I segreti di Lunyan - Il dono degli dei

di Nolowende
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Il figlio della profezia ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno - Canzoni tra gli alberi ***
Capitolo 3: *** Capitolo due - L'Aquila e la Tigre ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre - Il fulmine del nord ***
Capitolo 5: *** Capitolo quattro - Il sacrificio ***
Capitolo 6: *** Capitolo cinque - Lo straniero ***



Capitolo 1
*** Prologo - Il figlio della profezia ***


Anno 2836 dell'Era della Caduta
 
Nel silenzio della sera, il suono della cannula che scorreva sulla pergamena era l'unico a permanere, insieme alla pioggia che continuava a cadere, leggera ma fredda e incessante, all'esterno. Alla luce della candela, Kniriv osservava le lettere prendere forma sotto i propri occhi.
 
Il suo apprendista – se mai ne avesse avuto uno – avrebbe avuto bisogno di quel volume, un giorno. La loro arte era tanto utile quanto difficile da imparare, e il popolo di Othanar aveva bisogno di uomini come loro, in grado di curare le afflizioni del loro corpo, così come aveva bisogno di ognuna delle persone nel tempio.
 
Il quinto dio avrebbe provveduto alle loro anime. Lui doveva solo fare il proprio dovere come suo emissario.
 
Tracciò un'altra linea, cantando l'inno che aveva intonato con i suoi confratelli poche ore prima tra sé e sé, a bassa voce. Non aveva timore delle malattie che stava descrivendo su quelle pagine. Avrebbe salvato Othanar dal loro assalto, come aveva giurato di fare quando era entrato al servizio di Falham molti anni prima. In cambio, il suo dio avrebbe protetto lui e tutti gli uomini, come aveva sempre fatto.
 
Un suono proveniente dall'esterno interruppe i suoi pensieri. Il sacerdote smise di cantare, fermando la mano in tempo per evitare di sprecare inchiostro e rovinare il prezioso supporto.
 
Qualcuno stava battendo contro la porta esterna.
 
Per i primi istanti, Kniriv non si mosse, sperando che qualcun altro potesse aprire il portone al posto suo. Aveva ancora del lavoro da svolgere prima che arrivasse l'alba del giorno seguente, ed era sicuro che alcuni dei suoi confratelli fossero ancora svegli.
 
Ma chiunque stesse bussando alla porta si stava facendo sempre più frenetico. Appoggiando il volume e la cannula, Knivir si alzò dal suo scrittoio, sbuffando a bassa voce. Sembrava che non avesse altra scelta che andare ad aprire.
 
Nell'istante in cui poggiò la mano sulla maniglia bronzea, si chiese chi si trovasse dall'altra parte dell'uscio. Forse era un vagabondo in cerca di riparo, o un malato bisognoso di cure. Se si trovava di fronte al tempio, invece di restare in casa, al sicuro dalla pioggia, doveva esserci un motivo serio.
 
E lui doveva fare il suo dovere. Esitò solo un istante prima di aprire.
 
L'uomo di fronte ai suoi occhi non sembrava povero o malato. Nonostante il pallore del suo viso e il tremito che gli percorreva le braccia, la sua postura era eretta. I suoi abiti, tinti di viola, sembravano abbastanza pesanti da proteggerlo dal freddo. 
 
Ma gli occhi, di un verde intenso, che lo fissavano oltre una coltre di lunghe ciocche rosse bagnate dalla pioggia sembravano colmi di terrore.
 
Kniriv si sforzò di sorridere. “Avete bisogno di aiuto?” domandò con tutta la cortesia di cui era capace. Forse i suoi servigi non sarebbero stati necessari, e sarebbe presto potuto tornare ai suoi studi.
 
L'uomo deglutì prima di riuscire a parlare. “Mi serve uno dei vostri guaritori” cominciò con voce tremante, e il sacerdote fece del suo meglio per nascondere il proprio disappunto. “È per mia moglie... sta partorendo. Ho paura che...”
 
Kniriv trattenne un sospiro. Aveva assistito a molti parti da quando era entrato nel tempio, e la maggior parte si era conclusa senza che una vita andasse perduta. Aveva anche incontrato abbastanza padri ansiosi da sapere come comportarsi con lo sconosciuto.
 
Senza smettere di sorridere, fece un passo indietro. “È il vostro primo figlio?” chiese distrattamente. L'uomo annuì. “Che Vizma ci aiuti” aggiunse a bassa voce. Kniriv si voltò e rientrò nel tempio. Avrebbe dovuto immaginarlo. L'altro sembrava ancora troppo giovane e agitato perché non fosse la prima volta in cui si trovava in quella situazione. “Torno subito” annunciò. 
 
Mentre correva a prendere i propri strumenti, lanciò un'occhiata di rammarico al libro che giaceva incompiuto sul suo scrittoio. Aveva sperato di trascorrere una serata più tranquilla, ma in poche ore sarebbe potuto tornare, e tutto sarebbe tornato come prima. 
 
La nascita di un bambino in più, in fondo, non era nulla di speciale.
 
Tirò il cappuccio della veste sul capo e uscì dal tempio. Lo sconosciuto lo stava ancora aspettando, guardandosi intorno inquieto. “Possiamo andare” lo informò Kniriv, e l'altro non si voltò nemmeno nella sua direzione prima di incamminarsi lungo la strada.
 
Il sacerdote tentò di seguirlo, a passi molto più lenti. Poteva capire la fretta dell'altro, ma non aveva intenzione di rischiare una caduta. C'erano già stati abbastanza inconvenienti quella notte. 
 
Non camminarono per più di una decina di minuti, svoltando appena due volte. Almeno, se fosse dovuto tornare al tempio a chiedere l'aiuto di un altro guaritore o a cercare una nutrice, non sarebbe stato lontano. Sperava di poter rientrare definitivamente in poche ore.
 
Affrettò il passo e raggiunse l'altro uomo, che si era fermato di fronte a una casa, piccola ma di solida pietra. Quando la porta fu spalancata, c'era una figura ad attenderli sull'uscio.
 
Mentre il suo compagno faceva un passo indietro, Kniriv osservò la donna che aveva di fronte. Appoggiata alla parete, sembrava più piccola di quanto non dovesse essere. Aveva la carnagione ambrata e gli occhi allungati tipici degli abitanti di Uaxhakil, ma lui se ne stupì solo per un istante. Era raro che coloro che vivevano sotto l'impero lo lasciassero, ma prima che scoppiasse la guerra molti commercianti si erano stabiliti nella capitale e nelle città della costa. Non aveva mai aiutato nessuna delle loro donne a dare alla luce i propri figli, ma non sarebbe stato un ostacolo.  
 
Si concentrò piuttosto sulla sua espressione sofferente e sulla mano premuta con forza sul ventre. 
 
“Yuzin” mormorò l'uomo che lo aveva accompagnato. “Cosa stai facendo?” “Non stavi tornando” replicò lei a denti stretti, irrigidita dal dolore. Kniriv li interruppe, porgendo il braccio alla donna perché si reggesse a lui. Non riuscì a trattenere una smorfia quando lei lo strinse con troppa forza. Il marito sarebbe dovuto essere grato di non essere al suo posto.
 
Si voltò verso di lui. “Aspettatemi qui.” “No” gemette a fatica lei, girandosi a sua volta per cercare gli occhi del proprio sposo. “Voglio che mi stia vicino...” Kniriv riuscì a trattenere un sospiro. “Non ce n'è bisogno” rispose, cercando di sembrare rassicurante. “Potrò essere più concentrato se siamo solo in due.” La giovane lo guardò in silenzio, e quando una smorfia le segnò il viso il sacerdote non riuscì a capire se fosse a causa delle sue parole o delle doglie.
 
La vide scambiare un ultimo sguardo con il marito – e scorse un lampo di angoscia negli occhi verdi dell'uomo – prima di provare a camminare. 
 
Mentre lasciava che lei lo guidasse verso il letto, sperò che, come quasi tutte le altre nascite a cui aveva assistito, anche questa si concludesse senza difficoltà e senza lutti.
 
                                                                                                                 …
 
Kniriv stava iniziando a pentirsi di avere accettato la richiesta dello sconosciuto.
 
Era appena l'alba, e lui era esausto. Aveva trascorso le ultime ore a cercare di tenere fuori dalla stanza l'uomo, ignorando le sue proteste, e ad ascoltare i lamenti della donna, sempre più flebili mentre perdeva le energie. Aveva manipolato il suo corpo abbastanza volte da essere quasi sicuro che il bambino fosse nella posizione giusta, ma non era servito a farlo progredire abbastanza velocemente. Lei aveva smesso di urlare dopo l'ultima manovra, limitandosi a mormorare tra sé parole che Kniriv, nonostante gli anni in cui aveva studiato la lingua di Uaxhakil, non era riuscito a comprendere quasi per nulla.
 
Alla luce del sole nascente che filtrava dalla finestra, la donna sembrava terribilmente pallida. I suoi occhi brillanti di lacrime erano fissi sul soffitto, ma non sembravano vederlo veramente. Ma, anche se si muoveva appena, stava ancora respirando. 
 
Continuando a mormorare parole di incoraggiamento senza troppa convinzione – non era neanche sicuro che lei potesse capirlo – Kniriv si preparò mentalmente ad aspettare ancora ore prima che fosse tutto finito. Doveva solo sperare che la sua paziente fosse in grado di resistere fino a quel momento.
 
Quando – dopo un tempo che parve interminabile – la sentì emettere un gemito strozzato e si abbassò per vedere la testa del bambino che iniziava a diventare visibile, si rese conto che ci sarebbe voluto meno tempo del previsto.
 
Stava per alzarsi per andare a chiamare il marito della donna, ma cambiò idea quasi subito. Era meglio che rimanesse a controllare la situazione, e lei aveva bisogno di non rimanere sola in quel momento.
 
Si limitò a guardare mentre, con straziante lentezza, l'ultimo atto della nascita si compiva. Per lui era diventato uno spettacolo abbastanza consueto da essere insignificante, ma per la donna che lottava e piangeva al suo fianco non lo era, e continuò a incoraggiarla e a sussurrare suggerimenti, offrendole una mano perché avesse qualcosa a cui aggrapparsi al di fuori del dolore.
 
Lo aveva visto accadere decine di volte, ma non poté trattenere un sospiro di sollievo quando il neonato scivolò fuori dal corpo della madre, piangendo con forza. Aveva iniziato a temere che non vivesse abbastanza da prendere il primo respiro, dopo tutto il tempo che era stato necessario a farlo venire alla luce. Invece, anche quella volta gli dei erano stati benevoli.
 
Quasi meccanicamente, Kniriv raccolse le sue pinze e recise il cordone ombelicale. Prese il bambino tra le braccia e si preparò a porgerlo alla madre, cercando le parole per congratularsi con lei, anche quando tutto ciò a cui riusciva a pensare era al meritato riposo che lo attendeva.
 
Una scossa sembrò percorrerlo nell'istante in cui toccò il neonato. Il sacerdote rimase paralizzato, e per un istante il mondo esterno parve sparire.
 
Sapeva che Falham gli stava parlando. Quando era entrato nel tempio, era stato avvertito che un giorno avrebbe potuto ricevere un messaggio dal dio. Non si era aspettato una simile esplosione di luce, un simile calore. La voce nella sua testa non era fatta di suoni e parole, ma lui la comprendeva.
 
Quel messaggio poteva significare una cosa sola.
 
La donna al suo fianco emise un gemito, riportandolo alla realtà. Senza lasciare andare il bambino, Kniriv abbassò lo sguardo sulle lenzuola su cui giaceva la puerpera, e sul rosso vivido del sangue che le macchiava, sempre più abbondante.   
 
Volle credere che fosse solo il segno del distacco della placenta, ma aveva abbastanza esperienza da sapere che non era normale.
 
Lei tese le braccia verso di lui, e Kniriv si chiese se fosse consapevole di quello che le stava per accadere. Non riuscì a dire nulla. Si limitò a lasciarle il bambino e ad andare a chiamare il marito.
 
L'uomo entrò nella stanza quasi correndo. Il guaritore scorse il modo in cui i suoi occhi si illuminarono e le sue labbra si incurvarono quando vide il bambino – poi la sua espressione che cambiava bruscamente mentre si rendeva conto della quantità di sangue che sua moglie stava perdendo.
 
Kniriv uscì dalla stanza senza guardarlo, lasciandoli soli. Al di là della porta, poteva sentire le loro voci – quella della donna sempre più flebile, quella dell'uomo che a poco a poco perdeva ogni parvenza di calma – ma non riuscì a distinguere le parole.
 
Presto rimase solo una voce. Dal modo in cui si spezzò, Kniriv fu quasi sicuro di avere individuato con certezza l'istante in cui lei aveva smesso di respirare.
 
                                                                                                                …
 
Non osò rientrare nella stanza. Erano passati mesi dall'ultima volta che una delle sue pazienti era morta in quel modo, e ricordava ciò che aveva provato vedendo il cadavere. Non voleva ripetere l'esperienza ora. Chiudendo gli occhi, cercò di ricordare che almeno il bambino era sopravvissuto e che non sembrava troppo piccolo o debole per passare indenne i primi mesi di vita.
 
Già, pensò risollevando le palpebre mentre un pensiero lo trafiggeva. Il bambino.
 
Il messaggio di Falham lo aveva raggiunto – proprio lui aveva ottenuto quel privilegio e quella benedizione. Sapeva che ciò che aveva udito era vero. Sapeva chi sarebbe diventato il piccolo che aveva appena visto venire alla luce.
 
Il suo ordine aveva aspettato quel momento per troppi anni, e lui era stato presente quando la loro attesa aveva avuto fine.
 
Doveva parlare con il padre del bambino. Non poteva svelare il loro segreto, ma aveva bisogno di convincerlo dell'importanza del loro intervento. Falham non avrebbe tollerato che fallissero ancora una volta.
 
L'uomo riemerse dalla stanza dopo un tempo che parve infinito. I suoi occhi continuavano a versare lacrime, ma erano fissi e spenti. Stringeva a sé il neonato come se temesse che gli venisse strappato via da un momento all'altro. 
 
Kniriv si schiarì la voce, sperando di attirare la sua attenzione. “Mi dispiace per vostra moglie” iniziò. L'altro voltò la testa nella sua direzione, guardandolo con scarso interesse, ma non disse nulla. 
 
Il guaritore prese fiato. Doveva scegliere bene le parole. Aveva un compito da svolgere – e quando era diventato novizio non aveva mai creduto che sarebbe stato lui a esserne incaricato, ma ora che era successo doveva agire. La salvezza dell'ordine dipendeva da ciò che stava per dire. “Devo parlarvi” cominciò. “A Lunyan... c'è qualcosa che insegnano a tutti noi. Ed è un'abilità che oggi mi è tornata utile.”
 
Dopo un attimo di esitazione, si avvicinò all'uomo e gli sussurrò la sua proposta.
 
L'altro reagì più violentemente di quanto Kniriv si fosse aspettato. Si ritrasse da lui, facendo un passo indietro e avvicinando ancora di più il neonato al petto. “Assolutamente no!” Il sacerdote lo fissò battendo le palpebre, credendo per un istante di avere solo immaginato le sue parole. Nessun uomo ragionevole avrebbe potuto rifiutare la sua offerta.
 
“Ma... è un privilegio” tentò di protestare. Il suo interlocutore distolse lo sguardo da lui, abbassandolo sul figlio. “Non è una scelta che ho intenzione di compiere” ribatté freddamente, anche se la sua voce tremava ancora. “Non sta a me decidere.”
 
Kniriv strinse le labbra ed espirò, cercando di calmarsi. Aveva sperato di essere abbastanza convincente. Lo sconosciuto non aveva idea di cosa potesse significare il suo rifiuto.
 
Ma non doveva essere impaziente. Forse avevano solo bisogno di attendere per qualche tempo. Lui e i suoi compagni lo avrebbero convinto a cambiare idea e a favorire il piano che avevano delineato da secoli.
 
“Molto bene” replicò con calma. “Farò mandare una nutrice dal tempio.” Non aspettò che l'altro reagisse – anche se tutta la sua attenzione sembrava concentrata sul piccolo. Si voltò e attraversò l'uscio. Fuori non pioveva più, e la luce rosata del sole nascente stava iniziando a dissipare il grigiore del cielo. Mentre percorreva la via per il tempio, i suoi passi risuonarono solitari nella strada.
 
Non doveva soffermarsi troppo sul proprio fallimento. Presto, avrebbero ottenuto ciò che volevano. Era solo questione di tempo. 

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Capitolo 2
*** Capitolo uno - Canzoni tra gli alberi ***


Anno 2855 dell'Era della Caduta
 
La radura era apparentemente vuota. A parte i suoi passi sull'erba e il frinire delle cicale, nulla faceva pensare ad alcuna presenza, umana o meno. Non erano molti coloro che osavano addentrarsi tanto a fondo nella foresta, anche in un giorno così caldo e luminoso.
 
Tjaryk sorrise. Percorse a passi leggeri lo spazio che lo divideva dall'alto ontano che troneggiava al centro dello spazio erboso, poi si sedette al suo fianco, appoggiando con delicatezza l'arpa accanto a sé. “Puoi uscire, ora. Non c'è nessuno.”
 
Il tronco dell'ontano si increspò come la superficie di un lago infranta da una pietra. Il legno parve deformarsi, protendendosi verso l'esterno e assumendo infine le sembianze di un volto di fanciulla. A poco a poco, tutto il corpo emerse dall'albero, diventando una flessuosa figura di carne e sangue. Solo le orecchie appuntite e le punte delle dita che ancora tardavano a lasciare la consistenza del legno avrebbero potuto tradire la sua vera natura.
 
Una volta completamente libera dall'albero in cui si era rifugiata, la ninfa si sedette accanto al ragazzo e gli rivolse un sorriso dolce. “Credi che ci raggiungeranno presto?” domandò con voce melodiosa.
 
Lui le passò un braccio intorno alle spalle, sentendo il suo calore mentre lei gli si appoggiava contro. “Lo spero” si limitò a rispondere. Aveva a disposizione solo poche ore prima che il sole calasse e lui fosse costretto a tornare al tempio, e non aveva intenzione di sprecarle.
 
Presto non avrebbe più avuto il tempo di dedicarsi a qualcosa di diverso dal proprio dovere.
 
Trattenne un sospiro. Avrebbe trovato il modo di continuare i propri piccoli passatempi. Fintanto che si fosse mostrato diligente e leale, i sacerdoti non gli avrebbero negato qualche momento di svago.
 
Quantomeno, Kniriv non gli avrebbe vietato di rivedere Tachneri, pensò voltandosi verso di lei per stringerla a sé. I loro discendenti sarebbero nati con la magia, e sarebbero potuti diventare autorevoli sacerdoti se lo avessero desiderato. Non era quello il motivo per cui desiderava tenerla al proprio fianco, ma non importava, finché l'ordine non si fosse opposto. 
 
La ninfa sollevò lo sguardo su di lui, e Tjaryk si chiese se avesse intuito i suoi pensieri, finché il suono di altri passi che si avvicinavano non costrinse entrambi a rivolgere l'attenzione ai bordi della radura. L'umano si irrigidì, allungando una mano verso l'arpa, pronto a scattare in piedi.
 
Si rilassò quando riconobbe le due figure che si stavano avvicinando alla radura e una delle due sollevò una mano per salutarlo.
 
Tachneri si sciolse dall'abbraccio di Tjaryk e scattò in piedi, raggiungendo a passi leggiadri il ragazzo e la ragazza che erano apparsi tra gli alberi. Lei reggeva un liuto e i suoi occhi scuri scintillavano raggianti mentre salutava l'amica.
 
“Vemrakin.” Tjaryk salutò con un cenno del capo il giovane di fronte a lui. “Siete in ritardo.” L'altro sorrise, passando una mano tra i ricci voluminosi che gli ricadevano sugli occhi. “L'importante è che siamo qui. Sarebbe più semplice se potessi venire in città” lo rimbeccò, senza perdere la luce gentile che ardeva nel suo sguardo.
 
Tjaryk si trattenne dall'alzare gli occhi al cielo. Sapevano entrambi troppo bene che non c'era alcun luogo in cui potessero vedersi, al di fuori delle profondità della foresta. 
 
In città, per lui sarebbe stato troppo facile dare nell'occhio. Forse avrebbe potuto provare a fingersi uno degli abitanti di Uaxhakil che frequentavano regolarmente la capitale, ma il rosso rame dei suoi capelli avrebbe attirato fin troppa attenzione. E, se anche fosse riuscito a mascherare il proprio aspetto, sarebbe stata la sua voce a svelare la sua identità, se non avesse fatto attenzione.
 
E all'uomo che lo aveva cresciuto con tanta dedizione non avrebbe fatto piacere sapere che poteva usare i propri poteri per scopi banali come quello che l'aveva condotto da Vemrakin e Calyktsi.
 
Ma, finché avesse potuto godere di quelle occasioni, non le avrebbe sprecate. Tornò a sorridere e strinse l'arpa. “Iniziamo?” 
 
Calyktsi distolse lo sguardo da Tachneri e iniziò ad accarezzare con delicatezza le corde del liuto. La melodia sovrastò il canto degli uccelli e lo stormire delle fronte, dapprima dolce, poi più cadenzata e decisa, mentre l'arpa tra le mani di Tjaryk prendeva vita.
 
Mentre la sua voce limpida si mescolava a quella più baritonale di Vemrakin, lui sentì che anche il canto presto sarebbe diventato vivo.
 
Avevano intonato molte volte quella canzone. Era stata la più semplice da imparare quando avevano deciso di suonare insieme. Non esisteva abitante di Othanar che non l'avesse imparata dai propri genitori durante l'infanzia, ripetendola finché la saggezza che conteneva non era diventata una chiara consapevolezza destinata a permanere fino alla fine dei tempi.
 
Nessuno di loro doveva dimenticare perché Lunyan era caduta.
 
Mentre continuava a cantare, Tjaryk permise alle immagini di prendere forma di fronte ai loro occhi. I bianchi edifici di Lunyan e la saggezza che contenevano, la sabbia candida su cui erano sorti millenni prima, le piccole, agili navi volanti che solcavano il cielo, e la grande torre che dominava la città, nel proprio splendore quasi insostenibile, presero il posto della foresta, e con loro gli uomini che l'avevano popolata e che, con gli occhi fissi sulle meraviglie del cielo, percorrevano sereni le sue vie, ignari del destino che li attendeva.
 
La canzone giunse alle ultime strofe, e lui guardò mentre la città e i suoi abitanti venivano avvolti e consumati dalla luce che li aveva strappati al mondo. 
 
Ancora una volta, mentre la sua voce si spegneva e le immagini svanivano, sentì una fitta allo stomaco. Nessuno avrebbe mai potuto vedere quelle case, o parlare con quegli uomini e vedere la gioia sui loro volti nel sentirli raccontare ciò che avevano scoperto. Tutto ciò che restava nel deserto erano macerie silenziose e una torre solitaria e vuota.
 
Ma era la giusta punizione per coloro che non riconoscevano il potere degli dei.
 
Non doveva dimenticarlo, e non poteva permettere a chi gli stava intorno di dimenticare, o si sarebbero tutti dissolti nel nulla, come l'illusione creata dalla sua voce.
 
Le ultime note del liuto di Calyktsi si spensero. Cercando di reprimere i propri pensieri su Lunyan, Tjaryk tentò di concentrarsi sulle immagini che aveva evocato. Kniriv e gli altri non avrebbero approvato quel modo di usare il suo potere, ma per ora il risultato gli era sembrato abbastanza realistico da lasciarlo soddisfatto.
 
Le illusioni erano state la prima abilità che aveva imparato. Si erano manifestate spontaneamente quando ancora aveva a malapena imparato a parlare, ed erano stati necessari pochi anni perché riuscisse a modificarle e controllarle. Aveva deciso di prendere in mano l'arpa e cominciare a cantare solo per potenziarle, e, da quando negli ultimi anni aveva trovato qualcuno con cui condividerle, aveva compreso che era stata la scelta giusta.
 
Ma non era quello che i sacerdoti desideravano da lui.
 
Ignorò le parole che Calyktsi, Vemrakin e Tachneri si stavano scambiando, intorno a lui, mentre i suoi occhi si perdevano a fissare assenti il tronco dell'albero più vicino, in cui ormai la fessura lasciata dal passaggio della ninfa si era richiusa. Aveva solo pochi giorni prima che la vita che aveva conosciuto venisse mutata. Con l'avvento del suo diciannovesimo compleanno sarebbe cambiato tutto.
 
Una volta che fosse diventato adulto, sarebbe entrato pienamente al servizio del monastero. Era il suo dovere nei confronti di coloro che si erano presi cura di lui, e del dio che aveva lodato ogni giorno da quando era stato in grado di comprendere cosa fosse una preghiera, e non vi sarebbe venuto meno.
 
Gli avevano detto che sarebbe diventato un'ottima spia, capace di andare oltre la barriera delle menti degli uomini. Non ne aveva mai dubitato. Si era addestrato per anni a quello scopo.
 
Ma penetrare quella barriera, inseguire la coscienza di un essere vivente, intrappolarla e svuotarla di ciò che conteneva, o forzarvi immagini e sensazioni che non le appartenevano, non era ciò che voleva. Sapeva che coloro su cui aveva esercitato il proprio potere in quel modo lo avevano meritato. Ma non poteva dimenticare la nausea nel sentirli lottare, mentre la loro paura si riversava in lui.
 
Era il suo dovere. Era nato per quello, e avrebbe obbedito.
 
Tachneri lo sfiorò di nuovo, facendolo sussultare. Si affrettò a riprendere l'espressione sorridente che aveva mantenuto fino a poco prima, ma dal modo in cui gli occhi chiari della ninfa lo fissavano sapeva che almeno lei aveva capito a cosa stesse pensando. 
 
Non aveva motivo di preoccuparsi, in fondo. Quei momenti sarebbero diventati sempre più rari, ma sarebbero rimasti. E lei non avrebbe lasciato il suo fianco.
 
Forse avrebbe dovuto chiederle di sposarlo. La loro unione gli avrebbe consentito di tornare sempre più spesso alla foresta, e ai momenti di musica e serenità che racchiudeva. La sua relazione con Vemrakin e con Calyktsi sarebbe rimasta nascosta e sarebbe sopravvissuta come se non fosse successo nulla.
 
Si rivolse nuovamente alla ragazza umana, che era tornata ad accarezzare le corde del liuto con la mano candida e sottile. Cercò di ricordare la ballata su cui avevano deciso di esercitarsi, e le immagini che avrebbe dovuto suscitare. “Andiamo avanti.”
 
                                                                                                                                              …
 
Tentando di non incespicare tra l'erba alta e le radici, Tjaryk continuò a seguire il torrente verso l'interno della foresta. 
 
Non sapeva perché lei gli avesse chiesto di restare, o di andare così a fondo. Ma non importava. I sacerdoti non avrebbero avuto bisogno di lui quel giorno, e restare lontano dal monastero gli avrebbe evitato ancora per qualche ora le domande inquisitorie di Kyoul. 
 
Scavalcò un tronco caduto, sentendo i licheni che lo coprivano sotto le dita mentre vi si appoggiava. La luce si stava affievolendo. Era troppo presto perché fosse già il tramonto, ma i rami sopra di lui si stavano facendo sempre più fitti.
 
Poteva ritrovare la strada. Gli sarebbe bastato usare la sua voce per interrogare il mondo che lo circondava – e per far crollare qualunque pericolo si mettesse sul suo cammino.
 
“Fermo.” La figura di Tachneri riemerse dall'acqua, e lui la osservò mentre il liquido che la componeva veniva riempito dalla sua forma corporea. Gocce fresche si staccarono dai suoi lunghi capelli quando mise piede nudo sulla riva, punteggiando l'erba.
 
Tjaryk la prese tra le braccia, aiutandola a distaccarsi del tutto dalla corrente. L'aria fredda che la circondava gli procurò un piacevole brivido lungo la schiena. “Perché mi hai portato qui?” Non erano mai arrivati così lontano dalla città.
 
La ninfa lo lasciò andare, allontanadosi di poco per appoggiarsi al possente tronco dell'albero più vicino. Questa volta non vi si immerse. “Mi sembrava un posto più tranquillo. Devo parlarti” iniziò, con tono indecifrabile. Il ragazzo sentì la gola stringersi per un istante. 
 
“Non glielo hai ancora detto, vero? A tuo padre.”
 
Lui tacque. Avevano parlato spesso, negli ultimi mesi, di come potessero assicurarsi di vedersi spesso anche dopo che lui avesse raggiunto l'età adulta. Si era ripromesso fin troppe volte di annunciare la verità sulla loro relazione ai sacerdoti. Era sicuro che almeno Kniriv l'avrebbe accettata. Ma ogni volta che era stato tentato di svelargli la verità, non era riuscito a parlare.
 
Loro sapevano già tutto di lui. Era troppo giovane per avere ricordi di cosa fosse stata la sua vita prima che il monastero lo accogliesse sotto la sua tutela. Lo avevano forgiato fino a renderlo l'uomo che era diventato.
 
Finché avesse potuto continuare ad avere dei segreti, e finché questi non gli avessero impedito di compiere il suo dovere, li avrebbe mantenuti. 
 
“Non ancora” si limitò a rispondere. “Ma lo farò presto, questa volta. Te lo prometto.” Tachneri sollevò un sopracciglio alle sue parole, ma per qualche momento non disse nulla.
 
Iniziò a giocare distrattamente con il ramo che pendeva accanto alla sua testa, lo sguardo distante. “Non voglio perdere ciò che abbiamo” sussurrò infine, con voce quasi impercettibile. Tjaryk tentò di sorridere. “Non succederà.” Sperò di riuscire a convincere anche se stesso, oltre a lei.
 
Nei tre anni trascorsi da quando si erano incontrati per la prima volta, in quella stessa foresta – il giorno in cui lei era emersa dal frassino in cui si era rifugiata quando lo aveva sentito cantare – nei due anni trascorsi dalla prima volta che aveva compreso ciò che provava per lei, avevano creato memorie più dolci di qualsiasi canzone. Troppe perché potessero andare perdute.
 
Non aveva nulla da temere. Un giorno i suoi servigi a Falham e a Othanar lo avrebbero reso rispettato e amato quanto i suoi sacerdoti, e lei sarebbe stata al suo fianco. Tutti avrebbero ammirato il fulgore dei suoi occhi. I madrigali che aveva composto su di lei sarebbero stati cantati da decine di innamorati nei secoli a venire.
 
Il loro futuro non avrebbe incontrato alcun ostacolo. Doveva solo trovare le parole giuste perché i suoi protettori lo aiutassero a realizzarlo. 
 
Distolse lo sguardo, perdendosi nel movimento dell'acqua del torrente. Avrebbe aspettato di compiere gli anni, e di portare a termine il primo incarico che gli fosse stato affidato ufficialmente. A quel punto non avrebbero potuto negargli nulla.
 
Venire a vivere in città per Tachneri sarebbe stato troppo difficile, e certamente non potevano rifugiarsi a Pawýr come avevano fatto molti altri nella loro situazione. Ma la foresta non era così lontana. Avrebbe potuto trovare il modo di vivere lì con lei, e i sacerdoti avrebbero potuto chiedere il suo aiuto in qualunque momento. 
 
Quando Falham avesse chiamato, lui avrebbe risposto.
 
E non avrebbe permesso a nulla, nemmeno ai propri desideri, di impedirglielo.
 
“Tre giorni” rispose a Tachneri, senza voltarsi a guardarla. “Questa volta lo farò. Kniriv sarà ben disposto. E nel peggiore dei casi gli altri saranno indifferenti.” Girandosi finalmente nella direzione della ninfa, le sorrise. “Avrò anche l'età per sposarmi. Se lo vogliamo davvero, potremmo non dover attendere più di qualche mese.”
 
Lei finalmente parve rilassarsi e chiuse la distanza tra loro per abbracciarlo. “So che il monastero ti terrà impegnato” gli sussurrò. “Ma mi basta sapere che non dovrò rinunciare a te.”
 
Senza rivolgerle una risposta, limitandosi ad accarezzarle i capelli, Tjaryk sciolse l'abbraccio e le strinse la mano mentre si preparava a tornare indietro. Lei lo avrebbe accompagnato al limitare della foresta come sempre, e lui avrebbe atteso il momento in cui l'avrebbe potuta rivedere.
 
Erano ancora lontani quando lui notò, ai margini del proprio campo visivo, qualcosa che non ci sarebbe dovuto essere.
 
Si fermò bruscamente, voltandosi di scatto. Tachneri lo chiamò allarmata, ma lui non le rispose, scrutando davanti a sé in cerca di ciò che aveva visto, preparandosi ad attaccare. Non aveva notato la forma abbastanza a lungo da distinguere cosa fosse, ma non avrebbe aspettato che diventasse pericolosa.
 
Eppure non sentiva alcun suono, se non lo stormire delle fronde e il fruscio delle zampe dei piccoli animali che si rifugiavano nelle proprie tane. La luce morente non illuminava altro che i tronchi chiari degli alberi, senza che alcun movimento ne turbasse la quiete.
 
Trasalì quando la vide, ai piedi di un albero. Una figura scura e indistinta, immobile.
 
Si avvicinò cautamente, facendo segno a Tachneri di tenersi lontana, e prese fiato per reagire se fosse stato necessario. Ma la sagoma non cambiò posizione al suono dei suoi passi, rimanendo inerte come se non si fosse accorta della sua presenza.
 
Tjaryk chiuse rapidamente la distanza che li separava, incapace di pazientare oltre, e sussultò quando si trovò a fissare il volto pallido di un uomo. 

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Capitolo 3
*** Capitolo due - L'Aquila e la Tigre ***


Nonostante il vento fosse calmo, e i granelli di sabbia che trasportava troppo pochi per intorbidire la vista del cielo terso e soleggiato, l'aria aveva l'odore metallico delle tempeste. Ynaiz cercò di rilassare i muscoli delle spalle e strinse il pugno, sentendo la forza serpeggiare sotto la pelle.  
 
Sapeva cosa stava per accadere. Lo aveva vissuto molte volte. Eppure, ancora una volta un brivido le corse lungo la schiena mentre scrutava l'orizzonte.
 
Afferrò le redini di Odjaa, accarezzandole le piume del collo. “Sono tutti al sicuro?” domandò, voltandosi mentre riconosceva i passi di Tsaunel alle sue spalle. L'altra annuì, e Ynaiz udì lo stridio del metallo mentre estraeva il pugnale dal fodero. “E continueranno a esserlo, se saremo abbastanza veloci.” 
 
Non rispose. Non era per la propria vita che temeva. Sapeva che quasi certamente sarebbe sopravvissuta. Ma non poteva permettere che fossero gli innocenti e gli indifesi a pagare per la furia dei morti. 
 
E non avrebbe abbandonato la sua gente. Non sarebbe venuta meno al proprio compito.
 
Un grido di pura disperazione, simile a un ululato animale, risuonò in lontananza. Le urla si moltiplicarono, poi si fecero sempre più vicine, fino a diventare quasi dolorose all'udito. Ynaiz fece una smorfia, avvicinandosi cautamente a Odjaa, ma il daubar, abituato a quel suono, rimase tranquillo ad aspettare che lei gli salisse in groppa.
 
Il cielo si fece improvvisamente plumbeo, mentre la massa verdastra apparsa all'orizzonte si avvicinava sempre di più all'alta torre di Malhozi. Quando gli spettri che la componevano, contorcendosi e urlando, si fecero così vicini che era possibile scorgere i lineamenti e le mani rapaci di quelli che si trovavano davanti agli altri, Ynaiz raddrizzò la schiena e inspirò profondamente. “Ora” sussurrò a Tsaunel, e sentì il suo secondo ripetere il comando.
 
Un attimo dopo, si lanciò dal terrazzamento contro l'onda gemente del nemico. I suoi uomini la seguirono.
 
Ignorò il gelo che iniziava ad avvolgerla, sempre più acuto a mano a mano che le ali di Odjaa la portavano più vicina agli spettri. Se avesse continuato a ripetersi che non era reale, sarebbe scomparso. Tutto ciò su cui doveva concentrarsi era sopravvivere, e impedire alle creature di raggiungere la sua città e prosciugarla delle vite che racchiudeva.
 
L'odore della polvere da sparo incendiata sovrastò quello portato dagli spettri. Intorno a sé, la donna vide sfrecciare i lampi viola dei cannoni. Le bastò un istante perché il suo corpo iniziasse a obbedire ai comandi lanciati dall'istinto.
 
Il suo braccio destro tremò e si disfece di fronte ai suoi occhi, mentre la pelle scura si faceva liquida e si riformava in gelido metallo. La bocca spalancata di un cannone prese il posto della sua mano, pronta ad agire. Il sapore acre della polvere da sparo le riempì la bocca, e la sputò nel cannone, guardandola prendere fuoco e liberarsi in un raggio di pura energia.
 
Il colpo raggiunse il suo bersaglio. Lo spettro che stava per raggiungerla emise un urlo disumano quando il raggio lo attraversò, prima di dissolversi in una nebbia verdognola. L'odore di carne marcescente che emanava impiegò ancora un istante a svanire. Sarebbe tornato, ma quando fosse successo loro sarebbero stati già lontani.
 
Era vagamente consapevole che altre grida come quello risuonavano intorno a lei, a mano a mano che i nemici venivano allontanati. Le voci umane e gli stridii dei daubar si unirono a esse, in una cacofonia che aveva accompagnato la sua vita da quando, bambina, si rannicchiava all'interno della sua casa e aspettava il ritorno dei genitori. Aveva smesso da tempo di averne paura.
 
Continuò a sparare, guardando ognuno dei lampi distruggere i fantasmi. Si ripeté di non ascoltare i loro lamenti. Non poteva lasciare che placassero la propria fame con le vite dei suoi uomini – o degli anziani e dei bambini che li aspettavano dietro le feritoie tra le pareti di Malhozi, pregando che la loro regina fosse ancora una volta in grado di salvarli.
 
Abbassò lo sguardo per un istante. Molte braccia più sotto, anche gli spettri che stavano cercando di attaccare i livelli inferiori della città erano tenuti lontani da una tempesta di colpi. Non sarebbero riusciti a oltrepassare le difese. Non avrebbero invaso il luogo che aveva giurato di servire e proteggere. 
 
Il suono familiare di un sibilo la fece rabbrividire e la costrinse a sollevare lo sguardo. Uno degli spettri era riuscito ad afferrare un uomo ormai irriconoscibile, e i due corpi stavano iniziando a fondersi, mentre il daubar al di sotto agitava le ali gracchiando in preda al panico. 
 
Ynaiz strinse i denti, si voltò nella loro direzione e sparò di nuovo. Udì il grido dello spettro, e vide l'uomo cadere. Quando la battaglia fosse finita avrebbe cercato di identificarlo e lo avrebbe bruciato secondo i riti. Sperava di avergli dato una fine più rapida di quella che avrebbe avuto se l'essere avesse finito di rubargli la vita. 
 
Era arrivata troppo tardi per riuscire a salvarlo. Ma avrebbe pensato più tardi al proprio fallimento. Ora doveva assicurarsi che non ci fossero altre perdite, e che la sua città sopravvivesse. 
 
Sentì la pelle del petto indurirsi in metallo e spaccarsi, e il primo dardo formarsi dentro di lei, appena sotto il punto in cui il suo cuore ancora pulsava, e scagliarsi contro un altro nemico. Si resse con più forza a Odjaa. Sapeva che si sarebbe indebolita più velocemente se avesse continuato, ma almeno sarebbe stata in grado di porre fine allo scontro in meno tempo, e di salvare i suoi uomini.
 
Era per quello che aveva ottenuto il dono.
 
Pregò Atwimze di sostenerla e con un grido che risuonò nella cavità che si era formata nel suo corpo spronò il daubar in avanti, continuando a colpire con il cannone e con i dardi. Gli spettri stavano iniziando a ritirarsi, pronti a riposare e recuperare le forze per risvegliarsi e andare a caccia di prede più facili.
 
Ma lei e la sua gente non sarebbero stati divorati. Erano riusciti a sopravvivere a Agzym dall'alba dei tempi, e avrebbero continuato a farlo. E lei avrebbe dato tutto ciò che aveva, il proprio corpo e la propria vita, per assicurarsene.
 
Quando l'ultima sagoma verdastra fu scomparsa, e il cielo iniziò a schiarirsi, planò verso terra, rilassandosi e lasciando che il suo corpo tornasse completamente umano. La sensazione di freddo al braccio e al petto non la abbandonò, ma ormai sapeva che sarebbero bastate poche ore perché passasse. Mentre i suoi compagni volavano verso le mura della città, e dall'interno sentiva i passi di coloro che correvano a riabbracciare i propri cari, o che si preparavano a riattivare i motori perché si scaldasse abbastanza da portarli lontano da lì, cercò freneticamente il corpo del caduto. Lo trovò a poca distanza dai cingoli di Malhozi. Sembrava che non ci fossero altri cadaveri – e lei pregò che fosse perché nessun altro era rimasto ucciso, piuttosto che perché gli spettri erano riusciti a impadronirsi di qualcun altro e a consumarne le spoglie una volta che l'anima avesse bruciato l'involucro che non le apparteneva.
 
Deglutì e si avvicinò cautamente. Aveva visto molti morti nella propria vita, ma non bastava a rendere più facili quegli istanti. Il volto dell'uomo era rovinato dall'impatto con il suolo e dalla deformazione lasciatagli dal tocco dello spettro, ma da qualche parte, all'interno della città, qualcuno avrebbe riconosciuto in lui un figlio o un padre, e lo avrebbe pianto.
 
Non poteva lasciarlo lì abbandonato sulla sabbia. Sarebbe dovuta tornare e chiedere a qualcuno di aiutare a trasportarlo, ma si perse ancora un istante a osservare gli schizzi di sangue sul terreno, e la ferita che gli aveva inferto. Sapeva di avere fatto la cosa giusta, ma la consapevolezza non impedì al suo stomaco di contrarsi dolorosamente.
 
Quella non era la prima volta che uccideva un uomo per sottrarlo alla possessione, e non sarebbe stata l'ultima. Gli spettri erano lì da più tempo di quanto la memoria del suo popolo potesse giungere, e neanche il suo potere poteva eliminarli del tutto. Tutto ciò che potevano fare era cercare di sopravvivere in quella che, per quanto inospitale, sarebbe sempre stata la loro casa. 
 
Con un sospiro, si voltò a osservare le bianche mura della torre. Una volta che i motori fosse stato pronto, i suoi cingoli li avrebbero portati lontano, in un territorio forse più sicuro. Pregò che il giorno seguente non ci fossero nuovi attacchi.
 
Sarebbe stato un cattivo presagio, per un matrimonio.
 
                                                                                                                               … 
 
“Rilassati.” Il pettine incontrò un nodo. Tsaunel si lasciò sfuggire una smorfia mentre tentava delicatamente di districarlo, cercando di non far male all'amica. “È solo una formalità. Non cambierà nulla.”
 
Ynaiz non rispose, e la tensione nelle sue spalle non si attenuò. La tintura blu che le colorava i capelli le procurava un fastidioso formicolio allo scalpo, anche se sapeva che vi si sarebbe abituata presto. Con la coda dell'occhio vide una delle trecce bianche di Tsaunel sfiorarle la spalla, e l'invidia le punse lo stomaco.
 
“È facile parlare, per te” replicò, tentando di non far trasparire il nervosismo, neanche di fronte alla donna che aveva sempre considerato come una sorella. “Tu rimarrai qui.” Non riusciva a immaginare una persona più fidata a cui lasciare la supervisione di Malhozi, ma la consapevolezza non bastava ad alleggerire il peso che sentiva nel petto.
 
Anche da bambina, non aveva mai pensato che un giorno si sarebbe sposata. E di certo non aveva immaginato i motivi per cui ora si stava preparando a incontrare l'uomo con cui avrebbe condiviso forse il resto della vita, con una sensazione di gelo radicata dentro di sé, una sensazione che sua madre non aveva dovuto provare quando si era unita a suo padre.
 
Tsaunel finì di intrecciare l'ultima ciocca e la fermò con un anello dal metallo lavorato in forme sinuose ed elaborate, molto più elegante di quelli che Ynaiz aveva usato fino ad allora. “Damir ha fama di essere un valoroso” iniziò, mantenendo la voce ancora calma. “E allearci a lui sarebbe un grande vantaggio per la tribù.”
 
“Lo so!” quasi ringhiò la regina. Tentò di voltarsi, ma la presa dell'altra sui suoi capelli la trattenne. “Perché pensi che abbia accettato?” Costringendosi a restare ferma, tornò ad abbassare lo sguardo. Provò a ignorare il tremito quasi impercettibile che le agitava le mani.
 
Nei tre anni trascorsi da quando aveva preso il potere, aveva incontrato svariate volte gli altri sovrani. Eppure non conosceva davvero nessuno di loro, e ora non riusciva a ricordare quale fosse il volto del suo futuro marito, o che suono avesse la sua voce. L'unico momento in cui gli aveva parlato direttamente era stato durante le trattative, quando le aveva chiesto le prove dell'esistenza del suo potere, e lei gli aveva mostrato la propria mano trasformarsi in metallo.
 
Non sapeva abbastanza di lui per essere certa di non stare compiendo il peggior errore della propria vita.
 
Ma se le Tigri erano riuscite a restare una delle tribù più numerose di Agzym e a prosperare nonostante la minaccia degli spettri e la volubilità del cielo, per le Aquile legarsi a loro sarebbe stato solo benefico. E fin da quando aveva avuto consapevolezza che un giorno sarebbe succeduta a sua nonna e sarebbe arrivata al loro comando, Ynaiz aveva sempre saputo che la salvezza e la felicità della sua gente sarebbero sempre dovute essere più importanti delle sue.
 
Tsaunel la afferrò per le spalle e la voltò gentilmente verso di sé, fissandola negli occhi con sguardo serio. “Se dovessi essere in pericolo... fai ciò che devi e difenderti. Potremo affrontare le conseguenze.” Si passò la lingua sulle labbra senza distogliere gli occhi dal viso dell'altra. “E nel caso avessi bisogno di aiuto, sarò sempre vicino a te.”
 
Suo malgrado, Ynaiz si sorprese a sorridere. “Grazie.” Deglutì, cercando di calmare i battiti furiosi del proprio cuore. Nonostante tutto, avrebbe sempre avuto la propria tribù al proprio fianco, anche quando avesse condiviso il letto con uno straniero.
 
Nei mesi precedenti si era quasi convinta che quel momento fosse destinato a non giungere mai. Ma ora si stava facendo sempre più vicino, e lei non era pronta. Si aggrappò con lo sguardo a ogni irregolarità nella ruvida pietra bianca della parete, come se quel contatto fosse sufficiente a farla restare lì. 
 
Dai livelli inferiori della torre provenivano voci allegre e il profumo del miele e della carne arrostita. La sua gente si stava preparando a festeggiare. Ne avevano ogni motivo. Da quel giorno ci sarebbe stato il doppio degli uomini a combattere contro gli spettri, a tenere la città al sicuro, e sarebbero state sempre meno le vite condannate a finire troppo presto.
 
E se sulle Aquile, o su tutto Agzym, fosse caduto di nuovo un pericolo come quello che i suoi genitori avevano dovuto affrontare – una minaccia molto più inarrestabile e imprevedibile di quella rappresentata dai morti – ci sarebbe stata un'altra tribù a difendere il loro futuro.
 
Nessun prezzo sarebbe stato troppo alto, se avesse significato assicurare la loro sopravvivenza.
 
Sperava almeno di avere scelto la persona giusta a cui unirsi. Non aveva mai preso in considerazione l'identità di nessuno dei suoi pretendenti, solo le tribù che guidavano. Avrebbe scoperto solo a partire da quel giorno se avesse già accettato di andare in sposa a un mostro.
 
Avrebbe sempre potuto di andarsene, se fosse stato così, ma per farlo avrebbe dovuto rompere l'alleanza. E non voleva che fosse il suo popolo a pagare per le sue decisioni. Aveva fatto una promessa quando era diventata regina, e l'avrebbe mantenuta.
 
L'altra la lasciò andare, e lei si alzò di scatto, dirigendosi verso la finestra, inspirando a fondo e guardando verso il basso. Da lì poteva vedere tutta Malhozi, i corpi che la punteggiavano, il verdeggiare dei suoi giardini pensili, l'anello di serbatoi che la circondava. Per un momento, pensò di ordinare di accendere i motori e allontanarsi da lì.
 
Malhozi sarebbe sempre stata la sua casa, ma avrebbe passato i primi trenta giorni del suo matrimonio lontana dalle sue mura, e quando fosse tornata sarebbe stata una persona diversa. Metà della vita che la attendeva sarebbe trascorsa tra le nuvole, con un popolo che non era il suo.
 
Tsaunel la raggiunse e la strinse in un abbraccio, e Ynaiz si abbandonò al calore dell'amica, perdendosi nel profumo dei suoi capelli. Sarebbe passato troppo tempo prima che lo sentisse di nuovo.
 
Riaprì gli occhi con un sussulto al rumore familiare dei motori di una nave in avvicinamento.   
 
Le due giovani si scambiarono uno sguardo. La regina resistette all'impulso di aggrapparsi a Tsaunel, o di chiamare Odjaa, saltare sul suo dorso e volare via. Il suo momento era giunto. Non poteva più tirarsi indietro.  
 
Sforzandosi di non voltarsi, iniziò a discendere la torre, pronta ad accogliere il suo promesso sposo.
 
Contò silenziosamente il ritmo dei propri passi, provando a non accelerare troppo. Doveva apparire salda, decisa, come la gente di Malhozi aveva bisogno che fosse. Come si era mostrata fin dall'inizio a Damir e la sua tribù. Si concentrò sul suono dei piedi di Tsaunel che riecheggiavano sui gradini di pietra bianca alle sue spalle.
 
Era abituata a cancellare ogni espressione dal proprio viso, ma quando vide la nave poggiata sulla sabbia – abbastanza lontana dalla sua città da non rappresentare un pericolo all'atterraggio – non riuscì a impedire ai suoi occhi di spalancarsi per la sorpresa.
 
Aveva già visto Karuhan in precedenza, ma sempre in lontananza. Vista da vicino, la nave era immensa. 
 
Il metallo lucido che la ricopriva scintillava alla luce del sole di mezzogiorno, e la sua forma elegante si stagliava contro l'azzurro limpido del cielo nonostante le dimensioni. Il ponte doveva trovarsi quasi all'altezza della cima della sua torre. Ora non le risultava difficile credere che potesse ospitare più persone di quante ne contenesse Malhozi, oltre ai magazzini, i laboratori e le serre da cui proveniva quasi tutto ciò di cui avevano bisogno per sopravvivere. I suoi potenti motori, ora spenti, emanavano ancora l'odore inebriante della benzina. 
 
Indietreggiò abbastanza da poter osservare meglio il ponte, schermandosi gli occhi dalla ferocia della luce. Poteva scorgere le numerose figure che lo affollavano e quelle che vi si stavano riversando per osservare Malhozi – e, al centro, l'uomo a cui stava per unirsi. 
 
Era certa che anche lui la stesse fissando, ma dal punto in cui si trovava non riusciva a vedere la sua espressione. 
 
Quindi mantenne l'espressione impassibile, rinunciando a sforzarsi di sorridere, e attese, mentre la rampa emergeva dalle pareti di Karuhan per permettere a coloro che la popolavano di raggiungere la terra.
 
Damir aveva il passo leggermente ondeggiante degli abitanti delle navi, e i ricami sulle sue vesti verdi e arancioni – su cui spiccava il blu della sua cinta, identico a quello che ora le tingeva i capelli – scintillarono al sole quando i suoi piedi toccarono la sabbia. Sembrò riconoscerla quasi subito, e le rivolse un sorriso e un cenno del capo.
 
Come se quello fosse un incontro come tanti, privo di un vero significato.
 
Ynaiz deglutì e cercò con lo sguardo Taifu. I nastri verdi nella chioma del vecchio le permisero subito di identificarlo mentre camminava verso di lei appoggiandosi al suo bastone, con la schiena curva e gli occhi scintillanti. Non gli aveva confidato i propri dubbi, e poteva solo supporre che l'idea di officiare il suo matrimonio lo rallegrasse. 
 
Un altro lampo di verde le fece individuare la sacerdotessa che le Tigri avevano portato con sé. Poi Taifu le prese la mano, e la donna prese quella di Damir. Senza una parola si allontanarono dalla nave e dalla città. La sabbia non attutì abbastanza i passi di tutti quelli che li stavano seguendo per assistere alla loro unione.
 
Sarebbe bastato pronunciare poche parole. E quanto a ciò che sarebbe successo dopo...  
 
Preferiva non pensarci. Non ancora. Poteva sentire il metallo scorrere nelle sue vene, pronto a rimpiazzare il suo sangue, ma lo tenne sotto controllo. Si prese un istante per guardarsi intorno, per concentrarsi sui sorrisi della sua gente.
 
Nessun sacrificio sarebbe stato troppo grande per quello.
 
Mentre continuava a camminare, chiedendosi quando avessero potuto fermarsi – e sperando che il momento non arrivasse mai – trattenne l'istinto di allentare la collana che le cingeva la gola. Era tutto il lusso che aveva concesso a quel giorno. Aveva rifiutato di indossare le vesti da sposa di sua madre, e Tsaunel era riuscita a malapena a convincerla a sostenere la sua armatura regolare con quella da cerimonia. Quella che stava per compiersi era solo un'alleanza militare, e non c'era motivo di fingere diversamente.
 
Ma quel gioiello era stato indossato da tutte le sue antenate per giorni come quello, e le piccole sfere d'avorio e le perle che lo componevano, ancora più rare e preziose da quando Uaxhakil aveva smesso di commerciare con loro, se non altro avrebbero mostrato che Malhozi era ancora un luogo prospero.
 
Ora, però, il suo peso sembrava soffocarla. 
 
Non osò girare la testa, ma sapeva che Tsaunel la stava raggiungendo. Le aveva chiesto di restare al suo fianco, quando fosse giunto il momento dei voti matrimoniali. Non le serviva vederla per percepire il suo sorriso, meno affilato del solito. Solo lei sapeva quali fossero i suoi veri pensieri in quel momento. 
 
Ma dopo il tramonto di quel giorno, sarebbero passati mesi prima che potesse riavere il proprio secondo accanto. Non avrebbe avuto nessuno con cui confidarsi. Qualunque cosa fosse accaduta, non aveva altra scelta che accettarlo.
 
Giunse il momento di fermarsi. Ynaiz fu in grado di percepire il movimento della gente che si apriva a ventaglio intorno a loro solo dalle vibrazioni che i passi producevano sulla sabbia. Era stata abituata per tutta la vita a mostrarsi in pubblico, a essere un faro per coloro che la circondavano, ma in quell'istante, sotto il sole che accendeva il blu delle sue trecce, si sentì nuda. Se solo avesse permesso al metallo di coprire tutto il suo corpo, ai raggi di luce di riflettersi sulla sua superficie e accecare gli occhi che si posavano su di lei, in cerca di un momento di debolezza...
 
Continuando a mascherare i propri pensieri, tenendo la testa alta e le spalle dritte, guardò Damir negli occhi.
 
Per un momento, non vide nient'altro. Neanche l'uomo che si trovava a fianco del suo promesso. Solo il fulgore di quelle iridi quasi verdi, in fondo alle quali si agitava qualcosa di indecifrabile. Non riuscì a capire cosa significasse per lui quello che stavano facendo. 
 
Sostenne il suo sguardo, senza reagire quando lui le prese la mano tra le sue, più chiare e più calde. Non riuscì a comprendere il salmodiare dei sacerdoti, la gioia che serpeggiava nelle loro benedizioni. Ma vide le labbra di Damir che si muovevano, e udì le parole che lo trasformavano definitivamente in suo marito.
 
“Ti ho aspettato.” 
 
Una frase che tanti avevano pronunciato prima di lui. Fino a poco tempo prima, Ynaiz non aveva creduto di sentirsela rivolgere un giorno. Ma aveva accettato la proposta che lui le aveva fatto, e ora doveva mantenere la promessa. 
 
Inspirò e si sforzò di continuare a guardare Damir negli occhi. Gli sorrise, certa che sapesse leggere la verità nella sua espressione. “E io ti ho trovato.” Il suo cuore sembrò farsi più freddo, ogni battito un peso opprimente dentro di lei. 
 
Aveva fatto il suo dovere, e il suo popolo ne sarebbe stato grato. Ci sarebbero stati sempre meno morti da piangere, ora che c'era il doppio degli uomini a combattere gli spettri, ora che Malhozi aveva dei nuovi protettori.
 
Ma quando giunse il crepuscolo, mentre sedeva accanto a Damir, con una pila di armi e gioielli ai propri piedi e il suono di una canzone sulla quale non avevano danzato che continuava a imperversare intorno a lei, Ynaiz non riusciva a distogliere lo sguardo dalla torre.
 
                                                                                                                               … 
 
Nonostante fuori la notte fosse già di un gelo acuto, all'interno di Karuhan il calore sembrava farsi opprimente. Forse era solo un'impressione datale dalla consapevolezza di ciò che stava per accadere. Ynaiz si fermò a ispezionare con deliberata lentezza la curva della parete più vicina, fingendo interesse. Non aveva mai visto una nave dall'interno prima, ma in quel momento non riusciva neanche a concentrarsi davvero sul modo in cui le lanterne sospese al soffitto facevano scintillare il metallo. 
 
Doveva solo continuare a respirare. Era riuscita a mantenere la calma per tutta la giornata. Ma ora che non c'era nessuno a guardarli, nessuno sarebbe venuto a salvarla se Damir avesse voluto farle del male.
 
Avevano parlato di ciò che sarebbe dovuto succedere quella notte, quando lei aveva accettato di sposarlo. Poteva solo fidarsi. Sentì i muscoli tendersi sotto la pelle e tentò di reprimere l'istinto di trasformarsi di nuovo in arma. Non sarebbe servito a nulla ora. Aveva già pronunciato i voti. 
 
Non doveva temere. Avevano fatto un patto. Se lui era onorevole come si diceva, l'avrebbe rispettato.
 
Il sorriso che Damir le rivolse voltandosi verso di lei probabilmente doveva essere amichevole. Non era più caldo di quanto fosse stato prima. Non le aveva ancora parlato davvero. Né lei aveva provato a farlo. Anche le frasi che si erano scambiati per sposarsi non erano state veramente destinate ai loro cuori. Sarebbero dovuti essere più vicini ora, ma la barriera tra loro non si sarebbe sciolta solo per quelle poche parole, e lo sapevano entrambi.  
 
Lui continuò a farle strada, ma non le prese di nuovo la mano. Ynaiz non poté fare a meno di essergliene grata. 
 
La stanza in cui avrebbero condiviso la notte era abbastanza diversa dalla sua da farle comprendere che quella notte non sarebbe riuscita ad addormentarsi. Il carminio delle lenzuola era certamente più vivace del grigio perla a cui era abituata, e il letto era più largo del suo, abbastanza per ospitare due persone – avrebbe dovuto procurarsene uno simile per quando lei avesse dovuto accoglierlo a Malhozi. Dovevano essere  vicini al fondo della nave, e non c'erano finestre. Ogni cosa pareva al proprio posto, eccetto la pistola visibile dall'interno dello scrigno aperto ai piedi del talamo. Uno specchio rifletteva la luce delle due lanterne che pendevano dalla volta, la superficie vitrea completamente libera dalla polvere. 
 
Il risultato era piacevole all'occhio, ma lei non era pronta a passare la notte lì. Non con lui.
 
L'assenza di qualunque tipo di suono, ora che anche i loro passi si erano fermati, stava iniziando a renderla ancora più tesa. Era quasi certa di poter sentire il battito sempre più furioso del proprio cuore. L'ultima cosa che voleva era mostrarsi nervosa o spaventata, ma non riusciva a trovare un varco per infrangere il silenzio. 
 
Gli occhi di Damir rimasero distanti, anche mentre si metteva seduto e si scioglieva i capelli, le sue movenze quasi meccaniche. Ynaiz esitò prima di sedersi al suo fianco, il più lontano possibile, continuando a osservare ogni suo movimento. 
 
Consumare il matrimonio non faceva parte del loro patto. Si erano sposati per combattere insieme, non per i figli che lei non sarebbe mai stata in grado di generare. Un piccolo prezzo da pagare in cambio del suo potere, e lo sapevano entrambi. Non avevano alcun motivo di giacere insieme, e lei non gli avrebbe permesso di toccarla, in quella notte o in quelle a venire. 
 
“Ynaiz.” La voce bassa di Damir trafisse il silenzio. Un attimo dopo, lei sentì la mano di suo marito che cercava la sua.
 
Reagì d'istinto. Percepì le dita fondersi, le ossa della mano assottigliarsi e mutare, e prima ancora di rendersene conto stava sollevando il pugnale che aveva sostituito il suo avambraccio contro il marito. Lui riuscì a ritrarsi in tempo per non ferirsi. 
 
“Non mi toccare!” sibilò la regina. Avrebbe voluto suonare minacciosa, ma la sua voce le parve troppo debole. La lama, almeno, sembrava avere avuto l'effetto desiderato. 
 
Non ci sarebbe stato bisogno di rifarlo. Se avessero rispettato i patti, se entrambi avessero mantenuto la promessa che si erano fatti. Sarebbero stati alleati e avrebbero combattuto insieme, ma non ci sarebbe stato altro tra loro.
 
Damir si allontanò abbastanza da essere fuori dalla sua portata. “Non intendo farti del male.” chiarì, e nonostante il suo tono calmo sembrava più pallido di prima. “Posso andarmene, se lo desideri.” Le guance di Ynaiz si scaldarono e lei abbassò lo sguardo, cercando di respirare piano, regolarmente. “No. Ti chiedo perdono.” Sarebbe stata fortunata se lui non l'avesse accoltellata nel sonno, anche solo per assicurarsi che lei non potesse ucciderlo prima.
 
Anche quando le lanterne furono spente, non riuscì a dormire. 

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Capitolo 4
*** Capitolo tre - Il fulmine del nord ***


 

Un soffio di vento freddo si insinuò attraverso le travi della porta. Avnarr si strinse addosso il mantello purpureo, reprimendo un brivido che non aveva nulla a che fare con il clima che lo attendeva fuori.

Vylneira gli rivolse un sorriso che i suoi occhi non riflessero completamente. Si chinò per prendere in braccio Ravdra prima di spostare lo sguardo sul marito. “E non dimenticate di scrivermi, appena potete.” Raunir annuì, avvicinandosi a lei per accarezzarle il viso un'ultima volta. La bambina tra le sue braccia prese tra le dita una delle trecce nere del padre e lui le baciò la fronte.

Avnarr si morse il labbro inferiore notando sul viso della sorella i segni della notte insonne che aveva passato, e il modo in cui gli occhi chiari di Raunir indugiavano sul viso paffuto della figlia. “Torneremo presto” mormorò, pregando di avere ragione. Vylneira tornò a guardarlo, senza smettere di sorridere, ma non rispose.

Anche se fosse andato tutto bene, i mesi che avrebbero trascorso lontani sarebbero parsi infiniti.

Avnarr non riuscì a trattenersi ulteriormente, e, quando Raunir si allontanò, ne approfittò per avvicinarsi ad abbracciare Vylneira, posando un bacio sulla guancia della nipote. Se non fosse tornato, almeno Ravdra avrebbe potuto ricordare quel momento.

La donna si abbandonò all'abbraccio. “Mi mancherete” disse, con la voce che iniziava a incrinarsi.

Raunir tacque mentre raggiungeva l'uscio, abbassando il cappuccio sul viso. “Anche voi” replicò con dolcezza. “Ma sentirai parlare delle nostre vittorie. Quando torneremo, regalerò a Ravdra la sua prima scaglia di drago” aggiunse, guardando con orgoglio la piccola. “Te lo prometto.”

Gli occhi di Vylneira erano lucidi quando Avnarr la lasciò e raggiunse il compagno, chiudendosi la porta alle spalle. Il suono gli fece sentire una stretta allo stomaco. Per quante volte avesse lasciato Thirkel, non si sarebbe mai abituato del tutto.

Raunir si era già allontanato verso i loro ibkil, con passi troppo veloci e senza voltarsi indietro. Avnarr inspirò e lo raggiunse. La neve scricchiolò sotto i suoi stivali. “I tuoi genitori?” chiese. L'altro tenne lo sguardo fisso sulla propria cavalcatura, che sbruffò, emettendo condensa dalle narici. “Li sono andato a trovare ieri sera. Staranno bene.”

Avnarr si limitò ad annuire, salendo in groppa all'ibkil e spronandolo con un colpo di talloni. Resistette all'impulso di guardarsi indietro. Non sarebbe servito a nulla abbandonarsi ai rimpianti. Non quando c'erano uomini che avevano bisogno di lui, dei suoi consigli e della sua guida.

Mentre Raunir cavalcava silenziosamente al suo fianco, e delicati fiocchi di neve iniziavano a cadere dal cielo plumbeo, cercò di immaginare il momento del loro ritorno, quando rivedere la figlia di sua sorella gli avrebbe ricordato per cosa stessero combattendo.

Sapere che Thirkel viveva e lo attendeva ancora gli avrebbe dato la forza di affrontare di nuovo il campo di battaglia.

                                                                                                                                         …

Vista da lontano, la massa scura che si muoveva all'orizzonte sarebbe potuta parere solo una grossa nube temporalesca. Ma nessuna nuvola si sarebbe potuta spostare tanto velocemente, né avrebbe emesso simili stridii.

Avnarr approfittò dell'istante di calma per lanciarsi uno sguardo alle spalle, ma i suoi uomini erano rimasti in formazione e attendevano, immobili e silenziosi, il suo segnale. Al momento giusto, si sarebbero scagliati contro il nemico, e ancora una volta avrebbero tinto la neve di sangue.

L'ombra che la montagna gettava su di loro, sconfiggendo anche la luce bianca e fredda della primavera, non riuscì a celare la preoccupazione nei loro occhi. Avevano conquistato quel territorio solo in inverno e non potevano concedersi di perderlo così presto. Ma non era la loro prima battaglia, e lui pregò, tornando a osservare la forma sempre più definita che si avvicinava e stringendo l'elsa della spada, di poter vincere di nuovo.

I draghi erano abbastanza vicini da poterli distinguere. Solo due. Anche se non fossero stati eliminati, non sarebbero dovuti essere troppo pericolosi. Avrebbero dovuto preoccuparsi piuttosto delle creature grigie e striscianti che avanzavano sempre più velocemente, come se la mancanza di occhi non impedisse minimamente i loro movimenti.

Avnarr non parlò. Il silenzio era un alleato da cui non potevano permettersi difare a meno. Ma nell'istante in cui sollevò il braccio, seppe che il suo esercito lo stava seguendo.

La galoppata degli ibkil non produsse quasi alcun rumore mentre correvano sulla neve, senza che lo spesso strato gelido bastasse a rallentarli. In un primo momento, abbastanza lungo perché le loro spade potessero iniziare a squarciare la carne stopposa dei mostri, i loro avversari parvero non essersi quasi accorti di loro.

Quando le gocce di sangue argenteo iniziarono a cadere sul terreno, i draghi ruggirono simultaneamente e diedero inizio al contrattacco.

La prima volta che aveva udito quel suono Avnarr si era sentito pericolosamente vicino a perdere i sensi. Ora, anche mentre il suono faceva vibrare il suo cuore, riuscì a non fermare il movimento della propria lama, mentre l'ibkil, sotto di lui, strappava con suoi i denti aguzzi un brandello di carne dal corpo di un mostro. Se non avessero fatto troppo rumore, i draghi avrebbero avuto troppi pochi indizi per sapere con precisione dove colpire. Quando avessero visto che avanzare alla cieca non sarebbe servito ad abbattere una caserma o un villaggio, ma solo a decimare i loro seguaci, sarebbero tornati indietro.

Lui pregava solo che il prezzo da pagare per respingerli non fosse troppo alto.

Guidati dal ruggito dei draghi, le altre creature tentarono di individuarli e colpirli. Per quanto rapidamente gli ibkil si spostassero, non era del tutto sufficiente a evadere gli attacchi. Avnarr non riuscì a impedirsi di sussultare quando una voce femminile che non riconobbe – forse Arsvea – proruppe in un grido di dolore, ma riguadagnò il controllo in tempo per mozzare un tentacolo allungato verso di lui.

Avrebbero avuto tempo più tardi di valutare i danni. Prima dovevano impedire all'armata delle creature di avvicinarsi oltre. Tutti loro erano stati consapevoli fin dall'inizio che avrebbero potuto dare la vita per quello scopo.

L'odore del sangue mostruoso sembrava più forte di quello umano. Stringendo i denti, il capitano spronò la propria cavalcatura verso uno dei draghi, ma una creatura si frappose tra lui e il suo obiettivo, spalancando la bocca piena di zanne acuminate e soffiandogli contro. Avnarr riuscì a malapena a sterzare prima di essere colpito da un tentacolo, stringendo spasmodicamente le redini. Se fosse stato disarcionato, sarebbe stato calpestato a morte prima ancora di rendersene conto, ma l'ibkil sotto di lui aveva affrontato troppi combattimenti per perdere la calma.

Ansimò mentre recuperava l'equilibrio. Uno schizzo caldo lo colpì sulla guancia, e volse lo sguardo in tempo per vedere Raunir decapitare una delle creature informi. Il contatto visivo tra loro durò il tempo del battito di un cuore, ma fu sufficiente. Voltando gli ibkil, iniziarono insieme ad aprirsi la strada verso i draghi.

Le bestie continuavano a ruggire e ad agitare gli artigli, le scaglie di un bianco quasi accecante macchiate di rosso e argento. Sembrarono non rendersi conto del fatto che loro si stavano avvicinando, lacerando e tagliando tutto ciò che sbarrava loro il cammino.

Uccidere un drago era qualcosa di cui si era raramente sentito parlare, al di fuori delle leggende, ma se fossero riusciti a ferirne almeno uno avrebbero potuto volgere il combattimento a proprio vantaggio. Forse li avrebbero anche spinti a ritirarsi, prima che ci fossero troppe vittime.

Avnarr soffocò un grido quando vide l'ibkil di Raunir impennarsi, prima che l'animale superasse con un agile balzo la zampa squamosa che aveva rischiato di abbatterlo, venendosi a trovare accanto al drago, abbastanza vicino da consentire al suo padrone di colpirlo. Con l'armatura che scintillava alla debole luce solare, il suo compagno sollevò la lancia e affondò la punta nel fianco dell'essere.

Per quanto potessero essere forti e possenti, i draghi sanguinavano come tutti gli altri.

Il ruggito che scaturì dalla gola di quello ferito fu diverso dai precedenti, non più un comando ma un urlo di dolore. Si voltò nella direzione di Raunir per colpirlo, ma lui si era già allontanato, evitando a malapena gli artigli acuminati.

In risposta al lamento del loro capo, le altre creature si radunarono intorno a lui, stringendoglisi intorno, pronte a proteggerlo e a ricevere il prossimo comando. Avnarr cercò freneticamente il cognato, pregando che non fosse già rimasto schiacciato dalle spire grigiastre che gli sbarravano la strada.

Poi i draghi emisero simultaneamente un nuovo grido, più profondo degli altri. Il capitano non ne aveva mai udito uno tanto forte. Il suono sembrava sul punto di rompergli le tempie, e prima di potersi trattenere voltò la testa e sputò una boccata di bile nella neve, mentre il suo corpo oscillava sulla sella tentando di non perdere l'equilibrio. Forse aveva urlato anche lui, ma non avrebbe saputo dirlo.

L'istante di silenzio e immobilità che seguì fu quasi altrettanto assordante. Stringendo le cosce sui fianchi dell'ibkil, Avnarr si lasciò sfuggire un gemito, accecato dal dolore pulsante alla testa. Credeva di avere ancora la spada in mano, ma non sarebbe riuscito a riprendere a combattere subito, non fino a quando il mondo non avesse smesso di vorticare intorno a lui. Sperò che i suoi soldati non avessero subito danni permanenti e che non fossero troppo storditi per reagire all'attacco che stava per arrivare.

I loro nemici non avevano mai usato il rumore come arma, prima. Le loro voci non erano mai state così potenti. Se avessero iniziato ad adottare una simile tattica...

I suoi pensieri furono interrotti da uno scricchiolio. Rimase paralizzato, in ascolto, mentre il suono cresceva fino a diventare un boato.

La neve stava iniziando a staccarsi dal fianco della montagna.

Il tempo parve rallentare mentre la marea bianca si dirigeva sulla piana, travolgendo tutto ciò che si trovava sul suo cammino. Avnarr era consapevole di quanto velocemente si stesse spostando in realtà, ma non poté fare altro che guardare. Provare a fuggire non sarebbe servito a nulla. Non sarebbe mai stato abbastanza rapido.

Mentre la morte correva verso di lui, gelida e implacabile, pensò, quasi distrattamente, che i mostri non avevano mai sfruttato la neve a proprio vantaggio in quel modo. Ma non doveva preoccuparsene. Non sarebbe stato lui a doverlo riferire.

La valanga lo investì, e prima di avere il tempo di reagire lui si trovò disarcionato e immerso in una bara gelida. Il freddo lo costrinse a immobilizzarsi, ma vedeva ancora la luce sopra di sé, e tentò spasmodicamente di raggiungerla, anche se gli sembrava di nuotare in uno strato di solida roccia. Se fosse riuscito a liberarsi in tempo, prima che la neve si indurisse troppo, avrebbe potuto salvare gli altri. A meno che non fosse troppo tardi per tutti loro.

Per un momento, credette di essere di nuovo in superficie. I mostri sembravano essersene andati, lasciandosi indietro solo la distruzione che avevano causato. Non era riemerso nessun altro. Rabbrividì e inspirò troppo avidamente, e l'aria gelida gli invase i polmoni. Tra i colpi di tosse, tentò di scavare un varco nella neve, troppo disperato per ascoltare mentre una voce nella sua testa gli diceva che, da solo, non avrebbe potuto fare nulla.

Ma doveva solo avere immaginato di essersi salvato. Sentì la gabbia toracica cedere, le ossa spezzarsi all'improvviso, mentre l'aria lo abbandonava, sostituita da un gelo acquoso. Si agitò, certo di essere ancora sepolto, ma le sue braccia non incontrarono nulla.

Poi giunsero le voci.

Esplosero nella sua testa tutte insieme, decine di voci che urlavano, imploravano salvezza e chiamavano nomi che lui seppe distinguere solo in parte. Nonostante il dolore, le riconobbe. Appartenevano ai suoi uomini.

Non riusciva nemmeno a chiedersi come fosse possibile. Desiderava solo che finisse prima di portarlo completamente alla follia. L'ultima cosa che percepì chiaramente fu la voce di Raunir.

Ravdra.

Quell'unico suono lo trafisse come una lama. Mentre perdeva conoscenza, pregò che la morte bastasse a farlo tacere.

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Capitolo 5
*** Capitolo quattro - Il sacrificio ***


L'acqua era più fredda del solito. Kajza rabbrividì, ma continuò a strofinarsi fino a essere certa di essere del tutto pulita. Dopo il vapore con cui era venuta a contatto, quando aveva immerso i suoi guanti e il suo bisturi nella piccola vasca di acqua bollente e liscivia, la sensazione di fastidio era ancora più intensa, quasi dolorosa.

Si lasciò sfuggire un sospiro mentre si avvolgeva nel morbido panno bianco che la attendeva accanto alla tinozza. Se solo fosse stata abbastanza fortunata da essere nata con la magia, sarebbe riuscita a scaldarsi subito.

Doveva continuare a concentrarsi su dettagli insignificanti come quello, o la verità di ciò che stava per accadere l'avrebbe paralizzata.

Si rivestì lentamente, il tessuto nero quasi alieno sotto le sue dita. L'ultima volta che aveva indossato un colore simile era stato alle esequie dei suoi genitori, così tanti anni prima che il ricordo ormai era annebbiato. Non era pronta a vestirsi di nuovo a lutto.

Se fosse stata fortunata, nessuno dei suoi cari le sarebbe stato portato via, e lei avrebbe avuto altri venticinque anni di sollievo.

Ma la fortuna non era spesso dalla sua parte.

Si fece forza e si lasciò la porta alle spalle, incamminandosi sotto la volta di rami intrecciati che conduceva al palazzo centrale. Non poteva permettersi di tardare. Voleva passare le ore che ancora mancavano alla cerimonia insieme a Syrthir, Gwyrdeg e Oidhren, anche solo per dire loro addio. Strinse la mano intorno al ciondolo che portava al collo e cercò di smettere di tremare.

Le avevano spiegato cosa sarebbe successo il giorno del sacrificio quando era bambina, come a tutti i madil di Pawýr, ma una parte di lei non aveva mai creduto veramente che quel momento potesse arrivare. L'ultimo era stato prima che lei nascesse, e, sentendone parlare, le era parso più una leggenda che una minaccia.

Il fatto che lei non corresse nessun pericolo concreto non la consolava. Coloro che amava rischiavano molto più di lei.

Attraverso i rami del soffitto poteva vedere il cielo assumere una sfumatura lilla. Le lanterne si stavano già accendendo di una luce verdognola, e Kajza accelerò il passo. Quando fosse giunta la notte, sarebbe già stato troppo tardi.

Era troppo assorta nei propri pensieri per scorgere la figura che emerse dal sentiero che incrociava quello che lei stava percorrendo. Si scontrarono con forza sufficiente a farla barcollare. Kajza recuperò l'equilibrio e si scostò dagli occhi i capelli arruffati, mormorando una parola di scusa, prima di accorgersi chi fosse l'altra.

Glanhryfel ricambiò freddamente il suo sguardo, lisciandosi con le mani affusolate il pesante abito nero. I fili d'oro intessuti a spirale lungo il bordo del tessuto e intorno alle sue pesanti trecce ramate brillarono muovendosi alla luce delle lanterne. Non le rivolse la parola mentre si voltava e proseguiva nel proprio cammino.

Kajza la seguì con lo sguardo. Normalmente la principessa avrebbe fatto di tutto per evitarla – e lei aveva smesso da tempo di chiedersi il perché – ma quella sera si sarebbero dovute sopportare a vicenda. Se volevano vedere un'ultima volta Oidhren e Syrthir, e soprattutto Gwyrdeg, non avevano altra scelta.

Inspirò e cercò di raggiungerla, anche se ogni passo sembrava impossibile. Le sue gambe tremavano a tal punto da parere sul punto di cedere da un momento all'altro.

Le parve che fossero passate ora prima di scorgere la sua destinazione. Il piazzale antistante la reggia era già affollato, ma Kajza riconobbe subito coloro che cercava, e li raggiunse quasi correndo. Aveva la sensazione che, se non fosse stata abbastanza rapida, li avrebbe visti svanire di fronte ai propri occhi.

Oidhren sorrideva come se non stesse succedendo nulla, ma la sua espressione non bastava a mascherare la paura nel suo sguardo. L'assenza delle familiari macchie di colore sui vestiti e sulle dita non faceva altro che sottolineare quanto fosse anomala la notte che si stava avvicinando. Gwyrdeg stava parlando con la sorella, ma voltò la testa nel sentirla arrivare. Al contrario di Glanhryfel, che pareva determinata a continuare a ignorarla, la salutò con un cenno della mano, ma tenne gli occhi bassi e le labbra serrate. Sembrava più pallido del solito.

Syrthir invece le sorrise e la strinse a sé, ma il bacio che le posò sulle labbra durò più del solito, e fu più ardente. Disperato. Anche quando si staccarono, Kajza rimase aggrappata a lui più a lungo del normale, sfiorando il ciondolo, identico al suo, che lui portava al collo.

“È un piacere rivederti, Kajza” commentò Oidhren con finta allegria. “Se gli dei ci sorridono, questa non sarà l'ultima volta.” Ma i suoi occhi scuri continuavano a scattare inquieti da una parte all'altra della piazza, e lei sentì la presa di Syrthir sulle proprie spalle rafforzarsi.

Non riuscì a rispondergli. Avrebbe voluto provare a rassicurarli, ma era certa che, se avesse tentato di parlare, sarebbe soltanto scoppiata in lacrime.

Non doveva sprecare quel momento, ma l'ombra del lutto era già calata su di loro, e forse non se ne sarebbe pù andata.

Un nuovo sacrificio era necessario. Già alcuni madil, sia presso di loro sia negli altri regni, erano spariti. I mydeleth si stavano spingendo sempre più vicino ai palazzi. Non avevano attaccato, ma erano in tanti ad avere visto, negli ultimi mesi, i loro denti e le loro lame violacee baluginare oltre le barriere di rami e foglie. I Demoni Gemelli si sarebbero vendicati, se loro non avessero pagato.

Esisteva un solo modo di placare la loro brama. Un'unica vita, in cambio della salvezza di tutta Pawýr.

Forse quella volta non sarebbero stati loro a pagare. Il loro regno era già stato responsabile del sacrificio venticinque anni prima. Ma se Atheia avesse gradito il loro ultimo dono, avrebbe potuto decidere di reclamarne un altro. Dal modo in cui Glanhryfel stava fissando Gwyrdeg, Kajza intuì che anche lei stava pensando la stessa cosa.

Syrthir le posò un altro bacio sulla testa, senza lasciarla andare. “Ti amo” le sussurrò, accarezzandole i capelli. Abbandonandosi al calore della sua stretta, lei si chiese quante volte ancora avrebbe avuto la possibilità di udire quelle parole.

Era stato un errore che avessero scelto di aspettare l'estate per sposarsi. Non avevano fatto altro che accrescere le proprie speranze per il futuro, e se nelle ore seguenti se le fossero viste strappare...

“Ti amo anch'io” gli rispose piano. Avrebbe voluto che ciò che provava per lui fosse bastato a proteggerlo.

Per un momento, ebbe la sensazione che la postura di Glanhryfel si fosse fatta ancora più rigida. Forse era stata solo una sua impressione, e in ogni caso in quel momento non le importava di cosa potesse pensare l'altra.

Solo per quelle ore, avrebbe dimenticato ogni cosa fuorché ciò che avrebbe potuto perdere.

Gwyrdeg circondò con un braccio le spalle di Glanhryfel e volse i cupi occhi verdi sui compagni. “Qualunque cosa accada” iniziò – con il tono sicuro del re che sarebbe diventato, se non fosse morto quella notte - “sono felice che voi siate qui, ora.”

Oidhren non rispose. Si limitò a fissare i ciottoli lisci sotto i loro piedi e ravviarsi i capelli, ma dalla piega delle sue labbra Kajza capì quanto vicina fosse la sua apparenza calma a infrangersi. D'istinto, si sciolse dall'abbraccio di Syrthir per raggiungerlo e posargli una mano sulla spalla. Quando lui sollevò lo sguardo su di lei, i suoi occhi erano lucidi.

Avrebbe voluto parlargli, ma non poteva comprendere ciò che stavano passando loro. Sapeva già che non le sarebbe successo nulla. Ma nonostante questo, la morsa gelida del terrore non l'avrebbe lasciata andare. Non fino a quando non avesse avuto la certezza che sarebbero stati bene.

Chiuse gli occhi e pregò gli dei di avere pietà. Non era certa che la stessero ascoltando.

                                                                                        …

L'eco degli zoccoli dei cavalli dei mydeleth, mentre giungevano al galoppo, pareva simile al rombo di un terremoto. In realtà, quest'ultimo sarebbe quasi stato preferibile.

Kajza rimase con la schiena premuta contro le pareti del tunnel, ignorando i rami che le pungevano la pelle. Per quanto una parte di lei desiderasse unirsi a Syrthir, era quasi grata di trovarsi ai margini del piazzale, insieme ad altri madil di prima generazione. Quando le creature fossero arrivate, non le avrebbe viste da vicino, e loro non avrebbero potuto toccarla.

 

La nausea iniziò ad aggredirla mentre il suono si avvicinava. Aveva implorato che quel momento non arrivasse mai, e ora dovette fare appello a tutte le proprie forze per non scappare. Non sarebbe servito a cambiare la realtà, e lei doveva almeno guardare. Guardare e ricordare quale fosse il prezzo per la pace in cui era cresciuta.

I mydeleth apparvero, irrompendo nella piazza come se ne fossero stati i veri padroni.

Il loro arrivo non era stato inatteso, ma la folla indietreggiò tanto violentemente che Kajza riuscì a malapena a evitare di restare schiacciata. Perse l'equilibrio e batté la testa contro uno dei rami, ma non cadde. Lasciandosi sfuggire un gemito, batté le palpebre fino a quando non riuscì a mettere a fuoco l'immagine davanti ai suoi occhi.

Dalla sua posizione, era in grado di vedere bene ciò che stava accadendo al centro del piazzale. Avrebbe preferito non poterlo fare.

Non erano solo le sciabole a fianco dei mydeleth a farli apparire pericolosi, nonostante il maligno lucore del kahen. Non erano nemmeno i muscoli poderosi che guizzavano sotto la pelle viola, pronti al combattimento, né il fatto che, anche senza i loro cavalli, avrebbero torreggiato sulla maggior parte dei presenti. Non quanto i loro sogghigni e lo scintillio dei loro occhi gialli. Lo sguardo di chi stava pregustando la vittoria.

Erano solo in sette, ma Kajza aveva la sensazione che, se avessero dovuto combattere, avrebbero potuto distruggere molte vite prima di soccombere. Erano quasi indistinguibili tra di loro, e perfino i marchi sui loro avambracci nudi – un rombo all'interno del quale si intersecavano due cerchi, sovrastati dalla testa di un drago – erano identici. Una di loro, l'unica donna, stringeva tra le dita artigliate uno stendardo nero su cui era riprodotto, in rosso, lo stesso simbolo. Lo stemma dei Demoni Gemelli.

Rimase a fissarli paralizzata, osando a malapena respirare. Aveva sempre saputo della loro esistenza, ma non si era resa conto di quanto poco la sua casa fosse sicura. Se avessero voluto il loro sangue, Anbren e Atheia avrebbero potuto mandare l'esercito contro di loro, e non ci sarebbe stata possibilità di salvezza.

Persino il re era impallidito ed era indietreggiato di un passo. Kajza non poteva biasimarlo. I mydeleth avevano portato via suo fratello, al tempo dell'ultimo sacrificio, ed era noto a tutti che suo figlio avrebbe potuto seguirne la sorte. Glanhryfel forse sarebbe stata risparmiata più facilmente – dovevano essere passati secoli dall'ultima volta che Atheia aveva preteso che le fosse immolata una donna – ma neanche lei era del tutto al sicuro.

Eppure, quando parlò, la voce del sovrano risuonò chiara e ferma. “Figli di Atheia!” iniziò. Stava stringendo i pugni, come se fosse stato pronto a richiamare il potere degli elementi, ma usare la magia in quel momento avrebbe solo scatenato la furia dei Demoni. “Siate i benvenuti.”

Uno dei mydeleth replicò con un sogghigno. “Glythur di Aden” rispose, anche se, dal suo tono, pareva un insulto più che un saluto. “La nostra ricerca per ora è stata... infruttuosa, ma la nostra signora non dubita che qui troveremo ciò che le serve.”

Glythur non disse nulla, nonostante la tensione che percorreva visibilmente il suo corpo. Kajza premette il proprio corpo contro la parete, inspirando nel tentativo di restare in piedi. Il suo cuore batteva troppo forte per permettere all'aria di raggiungere i suoi polmoni. La sua vista si fece sfocata per un momento, e lei dovette aggrapparsi a uno dei rami fino a quando la consistenza ruvida contro il suo palmo non la riportò alla realtà.

Forse stavano solo cercando di spaventarli. Forse, Atheia non sarebbe stata soddisfatta neanche da ciò che Aden poteva offrirle e i suoi messaggeri avrebbero trovato la prossima vittima in un'altra parte di Pawýr. Avrebbe pregato perché all'anima dell'eletto fosse concessa la pace, ma non avrebbe dovuto piangerlo.

Il sovrano fissò i mydeleth come se volesse attaccarli all'istante, sebbene fosse disarmato come tutti. Poi abbassò lo sguardo e si fece da parte.

Le pupille verticali delle creature si restrinsero mentre iniziavano la loro ispezione, posando lo sguardo su ognuna delle loro potenziali prede. Si interruppero solo poche volte per spostare l'attenzione sul marchio sulle loro braccia, fermandosi come in attesa.

Nel silenzio, ogni respiro, ogni ansito angosciato pareva assordante. A tutti era stato spiegato fin dall'infanzia cosa sarebbe successo, ma aspettare mentre i mydeleth sondavano il loro potere, in cerca del sacrificio, pareva impossibile. Kajza sapeva che avrebbe dovuto protestare, o gridare, o fuggire, ma il suo corpo non volle muoversi.

Nemmeno quando uno dei messaggeri, con un sorriso di trionfo, fece un passo in avanti, afferrando il braccio di Syrthir.

Il tempo parve rallentare fino a fermarsi. Kajza trasalì e tentò di lanciarsi in avanti, maledicendosi per non avere portato con sé il suo bisturi o uno dei suoi strumenti per colpire quell'essere prima che potesse fare del male a colui che amava. Syrthir barcollò quando fu strattonato violentemente, ma non oppose resistenza. Alcune ciocche bionde sfuggirono alla crocchia sulla sua nuca, oscurando la sua espressione, ma lei sapeva che nei suoi occhi avrebbe visto la paura, e avrebbe solo voluto raggiungerlo e giurargli che non lo avrebbe lasciato andare.

Le persone intorno a lei dovevano avere compreso le sue intenzioni, perché una mano, forte e sconosciuta, le afferrò il polso, impedendole di avvicinarsi oltre. Se avesse tentato di fermare il sacrificio, avrebbero dovuto pagare tutti.

“No!” La voce di Gwyrdeg finalmente squarciò il silenzio. Kajza era quasi certa di poter vedere riflessa sul suo viso la propria espressione. “Lui non vi serve... prendete me.” Glythur strinse i denti, ma i mydelth si limitarono a ignorare l'offerta, avvicinando ulteriormente Syrthir e formando una barriera intorno a lui.

Nessuno li stava ostacolando. Kajza sapeva cosa sarebbe successo se ci avesse provato, ma, anche se era a malapena consapevole delle implorazioni che stavano lasciando le sue labbra, non riusciva a fermarsi. Qualcuno doveva impedire ciò che stava accadendo, prima che fosse troppo tardi.

“Padre!” La supplica di Glanhryfel si unì alla sua, e per un attimo Kajza pensò che potesse bastare a spingere il re ad agire. “Ti prego...”

Glythur spostò l'attenzione da Syrthir alla figlia, prima di distogliere lo sguardo.

Kajza riprese a lottare, ma la stretta su di lei non si allentò, e mentre Syrthir si faceva sempre più lontano tutto ciò che riuscì a fare fu scalciare e mordere, senza che coloro che la tenevano ferma la lasciassero andare.

I mydeleth si allontanarono in silenzio, come durante una veglia funebre. Solo quando furono spariti dalla vista dei madil, lasciandosi dietro solo l'eco degli zoccoli dei cavalli e del flebile richiamo di Syrthir, la lasciarono andare. Kajza cadde in ginocchio senza avere il coraggio di rialzarsi, accecata dalle lacrime.

Aveva sempre saputo che ci sarebbe stato un prezzo da pagare per la pace in cui era cresciuta.

Ma non lo aveva compreso veramente fino a quel momento.

                                                                                                      …

Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato quando si decise a riaprire gli occhi. La luce che penetrava dalla piccola finestra della sua stanza era grigia e fioca, insufficiente a farle capire l'orario.

Kajza rimase immobile, stringendo spasmodicamente le lenzuola. Non voleva muoversi. Se avesse osato farlo, il tempo avrebbe ricominciato a scorrere.

La sera prima, Oidhren l'aveva sorretta e quasi trascinata fino al suo letto, mormorandole vuote parole di conforto. Lei aveva pianto fino ad addormentarsi ed era sprofondata in un sogno in cui i mydeleth se n'erano andati senza chiedere nulla. Si era quasi convinta che quella fosse la realtà, e che la scomparsa di Syrthir fosse stata un incubo.

Quando si era svegliata il sole era già alto, ma il suo calore non era riuscito a raggiungerla. Aveva richiuso gli occhi e pregato di tornare al sogno. Era riuscita a ottenere solo brevi sprazzi di sonno agitato, ma l'aveva preferito all'idea di alzarsi e affrontare ciò che la aspettava.

Aveva sentito bussare alla porta forse un'ora prima, e non sapeva se fosse stato Oidhren o qualcuno degli altri guaritori fosse venuto a cercarla. Non aveva intenzione di alzarsi per controllare. La nausea le stava trafiggendo lo stomaco.

Si rigirò nel letto, cercando di riaddormentarsi subito, ma il calore delle coperte si stava facendo soffocante. Poteva sentire il pianto tornare ad affiorare, e non voleva combatterlo. Sperava di poter piangere fino a consumarsi. Se solo fosse stata una ninfa, si sarebbe potuta fondere con le proprie lacrime, e forse, in quella forma, non avrebbe provato più nulla.

Era sicura che tutti gli altri sentissero solo sollievo, di fronte alla consapevolezza che i mydeleth non avrebbero più potuto toccarli. Sarebbe dovuta essere onorata nel sapere che, grazie a Syrthir, a tutta Pawýr sarebbero state risparmiate le sofferenze che i Demoni erano in grado di infliggere.

Ma per quella grazia lei aveva dato il futuro che avrebbe potuto avere con la persona che amava, la vita che avrebbero costruito insieme, e aveva perso l'unica famiglia che le restasse.

Lentamente, i muscoli irrigiditi dall'immobilità quasi totale, allungò un braccio verso la cassettiera accanto al suo letto, cercando il ciondolo che le era rimasto. Avrebbe fatto meglio a sbarazzarsene – non le sarebbe servito a nulla, ora, se non a ricordare momenti più felici, e lei non era certa di non volerli dimenticare del tutto.

Era ancora caldo, la superficie intatta sotto i suoi polpastrelli.

La sensazione la riscosse del tutto dal torpore. Lasciò cadere bruscamente il monile, che rimbalzò sul pavimento, ma non si ruppe. Mettendosi seduta, Kajza rimase a guardarlo con gli occhi spalancati.

Lo raccolse con cautela, senza smettere di fissarlo. Sotto la superficie bianca, le venature viola sembravano essersi fatte ancora più evidenti. Sapeva cosa significasse, anche se fino a quel momento non ci aveva creduto davvero.

Lei e Syrthir avevano comprato quei ciondoli da un mercante umano, uno dei maghi dalle terre di Lunyan, il primo dei giorni di Falham, quando avevano deciso ufficialmente di fidanzarsi. L'uomo li aveva assicurati che, anche se si fossero trovati lontani, sarebbero stati certo l'uno dell'incolumità dell'altra, finché la superficie dei gioielli non si fosse spaccata. Nessuno dei due aveva pensato che fosse vero, ma quella sera avevano bevuto ed erano felici, avevano desiderato qualcosa di diverso da una coppia di anelli per mostrare la loro unione, e il colore era piaciuto a entrambi. Syrthir le aveva detto, accarezzandole una guancia con dolcezza, di apprezzare il modo in cui il candore si intonava ai suoi capelli.

E ora quel piccolo, apparentemenete insignificante oggetto era tra le sue mani, ancora integro anche dopo che colui che amava se n'era andato.

Non avrebbe dovuto avere alcun significato, ma per i minuti seguenti lei non riuscì a fare altro che fissarlo ancora. Forse esisteva una possibilità che Syrthir non fosse già morto, anche ora che erano trascorse tante ore.

Lo aveva lasciato andare prima, ma forse ora, senza nessuno a fermarla, avrebbe potuto salvarlo.

Una parte della sua mente continuò a ripeterle che agire avrebbe potuto portare una guerra più terribile di quanto fosse in grado di immaginare. Nel migliore dei casi, sarebbe morta, e Syrthir con lei.

Eppure non riuscì a fermarsi mentre finalmente si alzava e un piano iniziava a prendere forma nella sua mente.

Forse, aveva ancora la possibilità di rimediare al proprio errore.

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Capitolo 6
*** Capitolo cinque - Lo straniero ***


Normalmente, Tachneri se ne sarebbe già andata, scivolando tra le ombre del crepuscolo. Tjaryk non riuscì a fare a meno di sentirsi grato che fosse rimasta al suo fianco. Lo straniero non sembrava pericoloso, e lui avrebbe saputo difendersi se ne avesse avuto bisogno, ma, in due, sarebbero stati più preparati a un eventuale attacco. 
 
 
L'uomo non si era ancora svegliato, ma non sembrava ferito – solo pallido ed esausto. La sua corta barba nera non nascondeva i suoi lineamenti affilati, né le sue guance scavate. Dalle poche rughe sottili intorno agli occhi e sulla fronte, non dimostrava più di quarant'anni. Ma le sue vesti avevano attirato l'attenzione di Tjaryk più del resto. Sembravano vecchie, ma di buona qualità, di un tessuto verde scuro, a malapena stinto, che lo aveva aiutato a confondersi con le ombre della foresta. Soltanto i bordi della sua tunica erano leggermente lisi. 
 
Con una fitta, subito repressa, di nostalgia per una vita che non aveva mai conosciuto, si chiese se quegli stessi vestiti fossero stati venduti dall'uomo che lo aveva generato – ma forse non erano così vecchi. 
 
 
Aveva altro a cui pensare. Lo straniero non pareva portare armi, e non indossava il mantello nero dei sacerdoti, ma non significava che fosse innocuo. Poteva avere nel proprio sangue la magia, o forse avere dalla propria parte le abilità imprevedibili dei maghi.
 
 
Nonostante quella consapevolezza, Tjaryk non riuscì a temere la figura dormiente davanti ai suoi occhi. Se avesse dovuto usarlo, il suo potere sarebbe stato invincibile.
 
 
Eppure, quando l'altro aprì gli occhi, non poté evitare di sussultare e indietreggiare. Tachneri a sua volta fece un passo indietro e l'aria parve addensarsi intorno alla sua mano, pronta a essere trasformata in arma.  
 
 
Lo sconosciuto ancora non si mosse. Si limitò a battere le palpebre più volte, come sforzandosi di mettere a fuoco le fronde sopra di sé. Non diede alcun segno di averli notati o di sapere con precisione dove si trovasse. 
 
 
Tjaryk rimase cautamente fermo a osservare, finché un lampo di consapevolezza non passò negli occhi dell'uomo. L'altro si irrigidì e tentò di alzarsi, ma non aveva nessun appiglio a cui aggrapparsi e i suoi stivali – robusti stivali di pelle, impolverati da quello che doveva essere un lungo cammino – strisciarono sul terreno senza riuscire a fare presa.
 
 
Il ragazzo lo osservò lottare per un istante di troppo prima di schiarirsi la gola e rivolgergli la parola. “Signore” iniziò con il tono più dolce che riuscì a ottenere dalla propria voce, “avete bisogno di aiuto?” 
 
 
Lo straniero strinse i denti e sollevò lo sguardo su di lui. I suoi occhi erano di un verde chiaro e brillante, con un anello nero a circondare l'iride. Solo per un momento, a Tjaryk parve di averli visti illuminarsi quando lo guardò, e fece un altro passo indietro. Non aveva con sé molti oggetti di valore, se non l'arpa e la collana di sua madre, e se l'uomo davanti a lui fosse stato un bandito quelli sarebbero bastati ad attirare le sue attenzioni. 
 
 
Ma l'altro si limitò a sorridergli, e la sua fronte si appianò. “No. Stavo solo cercando di raggiungere Petyskel” rispose. La sua voce era calda e profonda, e parlava l'othanar con naturalezza. Si mise finalmente in piedi, con un movimento troppo fluido per appartenere a un ferito. “Sono quasi al termine del mio pellegrinaggio...” precisò, scostando una ciocca di lunghi capelli neri dal viso e rivolgendo un'occhiata esitante a Tachneri. Tjaryk non si voltò, ma poteva quasi sentire la tensione che percorreva il corpo della ninfa. Forse aveva percepito qualcosa di cui lui non era ancora a conoscenza. 
 
 
Lui abbassò lo sguardo con apparente noncuranza ed canticchiò due brevi, alte note, sufficienti ad aumentare il potere nella sua voce. Tentò di insinuarsi nella mente dello sconosciuto, ma non vi scorse alcuna menzogna. I suoi pensieri riflettevano solo Petyskel. 
 
 
Rilassò i muscoli e sperò che il pellegrino non si fosse accorto di nulla. Una smorfia aveva attraversato il suo viso per un brevissimo istante, quando lui aveva invaso la sua mente, ma ora la sua espressione stava tornando tranquilla. “Per il Quinto Dio?” chiese Tjaryk quasi distrattamente, distogliendo lo sguardo. Avrebbe usato la forza se l'altro lo avesse attaccato, ma sembrava sempre più improbabile. Un devoto di Falham non lo avrebbe mai aggredito, e  lui non avrebbe avuto alcun motivo di colpire per primo, se la fede dello straniero era sincera.  
 
 
L'altro scosse la testa, lento e grave. “No. Per il Secondo.” Un sorriso triste si disegnò sul suo viso mentre si stringeva nel mantello, nonostante il calore lo rendesse superfluo. “Vengo a pregare per l'anima di un amico.” 
 
 
Per un momento, Tjaryk non riuscì a rispondere. Avrebbe voluto tentare di fare breccia di nuovo nella sua mente, di vedere se stesse mentendo, ma gli occhi dell'uomo si erano fatti lucidi e distanti, e lui non osò intromettersi. Aveva ricordi molto vaghi del suo padre naturale, ma in molte di quelle memorie, sul suo volto appariva la stessa espressione. 
 
 
“Potrei accompagnarvi fino al tempio del Quinto Dio” rispose, addolcendo la voce. Non aveva motivo di portarlo da Kniriv e dagli altri sacerdoti – non aveva detto o fatto nulla che avesse destato i suoi sospetti – e nella sua mente aveva visto Petyskel quasi identica a come era ora, con il nugolo di bassi templi rotondi al centro e le sue statue d'alabastro agli inizi delle vie, ma forse avrebbe potuto facilitargli il passaggio dal santuario di Falham a quello di Xamvor. 
 
 
L'altro scosse nuovamente la testa. “Conosco la strada.” Il sorriso si fece più caldo. “Ma ti ringrazio. Il tuo nome, ragazzo?” 
 
 
Tjaryk ricambiò il sorriso. “Tjaryk, ner Aiglanir” rispose educatamente. “Tjaryk nals Kniriv” aggiunse, raddrizzando la schiena e senza trattenere la nota più vivace che colorò la sua voce, anche mentre un'altra rapida smorfia sul volto del suo interlocutore gli faceva capire che stava di nuovo irrompendo nella sua mente. Se aveva già visto Petyskel, forse conosceva il Sommo Sacerdote – e se anche non l'avesse mai visto prima, parlandogli lui gli aveva quasi certamente trasmesso la sua immagine. 
 
 
Per un istante gli parve che l'uomo avesse teso i muscoli e si fosse rabbuiato, ma la sua espressione tornò a farsi cortese quasi subito. Doveva essere stata solo la sorpresa di fronte alla presenza estranea nei suoi pensieri. “Siete sotto la protezione del Sommo Sacerdote? Dovete essere una persona importante.”  
 
 
Il giovane non tentò nemmeno di nascondere l'orgoglio. Se anche l'altro aveva avuto intenzione di attaccare lui o Tachneri, l'autorità stessa del suo padre adottivo sarebbe bastata a fermare qualunque uomo. Un uomo di fede non si sarebbe opposto a colui a cui da anni, ormai, era affidata la tutela del culto di Falham. E un malvagio sarebbe incorso nella sua ira, e non avrebbe avuto vie di fuga.
 
 
Non ora che lui stava per diventare l'arma che era nato per essere.
 
 
La ninfa, dietro di lui, si schiarì la gola, ma lui si voltò per rivolgerle uno sguardo rassicurante. Sopra di loro, il cielo si stava lentamente oscurando, divorato da una marea lilla. Ma la notte non poteva ferirli. Non loro due.
 
 
Tornò a fronteggiare lo straniero, che era rimasto in silenzio, con gli occhi abbassati e il mantello ancora avvolto strettamente al corpo magro. A ogni secondo che passava, gli pareva sempre più innocuo. Solo un viandante come tanti. Persino i suoi pensieri erano inoffensivi.
 
 
“E il vostro nome?” chiese bruscamente, alzando di nuovo la voce e attaccando di nuovo la mente del pellegrino. Ancora una volta, non trovò nessun pensiero empio, nessun segnale di pericolo. Non aveva davvero nulla da temere. 
 
 
Il pellegrino tornò a rivolgergli un sorriso che non illuminò i suoi occhi. “Fordraichd ner Rocnem.” Un soffio di vento freddo parve accompagnare le sue parole e si insinuò sotto il lino marrone del mantello leggero di Tjaryk, facendolo rabbrividire contro la sua volontà. 
 
 
“Un nome ambizioso” commentò Tachneri alle sue spalle, l'irritazione ben percepibile nella sua voce. Tjaryk si morse il labbro inferiore e mosse un altro passo nella sua direzione. Fordraichd continuò a non guardarla, tutta la sua attenzione fissa sul ragazzo.
 
 
Sentendo la mano dell'amata sulla sua spalla, lui non poté fare a meno di condividere il suo pensiero. Non erano in molti a saper ancora parlare quel poco lunyan che i millenni avevano preservato, ma una parola era nota a tutti coloro che avessero tentato di imparare l'antica lingua, e la sua ombra era rimasta nei suoni duri dell'othanar e in quelli aspirati e fluidi del madil, in tutte i linguaggi del sud e del nord, e persino in quello delle ninfe. 
 
 
Draichd. Magia.  
 
 
“È tardi. Devo andare” proseguì la ninfa con un tono più brusco del solito. Si appoggiò al fusto dell'albero più vicino, lanciando un'occhiata a Tjaryk. “Stai attento nel tornare indietro” aggiunse più gentilmente, prima che la sua pelle morbida iniziasse a trasformarsi in legno, fino a quando la sua figura esile non fu inghiottita dall'ampio tronco robusto. 
 
 
Tjaryk fissò la pianta per un momento, tentando di apparire ancora rilassato di fronte al pellegrino. Sapeva che Tachneri lo avrebbe seguito se avesse creduto che stesse correndo rischi, ma sarebbe rimasta nascosta nel terreno o nelle piante fino a quando non fosse stato necessario per lei uscire e intervenire – e lui sperava che non ce ne fosse bisogno. Le visioni che il suo potere gli avevano mostrato parevano indicare che quell'uomo era inoffensivo quanto sembrava.
 
 
Ma la sua amante aveva reagito in modo strano. Non era da lei andarsene così improvvisamente. Avrebbe fatto meglio a non abbassare la guardia.
 
 
“Bene” si limitò a commentare, accarezzando distrattamente la colonna dell'arpa. “Se non avete bisogno del mio aiuto, dovrei tornare a casa.” Provò a parlare educatamente, ma iniziò subito ad allontanarsi. Non poteva sottovalutare qualunque cosa Tachneri avesse sentito in Fordraichd. In circostanze diverse si sarebbe fidato unicamente di quanto la sua voce poteva comunicargli, ma mancava troppo poco al momento della realizzazione dei suoi sogni per rischiare.
 
 
Fordraichd annuì, voltandosi nella direzione opposta alla sua. Le stelle stavano iniziando a mostrarsi, ma la postura eretta non mostrava alcuna paura di affrontare la foresta. Forse era davvero più forte di quel che appariva, forse c'era in lui qualcosa di segreto che lo avrebbe protetto da qualsiasi minaccia.
 
 
Forse aveva sangue di ninfa nelle vene, o forse poteva avere ricevuto un dono dagli dei, come era stato per lui.
 
 
Tjaryk si guardò un'ultima volta alle spalle, quasi aspettandosi che Fordraichd si fermasse a fissarlo, ma vide solo la sua sagoma che si faceva sempre più sfocata mentre riprendeva il cammino, il mantello verde scuro che svolazzava nella brezza.
 
 
Accelerò il passo, canticchiando a bassa voce per tenere lontano tutto ciò che l'oscurità poteva celare. Kniriv lo stava aspettando, e forse avrebbe voluto sapere ciò che era successo.
 
 
                                                                                                                               …
 
 
L'ampia strada che conduceva al tempio principale, nonostante fosse ormai notte, sarebbe stata ancora gremita di fedeli e postulanti, e si sarebbe forse iniziata a svuotare solo nelle ore successive. Tjaryk aveva passato lì ogni giorno degli ultimi sedici anni e non riusciva a ricordare un tempo in cui la pietra candida che lastricava la via fosse stata ancora immacolata, invece che segnata dalla terra, dalla fuliggine e dal sudore portati da coloro che venivano ad assistere ai riti.
 
 
Si sarebbe potuto fare strada tra la folla, e molti lo avrebbero riconosciuto come uno dei figli di Kniriv e lo avrebbero lasciato passare. Ma era giunto fino a lì quasi correndo, senza sapere esattamente quale fosse il motivo dell'agitazione che gli scuoteva il petto, e non aveva intenzione di fermarsi ad aspettare che la massa  si spostasse goffamente per aprirgli un sentiero troppo stretto e sottile.
 
 
L'entrata secondaria, almeno, sarebbe stata spoglia, e gli avrebbe permesso di risparmiare tempo e parlare immediatamente con suo padre. 
 
 
Imboccò il sentiero, più stretto ma più pulito, fiancheggiato dall'erba alta e curata, punteggiata dai petali viola che i rami degli alberi lasciavano cadere, del giardino del santuario. La ghiaia brillava candida alla luce della luna, e solo i suoi passi infrangevano il silenzio, e il suo cuore iniziò finalmente a calmare il battito.  
 
 
“Dovresti imparare a tornare all'ora giusta.” Tjaryk sussultò e cercò con lo sguardo la fonte delle parole. Si sarebbe dovuto aspettare di udire quella voce, quelle parole, ma quella sera era stato troppo immerso nei propri pensieri per notare la figura che stava emergendo da dietro il tronco della quercia a sinistra del tempio. 
 
 
La tunica blu brillante di Kyoul e i suoi lunghi capelli bianchi erano mossi dalla brezza leggera della notte, ma per il resto era completamente immobile mentre lo fissava. Anche il suo viso era inespressivo, come se fosse stata una delle tante statue che ornavano la città, ma Tjaryk non dubitava che, se il madil ne fosse stato in grado, si sarebbe fuso con le piante o con il terreno per il puro piacere di apparirgli di fronte all'improvviso e spaventarlo. 
 
 
Si lasciò sfuggire un sospiro. “Anch'io sono felice di rivederti, Kyoul.” 
 
 
C'era stato un tempo in cui la voce di suo fratello non sarebbe stata così tagliente al suo arrivo. Avrebbe dovuto smettere di pensarci, dopo tutti gli anni che erano passati da allora. 
 
 
Gli occhi quasi indaco dell'altro scintillarono e una smorfia apparve sul suo volto di fronte al sarcasmo nella risposta, ma lui non si avvicinò. Abbassò le palpebre e incrociò le braccia sul petto. “Nostro padre ti sta ancora aspettando” sibilò. Si voltò senza dire altro, raggiungendo a passi rapidi e leggeri all'arco dell'entrata.
 
 
Tjaryk esitò prima di seguirlo. “Kyoul, aspetta...” iniziò, ma si bloccò quando l'altro si voltò, fissandolo con uno sguardo tagliente. Si chiese quante volte, negli ultimi anni, avessero avuto una conversazione simile, e se le sue parole, in quel momento, potessero placare l'ostilità del ragazzo accanto al quale era cresciuto.
 
 
“Posso chiedere che tu venga impiegato al mio fianco” sussurrò infine. Con il giorno del suo trionfo ormai vicino, quella era una promessa che poteva mantenere. 
 
 
Le labbra del madil si incurvarono in un sorriso, ma i suoi occhi rimasero gelidi. “Non è quello che voglio da te.” Si voltò e sparì oltre l'uscio in un lampo blu. Tjaryk ascoltò in silenzio i suoi passi che si facevano sempre più lontani, il fruscio della sua veste sempre più attutito. 
 
 
Aspettò finché i suoni non si furono spenti, diventando impercettibili anche al suo udito allenato, prima di entrare a propria volta nel tempio. Avrebbe dovuto smettere di provare a parlargli. 
 
 
L'ombra del corridoio, a malapena rischiarata dalle fiamme delle torce, lo inghiottì. Non sentiva il bisbiglio melodioso delle ultime preghiere della giornata. Il pensiero gli strappò un sorriso, nonostante le parole di Kyoul. Aveva chiesto, quattro anni prima, di poter partecipare ai canti che venivano quotidianamente levati, ma suo padre aveva respinto la proposta. Lui aveva insistito sulle potenzialità del proprio potere, sulle immagini che avrebbe potuto creare, magnifiche quanto le statue del tempio e più vive, ma Kniriv gli aveva ricordato gentilmente che il ruolo che lo attendeva sarebbe stato molto diverso, e avrebbe servito il Quinto Dio più fedelmente. Aveva accettato il rifiuto, ma sapeva che, non appena i sacerdoti avessero iniziato a cantare, si sarebbe fermato ad ascoltarli.
 
 
Ma doveva ancora avere tempo prima di quel momento. Kniriv, probabilmente, era sveglio, non era impegnato con le suppliche dei fedeli o con i riti e sarebbe stato libero di ascoltarlo. 
 
 
Non si diresse immediatamente nella sua cella, ma percorse il labirinto formato dai corridoi a passi sicuri, continuando a seguire le svolte fino a trovarsi di fronte alla porta lignea della sua stanza. Si tolse il mantello, estraendo la chiave dalla tasca che vi aveva cucito, ed entrò, fermandosi solo il tempo necessario ad appoggiare l'arpa sullo sgabello sotto alla piccola finestra. 
 
 
Si richiuse la porta alle spalle e riprese il cammino, ripercorrendo la strada a ritroso fino a imboccare il corridoio principale. Il soffitto sarebbe stato quasi troppo basso per chiunque a parte lui – un semplice accorgimento per far risultare ancora più maestosa l'alta navata in cui immetteva – e le torce illuminavano a malapena l'ampio spazio tra le pareti, ma lui sapeva perfettamente dove andare. 
 
 
La cella di Kniriv era rimasta sempre la stessa da quando era un novizio, nonostante il ruolo prestigioso che aveva iniziato a ricoprire. Scavata direttamente nella roccia della parete, era la terza più vicina all'ambiente principale del tempio, l'aula in cui si trovava la grande statua di Falham e i sacerdoti recitavano le loro preghiere insieme ai fedeli. 
 
 
Bussò delicatamente alla porta, anche se questa era sottile che era certo del fatto che Kniriv lo avesse sentito arrivare. Se avesse toccato il portone esterno, il suono si sarebbe comunicato in tutto il tempio e il sacerdote sarebbe già stato pronto ad accoglierlo, ma il rumore dello sgabello trascinato sulla pietra del pavimento e i pochi passi pesanti che si avvicinavano gli confermarono che il suo arrivo non lo aveva colto di sorpresa.
 
 
La porta si spalancò, mostrando la figura tarchiata di Kniriv. Sul volto rotondo di suo padre si aprì un ampio, rassicurante sorriso. “Ti stavo aspettando” lo salutò con voce dolce. “Hai passato una buona giornata?” 
 
 
Tjaryk gli sorrise a sua volta. Non si era portato dietro l'arpa, ma non dubitava del fatto che Kniriv sapesse perché era uscito, eppure non sembrava comunque in collera. Il sollievo che lo inondò fu quasi sufficiente a fargli dimenticare il vero motivo per cui era giunto lì. “Ho... incontrato una persona” iniziò. 
 
 
L'espressione di Kniriv non parve cambiare, ma i suoi occhi si fecero più seri. “Chi?” chiese suadente, invitando il ragazzo a entrare. La stanza era abbastanza grande da ospitare entrambi, anche se a malapena, e nello spazio angusto l'odore dell'inchiostro emanato dal libro aperto sul leggio accanto al letto era ancora più penetrante del solito. “Sai che puoi fidarti di me.”
 
 
Tjaryk si insinuò nella cella, indugiando sui colori vivaci che decoravano le pagine – l'arancione delle fiamme che incorniciavano il testo e il verde e il rosso del titolo in alto – prima di iniziare a parlare. “Ho visto un pellegrino nella foresta” ammise. “Non ha detto nulla di compromettente e non ho visto alcuna malvagità quando ho sondato la sua mente, ma... Tachneri sembrava insospettita, e voglio fidarmi di lei.” Sentì il sangue affluire alle guance. Anche se Kniriv sapeva già da tempo della sua relazione, non era un segreto che gli permetteva di continuare a vedere la ninfa solo perché impedirglielo lo avrebbe distratto dai suoi doveri più di quanto lo facesse trascorrere parte del proprio tempo con lei. 
 
 
Kniriv tacque per un tempo che a Tjaryk parve infinito. “Solo questo?” chiese infine. Le spalle del ragazzo si afflosciarono al tono che la sua voce aveva assunto. Era chiaro ciò che le poche parole di suo padre nascondevano. Si era fatto prendere da timori irrazionali, e aveva disturbato il Sommo Sacerdote per nulla. 
 
 
L'uomo tornò a sorridere e gli accarezzò i capelli. “Posso capire che ti fidi della tua donna, ma probabilmente ha solo percepito del sangue di ninfa in lui. Ma è un bene che ti prepari a prevenire ogni minaccia... vedrai che, nei prossimi anni, Othanar te ne sarà grata. Se ricordi il nome di questo... pellegrino, posso farlo controllare per assicurarmi che non sia un pericolo.” 
 
 
 
Tjaryk prese un respiro profondo, concentrandosi ancora un momento sulla mano calda del sacerdote sulla propria testa. “Fordraichd ner Rocnem” rispose infine. Lo straniero non poteva avergli mentito su quello. Non dopo che aveva letto la sua mente. “Doveva raggiungere il tempio di Xamvor.”
 
 
“Molto bene.” Il modo in cui Kniriv aveva pronunciato le parole era tornato a farsi dolce e rassicurante. “Non credo che sia una minaccia, ma staremo in guardia, se necessario. Hai fatto bene a parlarmene.” Tjaryk risollevò lo sguardo, ogni delusione cancellata dal modo in cui gli occhi di suo padre stavano brillando mentre lo guardavano. 
 
 
Forse la sua azione non era stata necessaria, ma aveva agito per il bene di Othanar e per la gloria di Falham, come aveva giurato di fare.
 
 
“E se quest'uomo, chiunque egli sia, si dimostrerà pericoloso,” riprese Kniriv, prendendo la mano piccola e scura del figlio tra le proprie, “allora lo porterò da te. Potrebbe essere una buona occasione per dimostrare agli altri quanto tu sia degno del tuo ruolo.” Il suo sorriso si fece diverso, la soddisfazione visibile nella piega delle sue labbra. “Tre giorni, e potrai avere tutto quel che desideri... anche la tua ninfa, se è quello che vuoi. Devi solo restare qui.” 
 
 
“Non potrei mai andarmene” mormorò Tjaryk. Non riusciva a immaginare un futuro diverso da quello che gli era stato promesso.
 
 
I sacerdoti gli avevano dato tutto – gli avevano donato la vita più serena e luminosa che potesse immaginare. Avrebbe ripagato loro e il dio che, con il proprio potere e la propria benevolenza, aveva protetto Othanar e l'intera umanità dall'alba dei tempi.
 
 
E avrebbe continuato a servirli fino all'ultimo respiro, come era sempre stato destinato a fare. 

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