Amor de lonh

di Cunegonda109
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***



Capitolo 1
*** I ***


Giugno 1779. Palazzo Jarjayes.
 



«Avanti!»
«Buongiorno, signor Generale.»
«Avvicinati pure. Dunque, di cosa volevi parlarmi, André?»
«Grazie per avermi ricevuto, Signore. Debbo rivolgervi una richiesta, che spero accoglierete…»
 
__________________
 
L’estate stava sbocciando.

Il colonnello Oscar François de Jarjayes, comandante delle Guardie reali, pareva essersene accorta quella mattina, all’improvviso.

Da qualche tempo si era immersa nel lavoro per non pensare, per seppellire sotto un cumulo di doveri l’inquietudine del proprio cuore e s’era talmente concentrata sulle incombenze quotidiane che, nonostante l’usuale percorso a cavallo tra la propria dimora e la reggia e le innumerevoli ronde nei giardini di Versailles, aveva mancato di notare il sole farsi più luminoso, le giornate allungarsi e l’aria riscaldarsi.
Solo quel giorno, al risveglio, puntando lo sguardo fuori dalla grande finestra della propria camera da letto, s’era accorta con stupore del lussureggiare delle ortensie fiorite e aveva avuto coscienza della stagione incombente. Nemmeno l’inizio del suo consueto periodo di licenza, scattato la sera precedente con la firma dell’ultimo ordine di servizio prima di rientrare a palazzo, era servito a restituirle la cognizione del tempo. La mente era altrove. E il cuore con essa.

Davanti a quell’inatteso spettacolo vegetale si sentì improvvisamente a disagio. Le prese quasi un disgusto di se stessa per quella debolezza così estranea all’educazione ricevuta e a quella che aveva creduto fosse la propria indole. Decise, quindi, che non sarebbe rimasta a macerarsi nell’inazione, che il fare – ancora una volta – sarebbe stato la migliore delle cure. Occorreva impegnarsi in qualcosa. Se solo non fosse stata in licenza…

Le balenò un’idea: pensò che sarebbe partita. La Normandia e le sue spiagge da divorare a cavallo sarebbero state un ottimo modo di riposarsi tenendosi al riparo dall’ozio e dai pensieri cupi e sentimentali che la ottenebravano. Riempire il tempo di sole, onde e gabbiani. Di vento tra i capelli e sabbia a perdita d’occhio. E dedicarsi alla piccola Rosalie, di cui avrebbe potuto curare più assiduamente l’istruzione e l’educazione ai costumi nobiliari, nonché l’allenamento all’equitazione e all’uso delle armi. Sì, non appena fosse stato possibile – giusto il tempo di preparare i bagagli – avrebbe raggiunto la dimora di Fécamp.

Sorrise tra sé orgogliosa della propria capacità di prendere decisioni rapidamente, come si confà a un ufficiale.
Per non sottrarre tempo all’organizzazione, altra attitudine militare di cui andava fiera, pensò di scendere immediatamente ad avvertire la governante, affinché avviasse i preparativi. Poi avrebbe annunciato la vacanza ad André e Rosalie.
 
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Trovò la governante affaccendata a contare le posate d’argento, lavoro che compiva con scrupolo dopo ogni lavaggio, per assicurarsi che non vi fossero ammanchi nel prezioso servizio di Madame Marguerite. Era così assorta che non s’accorse della sua presenza e Oscar decise di attendere che finisse almeno la conta dei coltelli da pesce, prima di interromperla: «Ho bisogno che tu mi faccia preparare i bagagli. Partirò per la Normandia al più presto.»
«Certamente, cara, come desideri.»
«Porterò con me Rosalie. Aiutala a preparare anche i propri, per favore.»
«Provvederò immediatamente.»
«Ti ringrazio.»

L’anziana fece un accenno d’inchino e s’apprestava a rimettersi al lavoro, quando Oscar ne richiamò ancora l’attenzione: «Prima che tu riprenda a contare le posate, sapresti dirmi dov’è André? Non l’ho ancora visto stamani.»
«È a colloquio con tuo padre, nel suo studio.»
La giovane donna registrò la risposta con noncuranza. D’altronde non avrebbe avuto motivo di stupirsi della cosa, poiché non era inusuale che il suo attendente si recasse dal Generale, il quale aveva fiducia in lui e lo stimava per la sua competenza, onestà e intelligenza e spesso lo convocava per affidargli compiti relativi soprattutto alla gestione dei cavalli e alla manutenzione delle carrozze o per sentirne il parare a proposito di faccende che riguardavano tali argomenti, di cui era innegabilmente un esperto.
E altre volte lo faceva chiamare per discutere di lei. Sapeva anche questo, ma in fin dei conti la cosa non la infastidiva. Era certa di godere della stima del proprio padre e André non aveva mai dato prova di agire alle sue spalle, considerandola una donnetta indifesa, una fragile creatura incapace di badare a se stessa e che, pertanto, necessitava di un custode che rispondesse direttamente a un’autorità superiore. Le eventuali raccomandazioni del genitore, pensava, erano dettate dalla normale preoccupazione che un padre avrebbe avuto per il proprio erede. E chi altri sarebbe potuto essere il referente del Generale, se non André, che da sempre era la persona a lei più vicina?
Così, per nulla turbata e totalmente ignara di ciò che stava accadendo in quella stanza, Oscar si avviò verso lo studio del padre, per attendere l’uscita di André.
 
__________________
 
Non appena ebbe richiuso la porta dello studio del Generale e si fu girato verso il corridoio, André Grandier si trovò faccia a faccia con il biondo colonnello Jarjayes.
Per un momento s’irrigidì. Aveva sperato di poter rimandare quel confronto, in modo da avere il tempo di preparare il terreno per ciò che avrebbe dovuto comunicarle. Costretto ad affrontare la faccenda di petto, tuttavia, non si lasciò intimidire dalle circostanze, sfoderando un sorriso franco dei propri e rapidissimo, prima che Oscar potesse dire qualsiasi cosa, parlò: «Buongiorno, Oscar. Capiti a proposito: se non fossi già qui, sarei venuto a cercarti io…»
«Mio padre ti ha riferito qualcosa che mi riguarda?», domandò perplessa.
«No… ma… be’, a dirla tutta, in un certo senso, sì…», rispose enigmatico André.
Oscar lo guardò con aria interrogativa, non avendo idea di cosa volesse dirle.
Egli se ne avvide e spiegò: «Sono io che ho riferito qualcosa che ti riguarda al Generale. Anzi, per essere precisi gli ho chiesto un’autorizzazione. E me l’ha accordata.»
«Continuo a non capire… non essere così ellittico: parla chiaro, sai che non mi piacciono i giri di parole!», lo sollecitò in tono marziale, un po’ spazientita. Tanto che André se ne dispiacque. Doveva essere nervosa, si disse, e se lo era non poteva che imputarsi a una ragione…

«Ho chiesto una licenza a tuo padre.»
«Perché? Tu sei il mio attendente, avresti dovuto chiederla a me, eventualmente…», replicò Oscar, ma non sembrava risentita, piuttosto incuriosita.
«Vedi, Oscar, in questo momento io sono già in licenza come tuo attendente, essendo tu al momento svincolata dai tuoi uffici, ma non lo sono come servitore in questa casa. Pertanto, per allontanarmi avevo bisogno del permesso di tuo padre.»
La risposta di lui la colpì, al punto che Oscar equivocò, immaginando che André avesse previsto la sua volontà di recarsi a Fécamp: «Come sai che ho deciso di partire per la Normandia? E poi che bisogno avevi di chiedere il permesso a mio padre per accompagnarmi? Non è la prima volta che accade e non mi sembra che sia mai stato necessario che ti accordasse una licenza…»
«In effetti non sapevo nulla della Normandia…», rispose genuinamente sorpreso, «non è per quello che sono andato da lui. Vedi, io… io debbo allontanarmi per una questione personale.»
«Una questione personale… quale questione personale? E perché non ne hai parlato con me, prima di chiedere a lui?», lo incalzò indispettita la giovane.
«Perdonami, non volevo scavalcarti», si giustificò André, «tuttavia, poiché, come ti dicevo prima, io formalmente non ho bisogno del tuo permesso, essendo di fatto già in licenza come attendente, avevo necessità che fosse il Generale a dispensarmi temporaneamente dalle mie mansioni, prima di sapere se avrei potuto o meno realizzare il mio proposito di allontanarmi da palazzo. Non avrebbe avuto senso parlarti di qualcosa che avrebbe anche potuto non realizzarsi, ti pare?»
«Ebbene, dov’è che devi andare?»
«È una questione privata e preferirei non dirtelo, Oscar…», replicò con gli occhi bassi.
Una saetta sembrò attraversare lo sguardo di lei: «Cos’hai combinato, Grandier? Non ti sarai messo nei guai?»
«Sta’ tranquilla, nessun guaio. Non ho nulla di cui vergognarmi o pentirmi e, se non te ne parlo, è esclusivamente perché è una questione che riguarda solo me. E il mio desiderio è che tale rimanga.»
«Da quando abbiamo dei segreti io e te?», un misto di rimprovero e delusione a colorirle la voce.

André le lesse negli occhi allungati un’ombra di paura che lo fece tentennare. Ferirla era l’ultima cosa che desiderasse, ma si impose di non cedere e ribatté con tono asciutto, quasi impersonale: «Tutti hanno diritto a una sfera intima, Oscar. A custodire qualcosa solo per sé, se lo desiderano. Non concordi? Non siamo più due bambini, ormai possiamo entrambi avere una vita privata…»
Si pentì subito di aver detto “entrambi”, come se l’avesse voluta accusare di qualcosa. Che colpa aveva di essersi innamorata? E di certo non la biasimava per il fatto di non avergliene parlato, le era, anzi, grato per quella sua ostinata riservatezza: non avrebbe mai voluto condividere con lei quel tipo di confidenze. Ciò che intuiva lo faceva soffrire già abbastanza, figurarsi il supplizio che sarebbe stato sentire certe verità pronunciate dalla bocca di lei!

Allora la voce di André si ammorbidì, ritrovando le usuali note rassicuranti per rammendare subito quell’accenno di strappo tra loro: «Oscar, credimi, mi dispiace non trascorrere le vacanze con te in Normandia, ma c’è una cosa che debbo fare, o meglio, che desidero fare. Non è nulla di compromettente né di pericoloso, se è questo che temi. Abbi fiducia in me, rispetta la mia scelta e lasciami andare serenamente. Te ne prego. È davvero importante...»
«Ma a mio padre hai dovuto dire cosa andrai a fare, non è vero?», abbaiò per nulla ammansita la giovane, evidentemente ferita da quell’esclusione.
«Ho dovuto spiegarglielo sommariamente, sì…», ammise l’altro con un accento colpevole, che poi sembrò rinfrancarsi repentinamente, sforzandosi di suonare quasi divertito, «Se ti fa stare più tranquilla, anche mia nonna ne è al corrente. Se tuo padre non ha avuto da ridire e mia nonna non mi ha picchiato con il mestolo, non può essere nulla di così disdicevole, non credi?», provò a sdrammatizzare. Inutilmente, tuttavia, perché Oscar tornò alla carica ancora sospettosa e decisamente risentita: «E perché a me non puoi dirlo, dunque? Mi chiedi fiducia, ma sei tu il primo a non averne in me…»
«Non è così, Oscar! Non pensarlo mai, nemmeno per un istante!», si affrettò a precisare accorato, quasi implorandola.

Prima di proseguire prese un respiro profondo e la fissò intensamente. Non aveva messo in conto la fatica che gli sarebbe costato tenerla all’oscuro dei propri intenti e intuirne la delusione. Percepire che si sentiva tradita fu dilaniante. Deglutì, serrò i pugni e le rivolse un’ultima invocazione, perché non insistesse, perché non continuasse a mettere alla prova la sua vulnerabile forza di volontà: «Ti prego, non chiedermi più niente. Starò via solo un paio di settimane. Non è detto che non riesca a raggiungerti in Normandia, alla fine...», concluse con un’espressione stremata.

E finalmente Oscar si arrese, vinta dalla tribolata determinazione che gli leggeva nello sguardo e dalla logica inappuntabile del suo ragionamento. Aveva ragione André: erano adulti e segreti ormai ne avrebbero potuti avere e, pensò con un velo di amarezza e nostalgia, già ne avevano.



N.d.A.: Questo è il mio primo esperimento di più ampio respiro, spero di esserne all'altezza. I commenti e le critiche sono oltremodo graditi: siate spietati!

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Capitolo 2
*** II ***


II
 

Chino sul proprio letto, su cui erano poggiati gli indumenti che intendeva portare con sé, André pensava che in quel preciso momento i bagagli di entrambi venivano preparati. Ai suoi stava provvedendo da solo, come sempre, mentre ad approntare quelli di Oscar erano, secondo consuetudine, le mani zelanti di sua nonna, ché quella non permetteva intromissione alcuna, quando si trattava della "sua bambina". Eppure, rifletteva, a differenza di ogni altra volta, bisacce, sacche e bauli sarebbero partiti verso direzioni differenti. L’idea che non fosse mai accaduto prima gli suscitò repentina una sensazione d’apprensione per la situazione incognita e una tristezza indefinita, quasi una malinconia, come se gli incombesse sul capo il commiato a una stagione della vita che, evidentemente, pareva essersi esaurita. La stagione iniziata diciotto anni prima, quando il grande cancello di palazzo Jarjayes s’era aperto per accoglierlo, e che da allora mai aveva varcato senza di lei, se non per sbrigare qualche commissione affidatagli da sua nonna, dal Generale o da Oscar stessa, oppure per qualche sortita in una taverna di Parigi per brindare alla maggiore età, alle imminenti nozze o alla novella paternità di qualche membro della servitù.

Mentre la mente vagava per tali aspri sentieri, senza che potesse avvedersene, le mani con uno scatto involontario accartocciarono una delle camicie candide e croccanti di amido che avrebbero dovuto riporre nel bagaglio. Non appena lo sguardo si posò sullo scempio della stoffa stazzonata ancora ghermita tra le dita con noncuranza, apprensione e malinconia divennero stizza. Se c’era un peccato di cui André Grandier non avrebbe mai potuto essere accusato, era la negligenza. Ciononostante, si ritrovò a constatare, la distrazione di un momento prima aveva sciupato il lavoro solerte di una delle lavandaie del palazzo, che probabilmente – non ignorava d’essere al centro dell’attenzione della maggior parte delle giovani domestiche – aveva stirato la camicia con una particolare dedizione, sapendola sua. E, invece, quella adesso gli penzolava stropicciata dalle mani: una cosa ben fatta, una cosa fatta con amore, rovinata.

Una cosa ben fatta, una cosa fatta con amore, come il rapporto con Oscar, coltivato negli anni con la meticolosità di un giardiniere, perché fosse saldo e discreto, caloroso e appropriato. Era stato un esercizio da funambolo raggiungere un equilibrio tanto armonico e apparentemente spontaneo e ogni giorno occorreva concentrarsi profondamente per non sbilanciarsi, per non mettere un piede in fallo e svelare l’artificio. E adesso, per la smania di mettere alla prova se stesso o il destino o entrambi, gettava tutto su un tavolo da roulette

Ci aveva pensato per giorni. Macché per giorni! Per mesi ci aveva pensato! E alla fine si era convinto che fosse la sola cosa da fare: allontanarsi per essere certi che non esistesse la possibilità di alcun’altra vita, di alcun altro futuro che non fosse sempre lì, abbastanza vicino da poter respirare il profumo di lei e al contempo distante quanto il rango e la decenza e l’impenetrabile rigore di Oscar e il suo cuore innamorato di un altro imponevano. Tuttavia, nell’imminenza della partenza la risolutezza pareva vacillare. Ammise tra sé che non era il distacco a impensierirlo, lo angosciava il ritorno e più ancora ciò che sarebbe cambiato da quel momento. Perché, André ne aveva certezza, a qualunque conclusione fosse giunto durante le settimane a venire, qualcosa sarebbe inevitabilmente mutato tra loro.

Alea iacta est!, si disse infine per darsi il coraggio che non aveva. Quindi, cacciata la camicia raggrinzita nella sacca, si affrettò a terminare il lavoro. Poi sarebbe andato da lei per salutarla, benché non gli andasse, ché se solo quella l’avesse interrogato nuovamente guardandolo negli occhi, le avrebbe confessato tutto come un bambino messo alle strette mentre cerca di negare una marachella. Ma partire senza un commiato proprio non sarebbe stato capace di farlo. Né a lei né a se stesso.
 
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Un bussare familiare destò Oscar dai propri pensieri, persi oltre i vetri tra le ortensie in fiore a chiedersi cos’altro le fosse sfuggito, se era riuscita a non accorgersi che s’era fatta estate e che André era cambiato al punto da avere segreti di cui non poteva essere messa a parte.
«Avanti!», invitò rivolgendo lo sguardo alla porta.
L’altro entrò quasi con circospezione. Le spalle un po’ curve, il volto contratto e nessuna traccia della facile eleganza con la quale si muoveva abitualmente. Quell’inedito imbarazzo da parte di lui la contagiò con il medesimo disagio e d’istinto si voltò nuovamente a guardar fuori.
«Perdona il disturbo, Oscar», esordì il giovane, grato di non trovarsi addosso gli occhi di lei, «sono venuto per avvisarti che tra poco partirò. Se c’è qualcosa che hai bisogno che faccia, prima di andare…»
«No, nulla», lo interruppe, «tua nonna ha preparato i nostri bagagli e domattina di buon’ora ci metteremo in viaggio anche io e Rosalie. Didier condurrà la carrozza e penserà ai cavalli. Come vedi è già tutto predisposto», gli spiegò con un tono distaccato da inventario.  

Chi non avesse avuto una consuetudine tanto antica e profonda con Oscar François de Jarjayes avrebbe potuto scambiare quell’atteggiamento per indifferenza, ma André Grandier sapeva che era il turbamento a irrigidirne i gesti e la voce. Pensò di meritare ogni scheggia della freddezza con cui ella lo colpiva per dissimulare d’essere a propria volta intimamente colpita. Tutta la situazione che aveva architettato adesso gli pareva d’una assurdità opprimente e, pietoso, affrettò la conclusione per alleviare la difficoltà di entrambi: «Bene, quand’è così: ti saluto, Oscar. Fate buon viaggio! Col tuo permesso, mi congedo. A presto.»
Nessuna risposta seguì a quelle parole.
L’abitudine gli dettò un inchino che l’altra, voltata di spalle com’era, non avrebbe potuto vedere. Gli occhi indugiarono un istante sulla figura affusolata in controluce, sulle volute d’oro dei folti capelli, sulle postura delle gambe agili e troppo poco divaricate perché si potesse sinceramente credere che quella fosse una posa maschile. Lo sguardo vagò rapido dalla testa ai piedi per carpire ogni particolare di lei, ché quell’ultima visione gli sarebbe dovuta bastare per settimane. Infine, obtorto collo, lasciò la stanza richiudendo la porta dietro di sé.
 
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Era ormai quasi mezzogiorno, quando André entrò nella grande cucina di palazzo Jarjayes in cerca di sua nonna e non la trovò. Ma, prima che potesse voltarsi per avviarsi verso altre stanze, gli si fecero alle spalle un fruscio di vesti e passi corti e leggeri e un’ombra minuta gli si mise accanto e una mano furtiva gli insinuò qualcosa nel palmo. Sollevò la mano per portarla davanti a sé e vide un sacchetto di tela. E lo sentì tintinnare.

«Nonna, ne abbiamo già parlato, non insistere…»
«Accettali, potranno esserti utili!»
Guidò la nonna fino a farla accomodare sulla lunga panca su cui sedeva la servitù per i pasti. Le s’inginocchiò davanti, le posò con dolcezza il sacchetto in grembo e, tenendole entrambe le mani tra le proprie, la riprese con tono gentile: «Sai che ho abbastanza denaro e che questa è una cosa che debbo fare da me…»
«Va bene, va bene, caro, come desideri. Comprendo che è una questione di onore… una questione da uomo…», chinò il capo sconfitta.
«Sì, nonna, è questo: sento che è mio dovere farlo, posso farlo e lo farò», confermò il nipote, «ma ti ringrazio per la tua premura… per quella di adesso e per tutte le altre in passato», le spiegò sorridendole d’affetto e riconoscenza.
«Il padrone ti ha dato il permesso, dunque?»
«È così. E non mi ha dato solo il permesso, anche la sua benedizione. E mi ha concesso di prendere Alexandre.»
«Partirai oggi stesso?»
«Pensavo di andar via subito, per la verità. Ho già preparato i bagagli. Ero venuto appunto per salutarti.»
«Lo immaginavo… ma quella devi portarla con te!», protestò perentoria indicando una sacca poggiata su una sedia vicino all’uscita che dava sul retro della tenuta.
André ubbidiente si alzò e andò a prenderla. Constatò che era abbastanza pesante, ma non l’aprì. «Cos’è, nonna?», s’informò.
«Solo qualcosa da mangiare per il viaggio: una pagnotta, una forma di formaggio e qualche mela. Nient’altro.»
Allentò la chiusura della sacca e inspirò l’allettante aroma del suo contenuto: «Grazie, questi li accetto volentieri!», disse alla nonna mentre si chinava per lasciarle un bacio sulla cuffietta.
«A lei lo hai detto?», gli chiese quella sollevando il capo per poterne scrutare la reazione, ché la nonna aveva intuito da tempo cosa celava nel cuore il nipote e non le era difficile immaginare la pena di comunicare a Oscar la propria partenza.
«Sì, le ho detto che mi allontanerò per qualche tempo. Non le ho spiegato il motivo, però, né dove andrò…», ammise guardando negli occhi l’anziana parente, che lo vide farsi d’un tratto serio. «Ti prego, nonna, rispetta la mia volontà e non rivelarle niente neppure tu!», sollecitò il giovane, cercando conferma dell’intenzione di tener fede all’impegno preso. E la conferma non tardò: «Certo, André, te l’ho promesso! Anche se non capisco perché tu voglia così…»
Con un movimento fluido, prima di esporre le proprie ragioni, il nipote si mise di nuovo in ginocchio davanti alla panca. Non per impetrare qualcosa, solo perché l’altra potesse leggergli chiaramente nello sguardo la necessità e la fermezza di quella decisione. «Oscar è in licenza adesso, nonna. Deve potersi godere questo periodo di riposo serenamente. Io non desidero rattristarla con le mie faccende private», si giustificò, senza che l’anziana potesse neppure sospettare che in quel momento André non fosse completamente sincero. «Inoltre, sono convinto che, se le avessi parlato, si sarebbe offerta di accompagnarmi. Ma questo è un viaggio che debbo compiere da solo e mi figuro che, almeno in parte, sarà un’esperienza penosa… io so, sono certo, che tu puoi capirmi… non è così, nonna?»
E quella, con dolorosa dimestichezza alle più laceranti ferite del cuore, non poté che dargli ragione.
«Nonna, non stare in pensiero: so badare a me stesso e sarò presto di ritorno», le sussurrò André abbracciandola per scacciare i ricordi tetri, spingendola gentilmente a poggiargli il capo sul petto.
«Che Dio ti benedica, ragazzo mio! Pregherò tutti i giorni affinché la Santa Vergine ti protegga sempre lungo il cammino», gli assicurò stretta al suo cuore.
«Lo so, non ne ho mai dubitato…», le disse in un soffio, commosso dal sapersi pensato e custodito dalle orazioni della nonna, mentre serrava di più l’abbraccio e le carezzava la testa come fosse una bambina da consolare.
 
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Raccolti i propri bagagli, André si diresse verso le scuderie. Non si rese conto dello sguardo accigliato che lo seguiva da dietro i vetri, scosso dal vederlo andar via. Cosa inaudita, ritenuta talmente assurda da non essere mai stata, neppure fugacemente, ipotizzata. Eppure, lo sguardo color del cielo dovette arrendersi all’evidenza nell’osservarlo incedere con una sacca a tracolla e le bisacce in spalla, finché la figura slanciata di lui non divenne indistinguibile, stemperandosi nel buio dell’ingresso delle stalle.

Deposti i bagagli su una panca addossata al muro accanto al portone, André si diresse alla volta dell’area adibita a rimessa delle carrozze. La trovò deserta, come aveva immaginato. Didier si sarebbe probabilmente dedicato ai preparativi per il viaggio di Oscar e Rosalie dopo pranzo. Questo gli diede agio di verificare che la berlina fosse in perfetta efficienza, compito che gli era sempre spettato e che sempre aveva svolto con scrupolo e che mai avrebbe volontariamente demandato ad altri. Constatò con sollievo che il mezzo era impeccabile e tornò sui propri passi. Gli rimaneva un’ultima cosa da fare prima di caricare Alexandre e iniziare il proprio viaggio.

Si muoveva nelle scuderie con il fare sicuro di chi si trova nel proprio regno e in poche falcate raggiunse la sua destinazione. All’udirlo avvicinarsi César, con la sua tipica vivacità da bestia araba[1] a sangue caldo, prese a scuotere la testa e a rumoreggiare. Una mano corse allora rapida al muso, nella consueta carezza longitudinale che aveva il potere di placarlo immediatamente, mentre l’altra cavava di tasca una zolletta di zucchero sottratta furtivamente dalla cucina.

«Te l’affido. Abbi cura di lei e tienile compagnia», gli sussurrò dolcemente vicino all’orecchio mentre il cavallo gli leccava il palmo soddisfatto. «A presto, amico mio!», lo salutò lasciandogli una lieve pacca sulla groppa.

Sistemati i bagagli e offerto uno zuccherino anche al suo docile morello, André condusse infine Alexandre fuori dalle scuderie. Montò in sella senza più voltarsi verso il palazzo, come se temesse di cadere vittima del richiamo di qualche sirena tardiva, e si avviò al passo in direzione del cancello della tenuta della famiglia Jarjayes. Lasciava il luogo che aveva imparato a considerare casa, per intraprendere il viaggio verso quella che era stata l’unica vera casa che avesse mai avuto.

Gli ci sarebbero voluti quattro giorni per raggiungere Noyal sur Brue[2].






 

N.d.A. Finalmente abbiamo scoperto dove è diretto André! Ma c’è ancora un mistero: cosa deve fare?
Inoltre, questo capitolo (nel dialogo con la nonna) introduce uno dei temi che saranno centrali nella storia, che svilupperò più approfonditamente in quelli a seguire.

Ho scelto di rendere André bretone per una serie di motivi. In primis, perché da una ricerca (rudimentale, considerando che non conosco il francese...) che ho compiuto, il cognome Grandier, che è assai poco comune, è maggiormente diffuso proprio nella regione dei Paesi della Loira, che rientrava in parte nella regione storica della Bretagna. In secondo luogo, perché ho notato che c’è una certa tradizione nel mondo delle fanfiction rispetto all’origine bretone di André e sua nonna. La terza ragione è che mi serviva una località che fosse più o meno equidistante tra Versailles e Fécamp e Noyal-sur-Brutz era perfetta. E, dulcis in fundo, il nome André trovo che si sposi benissimo con l’aggettivo breton (ogni riferimento a personaggi realmente esistiti è fortemente intenzionale).

Spero di non aver deluso nessuno con questo secondo capitolo della storia. Debbo ammettere che gli apprezzamenti ricevuti mi hanno dato un po’ di ansia da prestazione…

Grazie a tutti coloro che hanno letto e leggeranno e a chi ha lasciato (o lascerà) una recensione.
 
[1] In modo del tutto arbitrario, ho deciso che César, come il famoso Marengo di Napoleone, è un cavallo arabo.
[2] Piccolo comune del dipartimento della Loira Atlantica, un tempo parte della regione storica della Bretagna. Oggi il nome del comune è Noyal-sur-Brutz. Cito da Wikipedia (scusate, non avevo a disposizione fonti più attendibili o accurate…): "Le nom de la localité est attesté sous la forme Noyal sur Brue en 1394. La commune a été baptisée Noyal en 1793, et a pris le nom de Noyal-sur-Brutz en 1801." 

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Capitolo 3
*** III ***


III
 

Lo osservò allontanarsi in sella ad Alexandre, seguendolo con lo sguardo fin dove le era dato di vedere. Non si era più voltato indietro. Le parve un segno ominoso, sicché le spiacque non aver ricambiato il suo augurio di buon viaggio, ora che nella mente affioravano in modo scomposto gli scenari più nefasti.
Da che aveva memoria era sempre stata pessimista, le era stato insegnato così. Destinata a un futuro da ufficiale militare, s’era ritenuto fosse opportuno istruire precocemente Oscar alla pratica stoica della praemeditatio futurorum malorum, perché potesse prevedere pericoli e situazioni avverse e mantenersi lucida e distaccata in frangenti nei quali lo spirito e l’intelletto sprovveduti sarebbero naturalmente preda di sorpresa e scoramento. Eppure, non v’era traccia della freddezza analitica richiesta dall’esercizio a cui era avvezza in quel suo immaginare sul cammino del proprio attendente insidie d’ogni tipo, finanche le più improbabili. Vi era, piuttosto, il carico di una coltre d’angoscia, che le era calata addosso nell’istante in cui s’era dovuta rassegnare all’inoppugnabilità della partenza di André.

Si spiegò quel turbamento profondo imputandolo alla consapevolezza che il viaggiare da soli renda più esposti e vulnerabili alle mire dei malintenzionati e che André, benché abile nell’uso della spada, perdeva d’efficacia ogni qual volta si trattasse di incrociare le lame per difendere la propria incolumità, troppo concentrato a badare a non mettere davvero a repentaglio quella dell’avversario. Mille volte gli aveva rimproverato quell’esitazione, che un giorno avrebbe potuto costargli molto cara, ma non c’era mai stato verso di convincerlo a combattere, alla bisogna, anche con l’espressa intenzione di ferire, non solo per disarmare. Ché quello era fatto così: mite, sensibile, assennato, senza una stilla di crudeltà in corpo e incapace di nuocere ad anima viva. Incapace, lo sapeva bene, pure di serbare rancore.

In piedi presso il proprio letto, con la mano sinistra avvolta per sostenersi a una delle colonne intagliate del baldacchino e la destra stretta a pugno contro la fronte, in quella che era la sua emblematica posa cogitabonda, si macerava in tali pensieri, quando una cameriera bussò per chiederle disposizioni riguardo al pranzo. Nonostante non avesse particolarmente appetito, diede ordine che le fosse portato nei propri appartamenti e che fosse la governante in persona a servirglielo.
Non trascorsero che pochi minuti e Marie Grandier si materializzò con l’usuale solerzia, recando le vivande su un vassoio, che poggiò sull’ottomana di broccato scarlatto posizionata davanti al camino spento del salottino privato di Oscar, per poi preparare la mise en place sul tavolino vicino. La giovane la osservò con attenzione, notando che l’altra non sembrava tradire alcuna apprensione e che nulla pareva impensierirla, se non il rischio di farsi sfuggire – Dio ce ne liberi! – un men che perfetto allineamento delle posate.

Quella intuì d’essere minuziosamente scrutata e, con la confidenza che le era naturale nei riguardi della “sua bambina”, la anticipò: «È inutile che tu mi faccia domande, Oscar. Non potrei rispondere: gliel’ho promesso…»
«Perché?», con tono più deluso che contrariato.
«Per lui è importante», rispose semplicemente l’anziana, che notò l’espressione crucciata della giovane donna farsi ancora più densa a quelle parole. Quindi, con voce rassicurante, fiutando che quella si stesse arrovellando tra ipotesi fosche o che gettavano ombre sull’onorabilità del nipote, senza indugio aggiunse: «Non c’è nulla di cui ti debba preoccupare, cara. Tu sai che non ho mai preso le sue parti e gli ho sempre chiesto conto non solo dei suoi errori...»
«Sì, so bene che spesso l’hai punito anche per colpe che erano mie…», la interruppe Oscar, come a voler ammettere il pungolo di una vena di rimorso.
«Perché lo meritava! Ho sempre preteso che ricordasse quali sono il suo posto e i suoi doveri in questa casa!», rivendicò con decisione la governante.
«E, di grazia, perché questa volta non ti indispone che il mio attendente sia partito senza nemmeno informarmi della sua destinazione né della ragione del viaggio, dunque?», domandò con autentica curiosità Oscar.
«Vedi, cara, noi siamo servi, è vero, ma ci sono cose che vanno oltre le condizioni della propria nascita… forme di rispetto che non sono seconde all’ossequio che si deve al padrone… io… non è insolenza: ha disposto così anche il buon Dio… e… oh, basta! Di più non posso dirti, abbi pazienza…», replicò Marie, allargando le braccia a sottolineare l’impotenza a condividere informazioni e, nei fatti, infittendo più che diradando l’enigma.
Oscar sospirò, esausta dei ripetuti tentativi infruttuosi di provare a scardinare l’indefessa reticenza prima del nipote e poi della nonna, e, quantunque il desiderio di sapere non fosse domato, accolse la sconfitta: «Va bene… so che non avresti approvato la sua decisione, se non si fosse trattato di una cosa importante e decorosa…»
«Rispetterò il vostro riserbo», concesse infine, rinunciando a insistere oltre e abbandonandosi sulla poltrona davanti al tavolino imbandito.
La governante allora le si avvicinò con un sorriso affettuoso, che dalle labbra guizzò di tenerezza fin dietro alle lenti degli occhiali, e le fece scivolare una carezza sui capelli. «Non dubitare della sua lealtà», fu la sua richiesta finale, che suonò affidabile come una garanzia.
 
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Per quasi dieci anni, pensò André mentre in groppa ad Alexandre sotto i raggi perpendicolari del sole cavalcava in maniche di camicia diretto a sud-ovest, seguendo il percorso che per giorni aveva studiato sulle mappe, il più delle volte che aveva varcato il cancello di palazzo Jarjayes si era incamminato nel senso opposto[1], verso Versailles o Parigi, tenendo diligentemente dietro a Oscar, come si conveniva al proprio ruolo.
Non appena si fosse inoltrato più in là dell’abitato di Voisins le Bretonneux, si sarebbe trovato in un territorio che gli era del tutto sconosciuto, eppure sapeva che quell’itinerario non era estraneo ai Grandier, che lo avevano più volte percorso in un senso e nell’altro e negli stati d’animo più vari.

Mentre la strada si spiegava sotto gli zoccoli del morello, s’immaginò sua nonna, oltre quattro decenni prima, giovane vedova con nel grembo un figlio che sarebbe nato postumo e avrebbe sofferto la propria condizione di orfano senza neppure riuscire a figurarsi il volto di un padre mai conosciuto e di cui, a dispetto di ciò, avvertiva urticante la nostalgia. Da Noyal a Parigi su una vettura di posta, indirizzata dal curato del villaggio al convento delle Orsoline con una lettera di raccomandazione nella tasca del misero mantello, perché – le aveva spiegato il religioso – le suore l’avrebbero certamente accolta e assistita nel parto e non avrebbero avuto difficoltà a trovarle impiego presso una famiglia nobile o borghese, che fosse alla ricerca di una balia. Quel figlio che tanto la preoccupava, giacché – com’ella gli aveva confessato tra le lacrime poco dopo la tumulazione del marito – non sapeva come avrebbe fatto a sostentarlo, non avendo sostanze, era, a detta di père Gravet, lo strumento attraverso il quale la Provvidenza si sarebbe manifestata. E così era stato davvero e tanta era la riconoscenza di Marie Grandier nei confronti del curato, che il bambino dato alla luce lo aveva voluto battezzare col nome di quello: Yves.

Nei diciott’anni successivi nessuno della famiglia era mai tornato a Noyal, finché il giovane Yves non decise che, se anche non avrebbe mai potuto conoscere il padre, avrebbe potuto vedere i luoghi in cui questi era nato e vissuto e visitarne la tomba e, per poco che fosse, sarebbe stato qualcosa in più dei soli racconti della madre. Perciò chiese una licenza a Monsieur Leblanc, maître charpentier dal quale, poco più che bambino, era andato ad apprendere i segreti dell’ebanisteria e che se lo era poi tenuto in bottega, e si mise in viaggio.
A Noyal – il piccolo André amava farsi raccontare questa storia – si era recato immediatamente alla parrocchia di Saint Martin de Tour[2], l’unica chiesa del villaggio, nella speranza di trovarvi ancora il vecchio curato suo omonimo, che aveva amministrato al padre e alla madre tutti i sacramenti e li aveva conosciuti da che erano in fasce. Ma quello, gli dissero, era morto quattro anni addietro. Scoraggiato, ché l’unico parente del padre ancora in vita era un secondo cugino stabilitosi ormai da oltre trent’anni a Châteaubriant, se n’era andato in giro per i campi, alla ricerca almeno di qualche fiore da deporre sulla tomba del genitore. E lì, in una vigna, aveva notato una fanciulla intenta al lavoro, un po’ in disparte rispetto agli altri contadini, che lo aveva colpito per i capelli neri, dello stesso colore dell’uva che cresceva orgogliosamente tornita sui filari. E se ne era stato per un po’ a osservarla, irretito dal riverbero del sole su quella chioma corvina fittamente intrecciata; finché quella non se n’era avveduta e, vistosamente arrossita, s’era affrettata a ricongiungersi ai compagni.
L’aveva poi ritrovata alcune ore più tardi, mentre egli si richiudeva alle spalle il cancello del piccolo cimitero parrocchiale e quella si ritirava dalla recita dei Vespri e da allora per ogni sera del proprio soggiorno a Noyal aveva diligentemente atteso davanti alla chiesa, finché il penultimo giorno non le aveva rivolto un saluto e quello dopo ancora le si era avvicinato chiedendole come si chiamasse.
Era dunque rientrato a Parigi con la sola idea di congedarsi da Monsieur Leblanc e andare a trovare la madre a palazzo Jarjayes, per comunicarle la decisone di trasferirsi a Noyal dove, le spiegò, con i soldi risparmiati negli anni di lavoro come servo prima e falegname poi, avrebbe potuto aprire una propria bottega e, chissà, perfino edificare una casa con un piccolo podere. Sistematosi in maniera confacente, avrebbe quindi avuto facoltà di chiedere la mano della graziosa Anne dai capelli di pece.

Sei mesi più tardi era stata una Marie raggiante a domandare una licenza per poter prendere parte alle nozze del figlio e un anno e mezzo dopo il matrimonio, mentre l’autunno del 1754 iniziava a scalpitare, aveva percorso ancora quella strada col cuore colmo di gioia per fare la conoscenza del suo primo nipote. Un bambino che si rivelò essere estremamente quieto ed estremamente affamato, cui era stato dato nome André, in onore del suo compianto marito.

Tuttavia, i viaggi lievi verso Noyal si erano esauriti presto e il cimitero parrocchiale s’era prontamente impinguato di altri Grandier…

L’ultima volta che sua nonna era rientrata in Bretagna era stato per seppellire la giovane nuora e prendere con sé il nipote, ormai orfano di entrambi i genitori, che la generosità del generale Jarjayes aveva accettato di accogliere in casa propria, forse anche per un antico affetto nei confronti del defunto fratello di latte.

Non ricordava alcunché di quel paesaggio André, che tanti anni prima tutto il percorso da Illiers[3] a palazzo Jarjayes l’aveva passato a fissare alternativamente la nonna, che lo osservava con pena e apprensione, e i propri piedi, che gli parevano così strani infilati in quelle scarpe nere con la fibbia e quelle calze immacolate. Nella locanda di Illiers in cui avevano trascorso la notte precedente, la mattina era stato rivestito di tutto punto ed era stato informato che da allora quella sarebbe stata la sua livrea e gli era stato raccomandato di aver cura di non sporcarsi e non rovinarla. Gli era stato spiegato che avrebbe dovuto imparare a camminare senza fare rumore coi tacchi e a sistemarsi da solo il fiocco della camicia, in modo che non fosse gualcito e apparisse perfettamente simmetrico, perché la nonna aveva una casa da mandare avanti e non avrebbe avuto il tempo di aiutarlo tutti i giorni a vestirsi. Con tono imperativo la progenitrice gli aveva altresì ingiunto che coi padroni avrebbe dovuto parlare solo se interpellato e sempre a voce bassa, badando di non alzare gli occhi per incrociarne lo sguardo e dando loro rigorosamente del voi, inchinandosi rispettosamente ogni volta tanto all’atto del saluto quanto a quello del congedo.
Rammentò d’essersi sentito sopraffatto da tutte quelle prescrizioni, giacché fino ad allora aveva passato le giornate a lavorare nei campi insieme alla madre e le serate in casa, mentre quella era china sui rammendi, a giocare per terra col cavallino di legno intagliatogli pazientemente dal padre. E aveva speso le lunghe ore di luce dell’estate ad arrampicarsi sul melo nell’aia e, in qualunque stagione, quelle appena dopo l’alba a badare alle galline, stupendosi ogni volta di come, se le si accarezzava sulla testa e sul dorso, quelle stringevano gli occhi beate come usano fare i gatti.

Era certo di non aver più nulla di quel bambino selvatico, adesso che, oltre al fiocco della camicia, era in grado di sistemarsi alla perfezione anche il nastro dei capelli e, da quando aveva preso a indossarlo, pure lo jabot. Aveva imparato a leggere, a scrivere, l’aritmetica e la geometria e, condizione rara tra chi non fosse un aristocratico né un sacerdote, grazie alla magnanimità del Generale, conosceva perfino il latino. Sapeva recitare un trimetro giambico, incedere con dignità, giocare agli scacchi, danzare con grazia, cavalcare in modo signorile, conversare con spigliatezza e gustare il vino con competenza. Era capace di usare con destrezza le armi bianche e di caricare ad occhi chiusi una pistola, così come di muoversi a proprio agio all’interno e nei giardini della reggia, essendo ammesso addirittura alla presenza degli stessi sovrani. Aveva appreso le astuzie per disciplinare la propria chioma, naturalmente ondulata e indocile, il gusto del vestire con essenziale ma ineccepibile eleganza e come stare a tavola secondo il galateo.

Giorno dopo giorno s’era ingentilito passando nel setaccio di ambienti, occasioni e frequentazioni che l’avevano rapidamente mondato di ogni primitiva grossolanità.

Per quanto potesse imparare, affannarsi e affinarsi, però, c’era sempre che restava un roturier e, quand’anche non fosse rimasto per tutta la vita un servo, ugualmente non sarebbe mai stato libero di poter amare lei, neppure se Oscar avesse infine scoperto di ricambiarlo. O, quantomeno, non avrebbe potuto reclamarla alla luce del sole, ché in quel caso sarebbe toccato loro solo un amore furtivo. E c’era che André Grandier avrebbe sofferto quella dissimulazione più di quanto non patisse quella vigente, la quale, se non altro, non la esponeva al rischio d’insozzarsi di scandalo. E tutta la faccenda cogli anni era arrivata a sembrargli un impossibile rompicapo, in cui a quel punto non distingueva neppure cosa fosse meglio desiderare, se continuare ad amarla da lontano con vana disperazione o poterla avere per sé nella gabbia della clandestinità. Pertanto ultimamente aveva smesso perfino di pregare, piegato dall’incertezza di non saper più quale delle due fosse la grazia più innocua da implorare.

Non capì se fosse stato per il troppo sole o i troppi pensieri, ma a un certo punto di questo rimuginare gli venne un gran mal di capo e, poiché s’era quasi al tramonto e pure Alexandre era stanco, decise di cercare un posto nel quale potessero entrambi riposare.

Incontrarono la prima locanda che erano in prossimità di Chartres. Senza cerimonie, André chiese una stanza, pagò in anticipo, sistemò il cavallo e si ritirò, rifiutando la cena che gli era stata magnificata. Si lavò il viso e le mani con l’acqua fresca fornitagli per la propria toeletta, consumò svogliatamente un po’ del pane e del formaggio della nonna, quindi si mise rapido a letto sfilandosi solo gli stivali. Giacché era sveglio da prima dell’alba e fiaccato dal caldo e dal viaggio, non gli ci volle molto per cadere addormentato e fece uno strano sogno, che al risveglio avrebbe ricordato solo in parte e non avrebbe saputo come interpretare: se stesso adulto, completamente solo nella casa di Noyal, a cercare di scaldarsi vicino a un braciere morente, senza che ci fosse modo di ravvivarlo, mentre il vento impetuoso sferzava le imposte minacciando di divellerle.
 
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Quella mattina Oscar si era svegliata ancor più inquieta del giorno precedente. Partire da sola con Rosalie non l’allettava, ma tutto era già stato disposto e inoltre non le andava di deludere la sua giovane protetta, che si era mostrata, invece, entusiasta all’idea.
Si chiese come avrebbe fatto a evitare che la poverina dovesse pentirsi del proprio improvvido slancio e finisse per annoiarsi nelle lunghe giornate con lei a Fécamp, giacché il colonnello Jarjayes non era davvero un soggetto di gran compagnia e, oltre a proporle allenamenti con le armi, cavalcate, letture e sessioni di studio, non avrebbe proprio saputo come altro intrattenerla.
Non era brava a raccontare storie divertenti, lei, né a inventare giochi estemporanei. Non era neppure capace di scoprire gli aneddoti e i pettegolezzi locali, visto che abitualmente tutti la trattavano con distaccata formalità e deferenza. Tutto il contrario di André, il quale non aveva difficoltà a riempire il tempo con arguzie, che scatenavano immancabilmente ilarità perfino nel biondo ufficiale, e con diversivi di varia natura e che, con quei suoi modi garbati ma al contempo cordiali e deliziosamente faceti, ispirava immediatamente la fiducia di chiunque e in forza di ciò veniva messo a parte con naturalezza di notizie e confidenze perfino dagli sconosciuti.

Era certa che anche Rosalie avesse condiviso con lui cose delle quali Oscar non era a conoscenza, ché tante erano le volte in cui li aveva trovati insieme in cucina o nei giardini del palazzo, intenti a dirsi chissà che, e ogni volta, dopo, la fanciulla le era sembrata più serena e più sollevata.
 
Del resto, anche l’algido comandante delle Guardie reali di Versailles non era immune a quell’effetto benefico. Nel corso degli anni erano state innumerevoli le occasioni nelle quali, quando una nuvola nera sembrava esserle lievitata inopinata sul capo, spesso senza che per lei stessa fosse possibile afferrarne il perché, quello pareva invece comprendere ogni cosa a colpo d’occhio e con poche e ponderate parole era capace di sgonfiare la minaccia ripristinando il sereno.

Si domandò se anche negli ultimi tempi André avesse intuito i suoi turbamenti e cosa ne avesse dedotto e se fossero solo la discrezione e la prudenza, prevalendo in quel frangente sull’affetto, a impedirgli di prendersi qualunque libertà, perché – c’era da riconoscerlo – quella situazione era oltremodo scivolosa e fuori dai canoni. Benché fosse sempre così acuto e saggio e privo di superflue riverenze, infatti, cosa mai avrebbe potuto dire per confortare una che secondo le aspettative non avrebbe nemmeno dovuto essere donna e, a dispetto dell’educazione ricevuta e del proprio ruolo, s’era invece innamorata? E, quel che era peggio, innamorata dell’amante della regina alla quale aveva giurato fedeltà e devozione? Cosa, che non l’avrebbe spinta a trincerarsi ancor di più dietro una cortina di silenzio compunto, castigato imbarazzo e velenoso diniego?

Nell’intimo, tuttavia, aleggiava confusamente la percezione di non essere fino in fondo trasparente con se stessa in proposito.

Se fosse stata incondizionatamente onesta, Oscar François de Jarjayes avrebbe dovuto riconoscere che le parole di lui, in realtà, c’erano state e non di consolazione, ma dirompenti! Solo che quello, forse incerto di quanto l’altra potesse sopportare, aveva scelto la via della precauzione e le aveva ammantate di una veste impersonale, così che spettasse a lei di decidere se riceverle o meno, se comprenderle o meno. Insolitamente pavida, Oscar aveva optato per una lentezza di mente che non le apparteneva, ma che aveva il pregio di tenere al riparo da difficoltose ammissioni e sconvolgenti prese di coscienza.
Se fosse stata incondizionatamente onesta, avrebbe dovuto rievocare un tardo pomeriggio di primavera di qualche mese addietro, poco prima che Fersen s’imbarcasse volontario per una guerra che gli era estranea combattuta sull’altra sponda dell’Atlantico, quando André, accarezzando una mela, il volto scolpito di ombre magenta dalla luce del tramonto che ne esaltava il profilo forbito, s’era arrischiato a proferire verità audaci, che non si sapeva se raccontassero dello svedese, di lei o di se stesso e che, proprio in virtù di quella studiata ambiguità, le erano state quasi facili da schivare.

C'è gente che ama una persona per tutta la vita senza che questa persona lo sappia…

Quella mattina, senza che le riuscisse di afferrarla, una scomoda intuizione la stuzzicava come un prurito impertinente, che prenda laddove è impossibile da soli raggiungerlo e grattarlo via. Incapace di fare altrimenti, Oscar scelse ancora di svicolare, rimandando sine die il confronto con le ombre che lentamente si coagulavano ai confini della coscienza e concluse che, a conti fatti, era una fortuna non avere il proprio attendente con sé per un po’ e così poter sorbire con agio almeno qualche sorso di quella languida malinconia che le procurava il pensiero di Fersen, che André, se avesse trascorso la licenza con lei, avrebbe certamente avvertito e si sarebbe prodigato per fugare.
 
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Onora il padre e la madre.

L’ha comandato nostro Signore, André. Nelle poche regole che ha fissato per noi, questa non è certo tra le meno importanti! Viene perfino prima dell’ammonimento a non uccidere! Ricordalo sempre, André…

Glielo aveva sentito ripetere così tante volte che il rispetto che si deve ai propri genitori è secondo solo al timore di Dio e supera anche l’ossequio dovuto al padrone, che non l’aveva mai nemmeno sfiorato l’idea che la nonna potesse opporsi alla sua decisione, purché avesse l’accortezza di scegliere un momento nel quale la sua presenza non fosse indispensabile. E quella, in effetti, non solo l’aveva incoraggiato, ma gli aveva perfino offerto ripetutamente del denaro.

I soldi a te possono servire, André… presto – volesse il Cielo! – potresti desiderare di prendere moglie e allora ne avresti bisogno… e, in ogni caso, anche se non fosse per questo, tu sei giovane e i fatti della vita sono imprevedibili e non si sa mai quando si può averne all’improvviso necessità… Io, invece, alla mia età cosa vuoi che me ne faccia?

Ma il nipote si era intestardito e a ogni offerta le aveva ripetuto puntuale che quella spesa gli spettava, e quasi gli era parso di vedere un bagliore di orgoglio sul volto della nonna nel saperlo così fermo nel proprio proposito. Avrebbe onorato suo padre, così come questi aveva fatto col proprio, e lo stesso riguardo l’avrebbe usato nei confronti di sua madre.

Per il quarto comandamento, André, non fa differenza che i genitori siano in vita o defunti…

Così gli aveva insegnato diverse maniere per poterlo rispettare, benché fosse orfano. Ogni anno, per esempio, faceva celebrare messe in suffragio delle anime di suo padre e sua madre, cui immancabilmente anche André doveva assistere. Finché, quando a suo giudizio il nipote s’era fatto abbastanza grande, aveva lasciato a lui l’incombenza di richiederle, perché non perdesse quell’abitudine dopo che anche lei fosse venuta a mancare. E ancora ogni sera, nonostante fosse ormai sulla soglia dei venticinque anni, nel dargli la buonanotte prima di ritirarsi, gli rammentava di recitare un Requiem aeternam per loro.

Con i propri racconti negli anni la nonna aveva tenuto viva la memoria, tramandando fatti e date, descrivendo caratteristiche e abitudini e ricostruendo per lui il tempo che lo aveva preceduto, perché – diceva – anche ricordare è una forma rispetto.
Un pomeriggio di quando André aveva circa dodici anni, mentre l’aiutava a rigovernare la dispensa, erano finiti a parlare di Noyal e, tra un aneddoto e l’altro, Marie gli aveva confessato con vergogna il rimorso di non essere mai più tornata a visitare i loro defunti. Quindi, con uguale disappunto, anche quello di non aver avuto il tempo e i mezzi per poter far porre più che due semplici croci di legno sulle tombe dei genitori di suo nipote. Da lì gli aveva poi raccontato con fierezza che, invece, suo figlio Yves, poco dopo essersi stabilito a Noyal, aveva commissionato una lapide per il nonno di cui André portava il nome.

Quello di suo padre gli era parso un gesto ammirevole, degno di un uomo retto e riguardoso, e subito si era ripromesso che un giorno avrebbe fatto altrettanto. Aveva dunque raccolto con discrezione informazioni sul probabile ammontare della spesa e pian piano si era dedicato segretamente a mettere da parte la somma sufficiente.
Già da diversi anni stimava d’essere in possesso del denaro che sarebbe stato necessario per pagare le pietre e il lavoro dello scalpellino e anche di quello che sarebbe servito per far fronte al costo del viaggio. Ormai aspettava solo l’occasione più adatta.

In quel giugno 1779, considerando che in autunno sarebbero stati vent’anni esatti dalla morte del genitore e che alla fine dell’estate avrebbe accumulato un compleanno in più di quanti quello ne avesse mai vissuti, decise che fosse infine arrivato il momento.

C’era poi un’ulteriore ragione, forse la più pressante.

Proprio a quella pensava mentre cavalcava Alexandre, lasciandosi alle spalle Chartres in una mattina che, nonostante le pennellate rosate dell’alba si fossero solo da poco raffreddate d’azzurro, già si preannunciava ancor più assolata del giorno precedente.
In fondo, da qualche parte nei recessi della mente, quel pensiero l’aveva sempre accompagnato. Un po’ perché, ad eccezione di sua nonna, pareva che i Grandier non fossero destinati a incanutire e dovessero necessariamente prendere anzitempo commiato dalla vita. Un po’ perché esisteva una sola donna con la quale avrebbe desiderato costruire una famiglia e quella, ammesso che una famiglia potesse rientrare nel novero delle possibilità che le erano state appositamente apparecchiate, per lui era in ogni caso una donna proibita.
Da che Oscar s’era innamorata del Conte svedese, poi, quello sfocato presentimento era divenuto assai simile a una abbacinante certezza: André sarebbe stato il vicolo cieco in cui si sarebbe esaurito quel ramo della famiglia Grandier. E allora l’idea che in quel cimitero in Bretagna non sarebbe rimasto nulla – neppure i nomi! – di due giovani che s’erano amati senza riserve in uno scampolo di tempo troppo esiguo perché fosse appena sufficiente e che, quando sarebbe arrivata anche la sua ora, di loro nessuno avrebbe più ricordato nemmeno ch’erano esistiti, gli era parsa intollerabile. Così aveva rotto gli indugi e, appena era stato reso noto quale fosse il periodo di congedo che spettava a Oscar, aveva preso a studiare le mappe e a pianificare i dettagli del viaggio.

Ora se ne andava verso Noyal a compiere il proprio dovere di figlio. E a cercare risposte, in un’estate neonata che aveva appuntito l’assillo degli interrogativi riguardo al senso della propria vita, fino ad allora spesa a farsi trascinare impotente dall’impeto rovinoso dell’amore che provava per lei, che forse nemmeno l’aveva mai considerato un uomo. Giorno dopo giorno, in questa corrente furiosa era finita travolta ogni altra prospettiva, ogni opportunità di plasmare la propria esistenza, per lo meno nei limiti di quanto gli consentisse la sua condizione sociale. C’era da capire, soprattutto, quanto ancora si potesse resistere a tirare avanti a quel modo, da asceta nel corpo e da dannato nel cuore. E come far fronte alla convinzione che avvertiva affiorare e che in parte lo sgomentava per il fatto di riferirsi a una misura impossibile da quantificare, ché essa irrefutabilmente sfuggiva all’idea circoscritta e ordinaria del tempo assimilandosi a quella conturbante e terribile dell’infinito.





N.d.A. Ogni mistero è infine svelato, almeno per i lettori. Spero di non aver deluso nessuno e che anche il passato che mi sono inventata per André e i suoi antenati risulti credibile.
Grazie, come sempre, a chi ha letto e leggerà e a chi vorrà lasciarmi le proprie impressioni.
 
[1] Nella mia storia palazzo Jarjayes si trova a sud-ovest di Versailles (e, dunque, anche di Parigi), da qualche parte nei pressi di Guyancourt. Il motivo di ciò è puramente "pratico": Jossigny sarebbe stata una località troppo lontana ed è dalla parte sbagliata rispetto a quello che serviva a me.
[2] La parrocchia esiste davvero ed è l’unica che ci sia a Noyal-sur-Brutz, ma dalle mie ricerche la chiesa parrocchiale risulta edificata nel XIX secolo. Ho, comunque, deciso di non badare all’anacronismo, immaginando che possa essere sorta su un nucleo più antico. Inoltre, mi piaceva l’idea che la chiesa del villaggio natale di André fosse dedicata al santo che condivise il proprio mantello con un mendicante, non essendo André stesso estraneo alla pratica di porgere mantelli ai bisognosi…
[3] Il comune di Illiers, che si trova davvero sull’itinerario tra Guyancourt e Noyal-sur-Brutz, è la località a cui è ispirato il paese immaginario di Combray di cui narra Proust ne La Recherche e per questo nel 1971 è stato ribattezzato Illiers-Combray.

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Capitolo 4
*** IV ***


IV
 

Il viaggio verso la Normandia trascorreva tranquillamente. Rosalie, che mai prima d’allora aveva lasciato l’Île-de-France, non distoglieva che raramente lo sguardo dal paesaggio, avida di catturarne ogni particolare. Oscar, poiché il mutevole scenario teneva la fanciulla sufficientemente impegnata, si limitava a rispondere alle domande che quella di tanto in tanto poneva a proposito d’una località o una costruzione lambita dall’itinerario, restando altrimenti in silenzio fissando a occhi bassi il pianale della carrozza, che quasi pareva sonnecchiasse. Il lieve dondolio poco meno che ritmato della berlina, che le sembrava avanzare in tempo larghetto, propiziava il dilatarsi dei pensieri trattenuti che le avevano infeltrito la morbidezza della tarda primavera e promettevano d’offuscarle pure quel limpido esordio d’estate.
 
Più volte lungo il tragitto le capitò di pensare con quieta tenerezza a una regina incauta e trasparente come una bambina, alla solitudine di chi può comandare tutto sulle cose della terra di Francia, perfino la vita e la morte degli uomini, ma è disarmata davanti alla ragion di Stato, di chi può esigere qualunque cosa eccetto quella cui più anela. Le capitò di pensare all’amico, che se ne andava in solitudine chissà dove serbando un segreto, al suo sguardo aperto e ridente che con crescente frequenza all’improvviso si faceva ora fulgido come di febbre ora appannato d’amarezza, mentre la sua gioventù che giungeva all’apice sembrava incupirlo senza indurirlo. Pensò a un innamorato malaccorto, costretto a reclutare un oceano e una guerra come frontiere all’esuberanza della propria smania d’una donna altrui, al volto bello e malinconico e in ragione di ciò ancora più bello. E pensò a se stessa, a ciò che si deve e a ciò che si può e a quel che si vuole e a come poter continuare a far scorrere tutto entro gli argini limitando la pena. All’America sconfinata e selvaggia dei libri e a quella reale, che forse non avrebbe mai visto. Ai campi di battaglia, che cessano d’essere opportunità di gloria e divengono solo opportunità di morte, quando gli aspiranti eroi sono cari al proprio cuore. Chissà, s’era chiesta, se anche quelli li avrebbe mai visti o avrebbe continuato per sempre a comandare quella leziosa parodia di reggimento che erano le Guardie reali…
 
Ma cos’altro era tutta la sua vita, in fondo, se non un’imitazione? Oscar François de Jarjayes non era che la caricatura di un uomo e di un soldato, si sorprendeva ormai sempre più spesso a considerare e con sempre maggior ripugnanza.
 
Negli ultimi mesi, spingendosi fin lì nelle periodiche perlustrazioni di sorveglianza delle aree circostanti la reggia, passando accanto alla residenza di Louis Guillaume Le Monnier sovente le era venuta in mente la Maison des Italiens[1], che il Re Sole aveva voluto per ospitare forestieri abnormi e sensazionali che offriva in pasto alla curiosità della corte. Pavoni umani che incantavano non con esuberante bellezza di piume, bensì con voci che parevano sottratte alle schiere degli angeli. Diversivi alla noia di una nobiltà sazia di svaghi e di sfarzo. Non molto diversi, a ben guardare, da ciò che era lei: la donna soldato, l’algida virago, la creatura contro natura che da un decennio suscitava interesse e sconcerto nell’intera Versailles. Il progetto, o forse l’esperimento, del conte François Augustin Reynier de Jarjayes, padre pur tuttavia amatissimo, che per appagare se stesso le aveva cucito su misura un’esistenza di laboriosa finzione. Un’esistenza a cui Oscar aveva adempiuto con intransigente diligenza, nonostante le complicazioni pratiche intrinseche a cotanta simulazione. Così, per lo meno, finché il suo cuore di donna, domato ma evidentemente non vinto dalla ferrea disciplina cui era stato sottoposto, non aveva reclamato qualcosa per sé in quella vita di oneri e obblighi.
 
Da quando le era riuscito di dare un nome all’elettrizzante inquietudine che le avevano appiccato gli occhi cinerini – o forse cerulei? – e i modi virili e cavallereschi del conte venuto dal Nord, s’era chiesta più volte se al Generale fosse mai balenato che quella circostanza potesse verificarsi o se fosse tanto inebriato dal senso di potenza che gli dava l’ipoteca che aveva posto sul destino dell’ultima delle sue figlie, da non essere mai stato nemmeno sfiorato dal dubbio. E, se l’ipotesi era stata accarezzata, come era stata poi liquidata? Cosa ci si attendeva che facesse? Si confidava nella sua ubbidiente continenza o si era disposti ad avallare che avesse una vita sentimentale, purché fosse adeguatamente riservata e non interferisse con i suoi uffici?
In entrambi i casi, pensava Oscar mentre il paesaggio scorreva dietro i finestrini incantando Rosalie, sarebbe stata per lei un’impresa titanica. Reprimere la voce del proprio cuore le costava ogni giorno maggior fatica. D’altro canto, inventarsi all’improvviso donna, al punto da poter suscitare e appagare la bramosia di un uomo, appariva una meta altrettanto irraggiungibile per chi era assolutamente inesperta dell’amore e ignara delle regole del sofisticato gioco della seduzione. Avrebbe mai potuto quel suo corpo di femminilità tenue, acerba e spigolosa perennemente inguainato nella divisa infiammare i desideri di un uomo? E di un uomo come Fersen? Un uomo il cui cuore era saldamente avviluppato dalla bellezza squisitamente leggiadra e civettuola di Maria Antonietta e i cui sensi – Oscar non ne era all’oscuro – si lasciavano sottomettere volentieri da grazie voluttuose ancorché avventizie?
 
In quella pantomima in cui tutti la trattavano e appellavano come fosse un uomo per davvero esisteva qualcuno capace di riconoscere in lei la donna recondita?
 
, dovette consentire senza molti indugi.
 
C’era la cara Marie, che mai aveva accettato del tutto la propria parte in commedia e ostinatamente s’era sempre rivolta a lei allo stesso modo che a tutte le sue sorelle, ed era stata così inamovibile che perfino il Generale aveva dovuto farsene una ragione. E poi c’era André… ma André era diverso! Per lui, probabilmente, era solo una questione di sincerità, ché quello – Oscar lo sapeva bene – per amor di verità non era capace di tenere per sé nemmeno le osservazioni più importune, al punto che a volte dava l’impressione di provar quasi gusto a pungerla sul vivo.
 
Già! André…
André che non le mentiva e non l’assecondava mai… lo stesso André che adesso custodiva dei segreti… quell’André che aveva cose che doveva fare – anzi, che desiderava fare! – senza di lei…
 
Sprofondata in questo rimuginare, il viaggio passò senza che quasi se ne rendesse conto. Lungo l’itinerario si erano fermati per la notte una prima volta a Évreux e la seconda, come di consueto, a Yvetot e in entrambi i casi la stanchezza aveva avuto rapidamente la meglio, non lasciando il tempo che per qualche chiacchiera distratta durante la cena. Infine, nelle prime ore del pomeriggio del terzo giorno raggiunsero Fécamp.
Quando Didier arrestò i cavalli, ci mancò poco che l’abitualmente impassibile ufficiale trasecolasse per la sorpresa. Rosalie, invece, da diverse miglia ormai era letteralmente estatica, con gli occhi sgranati rapiti dal volo dei gabbiani, le guance accese dalla brezza marina e le narici imbevute dell’aroma salmastro che le aveva aperto sul volto un ampio sorriso. E mentre l’altra fremeva di genuino entusiasmo, smontando dalla vettura, nonostante la bella giornata di sole, la villa parve a Oscar inspiegabilmente più tetra di come la ricordasse, quasi che fosse la meta d’un esilio più che d’una vacanza.
 
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Nella tarda mattinata del quarto giorno da che aveva lasciato palazzo Jarjayes, mentre Alexandre si ristorava brucando l’erba, André Grandier se ne stava seduto all’ombra di un castagno a chiedersi per l’ennesima volta, e sempre con lieve apprensione, se il viaggio di Oscar e Rosalie si fosse svolto senza difficoltà. Se Oscar s’era attenuta ai piani, infatti, aveva stimato che dovessero essere arrivate a Fécamp il pomeriggio precedente.
 
Non più tardi di qualche ora dopo anch’egli avrebbe raggiunto la propria destinazione e questa consapevolezza, fin dalla partenza da Meslay-du-Maine, a ridosso dell’alba, l’aveva messo in qualche misura in ambasce. Al punto che la sosta, pur necessaria affinché il cavallo riposasse, era riuscita oltremodo gradita anche a lui.
Tra non molto sarebbe rientrato in Bretagna, dopo quasi quattro lustri d’assenza. Nella regione dell’oceano, dei folletti e delle fate, di cui egli – un bretone dell’entroterra, cresciuto nell’Île-de-France – s’era negli anni formato un’idea affatto leggendaria. Aveva quasi timore André di non trovarvi quel che ricordava, o che forse aveva solo immaginato. Tanto da aver inizialmente pensato di fermarsi subito a Martigné-Ferchaud, dove aveva intenzione di passare la notte in una locanda, rimandando all’indomani d’andare a Noyal. Ma poi s’era detto che differire l’appuntamento non avrebbe mitigato l’eventuale disinganno e s’era risolto a spingersi subito fino al villaggio natio.
Disponendosi a riprendere il cammino, s’alzò e andò a frugare nella sacca con le provviste della nonna, che aveva lasciato a penzolare dal corno della sella. Di pane non ne rimaneva che un tozzo e poco meno di formaggio, insieme all’ultima mela. La tirò fuori, la strofinò un po’ contro la manica della camicia e si avvicinò al muso di Alexandre: «Ecco qui, vecchio mio! Direi che questa spetta a te… io non ho fatto altro che starmene seduto tutto il tempo…», gli disse grato, porgendo il frutto all’animale con una mano e lisciandogli la criniera con l’altra.
Dopo che il cavallo ebbe finito di godere del meritato premio, gli rimontò in groppa. «Coraggio, giuro che è l’ultimo sforzo... Andiamo!» e con un colpo al fianco ripresero la marcia.
 
Nel cuore del pomeriggio giunsero al limitare del villaggio. La campagna si estendeva rigogliosa e rassicurante, coi suoi vigneti con le rose all’inizio dei filari[2] e i contadini che si affaccendavano sotto il sole in un lavoro che André ben conosceva. Osservandoli si chiese se tra quelle schiene chine nella potatura verde vi fosse qualcuno che manteneva il ricordo di un esile bambino bruno con gli occhi grandi, al quale – nonostante fosse assai volenteroso – non era concesso di far di più che la semplice sfogliatura e sempre sotto l’occhio vigile di una guida, perché, come gli ripeteva la madre, per tutto il resto ci voleva esperienza e André non stava in vigna che da poco. Pensò con nostalgia a quel tempo in cui l’unico sogno che aveva era di diventar grande abbastanza per potersi finalmente occupare anch’egli della spollonatura e della cimatura. Un sogno circoscritto e pragmatico, nient’affatto irraggiungibile, a misura della vita semplice e concreta della gente di Noyal. Un sogno così distante dalle chimere e dalle velleità che lo animavano adesso!
 
Mentre s’addentrava nell’abitato tenendo Alexandre al passo, incrociò un gruppo di uomini che portavano in spalla zappe e rastrelli. Lo squadrarono con diffidenza, come se venisse da un altro mondo. Non gli parve di riconoscere nessuno né nessuno sembrò identificare lui, ma rivolse loro ugualmente un cenno di saluto chinando appena il capo. Non s’era aspettato niente di meno che sguardi sospettosi, almeno sulle prime, ché non gli era stato difficile immaginare la rarità dei forestieri che passavano per Noyal. Scavando nelle memorie della sua infanzia, in effetti, non gli era riuscito di rintracciarne alcuno. E, sebbene a rigore non fosse davvero un estraneo, si disse che quasi vent’anni di lontananza gli meritavano a pieno titolo quell’appellativo e non se ne ebbe a male.
Man mano che procedeva verso il centro del villaggio lo scenario gli diveniva più familiare e sentì montare un’emozione che gli affrettò il polso e a tradimento gli umettò gli occhi. Nel percorrere i sentieri noti gli tornò in mente solo quanto di bello aveva vissuto a Noyal, come se quei suoi primi anni d’infanzia non fossero stati che una perpetua primavera e le lacrime e i lutti appartenessero alla vita di un altro.
Rammentò le processioni delle mucche scodinzolanti, le donne con le ceste cariche di bucato che se ne andavano a lavarlo al fiume, i giochi spensierati con i coetanei, le ragazze da marito che si mettevano camiciole ricamate e nastri di raso tra i capelli per la festa della vendemmia, i carretti carichi di paglia trainati da infaticabili bardotti, i volti fieri degli uomini bruniti e increspati dal sole, gli abiti di riguardo indossati per la messa domenicale, le storie sull’orribile Bugul Noz e sulle ammalianti Mari-Morgans[3] ascoltate nelle lunghe sere d’inverno attorno al focolare tremolante…
 
Guidando Alexandre con sicurezza, come se non fosse stato assente da quel luogo che poche settimane, in breve giunse sul sagrato della chiesa parrocchiale di Saint Martin de Tour. Notò che il portone era aperto e, assicurate le briglie del cavallo al tronco d’un albero nelle vicinanze, trasse di tasca il fazzoletto, lo inumidì con l’acqua dell’otre e si cancellò un poco di polvere e sudore dal volto e dalle mani. Quindi, ravviatosi i capelli e indossati il panciotto e il giustacuore, che teneva riposti nelle bisacce, entrò in chiesa segnandosi con l’acqua benedetta.
Avanzò appena di qualche passo nella fresca penombra confortante, che sapeva d’incenso e cera d’api, fino a raggiungere l’ultima fila di banchi e s’inginocchiò. Recitò un Pater Noster per ringraziare del viaggio, scorso senza incidenti né rallentamenti, e un’Ave Maria, per affidare ancora una volta alla protezione della Santa Vergine, durante la sua assenza, le donne che s’era lasciate alle spalle, che erano quanto di più caro vi fosse al suo cuore. Infine, si levò nuovamente in tutta la propria statura, ma prima che fosse riuscito a voltarsi, una voce gli si rivolse dalla sua destra.
 
«Pax et bonum
«Pax et bonum!», replicò André con prontezza. «Siete père Hervé, non è vero?», domandò al religioso dall’aspetto segaligno che aveva richiamato la sua attenzione.
«Fino a prova contraria…», rispose quello squadrandolo, non con aria guardinga, bensì come se fosse alla ricerca di qualcosa.
«Sono lieto di rivedervi!», assicurò André, con tono rallegrato dal franco sorriso fioritogli sulle labbra.
«Perdonatemi, vi conosco?», tentennò père Hervé.
«Dalla nascita! Sono il figlio di Yves Grandier.»
«André?! Ma sicuro, tu sei André! Ah, figliolo, sei il ritratto di tuo padre!», sorrise di rimando il sacerdote. «Avevo subito notato la somiglianza, ma ho creduto d’aver preso un abbaglio… dopo tanto tempo… e poi non l’immaginavo possibile… tua nonna non mi ha scritto nulla…», una nota improvvisa di preoccupazione gli incupì la voce, «tua nonna… voglio sperare che si conservi in salute…»
«Oh, sì, non datevi pensiero! È sempre operosa ed energica come la ricordate», rassicurò il giovane.
«Deo gratias! E dimmi, a cosa dobbiamo la tua presenza tra noi a Noyal, se non sono indiscreto?»
«Sono venuto per i miei genitori», rispose abbassando gli occhi con un accenno di pudore André, che malvolentieri parlava dei propri cari defunti, se non con la nonna. «A tal proposito, desideravo chiedervi se a quest’ora fosse possibile visitare il cimitero parrocchiale», s’informò.
«Certamente! Lo tengo aperto ogni giorno fino al tramonto. Hai necessità che t’accompagni?»
«No, non occorre che vi disturbiate, credo di ricordare la strada.»
«Pensi di riuscire a trovarli senza problemi?»
«Non saprei… ad ogni modo, Noyal non è certo Parigi! Più di tanto non ci impiegherò. E poi ho un punto di riferimento…»
«Hai ragione, figliolo…», annuì grave. Poi, ritrovando un’espressione gaia, concluse: «Quand’è così, ti lascio alla tua visita. Se servisse, bussa pure alla canonica, sarò là fino alla recita dei Vespri. Piacere d’averti rivisto, André! Laudetur Jesus Christus
«Nunc et semper!», lo salutò André. 
 
Père Hervé aveva voltato le spalle da pochi istanti e non s’era allontanato che d’un paio di passi in direzione della sacrestia, quando all’improvviso si fermò e richiamò André: «Figliolo, perdona la sbadataggine di questo vecchio sacerdote! Ho dimenticato di chiederti se hai visto la casa…»
«No, père, sono appena arrivato, non ne ho avuto modo», replicò André allarmato dalla domanda inattesa.
«Oh, la troverai ancora in piedi, non temere! Esattamente come ha disposto tua nonna», lo rassicurò con decisione il religioso.
«Non so come ringraziarvi della pena che vi siete dato in tutti questi anni, davvero…»
«Sciocchezze, figliolo! Io non ho fatto che curare un po’ l’organizzazione e far da tramite. Del resto, non vedo chi altri avrebbe potuto farlo: qui al villaggio, come potrai immaginare, la gente non sa leggere né scrivere…»
«Avete ragione, anche mia madre era quasi analfabeta… mio padre non aveva avuto il tempo di insegnarle che qualche rudimento…»
«Ad ogni modo, posso assicurarti che i soldi di tua nonna sono stati sempre spesi con giudizio e rispettando le sue volontà. Il tetto, la porta, le finestre: tutto è stato manutenuto periodicamente per evitare che la casa andasse in rovina. Per lo meno, questo è quello che è accaduto all’esterno… quanto all’interno, non ho idea dello stato in cui versi… nessuno ci entra da che siete partiti. Per quel che ne so, potrebbe essere esattamente come la ricordi… solo coperta da uno spesso strato di polvere. Oppure potrebbe essere infestata dai topi… non c’è altro modo di appurarlo che entrarvi…»
«Comprendo perfettamente, père. Nella seconda ipotesi, vi assicuro che nessuno ve ne farà una colpa.»
«Oh, non ne dubitavo… in effetti, ho toccato l’argomento solo perché non so se tu sia di passaggio oppure abbia intenzione di fermarti al villaggio per qualche tempo e… insomma, volevo avvertirti che la casa, benché certamente agibile, potrebbe non essere abitabile…»
«Ci avevo pensato anch’io e avevo già stabilito che, se non altro per questa notte, mi sarei fermato a Martigné-Ferchaud in una locanda. Il mio proposito è di rimanere in zona per qualche giorno, ma non ho ancora deciso dove soggiornare. In ogni caso, se anche la casa non fosse infestata dai topi, sul momento non avrei dove coricarmi… sapete, non avevamo i materassi, si dormiva sui pagliericci… e dopo la morte della mamma furono arsi… per precauzione[4]…», spiegò André con voce incrinata, lo sguardo fisso al pavimento e la postura fattasi contratta.
Père Hervé annuì sospirando. Ricacciate indietro le lacrime, il giovane riprese: «Giacché siete ancora qui, anch’io avrei un’altra cosa da domandarvi…»
«Dimmi pure, ti ascolto.»
«Sapreste per caso indicarmi uno scalpellino nelle vicinanze? Debbo commissionare due lapidi. È per questa ragione che sono tornato…», precisò infine con tenue disagio.
«Uhm… certo… per i lavori di questo tipo solitamente la gente di qui si rivolge a Monsieur Jouan, a Fercé. Non è molto distante da dov’era la bottega di tuo padre…»
Il giovane fece cenno col capo d’aver capito. «Vi ringrazio, père. Adesso è meglio che vada, vi ho già distolto abbastanza a lungo dalle vostre incombenze. Con permesso, vi saluto», chiosò con un abbozzo d’inchino André.
«A presto, figliolo!»
 
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Il sole del pomeriggio riscaldava il brecciolino della spiaggia di Fécamp che crepitava sotto le suole degli stivali e gli zoccoli dei cavalli. Oscar e Rosalie erano uscite dopo pranzo a cavalcare sul bagnasciuga e ora procedevano a piedi, tenendo gli animali per le redini, intente alla ricerca di conchiglie.
La fanciulla aveva insistito e l’ufficiale non se l’era sentita di negarle quel piccolo desiderio. Un breve momento di svago tra una lezione e l’altra, ché l’austero comandante delle Guardie reali aveva tenuto fede alla promessa di mantenersi operosa per mettersi quanto più possibile al riparo dai pensieri foschi e già dalla mattina la sua protetta era stata sottoposta a un impegnativo allenamento con la spada e a una lunga spiegazione della Guerra dei cent’anni. Una spiegazione così pesante che sarebbe stata in grado di abbattere un cavallo da tiro! – avrebbe commentato impertinente André – si sorprese a pensare Oscar, mentre il flusso di un’onda più gagliarda delle altre le rasentava gli stivali.
 
Rosalie intanto rideva, esaltata dal ritrovamento dello scrigno a ventaglio di una capasanta atlantica. C’erano il puro stupore e l’allegria di una bambina in quel riso cristallino, che aveva sempre il potere di allargare il cuore di Oscar. Chissà, si chiese, come avrebbe reagito la sua protetta se l’avesse condotta a Port-en-Bessin…
Vi si erano recati una volta, una delle prime estati da che aveva preso il comando delle Guardie reali. André infervorato dai racconti dei pescatori ed ella, nonostante la giovanissima età, a ostentare sprezzatura davanti a un tale slancio, come riteneva fosse appropriato al ruolo che ricopriva. Aveva perfino opposto un secco rifiuto sulle prime, ma poi quello, sfoderando le sue collaudate tecniche di sottile persuasione, aveva minacciato d’andarci ugualmente senza di lei e Oscar non aveva potuto far altro che accodarsi, ché quattro giorni da sola a Fécamp, malgrado i galloni, non avrebbe saputo come spenderli. E così s’erano imbarcati a Le Havre coi cavalli, attraccando a Cabourg e proseguendo poi in sella a César e Alexandre fino alla meta.
Quando furono infine giunti sul litorale di Port-en-Bessin, l’incredibile visione che si trovarono davanti sbaragliò in un lampo il suo studiato cinismo da sedicente adulta rotta alle cose del mondo, lasciandola a bocca spalancata e povera di fiato. Una distesa di conchiglie in cui non si intravedeva traccia di sabbia o di ciottoli. Milioni – forse miliardi! – di coquilles Saint-Jacques[5] una sopra l’altra, una accanto all’altra.[6]
Non avrebbe mai dimenticato il viso di André, che s’era voltato a guardarla con un’espressione raggiante. Pareva così genuinamente felice! Felice d’essere riuscito a portarla fin lì e dimostrarle che era nel giusto a volerci andare o d’essere riuscito a stupirla. O magari solo felice d’essere con lei in quel momento, davanti a quella meraviglia.
 
Sembravano tanto remoti adesso quei giorni lieti e lievi! Un tempo in cui la vita non aveva ancora sfaldato la rotonda compattezza delle illusioni dell’infanzia. Prima dell’uccisione a sangue freddo del piccolo Pierre e del duello col duca di Germain. Prima della miseria toccata con mano ad Arras. Prima delle macchinazioni della contessa di Polignac e prima del disperato grido di libertà della contessina Charlotte. Prima che iniziasse a ribollire nell’animo il senso d’impotenza di fronte alla bassezza dell’umanità e all’indifferenza del destino. E, sì, anche prima di Fersen, che pareva averle mutato in viscosa melassa il sangue nelle vene…
 
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Uscito dalla chiesa André si diresse verso sinistra, seguendo la facciata dell’edificio, quindi voltò l’angolo alla propria destra e camminò lungo l’alto muro che delimitava il cimitero parrocchiale. Come immaginava, non ebbe difficoltà a trovare l’ingresso, che si apriva esattamente dalla parte opposta rispetto al portone della chiesa. Davanti al cancello esitò per un momento, le mani impacciate come se d’un tratto non gli riuscisse di tenerle a bada e non sapesse più decidere come atteggiarle. Prese un paio di respiri profondi, si tirò verso il basso le falde del panciotto e lisciò le maniche della giacca, come a rimuovere invisibili granelli di polvere, chiuse gli occhi un istante, deglutì e s’inoltrò tra i sepolcri.
Erano tanti i tumuli disadorni, sprovvisti perfino dell’ombra gracile di una misera croce di legno e del conforto di un fiore, come toccava troppo spesso alla gente povera. Se anche i suoi genitori fossero stati inumati così, si disse, non sarebbe mai riuscito a ritrovarli. Ma André sapeva precisamente cosa cercare e non avrebbe mai potuto ingannarsi.
Procedeva guardandosi attorno, col battito del cuore che s’era fatto sempre più precipitoso e il sudore che aveva preso a imperlargli la fronte, mentre brividi leggeri lo percorrevano in mille rivoli lungo tutto il corpo. All’improvvisò si fermò, dopo aver letto il proprio nome su una lapide velata di muschio. Pensò alla nonna, che probabilmente a quell’ora presiedeva già i preparativi della cena a palazzo Jarjayes. Si potrò la mano destra alla fronte per il segno della croce e recitò per tre volte, come gli era stato insegnato: «Requiem aeternam dona ei, Domine, et lux perpetua luceat ei. Requiescat in pace. Amen
Anche il padre di suo padre non era vissuto che poco più di vent’anni. Considerò che la vita era stata davvero avara con la povera nonna Marie e sentì crescere ulteriormente l’ammirazione per quella donna minuta e instancabile, che aveva sempre sopportato tutto con cristiana obbedienza, accettando senza mai un lamento la volontà di Dio e le spine che essa comportava. La volontà di Dio…
 
È la volontà di Dio e a noi non è dato di comprenderla, André…
 
Così gli aveva detto père Hervé in risposta alle sue lacrime mute ma irrefrenabili, il giorno che era venuto a benedire la salma di sua madre. Per quanto ci ragionasse, però, gli pareva impossibile che la volontà di Dio potesse essere quella di prendersi anche la mamma, dopo che meno di due anni prima aveva già voluto per sé suo padre. Ché André Grandier, sei anni compiuti ad agosto, a Dio non ricordava d’aver mai fatto nulla di male…

Il fruscio dell’erba smossa dal passaggio di un ramarro lo riscosse da questi pensieri e riprese rapidamente la perlustrazione del cimitero. Dopo un altro giro a vuoto, finalmente scorse ciò che cercava: la piccola pietra su cui campeggiava quello strano nome. Si chinò puntando un ginocchio a terra e la sfiorò con la mano aperta in una timida carezza, osservandola intensamente, come se quella potesse mostrargli chissà quale verità.
Poi prese coraggio e si voltò alla sua sinistra verso le due tombe lì accanto, su cui vegliava una coppia di croci scarnite dagli anni e dalle intemperie.

«Papa, maman, sono tornato…»

E pianse finalmente, in quieta solitudine, tutte le lacrime che gli si erano gonfiate in petto dall’ingresso nell’abitato di Noyal.
 


N.d.A. Grazie e ancora grazie a chi ha la pazienza di leggere e la benevolenza di recensire questa storia cupa e nella quale succede poco e niente. In questo capitolo, se non altro, sia Oscar che André sono arrivati a destinazione… è già qualcosa!
Spero che il tutto non risulti eccessivamente pesante, specialmente considerando il numero spropositato di note a piè di pagina. Se non vi va di leggerle, potete saltarle senza troppi rimorsi: la comprensione del testo, in fin dei conti, non ne risulta compromessa.
Potrei promettervi che d’ora in poi i toni si alleggeriranno, ma non ho in cuore di mentirvi…
A presto.
 
[1] La Maison des Italiens era l’edificio di rue Champ-Lagarde a Versailles in cui erano ospitati, insieme ad altri cantanti italiani, i castrati durante il regno di Luigi XIV e parte di quello di Luigi XV. Quando in Francia la fama dei castrati iniziò a declinare, la dimora andò in rovina e fu poi trasformata in residenza di campagna dalla contessa d’Argenson nel 1751. Nel 1779, anno in cui è ambientata questa storia, la dimora era abitata dal botanico Louis Guillaume Le Monnier, che fu anche il medico personale sia di Luigi XV che di Luigi XVI e scrisse diversi lemmi dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert.
[2] Le rose vengono piantate fin dall’antichità in testa ai filari di viti, perché pare che fungano da piante “sentinella”, segnalando per tempo (circa una settimana prima che il problema si manifesti anche sulle viti) la presenza di eventuali parassiti o la carenza di minerali del terreno.
[3] Il Bugul Noz e le Mari-Morgans sono personaggi della mitologia bretone. Il Bugul Noz è una creatura d’aspetto orribile ma non malvagia, che a causa della sua bruttezza vive in totale solitudine nei boschi. Le Mari-Morgans, invece, sono divinità acquatiche simili alle sirene, che ammaliano gli uomini con la propria bellezza e ne causano l’annegamento (secondo alcune versioni delle leggende, possono anche causare inondazioni).
[4] Ho immaginato che la madre di André possa essere morta di una malattia causata da parassiti ematofagi, come per esempio la malattia di Lyme, che si diffonde attraverso le zecche, o la peste, che si diffonde per mezzo delle pulci. Mi pareva una causa verisimile per una persona che trascorreva la propria vita nei campi e a contatto con animali. Tuttavia, non avendo alcuna conoscenza medica, spero non suoni assurda a chi ha competenze in materia.
[5] Così sono chiamate in francese le valve delle capesante atlantiche, in riferimento al Camino de Santiago, di cui sono il simbolo.

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Capitolo 5
*** V ***


V
 
 
Di nuovo lo stesso sogno della notte trascorsa a Chartres.[1] André Grandier si destò nella stanza estranea e anonima di una locanda a buon mercato di Martigné-Ferchaud con ancora nelle orecchie il sibilo rabbioso del vento e il frastuono degli scuri squassati dalla tempesta. Una sensazione sgradevole gli stringeva lo stomaco, ma decise di non darle peso, ché le molte cose da fare esigevano s’affrettasse ad affrontare la giornata. C’era da andare a Fercé da Monsieur Jouan, lo scalpellino, e da ispezionare la casa e poi aveva desiderio di tornare al cimitero, questa volta non a mani vuote.
 
Prima di sbarbarsi e lavarsi si sporse un momento dalla finestra a respirare un poco dell’aria frizzante del primo mattino. Scrutando in lontananza le cime degli alberi della foresta di Araize si chiese se anche Oscar fosse sveglia, se stesse già sorbendo il tè seduta al tavolo davanti al balcone affacciato sul mare o, magari, se ne stesse fuori appoggiata alla balaustra a guardare l’orizzonte. O se, invece, fosse ancora avvolta nel grato tepore di sonno delle lenzuola, affondata in quel luogo immateriale in cui la ragione cede il passo e l’anima si rivela per immagini. Chissà cosa sognava Oscar, si chiese…
 
Dopo aver atteso alla propria igiene personale ed essersi vestito, André scese nella sala e consumò una frugale colazione, quindi recuperò Alexandre dallo stallaggio e si mise in marcia per percorrere le sei miglia scarse che lo separavano dalla propria destinazione.
A differenza di quello confinante di Noyal, Fercé era un villaggio in cui il lavoro nei campi non era il solo modo per guadagnarsi il pane. Oltre un secolo prima vi era stata creata una vetreria,[2] che era divenuta rinomata in tutta la regione, e attorno a essa negli anni erano spuntate botteghe artigiane di vario genere. Al confine nordorientale dell’abitato s’estendeva il bosco di Javardan, una selva di latifoglie in cui crescevano noci, roveri, frassini e castagni, alberi dispensatori di legni pregiati, che avevano consigliato a Yves Grandier di stabilire a Fercé la propria falegnameria per ridurre l’incomodo e le spese del trasporto della materia prima.

Mentre percorreva la strada che il locandiere gli aveva indicato la sera precedente, André pensava che non aveva mai avuto occasione di vedere la bottega di suo padre. Un bambino della sua età in una falegnameria sarebbe stato d’impaccio oltre che un pericolo per se stesso. Tra seghe, pialle, scalpelli, raspe, sgorbie, punteruoli, morse, martelli e chiodi c’era di che farsi del male sul serio e suo padre non avrebbe certamente potuto badare con uguale solerzia e al lavoro e all’incolumità del figlio, sicché era stato deciso che, finché non fosse cresciuto abbastanza, quello non sarebbe stato posto per lui. E dunque non riusciva nemmeno a immaginare come dovesse essere stata quella bottega di cui le sole cose che aveva conosciuto erano i trucioli, che il genitore raccoglieva per usarli per alimentare il focolare, e la segatura, che gli rimaneva inevitabilmente sui vestiti a fine giornata.
Nei suoi ricordi di bambino c’era anche lo zigrino[3], che Yves Grandier di tanto in tanto portava con sé dopo il lavoro, se c’era da levigare qualche asse degli scuri o della porta di casa. Quando il padre gli aveva spiegato che si trattava d’una pelle di pescecane, il piccolo André era rimasto sbalordito, ché a quel tempo non sapeva nemmeno cosa fosse un tale animale, ma doveva certo trattarsi di una creatura ben strana – forse agghiacciante – per avere una pelle tanto rasposa.
Anni dopo ne aveva visto un’illustrazione su uno dei libri della biblioteca del Generale e non gli era parso un pesce poi così mostruoso, di certo non come quella specie d’ircocervo acquatico che s’era figurato, e allora l’aveva fatto vedere anche a Oscar, raccontandole con un accenno di saccenteria che era grazie a quello se i mobili erano lisci. Ma l’amica non gli aveva creduto, perché – aveva detto – era un’idea affatto bislacca: cosa mai poteva avere a che fare un pesce coi mobili?! E poi lo sapevano tutti che i pesci le spine le avevano dentro, non fuori!

Sorrise tra sé al ricordo dell’Oscar bambina contegnosa e testarda e arrogante ed esasperatamente bisognosa d’affetto, che ogni tanto lo angariava e lo scherniva, ma che lo voleva sempre accanto e a volte aveva di quegli slanci nei suoi confronti, fino alla totale noncuranza di se stessa. E anche dopo, quando le intemperanze del suo carattere s’erano mitigate senza che venisse meno la sua spontanea intransigenza, non aveva mai esitato a mettere a repentaglio perfino la propria vita per difenderlo da chiunque, fosse anche il re in persona… Dio, come si poteva credere che non lo amasse?!
 
Sciocco! Sciocco! Sciocco, André! Sciocco e disperato, che non riesci a rassegnarti all’evidenza che questa sia solo una tua illusione… se ti ama, t’ama come un fratello… bisogna che te ne faccia una ragione al più presto, ché il tempo cola come la cera di una candela accesa e quando lo stoppino è ormai bruciato, c’è poco da recriminare e pretendere che possa ancora fare luce…
 
Giunse a Fercé soprappensiero e furono il tramestio dei carri che portavano la sabbia per la vetreria e il clamore del maglio d’un fabbro a guidarlo nel quartiere in cui sorgevano le botteghe, tutte poco più che capanne di legno, giacché là, per via del bosco, di quello ce n’era in abbondanza, e a costruire in questa maniera si faceva in fretta e con poco denaro. Anche la falegnameria di suo padre era stata così e, poiché se l’era tirata su quasi da solo, gli era costata un’inezia e perciò gli erano rimasti risparmi a sufficienza per potersi permettere una casa di pietra di tre stanze col pollaio e l’aia a Noyal.
 
Lo vedi il legno, André? Lo vedi come si gonfia con l’umido e si ritira e crepa col calore? Il legno è bello… è bello perché è una cosa viva. Non sta fermo mai il legno, cambia nel tempo come le persone. Ed è rigido, ma col vapore si può curvare come si vuole, e se si olia e incera a dovere può durare per secoli, ma se incontra il fuoco svanisce in un momento e non rimane quasi niente…
 
Per sorte beffarda Yves Grandier il legno lo amava: ne amava il profumo e l’aspetto, l’arrendevolezza dell’abete e la cocciutaggine dell’olmo, il colore caldo del mogano e del ciliegio e i nodi che punteggiavano il pino come i piccoli nei sulla pelle invitante della sua Anne. Avrebbe insegnato anche a suo figlio ad amarlo e se lo sarebbe portato con sé in bottega un giorno, perché vi prendesse confidenza e imparasse a trattarlo con tutti i riguardi. E, chissà, un domani avrebbe avuto altri figli e allora dopo un po’ di tempo avrebbe potuto demandare a loro il grosso del lavoro e tenere per sé solo le mansioni minute, l’intaglio e l’intarsio, ché era là che stava davvero l’arte di un ebanista. Quando la vista si fosse infiacchita, avrebbe lasciato agli eredi anche quelle e si sarebbe goduto la soddisfazione d’aver consegnato nelle loro mani i segreti del mestiere.
C’era il legno perfino nei sogni di Yves Granider. Ed era stato grazie a quella materia venerata che aveva sostentato se stesso e il figlioletto e la sposa e sempre per via di quella che nell’autunno del 1759 aveva trovato la sua fine.
 
Chiedendo indicazioni un paio di volte, non fu difficile per André raggiungere la bottega di Monsieur Jouan, che si trovava in mezzo tra quella di un vasaio e quella di un calderaio. Assicurate le redini di Alexandre a uno dei pali del breve porticato che s’affacciava sulla pubblica via, scorse rapidamente le pietre esposte e poi si sporse all’interno del laboratorio, richiamando con un deciso bussare sullo stipite dell’uscio l’attenzione dello scalpellino. Accortosi del cliente in attesa, quello posò gli strumenti sul tavolo da lavoro, abbandonò la pietra mezza sgrezzata, si nettò le mani nel grembiule e s’avvicinò porgendo il buongiorno.
Non fu questione di molto. Spiegato cosa desiderasse, Monsieur Jouan gli aveva fatto strada verso un angolo della bottega che usava come deposito e gli aveva mostrato altre pietre, perché potesse scegliere quelle che preferiva. Con l’aiuto dell’artigiano ne trovò due che, sebbene non identiche, si somigliavano moltissimo per grana e colore, quindi dettò le iscrizioni. Solo il nome e il cognome di ciascuno dei suoi genitori e l’anno di morte, nessun epitaffio e nessun ornamento, ché l’avevano sempre infastidito i fronzoli e le epigrafi, risibili esibizioni vanagloriose stridenti col luogo in cui tutti gli uomini divenendo silenzio si fanno finalmente uguali, a onta delle apparenze.
Aveva pagato la metà della somma in anticipo mentre il resto l’avrebbe saldato alla consegna, che Monsieur Jouan gli aveva assicurato per cinque giorni dopo, e s’erano accordati che il giorno stabilito André sarebbe tornato alla bottega e avrebbe scortato l’artigiano e il suo carro fino al cimitero parrocchiale di Noyal per la posa sulle sepolture. Quindi s’era congedato ed era rimontato in sella ad Alexandre dirigendosi alla volta del villaggio natale, non avendo ormai più scuse per rimandare ulteriormente la visita alla casa, che tanto lo impensieriva.
 
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Quella mattina il colonnello Oscar François de Jarjayes si concesse d’attardarsi raggomitolata tra le lenzuola godendo del soffice conforto del materasso e dei cuscini, che le alleviavano il malessere causato dall’arrivo delle sue regole mensili. Un dolore ritmico le risuonava tra il ventre e le reni e un sentore di nausea la faceva sentire fiacca e sudata. Detestava quel puntuale richiamo al suo essere donna.
Pensò che fin lì la sua femminilità s’era sempre espressa unicamente in forma di fastidio: il seno dolente, i crampi, il soffuso mal di capo, il sangue che minacciava di macchiare in modo imbarazzante l’inclemente candore dei pantaloni della divisa. Una divisa che era sfacciatamente evidente fosse stata disegnata per un uomo…
Ma le aveva sentite, tra i corridoi e nelle sale di Versailles, le dame raccontarsi in uno sciame di risolini soffocati cosa potesse provare un corpo di donna. Ed era tutt’altro che pena.
Un pensiero la solleticò a sorpresa, facendola avvampare. Si chiese come sarebbe stato trovarsi in intimità con Fersen, sentirselo addosso e le sue mani e il suo peso e la sua bocca e l’odore della sua pelle e la sua virilità…
Si diceva fosse un amante favoloso. Ma cos’era, s’interrogava l’illibato ufficiale, a far di un uomo un amante favoloso? Cosa rendeva il Conte così speciale? Era per via della sua avvenenza, certamente notevole? Eppure a volte le era capitato di sentir glorificare anche le gesta di uomini assai meno belli… Dunque non poteva trattarsi di quello. E allora cosa?

Oscar non era ignara della mera meccanica dell’atto, ma l’inesperienza e la scarsa confidenza col proprio corpo le rendevano impossibile immaginare che anche l’amplesso potesse essere un’arte in cui alcuni eccellevano e altri stentavano. In momenti del genere le spiaceva non avere familiarità sufficiente con altre donne, benché potesse dirsi sicura che nemmeno una maggior dimestichezza avrebbe avuto il potere di farle vincere il proprio pudore e spingerla a porre domande audaci. Limitarsi ad ascoltare, tuttavia, sarebbe forse bastato.
 
Non era così che facevano anche gli uomini?
 
Li aveva visti i ragazzi attorno a sé venir cooptati in conversazioni salaci non appena la loro età era diventata propizia, prima come semplici uditori e poi, dopo che i “segreti” appresi erano stati messi in pratica, per lo più in qualche bordello, anche come oratori. Era così alla reggia, dove si formavano a volte capannelli di uomini e fanciulli, tutti rigorosamente di sangue blu, che condividevano sottovoce e tra sguardi ammiccanti d’approvazione le proprie prodezze; ed era così a palazzo Jarjayes, dove i giovanotti della servitù venivano messi al corrente dai più anziani in modo assai meno discreto ed eufemistico.
Più volte aveva scoperto anche André ad assistere a siffatte discussioni, ma non aveva mai avuto il coraggio di chiedergliene conto né di rinfacciarglielo, principalmente perché, una volta divenuta innegabile la loro diversa natura, era stato una sorta di patto silente tra i due che certi argomenti restassero al di fuori del perimetro della loro pur vastissima confidenza. Avrebbe tuttavia quasi potuto giurare che ciò non fosse per appropriato riserbo, quanto per causa del fatto che ciascuno sembrasse maldisposto ad associare una simile sfera di comportamenti ed esperienze all’altro.
 
Ma se Oscar vedeva André in un’ottica di pressoché totale astrazione, che glielo faceva mentalmente collocare in una categoria a sé stante che non era quella del ragazzo, né dell’uomo, né del casto, né del seduttore; André sembrava avere piena contezza che Oscar partecipasse di tutti gli attributi e gli inconvenienti delle donne.
S’era sempre chiesta se fosse la nonna a raccomandargli quei riguardi o fosse la sua poco meno che infallibile capacità d’intuirla in un’occhiata a dettargli ancor più sollecite attenzioni. Quale che fosse la motivazione, di fatto c’era che André sapeva. E improvvisamente, quando arrivavano i giorni della sua periodica indisposizione, a lui prendeva provvidenzialmente voglia di cose quiete: leggere vicino al camino, giocare agli scacchi, starsene seduti all’ombra della vecchia quercia, raccontarle i pettegolezzi di corte e del palazzo accomodati sulle poltrone del salottino turchese…
Non aveva mai avuto bisogno d’affrontare il disagio di dovergli chiedere comprensione o addurre alcuna spiegazione, giacché André, appunto, sapeva. E spontaneamente rallentava il ritmo delle loro giornate e più spesso del solito consigliava di spostarsi col coupé piuttosto che a cavallo e di sorbire bevande calde e con frequenza s’allontanava con una o l’altra scusa, perché non si trovasse costretta a pregarlo di lasciarle un momento privato, che le sarebbe servito a cambiarsi le pezze.

Immaginò che, fosse stato con lei a Fécamp, quel giorno probabilmente avrebbe suggerito di starsene ritirati a leggere Orazio, senza dare alcun segno che fosse per altra ragione se non per proprio personale capriccio. Provò un senso di gratitudine per la premurosa delicatezza dell’amico e per la prima volta da che era partito ne avvertì tangibile e importuna la mancanza.
 
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Come aveva assicurato père Hervé, all’esterno la casa era intatta, forse addirittura meglio di come l’aveva lasciata. Inappuntabili erano il tetto e il muretto a secco che delimitava l’aia e il basso cancello privo di serratura, che suo padre aveva posto a far la guardia all’ingresso con l’unica consegna d’impedire alle galline d’andarsene a zonzo a piacimento, ché altrimenti ogni giorno riacciuffarle e trovarne le uova sarebbe stata una queste del Saint Graal. Parimenti impeccabili erano la porta e gli scuri, evidentemente oliati con regolarità, perché l’umido non li aggredisse. E resisteva ancora perfino il melo, che era potato per bene e carico di frutti, sebbene non ancora maturi. Solo il pollaio era vuoto.
Con lo spirito rinfrancato da questa visione, estrasse la chiave che gli avrebbe svelato il responso sull’interno. Gli costò un poco d’insistenza far scattare il lucchetto intorpidito da quasi due decenni d’inattività, ma l’innata perseveranza di André e una buona dose di male maniere ebbero infine la meglio sulla riluttanza metallica. Disserrato il chiavistello, spinse la porta col cuore in gola. Aprì pure una delle finestre, per fare maggior luce, poi si volse nervoso a esaminare ogni dettaglio della stanza, come a sincerarsi che non mancasse nulla. Non già lì, in quell’ambiente spoglio e polveroso, bensì nella memoria. Voleva trovare conferma di non aver dimenticato, che tutto fosse proprio così come migliaia di volte l’aveva evocato nei suoi ricordi di bambino e di ragazzo lungo il succedersi degli anni. Sospirò sollevato nel constatare che ciascuna presenza gli era familiare e niente sembrasse assente all’appello. Ogni cosa era al proprio posto, come se gli abitanti della casa fossero usciti con l’intenzione di mancare non più di qualche momento e in seguito, per un motivo ignoto, fosse loro sfuggito di mente di tornare.
Osservando il vano penzolare del vecchio paiolo ossidato al centro del focolare estinto, all’improvviso ebbe perfino l’impressione di annusare ancora l’odore perduto della bardatte[4], quasi che fosse rimasto impregnato nelle pareti – quelle di pietra come quelle del cuore – per tutti quegli anni. Gli parve assolutamente celestiale. E l’istante appresso si sentì ridicolo per via di come la memoria riuscisse a cambiare le carte in tavola, facendo sì che nei ricordi felici anche il cattivo tempo sembrasse bello e il tanfo di cavolo cotto risultasse più squisito della fragranza di una torta di mele.
 
Mentre lo sguardo continuava a vagare sui pochi mobili, semplici ma di buona fattura, ancora solidi a dispetto degli anni d’abbandono, pensò che suo padre era stato davvero un ottimo falegname, come gli avevano sempre ripetuto con fiera insistenza la madre e poi la nonna, perché non scordasse mai d’essere figlio di un artigiano capace ed esperto e sentisse l’orgoglio d’essere l’erede di Yves Grandier.
In mezzo alla stanza dominava il tavolo rettangolare. Si avvicinò e d’istinto vi posò la punta delle dita, a ritrovare la consistenza nota del piano scrupolosamente smerigliato da mani abili e minuziose. Sorrise al pensiero che quel gusto per il lavoro ben fatto fosse passato dalla nonna al padre e, come prezioso retaggio familiare, da entrambi fosse giunto a lui. Ciononostante, il sorriso crollò effimero non appena lo sguardo pellegrino si posò sulla propria mano. Una mano grande, sì, ma dal dorso liscio e dalle dita lunghe e fini, le unghie ben pulite e curate e le sole sporadiche asperità nascoste nel palmo, che nessuno avrebbe indovinato – a meno di stringerla – fosse la mano di un servo. Una mano da ragazzo, non la mano da uomo scabra di lavoro e di calli con cui suo padre spezzava il pane seduto a quella tavola. Ché solo questo era André Grandier, a dispetto dei suoi quasi venticinque anni: un ragazzo.
 
Di un ragazzo, si disse, conservava ancora l’indefinitezza e l’acerbità. Tanto nei lineamenti e nel corpo, in cui tutto era polito e composto e non v’era traccia di virile rudezza; come nella vita, in cui nulla aveva fin lì realizzato e non c’era niente che potesse rivendicare come suo. E questo, ammise tra sé, perché il pensiero delle mani di lei, eleganti e letali nel brandire la spada o agili e sicure nel suonare il violino[5], che avrebbe voluto sentire ugualmente diligenti e spigliate su di sé, a tracciargli peccaminosi sentieri sulla pelle nuda e palpitante in un buio costellato di gemiti e sussurri, lo avvinceva a quel destino di disperata attesa. Una stasi in cui era condannato a essere eterno fanciullo, perché tale era quell’amore che incordava le viscere da impedirgli perfino di avere una donna, fosse anche solo per placare, esule in un ventre occasionale rugiadoso e accogliente, il ruggito della carne e finalmente farsi anch’egli uomo.
 
Non che fosse immacolato André Grandier e non avesse mai sfiorato delle forme femminili. C’era stato un tempo, nel cuore dell’adolescenza, in cui il secolo condiscendente e gli impulsi improvvisi e implacabili di un giovane corpo sano e curioso avevano suggerito gesti che gli erano costati più d’un Pater Ave Gloria. Labbra, seni, cosce e fianchi attinti e accarezzati con la malagrazia inconsapevole di un giovanotto in fregola nell’ombra discreta e benevola delle scuderie di Versailles, da cui aveva tratto un piacere monco, frastornante ed evanescente e insieme molto, troppo, imbarazzo. Ché era stato in quel convulso e incompetente baciare e frugare sotto le vesti prima di Florence e poi di Mireille che aveva inaspettatamente smarrito la sicurezza per guardare Oscar negli occhi e, interrogandosi sul perché d’un tratto avvertisse tanta schiacciante vergona davanti all’amica, aveva scovato in sé le tracce inequivocabili dell’amore per lei. E, dunque, da allora non c’erano più stati appuntamenti segreti ed effusioni furtive tra il fieno e i sacchi di biada né in qualunque altro luogo.

Non che pure nel presente – poiché, con buona pace dell’illustre filosofo, anche la carne, oltre al cuore, ha ragioni che la ragione non conosce[6] – non provasse mai desiderio e perfino una brama asfissiante, alle volte, di esaurire l’impellenza del proprio corpo nell’intreccio con un corpo parimenti teso e torrido e traboccante di frenesia. Tuttavia, l’idea di darsi a un’altra gli pareva uno squallido palliativo, il quale non avrebbe fatto che aumentare la dannazione di quell’anelito inappagabile che lo assaliva quando Oscar riusciva, finanche con il più innocente dei gesti, a stanargli l’appetito d’inferno che ogni giorno lottava strenuamente con se stesso per tenere celato. Se avesse conosciuto il recondito calore di una donna, pensava, gli sarebbe stato immensamente più penoso continuare a sopportare di non poter farsi cenere nell’incendio dell’abbraccio con lei. Ed era convinto che avrebbe poi provato orrore di sé per aver svilito il proprio amore, degradandosi per mera urgenza come uno che preferisca alla speranza di far esperienza un giorno della sublime estasi del santo, l’immediata certezza dell’ebbrezza da quattro soldi dell’ubriaco.
 
A interrompere questi pensieri giunsero un vigoroso bussare alla porta rimasta aperta e una voce ben nota, forse solo un poco più ispida di come la ricordasse: «Père Hervé non mentiva! Sei qui… Dio, fatti guardare! A parte quel codino da damerino, ti sei fatto proprio uguale a lui!»
«Monsieur Barbé…», il ricordo dell’altro affiorò con sorpresa in André.
«Oh, cosa sono adesso queste cerimonie? Non mi chiamavi Paul una volta? Ragazzo mio, ti hanno proprio rovinato a Versailles!», lo rimbrottò bonariamente Paul Barbé, ch’era stato l’amico più caro che suo padre avesse a Noyal. «O forse è il latino che ti hanno fatto studiare che ti ha guastato la testa? Non guardarmi così: il prete mi racconta tutto quello che tua nonna gli scrive, cosa credi?»
«Sono davvero felice di incontrarti di nuovo e di trovarti in salute, Paul!», assicurò il giovane Grandier, intimamente lieto di notare che la drastica schiettezza dell’altro non fosse stata ammaestrata dalla maturità.
«Scusa se sono venuto qui a ficcare il naso, ma volevo salutarti e rivedere finalmente questa casa aperta…»
«È merito tuo, non è vero?», chiese André guardandosi intorno in senso allusivo.
«Ho fatto del mio meglio, come richiesto da tua nonna. Finché Dio vorrà, non l’affiderò a nessun altro: tuo padre era come un fratello per me», dichiarò solenne Paul Barbé.
André annuì, poi domandò: «E Arlette? Dimmi, come sta?»
«Da otto anni sta dove stanno i tuoi genitori…», buttò lì l’altro rabbuiandosi.
«Perdonami, Paul, io non immaginavo…»
«Non preoccuparti, André…», sospirò dandogli un buffetto sulla guancia. Poi rianimandosi: «Comunque ci sono anche notizie belle, sai? Ho tre nipoti adesso!»
«Faustine?», intuì il giovane.
«Proprio così! Ha sposato Tanguy Charteau… te lo ricordi Tanguy? Vivono a Villepot, quasi all’ingresso della foresta. Lui fa il taglialegna e... ehi, non fare quella faccia! Dovresti vederlo ora quel soldo di cacio! Se ti dà un ceffone, ti fa arrivare fino a Rougé[7]!», sottolineò con orgoglio di suocero, ché s’era avveduto che l’altro stentava ad adattarsi al pensiero che Tanguy, ch’era sempre stato il più mingherlino tra i coetanei, potesse essersi fatto un tale energumeno.
«E, dunque, adesso sei da solo…», congetturò André.
«Ti sbagli!», ribatté quello con espressione trionfante per aver stupito nuovamente il proprio interlocutore, «Arlette mi ha dato un’altra figlia, un anno dopo che sei partito, e grazie a Dio – almeno finché non si mariterà – c’è Clémence a prendersi cura di me! Devi venire a trovarci, così te la presento… tanto lo so che non hai moglie e non faccio torto a nessuna…»
«Paul, per piacere!», si schermì il giovane, ch’era un poco arrossito.
«Che c’è? Guarda che è molto graziosa, eh, non pensar male! E ha pure dei pretendenti…»
«Non ne dubito e ti prometto che verrò a conoscerla, ma tu non metterti starne idee in testa, siamo intesi? E, soprattutto, non metterne a lei!», gli raccomandò con accento impensierito.
«Oh, quanto la fai lunga! Si tratta solo d’incontrare una bella ragazza, non si discute mica già la dote! Non è che a imparare il latino sei diventato come il prete?», concluse Paul Barbé sghignazzando e alla fine anche André dovette soccombere al riso.
 
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Benché controvoglia, quand’era quasi già metà mattina Oscar aveva infine lasciato la propria stanza. Il senso di malessere le aveva sconsigliato di ingerire alcunché al di fuori di una semplice tazza di tè, che aveva bevuto insieme a Rosalie, sedute come d’abitudine al tavolo davanti al balcone. Il garrito dei gabbiani le era sembrato batterle in testa e la luce insolente del sole d’estate le aveva pizzicato le pupille, ma s’era sforzata di non darlo a vedere, concentrandosi sui vapori che s’innalzavano dalla tazza di porcellana.

Quel giorno Rosalie aveva indossato un abito sobrio di faille ciano con rouches di mussolina bianca attorno alla scollatura e sull’orlo delle maniche, che faceva risaltare il color miele dei suoi capelli e le rendeva l’incarnato ipnoticamente luminoso.
 
Per un istante Oscar aveva provato a figurarsi fasciata in un capo del genere e l’immagine che le si era presentata alla mente era risultata sconsolante. Il petto scarno smarrito tra le volute del tessuto e le pieghe a cannone della gonna affastellate sulla sua figura svelta e androgina e le maniche a lasciarle scoperti gli avambracci su cui gli anni trascorsi a maneggiare le armi avevano portato alla vista una muscolatura allungata, ma soda e ben delineata. Nulla a che vedere con la composta armonia che s’irradiava dalla sua giovane protetta…

Si era chiesta se Rosalie, malgrado fosse ancora fanciulla, si rendesse già conto d’essere tanto graziosa e cosa provasse una donna a sapere d’essere bella, ché la bellezza – aveva pensato Oscar – dava alle donne un oscuro potere aguzzo e ammaliante, che era in grado di vincere la resistenza e corrompere la ragione, di inebriare gli animi sensibili e di signoreggiare su quelli inclini alla concupiscenza.
Per un istante, zittendo lo zelante ufficiale ch’era in lei e che disapprovava quei pensieri frivoli, s’era domandata quanto dovesse essere esaltante la sensazione d’essere guardata come se si fosse stata la prima e unica nel mondo a essere nata donna e si chiese se mai un pensiero tanto folle e devoto sarebbe stato formulato al suo indirizzo…
Non ignorava d’essere avvenente, ma si sentiva in difetto di ciò che rende la bellezza folgorante e viva, quella componente ineffabile che fa la differenza tra l’irrilevante perfezione di un mobile di pregio e il magnetismo trascinante di un’opera d’arte. Le era venuto in mente, allora, l’alone di tristezza che sempre più spesso velava lo sguardo di Maria Antonietta e che le rendeva l’aspetto più dolente, conferendole tuttavia anche una grazia più intensa e più vibrante, e aveva concluso che forse la bellezza risiedesse nelle crepe sulla superficie, nel trasparire di certi contrasti e certe vulnerabilità. Ma quest’ultimo pensiero fu frettolosamente archiviato, poiché il reale problema del colonello Oscar François de Jarjayes, a ben guardare, era la radicata avversione che sentiva nei confronti di ogni propria debolezza.
 
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Non gli fu facile divincolarsi da Paul Barbé, che se lo sarebbe voluto trascinare a casa su due piedi, impaziente di presentargli la più giovane delle sue figlie. Dopo essersi più volte scontrato con la cortese fermezza di André, però, l’uomo aveva infine dovuto demordere, non senza avergli prima strappato la promessa di passare a far loro visita in un paio di giorni al massimo.

Congedato Paul, il giovane Grandier richiuse la casa, annotando mentalmente ciò che avrebbe dovuto procurarsi per darle una ripulita e renderla fruibile, poi slegò Alexandre dal melo a cui lo aveva assicurato, lo condusse fuori dall’aia, montò in sella e lo cavalcò alla volta del fiume, sperando d’essere fortunato e che non fosse troppo tardi.
Ricordava che in più punti lungo le sponde da metà primavera fiorivano i giaggioli acquatici, coi loro steli svettanti e gli aggraziati petali ricurvi d’un giallo squillante. Erano sempre piaciuti molto a sua madre, che pensava trasmettessero allegria e assai probabilmente ignorava fossero anche il simbolo dei re di Francia fin dai tempi dei Merovingi.[8]
Percorse un lungo tratto seguendo il corso d’acqua fin quasi ad arrivare a Villepot e raccolse tutti quelli che gli riuscì di trovare, ma non fu possibile metterne insieme neppure una decina. Perciò deviò verso i campi in cerca di qualcos’altro, ché quei pochi iris li voleva riservare tutti per la mamma, certo che nessuno se ne sarebbe avuto a male se le usava un particolare riguardo. La stagione gli fu complice e gli offrì linaiole, papaveri, denti di leone e anemoni che, sebbene non regali come gli altri fiori, non erano meno belli. Quando si ritenne soddisfatto, tornò verso il centro di Noyal.

Trovò il cimitero nuovamente deserto, come il giorno precedente, giacché in campagna le ore di luce sono preziose e rigorosamente consacrate al lavoro, che non lascia tempo per nient’altro, nemmeno per onorare i defunti, i quali debbono farsi bastare le visite domenicali. Fu lieto di quella rinnovata solitudine, che gli dava modo di attardarsi un poco con i suoi cari senza doversi curare che qualcuno lo osservasse.
Da quando aveva rimesso piede a Noyal, in verità, André non si sentiva perfettamente padrone delle proprie emozioni, nonostante di consueto fosse ammirevolmente abile a dissimularle, e gli sarebbe spiaciuto se qualcuno l’avesse visto, nel caso gli fosse capitato nuovamente di commuoversi. Non già per una questione d’orgoglio virile, quanto per riservatezza.

Depose i fiori sul sepolcro della madre, sperando con tutto il cuore ch’ella si trovasse finalmente in un luogo nel quale l’allegria era eterna e non ci fosse più bisogno dei giaggioli. Quindi passò a separare gli altri per farne due mazzetti, di cui uno andò a interrompere il verde dell’erba che cresceva sopra la tomba di suo padre e l’altro fu appoggiato alla piccola arenaria squadrata alla sua destra. Per un attimo fissandola quasi rise al pensiero d’averla scampata bella, ché se non fosse stato il primogenito e gli fosse toccato di nascere il ventidue di ottobre, invece che il ventisei agosto, il bizzarro nome del santo di Rennes sarebbe stato dato a lui…
 
Eccettuata la nonna, nella sua nuova vita nessuno sapeva che v’era stato un momento, disgraziatamente assai breve, nel quale André Grandier aveva avuto un fratello. Nessuno sapeva e invero non ci sarebbe stato molto da raccontare. Minore di lui di due anni, Modéran[9] era morto ancora lattante e per André, che all’epoca era troppo bambino a sua volta per conservarne memoria, non aveva mai avuto altro aspetto al di fuori di quella lastra di pietra.

Negli anni, tuttavia, sovente s’era chiesto come sarebbe cambiata la sua vita se il fratello fosse vissuto. Forse – aveva talvolta pensato – in due non sarebbero stati accolti dal Generale e la nonna avrebbe lasciato il servizio e si sarebbe ritirata a Noyal per allevarli. Oppure li avrebbe affidati alle cure di Paul e Arlette Barbé, raccomandandoli anche alla proba guida di père Hervé, e premurandosi di far giungere periodicamente il denaro necessario per il loro sostentamento. O sarebbero finiti in orfanotrofio, nella speranza che qualcuno decidesse di adottarli e riscattarli dalle loro miserie.
O magari sarebbero comunque stati portati entrambi a palazzo Jarjayes per essere i compagni di giochi di Oscar. E forse, avendo il fratello con sé, la solitudine avrebbe avuto un morso più sdentato e il rapporto con lei non si sarebbe fatto così viscerale. Oppure Oscar, dopo averlo senza dubbio inizialmente dileggiato per colpa di quell’assurdo nome, con l’andar del tempo avrebbe preferito stare con Modéran…
 
Nei momenti di più profondo avvilimento era arrivato perfino a pensare che fosse il fratello il Grandier che si sarebbe dovuto salvare. Ché quello sì che sarebbe stato in grado un giorno di lasciare il servizio e architettarsi un avvenire con tutti i crismi: un mestiere, una casa, una moglie, dei figli, le mele in autunno e in inverno e le uova nel pollaio ogni giorno. Esattamente come a suo tempo aveva fatto il padre. Invece, con scarsa lungimiranza, s’era deciso che rimanessero al mondo lui e la sua irreparabile inconcludenza…

 
 
 
N.d.A. Non posso che rinnovare i ringraziamenti a chi legge, segue e recensisce questa storia. L’apprezzamento che mi riservate mi onora e mi emoziona profondamente.
Ormai siamo arrivati al quinto capitolo e mi pare evidente che il mio progetto iniziale di scrivere una storia piuttosto agile sia naufragato. A questo punto, penso che ci aggireremo intorno ai dieci capitoli, anche se io continuo a sperare di riuscire a tenermi al di sotto di quel numero.
Anche questa volta ci sono un sacco di note e il testo è più lungo del solito. Spero non me ne vogliate! Non è mia intenzione prendere i lettori in ostaggio... è colpa di André che aveva troppe cose da fare! In mia difesa, posso dire che le varie parti sono ben segnalate e c’è modo di fare qualche pausa qua e là.

Infine, diamo a Cesare quel che è di Cesare: non posso non ringraziare pubblicamente la sempre gentile e perspicace mareggiata, che attraverso le acute osservazioni che mi ha fatto in uno scambio di messaggi di qualche settimana fa mi ha spinta a riflettere su alcune questioni, a rimaneggiare parte del testo, che avevo già scritto in precedenza, e a fare delle aggiunte. Segnatamente, alla sua preziosa influenza si deve tutta la parte relativa alle prime (un po’ goffe) esperienze di André col genere femminile.
 
Ancora grazie a tutti e a presto.
 
[1] Vedi capitolo III.
[2] La vetreria di Fercé sorgeva proprio in mezzo al bosco di Javardan. Fu fondata nel 1654 e operò fino al 1862. Per i curiosi, qui ci sono una serie di informazioni e la mappa della zona: http://www.genverre.com/articles.php?lng=fr&pg=866
[3] Lo zigrino è l’antenato della carta vetrata. Si ricavava dalla cute dell’omonima razza di squalo o di altri selaci (pescicani, razze, torpedini), che è ricoperta di una sorta di granuli molto coriacei ed è, pertanto, abrasiva.
[4] Piatto della tradizione contadina, tipico della Loira Atlantica, costituito da un cavolo (generalmente una verza) ripieno di carne di coniglio e altri ingredienti.
[5] In questo caso, a differenza che per tutto il resto, faccio riferimento al manga, perché a me l’anacronismo di Oscar che suona il pianoforte non è mai andato giù.
[6] “Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce” è una famosa massima di Blaise Pascal, tratta dai Pensieri.
[7] Rougé è a più di 8 km da Noyal-sur-Brutz.
[8] Se vi interessa approfondire questo particolare: https://caffebook.it/2019/06/28/l-iris-l-antica-fleur-de-lys/
[9] San Modéran fu vescovo di Rennes (che si trova una cinquantina di km a nord-ovest di Noyal) nell’VIII secolo. In Italia è conosciuto come San Moderanno (o Moderano) ed è il patrono di Berceto (PR), località in cui si era stabilito in qualità di priore della locale abbazia, dopo aver rinunciato alla cattedra di Rennes per dedicarsi a una vita più appartata. Il giorno in cui si festeggia è il 22 ottobre.

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Capitolo 6
*** VI ***


VI
 
 
Senza che se ne accorgesse André Grandier s’era trattenuto nel cimitero fino quasi all’ora del tramonto. Gli era dolce trascorrere il tempo in muto dialogo con la propria famiglia: gli pareva che ad avere i suoi cari così, sotto gli occhi, i pensieri gli si formassero meglio e più profondi e più disincantati.
Père Hervé, ch’era venuto a chiudere il cancello dopo i Vespri, lo trovò seduto davanti alla tomba del padre con le spalle un po’ curve e la mano sinistra appoggiata alla croce, a cercare un impossibile contatto.

«Povero Yves, era poco più che un ragazzo…», sfuggì detto al curato tra il clangore del mazzo di chiavi che si portava appresso.
L’altro con fierezza replicò senza voltarsi e scuotendo piano il capo: «Vi sbagliate, père, mio padre non era più un ragazzo da tempo: era un uomo!»
«Un uomo… uhm…», ripeté tra sé in un fruscio inaudibile père Hervé, inseguendo un pensiero che gli aveva attraversato la mente. «È tanto importante la differenza?», domandò per accertarsi d’aver fiutato il busillis.
«La differenza è tutto!», sentenziò lapidario il giovane.
Il religioso registrò la risposta socchiudendo gli occhi e sollevando le sopracciglia, come se gli fosse giunta la conferma attesa d’aver lambito il cuore della questione ed essersi avvicinato a ciò che dava all’altro l’aria tribolata che gli aveva notato fin dal loro incontro in chiesa il giorno precedente. Tuttavia, quello non era il momento per saggiarlo: ci sarebbe stato modo più avanti, pensò.
Nel presente era piuttosto l’ora che André se ne tornasse tra i vivi. «Non è per scacciarti, figliolo, ma s’è fatto tardi: mi attendono la cena e la compieta… e anche per te è meglio andare… ho visto il cavallo starsene placido di fuori da che era passata da poco la Nona[1]…», l’invitò gentilmente père Hervé.

André si mise allora in piedi, pur con qualche lungaggine, giacché le gambe gli s’erano un poco illanguidite a star tanto seduto fisso a terra. Quindi si batté via la polvere dai calzoni, sorrise un’ultima volta alle vestigia dei suoi cari, si fece la croce e s’avvio diligente verso l’uscita seguendo il sacerdote, il quale serrò il cancello e salutatolo lo osservò montare a cavallo e poi allontanarsi in direzione di Martigné-Ferchaud, riflettendo tra sé sul perché al giovane Grandier potesse importar tanto del fatto d’essere o non essere un uomo.
 
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Un diluvio di colpi d’artiglieria in campo aperto. Crateri e cadaveri. Cadaveri e crateri. Fragore. Foschia di fumo e dell’umido della terra percossa. Sangue e corpi vilipesi, sì da non poter dire se invero fossero stati d’uomini. Boato d’urla bestiali e gorgoglìo di rantoli estremi. Fersen…
 
Oscar François de Jarjayes si svegliò bruscamente, boccheggiante e sudata, nel mezzo d’un sogno angoscioso[2]. Scalciò via le lenzuola e si rizzò in piedi. Scalza raggiunse la grande finestra, la spalancò in cerca d’aria e inspirò il buio salino di Fécamp. Lo stomaco un groviglio, le mani tremanti, le gambe malferme, s’aggrappò alle tende per non afflosciarsi lì, al cospetto della notte. Il cuore rintoccava in un modo che le pareva assordante, mentre la mente formulava il temuto pensiero. Ché lo sapeva che l’America era tanto lontana che quegli sarebbe potuto già non essere più e chissà quando ne sarebbe giunta notizia…
 
Fersen…
 
Incapace d’addomesticare il polso e il respiro, le visioni di poc’anzi, il cui orrore le era trapelato fin nell’anima, continuavano a imperversare. Portò una mano sugli occhi e si lasciò scivolare lungo il drappo terminando in ginocchio e infine s’accucciò sotto al davanzale. Non avrebbe saputo dire quanto stette con le gambe raccolte al petto e gli occhi chiusi, ad abbracciarsi le caviglie piangendo in silenzio e cullandosi appena, prima che i brividi per la brezza notturna del Nord pervenissero a riscuoterla, consigliandole di riguadagnare il letto. Infreddolita si sollevò e si voltò verso la finestra per richiuderne i vetri.
 
Fu allora che “vide” finalmente la dea che apre i cancelli del cielo.
 
οδοδάκτυλος Ἠώς[3].
 
C’è più poesia in questo epiteto che in tutto il resto. Così aveva detto André.
 
Anni addietro, era primavera, s’erano recati ad Arras per trascorrere un periodo di riposo e, poiché alla sera era ancora piuttosto freddo, dopo cena si ritiravano in biblioteca. Il giorno precedente avevano concluso i Commentarii de bello Gallico e, fosse stato per lei, avrebbero proseguito leggendo il De bello civili, ma l’altro s’era categoricamente opposto, minacciando d’andarsene dritto filato a letto. Ché quello, si sapeva, potendo scegliere avrebbe optato sempre per Catullo, Petrarca o Ronsard. Alla fine, trovando un onorevole compromesso, avevano iniziato a leggere l’Iliade.
Non erano che a poco più di metà del Libro I e André tutt’a un tratto s’era come incantato. Nessuno dei due era mai stato perfettamente a proprio agio col greco[4], ciononostante a lei non era parso che fosse un passaggio particolarmente ostico, di conseguenza aveva preso subito a burlarsi dell’ignoranza dell’amico; se non che quello le aveva risposto scuotendo il capo e sorridendo tagliente…
 
Guarda che lo so cosa significa! È proprio quello il motivo per cui mi sono fermato: c’è più poesia in questo epiteto che in tutto il resto che abbiamo letto finora… Ah, ma certe cose tu non le capirai mai! A te non interessa altro che la battaglia, ti esalti solo per il ferro e il sangue tu… eppure c’è tanto di più significativo e più sublime del valore e della gloria, Oscar, e mi dispiace che non la veda nemmeno la meraviglia della dea dalle dita rosate…

E allora s’era un poco impermalita e gli aveva ribattuto ch’era un vizio quello di cogliere la poesia da tutte le parti e accusarla che a lei, invece, passasse inosservata. Però, forse, non era perché non la capisse, forse era proprio André a immaginarla dappertutto a sproposito! Sicché l’amico le aveva proposto un patto: il giorno a seguire si sarebbero svegliati prima dell’alba e sarebbero andati sulla collina ad aspettare il sorgere del sole e Oscar si sarebbe impegnata a osservare attentamente; se nemmeno allora a lei fosse riuscito di “vedere” la dea che apriva i cancelli del cielo, le avrebbe dato ragione e non sarebbero mai più tornati sull’argomento.
 
Non vi erano mai più tornati. Ché l’aveva intesa, sì, la bellezza del momento: la quiete dell’ultimo respiro della notte, la sospensione, l’attesa, lo spettacolo dei colori cangianti; ma la dea, quella le era sfuggita.
 
Non questa volta, tuttavia. Non questa volta.
 
C’è tanto di più significativo e più sublime del valore e della gloria…
 
«Maledizione, Grandier, è mai possibile che tu debba sempre avere ragione?!», protestò a bassa voce sollevando i pugni a mezz’aria, mentre le spuntava un abbozzo di sorriso.
 
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André s’era svegliato di buon’ora, determinato a mettere a frutto la giornata e, saldata la stanza alla locanda, se n’era andato nel centro di Martigné-Ferchaud in cerca dell’occorrente per la casa di Noyal.
Aveva deciso che da quella notte in avanti vi avrebbe dormito e la necessità più stringente era divenuta quella di trovare un modo per coricarsi. Procurarsi della paglia al villaggio non sarebbe stato un problema e coprirla con una pezza di levantina o batavia, aveva ragionato, sarebbe bastato ad arrangiare un giaciglio. Delle lenzuola avrebbe fatto a meno, ché tanto la stagione era calda, e così pure del cuscino. Se proprio non gli fosse riuscito di prender sonno senza quest’ultimo, s’era detto che il giustacuore avvolto su se stesso avrebbe giovato alla bisogna.

Acquistò il tessuto e degli scampoli di poco conto, per usarli come stracci. Comprò anche delle candele e un bel poco di liscivia, ché con tutto quel che c’era da pulire era certo che gliene sarebbe servita in quantità, e pure un altro pezzo di sapone, per ogni evenienza, nel caso quello che aveva portato con sé non gli fosse bastato. Da ultimo, caricò Alexandre e se ne andò verso Noyal, meditando lungo il cammino su ciò che ancora gli mancava, ma che avrebbe potuto trovare tranquillamente al villaggio.
 
Per la paglia, affidandosi ai suoi ricordi d’infanzia, aveva immaginato di poter interpellare Monsieur Létang, che nella sua piccola fattoria aveva sempre avuto degli asini[5], che concedeva a nolo per ogni tipo di trasporto. Giungendo a destinazione, fu lieto di scoprire che le sue valutazioni fossero corrette.
Il vecchio Létang, in verità, era venuto a mancare un paio d’anni addietro e del lavoro di famiglia s’occupava adesso il figlio, che non serbava alcuna memoria di André, essendone di qualche anno più giovane. Dopo una breve contrattazione, i due s’accordarono sul prezzo della paglia e su quello di un posto nella stalla per Alexandre, giacché la casa dei Grandier non disponeva di un ricovero. Deciso a provvedere da sé anche per i pasti, André comprò alla fattoria pure un poco di provviste: patate, cipolle, carote, un paio di salsicce, un pezzo di burro, mezza forma di formaggio e una di pane.
Per il trasporto della paglia decise di fare due viaggi conducendo Alexandre a piedi, per non doverlo caricare eccessivamente, ché quello non era bestia da soma e, soprattutto, apparteneva al Generale. Infine lo sistemò dai Létang e se ne tornò verso casa per affrontare il grosso del lavoro.
 
André sei proprio tonto! Come fai a perderti sempre?
 
Davanti all’immagine della propria casa, che gli si presentava minuscola all’orizzonte, gli parve di sentire ancora la voce bambina di Oscar, che lo irrideva perché non gli riusciva di orientarsi a palazzo Jarjayes. I primi tempi non faceva che smarrirsi nell’egregia quantità di sale, camere, ambienti di servizio, scale e corridoi e aveva dovuto subire le lavate di capo della nonna, preoccupata che l’errare disorientato del nipote potesse contrariare i padroni, e le ripetute beffe dell’amica. Qualche volta, a dire il vero, aveva provato a giustificarsi, spiegando a Oscar che il posto in cui aveva vissuto fino ad allora sarebbe entrato tutto intero più d’una volta nel salone di rappresentanza della dimora del Generale, ma il diavoletto biondo aveva creduto che la stesse prendendo in giro, poiché, come tutti i bambini, immaginava vere solo le cose che aveva visto coi propri occhi o i mostri e le creature fantastiche. L’esistenza di una casa di pietra di tre stanze un poco ristrette era per l’Oscar d’allora più implausibile dell’ippogrifo.

Pensò che gli sarebbe piaciuto mostrargliela un giorno quella casa, angusta e povera com’era, ché non s’era mai vergognato di chi fosse e da dove venisse. A spiacergli era solo la divaricazione irriducibile che la differenza di rango imponeva, non la prospettiva che in quel mondo mai avrebbe potuto avere per sé più di una casa di pietra di tre stanze un poco ristrette. Se non potesse spiacere nemmeno a Oscar, invece, quello era tutt’altro discorso; ché nemmeno riusciva a figurarsela in un ambiente tanto spoglio, dove l’oro dei suoi capelli sarebbe parso abbacinante. No, si disse, quello non sarebbe mai potuto essere un posto degno di lei: costringerla lì sarebbe stato come soffocare una stella in una scatola. Ma cosa avrebbe mai avuto da offrirle André Grandier, a parte quelle misere pietre, il proprio cuore velleitario e ostinato e la propria vita, che valeva solo quanto vale la vita di un servo? E a lei? A lei sarebbe mai potuto bastare?
 
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A torso nudo, la pelle lucida di sudore, Paul Barbé lo trovò seduto sul muretto a secco, piegato sugli avambracci con le mani a penzoloni tra le cosce, a prendere un poco d’aria per ristorarsi dalle fatiche delle lunghe ore di pulizia. La carezza fresca della brezza del tardo pomeriggio, che gl’asciugava addosso gli umori, gli dava finalmente un caritatevole sollievo.  

«Hai deciso di scandalizzare tutte le donne del villaggio? Non ti facevo così sfacciato…», lo apostrofò scherzosamente l’amico per palesare la propria presenza.
«Buona sera, Paul», rispose fiacco André.
«Hai finito?»
«Per oggi di sicuro… non ho più la forza di alzare un dito…»
«Vedi di alzare il sedere da qui, invece, e di renderti presentabile: adesso vieni a casa con me! Ricorda che mi ha dato la tua parola…», lo incastrò rammentandogli la promessa fatta. Poi l'afferrò per un braccio e lo tirò su con uno strattone.
«Ho capito, ho capito… vengo… concedimi solo un momento per darmi una sciacquata e vestirmi…», cedette rassegnato avviandosi verso l’interno della casa.

Frattanto che André si ricomponeva, Paul Barbé constatò il cambiamento delle condizioni rispetto al giorno precedente: «Certo che l’hai tirata via un bel po’ di sporcizia!»
«Magari, Paul! Ho giusto dato una pulita superficiale, poi mi sono dedicato alla canna fumaria e mi è passato tutto il pomeriggio… ne avrò ancora almeno per un paio di giorni, prima di poter dire d’aver finito…»
Una volta che ebbe terminato di lavarsi ed ebbe indossato una camicia pulita, André afferrò il giustacuore. Paul al vederlo lo fulminò: «Metti via quella roba: non vai mica alla reggia! Stai solo venendo da me a bere un bicchiere di vino…  Piuttosto, allacciati un po’ di più la camicia, ché mia figlia è una ragazza innocente!»
André alzò le mani per scagionarsi dall’implicita accusa: «Non è mia intenzione turbarla, non temere. Pensa che, se mi avessi lasciato indossare il giustacuore, mi sarei messo perfino lo jabot…»
«Lo che?»
«Questo Paul…», gli disse estraendolo da una tasca della giacca e mostrandoglielo.
«Ah, ho capito: il bavaglino!»
«Sì, Paul, il bavaglino…», confermò André divertito.
«Se mai ti presenterai a casa mia con quel coso al collo, non ti farò entrare», lo minacciò.
«Lo terrò a mente.»
«Adesso se vossignoria ha finito d’incipriarsi andiamo, ché anch’io ho lavorato tutto il giorno e non vedo l’ora di riposarmi un momento», lo incalzò Paul Barbé.
«Andiamo!», assentì il giovane Grandier.
 
La casa dei Barbé non era molto distante e la raggiunsero che il sole non era del tutto calato. Mentre erano ancora di fuori sull’uscio, Paul chiamò con voce stentorea: «Clémence!»
Un cozzare attutito di stoviglie seguito da passi leggeri e veloci e una fanciulla sui diciassette o diciott’anni s’impalò loro davanti. Nel vedere André, vergognosa nascose rapida le mani dietro la schiena.
«Bietole da orto?», domandò cordiale il giovane, che nondimeno aveva fatto in tempo a intravedere il rossore intenso che le imbrattava le dita. L’altra non rispose, restandosene perfettamente inerte come la moglie di Lot.[6]
«Iniziamo bene! Che figure mi fai fare, figlia mia…», la canzonò il padre rimarcando le parole col roteare d’una mano, «Saluta almeno, Clémence!». Poi rivolto ad André: «Non farci caso… la sua povera mamma non ha mancato di farle la lingua e, quando vuole, c’è perfino da doverla pregare di zittirsi…»
«Monsieur…», mormorò allora la ragazza accennando un inchino.
«Di male in peggio! Deve averti scambiato per il re di Francia…», sbuffò Paul Barbé portandosi il palmo alla fronte e scuotendo il capo ostentando rassegnazione.
«Buona sera, Clémence. Chiamami semplicemente André», la incoraggiò questi, tagliando corto per evitare che il padre della ragazza infierisse oltre.
 
Paul allora fece strada e lo invitò a sedersi al tavolo. «Clémence, porta due bicchieri!», comandò alla figlia.
Quando giunse ciò che aveva chiesto, si voltò verso la dispensa e ne estrasse un fiaschetto. «Non sarà come le cose da signori che si bevono dove stai tu…», mise le mani avanti, «ma è quello per cui qui ci rompiamo tutti la schiena ogni giorno. Ed è anche il vino di tua madre, ché Dio lo sa quanto ha sgobbato in vigna fin da bambina! E pure il tuo – perché no? – ché ci sei venuto anche tu per un po’ con noialtri tra i filari. Quindi vedi di fartelo piacere!», lo ammonì.

André sollevò il bicchiere che gli fu offerto e quasi con emozione osservò il liquido granato all’interno. Socchiuse gli occhi e ne respirò l’aroma intensamente fruttato, prima di berlo e scoprirne il gusto vagamente acerbo. Un vino giovane, leggero, piuttosto astringente e un poco disarmonico. Un vino semplice, adatto a Noyal.

Nel frattempo Clémence continuava a starsene in piedi immobile e muta, visibilmente imbarazzata per la visita inattesa e il disordine in cui versava la cucina, nella quale fino a poco prima era intenta a preparar la cena. Vuotato il bicchiere, guardandosi attorno le vide André, in una ciotola sulla credenza, le barbabietole rosse. Facendo un cenno col capo alla fanciulla per indicarle: «Ho indovinato!», disse con una giocosa inflessione trionfante. E quella finalmente sorrise.
 
Paul non aveva mentito. Ben proporzionata, i lineamenti armoniosi, gli occhi castani illuminati da pagliuzze dorate, i capelli d’un biondo caldo, quasi ramato, e una piacevole spruzzata di lentiggini sulle gote colorite, Clémence somigliava vistosamente alla madre ed era davvero molto graziosa. Di quella onesta grazia quotidiana che fa venir subito voglia di casa.

Nulla a che vedere, notò André, con l’elaborata appariscenza delle dame di Versailles e nemmeno con l’avvenenza smaliziata delle giovani domestiche, cui gli anni di servizio, presso dimore in cui non di rado erano costrette a metter a disposizione non solo le proprie braccia, avevano sottratto ogni sogno e ogni rossore. Nulla a che vedere, soprattutto, con la bellezza austera, affilata e impervia di Oscar, sempre cangiante, sempre animata: ora dolce, ora fiera, ora placida, ora sanguigna, ora accessibile, ora remota… e in ogni attimo per lui immancabilmente invischiante.
 
Se solo Oscar sapesse d’essere così bella!
 
Per sua fortuna, pensò con egoistico sollievo, non l’aveva mai scoperto, altrimenti l’avrebbe già perduta da tempo. Ché allora chi avrebbe potuto impedirle d’abbrancare qua e là le delizie casuali della vita ed elargirle a propria volta a piacimento in quel grande mare di depravazione che era la corte francese? E cosa sarebbe stato per lei in quel caso André Grandier – bretone dell’entroterra, roturier, servo, ragazzo – davanti a quelle infinite possibilità? Ancor meno del pressoché niente ch’era adesso…
 
«Perdonami, André, se continuo a preparare la cena, altrimenti non sarà pronta in tempo», si scusò timidamente Clémence, distogliendolo dal flusso dei propri pensieri.
«Di’, scommetto che tu non ceni più al tramonto, non è vero?», gli domandò Paul.
«In effetti, no. I ritmi a palazzo Jarjayes non sono quelli della campagna…», ammise. «Ma questo non vuol dire che non mi alzi anch’io poco dopo l’alba. Non dimenticare che resto pur sempre un servo…», aggiunse come a discolparsi di condurre una vita più molle.
«E cos’è che fai tutto il giorno? Père Hervé dice che sei l’attendente di un ufficiale… ma io non lo so mica che vuol dire! Cosa fai lucidi stivali e strigli cavalli?»
«Sì, grosso modo è così…»
«E ti serviva d’imparare il latino per farlo? Sono proprio strani i nobili! Non lo sanno quelli là che l’ignoranza non sciupa il cuoio?», replicò Paul Barbé con il tono di chi, invece, è un’arca di saggezza e d’esperienza.

André, i gomiti puntati sul tavolo, scoppiò a ridere, nascondendo il volto nei palmi delle mani nel tentativo di non risultare oltremodo sguaiato, per rispetto a Clémence. Intimamente era lieto che l’amico fosse niente affatto impressionato dal suo lavoro e glielo facesse presente con tale sfrontatezza. Era una cosa che lo faceva sentire a proprio agio, tra pari, come di rado gli capitava. Ché era fin troppo avvezzo a percepirsi in difetto tra gli aristocratici, così come a sentire tra la gente del popolo il senso di colpa per i privilegi di cui godeva. Rizzò nuovamente il capo, catturò il labbro inferiore tra gli incisivi per riuscire a placarsi, soffocò ancora un paio di risolini e finalmente rispose: «Non ci crederai, ma faccio anche dell’altro oltre a prendermi cura di stivali e cavalli. Perfino cose per le quali è richiesto di saper leggere e scrivere! Però hai ragione, forse il latino avrebbero potuto risparmiarmelo…»

Non ebbe il coraggio di rivelare a Paul che aveva ricevuto la medesima istruzione di un aristocratico e, in verità, gli avevano fatto studiare addirittura un poco di greco.
 
La conversazione proseguì vivace e irrorata da un altro paio di bicchieri per una buona mezz’ora. Paul gli chiese notizie della nonna e gli raccontò con fierezza dei suoi tre nipoti che, ci tenne a sottolineare, non erano nemmeno lontanamente bassetti e gracili com’era stato il loro padre da bambino. André provò grande tenerezza a sentir l’altro parlare dei figli di Faustine: l’unico argomento, notò, sul quale a Paul Barbé non ardesse la consueta impellenza d’essere brusco o di fare battute di spirito. E dovette confessare a se stesso che lo pizzicava il pungolo dell’invidia nell’ascoltare quegli aneddoti di famiglia.
 
Nel mentre Clémence non aveva cessato un istante di spignattare. Quando la stanza si riempì di un appetitoso aroma di lardo rosolato, per Paul fu ovvio invitare l’ospite a trattenersi con loro per la cena. Ma questi declinò gentilmente l’offerta, spiegando di non volerli incomodare e di sentire il bisogno di mettersi presto a letto. Il più anziano, che aveva visto l’interno della casa e prima e dopo l’intervento di André, non insistette, figurandosene agevolmente la stanchezza.

Prima che potesse congedarsi, tuttavia, Clémence con un velo d’imbarazzo gli consegnò una specie di fagotto rigido e caldo. «Non è bene andare a dormire a stomaco vuoto», commentò semplicemente. Il giovane la guardò con aria interrogativa e quella spiegò, dolce e spiccia al contempo: «La cena. Portala con te. Così potrai mangiare subito e coricarti.»

André fu toccato profondamente dalla premura previdente e materna del gesto, che gli giungeva tanto più gradito giacché si sentiva davvero sfinito e probabilmente sarebbe sul serio andato a letto digiuno. «Ti ringrazio, Clémence. Sei molto gentile», le disse con un sorriso aperto e riconoscente, che la fece un poco arrossire. Quindi ringraziò anche Paul, augurò a entrambi una buona notte e se ne andò verso casa, emozionato come se recasse tra le mani un carico prezioso.

 
 
 
N.d.A. A voi che ancora resistete a leggere questa storia e specialmente a voi che avete la bontà perfino di commentarla, posso solo dire l’ennesimo grazie.

Al momento il lavoro mi pressa più del solito e le bozze che avevo già quasi pronte ormai sono pressoché esaurite, per cui con ogni probabilità gli aggiornamenti diverranno un po’ più sporadici rispetto al passato. Spero non me ne vogliate!
 
[1] Nella liturgia delle ore la compieta si recita prima di andare a dormire e l’ora nona equivale alle 15.00.
[2] L’idea di Oscar tormentata da sogni truculenti su Fersen al fronte l’ho tratta dal gustosissimo Giù al Nord della sempre commendevole Dorabella27. Andate e leggete (se non l’avete già fatto): non ve ne pentirete!
[3] Rododáktylos Éos, vale a dire Eos dalle dita rosee (o di rosa, a seconda delle traduzioni), è l’epiteto che Omero attribuisce alla dea dell’aurora nell’Iliade e nell’Odissea.
[4] In realtà, non so se e quanto fosse diffuso lo studio del greco tra le classi dominanti della Francia del XVIII secolo. Pertanto, nel caso fosse una sonora castroneria dal punto di vista storico attribuire la conoscenza di questa lingua a Oscar e André, chiedo venia e invoco – com’è nel mio diritto, in quanto autore – la sospensione dell’incredulità da parte del lettore.
[5] Poiché ne è uno degli alimenti principali, normalmente dove ci sono asini c’è anche la paglia.
[6] Secondo il libro della Genesi (19,26), la moglie del patriarca Lot dopo aver visto Sodoma divenne una statua di sale.

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