponti e stradine che costeggiavano canali e corsi d’acqua che incrociavano tutto attorno alle isole e ai quartieri bravosiani. Siccome aveva la cappa, si muoveva agilmente per quelle vie indifferente al camminare sul lato della strada in ombra o al sole, ma sempre a testa alta e con la piuma purpurea nella fascia del cappello, che sfiorava con la mano per salutare qualche conoscente o si toglieva quando incrociava dame di un certo prestigio sia a piedi che sedute sulla propria barca, con stemma o meno sulla fiancata, ben intabarrate sotto la tenda di poppa perché il tempo autunnale di Braavos può essere umido ed insidioso come l’inverno è freddo e crudele. 
Dante non aveva mentito alla moglie del tintore. Effettivamente l’appuntamento era fissato presso una locanda adiacente alla grande Piazza delle Gilde. 
Alla locanda del Volantino lo stavano aspettando i soliti amici. Per orgoglio e per opportunità, li incontrava solo quando aveva avuto occasione di curare il proprio aspetto invece di lasciarsi andare, come nei giorni precedenti. Il proprietario era un cordaio che aveva esercitato per anni la propria attività nel Mare Stretto fino a quando aveva risparmiato abbastanza per rilevare quel locale e trasformarlo in un angolo di casa lontano da casa. 
Anche quel giorno si trovavano seduti attorno alla tavolata che Jhos riservava sempre loro la tavolata sulla sinistra, questa era più vicina ai fumi e alle porte della cucina, ma anche più riparata e senza dubbio quella che veniva servita più rapidamente. 
Malgrado la puzza di fritto e il fumo della cucina, il posto era confortevole. Ed era anche divertente, perché lo frequentavano abitualmente corrieri postali, magistrati, scrivani, uscieri, fiorai e commercianti della vicina piazza, impiegati della Banca del Ferro e anche vecchi soldati attirati dalla vicinanza delle principali strade della città e del ritrovo salottiero presso le piazze ducali, del Metallo, la Pozza Lunare, il Palazzo della Verità e i fedeli di passaggio da e per le Isole degli Dei. 
Aveva piovuto un po' all'alba e restavano impronte infangate sul pavimento della taverna, insieme all'odore di umidità e di segatura che lasciavano i giorni di pioggia. Il cielo stava schiarendo e un raggio di sole, dapprima timido e in seguito un po' più baldanzoso, incorniciava il tavolo. Fra i piatti di pezzi di pane e carne in intingoli piccanti e tazze mezze vuote, torreggiava la tavola da gioco di Cyvasse alla Jhos come era chiamata fra gli avventori abituali del locale. 
L'attrezzatura era quella normale usata per giocare al passatempo proveniente da Volantis: la tavola in legno riproponeva il campo in cui i due giocatori si davano battaglia con tanto di pianure e montagne, l’unica differenza era data dalle pedine da gioco, invece di essere in legno verniciato, si trattava di bicchieri con la medesima forma delle normali pedine. Riempite con diversi tipi di liquore, dai più semplici e meno ricercati per la pedina della marmaglia sino ad arrivare al rum e al più fino idromele per pezzi pregiati come l’elefante, il drago o il re. Veniva scelta sempre una tonalità che ricordasse le due diverse parti contrapposte, il bianco e il nero. Chi eliminava il pezzo dell’avversario doveva, in realtà, berlo. 
Difficilmente chi vinceva poteva dire, alla fine, di averlo fatto per bravura e nessuno dei giocatori poteva affermare di essere sobrio. 
In quel momento si fronteggiavano Caspar, un brillante e promettente giovane della Casa della Pupilla Celeste. Questi non mancava mai all’appuntamento con gli amici, quando non era imbarcato sulle capitane ed ammiraglie delle squadre di mercantili che viaggiavano fino a posti lontani come Qarth o Mussovy. Dall’altro lato si trovava Manlio Ghylphis, impiegato presso uno dei tanti uffici che svolgevano la funzione di cambiavalute nell’onnipotente Banca del Ferro. all’occhio appannato e dai riflessi piuttosto lenti nel salutarlo, Dante poteva intuire che stessero giocando la seconda o terza partita. 
Al loro fianco si trovava Gannifer, che si guadagnava da vivere o organizzando spedizioni di caccia nelle aree attorno a Braavos per conto dei diversi conciatori della città, sempre affamati di pellicce da utilizzare nelle loro opere, oppure come guida per esplorare e sondare le montagne a sud-est della costa assieme a studiosi ed operai minerari. Insieme a Reis, il Guaritore, un ex Maestro della Cittadella di Westeros che aveva abbandonato saio e catena per continuare la sua istruzione presso i cerusici di Braavos, si divertivano a suggerire strategie sempre più spericolate ai due giocatori semi sbronzi, ridendo fra loro quando uno dei due seguiva i suggerimenti. 
Solitamente l’arrivo di Dante avrebbe provocato una serie di commenti dai più blandi ai più salaci visto il suo ritardo, ma non in quella occasione. Nemmeno Reis, che era solito frequentare i ritrovi dei bravi al tramontare del sole e non si negava mai un’occasione per una rissa, una stoccata o per fare bisboccia, aveva nulla da dire, tranne un amichevole saluto. Proprio per le sue attività extracurriculari era stato vivamente consigliato di allontanarsi dalla Cittadella, ed in genere cercava sempre una scusa per scambiare un paio di stoccate con il condottiero usando lame non affilate. Diceva sempre che era per tenersi in esercizio e pronto nel caso gli servissero per davvero durante le sue uscite notturne. Ma in quell’occasione sembrava essersi dimenticato dell’ultimo incontro con Dante e la promessa strappata per una rivincita al più presto. 
Del resto non c’erano tracce di dadi da parte di nessuno degli altri commensali. Era prassi normale, anche se vivamente sconsigliata dalle gride, di organizzare o partecipare a giochi d’azzardo al di fuori delle case da giuoco regolamentate. Nonostante la presenza di Qorlo, biscazziere professionista e cantore dilettante, il quale stava in un angolo, con un liuto in grembo a provare e riprovare alcuni passi di una nota ciaccona che aveva fatto furore nella stagione precedente. 
La ragione era molto semplice, ed era seduta all’estremità della tavolata. 
Il notaio criminale Meridio era un tipo dalla scorza dura. Indossava sul farsetto un panciotto di camoscio, imbottito internamente, che era molto pratico per attutire le coltellate; e tra costoliere, mazza, busilarda e cinquedea, aveva più metallo addosso di quanto non se ne estraesse dalle Miniere Vecchie. Portava anch’egli sul cappello la piuma purpurea: era stato soldato di condotta sotto i vessilli del Duca, sia per terra che per mare, come Dante, militando nella stessa lancia: uno corazza e lanciere, l’altro rotelliere e spadaccino. 
Da buon collega aveva condiviso con lui pene e ambasce, anche se, alla lunga, era stato più fortunato. 
Mentre il condottiero si era impegolato con l’ultima spedizione a Pentos contro l’orda dothraki, ricavandone una ferita, terrori notturni e un pugno di monete, un cognato maggiordomo a Palazzo aveva aiutato Meridio a far fortuna in città. Aveva ottenuto il bastone di vimini imbiancato che lo metteva a capo di una bandiera di berretti, le guardie della Terza Spada di Braavos, detto anche Capitano di Verità, e che lo equiparava a quello di conestabile delle ronde che vigilavano sui singoli rioni. Era stato un buon combattente, aveva la pellaccia ricucita da molte ferite e si sapeva far rispettare con i pugni o con una lama in mano. Era, insomma, quanto di più rispettabile ci si potesse aspettare da un capo delle guardie. 
A sua volta rispettava Dante e cercava di favorirlo ogni volta che ne aveva l'occasione, come ad esempio chiederne l’aiuto nelle ronde od in altri incarichi in cui sarebbe toccato a lui decidere sugli uomini da impiegare. La loro era un'amicizia, si poteva dire, professionale; rude, ma concreta e sincera. 
I due uomini, come sempre, si erano limitati ad un saluto toccandosi il lato dei cappelli, prima di sedersi uno di fronte all’altro, Meridio aveva tenuto da parte una sedia come convenuto. Dopo aver lasciato il tempo al condottiero di versarsi da bere, era passato immediatamente al punto della questione. 
“Ho un incarico per te” aveva esordito il notaio criminale.
Dante si era limitato ad un cenno del capo. 
Meridio lo aveva studiato per qualche istante, accarezzandosi la barba che portava folta, per coprire un taglio che gli andava dalla bocca all'orecchio destro. Dopo aver guardato gli altri commensali che rimanevano con le orecchie ben tese, anche se facevano finta di essere assorti dalla partita a cyvasse, aveva fatto un cenno al condottiero e si erano incamminati, dopo un breve saluto di commiato.
“Quanto hai in saccoccia? Due, tre piastre?" aveva interloquito l’ufficiale, mentre osservavano le barche andare e venire 
"Possono sembrare molte, ma di questi tempi i prezzi aumentano da un momento all’altro: basta un mercante di pietre di Lys che si svegli con un mal di denti oppure un fortunale al largo di Lorath contro un paio di mercantili e il tuo gruzzolo finisce nelle mani di speculatori e compagnia bella. A quanto so a breve dovrai anche rinnovare l’adesione alla gilda. E senza appartenenza che puoi fare? Nel giro di due giorni avrai già accettato qualche lavoretto da niente, come scortare chissà quale bel damerino perché il fratello della sua amata non lo uccida lungo i canali, oppure finire a frequentare i ritrovi dei bravi nella speranza di attirare l’attenzione di qualcuno per fare il guardiano in qualche bisca, magari in quelle mobili della Pieve Sepolta o cercare agganci per arruolarti magari nei Secondi Figli… rischiando di finire nei guai, magari ai ferri e di fronte ad un placito per decidere fra cinque anni come rematore a paga ridotta oppure l’esilio e la perdita dei tuoi diritti come cittadino” finito di parlare, l’ufficiale aveva ripreso fiato. 
Dante si strinse nelle spalle.
“Hai forse un'idea migliore?”
Guardava il vecchio collega delle Terre contese fra Myr, Tyrosh e Lys, il bastone bianco che teneva appeso alla cintura, la penna purpurea sul cappello. 
E quell’espressione non aveva bisogo di altri commenti. 
Meridio si stuzzicò i denti con un'unghia e scosse la testa due volte, annuendo. 
«E per questo che sono qui, Dante. Tra poco ti spiegherò tutto. Non appena arriviamo al tuo banco.”
Superati un altro paio di viuzze e piccoli canali, in uno slargo, c’era una vecchia casa di pietre e mattoni di cinque piani che formava ai suoi piedi un ampio arco per permettere alla strada di proseguire. Sotto quell’arco, su di un lato, si trovava una pesante porta in legno chiaro con i rinforzi in metallo ed una finestrella all’altezza del viso, mentre sopra all’arco sporgeva una insegna che raffigurava una lancia purpurea spezzarsi a metà, accanto alla figura erano riportate le parole 
«Dante dei Liberti. Lancia Spezzata» 
Dietro a quella porta si trovava il così detto banco, cioè il luogo in cui Dante poteva ricevere eventuali clienti che richiedessero i suoi servigi. Si trattava di un piccolo locale con le pareti imbiancate a calce, di fronte alla porta si trovava un bancone dietro il quale il condottiero era solito mettersi in attesa di clienti, mentre sulla sinistra si trovava un piccolo caminetto, al momento spento. 
Questi così detti banchi erano in gestione alla Gilda che li assegnava in usufrutto ai propri regolari iscritti per poter esercitare l'attività in modo più decoroso che in bettole o lungo i canali. Dato il suo curriculum come condottiero, la sua cittadinanza e precedenti accordi stipulati prima della partenza per le Colline Rocciose, la Gilda aveva assegnato a Dante uno dei suoi banchi meglio arredati ed in una posizione abbastanza vicina al cuore di Braavos. 
Appena entrati, al riparo da orecchie indiscrete, Meridio non aveva perso tempo ed era tornato in argomento.
“C'è qualcuno che ha bisogno di te”.
“Questione personale o di interesse?”
Il notaio criminale scoppiò in una risata fragorosa.
“E' sempre una questione di denari, Dante. Per ottenere grazie femminili, conforto religioso, la sicurezza... Gli uomini come te e come me, siamo degli alchimisti: impugniamo il ferro per ottenere oro” e toccavava col palmo della mano sull'arma portata alla cintura.  
Era damascata e lucente come quella del condottiero. 
Fatta una pausa e bevuto un sorso di vino che Dante gli aveva offerto, aveva ripreso a parlare, abbassando un po' la voce. 
“E’ gente importante. Un colpo sicuro, senza rischi, eccetto i soliti... E in cambio c'è una buona ricompensa”
Il capitano osservò l'amico, interessato. In quei momenti la parola ricompensa sarebbe bastata per strapparlo al più profondo sonno o alla più terribile sbronza. 
“Quanto buona?”
“Circa sessanta scudi”
Le palpebre di Dante si erano contratte 
“Che tipo di lavoro?”
Meridio scuoteva la testa e ogni tanto guardava furtivamente la porta del banco.
“Ho ordini precisi di non dirti altro…Inoltre ignoro tutti i dettagli... Ed è meglio così: è un qualcosa organizzato a livello di vetrata di poppa... non so se mi sono spiegato. Tutto quel che so è che si tratta di una scorta. Una cosa discreta, di notte. Andare dal punto A al punto B. Fine.”
“Da solo o in compagnia?”
“In compagnia. Si tratta di andare sul sicuro. Evitare molti problemi, vuol dire andare in molti”
“Chi proteggiamo?”
Meridio guardava Dante passandosi la lingua sulle labbra, come se non si azzardasse di dire altro e avesse paura di lasciarsi sfuggire di più.
“Ogni cosa a suo tempo. E poi, io qua mi limito a fare lo stesso tuo lavoro”.
Il condottiero era pensieroso. 
Sessanta scudi, erano circa trecento piastre: quanto bastava per uscire dalle ristrettezze. Ci si poteva comprare della biancheria, un abito, pagare i debiti, mettere un po' di ordine nella propria vita. Sistemare decentemente la stanzetta affittata in cui viveva, sopra il cortile, magari cambiare proprio il posto dove dormire. Mangiare pasti caldi senza dipendere da chicchesia.
"E poi" aggiunse Meridio, che sembrava seguire il filo dei suoi pensieri, "ti farà conoscere gente importante. Gente che ti potrà giovare in futuro"
Il condottiero non potè farne a meno e si lasciò affiorare un sorriso sulle labbra. 

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Capitolo 2
*** Persone riservate ***


Aveva cenato con una zuppa di pane, un quarto di vino e della carne secca; poi si era lavato faccia e mani in una catinella e pagato con un paio di soldi la signora del piano di sotto che gli aveva rammendato le vecchie calze alla luce di una candela di sego. 
Dante si era preparato a uscire con tutte le precauzioni del caso. Aveva indossato il medesimo abbigliamento di quella mattina e sopra al farsetto, un corpetto imbottito con maglia ad anelli, lo stesso che aveva sempre indossato in battaglia. Non che temesse un brutto tiro da parte di Meridio. Sebbene fosse un ufficiale dei berretti, ed un vecchio amico e collega, poteva essere raggirato anche lui. E se così fosse stato, Dante non gli avrebbe riservato certo del rancore, in una città così grande che si diceva ospitasse più di un milione di persone, non sempre era facile distinguere amico da nemico. 
Comunque fosse, il condottiero aveva preso le sue precauzioni per presentarsi all'appuntamento. Si era messo sul retro della cinta la cinquedea. Larga cinque dita, nella parte più vicina all'elsa, si restringeva notevolmente verso la punta, dandogli una forma triangolare. Molto comune a Braavos, la lama pesante e la modesta lunghezza di poco più di due palmi, la rendevano in grado di fare da seconda arma, pugnale o mancina, oppure come arma principale in spazi ristretti come vicoli o sulle galee.
Ed aveva infilato uno stiletto appuntito nella manica a sbuffo, in un apposito taschino interno. La lama era in acciaio, lunga e sottile, con una punta molto acuminata. Proveniente dai regni ponentini, era molto utile per tirare fendenti, ma soprattutto perchè la sua lama sottile poteva passare agilmente attraverso le maglie della cotta. Un'arma facile da nascondere, aveva una forte penetrazione e poteva funzionare benissimo arma di estrema difesa. Mentre faceva tutte queste manovre, per un attimo, girando gli occhi in cerca del costoliere, aveva incrociato lo sguardo con quello della sua immagine riflessa nello specchio, l’unico lusso che si concedesse. La luce della candela si rifletteva sulle guance glabre, accentuando l’ombra di barba che stava iniziando a formarsi. I suoi occhi sfuggirono immediatamente, nascondendosi. 
Ma fu questione di un attimo. 
Subito dopo tornarono a guardarsi, franchi. L’immagine ricambiava un leggero sorriso.
“La vita è una lotta, ma non è detto che debba essere spiacevole, eh ragazzo”
Poi si era messo alla cinta il costoliere ed aveva verificato che si muovesse nella guaina senza difficoltà. Nel pomeriggio aveva affilato il taglio con la cote. Il condottiero aveva infine indossato la cappa ed i guanti. 
Il mantello proteggeva dall'umidità delle notte bravosiane che saliva dai canali per entrare nelle ossa. Inoltre era un capo molto pratico al momento di battersi nelle strade male illuminate e strette: buttandosi un lembo intorno al collo o arrotolandolo intorno al braccio sinistro, il mantello faceva da schermo attutendo i colpi dell'avversario; e gettato sulla sua spada dell'avversario, lo intralciava, offrendo l'occasione di un affondo. 
Naturalmente tutto questo voleva dire lentezza nei movimenti e soprattutto maggiore peso. In una città galleggiante come Braavos, non era da augurarsi finire a mollo con indosso tutto quel peso in metallo. Per questi motivi Dante utilizzava un corpetto particolare: progettato con allacci  che permettessero di sganciarlo in pochi attimi da parte dell'uomo caduto in acqua, era molto usato nelle scorte per mare e gli era stato affibbiato il nomignolo di “martin pescatore”. 
Insieme alla piuma sul cappello, il condottiero si affidava a quegli accorgimenti perché spingessero l’eventuale bravo, in genere armato alla leggera, a più miti consigli. 
Finalmente scese le scale e si avviò per la sua strada, guardingo.
Al tramonto, la gente per bene si rinchiudeva in casa, mentre i bravi imperversavano fino all’alba,  mescolandosi con quel tipo di persone a cui piaceva svagarsi per la Città Segreta come se la notte gli appartenesse, compresi giovanotti di ottima famiglia. Riuniti in crocicchi, gravitavano attorno allo Specchio Lunare o altri luoghi centrali, ma non era impensabile trovarne qualcuno che si addentrava in zone meno frequentate. Sempre pronti a battersi fra di loro ed atteggiarsi a Danzatori dell’Acqua, erano altrettanto lesti nel lanciare sfide a qualsiasi sconosciuto armato che incontrassero per la via. Si trattava del principale flagello notturno che esistesse a Braavos. Venivano usati come paravento da tagliagole e briganti, che approfittavano della licenza di muoversi armati per la città data a chiunque. 
L’unico argine a questa situazione di caos erano le ronde dei singoli rioni, fra cui militava sporadicamente lo stesso Dante: si coordinavano con gli uomini del bargello e quelli alla dipendenze della Terza Spada per far rispettare le numerose gride che il Duca aveva emanato riguardo il divieto di scatenare risse o aggressioni contro una persona disarmata sulle pubbliche vie. 
A Braavos le persone erano caldamente invitate a sbudellarsi con delle buone lame in singolar tenzone, oppure a fracassarsi le ossa in privata sede. 
Oltre i cancelli, dove non sempre la legge ducale e le ronde arrivavano, si poteva intuire la presenza della Pieve sommersa. Le pallide luci che sbocciavano la sera assieme agli echi di baldoria; marinai e stranieri a cui era proibito l'ingresso nella Città Segreta di sera. Provenivano dalle varie case di divertimento, fra vecchie costruzioni semi affondate nel fango lagunare e barconi fissati ai pontili in modo semipermanente. 
Un lampione, aveva detto Meridio: le istruzioni lo avevano portato a prendere il primo ponte sulla destra fino a trovare un muro di mattoni. Fin lì era andato tutto bene. Effettivamente un lampioncino acceso illuminava la cavità di una postierla, oltre la quale si indovinava il tetto scuro di una casa. Era quell'ora particolare in cui la luna svaniva dal cielo, gli abitanti delle case gridavano: «Occhio, piove!» prima di gettare porcherie dalle finestre, e sicari e briganti tendevano l'agguato alle loro vittime nell'oscurità. 
Ma lì non c'erano nessuno e sembravano non esserci mai stato: regnava un silenzio assoluto.
Dante stava studiando il posto. Esplorava gli angoli più bui con lo sguardo, cercando di non guardare direttamente la luce per evitare di esserne abbagliato, prima di proseguire per altri due o tre passi, fermarsi e ripetere il tutto. Alla fine era giunto alla posterla. 
Sotto una luce oleosa il condottiero bussava quattro volte. Dopo di che liberò l'impugnatura del costoliere e mise la mano sinistra vicino al pomo della cinquedea. Di là dal muro si udirono alcuni passi e la porta si aprì silenziosamente. La sagoma di un uomo si stagliò sulla soglia. 
“Il vostro nome”
“Dante dei Liberti”
Senza dire altro il domestico, che a prima vista non sembrava indossare alcuna livrea, lo precedette lungo un corridoio polveroso, lanterna in mano. L’edificio era vecchio e per Dante sembrava un casermone abbandonato. 
Non era raro trovare edifici come quello, una volta parte integrante del tessuto mercantile della città, poi abbandonati a causa di rovesci economici. Soprattutto nella zona detta della Pieve Sommersa, dove le correnti marine e la marea montante avevano decretato la fine per molti degli edifici, non più considerati appetibili e comodi per il trasbordo e lo stoccaggio delle merci, nonostante la vicinanza con il Porto degli Stracci. Così, mentre la gente comune di Braavos, tipicamente onesta e laboriosa, si allontanava da quei luoghi, decretandoli abbandonati, altre figure si affacciavano offrendo una nuova vita a quei magazzini, anche se non sempre gradita. 
Briganti da strada, biscazzieri a cui era stata tolta la licenza, contrabbandieri, tutta questa popolazione mal tollerata in altri luoghi della città si era riversata nella zona della Pieve. Con poche pretese e molta disperazione avevano riciclato tutto quello che gli capitava a portata di mano, nonostante le rimostranze dei pescatori e di quei coltivatori di anguille che trovavano ancora comodo muoversi verso quelle zone. Le ronde rionali e gli uomini del bargello si limitavano a tenere sotto controllo la zona, come un minaccioso randello pronto a calare se si fosse superato un determinato limite. Linea che negli ultimi tempi si era fatta più lasca al variare della politica ducale che andava a concentrarsi più sugli affari “de extra” come la situazione politica nel Mare Stretto, piuttosto che a quelli “de intra”.  Invece il confine fisico era formato dai cancelli attorno al Porto degli Stracci, sbarrati la sera dai bargelli. 
Dante, preceduto dal servitore, era entrato in una stanzetta dalle pareti nude, senza mobilio, dove una lanterna posata sul pavimento illuminava gli sbreghi sul muro. 
“Vi devo chiedere di pazientare ed aspettare che vi chiami, messere.” disse il servitore
In un angolo della stanza c'era un uomo avvolto in un ferraiolo nero con la testa coperta dal cappuccio. Questo individuo non aveva fatto il minimo movimento, neanche quando furono lasciati soli. Rimaneva immobile nel suo cantuccio, come una statua scura, ad osservare il nuovo arrivato. L'unica cosa viva che si scorgeva tra il cappuccio e il mantello, tenuto alto a coprire la bocca, erano gli occhi. Nerissimi e brillanti, la luce sul pavimento li illuminava tra le ombre. 
Con un'occhiata, Dante notò gli stivali da cavallerizzo e l'impugnatura di una spada che formava un abbozzo fra le pieghe del vestito, mentre la punta spunta dall'estremità del ferraiolo. Doveva trattarsi una grossa spada ad una mano e mezzo, da cavaliere. 
Nessuno dei due disse una parola e rimasero entrambi lì, fermi e silenziosi ai lati opposti della lanterna che li illuminava dal basso. Dante poteva vedere che l’altro lo stava studiando attentamente. Gli occhi dell’uomo correvano dai suoi stivali mal sagomati ai pantaloni stinti che si intravedevano sotto la cappa. Indugiarono sul cappello con la piuma purpurea. 
Per essere onesto con se stesso, il condottiero si sentiva leggermente a disagio di fronte a quell’esame accurato, ma non intendeva distogliere lo sguardo dall’uomo e ne studiava le mosse. Non aveva neanche terminato quel ragionamento che il silenzioso individuo si era staccato dalla sua posizione e si era dileguato, sempre in silenzio. 
La situazione stava diventando surreale. 
Come se rispondessero ad una invocazione, i passi del servitore giunsero all'orecchio del condottiero poco dopo e l'uomo fece la sua ricomparsa. Superate una rampa di scale ed un paio di corridoi, giunsero in una saletta piccola e riparata, con un fuocherello da cui non provenivano i normali miasmi della torba braavosiana. 
Una donna, dal lungo vestito color malva, stava seduta con le mani conserte, dietro al piccolo tavolo situato al centro della stanza, con una lampada sopra. Portava i capelli castano chiari raccolti in una lunga treccia adagiata su di una spalla. Guardava i movimenti del condottiero da dietro una maschera che le copriva la parte superiore del volto. Si intravedevano occhi verdi, mentre le mani erano ben curate, ma non portavano nessun monile. La maschera era variopinta con una predominanza di colori chiari, in materiale rigido. Dante immaginava che appartenesse a quel gruppo di accessori molto in voga un paio di stagioni prima per la grande festa dello Smascheramento. 
“Ben arrivato, messere. Confido che l’appuntamento a quest’ora non vi abbia incomodato, ma prego, sedetevi”
E non aggiunse altro, aspettando che Dante si muovesse verso la sedia, anche se il termine non rendeva giustizia all'oggetto, visto che la spalliera e il sedile erano fornite di imbottiture di raso. 
Il condottiero si mosse, a disagio. In quella casa abbandonata non c’erano segni di incuria a parte la polvere e le mura un po' sbrecciate. Le stanze erano ben areate, non si sentiva odore di muffa, mentre un caminetto scoppiettante e delle sedie di raso completavano il quadro di una piccola stanzetta da ricevimento, magari un salottino abbiente. 
Inoltre quella persona lo faceva riflettere: se la cura delle mani e del viso dicevano una cosa, la mancanza di gioielli ne dicevano un’altra. La maschera, anche se datata, era in perfette condizioni, lo stesso vestito, tutt’altro che appariscente, sembrava molto ben conservato, se non addirittura nuovo. 
Era possibile che, oltre al servitore canuto, vi fossero altri uomini a servizio della donna, magari oltre alla porta che stava alle sue spalle. Se la prendeva con se stesso perché non si era premurato di controllare tutto il profilo della casa, accontentandosi di ispezionare solo la facciata. Era stato troppo sicuro delle raccomandazioni di Meridio. 
Come si collegava il suo presunto incarico con quella donna?
Forse quella donna era di una casata come i Fregar o gli Elyphiantes? O magari un ramo collaterale dei Rogare? Da buon bravosiano, Dante era a conoscenza delle notizie principali riguardanti le famiglie più illustri della città, quali i Custodi, i Placiti ed i Correggitori. Ad esempio, tempo prima alcuni Rogare avevano preferito stabilirsi nella Città Segreta ed acquisirne la cittadinanza, mentre la maggior parte intraprendeva l’avventura di tornare a Lys. 
Oppure si stava sbagliando e si trattava di una cortigiana? Molte di esse, una volta smessa la professione, riuscivano comunque a mantenere buoni rapporti con i personaggi del “Castello di poppa” come si soleva dire. 
Una risata argentina lo strappò dai suoi pensieri. La dama aveva coperto la bocca con il dorso della mano. Calmatasi, rivelò la calda ombra di un sorriso sui suoi lineamenti. 
“Perdonatemi, messere. Non volevo mancarvi di rispetto, ma è da tempo che non raccolgo sguardi così interessati e…sì, devo ammettere di aver provato un attimo di onesto piacere. Ma credo che sia giunto il momento di presentarmi. Sono il Cigno Bianco, riverisco Dante dei Liberti” E chinò il capo, mentre il condottiero continuava a fissarla.  
Il Cigno Bianco. 
Si raccontava che avesse iniziato come una semplice e povera ragazza, appena arrivata dalle torbiere dell’entroterra, ma in capo ad alcuni anni era divenuta una delle più apprezzate sarte della città. Non c’era gran dama che non andasse da lei per farsi fare un vestito su misura. Non c’era gentiluomo che non cercasse di ottenere i servigi del suo studio professionale per sé o per le proprie promesse. Non c’era filatura grande o piccola che non volesse essere associata a lei.  Non c’era singolo concorrente che non cercasse di infamarla con i più turpi pettegolezzi. 
Vi era chi diceva che avesse racimolato i primi soldi come prostituta nei locali di infimo ordine della Pieve Sommersa, chi diceva che fosse un’ex-farmacista che avesse usato tonici sbagliati con ricchi clienti, chi infine affermava che aveva entrature con gruppi come i Piangenti e gli Uomini senza volto…
Anche il suo simbolo, sicuramente più famoso in città del volto della riservata padrona, era oggetto di ipotesi: la più gettonata era che fosse un omaggio ai suoi primi clienti e finanziatori, un gruppo di nobili delle Isole d’Estate e delle loro caratteristiche navi. Poi, improvvisamente, aveva chiuso la propria bottega presso Piazza delle Gilde, e si era allontanata dall’attenzione del pubblico, nonostante le insistenze contrarie, arrivate anche da importanti clienti. In qualunque caso quella donna non lasciava indifferenti e polarizzava le opinioni su di lei. 
Ed in una realtà in cui ogni individuo doveva vivere costantemente strattonato da un milione di persone sparse su un centinaio di isolette, il pettegolezzo era una specie di intrattenimento condiviso, al pari del canto e del teatro. 
Ma lei aveva continuato a difendere la propria riservatezza con la stessa decisione di quando era all’apice della fama. Un alone di mistero si era posato sul suo nome. Un aspetto che ora il condottiero poteva apprezzare. 
Sarebbe stata una lunga serata. 
La donna, dopo essersi presentata, era passata immediatamente a discutere delle precedenti esperienze di Dante con dovizia di particolari. Negli occhi era scomparsa quella punta di autoironia e divertimento. Al suo posto, vi era ora un atteggiamento professionale e scrupoloso degno del più grigio burocrate della Banca del Ferro. 
Dante ne era impressionato. 
“Probabilmente vi avranno già accennato qualcosa, messere. Ma il compito per cui vorrebbero impiegarvi è di scortare nei prossimi giorni un gruppo di persone attraverso Braavos, dopo il tramonto”
“Che tipo di persone? E per cosa?” aveva chiesto il condottiero con voce neutra
Il silenzio era stata la risposta a quella affermazione, l’esitazione nella donna era evidente e si protrasse finchè il domestico non ricomparve con un bigliettino. Il Cigno Bianco lo aveva nascosto nella manica dell’abito subito dopo averlo letto.
“Messer Dante, seguite le vicende che avvengono nelle terre di ponente? Nei Sette Regni?”
“Per la verità non molto, so solo quello che potrebbe sapere qualunque bravosiano: dopo la cacciata delle teste bianche il nuovo re ha imposto la pace e al momento sembra funzionare”
La dama sembrò non cogliere il modo in cui aveva definito la decaduta casata dei Targaryen. D'altronde a Braavos non erano in molti quelli che nutrissero particolare simpatia per le ultime vestigia del terribile mondo dei draghi. 
“Ecco, dovete sapere che la guerra con il Folle è sicuramente l'evento più importante per i suoi effetti, ma non certo l’unico. Esso ha finito per…oscurare altri fatti avvenuti in precedenza. Casi che hanno coinvolto persone di alto rango, dei nobili, costretti ad andare in esilio”
“Hanno trovato rifugio da questa parte del Mare Stretto”
La donna fece un cenno col capo. 
“Ora, la situazione interna si è mutata e potrebbe esserci uno spiraglio per rendere la loro situazione più favorevole”
“Niente più esilio”
“E’ l’eventualità migliore”
“Il loro nuovo re è pronto ad accoglierli?”
“Non credo che si sia interessato della loro condizione, ma probabilmente membri molto vicini alla corte intendono agevolarli”
Il condottiero tacque. 
La vita al Palazzo ducale era uno delle questioni più in voga in qualunque discussione fra i cittadini di Braavos e lui non riteneva che le cose fossero diverse nella corte ponentina. Ma qualcosa in quella spiegazione non quadrava. 
“Se sono favorevoli perché avviene tutto lontano dalla luce del sole?”
“Non tutti lo sono: la presenza di molte persone è nota. Da qui la necessità di siglare un accordo essenziale per il loro ritorno. Temono che i loro avversari abbiano dei sospetti e vogliano impedirlo.”
“Non potrebbero organizzarsi tramite un legale oppure con un corriere?”
“La sigla dell’accordo richiede condizioni particolari e la presenza di un elemento terzo che faccia da arbitro”
“Tanto da doversi fare di notte?”
“Sì, l’accordo deve avvenire nella massima riservatezza e per questo sono pronti a prendere serie misure di riservatezza”
“Madama, perdonatemi, ma tutto questo è abbastanza fumoso, per non dire…teatrale” Dante fece un vago gesto indicando tutto quello che gli stava intorno. 
La donna aveva aggiustato la maschera e lo fissava freddamente
“Debbo convenire che la situazione è particolare, ma lo è per voi come per me. Immagino che sappiate qual è la mia attività, giusto?”
“Naturalmente, il vostro nome è rinomato sulla costa”
Da sotto la veletta era spuntato un leggero sorriso
“Mi adulate, messere: si tratta solo di un’eco di quello che è stato, nulla più. Però mi è capitato, durante periodi particolari, come lo Smascheramento, di essere contattata da clienti che richiedevano il massimo riserbo ed imponevano precondizioni di lavoro molto stringenti. Immagino che come Lancia Spezzata anche voi teniate alla riservatezza del vostro cliente, non è vero?”
“Sì, è un prerequisito della nostra Gilda”
La donna muoveva leggermente il capo in segno di assenso, soddisfatta. 
“Ecco, potete immaginare che il nostro… committente? Sì credo che la parola sia quella giusta…Dicevo, ha preteso sia da me che da voi un supplemento di riservatezza. Se provate a vedere la cosa sotto questa luce vi accorgerete che la situazione non è poi così inusuale”
Lo spadaccino trasse un profondo sospiro e ripensò alla ricompensa offerta.
“No, immagino di no”
“Ecco, personalmente ho applicato lo stesso metodo e la cosa mi ha rasserenata alquanto”
“Deve essere una questione molto importante se richiede tutte queste attenzioni. Si tratta forse della rotta perduta di Alys Westhill per il passaggio attraverso il Mare del Tramonto?”
La donna era tornata a sorridere
“Non sono stata edotta sui particolari. Comunque è abbastanza importante da richiedere la presenza di un soldato della condotta ducale…”
“Per non parlare di una delle persone che probabilmente conosce come nessun altro il castello di poppa di Braavos”
“Il mio lavoro me lo ha permesso, sì”
Rimasero un attimo a fissarsi in un silenzio complice, prima che il condottiero si alzasse e, lentamente, si fosse avvicinato al caminetto. Non si era ancora tolto la cappa, eppure sentiva il bisogno di calore per scacciare l'umidità dei canali. La dama rimase in silenzio, lasciando allo spadaccino il tempo di raggruppare le idee. 
Dante era tornato a pensare all’uomo con il mantello nero. 
Voltando leggermente la testa verso il Cigno Bianco, riprese a parlare. 
“Non mi avete ancora detto di chi si tratta, ho bisogno di sapere, almeno in generale, che tipo di persone debbo difendere e a cui fare da guida…”
“Temo che siamo arrivati al limite di quello che mi è consentito dire…”
"Credo che sia il caso che io risponda alle sue domande, ser” disse una voce forte e stentorea.
Voltatosi, Dante vide che in fondo alla stanza stava entrando l'uomo con il ferraiolo. 
Si era tolto il cappuccio ed ora Dante poteva vedergli la faccia alla luce della lanterna e del camino. Alto e magro, giovane. Il viso era segnato da alcune cicatrici, un paio di baffi sottili e molto curati gli conferivano un’aria esotica che ne accentuava la giovane età. Gli occhi e i capelli, lunghi fino alle spalle, erano neri come il resto del suo abbigliamento tranne gli stivali da cavaliere. Sul fianco portava una spada ad una mano e mezzo, con la guardia ridotta ed un’ambra sul pomolo. 
“Permettete che mi presenti, mi chiamo Robin della nobile casata Darklyn” aveva detto l’uomo, fissando dritto negli occhi l’interlocutore. 
Lo spadaccino fece altrettanto
“Dante dei Liberti, messere”
Il Cigno Bianco assunse un'espressione neutra e le labbra strette. 
“Ser Robin, vedo che avete cambiato idea…”
“Sì lady, pensavo di tenermi in disparte come concordato, ma ascoltandovi mi sono accorto dell'errore. Le mie scuse, ser, la mia riservatezza ha ecceduto la buona creanza”
Il cavaliere si era messo la mano destra sul cuore ed aveva chinato il capo, alla moda di Myr, lo spadaccino rispose con un breve inchino.
“Mi fa piacere che abbiamo potuto presentarci messere. Siete voi l’uomo che ha richiesto una Lancia Spezzata?”
Lo sconosciuto tornò a fissare il condottiero con i suoi occhi neri e penetranti, poi si avvicinò al camino ed allungò le mani per ricevere il calore. 
“Vedete, dai tempi di mio padre e di…Duskendale, ho viaggiato per le Città Libere. Ma non mi sono mai trattenuto a lungo in un luogo e non posso dire di essere familiare con nessuno di essi, a parte Myr, che è stata quasi una seconda casa. Purtroppo i Rykker mi hanno spinto a muovermi molto negli ultimi anni e nel timore che si facciano vivi mi costringono a muovermi lontano dalla luce del sole, dove non si aspetterebbero, a Braavos dopo il tramonto… e so che la Città Segreta non dà molta confidenza agli estranei, soprattutto di notte”
“I Rykker sono i vostri nemici?”
“Sono la famiglia che ha ottenuto il feudo di Duskendale e non intendono rinunciarvi”
“Le Terre Regie sono lontane, messere”
“Nonostante gli ultimi anni, Duskendale è ancora un porto molto attivo. Non sarebbe difficile trovare un imbarcazione e dirigersi qui sotto mentite spoglie”
“Capisco”
“Adesso, dopo la scomparsa del Folle Tiranno e l’arrivo del nuovo Re, posso sperare in una buona occasione. Gli stessi sostituti della mia famiglia devono scontare lo sfavore della corte…Non possono correre rischi”
“E’ comprensibile”
Il nobile sospirò e poi, raccolte le mani dietro la schiena, iniziò a muoversi avanti e indietro, mentre continuava a parlare.
“Non vi nascondo che la questione è oggetto di vita e di morte sia per loro che per me. La mia precedente…lontananza dai Sette Regni e l’impossibilità di contattare i pochi amici di mio padre, avevano reso i Rykker sicuri del fatto loro, ma adesso…con la mia ricomparsa…Probabilmente non ci sarebbe cattiveria a cui non si abbasserebbero”
“Questo, perdonatemi, ma lo ritengo scontato, se ho ben capito la vostra posizione”
Il condottiero era convinto che nessun uomo è disposto a rinunciare a quello che considera suo di diritto: la giusta quantità di pertiche di buon terreno diventavano un’ottima causa a cui sacrificare onore, giustizia e tutto il resto. Un argomento che, da buon braavosiano ed abituato a lottare quotidianamente per un dito di spazio in più per respirare, comprendeva quasi istintivamente. 
Tuttavia lo spadaccino sentiva il bisogno di aggiungere qualcosa. 
“Comunque, messere, non dimenticate che questo è un luogo estraneo sia per voi che per loro. Sarete in vantaggio, potendo contare su persone del luogo”
“Quindi mi aiuterete, ser? A riguadagnare l’onore perduto? A riavere la casa dei miei padri? Potrò contare su di voi come potente scudo contro I pericoli della notte? Ad essere nuovamente ammesso fra i miei pari e terminare con una vita errabonda e priva della consolazione delle dolci Terre Regie?”
“Ho solo due mani, messere. Posso offrirvi la mia spada, nient'altro” mormorò Dante scuotendo il capo. 
Il viso del cavaliere si fece teso, mentre le gote si arrossarono e gli occhi sembrarono mandare un lampeggio minaccioso. Per un attimo, la mano guizzò verso l’impugnatura della spada, trattenendosi all’ultimo. 
Dante non ne rimase impressionato. 
Aveva visto i visi di troppi uomini per scandalizzarsi di fronte a così poco. Volti che lo fissavano da dietro picche e spade, occhi che ritenevano la sua vita meno di zero, uomini che credevano di vivere solo in guerra, persone che non avevano più nulla da perdere.
Ed i suoi, ogni mattina, di fronte allo specchio.
“Avete mai fatto, nella vostra carriera, attività di guardia d’onore, messere?” chiese rapidamente il Cigno Bianco. 
“Durante il Forzamento di Ny Sar ho fatto parte della scorta degli emissari inviati presso l’ammiraglio volantino per chiederne la resa” aveva risposto lo spadaccino, fissando il cavaliere.  
“Il forzamento? Non è forse accaduto durante la guerra fra Norvos e Qohor? Era coinvolta anche Volantis?” insisteva la donna.
“E' accaduto durante la tregua: Volantis aveva cercato di espandersi oltre il Lago delle Daghe. La mia condotta prevedeva di fare da scorta alla flotta fluviale di Norvos…”
“Come mai siete stati coinvolti?” la donna aggrottò le sopracciglia. 
“Partecipava anche un gruppo di esperti dell’Arsenale ed avevano chiesto anche il mio aiuto”
“Ah, capisco…Devo dire che questi particolari mi giungono nuovi, non sono un’esperta, ma immagino che siano di interesse per un cronista o uno storico”
“Non credo. A nessuno interessa queste minuzie: il Forzamento è comunque avvenuto e le trattative erano destinate a fallire.”
“Come fate ad esserne così certo?”
“Uno degli inviati volantini ha cercato fin da subito di provocare uno degli emissari a duello. Credo vi fosse di mezzo una vendetta personale…Non voleva sentire ragioni anche se lo sfidato era ferito e faticava a camminare”
“E come si è risolta?”
“Era presente anche il figlio dello sfidato e ne ha preso il posto. Io facevo da secondo e secondo le regole sono intervenuto su sua richiesta quando aveva ricevuto una stoccata di striscio sul fianco. All'inizio non sembrava grave, ma aveva perso troppo sangue e ho dovuto affrontare anche l'altro avversario”
"Lo avevano aggredito in due?" esclamò sorpreso il cavaliere. 
"Secondo gli accordi ognuno dei due sfidanti poteva chiedere al proprio secondo di intervenire in qualunque momento." vedendo l'espressione incredula di Darklin, aggiunse "E' un tipo di duello basato sulla strategia: devi scegliere il momento giusto per intervenire e sfruttare quel breve vantaggio prima che l'avversario chiami il suo secondo"
“Scusate per l’indiscrezione, ma avete vinto?” chiese la dama. 
“Sono qui a parlarne con voi” disse il condottiero accennando ad un sorriso. Non l’aveva detto, ma per quella condotta aveva ricevuto un premio ulteriore di ben mezza asta d’argento di Norvos. 
Il Cigno Bianco, arrossita leggermente, si era voltata verso il cavaliere. 
“Con questo ritengo ci si possa dire soddisfatti delle vostre credenziali. Ne convenite, ser Robin?”
Il cavaliere aveva allontanato le mani dalla spada. L’atteggiamento si era fatto più rilassato e negli occhi non vi era più traccia di quel luccichio che il condottiero aveva notato prima. 
Se fosse stato propenso all’autocompiacimento, Dante si sarebbe azzardato a pensare che il ponentino lo stesse fissando con rispetto. 
“Possiamo contare sul fatto che accetterà quest’incarico riservato, messer dei Liberti?”
“Sì, anche se resta da definire il compenso”
“Naturalmente. ecco” mentre parlava, la donna aveva aperto un cassetto. Prese una borsa di tela e la tese al condottiero. 
“Metà in anticipo ed il resto a lavoro finito”
Dante non perse tempo ad aprire la borsa e controllarne il contenuto. 
Monete in acciaio, grandi quanto il palmo della sua mano, luccicarono allegramente alla luce del fuoco. Metallo fresco di conio, che contro le dita faceva sentire le incisioni precise e recenti. Potente strumento che per Dante voleva dire cibo fresco, buon vino, vestiti nuovi e confortevoli, un luogo asciutto e caldo dove dormire. Inoltre c'era la possibilità di uscire a fare bisboccia con amici e conoscenti senza preoccuparsi dei prezzi e vergognarsi per dover rifiutare qualche scelta troppo costosa. 
Sotto lo sguardo complice del Cigno Bianco e quello confuso del cavaliere nero, il condottiero rivolse un ampio sorriso al denaro. 

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Capitolo 3
*** Tra i canali ***


"Troverete nel calle parallelo a Via della Meridiana, all'interno dei cancelli, una piccola magione con le mura imbiancate e una porta rossa. Siate lì al tramonto" aveva detto il Cigno Bianco. 
Restava ancora una traccia di chiarore nel cielo; ma i vicoli stretti, sotto le gronde scure dei tetti, erano neri come le fauci di un lupo, resi ancora più difficili da osservare dalla leggera foschia che saliva dall'acqua. Dante aveva scelto una traversa angusta, scura e deserta, per aspettare che la porta si aprisse. L'aria stava rinfrescando e lo spadaccino si era alzato il bavero della nuova cappa, comprata con l'anticipo ricevuto. Nel farlo si sfiorarono la cinquedea e l'impugnatura del costoliere. Anche quella notte aveva indossato il "martin pescatore" e ai piedi, i vecchi stivali dalle suole comode e sciupate che gli avrebbero permesso di tenere i piedi ben saldi a terra nell'eventualità di doversi muovere con rapidità. 
Sotto il panno caldo, la mano sinistra riposava sul pomo del costoliere. Per un attimo, gli tornarono alla memoria i combattimenti ed il numero di uomini che aveva ucciso. Due uomini, si era risposto. Senza contare i casi equivoci legati a guerre, più o meno dichiarate dalle Città Schiaviste. Di essi uno in duello con un Bravo ed un'altro per ragioni di servizio. Entrambi uomini fatti, capaci di difendersi e, almeno per il secondo, un furfante conclamato, della peggior specie. Erano tutti casi di legittima difesa, mentre assolveva al compito affidatogli dal proprio cliente o nelle ronde rionali. Questa era una prerogativa importante, per lui; Dante dei Liberti, a differenza di bravacci mercenari, non accoltellava mai un uomo alle spalle e mai per questioni futili, ma durante il suo servizio come Lancia Spezzata. 
Il sole era tramontato e si era persa l'eco del bargello che annunciava la chiusura dei cancelli. Tutti quelli che non erano cittadini braavosiani avrebbero dovuto lasciare le strade interne; molti si sarebbero diretti verso la zona del Porto degli Stracci, altri, grazie ad amici e conoscenti, avrebbero trovato rifugio in case accoglienti. Per i pochi rimasti non restava che affidarsi alla buona sorte di non incappare nelle ronde rionali o nei giri dei berretti, oppure trovare rifugio nei crocicchi di bravi che imperversavano presso la Pozza Lunare e i rioni adiacenti. 
Lui avrebbe terminato il suo compito e poi sarebbe tornato al suo tugurio, come aveva fatto le tre notti precedenti. protetto dalla sua piuma purpurea e dalla carta nel tubo di latta alla cintura, che lo dichiarava membro della condotta ducale. Ma questo sarebbe stato molto più avanti nella notte, con berretti che brontolavano sotto le palpebre pesanti a proposito di ubriaconi e nottambuli. 
Finalmente, la porta iniziò ad aprirsi, quasi timorosa del mondo esterno. Metà di essa era sparita sotto l'arcata del muro che circondava la casa, mentre, come d'accordo, il condottiero si fece trovare posizionato dal lato dei cardini. 
"Che cercate?" chiese una voce gutturale proveniente dall'interno
"Una mezza damigiana di spirito chiaro dell'angiporto di Lys" aveva ribattuto Dante
Rassicurata, la porta aveva proseguito il suo percorso verso l'interno. Quattro figure erano velocemente scivolate fuori, prima di rinchiudersi la porta alle spalle. La luce del lampioncino sopra l'ingresso, permetteva di scorgerne le fattezze. Avevano tutte più o meno la medesima altezza e portavano indosso un mantello, con il cappuccio calcato sulla testa di ognuno. 
Se durante la prima serata c'era stato qualche incertezza o dubbio, ormai il gruppo era ben rodato e non ci fu necessità di dire nulla. I quattro si disposero a losanga, in modo che uno di essi camminasse accanto allo spadaccino, la precisione e il sincronismo nei movimenti era tale che sarebbero rimasti alle stessa distanza fra di loro anche una volta iniziato il tragitto. 
Durante la prima serata il compagno di passeggiata del condottiero era stato ser Robin, mentre ora l'uomo corpulento aveva preso il suo posto. Anche questi portava legata alla cintola una pesante spada, anche se faceva di tutto per dissimulare. Sembrava che fosse l'arma di predilezione di ogni mercenario proveniente dai Sette Regni. La lunga punta andava ritmicamente a battere contro lo stivale sinistro, intralciandone i movimenti e conferendogli un'andatura incerta, quasi da zoppo. 
Gli altri due uomini, a metà strada fra Ser Robin e l'altro, si muovevano con maggiore familiarità nell'ambiente pieno di canali e ponteggi più o meno improvvisati per attraversarli. Indossavano delle scarpe morbide, che strusciavano sul terreno e facevano un notevole contrasto rispetto alle calzature più rigide e pesanti dei loro compagni.
Sebbene non dicessero mai una parola, Dante avrebbe potuto giurare che gli individui con le scarpe, sebbene non aprissero mai la bocca, fossero pentosiani. Gli ampi mantelli non riuscivano a mascherare completamente i sottili abiti colorati che indossavano. Vi erano poi altri piccoli fattori, come l'abitudine a muoversi fra vicoli stretti, la scelta di suole capaci di adeguarsi al selciato malmesso come al terreno reso sdrucciolevole dall'acquerugiola che li aveva bersagliati la prima sera.  
Fin da subito Dante, superato lo stupore quando gli avevano comunicato la loro meta, aveva optato per un percorso relativamente diretto, ma che stesse lontano dalle zone battute dai Bravi, muovendosi, dove possibile, in zone ampiamente illuminate. Superato il Canale degli Eroi, si erano diretti verso la Lanterna Blu, che in quel periodo era deserta: la stagione dei spettacoli era appena terminata. Poco dopo il loro corpulento compagno era scivolato su di un bordo reso umido dalla pioggia e sarebbe finito in acqua se uno dei suoi compagni non fosse intervenuto a sorreggerlo. Probabilmente portava una maglia di ferro sotto alla cappa a giudicare dalla difficoltà nel tenerlo in piedi. 
A poco erano valsi i consigli che il condottiero si era sentito in dovere di fare al cavaliere nero. Cocciutamente sia lui che l'uomo corpulento continuavano ad indossare vestiti ed armi che li avrebbero fortemente rallentati in mezzo alle viuzze e ai passaggi stretti di cui Braavos era costellata. In questa occasione Dante aveva potuto come fosse il cavaliere nero a fare da interprete visto che l'altro parlava solo la lingua ponentina, a parte una manciata di parole in valiriano monco. 
Dopo il teatro, avevano preso a costeggiare il Porto Viola fino alla loro destinazione: un grosso dromone con la parte poppiera molto alta e finemente intagliata. Sembrava più il capolavoro di un grande ebanista che una nave da guerra. Ma nessuno a Braavos avrebbe mai sostenuto che la Saetta, nave ammiraglia della flotta e prediletta imbarcazione del Duca, non fosse in grado di dare battaglia. 
Appena aveva sentito quel nome, Dante aveva ripensato alle parole di Meridio che avevano assunto tutt'altro significato. Non si stupiva più che il cavaliere nero potesse abitare in una piccola magione all'interno dei Cancelli, nè di quanto avesse visto le notti successive. 
Durante la seconda uscita, su insistenza dei suoi clienti, avevano tagliato la Città da ovest ad est. Superate le Isole degli Dei, a monte del Lungo Canale, costeggiarono un tratto del Dolceacque, prima di arrivare da oriente in vista della Saetta, toccando Piazza delle Gilde, la Banca del Ferro e la Pozza Lunare. Il viaggio aveva richiesto più tempo anche a causa della cattiva illuminazione in quella parte della città, così vicina alla Ripamota. La presenza di lampade e lampioni pubblici infissi in muri ed archi era molto ridotta rispetto alle zone attorno ai Cancelli del bargello. 
Quella sera un leggero venticello aveva spirato per buona parte del tempo ed aveva aiutato a dissipare la presenza della caligine. Il fronte del Porto Viola, con le sue lampade disseminate per tutta la sua lunghezza, si stagliava in bella vista; così Dante aveva potuto assistere all'arrivo di una mezza dozzina di armigeri, armati di lance e giavellotti, che attorniavano un uomo dalla figura alta e slanciata. Muovendosi, producevano un rumore cadenzato, anche se attutito da drappi di colore grigio, mantelli, cappelli e sciarpe, che indossavano fino all'altezza della bocca. La figura posta al centro, sotto al mantello lasciato leggermente aperto, indossava una veste simile ad un caffetano con i risvolti in pelliccia, i colori erano scuri anch'essi, ma in due varietà di rosso che permetteva di osservarne gli arabeschi ricamati. 
Al loro sopraggiungere, gli armigeri si erano arrestati a difesa del loro protetto. Questo, invece, si era limitato ad osservare con attenzione i nuovi venuti. Era bastato che l'uomo corpulento, scostasse un lembo del cappuccio perchè, grazie alla luce presente, l'altro uomo si rasserenasse. Un leggero sorriso si era formato sul volto saturnino. 
Ogni volta giunti a destinazione, Dante aspettava che terminasse l'incontro a bordo in un salottino situato a metà del gigantesco dromone. Ogni volta si toglieva il cappello e la cappa, stando in piedi nella saletta decorata con arazzi di Myr, badava a non volgere lo sguardo verso il bicchiere di acquavite sopra al tavolo ricoperto di velluto verde accanto a lui.  
Non beveva mai quando aveva un incarico, sia in pace che in guerra, una di quelle cose che,  a suo giudizio, distingueva una Lancia Spezzata da un qualunque mercenario prezzolato. 
Accompagnato dallo stesso servitore in livrea ducale, sbarcava pochi minuti prima dei quattro uomini in nero. Non si erano più incrociati con l’altro gruppo di visitatori. Probabilmente si allontanavano a scaglioni, dando modo a tutti di svanire nella nebbia senza clamore. 
Durante il ritorno, l’atmosfera si faceva leggermente più rilassata. Lui era sempre in cima al gruppo, ma questo si scindeva in due coppie. Di retroguardia rimanevano i due individui smilzi, che continuavano a guardarsi alle spalle, con le mani sotto le cappe, probabilmente strette attorno ai pomi delle daghe o delle busilarde; ma il vero cambiamento era nell’atteggiamento degli altri due uomini. Il cavaliere nero confabulava con l'altro suo uomo usando quel loro linguaggio gutturale. Sembrava che gli incontri stessero dando i buoni frutti come ser Robin Darklyn sperava. Il tono della sua voce si faceva più squillante di quanto fosse stato in presenza del Cigno Bianco assumendo una cadenza quasi infantile. Il suo compagno non era da meno, anzi, la sua voce, che usava assai raramente, almeno a portata di orecchio del condottiero, assumeva un tono profondamente baritonale, tanto che la terza notte uno degli onesti cittadini di Braavos, svegliato dal rumore nel calle, aveva deciso di omaggiarli con il contenuto del suo pitale senza il consueto avvertimento. 
Non che fossero molte le occasioni per Dante di abbassare la guardia. ll terzo giorno, ad esempio, nel tragitto di ritorno, avevano incontrato un paio di Bravi che evidentemente avevano perso la strada. Si trovavano in un calle fra il ponte Primiera e le Isole degli Dei quando si erano incontrati. Confabulavano fra loro come forsennati, ma si erano zittiti non appena accortosi di non essere più soli. Intravedendo le armi sotto le cappe dei nuovi venuti, i due avevano insistito per misurarsi con quegli sconosciuti vestiti di nero. Dante era riuscito a ferire con il costoliere la spalla di uno dei due, prima che sopraggiungessero un gruppo di berretti della Terza Lama. In silenzio, le guardie avevano lanciato una veloce occhiata attorno, e, senza disturbare il condottiero, avevano raccolto la spada del bravo ferito e disarmato l'altro in modo efficiente e deciso. Altrettanto velocemente si erano dileguati, portandosi dietro i due frastornati bravacci, ma non prima che Dante riconoscesse in uno di essi  Lotario, venturiero e compagno ai tempi della galea Salda. 
Erano così giunti alla quarta escursione notturna, stavano procedendo per il medesimo percorso fatto la sera precedente. La serata era clemente e con la poca umidità la foschia rimaneva rintanata nei canali, disertando carrugi e campielli. Avevano appena terminato di costeggiare la zona dei templi, tenuti alla loro destra, quando, appena oltre il Tempio dei Cantori della Luna, si trovarono di fronte al punto peggiore di quel percorso. 
La strada era priva di corsi d'acqua, una cala secca, come era definita a Braavos. Partiva dalla traversa del Ponte Primiera, con la statua di quello che era considerato il primo Duca della città, costeggiava l’Imbarcadero dell'Iride, per poi descrivere un angolo retto e, superato il muro di recinzione del forno rionale, terminava davanti allo slargo di Campo dei Torrazzi, con le particolari forme alte e coniche delle case in quella zona. Il primo tratto con il suo angolo buio, stretto e deserto, era sicuramente il più adatto per un’eventuale imboscata, permettendo a chi avesse attaccato di sorpresa di arrivare immediatamente ad uno scontro ravvicinato senza dare il tempo di reagire. La sera prima era stato necessario deviare da quella parte a causa dei due bravi che avevano incontrato e Dante aveva cercato di proporre un altro percorso. 
Proprio all’Imbarcadero, in una piccola darsena, stavano i legni che i barcaioli pubblici utilizzavano per trasportare i fedeli alle rispettive isole di devozione o per i passanti che desideravano evitare di perdere tempo costeggiando l’intera area. Lo spadaccino avrebbe preferito accordarsi durante la giornata con uno di essi per aspettarli in un punto stabilito e tagliar fuori una buona fetta del percorso, passando al centro dei canali più ampi evitando che potessero saltare a bordo da una finestra o balconcino. Ma, dopo essersi consultati fra loro, il cavaliere nero aveva preferito mantenere un tragitto già conosciuto. In caso di intoppo, loro quattro avrebbero saputo percorrerlo da soli, evitando di coinvolgere un altro sconosciuto nella loro uscita. 
Pertanto ora i cinque uomini dovevano passare per quella strettoia. 
Il fuoco acceso sul tetto del tempio del signore della luce tingeva di rosa le case attorno a loro, agitando le ombre. Il condottiero, dopo aver ricontrollato che il costoliere uscisse agevolmente dal fodero, aveva impugnato la cinquedea e tratto da sotto il farsetto un piccolo fischietto in osso che aveva utilizzato come capo ronda in un paio di occasioni, pronto per chiamare aiuto che sapeva ormai aggirarsi in punti prestabiliti. 
Non fece a tempo a voltarsi per comunicare le sue intenzioni ai suoi compagni di viaggio. 
Sembrò come se un gigante avesse bussato alle porte della Città per chiedere di entrare. Il cupo rimbombo si rincorse fra gli stretti passaggi, accrescendo e giungendo alle loro orecchie da diverse traiettorie. Rapidi scambi di occhiate intercorsero fra I presenti, mentre il rumore si affievoliva, prima di assopirsi del tutto. Al suo posto fecero sentire la loro presenza i richiami dei fischietti delle ronde.
Poi li raggiunse il rumori di passi concitati. Molti. In lontananza.
Alcuni in avvicinamento. 
“Attenti!” urla Dante buttandosi a capofitto in avanti. 
Attorno a lui voci gridano in preda allo stupore e al dubbio. 
Due uomini gli vengono incontro. 
Sono sbucati all'improvviso dall'angolo che passa dal Ponte, intanto una massa scura si avvicina alla riva, alle sue spalle. 
Brevi riflessi rimandavano lo scintillio delle armi nelle loro mani. 
Ma tutto questo è secondario per il condottiero. La strada di fronte a lui è stretta e al momento questo è un vantaggio perchè impedisce ai suoi immediati avversari di attaccarlo in massa. 
Il primo cerca di mettersi in guardia con una mazza, ma non fa in tempo.
Dante gli butta in faccia il suo mantello arrotolato e lo liquida con un rapido colpo di cinquedea al ventre: il getto di sangue parte dalla punta della sua lama e si congiunge allo squarcio, come un'immagine cristallizzata nel tempo. 
Un secondo avversario ha in pugno un paio di brusilarde dalla punta ricurva. Le tiene con una presa alla rovescia, la medesima con cui il condottiero brandisce la sua cinquedea nella mano sinistra. 
Ma lui nell’altra ha il costoliere. 
L’assassino cerca di farsi sotto giocando di gambe. Un paio di passi a destra e sinistra, ritmati con altrettanti affondi con le armi, come se fossero gli artigli di una fiera. Ma non bastano. 
Dante si scosta leggermente di lato. Sfrutta la maggior lunghezza della sua arma ed esegue una granucola di colpi. Stoccate rapide e precise colpiscono busto e braccio. 
I primi rimbalzarono indietro con un suono metallico, mentre quelli al braccio strappano un grido di dolore all'uomo che getta a terra il coltello. 
L'uomo si riprende subito e con un ringhio è di nuovo in guardia con l'arma superstite. 
E tiene stretto al fianco il braccio ferito. 
Dante incrocia le proprie armi e con le punte rivolte all’esterno, si fa sotto. 
Si fida della copertura offerta dal proprio giubbetto. 
Sbatte con forza contro l’altro individuo che cade all'indietro. Ha sentito le punte delle lame conficcarsi nel bersaglio, ma non ha importanza. L'uomo si affloscia senza un lamento, ha battuto la testa contro uno dei pali che affiorano dall'acqua, . 
Il condottiero riprende un attimo di fiato e si costrige a guardarsi attorno: una imbarcazione, nera come la notte, si è accostata alla riva. Quattro figure sono scese ed gli altri li hanno impegnate, scongiurando che la minaccia lo prendesse alle spalle. 
I due uomini smilzi lavorano in coppia, impugnando piccole targhe in una mano e, nell’altra, ampie daghe, le mulinano, tenendo gli avversari sulla difensiva. 
Ser Robin ha abbandonato il mantello e, brandendo la spada che porta alla cintura, tempesta di colpi il brocchiello dietro cui il suo avversario si ripara disperato. 
In ultimo, l’uomo corpulento, limitato dalla grande cappa che indossa, ha appena fatto in tempo ad estrarre la pesante spada bastarda. Brandendola sopra la testa va all’attacco del quarto uomo. Questi tiene uno stocco, già proteso in avanti venendo in contro al suo avversario per infilzarlo prima che possa calare la sua arma. 
Un movimento alle sue spalle, improvviso, e il sicario si irrigidisce. Getta a terra l'arma e inizia a rantolare, piegandosi su se stesso. 
Uno stiletto spunta dal suo collo e Dante è a due passi di distanza, ancora in movimento. 
Si avvicina all'uomo corpulento che abbassa la bastarda con un grugnito ed un cenno in direzione del braavosiano.
E lo supera. Ha gli occhi puntati oltre.
Vi sono ancora due uomini sull’imbarcazione. 
La prima, a poppa, agita il braccio rivolto all'altro che, prendendo un attrezzo ingombrante ai suoi piedi, lo imbraccia e si rivolge verso la prua. Verso le sue potenziali vittime.  
Dante, con un grido strozzato, spicca un balzo, armi in pugno. 
La banchina dista un metro dall'imbarcazione. 
Per un attimo rimane come sospeso nell'aria. Ora riesce a vedere davanti a sè nettamente. 
L'uomo con la balestra, tira. 
Dante che atterra sulla barca. Il quadrello gli scivola accanto e prosegue verso il suo bersaglio. 
Grida di dolore e di rabbia si rincorrono fino alle orecchie del condottiero, cui unisce il suo. 
Il balestriere ha ancora un mezzo sorriso sulle labbra quando gli si avventa contro. 
La barca ondeggia furiosamente, con beccheggi e rollii inconsulti. 
Dante è sopra la faccia del suo avversario, a poche dita. Il puzzo di cipolla, pane raffermo e sudore gli entrano nel naso e sembrano invadere il cervello, ma incontrarono un muro fatto di rabbia. 
Una gran rabbia. 
La cinquedea mena fendenti al busto del sicario, ma senza effetto. Un ringhio di frustrazione si fonde al suo: l’altro sta accanendosi contro il suo corpetto, cerca un punto debole per lo stiletto che ha sfoderato. 
D’improvviso un’ombra si allunga su entrambi. 
Il condottiero cerca di muovere il costoliere contro l'altro avversario. 
Si tratta di un ometto e la luce rossastra gli evidenzia la ridicola barbetta, ma il braccio è bloccato dal balestriere contro il bordo della barca, in una morsa. 
Disperato, Dante scaglia la testa contro il naso del sicario. Esplode un lampo di dolore. 
Il braccio riesce a liberarsi ed inizia ad agitare il costoliere selvaggiamente, quasi dotato di volontà propria. 
L'ometto fa un balzo indietro a cui risponde un ulteriore, profondo scossone. 
Per la barca è troppo e si rovescia. 
L’abbraccio della gelida acqua della laguna fu paradossalmente la benvenuta per Dante. 
Il suo avversario, cadendo in acqua, aveva lasciato la presa e stava cercando di guadagnare la superficie, ma più si sbracciava e più andava a fondo. 
L'acqua era insozzata dal limo e dagli scarti della città, ma il condottiero potè intravedere i frenetici tentativi dell’assassino di liberarsi della cotta di maglia che portava addosso. 
Dante dei Liberti stava facendo altrettanto. 
A differenza dell’assassino, lo spadaccino conosceva a menadito il martin pescatore che portava addosso. Era un bel capo d’abbigliamento fatto in camoscio e pelo di bufalo del Gran Mare d’Erba dothraki. Al suo interno vi era racchiusa fra i due strati di pelle e tessuto una maglia di ferro formata da numerosissime listelle di metallo affiancate e cucite le une alle altre. Questo rendeva improbabile che un colpo di taglio o anche di punta di un’arma ad asta o a manico potesse fare più danno di quello della forza con cui era stato vibrato l colpo. Allo stesso tempo il peso rendeva necessario a chi lo portava un certo esercizio per imparare a muoversi agilmente. Ad esempio in una corsa a perdifiato per una banchina. 
Merito degli anni passati sotto le insegne di Braavos e del suo Duca, il condottiero era stato molte volte imbarcato ed aveva avuto la fortuna di incontrare diversi capitani, conestabili che sapevano il fatto loro. L’ambiente di un dromone o di una galea da guerra era per definizione piccolo e sovraffollato; ogni movimento doveva essere calibrato. In guerra questo faceva la differenza fra essere esausto di fronte al nemico oppure ancora in grado di vendere cara la pelle. In acqua permetteva di sopravvivere ad un principio di affogamento. 
Poi vi erano i sistemi di aggancio, che univano la parte davanti con quella posteriore, molto pratici ed intuitivi. Ci volevano pochi momenti per indossare il corpetto, ad esempio per l’attacco improvviso di una galea nemica, oppure per toglierlo; anche se immerso nell’acqua limacciosa, colto di sorpresa ed ansante per il combattimento. 
Riemerso, Dante si guardò intorno, boccheggiando: la corrente lo aveva spinto lontano. 
Lentamente nuotò verso il lembo di terra più vicino, una delle Isole degli Dei. Toccata terra, si sdraiò a riprendere fiato. 
Rimase a fissare le stelle senza vederle per diverso tempo. 
Ripresosi, provò ad alzarsi e si accorse che aveva ancora con sé il costoliere: ormai senza pensarci, aveva infilato al polso l'anello di cuoio che lo assicurato saldamente all’impugnatura dell’arma. Gli occhi di Dante vagarono dal costoliere al resto del suo corpo. 
Era completamente fradicio, intirizzito ed infangato, ma non aveva ferite a quanto poteva vedere. Anche la cicatrice che aveva sul fianco non pulsava in maniera rabbiosa come era solita fare: probabilmente il giorno successivo avrebbe sentito l’effetto di un paio dei colpi più forti che aveva dovuto subire, ma per il momento non se ne preoccupava. 
Indugiò con gli occhi sul tratto d’acqua dove aveva dovuto abbandonare il martin pescatore, cercando di imprimerselo bene nella memoria. Quel giubbetto era molto ben fatto ed il suo valore era di circa centoventi piastre, fatto da uno dei migliori armaioli della città, posto fra il Dolceacqua e Campofiore. 
Sarebbe stato un delitto perderlo. 
Inoltre la corrente lo aveva privato del suo cappello floscio con la piuma purpurea, avrebbe dovuto procurarsene un’altra al più presto. A parte quello non aveva più la cinquedea o lo stiletto, ma erano una perdita più accettabile. 
Alzatosi, superò un paio di rocce e, risalita una lieve area scoscesa che gli limitava la vista, si trovò davanti al tempio che occupava quell'isoletta. Gli scoppiò in gola una risata amara: era approdato vicino al tempio andalo dei Sette-oltre-l’acqua. 
Non si intravedeva nessuno all'interno; o il suo custode stava dormendo, oppure preferiva non uscire a vedere la causa del trambusto. Scuotendo la testa si mosse velocemente verso il ponte che collegava il tempio con la riva. 
Si era alzato un venticello fresco che rendeva ancora più penoso muoversi gocciolante per i calli. 
Dante si rammaricava di un'ulteriore perdita, il bel mantello appena comprato. Per fortuna quel giorno aveva deciso di fare un salto e depositare il resto dell’anticipo alla Banca del Ferro invece di tenerli sempre con sè o, peggio ancora, nel suo tugurio. Nella sua piccola cassetta alla banca, sarebbero stati al sicuro fino a che lui o i suoi eredi non fossero venuti a prelevarli. 
Si mosse per un paio di calli prima di riuscire ad orientarsi, per precauzione teneva il costoliere ben spianato davanti a sè. Era a poca distanza dal Campiello delle Cortecce dove si trovavano la maggior parte delle botteghe di ebanisti della città, ironicamente era anche il punto di approdo per l’isolotto dell’Albero Diga. Girando a destra, aveva imboccato la Strada dei Focolari. Si trattava di una delle poche, ampie, vie della Città, completamente asciutte, con i suoi caratteristici tetti punteggiati dagli innumerevoli camini di mercanti, dottori, ricchi artigiani e delle loro famiglie, che potevano anche permettersi la legna odorosa importata da Lorath e da Norvos e non solo la puzzolente torba come era costretta a fare la gente della Teppa.  
Gli sembrava di sentire l’eco dei suoi passi e scrutava con attenzione ogni anfratto e ogni ombra lasciata dalle lampade infisse nei muri. Era alla ricerca di un qualsiasi pericolo in agguato su cui sfogare la sua rabbia. A parte un paio di gatti ed un cane ringhioso, non ebbe modo d'incontrare anima viva. Nonostante cercasse di rimanere concentrato e non perdersi dietro ad inutili ragionamenti, davanti agli occhi si ripetevano le immagini dello scontro. Finì per chiedersi cosa fosse stato dei suoi compagni e che fine avesse fatto l'ometto che era sulla barca. Una barca completamente verniciata di color pece…
Si riscosse dai suoi pensieri quando avvertì nel silenzio della notte un lontano ronzio. Sembrava scivolare fra le case e mano a mano che avanzava si faceva sempre più intenso. Era passato per altri quattro o cinque rioni ben illuminati, ed ora sbucava sullo slargo della Cà Rossa, a nord di Campo dei Torrazzi. Arrivato allo slargo, il ronzio era diventato distinguibile come un gran vociare. 
Numerosi erano i capannelli di persone di fronte a lui. I cittadini bravosiani, svegliati nel cuore della notte dal rimbombo simile ad un tuono, si erano messi indosso i vestiti alla bene e meglio, alcuni armati di stocco o di bastone, e avevano deciso di curiosare per le strade nonostante i bravi. Riguardo questi, anche se si intravedevano fra il nugolo di persone alcuni tipici completi sgargianti, sembravano voler mantenere un profilo basso. Molto probabile che ciò fosse dovuto alla presenza di un gran numero di uomini delle ronde, armati di partigiane e supportato da un generoso contorno di spade, elmi e mazzapicchi delle guardie ducali, accorsi a vedere la causa del frastuono come tutti gli altri. 
Un muro della costituenda Ca’ Rossa era crollato e i vari pezzi si erano sparsi per tutta l'area circostante. Il resto della costruzione era rimasto sorprendentemente in piedi, ma molto probabilmente i muratori l’indomani non si sarebbero di certo rallegrati. 
Quella casa era divenuta una specie di attrazione per il circondario. Il progetto era stato voluto da Ferrego, il patriarca della casata Antaryon. Si diceva che il magistro avesse deciso di creare un nuovo palazzo per dare grande rilievo agli accordi siglati fra Braavos ed il nuovo Primo Cavaliere dei lontani regni ponentini. In realtà vi erano stati già accordi precedenti con quel nobile e coinvolgevano Città del Gabbiano, ma la nomina di quest’ultimo come favorito del nuovo re, faceva sì che acquisissero un valore ben più alto. e principale promotore, nonchè beneficiario, era stato proprio Ferrego Antaryon. 
E così era iniziato un progetto che voleva essere differente, anzi rivoluzionario, rispetto agli altri palazzi della città. Ad iniziare dal luogo, un’area precedentemente dimenticata a favore di altri luoghi ritenuti più centrali. Vi era poi l'utilizzo dei marmi ed altri materiali per la costruzione, si diceva provenienti da Dorne, che mostrassero colori caldi, che richiamassero l'idea del sole al tramonto. Infine la facciata, nei punti in cui era stata completata, era stata arricchita con decorazioni in terracotta per tutti e quttro i piani della struttura, in genere di ambiente silvestre. Era divenuta meta di curiosità e discussione per molti cittadini; chi affermava che si trattava di un lavoro pionieristico che avrebbe arricchito il panorama della città e chi lo denunciava come un obbrobrio, prodotto dalla vanagloria del magistro. A questo si aggiunga che i lavori sembravano non finire mai e gli avversari del potente uomo dicevano che le sue continue pretese stessero facendo ammattire i poveri architetti e mastri muratori, creando un cantiere infinito. 
E quell’ulteriore contrattempo, non era che l'ultimo richiamo per una città affamata di pettegolezzi Già c'era chi nei crocicchi si avventurava a calcolare di quanto sarebbe slittata la data di completamento. 
Così Dante era capitato in mezzo a quella baraonda organizzata. 
Per un attimo mosse la testa cercando di intravedere fra le figure dei curiosi se vi era traccia dei suoi compagni, invano. Probabilmente erano stati allontanati dai berretti, ma allora che cosa era accaduto con quel quadrello e con il grido che aveva sentito? 
Non ebbe tempo di pensare ad altro. Una donna lo stava occhieggiando con sospetto. Dante, rinfoderata l'arma, cercò di allontanarsi costeggiando lo slargo fino ad imbucarsi in un calle laterale, ma non fece in tempo. 
Un gruppetto di berretti doveva aver pensato di dare un’occhiata alle vie laterali. Trovandosi di fronte il condottiero, sfatto, sconvolto, armato, senza mantello nè cappello, ma con un farsetto zuppo d'acqua, non ebbero esitazioni: gli chiesero di consegnargli le armi. Ed in breve, giudati da un graduato lo scortarono verso la residenza ducale. 

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