La finestra senza sole

di _Lightning_
(/viewuser.php?uid=123574)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fuori in strada, che buio che c'è ***
Capitolo 2: *** Dovrai dirlo per forza a 'sto mondo ***
Capitolo 3: *** E la vita va troppo veloce ***
Capitolo 4: *** Domattina io arrivo da te ***
Capitolo 5: *** Tutti i ricordi che ti porti nella testa ***
Capitolo 6: *** Fuori in strada (il buio non c'è) ***
Capitolo 7: *** La poesia più bella del mondo (è un segreto tenuto nascosto) ***
Capitolo 8: *** Epilogo - È qui che ho trovato il mio posto ***



Capitolo 1
*** Fuori in strada, che buio che c'è ***









 
 
 
Napoli, novembre 1933
 
          A RICCIARDI piace pensare, forse per via di qualche meccanismo autopunitivo di cui è solo parzialmente cosciente, che l’unica finestra dalla quale possa guardare il mondo esterno sia quella della sua stanza, affacciata sul vicolo; o meglio, sulla finestra opposta dalla quale può scorgere, attraverso il velo sottile della tenda e la condensa del vetro, la figura esile di Enrica.

Vi guarda spesso, da quella finestra, poiché, avendo una sola finestra in stanza, non v’è poi modo di cambiare vista così facilmente. Soprattutto al mattino e alla sera, quando fin troppi pensieri gli si addensano in testa, frutto delle poche ore di sonno che ha strappato alla notte o che si appresta a tentare di strapparle tra le emicranie e le visioni di spettri che hanno affollato la sua giornata.

Per aprirsi una nuova vista sul mondo dovrebbe buttar giù un muro, o magari cambiar casa. O dovrebbero portargliela via, quella finestra, costringerlo a trovarne un’altra.

È un singolo quadrato di cielo in cui si concede di sognare un futuro, di fingersi normale, di non vedere gli occhi spenti dei morti che lo scrutano dall’ombra, ricordandogli che lui, un futuro, non ce lo può avere, e normale non è mai stato.

È certo, come è certo di sentire il sole tiepido filtrare dal vetro ogni mattina, che sia quella, l’unica imposta da non chiudere mai. Che sia quella, l’unica luce a cui può permettere di raggiungerlo. A distanza, oltre un vetro, irraggiungibile. Qualcosa da guardare solo da lontano.

Se non che quella mattina livida di novembre, sebbene la finestra sia ancora lì, spalancata e coi vetri limpidi, la luce è venuta a mancare lo stesso. S’è accorto solo allora, con l’ingenuità di un bambino che ancora non sa come funziona il mondo, che della finestra non può farsene nulla, senza il sole fuori. Il buio è arrivato all’improvviso, come una nuvola che copre l’ultimo sangue del tramonto, tirando giù con anticipo la coperta della notte. Ma, così come non lo è la notte, neanche quel buio è inaspettato. Perché, in fondo al cuore, Ricciardi sapeva che prima o poi sarebbe accaduto, così come sa che ogni giorno il sole tramonta e non se ne sorprende; ma non per questo il buio appare meno nero e fitto.

Mentre cammina a passo più svelto del solito verso casa, i vicoli di Napoli non gli sono mai sembrati così bui, così poco accoglienti. Sa già che, non appena la luce riflessa dal mare del Golfo e dalle facciate calde delle case svanisce, emergono i derelitti rannicchiati sugli scaloni delle chiese, e gli scugnizzi vestiti di stracci in cerca di una borsa facile o di un tozzo di pane, e i bastardini rognosi raggomitolati negli androni; e, anche, chi, in divisa nera, s’impegna a prendere a bastonate tutti gli altri col favore del buio, per ristabilire un presunto ordine che non è mai davvero esistito.

Quella sera, però, non ci sono nemmeno le solite ombre a far capolino dagli angoli al suo passaggio, né il marciare ritmato di stivali pesanti sugli acciottolati o i cori svociati che li accompagnano. Persino i morti sembrano essersi rintanati nel loro regno, per una volta.

Ricciardi, in altre circostanze, accoglierebbe con piacere quella solitudine, perché della gente viva tende a stancarsi facilmente; e sulla gente morta preferisce non posare lo sguardo troppo a lungo. In quel momento, però, gli pesa più che mai, la sente nello stomaco con un principio di nausea (più intenso alla prospettiva che possa non passare mai, anzi, peggiorare).

È venerdì sera, e il venerdì sera quella strada non la percorre mai da solo. C’è quasi sempre Bruno a camminargli accanto, col suo passo elastico e scanzonato, allegro e gioviale come lo è sempre, quando stacca dall’ospedale con la prospettiva di una cena in trattoria offerta dalle tasche del suo “commissario ‘ngrugnato” (gli piace, quando gli affibbia quei nomignoli).

Durante il cammino, quella sera, la consapevolezza dell’assenza si fa via via più tangibile, fino a diventare un qualcosa di solido, in totale contrasto col concetto stesso di vuoto.

Mancano le gomitate che Bruno gli rifila tra le costole quando lo ritiene troppo poco partecipativo alla conversazione (piccole scariche elettriche), la scia del sigaro che si lascia dietro fumando distratto (era quasi un profumo), le risate soffiate che getta fuori ripensando a questo o quell’aneddoto, prima di raccontarlo anche a lui e strappargliene a sua volta una (con una facilità sconosciuta a tutti gli altri).

E, ogni volta che Ricciardi gliela concedeva, quella risata non trattenuta o quel sorriso sbieco che non si curava di nascondere, Bruno si illuminava come se avesse vinto al banco lotto e lo fissava con l’aria del gatto che ha colto in fallo il topo (e lui sorrideva di più, senza nemmeno pensarci). Perché, a onor del vero, non sono poi molte le persone in grado di farlo sorridere genuinamente e ancor meno quelle che lo sanno far ridere, e Bruno ne faceva un punto di vanto, di essere tra quei pochi eletti (e aveva ragione).

Ricciardi si sforza di non rallentare il passo, di non guardare alla sua sinistra, di tenere le mani ben ferme, ancorate dietro la schiena e di non passarsele sul volto tirato, ancor più pallido del solito sotto la luce dei lampioni. A casa, deve solo arrivare a casa e tentare di dormire, in qualche modo, di riportare sotto controllo il buio che pulsa ai margini della sua vista.

No, non è inaspettata, quell’improvvisa oscurità.

Quante volte l’ha detto, a Bruno, di non dar sempre fiato alla sua bocca pungente, specialmente in certi posti, di fronte a certe persone (specialmente lontano da lui?) C’è ben poco che un commissario di polizia possa fare contro uno squadrone di camicie nere deciso a pestare qualcuno, ma quel poco l’avrebbe fatto senza pensarci due volte. Fosse stato anche solo porsi tra un pugno e il volto di Bruno. Fosse stato anche solo porgergli una mano per aiutarlo a rialzarsi, o venire scortato via di fianco a lui per essere spediti entrambi al confino.

Ricciardi non ha timore della morte. Ne ha di vivere, semmai. E ne ha ancor di più al pensiero di doverlo fare da solo; e la prospettiva di sentirsi già tale con Bruno sotto arresto da a malapena un giorno gli torce lo stomaco (in un modo nuovo, estraneo, bollente e gelido al contempo).

Perché la finestra in camera sua è aperta, sì, ma buia; e la luce dall’altro lato della strada è forse solo l’idea che si è fatto della felicità, non certo la felicità stessa, anche se si è convinto che lo sia. Ricciardi lascia ricadere la tenda a velare il bagliore fioco di fronte a lui e la sagoma indistinta di Enrica, con lo sguardo puntato su un ricamo.

Spera che non lo alzi per guardare nella sua direzione e chiude piano le imposte, avvolgendosi nel buio fitto della propria stanza. Preme la fronte contro il vetro freddo, strizzando gli occhi e trovandoli più gonfi e doloranti che mai, un principio di emicrania particolarmente violenta che gli preme dietro i bulbi oculari.

La domanda martellante che gli si rivolta nella testa (dov’è Bruno?) sembra ricoperta di spine e gli invia fitte a ogni minima contrazione. È terrorizzato dal darsi una risposta; e non dovrebbe esserlo, o almeno non così tanto (eppure lo è).

Solo che Bruno è l’unico che sopporta i suoi umori cupi, l’unico che riesce a farlo ridere con facilità disarmante,  l’unico a fargli perdere le staffe con altrettanta facilità, l’unico che gli tiene testa a suon di umorismo mordace, l’unico con cui si concede un bicchiere di troppo, l’unico che potrebbe bussare alla sua porta alle tre di notte e trovarla aperta, l’unico... (l’unico in un’altra infinità di modi che, forse, sono fin troppi).

Non dovrebbe sentirsi così. Non dovrebbe sentirsi come se gli avessero strappato un organo, non dovrebbe provare quel senso di angoscia paralizzante che gli toglie il respiro.

Sa benissimo a cosa dovrebbero essere associate quelle sensazioni, quei sentimenti (ha paura a dare loro un nome) lui che si proibisce di provarli con chiunque e rifugge il mondo dei vivi (perché i morti sono spaventosi, sì, ma semplici e immutati, mentre le persone cambiano e lui non riesce a stare loro appresso). Sono spaventose, le persone, i sentimenti, le stesse cose che legano i morti al mondo dei vivi.

Strizza il tessuto della tenda tra le mani fino a sentirlo impresso sui palmi e serra gli occhi, con la consapevolezza che gli ribolle tra stomaco e gola in una massa di fango (nauseante, opprimente, sbagliata).

Bruno è solo il suo migliore amico; ed è molto più di quello, anche se c’è voluto il buio per farglielo capire (non è certo di volerlo capire davvero).

Era accanto a sé, il sole (accanto, non là fuori, non oltre la finestra, non nel cielo); aveva il sole accanto e non l’ha visto (non l’ha voluto vedere) finché non gliel’hanno spento.

 
 
Note dell'Autrice:
Provo altissima, purissima, levissima vergogna nel postare questa... roba qua?
Mah, relativamente. Ho già superato lo scoglio del volermi sotterrare nell'essermi ritrovata colpita dall'ispirazione per colpa di una fiction RAI – l'ho vista in circostanze particolari e probabilmente si tratta di semplice sindrome di Stoccolma nel costringermi a tollerare un prodotto italiano.
Il vero punto è essere finalmente tornata a scrivere dopo mesi e mesi, su un fandom che ci filiamo solo io, Lino Guanciale e sua zia, probabilmente. Ed è bellissimo essere invisibili, non avrei mai pensato di dirlo.

Per chi conosce la serie, ovvero quei tre cristiani che hanno avuto la (s)fortuna di vederla (perché, diciamocelo, rimane una fiction RAI in tutto e per tutto), la scelta della coppia non sarà credo una sorpresa. Per tutti gli altri, ovvero tutti, sappiate che c'è più chimica tra 'sti due carciofi che con tutto il resto del cast femminile, tanto che il deficiente Ricciardi si fa arrestare con sospetto di omosessualità per i suoi rapporti troppo amicali con Bruno – e no, non è proprio carina, una cosa del genere in pieno regime fascista, ma è molto indicativa che venga buttata lì in un programma con target casalinga disperata. Non ho sprecato l'occasione, ecco: se mi porgi la ship su un piatto d'argento io mi ci tuffo a pesce e ci sguazzo finché mi va.
Non ho letto volutamente i libri d cui è tratta la serie prima di scrivere, anche se progetto di farlo, quindi non ho idea di come sia reso il personaggio originale. Molto probabilmente, meglio!

In tutto ciò, ringrazio le anime prave che hanno letto fin qui e soprattutto Miryel, che mi ha preso a pizze per farmi superare le mie fisime su questa storia. Qui mi taccio per il resto dei capitoli (quattro, per la precisione), lasciandovi alle elucubrazioni di un commissario confuso con sottofondo dei Pinguini Tattici Nucleari, che con la Napoli fascista degli anni Trenta ho pensato si sposassero bene, proprio come il cacio sul profiterol.

-Light-

P.S. Avviso: non sono napoletana e pertanto la mia conoscenza del dialetto è estremamente limitata, se non nulla. Per evitare cringe a chi il napoletano lo parla, ho evitato di inserirlo, se non per qualche sporadica espressione qua e là e in un paio di dialoghi più avanti, giusto per dare un po' di colore, ma sono più colloquialismi che vero dialetto – da traduttrice, dico no agli scempi linguistici.




 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Dovrai dirlo per forza a 'sto mondo ***




 
 
 
Napoli, novembre 1933
 
          È L'ALBA, quando Ricciardi si decide a uscire di casa dopo una notte insonne passata tra la finestra e il letto coi passi corti e scattosi di una belva in gabbia. Un’alba pallida, velata da stracci di nubi, col grigio che avvolge i vicoli e i tetti e la rugiada che ancora imperla le grondaie, rendendolo quasi invisibile nel suo solito soprabito del medesimo colore.

Non è ancora spento, il sole, pensa con un’ostinazione che può nascere solo dallo sconforto più cupo (o da emozioni innominabili).

Non è spento, è solo coperto, si ripete, calcando i tacchi sul prato ben curato di Villa Pignatelli, verso l’ampio colonnato, incurante di infradiciarsi i calzoni e le scarpe appena lucidate. E il sole ben vale la vergogna di presentarsi lì, di implorare Livia in ginocchio, se deve.

Il sole vale questo e ben altro, anche se poi potrà solo osservarlo da lontano. Gli basta quello, dopotutto (gli è sempre bastato).
 
 
Livia ha sempre avuto buon gusto, gli viene da pensare a sproposito, mentre la attende nell’ampio atrio della villa.

Il suo sguardo vaga sui soffitti a cassettoni intarsiati e sulle statue di marmo, dalle curve morbide come miele nella luce acerba del primo mattino. Non che abbia arredato lei quel luogo, né vi abbia probabilmente aggiunto il minimo tocco personale da quando vi è giunta da Roma, ma trova che le si addica perfettamente, come i vestiti avvitati che indossa spesso. Eleganti, raffinati, mai esosi. Non ha bisogno di mettersi in mostra, per apparire.

Ricciardi stringe e allenta la mandibola in modo impercettibile, in un ritmo sobbalzante.

Livia è bella. L’ha sempre pensato, sin dal momento in cui ha incrociato i suoi occhi scuri e cangianti di toni più caldi oltre la veletta. Nemmeno un cieco potrebbe negarlo (nemmeno lui può negarlo).

Non si è mai soffermato troppo su quel pensiero. È sempre stato un dato di fatto, per lui, come sapere che il cielo è azzurro (come sapere che il sole splende), e non giocava un ruolo poi così rilevante nel loro rapporto. Almeno, non per lui. Ora, si chiede perché la trovi bella e non sa darsi una risposta.

Fissa il pavimento sotto le sue scarpe; hanno lasciato aloni di rugiada umidi sui motivi floreali più chiari che si intrecciano sul marmo verde serpentino.

Non sa più rispondersi con chiarezza neanche al perché abbia sempre tenuto Livia a distanza. Pensava di saperlo, come ha sempre saputo perché sia stato solo fin da ragazzo. Legarsi a qualcuna vuole inevitabilmente dire trascinarla nella sua vita vissuta fianco a fianco coi morti, senza poterne mai parlare. Senza poter mai avere figli, se il rischio è condannarli alla sua stessa maledizione. Significherebbe un amore mutilo di fiducia e un matrimonio sterile e infelice per entrambi.

Il motivo della sua solitudine volontaria è sempre stato quello, né più, né meno (anche se non è sempre stato solo). D’un tratto, gli pulsa di nuovo il cuore in gola, in modo spiacevole, asfissiante.
Ha ricordi confusi dell’unica notte che ha passato con Livia. La febbre ha offuscato i dettagli e le sensazioni, ha annacquato i gesti e i pensieri (gli si stringono i vestiti addosso, soffocanti, sente il principio di nausea nello stomaco che preme verso l’alto).

Non ricorda come erano arrivati a quel punto (non sa se l’aveva voluto davvero). Non sa perché non l’ha respinta. Ma non può pensarci adesso (no, non l’aveva voluto davvero), non può farsi sopraffare.
Deve riuscire a guardare Livia negli occhi senza vacillare, come ha sempre fatto (come gli è sempre riuscito di fare con una facilità incomprensibile agli altri uomini).

Il rumore di passi sul marmo lo riscuote, ma sa già che non è Livia, di cui riconoscerebbe l’andatura svelta e decisa, di chi sa esattamente quello che vuole e come ottenerlo. La domestica bionda che lo ha accolto gli si avvicina con espressione leggermente più severa rispetto a prima, e Ricciardi è convinto che lo stia per invitare a lasciare la villa senza nemmeno aver parlato con Livia, nonostante abbia insistito ben oltre ogni educazione perché la informasse del suo arrivo.

«La signora Luciani vi attende nelle sue stanze. Vi faccio strada,» gli annuncia invece, con voce gentile e un gesto cordiale a seguirla.

Ricciardi maschera un respiro più sonoro, carico di tensione. È ovvio che voglia parlare lì. È una mossa che si sarebbe dovuto aspettare, perfettamente in linea col modo di fare scaltro, quasi tattico di Livia. La ammira anche per quello, per la sua forza d’animo che rasenta la sfrontatezza e le attira contro più di una malalingua.

«Vi ringrazio,» risponde con un cenno del capo, suonando compassato come suo solito, anche se sa di non essere in grado di celare del tutto il suo turbamento.

È un miracolo che stia riuscendo a non pensare troppo (a Bruno, a cosa può essergli capitato) e a frenare l’impulso di compiere gesti sconsiderati, come ordinare un fermo del porto e delle stazioni e interdire ogni nave e treno in partenza, come se avesse l'autorità per fare una cosa del genere.

La domestica, ignara dei suoi tumulti, lo accompagna fino alla porta di Livia, socchiusa; poi si congeda, sparendo svelta al pianoterra come seguendo un ordine dato in precedenza.

Ricciardi non ricorda quella porta di mogano intarsiato, né quel corridoio dove i passi sono attutiti da lunghi tappeti scuri stesi sul marmo; almeno non da quella prospettiva. Era incosciente, quando li ha attraversati, e troppo inquieto e preso da altri pensieri quando li ha lasciati: ruotavano tutti attorno all’omicidio del piccolo Tettè, quell’indagine che gli aveva divorato l’anima fino a farlo collassare – poi l’incidente, la ferita, la convalescenza (Bruno, Bruno l’aveva salvato) e non c’era stato tempo per tornare qui o ragionare su quanto successo. L’aveva lasciato scivolare via, sperando scomparisse alle sue spalle. Non può ovviamente aspettarsi che per Livia sia stato lo stesso.

Fissa il legno lucido per ancora qualche secondo, prima di posarvi sopra le nocche. Non sa cosa dire (ma è il suo turno di salvarlo, adesso). Non bussa, alla fine. Scosta solo la porta e varca la soglia di mezzo passo.

«Permesso?»

La voce gli gratta contro le corde vocali, roca, poco naturale.

Livia è in piedi davanti alla finestra e gli dà ostentatamente le spalle, lo sguardo rivolto verso il parco oltre il patio esterno, sui tetti lontani e rossicci del centro città. È in abiti comodi, con una semplice blusa lilla e dei pantaloni larghi e scuri. I capelli solitamente raccolti e acconciati con forcine dietro la nuca sono sciolti, lasciando liberi i ricci neri fino alle spalle. Non si è curata di rendersi presentabile per lui. Non è certo se interpretarlo come un segno di disprezzo o se sia una qualche strategia per fargli abbassare la guardia.

«Non mi aspettavo una tua visita,» esordisce lei tagliente, senza nemmeno voltarsi. «Accomodati.»

Sembra una minaccia, più che un invito, e lo mette istintivamente sul chi vive. A Ricciardi non importa di dover affrontare una conversazione scomoda, né di ferire, anche se preferirebbe evitarlo, o tantomeno venire ferito, né di perdere eventualmente Livia; sarebbe solo tanto di guadagnato per lei. Ma inimicarsela vuol dire precludersi anche l’unica speranza di salvare Bruno; e questo sì, che gli causa un pizzicore di paura in fondo allo stomaco. Deve muoversi cauto come non ha mai fatto con lei.

Entra nella stanza con un momento di ritardo, facendo cigolare le scarpe con uno stridio che pare assordante.

Nota solo allora il baule da viaggio aperto ai piedi del letto, la valigia sul tavolino e l’armadio spalancato, vuoto. Non serve essere commissario di polizia per mettere insieme i pezzi.

Deglutisce a vuoto, con l’emicrania che riprende a premergli violenta dietro gli occhi. Livia sarà convinta che sia venuto lì per scusarsi o forse trattenerla, avendo intuito chissà come che sta per lasciare Napoli, ma non c’è nulla di più lontano dalla verità. O meglio, deve impedire che parta, ma per motivi molto distanti da quelli che vorrebbe lei (per il motivo opposto). Anche se una parte quasi impercettibile della sua coscienza gli dice che è colpa sua, il fatto che se ne stia andando, e ciò non gli invia una bella sensazione.

La discussione alterata che hanno avuto appena qualche giorno fa gli rimbomba nelle orecchie come un temporale sempre più vicino. Non è mai stato deliberatamente villano con nessuno, lui, ma in quel singolo istante in cui si è ritrovato allo stesso tavolo con Livia e Bruno, qualcosa gli è scattato dentro. Una rabbia ingiustificata, repentina, che ha rovesciato addosso a entrambi alla cieca (con la sensazione incomprensibile, asfissiante, di trovarsi tra due fuochi).

Schiude la bocca per parlare e poi la serra di nuovo. Non gli riesce di parlar bene con le persone e le persone di rado parlano volentieri con lui. L’alterco che ha avuto con Livia ne è l’ennesimo esempio. Solo i morti sembrano sempre ben lieti di rivolgergli la parola.

«Scusami, se ti ricevo in queste condizioni,» continua Livia, con una vena d’irritazione a quel suo lungo tacere.

«Scusami tu,» ribatte lui, prima di poter trovare qualcosa di più sensato da dire, e forse ha già detto troppo. «Vengo qui senza nemmeno avvisare...»

Il silenzio protratto di Livia è teso, pericoloso. La mano posata in alto, sulla cornice della finestra, freme irrequieta.

«Immagino. Per farti venire qui, deve esserlo davvero,» dice infine, voltando appena il capo e mostrando per un istante il profilo elegante, cesellato.

Ricciardi, in una frazione di secondo, con la stessa rapidità con cui a volte riallaccia tra loro i fili sfrangiati di un caso, capisce che, se gioca male le sue carte, è finita (per Bruno è finita, e anche per lui).
Inghiotte l’orgoglio, non poi così tanto, in fin dei conti, e parla come un automa (non ha tempo ma glielo deve, almeno questo):

«Hai ragione, a essere arrabbiata con me. Mi sono comportato in una maniera che non ammette giustificazioni.»

Non sa nemmeno lui a cosa si stia riferendo, se a quella notte passata insieme, al loro diverbio più recente, o al modo in cui l’ha sempre schivata, evasa, tenuta a distanza ma non troppo sin da quando si sono incontrati, in un gioco che lei ha erroneamente interpretato come sfida.

«Lascia stare,» scatta Livia, non curandosi affatto di apparire composta come suo solito. «C’era un’altra persona presente e ha complicato le cose, tutto qua.»

Ricciardi chiude gli occhi per un brevissimo istante, assecondando una fitta di emicrania particolarmente acuta. Quindi è del diverbio, che sta parlando. Non ne è comunque sollevato. Sì, c’era un’altra persona (l’unica), e Livia non ha la più pallida idea di quanto stia camminando vicina all’orlo del suo baratro, di come basterebbe una spinta noncurante a farlo precipitare. Si sente la vista appannata e ringrazia che Livia gli stia ancora voltando le spalle.

«E il tuo comportamento è stato quello che hai sempre avuto nei miei confronti,» continua poi lei, senza perdere un battito, con la voce asettica di chi ha passato abbastanza tempo a riflettere su qualcosa, tanto da poterne parlare come se fosse di poco conto.

Se gli avesse sferrato uno schiaffo in pieno volto, avrebbe probabilmente fatto meno male. È una paura diversa, quella che gli morde le viscere adesso, più fredda, più razionale, proiettata verso l’interno: da quanto si comporta in quel modo? Quanto sono stati evidenti e leggibili i suoi comportamenti, quando nemmeno lui sapeva come interpretarli? Da quanto Livia si chiede se ci sia qualcosa che non va in lui, piuttosto che in lei?

«No, Livia, non è come credi,» si lascia scappare, quasi affannato.

Copre la distanza che li separa con due falcate, lasciando uno spazio appena accettabile tra loro, tanto che sente il profumo di peonie sulla sua pelle e vede le sue ciglia inchiostrate in controluce (ed è come guardare un quadro, bello ma dal soggetto irraggiungibile, destinato rimanere in una cornice).

«Non è così,» ribadisce, con quella voce che non è la sua (vorrebbe che non fosse così, vorrebbe non essere così).

Lui non parla con la gente, tantomeno parla di sé. Rosa, forse, è l’unica persona al mondo che a volte riesce a farlo parlare anche quando non vuole (e Bruno, con Bruno vuole parlare sempre, a volte gli fa quasi paura la facilità con cui si ritrova ad aprirsi con lui).

Ma no, lui non parla con la gente e vorrebbe farlo il meno possibile, così come vorrebbe parlare di sé il meno possibile; ma adesso è all’angolo, con Livia che lo crede a ragione un uomo freddo, indifferente.
Quando invece, ogni giorno della sua vita, gli pare che il mondo gli prema addosso cercando di fargli sentire ogni suo più piccolo fremito di gioia e dolore, schiaffandogli in faccia la morte e la vita fianco a fianco, e il dolore e i sentimenti (e quanto poco lui sia adatto a contenere entrambi). Si sente esplodere, a volte; vorrebbe smetterla, di vedere morti a ogni angolo e di fissare il mondo da dietro una finestra per paura di esserne travolto.

«Io sono una persona chiusa, non mi apro con nessuno.» Si strappa fuori ogni parola a forza, come estraendola a colpi di scalpello da una cava. «Tantomeno con una donna come te, che avrebbe diritto a ogni felicità. Se ti tengo lontana da me, è soltanto per il tuo bene.»

Bruno, però, non ci è riuscito a tenerlo lontano.

Quel pensiero gli falcia la mente, privo di veli, e pulsa come fuoco liquido, ribolle come le solfatare sotto al Vesuvio quando la terra trema. Trema anche lui, gli tremano le vene nei polsi e quel sentimento taciuto nel petto, un canarino bloccato in una miniera che ammutolisce e soffoca a poco a poco.

Livia scatta, a quelle parole, e il suo fremito d’ira sembra investire l’aria. «Che ne sai, tu, qual è il mio bene?» gli chiede, con un disprezzo puro che non gli ha mai riservato. «Sono abbastanza vecchia da capire quando non piaccio ad un uomo, senza dovermi umiliare di più davanti a lui.»

Ricciardi si sente avvampare, a quell’affermazione (vergogna, allarme, di nuovo paura). La vista gli si fa sempre più liquida, si sente incurvare le spalle. Livia non ha la più pallida idea di quanto sia vicina a recidere quel misero filo di sanità che lo sta tenendo in piedi dal giorno prima.

«Dimmi, piuttosto, perché sei qui?» gli chiede poi, precludendogli qualsiasi tentativo di risposta.

E le è quasi grato, perché non è certo che saprebbe trovare scuse coerenti a quella sua ultima affermazione. Si sente quasi nudo di fronte a lei, spogliato dell’ultimo scampolo di dignità che poteva usare come difesa (perché, no, Livia non gli piace, non in quel modo, ed è folle che anche solo pensarlo).

Inghiotte a vuoto, la bocca arida, e in quel momento Livia si volta, decidendosi a fronteggiarlo. Ricciardi capisce dal modo in cui lei sbarra leggermente gli occhi di non essere minimamente riuscito a celare nulla di ciò che gli si sta agitando nel petto (ha paura, non ne ha mai avuta tanta in vita sua) e di avere con tutta probabilità l’aspetto spaventoso di chi ha passato un giorno e una notte tormentato da nausea e incubi.

«La persona che era con noi l’altro giorno...» comincia prima che Livia possa parlare, con la voce che si spegne, flebile.

Bruno, non riesce nemmeno a dirlo; ha paura di far vibrare sulla lingua quel nome così familiare, come se ciò potesse tradirlo del tutto.

«Il dottor Modo?» chiede conferma lei, inclinando il capo, con quel suo modo di fare grazioso e distinto, ma venato di pericolosità.

Ricciardi annuisce soltanto, rigidamente.

«Che gli è successo?»

Non era la domanda che si aspettava, e non sa a che gioco stia giocando Livia. Ma Bruno, dopotutto, gli ha salvato la vita non troppo tempo fa (sente ancora la cicatrice sulla nuca e il ricordo appannato di mani abili che la sfiorano). È chiaro che lei è disposta almeno ad ascoltare, se si tratta di qualcuno con cui si sente indirettamente in debito. Ricciardi si ricorda di respirare.

«È scomparso.»

Gli trema la voce come non gli è mai tremata di fronte a lei, con le parole che lottano contro un nodo scorsoio prima di uscire. Quell’informazione sembra dissipare, per un istante, il velo di furia che le offusca lo sguardo.

«Lo hanno caricato su un’auto e lo stanno per portare al confino.»

Gli si spezza la voce, facendo crollare l’ultimo baluardo di fermezza che la teneva salda. Anche se non era lì, la scena gli si dipinge in testa con fin troppa chiarezza. Bruno deve aver lottato come un leone, avranno dovuto tenerlo fermo in tre, forse a suon di manganellate e pugni e calci, prima di ammanettarlo e scaraventarlo in un’automobile. Prima di portarlo chissà dove e fargli chissà cosa (chissà se è ancora vivo).

L’ondata di nausea si fa così forte che è convinto di stare per rimettere lì, davanti a Livia, sul tappeto persiano rosso. Riesce a domarla appena in tempo, ma il sapore acre della bile gli brucia la gola, e il suo spasmo non passa inosservato. Ha visto fin troppi morti per poter pensare a Bruno ridotto così.

Livia è una statua di marmo non dissimile da quelle che adornano la villa, adesso, con lo stesso sguardo temporalesco, ma al contempo imperturbabile, di una qualche divinità che scruta dall’alto le faccende umane. È inquieta, lo vede, ma è anche troppo adirata per darlo a vedere.

«Tu come lo sai?» chiede a denti stretti, stringendo le dita sulle braccia con forza visibile.

«Sono venuto a saperlo.»

Ricciardi la fissa di rimando, inamovibile, senza aggiungere altro. Non è il momento di menzionare che Achille Pivani, un funzionario del Partito, gli deve un favore (né che tipo di favore; quella gli sembra quasi una beffa del destino). Sa che Livia si muove su lato della scacchiera abbastanza lontano dai pezzi neri, ma è una casella fin troppo vicina alla figlia del Duce per scoprirsi troppo.

Lei sembra frastornata per un istante, le braccia ora strette al petto e le labbra tinte di carminio compresse tra loro. È un’apertura, e Ricciardi la coglie, stavolta senza esitare. Questo lo sa fare: fatti, eventi, piani d’azione, puntini da unire con linee nette per arrivare a un risultato. Si sente quasi meglio, per un istante.

«Così come sono venuto a sapere che c’è una persona incaricata di vigilare sulla tua sicurezza, e che quella persona sarebbe determinante per liberare Modo, per non farlo partire.»

Bruno, non dice di nuovo, il suo nome bloccato tra le corde vocali. E ha fatto breccia, lo coglie nel modo in cui Livia quasi indietreggia di un passo, colta alla sprovvista, forse allarmata.
Non è un’informazione che lui dovrebbe avere, quella. Nessuno dovrebbe averla. Capisce anche che, chiunque sia l’uomo di cui gli ha parlato Pivani, non nutre la simpatia di Livia; anzi, ne sembra quasi intimorita.

Per questo ha la sensazione di stare giocando sporco, quando parla di nuovo (sta giocando sporco dall’inizio, ingannandola con ogni parola che pronuncia):

«Livia, tu puoi salvarlo.»

Lei batte le ciglia con qualche istante di ritardo, come riscuotendosi a forza da un turbinio di pensieri. Lo supera, scansandolo, e si poggia subito al tavolino lì a fianco, voltandogli le spalle. Ricciardi frena l’impulso di sfiorarle la schiena, ad accertarsi che non stia avendo un mancamento. È turbata, molto più di quanto non l’abbia mai vista, e il senso di colpa gli arpiona lo stomaco. Non dovrebbe chiederle nulla di tutto questo.

«Non credo di avere il potere...» comincia lei, ma le manca la voce, Ricciardi non sa se per l’incertezza o la confusione. «Di quest’uomo non conosco nemmeno il vero nome,» dichiara poi, e c’è timore palpabile, nella sua voce, per quell’ombra che le hanno insinuato a forza nella vita.

Ricciardi chiude per un lungo secondo gli occhi, domando la fitta improvvisa di panico nel sentire quello che è chiaramente il preambolo a un “no”. Sente anche una fitta di protettività, nel vederla così e l
’istinto di saperne di più sulla persona in grado di farla alterare a quel modo. Poi decide che, per una volta in vita sua, deve essere egoista, e in tutto e per tutto l’uomo frigido e insensibile che finge di apparire (non appare così ora, di certo, non con gli occhi liquidi, il respiro che trema e lo sguardo di un disperato). Il resto può aspettare, per ora.

«Non te lo sto chiedendo per me.» Le prende un braccio prima di potersi frenare, delicatamente, ma con fermezza, e la obbliga a guardarlo di nuovo. «Te lo chiedo per lui.»

Non sa quanto sia evidente quella bugia sul suo volto, sa solo che brucia e riverbera, e che Livia può vederla benissimo. Sta camminando di nuovo sul ciglio del baratro (ma Bruno, forse è già nel baratro, è già...)

«Bruno non merita di essere sbattuto chissà dove per le sue idee,» gli esce detto con foga, prima di potersi rifugiare nel più neutrale dottor Modo, e il suo nome gli risuona in bocca in modo estraneo, gli accarezza la lingua di una vibrazione più dolce che quasi lo scioglie.

Qualcosa cambia, negli occhi di Livia. Un riflesso fugace di dubbio, di perplessità. Una domanda inespressa, proibita, che le rimane appesa sulla punta delle sue labbra quando le schiude appena, in procinto di parlare, prima che lui la anticipi, spazzandola via:

«Ti prego, Livia. Non c’è tempo.»

Sa che, in questo momento, chiunque potrebbe leggergli in volto tutto ciò che dovrebbe sempre tenere ben celato in fondo al cuore. Sa che nessun uomo perbene si ridurrebbe a implorare in quel modo patetico senza almeno tentare di mantenere un contegno, un briciolo di compostezza. Sa di apparire in ogni gesto e sguardo e parola come l’uomo attanagliato dall’angoscia che è, e non gli importa.

Livia, per un singolo istante, lo guarda dritto nelle pupille, vi si immerge con la stessa quieta ma inarrestabile determinazione con cui si è immersa nel suo sguardo prima di baciarlo e trascinarlo su di sé, quella notte. E poi si ritrae con altrettanta rapidità, come se avesse incontrato una superficie troppo glaciale, stavolta, o troppo rovente.

Scuote appena la testa, un movimento impercettibile di ricci, e lui le libera subito il braccio, recuperando un poco di distanza. Gli ondeggia la terra sotto i piedi e il pulsare nello stomaco si fa più forte, si estende a tutto il corpo. Evita di guardare il letto, che sembra comunque incombere al centro della stanza, e tiene invece gli occhi puntati sulla sagoma slanciata di Livia, che ora evita di guardarlo.

Non dovrebbe chiederle tutto questo (ma deve, deve, o il buio appena dietro l’angolo inghiottirà tutto il resto). Prende fiato silenziosamente, senza trarne alcun giovamento.

«Io non ho dimenticato nulla di quel che è successo tra me e te qui. Nulla,» scandisce poi, in un tono completamente diverso da quello che vorrebbe.

Non pacato e comprensivo, ma quasi rabbioso, con la gola che gli si chiude attorno alle parole. No, non ha dimenticato nulla, ma per tutti i motivi più sbagliati. Quella notte con Livia l’aveva lasciato confuso, a chiedersi perché non si sentisse appagato, e perché se ne fosse andato in fretta e furia, con la sensazione strisciante di non essere se stesso, di essere sporco, mutilo. Ora riesce a intravedere un senso in quegli smottamenti di pensieri rimescolati, in quel suo arrovellarsi sul perché gli sembrasse di aver commesso un errore madornale.

È ancora troppo vicino a lei, tanto da sembrare un invito. A quelle parole così ambigue, pronunciate nel modo più crudele, vede un barlume di speranza e affetto malcelato ammansire gli occhi di Livia. E sa che deve spegnerlo. A costo di allontanarla, anche a costo di pregiudicarsi il suo appoggio. Non può ingannarla ancora, anche se potrebbe farlo con facilità disarmante (dovrebbe, ha bisogno del suo aiuto).

Lo sguardo di entrambi, con ritmo e fuggevolezza diversi ma in qualche modo in sincrono, corre verso il letto, prima di tornare a scontrarsi in mezzo alla stanza.

«Mi dispiace di non essere rimasto,» pronuncia allora Ricciardi, forse le prime parole sincere che le rivolge, prima di camminare di nuovo sul filo tra verità e menzogna, «ma non potevo illuderti.»

Non ha bisogno di aggiungere altro. È sufficiente a devastarla, ad annientare qualsiasi sentimento positivo possa provare per lui, a farle diventare gelidi quegli occhi in cui avrebbe dovuto perdersi e da cui è sempre sfuggito con indifferenza. Ma non è abbastanza, non davvero. Livia merita di sapere, di sentirsi dire che non è colpa sua o di qualcosa che le manca, perché non le manca nulla, o di qualche sua leggerezza, perché gli ha sempre dato troppo (ma farlo è follia, è un suicidio, dovrebbe tacere).

«Il vero motivo per cui non sono rimasto allora è lo stesso per cui sono qui adesso,» continua, a voce così bassa che dubita di averlo detto davvero; forse è solo un pensiero leggermente più forte degli altri.

Ma l’ha fatto, l’ha fatto, perché vede la sorpresa allargarsi negli occhi di Livia, come macchie d’ambra su una lastra fotografica che vanno a formare un’immagine sbiadita. Livia schiude le labbra, un refolo di sgomento che le sfugge in un respiro. Si scosta del tutto da lui, mettendo un ampio passo di distanza tra loro. Ricciardi, in quel gesto, non può fare a meno di leggervi disgusto. Come potrebbe essere altrimenti? (persino per Bruno sarebbe lo stesso, lo sa).

Si costringe a sostenere il suo sguardo, a mantenere quella fragile patina di calma. Livia non può aver capito tutto da quella singola frase criptica. È ancora in tempo per correggersi, per ritrattare. Bruno è solo un amico, il più caro amico che ha; e questo lo sa anche lei, non ne ha mai fatto mistero (forse sbagliando, forse avrebbe dovuto).

Livia li ha intravisti lavorare, discutere e scherzare insieme. Lui, che non scherza mai. Che, per cavargli un sorriso dal viso, dice Bruno, non basterebbe manco tutta la Commedia dell’Arte al gran completo (e invece basta lui, e lui nemmeno lo sa, non potrà mai saperlo). Livia si è seduta al loro stesso tavolo e ha sentito quel che basta, delle loro conversazioni, da sapere che il loro non è un mero rapporto superficiale e lavorativo. I semplici colleghi non parlano di sentimenti e relazioni e dolore, non si scavano a vicenda nell’anima sotto gli occhi di tutti, non si rimbrottano a vicenda in quel modo così viscerale, di chi sa di potersi permettere una stoccata in più senza timore.

Livia, forse, non ha capito nulla; ma è una donna troppo intelligente per non aver invece capito tutto.

«Cercherò di mettermi in contatto con quella persona.»

Le parole di Livia non acquistano subito senso, ma si abbattono come una frana sulle sue orecchie, incomprensibili, accavallate. Poi, Ricciardi si sente mancare la terra sotto i piedi, un vuoto d’aria, come se avesse mancato mille gradini scendendo una scala interminabile, per poi ritrovare un appoggio solido.

Lo sta aiutando, aiuterà Bruno.

Porta le mani al volto appena in tempo, le giunge strettamente tra loro in quella che potrebbe essere una preghiera, frenando sul nascere le lacrime di sollievo che hanno rotto a tradimento gli argini, premendo contro gli occhi arrossati; e sente su di sé lo sguardo ancor più pesante di Livia, ancor più indagatore.

«Ti ringrazio,» esala, ricomponendosi a fatica, col cuore che gli sobbalza a singhiozzi nel petto come se non sapesse più battere normalmente.

Livia annuisce in modo impercettibile, accogliendo le sue parole senza aggiungere altro. Ricciardi capisce che è un congedo e si affretta a eseguire. C’è un’ombra nuova, nei suoi occhi, che non vuole fissare troppo a lungo.

Per un singolo istante, mentre lascia Villa Pignatelli ancora con le gambe molli e inala l
’aria frizzante del mattino, si concede di immaginare il sollievo che proverà nel rivedere Bruno, sano e salvo. Quasi sente il cuore spiccare il volo tra le costole, privo di peso, prima di precipitare di nuovo, le ali tarpate dalla consapevolezza che quel momento è in un futuro incerto, offuscato da nubi (ma ora il sole è lì, e non si è ancora spento, gli intiepidisce il viso).

L’unico dubbio che si concede di provare, e che gli trasforma il costato in una gabbia, è se guardarlo e basta, quel sole, sarà ancora abbastanza (la risposta la conosce già, e il cuore gli svolazza impazzito in cerca d’aria, senza trovarla, ma sentendola appena oltre le sbarre).

 
 
Note dell'Autrice:
Rieccomi qui col secondo capitolo (mostruosamente lungo, I know) di questa follia estiva.
Faccio una comparsata solo per puntualizzare che ho rimaneggiato la cronologia degli eventi come meglio mi aggradava e che però il 99% dei dialoghi/gesti è preso paro paro dalla serie, quindi è canonico che Mr. Sorriso Ricciardi vada totalmente nel pallone solo quando c'è di mezzo Bruno in pericolo. Ho shippato per molto meno, Vostro Onore!
Solo la confessione finale è ovviamente una mia aggiunta, perché inizialmente Livia doveva essere marginale, poi è stato interessante scrivela come attivamente coinvolta in questo contesto ed eccoci qua.
Grazie a chi ha letto e commentato, in modo del tutto inaspettato ♥

-Light-

P.S. 
Tenete ovviamente da conto che l'omofobia a quei tempi era quasi scontata e internizzata inconsciamente pure da chi era queer, oltre al fatto che molte etichette odierne erano un miraggio lontano. Identifico Ricciardi come demi-pan, per dare una chiave di lettura, ma è chiaro che lui non potrà mai identificarsi in questi termini esatti, considerando il contesto culturale.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** E la vita va troppo veloce ***



 
          «CHE succede? Non vi piace?»

Ricciardi tradisce un sussulto nel riscuotersi, alzando subito gli occhi dal punto del tavolo in cui si erano infissi, assenti.

«Scusa, Rosa. Non ho fame.»

«Eh, voi non ce l’avete mai, ma non è una scusa per non mangiare. Siete sciupato e si vede. Di questo passo, non vi alzerete nemmeno più dal letto.»

Ricciardi pensa che quella prospettiva non gli sembra poi così terribile. Meglio che continuare a sbattere la testa in vicoli ciechi sul caso di Vipera, e meglio che crucciarsi in attesa di una telefonata, di un messaggio, di un qualsiasi segnale da parte Livia.

Non ha più osato contattarla, rimettendosi di fatto completamente nelle sue mani; in un atteggiamento fin troppo simile alla preghiera, di chi avanza richieste al vuoto e attende che si realizzino con fede cieca. Lei avrebbe ogni motivazione per tirarsi indietro e ignorare la sua richiesta, sia perché fin troppo pericolosa, sia perché lui non si merita un briciolo della sua disponibilità (sia perché lei sa tutto, se lo sente nell’animo con la stessa certezza con cui sa che un morto lo fissa, non visto). Ma sa anche che non lo tradirà; di Livia si fida, in un modo contorto che non riesce a spiegarsi del tutto e che ha a che fare coi sentimenti, sì, sebbene non quelli che lei vorrebbe da lui (o magari non del tutto, ma, a voler essere sincero, non lo sa nemmeno lui).

Lancia un’occhiata da sotto le ciglia a Rosa che, borbottando e mugugnando, gli toglie il piatto di friarielli da sotto il naso, sapendo che non li mangerà nemmeno il giorno dopo.
Si chiede cosa ne penserebbe lei, del fatto che il suo appetito, la sua insonnia e le sue emicranie sono peggiorate per via della preoccupazione per Bruno (è un tarlo instancabile che lo rode dall’interno, ormai). Sarebbe più semplice rivelarle che vede i morti, probabilmente. Non vuole davvero pensarci.

Quando Rosa torna dalla cucina strusciando i piedi e fa per portarsi via anche la brocca d’acqua e il bicchiere, le blocca con delicatezza la mano sul tavolo, stringendole piano le nocche nodose e rigide per l’artrosi. Rosa si arresta di colpo, sorpresa, ma posa semplicemente l’altra mano sulla sua, in un gesto così naturale che Ricciardi si sente strappare un po’ l’anima dal petto. Si sente di nuovo il ragazzino appena orfano che cerca conforto nell’unica figura che non era scomparsa attorno a sé.

«Signorino, non state bene?» gli chiede, allarmata, stringendogli la mano con più forza di quanto dimostri, quella con cui impasta ancora il pane e sbatte le lenzuola e traffica in cucina con la stessa lena di vent’anni fa.

Ricciardi comprende il suo sconcerto. Non è famoso per concedere spesso gesti d’affetto (teme sempre di contaminare tutto ciò che tocca) e di rado così espliciti. Ancor più raramente cercati a quel modo quasi rozzo, di certo non in linea con il galateo che gli è stato inculcato sin da giovanissimo.

«Sto bene,» mente subito, regalandole un sorriso un po’ forzato. «È solo un po’ di stanchezza.»

«È perché mangiate poco e dormite ancora meno,» lo rimbecca, la lingua fulminea e severa come tutte le donne cilentane. «E poi, c’è qualcosa che vi angustia.»

Ricciardi non può evitare di fuggire il suo sguardo per un singolo istante, trapassato dai suoi occhi resi tremuli dall’età e incastonati tra le rughe del sorriso, ma ancora limpidi e acuti.

«Nulla di più o di diverso dal solito,» risponde pacato, sapendo di non ingannarla.

«Sono vecchia, non cieca,» sospira lei, accarezzandogli il dorso della mano con la punta delle dita, callose e indurite dalla fatica.

Gli dona un’ultima stretta salda, prima continuare a sparecchiare; anche se Ricciardi lo sa, che forse vorrebbe lasciargli una carezza sulla testa come faceva quand’era bambino, e si trattiene solo perché ora lui è adulto, oltre che nobile e padrone e commissario e tante altre fesserie. E Rosa sa che lui non le dirà niente di più, come non le ha detto niente tutte le altre volte. Lui le sue angosce le tiene per sé, assieme i morti che vede (non dovrebbero macchiare la vita degli altri).

«Rosa?» la richiama, quando la sente di ritorno sulla soglia della cucina, e i suoi passi si fermano. «Puoi chiudere tu le imposte nella mia camera, per piacere?»

Anche senza guardarla, può immaginare il lampo addolorato che le scorre sul viso. In quella finestra ci credeva più lei che lui, a volte.

«Certo, come volete,» risponde piano, con voce così dolce che Ricciardi si sente davvero di nuovo un bambino; e forse non è poi una sensazione così brutta.

Si volta a guardarla, ma lei è già sparita oltre la porta della stanza da letto e, pochi secondi dopo, sente il cigolio metallico e lo scatto delle imposte chiuse. La luce nel salotto si affievolisce un poco, rendendo più vivida quella delle finestre illuminate all’esterno. Non le guarda, nemmeno quando si alza per andare a coricarsi (non è quella la luce che cerca adesso, e probabilmente non lo è mai stata).

Non guarda nemmeno Rosa, mentre le posa una mano gentile sul braccio nel passare, avvertendo una fitta di senso di colpa nell’averle mentito pur senza davvero mentire. Ma quella semplice richiesta, apparentemente innocua, era la cosa più vicina che potesse dirle per esprimere il tumulto che gli sta sconquassando il cuore da ieri; che gli spezza il fiato ogni volta che pensa che lui, il sole, potrebbe non vederlo più e quindi di una finestra aperta sul vuoto non se ne fa nulla.

Quella notte sogna proprio il sole, fioco e livido, e una notte cupa e senza stelle (e Bruno, da qualche parte, che lo aspetta in quel buio).

 
 
L’aria del porto è pregna di salsedine, umidità e dell’odore marcescente delle alghe ora scoperte dalla bassa marea.

Ricciardi non ci viene spesso, a Mergellina. Non ne ha alcun motivo, dopotutto; e, se pure volesse guardare il mare, c’è il lungomare sul Golfo, con le sue belle passeggiate, panchine e terrazze aggettate sulle onde. Nessuno con un briciolo di buonsenso verrebbe mai a fare una passeggiata al porto di Mergellina, almeno non alle undici passate della notte. Ma Bruno è lì, e quindi devono essere lì anche loro: così gli ha detto Livia, e così ha riferito lui a Maione.

Mentre se ne stanno in tre acquattati dietro una pila di casse precariamente celata dall’oscurità, coi piedi che sguazzano nelle pozzanghere, Ricciardi pensa che non è mai stato così lieto di potersi fidare di qualcuno. Perché Livia avrebbe potuto sbattergli la porta in faccia e mandarlo al diavolo per poi tornarsene a Roma; e Maione avrebbe potuto tirarsi indietro, visto che ha moglie e  figli già gravati da un lutto troppo recente. Eppure, sono entrambi lì al suo fianco, consci del rischio (forse molto più di lui, che non teme certo per se stesso).

Nel cono di flebile luce che filtra dal grande magazzino di fronte a loro, illuminando parte del molo, marciano le figure di due camerata, con le falde dei pantaloni alla zuava e le nappine dei fez che ondeggiano a ritmo dei loro passi cadenzati mentre montano la guardia. Un terzo fa capolino dall’interno di tanto in tanto, con passi più ciondolanti, il puntino di una sigaretta che pulsa nella penombra a segnalare la sua presenza.

Ricciardi presume che, dentro al magazzino, ci sia almeno un altro paio di uomini, a guardia diretta dei dissidenti in fermo (prigionieri, di fatto). E tra quei prigionieri, spera, c’è ancora Bruno. Se non l’hanno già caricato su una nave diretta chissà dove; ma a quella possibilità non può pensare. Nemmeno alle altre, più tetre ancora.

Almeno, in quel quadrato di porto buio, non ci sono morti a sussurrargli nelle orecchie o a cantilenare parole lugubri. Ha temuto (e continua a temere) di scorgere nell’ombra una sagoma perlacea con ricci indomiti, barba sfatta, un sigaro in mano e un sorriso ormai spento in viso.

Ma c’è solo il gorgoglio ritmico delle onde e il loro sciabordio contro gli scafi dei bastimenti e delle barche da pesca. Qualche voce si leva di tanto in tanto, echeggiante, richiami o litigi persi nel dedalo di vicoli; si sente a tratti lo sbattere di tovaglie dalle finestre al termine di cene tardive; e il cigolare dei portoni e lo scalpiccio di scarpe sull’acciottolato umido di mare; e il pianto flebile di un neonato e una litania dolce che si leva a quietarlo. L’unico suono spettrale sono le strida dei gabbiani, figure alate che nella luce fioca appaiono come fantasmi traslucidi che planano nel buio.

La notte è dei vivi, per ora. Ricciardi non è mai stato superstizioso, nemmeno quando ha iniziato a vedere i morti negli angoli della vita, ma vuole sperare che almeno quello sia un buon segno.
 

 
In cuor suo, Ricciardi si era aspettato di rivedere Bruno un po’ malconcio, dopo il suo faccia a faccia coi fascisti.

Ma non così, mai così. Avrebbe difficoltà a riconoscerlo, non fosse per i capelli inconfondibili.

Bruno riesce a malapena ad aprire gli occhi pesti e il suo volto è gonfio, tumefatto, più viola che roseo anche sotto la barba. Un rivolo di sangue gli imbratta il viso, sgorgando da qualche ferita celata dai suoi ricci; si abbraccia il busto con forza, il respiro irregolare, e zoppica vistosamente, come se avesse un piede o una gamba offesi.

Ricciardi ha a malapena la prontezza di farglisi incontro e sostenerlo al volo, quando il camicia nera lo trascina da loro di malagrazia, spintonandolo via, o rovinerebbe a terra faccia avanti. È l
unica cosa che lo frena dallafferrare quel bastardo in divisa, scansarlo il più lontano possibile da Livia, alla quale si è accostato sin troppo, e da Bruno, che ha certo contribuito a ridurre così, e scaraventarlo giù dal molo, sugli scogli. Lui, che non è mai stato impulsivo né incline alla violenza, sente di poter uccidere, in quell’istante, pur col rischio di ritrovarsi di fronte uno spettro creato da lui; e quello lo lascerebbe volentieri a vagare per Mergellina invendicato.

«Ohi, Riccia’,» esala Bruno, distogliendolo da quel fiume d’ira.

È poco più di un rantolo roco, accompagnato dall’accenno di un sorriso (il buio si spacca, per quel singolo istante, per un battito d’occhi fugace), ma è a un soffio dal suo orecchio e non potrebbe non sentirlo. Poi le gambe di Bruno cedono e gli si accascia addosso di peso prima che riesca a rispondergli, mezzo aggrappandosi a lui. Si ritrova ad accompagnarlo a terra il più delicatamente possibile, col buio che riprende a pulsare tutt’attorno.

«Bruno. Bruno!» lo chiama, più d’istinto che aspettandosi risposta (e pronunciare il suo nome, chiamarlo, gli invia una schicchera attraverso i nervi, è come se avesse rotto un argine invalicabile).

Percepisce, senza guardarli, il camerata che si allontana, Livia che gli posa una mano sulla schiena e Maione che si inginocchia accanto a loro, con un lieve affanno.

«Ha perso i sensi, Commissa’. Va medicato, e pure subito.»

Ricciardi deve forzarsi, per fissare la maschera di sangue e lividi oltre la quale riesce ancora a intravedere i lineamenti di Bruno, torti in una smorfia sofferente e non nel suo solito sorrisetto beffardo.

«Prendi l’auto, allora. Spicciati!»

Maione non se lo fa ripetere e scatta in piedi, caracollando verso l’automobile parcheggiata nel vicolo. Ricciardi lo segue brevemente con lo sguardo, prima di posarlo di nuovo su Bruno; e poi distoglierlo altrettanto rapidamente, con un crampo alla gola (non riesce a guardarlo così, imbrattato di sangue e pallido quasi quanto i morti che vede).

«Lo portiamo da me,» dichiara trafelato, più per porsi un obiettivo a breve termine che altro. «Portarlo nel suo stesso ospedale desterebbe troppo scalpore.»

Fa leva sulle ginocchia per raddrizzargli il busto e permettergli di respirare meglio (lui geme appena, ha qualcosa di rotto), e rinsalda la presa sotto le sue braccia, pronto a sollevarlo del tutto non appena Maione tornerà a dargli una mano (e sotto la sua camicia la pelle è troppo calda, rovente, umida nei punti in cui le ferite o il sudore hanno fatto aderire il tessuto alla pelle).

«Rosa sa fare qualche medicazione ed è la casa più vi...»

«No.»

La replica di Livia è tardiva ma perentoria, il suo sguardo fermo lo trapassa.

«Non da te,» chiarisce, scuotendo una sola volta il capo senza quasi battere le ciglia.

Le sue iridi nere rilucono nella luce fioca, quasi come il mare altrettanto scuro che si agita dietro di loro in moti inquieti, sotto una sottile falce di luna.

Ricciardi si congela sul posto, gli occhi quasi sgranati, per un istante dimentico del fatto di avere Bruno addosso, esanime e con la testa reclinata contro il suo petto che gli macchia di sangue i vestiti. Fissa Livia senza riuscire ad articolare una risposta sensata, perché non ne esiste una (e i suoi occhi parlano, gridano tutto ciò che ieri è rimasto sopito tra loro).

Non da te, perché sarebbe sospetto, le sente dire, nel silenzio assordante che cala tra loro. Non da te, perché ti stai già esponendo troppo così.

Ricciardi deglutisce a forza, fa per parlare e poi, invece, tace. Si limita a chinare il capo, abbassando subito gli occhi e incontrando quelli chiusi e contornati da lividi di Bruno. Consapevole che Livia sta scrutinando ogni suo singolo gesto, ogni parola, ogni sguardo (e lui ha Bruno tra le braccia, schiacciato contro il petto, più vicino di quanto non sia mai stato, e non riesce a provare qualcosa che non sia pura angoscia, anche se l’istinto di stringerlo di più a sé lo soffoca).

«Portiamolo da me,» aggiunge poi Livia, facendolo quasi trasalire. «Villa Pignatelli è grande, isolata... darà meno nell’occhio. E tu potrai rimanere con più discrezione.»

Ricciardi la fissa di nuovo, stavolta sgomento. Non c’è ironia nel tono di Livia, né derisione, né qualsivoglia sentimento negativo; e il suo viso è calmo, pur solcato da una vena di tensione. È un’offerta sincera, un’offerta che lui non si meriterebbe da nessuno, men che meno da lei. Sa che non scorderà facilmente il suo folle slancio di coraggio, quando si è fatta avanti da sola per reclamare il rilascio di Bruno (l
’ha fatto per lui e il pensiero lo scalda e gli dà la nausea al contempo).

Stringe di riflesso le dita sulla giacca di Bruno, in cerca di un appiglio che non trova, di qualcosa che gli permetta di domare le emozioni e i sentimenti che stanno rischiando di strabordare da giorni.

«Livia...» comincia, strozzato, e non sa nemmeno lui come concluderà la frase, ma non ve n’è bisogno.

«Dopo,» lo ferma lei, toccandogli il polso in una pressione lieve, e la sua mano è fresca. «Adesso pensiamo ad aiutare lui.»

Il rombo sommesso del motore quasi ingoia quelle ultime parole. Ricciardi riesce solo ad annuire in risposta, prima che Maione si precipiti di nuovo al suo fianco per aiutarlo a caricare Bruno sull’automobile. Ricciardi non si considera un uomo esile, ma non ha mai sentito nelle vene quella forza soverchiante che gli permette di sollevare Bruno come fosse un fuscello. Lo coricano sui sedili posteriori e Bruno è così inerte che emette poco più di un mugolio a quelle manovre goffe (e Ricciardi può immaginare con nitidezza le sue lamentele e critiche da medico, e spera che potrà farcisi una risata tra qualche giorno).

In perfetta sincronia, Maione si siede di nuovo al posto di guida, Livia su quello del passeggero e lui si stringe dietro, in un coro di portiere sbattute quasi all’unisono, come se quella fosse sempre stata l’unica formazione possibile. Si ritrova con la testa di Bruno in grembo, e gliela sorregge d’istinto in punta di dita, per evitare che venga sbatacchiata durante il tragitto. Sente il suo respiro affaticato sfiorargli il dorso della mano e la barba troppo cresciuta che gli pizzica il palmo e si impone di ignorare ogni sensazione fisica che non sia il suo stesso cuore che batte (troppo veloce, troppo violento, e non sa più se sia soltanto paura).

Incontra gli occhi di Livia nello specchietto esterno, ma è lei a distoglierli per prima, stavolta, quasi colpevolmente. Maione si volta verso di lui, una ruga profonda a incidergli la fronte in mezzo alle sopracciglia folte, una mano già posata sulla leva del cambio.

«Vado da voi, quindi?»

«No, a Villa Pignatelli. Segui le indicazioni della signora Luciani. E per l’amor del cielo, Maione,» lo richiama in fretta, prima che lui possa dare gas, «guida piano.»
 

 
Il silenzio, a Villa Pignatelli, è quasi una presenza fisica che gli preme sui timpani, comprimendogli la testa e sommandosi alla peggior emicrania che abbia sofferto da quando ha memoria. Ora che c’è calma, almeno apparente, gli sembra decuplicata d’intensità e gli martella in mezzo alle tempie in un ritmo forsennato, senza niente a distoglierlo da quel dolore lancinante.

Ha rispedito a casa Maione, che sarebbe pure rimasto fino all’alba, tanta era la sua premura e voglia di aiutare ed essere utile; ma poi, gli ha ricordato Ricciardi, farebbe impazzire di preoccupazione Lucia e, un po’ a parole un po’ a spinte fisiche verso l’uscita, è riuscito a farlo desistere dall’intento. Dopotutto, li ha portati senza incidenti o troppi scossoni fin lì, in modo del tutto inusitato, e si è ben guadagnato una notte di riposo.

«Commissario, per qualunque cosa sapete dove trovarmi,» ha detto, portandosi una mano tesa alla fronte nel congedarsi. «Mi raccomando, fatemi sapere del dottor Modo.»

«Certo. Grazie, Raffaele,» ha risposto semplicemente, riuscendo a regalargli l’ombra di un sorriso riconoscente. «Ora, però, va’ a casa e riposati.»

Livia, invece, è riuscita a far materializzare lì un medico nel giro di un’ora; ed è anche riuscita ad allontanare lui da Bruno per il tempo della sua permanenza.

“Non sarebbe saggio farti vedere qui,” gli ha detto, di nuovo con quello sguardo affilato, colmo di sottintesi. Ricciardi potrebbe anche fingere che si riferisca alla sconvenienza di farsi vedere in casa sua a quell’ora tarda della notte, con tutte le voci che già circolano, ma sa che non è ciò che intende Livia; così come al porto non intendeva che fosse pericoloso portare Bruno da lui per eventuali ritorsioni.

Livia ha capito tutto. Gli diviene più chiaro con ogni minuto che passa, con ogni fitta che lo arpiona in mezzo agli occhi mentre misura a passi nervosi il piccolo disimpegno in cui lo ha accompagnato, pregandolo di attendere lì, tra il broccato scuro delle tende, le sedie Luigi XIV e la carta da parati bordeaux, che danno a quel piccolo spazio una nota claustrofobica.

Livia ha capito tutto e ciò lo spaventa meno di quanto dovrebbe (o forse non è quello il tipo di buio di cui ha paura). Lo spaventa di più il non capire perché lo stia aiutando.

Il cigolio della porta che si schiude lo fa sobbalzare, e si volta di scatto proprio verso la figura di Livia che si sporge all’interno. Scorge l’accenno di viola sotto i suoi occhi, segno che è provata anche lei da quella notte turbolenta. F
orse anche i giorni precedenti non sono stati così semplici per lei, essendosi dovuta mettere in contatto col suo misterioso osservatore. Da quando hanno messo piede nella villa, Ricciardi ha l’impressione che si sia fatta più guardinga, con gli occhi che guizzano spesso verso gli angoli lasciati in ombra, come se si sentisse spiata; in modo non dissimile da come fa lui coi morti, non può fare a meno di pensare. Gli diviene sempre più chiaro che quella persona che la sorveglia non suscita affatto la sua simpatia, e gli si stringe il petto al pensiero di averla obbligata a comunicare con lui.

«Come sta?» chiede comunque, non appena la vede.

«Il medico ha detto che è stabile.»

Ricciardi comprime con forza le labbra, un moto d’angoscia che gli agita le viscere nel non sentire ciò che avrebbe voluto: sta bene, si riprenderà, non c’è da preoccuparsi.


Si stringe il polso, le mani ancorate dietro la schiena a raddrizzarla, come se potesse ancora sperare di darsi un contegno, di nascondere qualcosa che, in quel momento, gli brilla accecante negli occhi, che è palese nelle macchie rossastre che gli imbrattano completo e camicia (e forse anche le mani, ma non si cura di sincerarsene).

Eppure, non le chiede se può vederlo, anche se quelle sono le uniche parole che vorrebbe pronunciare adesso (e lo chiede con lo sguardo a Livia, di dirle per lui, pretendendo ancora molto più di quanto dovrebbe).

«Vuoi vederlo?» gli legge nel pensiero lei, con scontata facilità.

Ricciardi riesce solo ad annuire, prima di ritrovare la voce:

«Solo se non lo stancherà troppo.»

Livia esita un istante, e la sua bocca si contrae appena in una linea rigida, come non volesse davvero dire ciò che sta per dire:

«In realtà, è ancora incosciente.»

Ricciardi sente lo stomaco sprofondare in un vuoto d’aria (o forse è l’anima che gli è scivolata via dal petto, rintanandosi nei talloni).

«Il medico cos’ha detto?»

Livia si umetta le labbra prima di parlare, ed è ovvio che il medico non abbia detto nulla di buono (è Bruno, il medico più competente che conosca a Napoli, e la sorte sa avere un’ironia crudele).

«Che ha fatto il possibile, ma che ha delle lesioni interne. Ha medicato le ferite, applicato dei cataplasmi e riassestato le fratture, ma ora possiamo solo lasciarlo riposare e sperare che riprenda presto conoscenza.»

Ricciardi stringe i pugni dietro la schiena e irrigidisce la mandibola, tentando di non lasciar trapelare nulla, di accogliere quella notizia con la composta gravità che dovrebbe avere in quel momento; e ci riesce quasi, finché non gli sfugge un respiro appena più udibile e fin troppo tremulo.

Avverte le orecchie ovattate, come se qualcuno gli avesse spinto la testa sott’acqua. Le parole di Livia si tramutano in immagini cristalline dietro le sue retine. Bruno che lotta tra la vita e la morte (perché è questo, che ha detto il medico). Lui, seduto al suo capezzale, che aspetta e aspetta, finché Bruno non riaprirà gli occhi. O finché, accanto a Bruno, non comparirà una sua copia slavata, marcescente e dagli occhi vacui, che ripeterà all’infinito qualcosa (il suo nome, il suo nome all’infinito; un’accusa e una condanna, perché non è arrivato in tempo a salvarlo).

«Puoi portarmi da lui?» si sente dire, con voce più spenta di quella dei fantasmi che teme di vedere.

Livia non risponde e prende semplicemente a fargli strada tra i corridoi in penombra. Ricciardi esita per un singolo istante, poi affretta il passo per tenerle dietro, sentendosi come se ora stesse correndo nella direzione opposta al sole.

 
 
Note dell'Autrice:
Come volevasi dimostrare, mi sono dilungata e ci è scappato un capitolo in più.
Principalmente, perché mi interessava scavare ancora un po' nella psiche del nostro commissario, e poi perché volevo ritagliare un posticino anche per Rosa. Dopotutto, se in ogni mia storia non infilo almeno un rapporto genitore-figlio, adottivi o meno, non dormo tranquilla.
Ripeto che la cronologia è completamente ad sensum e che, come ben si vede, ho rimaneggiato gli eventi come meglio mi aggradava (anche perché Bruno che se la cava senza un graffio o quasi dopo aver sputato a un fascista non me la bevo). L'angst sta arrivando, insomma :D
Grazie a chi ha commentato e aggiunto la storia alle liste, delle sorprese assolutamente inaspettate che mi hanno fatto molto piacere ♥
Al prossimo capitolo,

-Light-


P.S. Come sempre, i titoli sono versi della canzone "Freddie" dei Pinguini Tattici Nucleari.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Domattina io arrivo da te ***



 
 
          IL BUIO non dovrebbe spaventarlo, in verità.

Dopotutto, quante altre volte vi ha già scrutato, scorgendovi solo nero e, non poi così raramente, gli aloni traslucidi dei fantasmi che popolano il suo mondo? Affacciarsi in una stanza buia non dovrebbe sembrargli qualcosa di terrificante, ormai è conscio da tempo che, quando volge le pupille verso l’oscurità, il suo sguardo potrebbe essere ricambiato da quello perlaceo dei morti.

Eppure, quando varca la soglia della stanza occupata da Bruno, sebbene sia solo in una leggera penombra rischiarata dall’alone dorato di una applique da parete, si sente mordere lo stomaco dalla stessa ansia che provava da ragazzino, quando non si era ancora abituato all’idea di dover condividere la propria vita con quella degli spettri. Allo stesso tempo, è un’ansia diversa, più subdola, che gli recide le corde del cuore. Quella che si prova nel guardare una stanza che potrebbe presto diventare vuota per tutti gli altri, ma non per lui.

In quel momento, mentre si accosta al letto di Bruno, è convinto di stare davvero fissando la morte in faccia per la prima volta; non i volti pallidi dei fantasmi, ma l’attimo sospeso che li precede, la loro attesa, il buio subito prima (è ancor più buio che in strada, lì, è inchiostro denso e viscoso). Ha visto abbastanza spettri annidati nei vicoli e agli angoli delle strade da sapere che un pestaggio del genere può essere letale.

Il volto di Bruno è pulito, adesso, e in un certo senso lo rende ancor più inquietante. Il miscuglio di sangue, polvere e sudore mascherava la reale gravità delle lesioni, mentre adesso spiccano vivide sul suo volto pallido: marchi violenti, impressi da pugni e calci impietosi. Ricciardi si rifiuta di soffermarvisi e coglie comunque ogni singolo dettaglio che deturpa quel viso così conosciuto (che ha mandato a memoria in ogni sua piega e imperfezione, dalla curva del naso adunco alle piega degli occhi all'ingiù).

Vede la mezzaluna violacea di una punta di stivale impressa sullo zigomo; un sopracciglio tumefatto e la base del naso solcata da un taglio, dove si scorgono la patina lucida di un unguento e il gonfiore dei fili di sutura; le decine di escoriazioni, vecchie e nuove, che gli costellano fronte e guance; la spaccatura profonda, rossastra, che gli solca le labbra, pronta a riaprirsi; l’alone bluastro e sensibile che gli contorna l’occhio destro. Non osa immaginare cosa celino le lenzuola, ma sa che ci sono altri segni, altre ferite, e nota comunque la fasciatura che gli immobilizza in parte il braccio sinistro. Una pezza di lino bagnata gli rinfresca la fronte, inumidendo i suoi ricci sul cuscino (si chiede come sarebbe passarvi le dita e non è un pensiero che dovrebbe avere adesso).

Credeva di essere preparato a sopportare quella vista, ma scopre di non esserlo affatto, di avere di nuovo quel principio di nausea che preme in fondo alla gola. Non è questa l
’ultima immagine che vuole avere di Bruno. Si blocca a un passo dal letto, domando l’istinto di sedersi lì, accanto a lui, di prendergli la mano, di chiamarlo (e rispedisce indietro con fermezza il velo che gli offusca la vista).

Avverte la presenza di Livia appena dietro di lui e, anche se sarà pur vero che sa tutto, non è intenzionato a darle alcuna conferma.

Così, rimane pietrificato, le mani ancora giunte dietro la schiena, stringendosi il polso con così tanta forza che sente la mano sinistra indolenzirsi. Non si è nemmeno tolto il soprabito e sa esattamente dove trovare le macchie di sangue che lo costellano; le ha fissate fin troppo a lungo durante l’attesa, senza mai toccarle, come se fossero contaminate.

Si sente come quando, all’obitorio, se ne sta in piedi accanto all’ennesima vittima. Solo che adesso Bruno è steso davanti a lui e non è al suo fianco, a illustrargli per filo e per segno tutti i perché e i percome della morte del disgraziato, con quel suo velo di cinica ironia che non varca mai il confine della crudeltà. Il ricordo lo turba, sovrapposto troppo precisamente a ciò che vede, e distoglie lo sguardo dal suo volto tirato, terreo, smosso solo dal respiro affaticato. Lo appunta sulla mano tesa sopra al lenzuolo, l'unico appiglio nella stanza.

Sente che dovrebbe fare o dire qualcosa, ma ogni mossa gli sembra sbagliata (troppo, o troppo poco, non sa più dire quale sia la differenza).

Infine, come tante altre volte in vita sua, decide semplicemente di non fare nulla. Di chiudere quella finestra, tagliando fuori la luce e il sole e tutto ciò che portano con sé. Ci è già stato abbastanza vicino e ha rischiato di bruciarsi; così può bastare, fare di più sarebbe solo come volare troppo in alto e poi precipitare in fiamme (sarebbe solo rischiare di vivere troppo). Si volta verso Livia, che è rimasta sulla soglia e lo osserva con sguardo indecifrabile.

«Sarà meglio lasciarlo riposare,» si sente dire Ricciardi, stritolandosi il polso e quasi conficcandoci le unghie (non vuole andarsene, non vuole lasciarlo solo, e non vuole nemmeno stare da solo con se stesso; e allo stesso tempo non può restare così vicino a lui).

Allunga già un passo verso la porta, quando Livia gli si fa incontro, sbarrandogli la strada:

«Luigi.»

Sentire il suo nome ha lo stesso effetto di essere folgorato da una saetta a ciel sereno. Nessuno lo chiama così: quello è un nome morto assieme a sua madre e ha l’effetto di un incantesimo su di lui. Si immobilizza come a comando, gli occhi schivi ma interrogativi, e Livia prosegue, impassibile:

«Puoi smetterla con questa pantomima. Non c’è bisogno di fingere con me.»

Ricciardi deglutisce a vuoto, scoccando un’occhiata verso la porta socchiusa e la lama di corridoio che si scorge dallo spiraglio dietro di lei. Potrebbe scansare Livia e raggiungerlo, fuggire da lei (da Bruno) come ha già fatto così tante volte, ma rimane piantato al suo posto in muta attesa. Ha paventato questo momento da quando ha indirettamente rivelato troppo a Livia, perché non si è mai aspettato che tutto potesse passare in sordina o non venisse mai menzionato. Merita il suo disprezzo, merita qualsiasi rimprovero o insulto vorrà rivolgergli, merita di vedersi togliere il saluto, merita la gogna pubblica, se così vorrà lei (ma Bruno è qui, quasi in salvo, e il resto saprebbe affrontarlo).

Di solito, le parole non gli vengono mai facilmente e rimangono rinchiuse troppo in profondità per trovare una via di fuga. Stavolta, escono nel modo più sbagliato, caotiche:

«Lo stesso vale per te. Non mi devi nulla, e io non ti chiederei mai più di quanto ti ho già chiesto. Hai già fatto abbastanza e ti ringrazio, sarò sempre in debito con te, ma ora...»

«Se vuoi restare con lui, fallo,» lo interrompe lei, come se non lo avesse nemmeno sentito.

E, esattamente come pochi giorni fa, Ricciardi non comprende subito il significato di quelle parole, ma sente un sobbalzo nel petto ancor prima che ciò accada (sollievo, confusione, un
’accozzaglia che gli fa girare la testa di vertigini). Cerca sul volto di Livia una qualsiasi traccia di risentimento, di disprezzo, ma di nuovo non gli riesce di leggerla fino in fondo; ne tocca solo la superficie, ed è quieta come quella di uno stagno immobile. Gli occhi calmi, ma venati di tristezza, la testa inclinata in modo inquisitorio.

«Vuoi restare o no?» lo incalza, più tagliente, esigendo una risposta e non uno dei suoi silenzi che mette a scudo tra sé e il mondo.

Potrebbe mentire e precludersi per sempre la fiducia di Livia, salvaguardando forse in parte la propria immagine di uomo imperturbabile e non legato a nessuno, tantomeno a un altro uomo. Potrebbe mentire e mentire anche a se stesso, dirsi che il suo dovere l’ha fatto e che ora tutto tornerà come prima. Potrebbe mentire, ma si è già mentito fin troppo a lungo davanti a una finestra affacciata sul nulla.

Si costringe a sciogliere le mani da dietro la schiena, con un fiotto di calore che gli infiamma la sinistra quando il sangue torna a irrorarla. Abbassa lo sguardo brevemente e, sì, sul dorso, sui palmi ci sono ancora le chiazze scure e ormai rapprese del sangue di Bruno. Le vede sfocate, oltre la cortina liquida che gli ha appannato gli occhi e che, stavolta, è troppo lento ad arginare; ma non importa, non più, perché non ha più senso mentire:

«Sì,» mormora soltanto, ma con quel monosillabo gli sembra di essersi liberato di un fardello titanico e di potere finalmente respirare aria pulita e non catrame.

Incontra fugacemente gli occhi di Livia, seri e fermi, che seguono solo per un istante i due solchi bagnati lungo le sue guance, prima di tornare discretamente nei suoi. L’ombra di un sorriso mesto le inclina le labbra.

«È quasi un sollievo saperlo, in fondo,» gli dice a mezza voce, senza dire nulla e dicendo comunque tutto. «Sapere che almeno non dipende da me.»

Ricciardi scuote deciso la testa a rafforzare quell’affermazione, incapace di dire altro. No, che non dipende da lei. Livia, in tutta risposta, gli sfiora la guancia umida con la punta delle dita, in una carezza che sa già di rimpianto (e sa continuerà ad amarlo, non può fare niente per impedirglielo).

Lui non si sottrae, perché almeno quel piccolo atto di vicinanza glielo deve, e il fatto che qualcuno lo tocchi a quel modo così gentile invece di schiaffeggiarlo o scostarlo in preda al ribrezzo è molto più di quanto avrebbe mai osato chiedere a chiunque (più di quanto oserebbe chiedere anche a Bruno).
«Mi dispiace, Livia,» riesce solo a dirle, per una volta quasi con le parole giuste, anche se è solo una minima parte di tutto ciò che vorrebbe esprimere.

Se non fosse successo tutto questo (se non avesse guardato inavvertitamente il sole, scoprendolo), è certo che Livia sarebbe stata l’unica donna a cui avrebbe permesso di stare così vicino a lui, ai suoi fantasmi, alla sua solitudine (spera ancora, egoisticamente, che possa essere così, pur in modo diverso da quanto desidererebbe lei).

«Anche a me,» soffia via lei, soffermandosi per un battito di cuore sulle sue labbra.

Ricciardi trattiene il fiato, con un vuoto al petto quando lei si tende verso di lui, ma è pronto. Pronto a donarle, a dispetto di tutto, quell’unico gesto che non è nemmeno così pretenzioso esigere da lui; magari solo un ricordo di ciò che non potrà mai essere tra loro. Ma Livia si limita a posare le labbra sull’altra guancia, in un bacio breve e morbido, che sa di addio, prima di recuperare distanza e spingerlo con delicatezza via da sé.

Le scintillano gli occhi, un mare nero di stelle, e sa che non è solo il riflesso della luce nella penombra.

«Ora va’ da lui.»
 
 
Il respiro laborioso di Bruno è l’unico suono che rompe il silenzio notturno.

Ogni pochi secondi si leva come uno schiocco di frusta, come se dovesse scagliar via l’aria dai polmoni a forza. È sicuro che Bruno saprebbe spiegargli, a livello medico e anatomico, perché due costole fracassate e un polmone quasi collassato causino quel rumore asfittico e assordante.

Lui, però, sa solo che ogni respiro gli sembra l’ultimo, che gli lacera i timpani, ma che il silenzio assoluto sarebbe ancor più straziante. E, dopo il silenzio, il resto. Sa che accadrebbe; quella di Bruno non sarebbe una dipartita pacifica o lieve.

Non l’ha mai visto accadere di fronte ai suoi occhi. Non vuole vederlo accadere adesso, non con lui, non con Bruno. Non si è mai abituato del tutto agli occhi spenti che lo fissano per strada e sa che non si abituerebbe mai a quelli caldi e ridenti di Bruno privati della loro luce, piantati in eterno su un viso tumefatto e contorto dal dolore. Non si abituerebbe a sentirlo ripetere all’infinito qualcosa, la stessa cosa (chissà cosa). Non ha mai capito con esattezza come funzionano le vie tra vita e morte, cosa rimanga impresso di più nell’anima di chi scivola via; se l’amore per chi lasciano indietro o l’odio per chi li ha privati della luce.

Forse, sarebbe una battuta sagace rivolta ai suoi aguzzini, di quelle che scocca con le labbra arricciate attorno a un sigaro, perché sa che lo fanno sorridere o alzare gli occhi al cielo, soprattutto quando sono inopportune. Lo sa, Bruno riderebbe pure in faccia alla morte; non come lui, che a riderle in faccia non ci trova gusto, perché la vede ogni giorno e sa che prima o poi avrà il suo volto.

Oppure, e questo lo agghiaccia, non sarebbe una battuta, l’ultimo refolo di vita di Bruno a rimanere ancorato al mondo mortale. Sarebbe il suo nome, così come l’ha esalato al porto (un misto di sollievo e gioia e spavalderia che ha subito afferrato e rinchiuso nel cuore). Non può immaginarlo distorto negli echi lugubri che gli rintronano le orecchie ogni notte.

Ciononostante, sa che, se l’innominabile dovesse accadere e Bruno dovesse rimanere legato a questo mondo, lui tornerebbe comunque qui a fissarne la sagoma evanescente, perché sarebbe peggio non vederlo mai più. Alla morte ci si abitua. All’assenza, mai.

Stringe delicatamente la mano di Bruno. Solo pochi minuti fa ha trovato il coraggio di prenderla, dopo che Livia è uscita e dopo essersi ripulito i palmi e disfatto di soprabito e giacca, dai segni insanguinati di quella notte e dalla cravatta ormai soffocante come un nodo scorsoio. Sulla camicia, almeno, c’è solo una macchiolina rossa sul colletto, che non può vedere se non allo specchio; e sul panciotto scuro, se c’è altro, non è visibile.

Segue il profilo delle sue nocche con la punta del pollice, sentendolo escoriate e calde al tatto (si è difeso? Ha reagito? Da Bruno se lo aspetterebbe). Racchiude la mano sua tra le proprie, lisce e troppo pallide in confronto (Bruno gli diceva sempre che doveva prendere un po’ più di sole). Ne avverte l’elasticità, anche se sono inerti, memorizza i minuscoli calli nei punti in cui impugna le forbici chirurgiche e il bisturi. Sa che, se lui dovesse svegliarsi, non avrebbe idea di come giustificare quel gesto così intimo (ma non lo lascia, si bea di quel sottile calore e della sensazione sconosciuta che gli invia attraverso le vene, l’albore di un sentimento).

A tratti, si arrischia a guardare il suo volto. Vi si sofferma più a lungo di quanto abbia mai fatto, ora che può farlo senza essere visto, ma gli sembra comunque di essere invadente, di stare facendo qualcosa di riprovevole. Soprattutto quando gli occhi si impigliano sulla sua bocca piena, schiusa, semi nascosta dalla barba. È segnata da uno spacco netto, dall’arco di Cupido al labbro inferiore, di un rosso quasi nero che fa male solo a guardarlo (e si scontra col filo impalpabile, rovente, che sembra attrarlo proprio in quel punto, come se così facendo potesse sanare la ferita).

Si costringe a riscuotersi da quel vortice di pensieri. Gli lascia la mano per il tempo necessario a sostituire la pezza bagnata sulla sua fronte, strizzando quella nuova nel bacile che Livia gli ha lasciato sul comodino. Nel farlo, cede alla curiosità soppressa e inappropriata che lo punzecchia da prima, e gli scosta le ciocche inumidite dal volto, anche se non ce ne sarebbe bisogno, prima di ritrarre le dita come se si fosse scottato.

Bruno emette un sospiro quasi muto, nell’avvertire il rinnovato  refrigerio sul capo bollente (per un istante, non spera che si stia svegliando, ma lo teme). Ma le sue palpebre rimangono sigillate, anche quando Ricciardi si siede di nuovo e, esitando molto meno di quanto dovrebbe, gli racchiude di nuovo la mano tra le proprie. È quasi già una sensazione familiare, il modo in cui il psuo palmo si incastra tra i suoi, così come tutte quelle che gli si agitano in corpo e sembrano ballare tra cuore e vene e polmoni, in una danza imprevedibile.

Si chiede quante di quelle siano nuove e quante lo abbiano accompagnato ogni giorno passato in compagnia di Bruno; scintille a cui semplicemente non ha dato peso, fremiti inghiottiti dalla quotidianità, palpiti vivaci che ha attribuito a tutt’altro (che ha proiettato oltre una finestra dalla quale non voleva davvero sporgersi).

Gli basta guardare il volto di Bruno, ora, per sciogliere tutti i nodi apparentemente inestricabili. Sembra così semplice, adesso; tanto da essere terrificante. Lo è. Lo è più di qualunque altra cosa abbia mai provato, se si è mai concesso di provare qualcosa, e allo stesso tempo è la cosa più naturale che abbia mai sentito.

Nemmeno tre giorni fa, ha affermato di fronte a Bruno che non importava cosa ne pensasse lui dei sentimenti, con una stizza (una paura) tale che persino l’altro era ammutolito. Adesso, mentre se li sente pulsare in ogni angolo del corpo, pensa che forse non sono mai stati tanto importanti per lui come adesso (forse–)

Forse, semplicemente, nessuno è mai stato così importante per lui in quel modo, e dovrebbe smetterla di mentirsi e ingannarsi con le sue stesse mani, perché il sole ormai ce l’ha davanti e non può più fingere di non vederlo.
 
 
Inizialmente, è convinto che sia uno scherzo della luce fioca; anzi, della penombra grigiastra in cui è piombata la stanza quando ha spento l’applique, in cerca di un brandello di sonno che metta a tacere l’emicrania.

Così, batte le palpebre, si distoglie dal volto di Bruno e ritorna nella scomodissima posizione in cui si è ripiegato sulla sponda del letto: di fianco, con la schiena adesa a lui da sopra le coperte, le gambe che sporgono fuori e la fronte premuta sulle sue nocche. Sa che, vista da fuori, sembrerebbe la posa di un qualche penitente che si castiga nel chiedere una grazia. Stringe appena il polso di Bruno, trattenendo un respiro stanco (di sonno, d’angoscia, di spossatezza).

Il pensiero di pregare l’ha sfiorato, insistente, più volte, anche se in vita sua non l’ha mai fatto seriamente, anche se non conosce o ricorda alcuna vera preghiera. Pur volendo, ogni volta che prova a tramutare i pensieri in parole, si ritrova in testa solo una litania infantile (ti prego, no, ti prego, ti prego...) rivolta non sa nemmeno lui a chi o cosa; se a Dio, a chissà quale divinità o a Bruno stesso. Che diritto ha di pregare, dopotutto, lui che vede i morti ed è maledetto, condannato a sentirne gli ultimi echi per poi fare loro giustizia in un ciclo infinito?

Solleva ancora il capo e lo vede di nuovo, quel gioco di riflessi sul volto di Bruno che lo illude abbia schiuso gli occhi, solo che stavolta è accompagnato dal più flebile dei sussurri:

«Ohi, Riccia’?»

Lui manca un battito, che rimbomba a vuoto nel petto, immenso. Si raddrizza di colpo e scocca d’istinto occhiate fulminee attorno a sé, convinto di incrociare occhi spenti e spettrali; ma la stanza è vuota, ingrigita dal primo cenno d’aurora e la voce è quella viva, seppur fioca, di Bruno. Incontra infine le sue iridi castane, offuscate ma coscienti, che fanno capolino oltre le palpebre gonfie e socchiuse.

Bruno, vorrebbe chiamarlo, ma gli muore la voce in gola, si rifugia in fondo alla gabbia toracica e sussulta, rischiando di trasformarsi in un singulto strozzato. Si rende conto di stringere troppo forte la sua mano e ammorbidisce la presa. Sa che in realtà dovrebbe lasciarla, dovrebbe riprendere distanza, ma riesce solo a rimanere immobile (e per un istante Bruno ricambia la stretta, forse solo un riflesso involontario).

Bruno ha un brivido, con le pupille che guizzano frastornate qua e là, cercando un punto di riferimento, prima di appuntarsi sul suo volto (nei suoi occhi, più a fondo di quanto lui permetta di fare agli altri).

«Non credo... di essere in galera o al confino, no?» gli sorride, con un filo di voce. «A meno che non ti sei fatto arrestare pure tu. Ne saresti capa...»

Si interrompe a metà quando Ricciardi, ancora ammutolito, si china su di lui e preme la fronte sul lenzuolo, contro la sua spalla, dove sa che non gli farà male. Respira a fondo, in cerca di calma, e trova l’odore familiare di Bruno (tabacco e colonia e una nota di creolina). Non gli importa di cosa penserà lui (tanto prima o poi si tradirà lo stesso, non può pensare di non essersi dipinto tutto sul volto e negli occhi, ormai).
Lo sente espirare in modo discontinuo, affaticato, e capisce che è una piccola risata che non ha voce per far risuonare appieno.

«T’ho fatto davvero preoccupare così tanto?» chiede appena udibile, lambendogli quasi l’orecchio, e provocandogli inconsapevolmente un fremito.

Nonostante il piccolo sprazzo d’ilarità, Ricciardi riconosce quel raro sottotono più serio, di quando gli sta parlando davvero e non solo per battute e risatine sotto i baffi. Forse è la stanchezza, forse una traccia di senso di colpa perché, come sempre, non gli dà mai retta e finisce nelle peste. Forse è solo la febbre, che sente irradiare da lui in un calore malsano.

Ricciardi non risponde subito, il volto ancora celato in quel modo sconveniente. Non crede di avere il coraggio o l’autocontrollo per rispondere in modo noncurante. Né tantomeno di spiegare l’angoscia che l’ha stritolato fino a quel momento. Né l’irrazionale rimpianto che già lo coglie, nel sapere che ora dovrà lasciarlo, scostarsi da lui e continuare a vivere come ha sempre vissuto, col sole oltre la finestra.

Prima che possa raccogliere la volontà per ritrarsi, Bruno gli preme goffo la mano libera sulla nuca, in una pressione lieve, inattesa, che gli spedisce brividi elettrici lungo la spina dorsale.

«Facciamo che lo prendo per un sì. Che sennò ti senti male a dir qualcosa chiaramente,» lo prende in giro, ancor più piano, con voce più roca.

«Tu, la prossima volta che vuoi farti arrestare dai fascisti, fallo mentre ci sto io nei dintorni,» riesce a ribattere lui, un po’ sconnessamente, sentendo la punta di un sorriso tirargli le labbra contro ogni sua aspettativa (gli era mancato farlo).

«Ma quelli mica sono così fessi... da mettersi contro un commissario di polizia come te,» soffia via lui a corto di fiato, la voce che gli traballa, vinta dallo sfinimento.

«Allora, facciamo che d’ora in poi ci pensi due volte, prima di dare aria alla bocca,» lo rimbrotta. “Fallo per me,” sta per dirgli, per poi cambiare idea appena in tempo: «Fallo per la mia salute, visto che dici di essere medico.»

Bruno soffia via un altro tentativo di risata, smorzato da una smorfia dolorante, ma annuisce.

Tiene ancora la mano premuta sulla sua nuca e contrae appena la punta delle dita tra i suoi capelli, in quello che potrebbe essere uno spasmo involontario, così come una carezza. Per un attimo, Ricciardi teme che sappia anche lui tutto, tutto, e che quell’intimità così estranea si stia per tramutare in beffa; ma Bruno è sempre stato così, sopra le righe e fisico oltre la comune decenza, ed è probabilmente lui a essere ora troppo recettivo.

Quante volte gli ha rifilato uno scappellotto o un buffetto in viso, o una pacca sulla spalla o uno spintone giocoso? Una volta gli ha pure fatto il solletico, dicendo che era per un
’indagine medica; un’altra, lo ha tirato per la cravatta perché non lo stava ascoltando; più di una volta, a fine giornata, gli ha scarmigliato il ricciolo di capelli sulla fronte perché era “troppo da damerino”. Quando beve un bicchiere di troppo, poi, diventa di un’espansività smodata, oltre che un malanno per la sua schiena, visto come gli si aggrappa al collo per camminare dritto (e più ci pensa, a quei frammenti di vita, più scopre di averli impressi nella memoria nitidamente, come fossero eventi imprescindibili). Bruno è fatto così, da sempre. È solo lui che lo vede oltre una lente diversa.

Strizza con forza gli occhi: deve prendere distanza, ridisegnare i confini, prima di dimenticare quali fossero.

Si scosta con decisione da lui ed è un errore, lo capisce troppo tardi. Guarda Bruno in viso, ora, ed è troppo vicino al suo, più di quanto non sia mai stato, tanto da avvertire il suo respiro. A quel movimento, la mano indebolita di Bruno perde la presa e scivola sul suo collo, inerte, bollente contro la sua pelle.

Si ritrova nei suoi occhi caldi, ora leggermente velati e non più del tutto vigili. Coglie sfumature nuove appena visibili nella penombra, striature e pagliuzze ambrate che non aveva mai notato oltre le sue ciglia folte, che si aprono e chiudono al rallentatore, affaticate.

Quanto può rimanere così vicino, senza risultare inopportuno anche a un uomo in preda alla febbre? Il pensiero lo sfiora e poi viene scacciato quando lo sguardo gli scivola lungo la curva del suo naso e si incastra sulle sue labbra, tra il rosso dei lividi e la barba. Sono socchiuse, invitanti in un modo che gli strizza le viscere e gli invia vampate nel petto (non può farlo, non può nemmeno pensarlo).

Bruno batte di nuovo le palpebre, già sul bordo del dormiveglia. Ricciardi sa di immaginare la lieve pressione del suo palmo che lo attira verso di lui, che è semplice gravità, ma vi cede ugualmente, in quel singolo sfarfallio di ciglia che sembra cristallizzato nel buio.

Posa le labbra sulle sue in quello che, più che un bacio, è una carezza effimera (caldo e tabacco e una nota ferrigna e le dita di Bruno che gli arricciano di nuovo le ciocche sulla nuca) e si ritrae altrettanto rapido, boccheggiando come se fosse riemerso da un’apnea, il cuore che cerca di spaccarsi in due a ogni respiro. Bruno ha già gli occhi chiusi, il respiro calmo di chi dorme e nemmeno si è accorto di scivolare nel sonno, una mano ancora abbandonata contro di lui, ora scivolata sul suo petto.

Ricciardi si riscuote a fatica, intorpidito, con le orecchie che prima ronzano e poi prendono a rintoccare a tempo con i battiti galoppanti del suo cuore. Rimane incredulo di fronte alla facilità con cui ha superato quel limite inviolabile, con la stessa facilità con cui si scavalca il confine di un prato e si lasciano impronte profonde tra gli steli. Non riesce nemmeno a convertire in pensieri sensati ciò che ha appena fatto; è un unico fascio di nervi ipersensibili, di torrenti che gli corrono nelle vene e sentimenti leggeri che gli si gonfiano nel petto come dirigibili pronti al decollo e poi a prendere fuoco.

Può sperare che per Bruno sia stato solo un sogno, un’ombra di febbre insensata che verrà dissipata dalla luce che filtra nel buio, qualcosa di cui riderà in futuro per la sua totale assurdità (può pensare anche lui che sia stato un sogno, dopotutto). Però posa di nuovo il capo sulle nocche di Bruno e chiude gli occhi finalmente appesantiti dal sonno, liberi da emicrania.

Oltre i vetri, raggio dopo raggio, sorge un’alba timida e rosea. E va bene così, conclude, sentendo racchiusa tra le costole una pace che forse non ha mai saputo di desiderare.

Dopotutto, gli è sempre bastato guardare il sole dalla finestra.
 
 

Note dell'Autrice:
Mi era mancato scrivere angst? Assolutamente, anche se questo è più che altro hurt/comfort ma vabenelostesso *voce di Lundini*
Sono cosciente che trovare così tanta gente rainbow-friendly negli anni Trenta fosse pure utopia? Ovvio, ma io scrivo questa storia per divertirmi e non per fare un trattato sociologico sul riconoscimento dei diritti LGBTQ+ nel Novecento, e mi limito a una patina di verosimiglianza (tra l'altro "preferirei sapere che non gli piacciono le donne" son parole canoniche di Livia, non mie, e ringrazio per questo i cari sceneggiatori di Boris).
In teoria la storia potrebbe pure finire qui, in quanto la ritengo abbastanza autoconclusiva, seppur con finale aperto... ma posso io esimermi dallo scrivere confronti sul filo del rasoio tra i personaggi? Ecco.
Quindi andrà avanti per uno/due capitoli a seconda di quanto avrò voglia di sguazzare ancora nelle turbe di questi due cape toste, prima di rinsavire e tornare ai miei vecchi lidi (con sei o sette storie incompiute che mi guardano male male).
Grazie a chi continua a leggere questa mia follia, a chi commenta e a chi ha aggiunto la storia alle proprie liste ♥
A presto,

-Light-




 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Tutti i ricordi che ti porti nella testa ***


Immagine-2023-09-04-122412

 
 
 
Napoli, febbraio 1934,
tre mesi dopo


 
          UN VENTO aggressivo scuote i vetri delle finestre, provocando nell’ufficio un tintinnio sottile e uno sbatacchiare di legno negli infissi alquanto preoccupante.
 
«Alla faccia del “rinnovo”,» sbotta Maione, scrutando la finestra traballante come se gli avesse arrecato un’offesa personale. «Hanno speso tre lire solo per i busti e i mamozzi, qui.»
 
Passa a fulminare i ritratti arcigni del Duce e del re che campeggiano sulla parete in mezzo alle finestre, quasi volesse accusarli di aver preso parte in prima linea alla ristrutturazione interna della Questura di Napoli.
 
Ricciardi sbuffa piano dal naso con malcelato divertimento, apponendo una firma stanca e poco leggibile in calce all’ennesimo foglio. Le invettive di fine giornata di Maione fanno parte dell’atmosfera familiare che permea quel luogo, sebbene stravolto dalle ultime velleità ornamentali di Garzo nel tentativo di propiziarsi i favori dei “piani alti”, tra un motto del Partito all’ingresso, busti romani marmorei a ogni angolo e un murale futurista in corridoio.
 
Non vi partecipa, né le zittisce come farebbero molti suoi colleghi. Maione, ormai, sa che con lui certe caute libertà può permettersele. Si limita ad ascoltarlo, pensando che è una distrazione che sa di casa, e che lo aiuta a scordare i recenti pomeriggi vuoti passati a Fortino (che ormai di casa ha solo il nome).
 
Volta il foglio a faccia in giù, passando al successivo. Dopo lo scalpore del caso Rummolo, accesosi a nemmeno un giorno dal suo rientro, sta ancora smaltendo il lavoro arretrato svolto in sua assenza, per lo più grossolanamente, da De Blasio, che non ha mancato di fargli notare come abbia preso in carico anche le sue indagini mentre lui si “svagava” in Cilento. Ricciardi si è dovuto mordere la lingua, per non rispondergli che non s’è svagato affatto, e che quei poveri morti ammazzati avrebbero preferito essere lasciati lì dov’erano, piuttosto che doversi affidare a lui per trovare giustizia.
 
Progetta già di riesumare un paio di casi che non gli tornano. Ad esempio, quello che ha sotto il naso: l’avvocato mancino che si è “suicidato” sparandosi alla tempia destra. Sul referto dell’autopsia, la parola “mancino” è stata sottolineata più volte, segno che chi l’ha scritto sapeva bene che non sarebbe stato lui a leggerlo; l’imbeccata non è stata colta da De Blasio, evidentemente. Non ha bisogno di leggere la firma a piè di pagina per sapere chi l
’ha stilato. Si risistema nervoso sulla sedia, facendola scricchiolare, prima di chiudere di scatto il fascicolo e prendere a compilare la terza richiesta di riapertura di un caso. A Garzo verrà una sincope.
 
Tre colpi ravvicinati risuonano nell’ufficio.
 
Ricciardi solleva lo sguardo dai suoi incartamenti solo per raggelare chiunque sia oltre la soglia. Il sospiro pesante e meno discreto di Maione si leva dall’altra scrivania; incrocia i suoi occhi in mezzo alla stanza e poi li ruota platealmente al cielo. Ricciardi non lo biasima: chiunque bussi in Questura di venerdì alle sette di sera non è certo il benvenuto.
 
Ancor prima che il nuovo arrivato parli o faccia il suo ingresso, Ricciardi sa che è Bruno. Lo capisce dal fatto che nemmeno aspetta il permesso per entrare, come fosse scontato, dal sottile odore di tabacco che si porta appresso, dal modo energico e non molto formale con cui spalanca la porta e dal paio di passi arzilli che sente subito dopo. Stringe con più forza tra le dita la stilografica, tracciando una linea d’inchiostro sbavata. Non si cura di correggerla e non alza la testa dal documento.
 
«Commissario, brigadiere...» esordisce Bruno a mo’ di saluto, molleggiando verso la sua scrivania (non zoppica più così tanto, lo nota anche se non lo sta davvero guardando).
 
«‘Sera, dottore,» ricambia Maione, in tono amabile.
 
È evidentemente sollevato dal non trovarsi di fronte Garzo o qualche altro seccatore (Ricciardi, dal canto suo, avrebbe preferito sorbirsi una delle filippiche patriottiche di Garzo).
 
«Ciao, Bru’,» risponde distratto, pure se in realtà tutta la sua attenzione è ormai focalizzata sul dottore, accostatosi alla sua scrivania.
 
Lui non alza la testa dal foglio. Ultimamente, non lo guarda più negli occhi, se non per i pochi istanti necessari a non sembrare sgarbato (non che ci sia stato molto tempo per vedersi, ultimamente).
 
«Vi fanno fare le ore piccole per noi?» chiede Maione, mollando di buon grado la penna sullo scrittoio.
 
«Lui mi fa fare le ore piccole per voi,» lo corregge Bruno, prima di lasciar cadere di malagrazia un fascicolo sulla scrivania di Ricciardi, invadendo il suo spazio di lavoro; lui è costretto a scansare l'angolo della cartella per continuare a scrivere. «Dovrebbe vergognarsi, il signor commissario... stacco dopo una giornata infernale e mi tocca pure passare dall’obitorio per i comodi suoi.»
 
«Non ho controllo su chi decide di accoltellarsi a Napoli il venerdì sera,» sbotta Ricciardi, rimediandosi un’occhiata interrogativa da Maione e una affilata da Bruno.
 
Sposta infine lo sguardo sul referto post-mortem, compilato nella grafia svolazzante e angolare che riconoscerebbe ovunque, e trattiene un sospiro dietro i denti. Scocca a Bruno un’occhiata fugace, il tempo di cogliere la sua espressione un po’ adombrata.
 
«Grazie, potevi portarmelo pure domattina,» corregge il tiro.
 
Bruno scrolla le spalle, ed è chiaro che non se l’è presa. Lo intravede tastarsi il taschino della giacca, dove tiene il sigaro, per poi lasciar ricadere di colpo la mano (come se si fosse ricordato che a lui infastidisce quando fuma al chiuso).
 
«Ah, dovevo comunque passare di qua,» dice poi, in modo abbastanza criptico da fargli alzare la testa in modo istintivo e guardarlo, dimentico di quel veto silenzioso che si è imposto. «Emicrania?» domanda a tradimento non appena incontra i suoi occhi, svelto come una stoccata di fioretto.
 
«Sì, da stamattina,» mente Ricciardi, altrettanto prontamente, senza nemmeno doversi sforzare troppo per mettere su una smorfia convincente (l’emicrania gli verrà lo stesso, tanto, è la sua unica compagna di vita stabile). «Scusa, perché dovevi passare di qui? Questo era l’unico caso in sospeso e la questione di Rummolo è chiusa. Non mi pare avessi altri incarichi per noi.»
 
«Corretto,» sorride Bruno, con un gesto spigliato del capo (un ricciolo castano gli ricade sul volto e rimane lì a ondeggiare, catturando il suo sguardo). «Infatti, ne ho io uno per te. Si chiama “trattoria” e la rimandiamo da mesi. Cioè, tu la rimandi; fosse per me, mi ci sarei fiondato appena alzato dal letto, ma bere da soli è assai triste.»
 
È difficile coglierlo alla sprovvista, ma Bruno ci riesce sempre con una disinvoltura incomprensibile, tanto che Ricciardi continua a fissarlo in volto, quasi stralunato (e Bruno sostiene il suo sguardo, sembra quasi sfidarlo ad abbassarlo con quel suo fare impertinente).
 
«Non dovresti andarci piano con l’alcol?» ribatte debolmente, adocchiando il suo addome, a significare il suo fegato forse non ancora rimarginato.
 
Bruno si poggia coi palmi al lato più stretto della scrivania e alza entrambe le sopracciglia, ironico.
 
«Disse il commissario al medico.»
 
«Bru
’, sono serio, non...»
 
«Pure io sono serio, Riccia’,» lo tronca Bruno, per la prima volta con tono più tagliente, per poi girare il capo: «Brigadiere, vi unite a noi? Siete invitato, pure se vi ostinate a indossare l’arma del delitto,» e addita il panciotto verdognolo di Maione, «tanto offre il barone, qua.»
 
Maione sorride a mo’ di scusa, non prima di essersi guardato il panciotto, dono del cognato, con un’espressione a mezza via tra il disgusto e la costernazione.
 
«Vi ringrazio, dottore, ma se non torno per cena, con questo tempaccio, mia moglie mi fa una capa tanta,» aggiunge, strabuzzando gli occhi con fare esplicativo.
 
«Ecco, allora è meglio se stacchi ora, Maio’,» si sente dire Ricciardi, e sa di stare agendo d’istinto quando dovrebbe rimanere lucido (quando non dovrebbe rimanere da solo con Bruno). «Sennò va a finire che Lucia non mi invita più ai pranzi della domenica.»
 
Maione, già in piedi e intento a rassettarsi la divisa, gli rivolge un’occhiata acuta:
 
«Se smette di invitarvi, è solo perché non venite mai, commissa’.»
 
«È sempre come se avessi accettato,» replica lui, con un sorriso rigido e forse un po’ colpevole.
 
Lo sguardo che gli rivolge Maione ha un che di paterno, che travalica per un attimo i confini gerarchici. Ricciardi lo accompagna con gli occhi fuori dall’ufficio, con un cenno di saluto sulla soglia ricambiato con un blando attenti sulla tesa del berretto.
 
Quando la porta si richiude, esita un paio di istanti prima di voltarsi verso Bruno, ancora puntellato sul bordo della sua scrivania; non sa se lo stia facendo solo per dargli fastidio o per non pesare sulla caviglia ancora fragile, in realtà. Fissa la porta e sembra distratto, come se stesse pensando a qualcosa (e Ricciardi ne approfitta e ruba uno sguardo di troppo al suo profilo, alla minuscola linea più scura che si scorge ancora sulle sue labbra là dove erano spaccate).
 
«Ce l’hai davvero, l’emicrania?» chiede Bruno a bruciapelo, mentre riporta lo sguardo su di lui e lo coglie in fallo.
 
Ricciardi sospira sottovoce e fugge i suoi occhi, sfregandosi le tempie e ravviandosi poi i capelli.
 
«No,» non gli riesce di mentire. «È solo una giornata pesante,» aggiunge, sperando con poca convinzione che colga l’antifona (non è poi così difficile, e ha motivi più che validi e noti per essere d
’umore tetro, dopotutto, col lutto di Rosa ancora dietro l'angolo).
 
«Ragione di più per starsene al caldo in trattoria, con del buon cibo e un bel bicchiere di vino,» gli sorride sghembo lui, senza mai schivare il suo sguardo, anzi, cercandolo attivamente e strizzandogli poi l'occhio. «E poi chiudiamo in bellezza con un cordiale al Gambrinus.»
 
«Bruno, veramente, apprezzo il pensiero, ma non ho proprio voglia. Non è serata,» scuote la testa, cercando di fissarlo pure lui negli occhi e di non farsi distrarre dalle sue labbra o dalle sue mani che gesticolano, vivaci come sempre.
 
Vede la delusione allargarsi nelle sue iridi scure, assieme a qualcos’altro, forse preoccupazione. Si scosta un poco dalla scrivania, rimanendo lì impalato, un po’ ciondolante.
 
«Tu, piuttosto, dovresti stare in piedi senza grucce?» gli chiede Ricciardi, prima di potersi frenare (non dovrebbe sfiorare il ricordo del suo arresto nemmeno lontanamente, eppure si ritrova a ricercarlo, quasi).
 
«No, ma non ne potevo più di starmene seduto in panciolle,» replica lui, senza riserbo. «Almeno, ho ripreso a operare. I morti, per ora. Per tornare a operare i vivi, beh...» apre e chiude la mano sinistra, mostrandogli come indice e medio non si pieghino ancora perfettamente, scossi da un lieve tremore, «Per quello ci vorrà un po’ più di tempo. Guarirà, perché lo dico io e so sempre quel che dico, ma nel frattempo è una bella seccatura.»
 
Posa il pugno semichiuso sulla scrivania e Ricciardi ha l’insano istinto di posarvi sopra la mano; lo reprime, stringendosi i palmi sotto allo scrittoio. Sa che sono state settimane dure, per Bruno. Tornare a lavorare in ospedale dopo appena un mese di convalescenza l
’ha stremato più di quanto ammetterebbe mai a chiunque, sebbene fosse costretto a star seduto nel suo ufficio o al massimo in corsia, relegato a compiere visite e stilare diagnosi e prescrizioni, ben lontano dal reparto emergenze o dalla sala operatoria.

Almeno, così immagina ragionevolmente. Non è che lo abbia visto molto, in quel periodo; ciò che sa l’ha appreso soprattutto da Maione, che ha spedito da lui con scuse più o meno plausibili per sincerarsi di come stesse. Lui, di persona, è passato dall’ospedale giusto un paio di volte come tappa obbligata per seguire dei casi e non ha mai cercato volontariamente Bruno (piuttosto, è stato Bruno a cercare lui, non appena saputo che era nei paraggi, riuscendo a intercettarlo solo per pochi, frettolosi istanti).

Sa che il suo comportamento nei suoi confronti è stato tutt’altro che corretto, soprattutto considerando gli ultimi eventi. Anche adesso, n
on sa cosa dire; sente di essersi cacciato in un vicolo cieco (è un po’ come avere il sole in faccia, dopotutto, e non avere idea di dove si debba andare).
 
«Almeno, sei ancora qui,» gli sfugge infine, per poi sigillare le labbra con forza ed evitare i suoi occhi, fattisi attenti sopra un sorriso lieve, forse un po’ sorpreso.
 
Con una smorfia improvvisa, si poggia a sedere sul lato della scrivania, sollevando la caviglia da terra (come se a quel punto non avesse più bisogno di portare avanti la farsa). Ricciardi avverte una pausa sospesa tra loro, elettrica, carica di quella distanza che si è accumulata tra loro in quei tre mesi infiniti, dolorosi. Sa che ora la stanno accorciando di nuovo; che Bruno la sta accorciando di nuovo, ignaro di quanto sia difficile per lui ritrovarselo così vicino (di quanto sia stupidamente felice di poterlo avere lì).
 
Bruno ha solo visto un amico farsi distaccato e freddo in uno dei momenti più difficili della vita di entrambi. Non può biasimarlo per cercare di ricucire quello strappo apparentemente inspiegabile tra loro.
 
«Riccia’, te la posso fare una domanda?»
 
Lui sente il cuore saltare una trentina di battiti; forse gli si ferma del tutto, incastrato tra le costole (gli occhi, invece, si incastrano sul volto di Bruno, insolitamente tirato). Di rado l
ha visto così serio, così composto, così attento a dove mette i piedi nel parlare a qualcuno. Lo terrorizza, lo riporta a quel singolo istante di tre mesi fa in cui è stato lui, a mettere un piede in fallo, a scivolare e cadere (a voler cadere, incurante delle conseguenze, in quel bacio rubato che ancora gli pizzica le labbra).
 
«Certo, me lo chiedi pure?» risponde con simulata leggerezza, troppo in ritardo per essere convincente, e Bruno non si fa attendere, spara senza un istante di tentennamento:
 
«Tu credi che io non abbia fatto tutto il possibile per salvare Rosa?»
 
Ricciardi si ritrova a battere la palpebre, come se una secchiata gelida gli fosse piombata addosso. Guarda Bruno dabbasso e non gli riesce di nascondere lo sconcerto che gli allarga gli occhi, sopprimendo tutto il resto. Non erano le parole terrificanti che si aspettava, ma non riesce a provare sollievo.
 
È in questo dubbio, che ha lasciato Bruno a crogiolarsi per... quanto? Due settimane? Schiude la bocca, senza nemmeno sapere se riuscirà a parlare, ma Bruno lo anticipa:
 
«Sinceramente, ti prego; non mi indorare la pillola. Non sarebbe la prima volta che mi succede ed è normale pensarlo; sapessi quanta ne vedo, di gente che fa così quando gli muore un parente. Io voglio solo sapere se è per questo che ce l’hai con me,» conclude a raffica Bruno, finendo per guardarlo solo sulle ultime parole, sfuggente come non è mai, sconclusionato contro il suo modo di fare di solito così preciso, analitico.
 
Ricciardi scuote appena la testa, più a riprendersi dallo stupore che in una vera e propria risposta.
 
«Io non ce l’ho con te,» riesce a dire, facendo poi leva sui braccioli della sedia per alzarsi e fronteggiarlo allo stesso livello (ed è rischioso, ma adesso non gli importa). «No, che non ce l
’ho con te. Ma sei impazzito? Bruno, come diamine ti viene in mente?» lo incalza quasi indignato, ora in piedi, a poco meno di un braccio di distanza da lui (troppo poca, lo sa) e lo prenderebbe e scrollerebbe per il bavero della giacca, se così non rischiasse di avvicinarsi più di quanto possa permettersi.
 
«Mi viene in mente perché tu ti impegni a evitarmi con ogni mezzo proprio da quando Rosa non c’è più. Era un dubbio legittimo,» risponde pacato Bruno, rifilandogli uno sguardo deciso che lo trapassa.
 
Nonostante tutto, nonostante la puntura acuta sotto al cuore che prova nel parlare di Rosa, Ricciardi sente un nodo di tensione che si scioglie (è da molto prima, che evita Bruno, ma lui non sembra essersene reso conto).
 
«Volevo solo starmene un po’ per conto mio,» ribatte piano, senza sentirsi meno in difetto per avergli fatto pesare qualcosa di cui non ha colpa. «So che hai fatto tutto il possibile per Rosa. Non ho mai nutrito dubbi al riguardo, grazie a te lei...»
 
Gli si rompe la voce e ammutolisce, girando di lato il capo per nascondere gli occhi lucidi. Non ce la fa ancora, a parlarne.
 
Grazie a Bruno, Rosa se n’è andata in pace, senza lasciare spettri dietro di sé. E se n’è andata da sola, mentre lui era corso a Ischia come un folle, inseguendo Enrica come di solito inseguiva i suoi fantasmi (o credendo di inseguire il sole, quando era ben conscio di avercelo alle spalle).
 
Il palmo di Bruno contro la sua guancia lo fa sobbalzare. È esattamente come quel giorno maledetto all’ospedale, al capezzale di Rosa, quando stava annegando nel dolore e lui l’aveva sfiorato così per confortarlo, riscuoterlo, per donargli un appiglio nel buio (e lui avrebbe voluto baciarlo sul posto, lì e allora, incurante di tutti). Gli fa voltare di nuovo il viso e gli lascia un buffetto impacciato ma gentile, come quella volta, accompagnato da uno dei suoi rari sorrisi sinceri, sottili, sempre semi nascosti dalla barba.
 
«Lo so, che vuoi stare da solo, ma capisco pure che la vita da misantropo alla lunga non ti fa bene. Rischio di ritrovarti a San Martino a farti monaco, se continui così.»
 
Ci riesce, a strappargli un tenue sorriso (anche se forse è più merito di quella breve carezza di cui si bea), a disegnargli sulle labbra una curva impercettibile che brilla di muta riconoscenza. Forse si è sbagliato, a voler chiudere la finestra; forse può bastargli anche solo quel poco, intenso calore che filtra fino a lui, senza doversi per forza spingere fino al sole (sa che non è vero, ma è bello crederci, seppur per pochi attimi).
 
«Passerà, non starti a preoccupare per me,» gli dice, battendo via dagli occhi la tristezza e affondando le mani nelle tasche dei pantaloni. «E poi, lo sai che l’inverno m’incupisce,» aggiunge, in una flebile scusa non del tutto falsa, accennando al vento di burrasca che si abbatte contro i vetri.
 
Bruno lo scruta a fondo, con gli occhi assottigliati e le labbra un po’ storte, in quel suo modo peculiare che oscilla sempre tra il beffardo e il compunto (quello che gli era mancato osservare e da cui ora non gli riesce di distogliere le pupille).
 
Infine, gli pianta un indice a un palmo dal volto, con fare ammonitore.
 
«Ultima offerta per la trattoria, Riccia’, poi giuro che non ti scoccio più,» dice, suonando come un maestro severo che redarguisce uno studente. «Almeno fino a primavera,» si corregge, scivolando in un sorrisetto ammiccante.
 
A Ricciardi viene da ridere, a quella sua persistenza. Rilascia uno sbuffo che vorrebbe essere il principio di una risata, con una leggerezza che non gli si agitava nel petto da mesi (gli è mancato, più di quanto possa ammettere anche a se stesso). Nelle iridi scure di Bruno, che ora gli riesce di guardare con sciocca semplicità, legge che sa già di averla avuta vinta.
 
E lui sa che dovrebbe rifiutare, che a stare con lui così a lungo e così vicino, dopo quello che è accaduto, finirà solo per farsi del male (o peggio, commettere errori insanabili). Ma l’inverno è lungo, e lui non vuole superarlo da solo.
 
«Dai, aspettami all’ingresso. Finisco ‘ste scartoffie e ti raggiungo,» dice, senza riuscire a nascondere, né negli occhi né sul viso, quanto sia genuinamente felice, in un modo così bambinesco che lo sente stonare sul suo volto sempre compassato, disabituato a mostrare gioia in modo troppo evidente.
 
«Sai che Garzo non le leggerà mai, vero? Al massimo se le fa leggere da Ponte.»
 
«Fila, prima che cambi idea,» sbotta lui, rifilandogli una spintarella verso la porta, che Bruno imbocca a piè sospinto, sogghignando con il sigaro già tra i denti, chiaramente vittorioso.
 
Ricciardi non finisce di scrivere un bel niente, perché gli trema troppo la mano e sente il petto oppresso da quella che non sa se sia paura, contentezza o un miscuglio acido delle due, ma che gli toglie comunque il respiro. Non esce o va a cena con Bruno da prima del suo arresto, e già ora, nel suo ufficio, si è sentito come se lui potesse leggergli dentro.

Non sa come riuscirà a guardarlo in volto per tutta la sera senza ricordare quella notte. La vede ogni volta che vede lui, vivida, e teme che Bruno possa scovarne il ricordo nei suoi occhi, con la stessa facilità con cui si trova il sole nel cielo anche quando è velato.
 
 

Note dell'Autrice:
Come al solito, dico bugie e la storia non è finita, ops.
Vorrei dire che il prossimo capitolo sarà l'ultimo, ma non faccio promesse, perché chissà che si inventano questi due imbecilli... però le strofe adatte della canzone stanno finendo, quindi al massimo posso partorirne altri due :')
Questo capitolo, in effetti, è un po' di raccordo (oltre che totalmente sconclusionato a livello cronologico, visto che Rosa muore d'estate nel 1933, ma shhh) e mi serviva uno stacco temporale per inserire almeno un po' di canon, tipo la sortita di Ricciardi a Ischia e tutta la situazione che ne consegue. Sulla superata convalescenza/ripresa di Bruno ci tornerò, non temete.
Grazie a chi legge e commenta la storia, mi fate felicissima ♥
A prestissimo,

-Light-

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Fuori in strada (il buio non c'è) ***



 
 
 
Napoli, Caffè Gambrinus

 

          «NO, Ricciardi, non esiste che non bevi manco un goccio,» sbotta indignato Bruno, facendogli capire dal nome pronunciato per intero che, sì, è serissimo su quella faccenda.

«Guarda che sto bevendo, ed è più di un goccio,» gli fa notare lui, alzando a schermirsi il bicchierino mezzo pieno.

«Devi bere pure per me,» lo zittisce lui con un ghigno da delinquente che mal si addice alla figura di un medico, così come il consiglio di darci giù con l’alcol.

Ricciardi non cede e tiene il bicchiere fuori dalla portata di Bruno, che si sporge e cerca di rabboccarlo facendo oscillare la bottiglia di cognac; anzi, di arzante, come ci tiene a specificare l’etichetta sotto al sigillo metallico con due fasci littori stampigliati, quello che Bruno ha divelto con un entusiasmo e una forza decisamente eccessivi poco fa.

«Oh, se non stai fermo finisce che lo verso al pavimento invece che a te,» sbotta dopo un paio di tentativi, ed effettivamente un paio di gocce di liquore vanno a macchiare la tovaglia.

«Che t’importa? Tanto pago io,» lo rimbecca Ricciardi, senza trattenere un sorrisetto a quelle manovre esagerate.

«M’importa, sarebbe un peccato capitale,» non gliela dà vinta lui, altrettanto divertito.

Con un’agilità inaspettata, allunga la mano libera e gli acchiappa al volo il polso, tirandolo a sé e inchiodandolo al tavolo, riuscendo finalmente a riempirgli il piccolo calice fino all’orlo. E ci riesce soprattutto perché Ricciardi, in quella frazione di secondo, è troppo sorpreso da quel contatto per opporsi (la stretta di Bruno è calda sulla sua pelle, là dove gli si è scostato il polsino della camicia).

«Ecco, tutta salute, garantisco io,» conclude trionfante il dottore, lasciandolo andare come se nulla fosse successo (e non è successo nulla di diverso dal solito, considerando le loro uscite tipiche).

Afferra poi il proprio bicchiere, pieno solo per un quarto, e lo solleva verso di lui. Ricciardi è svelto a recuperare compostezza, sperando invero di non averla mai persa, e fa tintinnare i vetri in mezzo a loro con un istante di ritardo.

«Al tuo pronto recupero,» augura di getto, senza arrischiarsi in qualcosa di troppo personale.

Prevedibilmente, Bruno lo scruta inclinando il capo, un angolo della bocca, quello segnato dalla cicatrice, leggermente incurvato verso l’alto con fare sardonico.

«Seriamente, Riccia’?» ridacchia, a voce abbastanza alta. «Che c’è, sei a un rinfresco con Garzo e la sua schiera di soldatini con un fascio ficcato su per il...»

«Bruno!» sibila Ricciardi, sentendo ogni traccia di colore defluire dal volto.

Scocca un’occhiata allarmata attorno a sé, ma il vocio al Gambrinus è come sempre troppo vivace per cogliere le conversazioni ai tavoli vicini e loro hanno scelto un posto abbastanza appartato, all’angolo. C’è un gruppetto di camerata in fondo al locale, stravaccati sulle sedie e coi fez in testa anche al chiuso, ma sono troppo distratti o troppo alticci per far caso a invettive contro di loro.

Riporta lo sguardo su Bruno, stringendo il bicchiere con le dita sbiancate.

«Non t’è bastato?» gli sfugge, più aspro di quanto intendesse.

Bruno sbuffa sottovoce, e fino a tre mesi prima avrebbe ignorato la sua apprensione e avrebbe continuato a farsi beffe di chi non gli andava genio. Ora, invece, non perde il sorriso, sempre lievemente di scherno, ma si astiene dal continuare (Ricciardi coglie il modo fuggevole in cui si sfrega lo zigomo con una nocca, nel punto in cui era stampata la punta di uno stivale).

«Vabbè, sto buono, altrimenti finisce che devi venirmi a ripescare in qualche altro porto,» sospira, cacciandosi in bocca il sigaro.

«Non dirlo manco per scherzo,» ribatte lui, a malapena scandendo le singole parole oltre la mascella contratta.

Beve un sorso troppo generoso di cognac che gli brucia la gola e strizza gli occhi di riflesso, affatto abituato all’alcol. A quel punto, nel fissare il suo volto che sa essersi fatto ombroso, la giovialità di Bruno si affievolisce appena, come se si fosse reso conto di aver calcato la mano su una piaga troppo fresca.

«Dai, invece di fare sempre il tedioso, non possiamo brindare alla vita, all’amore, alle donne e alle solite cose?» riprende subito, sfregando un cerino e accendendosi il sigaro con uno svolazzo di fumo.

Nel farlo, si reclina sullo schienale, stiracchiandosi e stendendo le gambe sotto al tavolo e urta inavvertitamente la caviglia contro la sua, premendovi contro. Bruno, intento ad aspirare le prime boccate, nemmeno ci fa caso, forse credendo distratto che sia la gamba del tavolo, mentre Ricciardi si pietrifica.

Quel minuscolo punto di pressione sul piede diventa tutto ciò di cui è cosciente, come se il suo intero sistema nervoso si fosse concentrato in quei pochi centimetri. Ritrarsi di scatto darebbe nell’occhio; ma forse non farlo sarebbe più sospetto (sospetto in che modo, poi? Si sente paranoico, con Bruno così vicino).

Per fortuna, Bruno si ricompone alla svelta e piega di nuovo le ginocchia, privandolo del contatto, per poi puntellarsi coi gomiti sul tavolo e fissarlo interrogativo. Ricciardi si rende conto che sta ancora aspettando una sua reazione. Per una volta, è lieto di avere la fama di non essere molto loquace; almeno, ha il tempo di riprendere il filo del discorso e farla passare per una pausa studiata.

Mette su come può un sorriso fermo, anche se sente lo stomaco chiudersi a pugno. Vita, amore e donne... non è proprio il genere di augurio che si farebbe in questo momento (né è certo di volerlo fare a Bruno, vita esclusa).

«Magari al prossimo giro,» dice, già sapendo che quella sera si fermeranno al primo; e infatti Bruno rotea gli occhi al cielo con fare esasperato.

«Finché non brindi a lui, va bene tutto,» mastica tra i denti, sfidandolo a riprenderlo anche su quel suo commento indiretto; Ricciardi strizza le labbra con disappunto, ormai rassegnato.

A quel punto, Bruno prende a gustarsi il suo bicchiere, in modo insolitamente assorto e morigerato, alternando piccoli sorsi a svogliate boccate di fumo, che vanno ad accumularsi nel sottile strato caliginoso che già vela il soffitto.

Ricciardi approfitta di quell’attimo di quiete per prendere un respiro leggermente più profondo, che non lo calma affatto, anzi, gli fa percepire quanto contratti siano i suoi polmoni. Non in modo spiacevole, in verità, ma come se stessero tentando di contenere molta più aria del normale, gonfiandogli la gabbia toracica e facendogli battere il cuore troppo vicino alle costole.

Quella cena è stata molto meno problematica di quanto avesse temuto, anche se il merito è soprattutto di Bruno, che senza nemmeno impegnarsi ha preso le redini della conversazione e l’ha condotta a spron battuto, come d’altronde fa sempre.

Riempiendo i momenti vuoti, facendo straripare quelli già pieni, tirandogli fuori un sorriso e una risata dietro l’altra come un prestigiatore che pesca ogni carta a colpo sicuro, e facendogli eco con altrettanta ilarità ed esuberanza (gli era mancato; gli era mancato lui e tutto questo).

Stasera, gli appare persino più allegro e sopra le righe del solito (splende, Bruno, sembra irradiare luce da ogni poro).

Gli viene in mente solo ora che, con ogni probabilità, quella è la prima uscita sociale a cui prende parte da quando è stato arrestato. Bruno non ha mai avuto una cerchia di amici particolarmente ampia, se non un paio di colleghi con cui è in buoni rapporti e lui stesso.

Ora che è stato bollato come dissidente, e ne ha portato i segni addosso per mesi, può immaginare il vuoto che gli si è creato intorno, unito alle settimane di solitudine passate in convalescenza (di cui è anche lui complice, non manca mai di rammentarselo).

Prende un altro sorso di liquore e lo sente acido contro il palato, privo di qualsivoglia aroma piacevole; gli arriva però quello caldo del Toscano di Bruno, che gli solletica le narici. Ora si è poggiato coi gomiti sul tavolo esalando una piccola boccata di fumo, che non gli riesce di dirottare del tutto verso l’alto, finendo per farsi sfuggire un paio di volute fino al suo viso.

Normalmente, Ricciardi agiterebbe una mano a scacciarla via, redarguendo l’amico per quel suo vizio irritante, ma stavolta si ritrova a tacere e inalarla discretamente, a fondo, sentendola premere sul retro della lingua come qualcosa di tangibile. Si rende conto di stare fissando Bruno negli occhi da non sa più quanti secondi, e avverte una palpitazione scomposta all’altezza dello sterno.

Si affretta a portare di nuovo il calice alle labbra, distogliendo lo sguardo, con l’opprimente sensazione di avere un manifesto delle proprie emozioni dipinto in faccia.

Bruno non sembra farci caso. Tamburella col retro del sigaro sul tavolo, ancora proteso in avanti, nella posa felina che assume di solito quando ha intenzione di porre qualche domanda non necessariamente gradita, ma che lo divertirà parecchio.

«Visto che siamo più o meno in argomento...» esordisce infatti, con un sorrisetto sibillino.

«Quale argomento?» lo anticipa lui, subito sulla difensiva.

«Vita, amore e donne. Non stai attento, Riccia’,» lo rimbrotta lui, e stavolta la boccata di fumo che lo raggiunge in faccia è intenzionale, mirata (e lui si ricorda in ritardo di scacciarla, con un gesto goffo del palmo e un altro sussulto al petto).

«È che non c’è molto da dire su nessuno dei tre,» sorride rapido, tirato; e quella, almeno, non è una reazione diversa da quella che avrebbe di solito quando Bruno tenta di scucirgli qualcosa di personale (anche se, alla fine, ci riesce quasi sempre).

Non sa quale argomento sarebbe peggio affrontare adesso, se la vita, l’amore o le donne, con lui che lo scrutina con occhio clinico a distanza sin troppo ravvicinata.

«E che mi dici di Livia?» rimpalla Bruno, senza perdere un battito, come se non avesse appena sganciato un colpo di mortaio su di lui.

Ricciardi tace e cinge lo stelo del bicchierino con entrambi i palmi tesi, soffermandosi sul liquido ambrato che sembra tremare, a ritmo col centinaio di pensieri gli corrono in testa come una mandria di cavalli impazziti (forse sono le sue dita, a tremare). Non gli piace mentire sfacciatamente, nemmeno se ne va di una questione così vitale, e tenta di sviare la domanda:

«Non so sotto quale dei tre argomenti ricada Livia nella tua testa, ma...»

«Nel caso non l’avessi notato, e può anche darsi, visto come sei fatto, è una donna; se poi vuoi metterci pure l’amore-»

«...ma non c’è molto da dire neanche su di lei,» lo sovrasta Ricciardi, ignorando volutamente la frecciatina che, lo sa, è priva di malizia, ma finisce per intaccare un po’ troppo in profondità in quel nuovo punto sensibile.

«Ohi, Riccia’,» Bruno gli molla una schicchera sul dorso della mano, abbastanza forte da farlo sobbalzare. «Di nome non faccio Battilocchio, quindi non dire fesserie,» continua, quasi offeso, con un cipiglio che va a incidergli la fronte.

«Dovresti sapere che non ne dico,» ribatte lui, altrettanto stizzito, sapendo che dovrà dirne a frotte, di lì a poco (ritrae di scatto la mano, a distanza di sicurezza).

«La prima donna che passa non è disposta a ospitare per giorni il migliore amico del primo uomo che passa dopo che i fascisti gli hanno dato una strigliata,» sciorina senza esitare, come se ci avesse pensato più di qualche volta, a quel fatto, e non dovesse nemmeno pensare a che parole usare. «Cherchez la femme, come sempre,» aggiunge, con impertinenza.

Ricciardi, in quel momento, detesta la sua proverbiale sagacia, la stessa che spesso lo trae d’impiccio durante i suoi casi. È ovvio, che sia arrivato da tempo alla conclusione che, se Livia è stata così ben disposta nei suoi confronti, è per qualcosa di più della semplice riconoscenza o umanità. Il fatto più ironico è che ci ha visto giusto.

«Possiamo cambiare argomento?» tenta, senza troppa convinzione.

«No,» ribatte lui, con solo un filo d’ironia a tendergli il volto altrimenti serio. «Me lo sto chiedendo da quando riesco a mettere due pensieri lucidi di fila. E tu sei convenientemente sparito dalla circolazione, visto che, al solito, piuttosto che ammettere che ti è capitato qualcosa preferisci rinchiuderti in casa a doppia mandata e tanti saluti al mondo e agli amici e a chi ti vuol bene. E non venirmi a dire che non è vero, Riccia’.»

La risposta serrata di Bruno lo colpisce come un pugno ben mirato allo stomaco, spezzandogli il fiato. Serra la mandibola, con Bruno che non gli schioda gli occhi di dosso, con la caparbietà che riserva solo ai pazienti più complessi e a lui. Ricciardi non dovrebbe essere stupito dalla precisione chirurgica con cui l’ha sviscerato in meno di dieci secondi, pur male indentificando l’attore principale della questione: lui stesso, non Livia.

«Ora, puoi rispondermi come un normale essere umano?»

Ricciardi, nel momento in cui inizia a parlare, sa già di essersi avviato lungo una discesa dalla quale non saprà risalire, ma vi si fionda ugualmente:

«Semplicemente, Livia mi doveva un favore. Ha agganci in alto e l’ho scagionata dalle accuse sull’omicidio del marito. Potevo permettermi di chiederglielo e non avevo alternative,» ribatte flemmatico, raddrizzandosi sullo schienale e ostentando la stessa, rigida compostezza di quando è dietro la sua scrivania, di fronte a un testimone o sospettato.

Si sente meschino, a offuscare a quel modo la verità, con l’ultima conversazione con Livia che ancora lo perseguita. Sa che è stata l’ultima, perché, per Livia, è molto meglio che lui sparisca definitivamente dalla sua vita. Non l’ha ringraziata abbastanza, né sarà mai in grado di farlo e ora si ritrova anche a sminuirne il ruolo.

«Ti era riconoscente per avermi salvato la vita,» aggiunge svelto, sapendo di imboccare un’altra strada dissestata; ma non ce la fa, a dipingerlo come un asettico scambio di favori tra loro. «E sa che sei un ottimo medico, le dispiaceva saperti in difficoltà.»

«Lusingato,» sbuffa lui sarcastico. «Mi ha accolto per pura carità e buon cuore, capisco,» chiosa poi, in tono petulante.

«Dovresti solo esserle grato,» quasi ringhia in risposta Ricciardi, con una veemenza che non dovrebbe certo riservare a lui, ma a se stesso, per tutte quelle mezze bugie che mette in piedi.

«Lo sono, non fraintendere,» dice lui, agitando appena una mano tra loro a rassicurarlo. «Mi chiedevo solo se ci fosse qualcosa di più tra voi... alla buon’ora, aggiungerei, visto che vi ronzate intorno da-»

«Con Livia è finita.»

Quella semplice constatazione riesce a far ammutolire di colpo persino Bruno, e a far comparire un’ombra più seria sul suo viso, che va a scurirgli le iridi sempre giocose.

Ricciardi espira tremante dal naso. Bruno ha fatto breccia, esattamente come ogni altra volta, ma stavolta non ne è affatto lieto. Prova quasi un moto di collera verso l’amico, che lo spinge sempre a cedere, ad aprirsi, a mostrarsi molto più fragile di quanto sia (a scoprirsi molto più fragile di quanto pensasse, soprattutto davanti a lui).

«A dir la verità, non è mai nemmeno cominciata,» si ritrova ad aggiungere con amarezza, senza volerlo, gli occhi inchiodati sul cristallo del bicchiere che gli restituisce l’alone del suo volto pallido, distorto, simile a quello di un fantasma. «Ma non dovrebbe stupirti, no? L’hai visto tu stesso.»

Bruno abbassa per una frazione di secondo gli occhi, forse colpevolmente, alla menzione indiretta di quel diverbio avvenuto ormai mesi fa, ma che con tutta evidenza ricorda bene anche lui. Ricciardi spera non lo ricordi così bene perché, più ci ripensa, più si rende conto di essersi esposto fin troppo quella volta, a parlare a vanvera di sentimenti e di quali prova lui e per chi.

«Credevo vi foste chiariti,» dice Bruno, con molta meno sicumera.

«Infatti,» sputa fuori lui, lapidario. «È per questo che è finita.»

Ricciardi parla e avverte un senso di costrizione al collo. Gli lampeggiano sulle retine stralci di quella notte con Livia, indesiderati, eppure quasi nostalgici, ora che li vede così lontani; e, più vividi, quasi accecanti, frammenti di quel bacio che ha rubato a Bruno (quelli tagliano, invece, sono affilati). Si sovrappongono e rimescolano in un caleidoscopio folle che lo fa sentire su una barca in mezzo alla burrasca. Non gli riesce di guardare in faccia l’amico.

È una marea improvvisa, quella che gli monta dentro, che quasi lo soverchia; un mare spumeggiante e vorticoso di quella che riconosce come rabbia. Una rabbia già domata, però, incapace di rompere gli argini. Perché con Livia, anche volendo, non avrebbe mai potuto costruire nulla per via di come è fatto lui; e con Bruno, nonostante lo desideri con ogni stilla della sua anima, non potrebbe mai costruire nulla lo stesso, per il medesimo motivo.

Ciò di cui non lo hanno privato i fantasmi che vede se l’è precluso lui con le proprie mani (perché c’è un’unica finestra, nella sua vita, e un unico sole, e sono entrambi sbagliati e irraggiungibili).

«Come ti dicevo, non ho molto da dire su vita, amore e donne, perché, pure quando ce li ho, non so mai che farmene,» conclude, con un sorriso caustico che brucia solo se stesso, prima di buttar giù il fondo del bicchiere in un sorso. «Possiamo cambiare argomento, ora?»

Il silenzio meditabondo di Bruno lo allarma, così come i suoi occhi inquisitori che lo osservano e sembrano scavare oltre la superficie, granello dopo granello. Ricciardi sa di aver detto più del dovuto, forse anche sull’onda di quel bicchierino di troppo (ma è solo una comoda scusa, perché lui si sente più lucido che mai).

Sa anche di aver rovinato una serata che avevano atteso entrambi da tempo, seppur per motivi diversi, e sa di avere una confusione tale, in testa, da far invidia a una Babele sul punto di collassare (un principio di emicrania gli fa pressione sulle tempie, insistente).

Senza preavviso, Bruno spegne il sigaro nel posacenere e si alza in piedi, senza nemmeno aver finito il suo cognac. Ricciardi sente il cuore che cade a capofitto nello stomaco, in una voragine di panico, nel vederlo andar via. Ha detto troppo, ne è ben cosciente, e Bruno forse ha intuito qualcosa che non avrebbe mai dovuto immaginare (forse ha addirittura ricordato).

Invece, lui gli si fa accanto e gli pianta una mano ferma sulla spalla, scuotendolo leggermente e inviandogli una scarica di formicolii lungo il braccio. Si china appena verso di lui, parlando sottovoce, con fare cospiratore:

«Stasera paghi tu, perché non ti priverei mai di questo onore,» annuncia compito, al che Ricciardi si limita ad annuire con circospezione, preso in contropiede.

Bruno fa pressione sulla sua spalla, inclinandogli il busto, cosicché lui lo guardi del tutto e non di sottecchi. Quando lo fa, è più vicino di quanto pensasse, tanto che quasi trattiene il fiato, ma Bruno sembra non farci caso, disinvolto come lo è sempre. Sul suo viso, trova il riflesso di un sorriso sincero, di quelli quasi invisibili che bisogna saper vedere, e gli occhi che gli scintillano.

«Però a casa tengo una bottiglia di cognac vero; roba francese, non questa schifezza autarchica. Penso che potrà largamente ripagare la cena, e pure tutto il resto. Che dici?» aggiunge, ammiccando furbo.

Ricciardi sa che, per non destare sospetti, dovrebbe alzarsi a sua volta, o perlomeno scostarsi, prima di catalizzare l’attenzione degli altri avventori. Dovrebbe rispondere, ridere, accettare l’offerta (e le scuse) di Bruno e trarsi d’impaccio.

Invece, il mondo si ferma e i suoi occhi si perdono in tutti i dettagli sbagliati (la curva piena delle sue labbra, la lieve gobba del suo naso, i ricci disordinati, il modo in cui quel sorriso gli renda più pronunciato uno zigomo, i riflessi ambrati nelle sue iridi ora illuminate) e, come un folle, vorrebbe sfiorarli tutti in punta di dita come il sole sfiora a lui il viso ogni mattina.

Pensa senza alcuna ragione che, se lo baciasse adesso, come ha fatto quella notte e come vorrebbe fare ancora (e ancora e ancora), non ci sarebbe nulla di sbagliato. Né per lui, né per Bruno. Non in quel preciso momento, in quella bolla che si è venuta a creare e che non sta rompendo, lasciando che si solidifichi attorno a loro.

Sente uno strappo sotto lo sterno; qualcosa di rotto, di bruciante, qualcosa che gli albeggia sul viso e gli straripa dagli occhi, impossibile da nascondere (e Bruno vede tutto, lo fissa troppo intensamente, troppo da vicino, per non vederlo).

È un singolo istante sospeso. Poi un’ombra repentina, indecifrabile, passa sul volto di Bruno, e per un attimo sembra imbarazzato. Recupera distanza con la sua consueta disinvoltura, ritraendo però svelto la mano (e il mondo riprende a girare, come se avesse ritrovato la sua unica orbita, l’unica che ha sempre seguito senza nemmeno saperlo).

«Lo prendo per un sì.»

 


«Beh, siamo a posto?» lo incalza Bruno una volta fuori dal Gambrinus, col vento teso che graffia loro la faccia in lame di gelo, portando con sé il pizzicore salmastro del mare.

C’è un che di apprensivo, nel modo in cui lo chiede, e ormai Ricciardi sa riconoscere il modo goffo ma sincero in cui Bruno si scusa con lui. Accoglie l’aria fredda con liberazione, oppresso dalla calura fumosa del locale, e anche dalla miriade di sentimenti che gli si agitano ovunque tra stomaco e petto.

Non sa spiegarsi con chiarezza cosa sia successo; sa solo che, quando inspira l’aria frizzante della notte, si sente la testa sgombra, più calma di quanto non lo sia stata per mesi. Come se, all’improvviso, avesse imparato a navigare in quel caos che gli ruota attorno senza esserne sopraffatto. Forse perché, invece di dimenarsi a casaccio tra le onde, ha infine capito di dover assecondare la corrente, rimanendo semplicemente a galla.

«Ohi, Riccia’,» lo riscuote Bruno, con un colpetto sul braccio, ora visibilmente allarmato. «Non mi far stare col patema. Siamo a posto, sì?»

Lui si volta verso il dottore, le mani trattenute rigide dietro la schiena, e lo fissa impettito, senza tradire alcuna espressione. Bruno si irrigidisce, sul chi vive, le sopracciglia strettamente aggrottate, come a prepararsi all’impatto di qualcosa di inatteso e sgradevole.

«Penso che dipenda da quel cognac, no?» risponde infine Ricciardi, col tono piatto e inflessibile da commissario che usa coi sospettati sotto interrogatorio.

È Bruno, per una volta, a essere preso alla sprovvista, per poi scoppiare in una risata fragorosa, sollevata, che si unisce alla propria, breve e scoppiettante (il cuore gli bussa contro le costole, leggero, pronto a prendere il volo oltre la propria gabbia).

Gli sfugge senza alcuno sforzo, anche se dovrebbe essere terrorizzato, anche se in quel momento ogni tassello della sua vita è storto o perduto, anche se quel mare in cui galleggia può tramutarsi in burrasca, anche se potrebbe perdere il mondo in un battito di ciglia (e forse è proprio tutto questo, quell’amore che non ha mai capito).

Mentre si incamminano fianco a fianco come ogni altro venerdì sera, tra gli aloni dorati dei lampioni e sotto il manto nero che cala su Napoli (mentre Bruno risplende, brilla di luce propria che fende il buio e scaccia i fantasmi), Ricciardi pensa che, magari, non capirà mai nulla.

Né dell’amore, né della vita, né del resto; ma può almeno provare a starci vicino, a scaldarsi coi loro raggi, finché può, finché amare è semplice come una risata.

 

 

 

Note dell’Autrice:
Non fatevi ingannare dall’atmosfera vagamente fluff e spensierata... però tra poco ci rituffiamo nell’angst :)
Se avete notato comportamenti ambigui da parte di Bruno... nooo, cosa andate mai a pensare? E sì, Ricciardi è confuso, così confuso da colpirsi da solo, ma almeno adesso ci è venuto a patti definitivamente, col suo orientamento. Poi, nella mia testa, gli piaceva pure Livia, solo che non potevo aprire una parentesi d’indagine consapevole sul proprio orientamento sessuale e quindi bon, vedeteci quel che volete nel loro rapporto ;)
Comunque, dovrei smetterla di dare ultimatum sulla fine della storia, ma stavolta ci siamo e il prossimo è l’ultimo capitolo. Ci sarà poi un breve (seh) epilogo per chiudere qualche filo rimasto in sospeso e più per vezzo mio, perché la storia potrebbe considerarsi benissimo conclusa così come sarà. Ora la smetto di parlare al futuro e vedo di scrivere il tutto, però ahahah
Grazie a chi continua a leggere e a commentare e a quella santa di
Miryel che si becca i miei scleri e mi sblocca l’ispirazione ♥ Ricordatevi sempre che è colpa sua se i capitoli hanno questi titoli, non mia! XD
A prestissimo,

-Light-



 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** La poesia più bella del mondo (è un segreto tenuto nascosto) ***



 

          LA CASA di Bruno è precisamente come lui: calda, disordinata e ribelle.

Ricciardi non c’è stato abbastanza spesso da poter dire di conoscerla bene, ma di certo se la ricorda, e ricorda l’impressione che gli ha lasciato addosso; quella che nella sua, di casa, di rado trova (e, adesso che Rosa non c’è più, probabilmente non troverà in futuro).

È un senso d’accoglienza, di familiarità, che è sorprendente trovare nei pochi metri abitati da un medico scapolo che passa più tempo in ospedale e in Questura che a occupare quegli spazi domestici ristretti, addossati a quelli di altre decine di persone nei caseggiati popolari.

Bruno potrebbe anche permettersela, una casa più grande, più ariosa, al Vomero e non incastonata nelle viuzze dei Quartieri Spagnoli. Però, quando ha soldi da spendere, li scialacqua in buon cibo e buon vino, o al bordello, o per comprarsi qualche chincaglieria d’antiquariato al mercato delle pulci, o per un libro di medicina d’epoca smangiucchiato dalle tarme e senza rilegatura; non certo per costruirsi attorno una reggia che poi nemmeno si gode appieno.

Quei piccoli vezzi che si concede fanno mostra di sé sui ripiani della libreria, che occupa mezza parete del salotto. Ricciardi adocchia più di un libro che, ne è abbastanza sicuro, è probito dalla censura, e un paio di modellini anatomici umani, con organi e tutto, che farebbero fare il segno della croce a Don Pierino.

«Vuoi rimanere imbacuccato come una comare freddolosa pure qua dentro?» lo riscuote Bruno, indicando col mento il suo cappotto invernale mentre appende all’attaccapanni il proprio assieme al cappello. «Dai, fammi fare l’ospite come si deve, sennò il tuo animo nobile si accorge di stare in un tugurio,» aggiunge, facendoglisi incontro per prendergli il cappotto.

«Quando mai mi hai visto attaccato all’etichetta?» alza le sopracciglia lui, lasciando però di buon grado che gli sfili l’indumento dalle spalle (ne approfitta, stavolta consapevolmente, per averlo vicino anche solo per quegli attimi rubati).

«Lo stai dicendo vestito come un damerino e con addosso un completo che da solo vale quanto casa mia,» lo rimbecca Bruno, lisciandogli i il risvolto della giacca anche se non ce n’è bisogno, solo per punzecchiarlo (e l’avrà fatto migliaia di volte con lo stesso intento, ma stavolta gli sembra di avvertire davvero il suo tocco e non di registrarlo come un qualcosa di passivo).

«E dovrebbe essere un vanto?» sbuffa in risposta, optando per togliersi pure la giacca, vista la temperatura più che accettabile lì dentro. «A me pare solo una cosa molto sciocca.»

«Ecco, è proprio per questo che sei qui e non nella mia lista di aristocratici e borghesi maledetti con cui non voglio avere nulla a che fare,» ridacchia Bruno (e Ricciardi si trattiene dal sorridere troppo platealmente a quello che, per com’è fatto l’amico, è un complimento più che esoso). «Accomodatevi, signor barone, che vado a cercare il vostro rinfresco.»

Gli fa un cenno svolazzante della mano, completo di riverenza, verso il piccolo salotto, per poi allontanarsi oltre il corridoio. Ricciardi si concede quel sorriso che gli era rimasto in punta di labbra e si siede su un lato del divano, mentre Bruno traffica con gli sportelli della credenza in cucina con un tramestio di stoviglie.

Lui incrocia le braccia, le gambe accavallate, in attesa. Respira a fondo, col petto leggero e i polmoni liberi. Tutta l’ansia sedimentatasi in quei mesi sembra dissiparsi pian piano, con ogni secondo che passa con Bruno, in quel modo conosciuto.

Per tutto quel tempo, si è angosciato al pensiero che non sarebbe mai stato capace di interagire con l’amico in modo normale, dopo quanto successo (dopo che quei sentimenti rimasti sopiti per chissà quanto sono esplosi). Ma scappare, tenendolo a distanza, è di fatto l’azione più anormale che potesse compiere.

Invece, sta scoprendo, non è cambiato assolutamente nulla. Bruno si comporta come fa sempre, gioviale e coi suoi modi di fare eccentrici e poco conformi alla norma, sempre accompagnati da un pizzico d’ironia.

Quanto a lui, è ancora il solito commissario schivo, dall’umore melanconico e dai modi ora enigmatici, ora troppo diretti, a cui ormai tutti hanno fatto l’abitudine. C’è solo quella nuova sensazione di calore più accentuata nel petto quando sta con lui (che, in tutta onestà, non può considerare spiacevole).

In fin dei conti, pure se dovrà portarsi quel segreto in cuore per tutta la vita; pure se dovrà accontentarsi di quelle poche ore insieme passate come le passano i buoni amici; pure se tutto ciò che gli è concesso è guardarlo, quel sole, non riesce a prenderlo come un qualcosa di terribile (se esclude quegli spasmi che gli muovono troppo il cuore quando lo fissa).

Almeno, ce l’ha accanto e non sta oltre una finestra. È già qualcosa, ed è molto più di quanto avrebbe mai potuto sperare.

Deve solo stare attento a come si muove e a cosa dice, a non rischiare di tradirsi (come poco prima al Gambrinus, quando è certo che, per un istante, Bruno gli abbia letto tutto negli occhi).

In fondo, però, non è più difficile di quanto faccia ogni giorno durante le sue indagini, quando deve necessariamente omettere gli indizi criptici che gli sussurrano gli spettri per non sembrar pazzo. Magari, riflettendoci, pazzo lo è sempre stato e questa è solo l’ennesima conferma; e visto che Bruno è medico e avvezzo a discernere ogni sintomo di malattia, deve andarci particolarmente cauto.

«Trovato!» esclama trionfante l’amico in quel momento, spezzando il filo dei suoi pensieri, per poi emettere subito un sospiro sonoro. «Ah, accidenti.»

«Che c’è?»

«Nulla, è che me la ricordavo più piena, ’sta bottiglia.»

Torna in salotto stringendola per il collo, mostrandogli con una smorfia come all’interno vi sia giusto la quantità per un paio di bicchieri, nemmeno troppo generosi.

«Basterà. Devo tornarci, a casa,» scherza Ricciardi (che in effetti non è lì per l’alcol, ma per Bruno).

«Io no, però,» sogghigna lui, stappando la bottiglia con un suono allegro che riempie il salotto.

«Vacci piano, Modo. Non voglio portarti in collo all’ospedale,» lo ammonisce bonario, sapendo che sono parole al vento (eppure, con un pizzico di serietà genuina, perché i ricordi di Bruno allettato ancora non riesce a farseli uscire del tutto alla testa).

«Ma va’, non vado lungo per un goccetto,» lo rimbrotta, mollandogli uno scappellotto sulla testa con la mano libera (gli strappa un’alzata d’occhi al cielo, ma anche un sobbalzo al contatto delle sue dita con i suoi capelli).

Bruno si lascia cadere seduto di peso accanto a lui, prende due bicchieri rovesciati su un vassoio dal tavolino di fronte e versa lesto ciò che rimane del cognac a entrambi. A Ricciardi non sfugge il modo in cui il suo volto si distende non appena smette di pesare sulle gambe, né il movimento un po’ contratto con cui si piega in avanti, come se non potesse muovere agevolmente il busto. Si chiede quanto davvero si stia sforzando per dimostrare a tutti di star bene, soprattutto a lui.

Bruno intercetta il suo sguardo, ed è chiaro che ne abbia colto l’insistenza. Ricciardi, però, decide di soprassedere: è chiaro che nemmeno lui voglia pensarci.

«Com’era il brindisi che volevi?» chiede invece, alzando il proprio bicchiere.

Bruno non si fa attendere e porta il bicchiere vicino al suo.

«Vita, amore e donne... ma mi sa che anche un po’ di salute non guasta,» aggiunge, come se gli avesse letto la preoccupazione nel pensiero.

«Alla salute, allora.»

Bruno scuote la testa, trattenendo una risata, ma i bicchieri cozzano già tra loro con un suono secco, all’unisono, suggellando quel singolo augurio.

«Sei sempre il solito,» lo rimbrotta Bruno da dietro un sorriso, prima di prendere un sorso di liquore.

«E pure tu.»

Beve anche lui e, deve ammetterlo, quel cognac ha un gusto decisamente più gradevole rispetto a quello servito al Gambrinus, anche per lui che di alcol ne capisce poco o niente. Solleva appena il bicchiere verso Bruno, a sottolineare l’ottima scelta. Lui rimane stranamente zitto, senza decantare i suoi gusti impeccabili come fa di solito.

Sul suo volto continua ad aleggiare quel sorriso, che si allarga addirittura, colmo di un calore sincero che Ricciardi gli vede esternare solo molto raramente; ma c’è qualcos’altro, dietro, un riflesso più spento che stride nei suoi occhi rimasti seri, quasi rattristati.

Fissa il suo bicchiere, o forse le proprie mani, con la testa un poco reclinata cosicché i suoi occhi non sono del tutto visibili, schermati dalle ciglia. E Ricciardi fissa lui, discretamente, seguendo ogni più piccola variazione sul suo volto.

«Ohi, Riccia’?» lo chiama d’un tratto, in quel modo che è solo suo e che gli pare inspiegabilmente dolce nella sua semplicità.

Ora, però, c’è un’energia tale nella sua voce bassa, nelle iridi puntate su di lui, che a Ricciardi il cuore balza in avanti, quasi a volergli andare incontro. Gli fa cenno col capo di continuare, perché non è da lui interrompersi e non dire subito ciò che vuole dire (e una parte di lui teme qualunque cosa essa sia).

Bruno esita ancora qualche istante, prima di proseguire:

«Sono contento di essere qui e che non mi abbiano spedito al confino. Insomma, che tu l’abbia impedito,» aggiunge, con un gesto goffo a mezz’aria della mano a calcare quell’ultima parte.

Ricciardi riesce a mascherare solo in parte la propria sorpresa a quelle parole. Bruno sa essere molto diretto, sì, ma verso gli altri. Non si esprime quasi mai così schiettamente riguardo se stesso. Stringe il bicchiere con entrambi i palmi, giusto per tenerli impegnati, lo sguardo che fugge qua e là senza trovare alcun appiglio.

«Perché, c’era la possibilità che non lo facessi?» replica, dopo un silenzio troppo lungo e tentando di mantenere la linea spiritosa che, di solito, è Bruno a orchestrare.

Stavolta, però, lui non sembra incline a farlo, se non per un tenue brillio beffardo che gli rimane acceso negli occhi.

«Scherzi? Ti conosco,» dice senza esitare, prima di bere un altro sorso, bagnandosi appena le labbra. «Ma non vuol dire che lo dessi per scontato.»

«Avresti dovuto, però,» lo redarguisce lui, nel modo più gentile che gli riesce, ma punto nell’orgoglio da quell’esternazione di dubbio.

«No, credimi,» scuote la testa Bruno, «In quei momenti, non dai per scontato manco il sole che sorge.»

Lo dice ridendo, ma con occhi cupi.

Ricciardi, in quel momento, la vede per un istante, quell’emozione che continua a passare in controluce nelle pupille di Bruno, oscurandole di tanto in tanto: paura. O meglio, il ricordo della paura. Di quelle notti passate tra percosse e vessazioni, dei giorni di febbre e dolore, della lunga convalescenza passata da solo a rimescolarsi tutto in testa. A temere, forse, che possa ricapitare, in un giorno nemmeno troppo lontano.

Ricciardi abbassa lo sguardo colpevolmente (è stato lui, in primis a lasciarlo solo) schermandosi gli occhi e tirando le labbra. Non sa che dire, di fronte a quell’ammissione. Vorrebbe rassicurarlo, dirgli che ormai non c’è più pericolo, ma sarebbe una mezza bugia e teme che, così facendo, si esporrebbe troppo, dando voce a pensieri che sarebbe meglio tenere per sé.

«Bru’, ma tu sei proprio sicuro che non vuoi prenderti un po’ più di tempo?» gli chiede invece, misurando a una a una le parole e sapendo che avranno lo stesso effetto di un fiammifero in una santabarbara. «Un’altra settimana di riposo puoi concedertela, nessuno ti biasimerebbe.»

«Sì, certo, potrei,» annuisce lui, sfregandosi pensoso la barba con un palmo, scevro dell’indignazione che si aspettava. «Ma non ne vedo il motivo.»

Ricciardi sospira in silenzio, guardandolo fissamente e trovando molto più semplice guardarlo in viso rispetto a solo qualche ora fa. Se è vero che vi è tutto un carosello di sentimenti nuovi, a ruotare attorno a Bruno, è anche vero che gli vuole bene da sempre. Non sarebbe la prima volta che tenta di scoraggiarlo da comportamenti deleteri o di dargli consiglio; esattamente come fa Bruno con lui.

«Il motivo è che non sei obbligato ad andartene in giro come se niente fosse dopo quello che hai subito,» dice, reprimendo l’impulso di posargli una mano sul braccio (cosa che, forse, qualche mese fa avrebbe fatto senza nemmeno pensarci). «Non devi dimostrare niente a nessuno.»

Bruno, contrariamente al previsto, sembra meditare su quell’affermazione, quasi la ritenesse sensata. Fa ondeggiare il liquore nel bicchiere, osservandone il moto ondoso in miniatura contenuto nel cristallo come se ci stesse cercando dentro le parole che gli servono.

«È vero. Potrei riposare ancora, farmi una villeggiatura. Magari smetterei di camminare come uno sciancato e di avere fitte ovunque,» confessa, confermando i suoi sospetti. «Però è qui che ti sbagli: pure da sano, non potrei comunque andarmene in giro come se niente fosse,» continua, rialzando il capo di scatto e scostandosi i ricci che gli sono scivolati sul volto.

«Non ti seguo.»

Ricciardi aggrotta le sopracciglia, chinandosi d’istinto in avanti, coi gomiti poggiati sulle ginocchia e il bicchiere che gira lentamente tra le sue dita. Bruno scuote la testa, come se fosse tutto più che ovvio:

«Commissario, sveglia,» lo esorta, con brio fasullo. «Credi che non rischi costantemente di incrociare qualche squadrista a cui non va a genio che io sia ancora a Napoli e non su qualche isola? O, anche, che io sia ancora vivo e vegeto?»

«Bruno...»

«Però non è un buon motivo per non uscire più di casa, no?»

«Non intendevo questo, e lo sai,» dice Ricciardi, ignorando il gelo nelle ossa nel sentirlo parlare così. «Hai controllo su entrambe le cose: puoi riguardarti ed evitare di sfinirti e puoi cominciare a tenere un basso profilo, invece di sbandierare il tuo dissenso ai quattro venti.»

«Lo so, ma non ho intenzione di fare nessuna delle due cose,» taglia corto Bruno, scolando poi il fondo del suo bicchiere con fare provocatorio. «La vita è breve, Riccia’, la gente crepa ogni giorni nei modi più tremendi. Di passarla a pensare a cosa mi fa bene o male non ho proprio voglia.»

Per una volta, Ricciardi non ha di che ribattere. Non perché non possa rispondere per le rime o trovare qualche falla nel suo ragionamento, ma perché sarebbe ipocrita a farlo.

Non da parte di qualcuno che sa perfettamente cosa gli faccia bene o male, ma ha deciso di ignorarlo (e di baciare Bruno, e di tacere, e poi di vivergli accanto in silenzio, fosse pure per il resto dei suoi giorni, allo stesso modo in cui vive fianco a fianco coi morti senza dirlo a nessuno).

Finisce anche lui il suo cognac, di cui ora percepisce a malapena il sapore, offuscato dal baccano dei propri pensieri, solidi e tangibili in un cerchio alla testa che gli stringe le tempie.

«Lo sai che puoi dirlo a me, se ti danno problemi, vero?» sbotta infine, incapace di lasciar morire lì quel discorso, di accettare che a Bruno possa capitare qualcosa e che sia inevitabile.

«A te?» Bruno ride di gusto, una risata al fiele che gli brucia sottopelle. «Apprezzo lo spirito, ma cosa potresti mai fare? Mettere al gabbio tutti gli esaltati in nero che han voglia di menare le mani? Sporgere rimostranze al Duce? Lascia stare, finisce che ti disegni un bersaglio in fronte pure tu.»

«Me ne fotto, Bruno.»

Bruno ha toccato un nervo, ci ha pigiato sopra fino a farlo scattare (perché ci sono poche cose che odia e una di queste è sentirsi inutile, tanto più sentirselo dire).

«Se ti arrestano, ti vengo a ripigliare pure cento volte.» Stavolta non frena la mano che va a stringergli il braccio, salda, forse troppo. «Che ho da perdere, alla fine? La faccia?»

«Quella sì, se te la spaccano,» sorride tra i denti lui (e guarda per un istante la sua mano, ma non si ritrae). «Oppure, che so, la vita. Su quella ci farei un pensiero.»

«E che bella vita avrei, se rimanessi a guardare mentre ti portano via?» Gli si strozza quasi la voce in gola: non gli è uscita come voleva, quella frase, e si corregge in corsa, cercando di edulcorarla, di renderla meno carica di sottintesi: «Morirei di vergogna.»

Gli molla il braccio di colpo, rendendosi conto di averlo stretto con troppa forza, in un gesto affatto discreto o naturale (doma un principio di affanno, sapendo di essersi forse tradito, a dispetto di tutti i buoni propositi).

Bruno non risponde subito, mentre lo scruta con intensità tangibile, gli occhi che pesano nei suoi quasi vi si fosse ancorato in profondità. Ricciardi riesce a sostenerli solo perché si impone con violenza di farlo (anche se bruciano, accendono quella miccia che si porta nel petto da mesi).

«Lo so, che non rimarresti mai a guardare,» ribatte infine Bruno, pacatamente, come se non fosse affatto stupito della sua reazione. «È proprio questo che mi dà pensiero.»

Tra loro si interpone un altro di quegli istanti sospesi, cristallizzati; Ricciardi, d’un tratto, si sente nudo di fronte a lui, con ogni emozione e sentimento appuntati sul petto come fiori all’occhiello troppo appariscenti, a catturare gli sguardi sbagliati.

Gli trema la mano, quando poggia il bicchiere sul tavolino, tanto che il vetro picchietta contro il legno in modo udibile.

«Non ne hai motivo,» sorride poi con sforzo, coi muscoli della bocca che si tendono in quell’atto senza coinvolgere il resto del viso (ha caldo e freddo assieme ed è con la schiena al muro, braccato e troppo, troppo vicino a Bruno su quel divano ristretto).

«Ce l’ho eccome,» lo contraddice lui, inclinando il capo.

Ricciardi sente un fischio all’orecchio, assordante, come quando gli hanno detto che avevano arrestato Bruno e ogni pensiero nella sua testa si era arrestato, lasciandola vuota e inerte.

Quasi non osa respirare. L’aria gli si condensa nei polmoni come piombo fuso, rovente. Non riesce a ordinare alle sue corde vocali di vibrare: si serrano nella sua gola, mute, come se non avessero mai emesso suono in vita sua, mentre le gambe gli si fanno rigide, pesanti.

Il suo corpo sa perfettamente cosa sta cercando di dire Bruno, prima ancora che lo dica, come un animale avverte un pericolo prima di vederlo, ma la sua mente si oscura (diventa pece buia, e sta aspettando quel singolo istante da tre mesi, ormai).

Bruno sospira piano dal naso, continuando a trapassarlo con quello sguardo cristallino e, quando parla, è con un fendente netto:

«Riccia’, ma tu pensi che non me lo ricordo, quello che è successo la notte che mi hanno arrestato?»

Riesce solo a sbarrare gli occhi, con la sensazione di avere la testa in fiamme, pulsante di un dolore sordo; è di nuovo incastrato, riverso in viscere contorte di vetri e lamiere, quando ha avuto l’incidente e per un momento ha messo il piede dall’altra parte (prima che Bruno lo riacciuffasse per i capelli e lo trascinasse di nuovo tra i vivi). È la stessa sensazione di panico che gli morde la spina dorsale adesso.

Fissa Bruno senza nemmeno vederlo davvero (vede solo i suoi occhi scuri, il suo braccio magro allungato sullo schienale, i ricci disordinati che gli incorniciano la fronte).

Non negare e non mostrare smarrimento è già un’ammissione di per sé, ma provare a rifuggire quell’accusa sarebbe ancor peggio; Ricciardi, quando lo sfiora il pensiero di tentare, si rende conto di essere stanco, stanco di dire bugie.

Tutto quello che si è costruito attorno finora gli sembra solo un’illusione, una bella favola che si è raccontato per non guardare in faccia la realtà. E la realtà è che lui non può vivere così, nel limbo che si è creato tra loro, e nemmeno Bruno. La realtà è che lui deve starsene da solo come si è sempre imposto di fare, per un motivo o per un altro: è futile sperare di poter sfuggire alla propria solitudine, impressa nei suoi occhi come un marchio (è come pensare di poter sfuggire alla morte o agli spettri che lo accompagnano).

Prende un respiro corto, più un rantolo che una vera immissione d’ossigeno, le mani che si sfregano il volto e poi la fronte, prima di forzarsi finalmente a parlare:

«A essere sincero, mi chiedevo quanto ci avresti messo per ricordartelo,» si trova a dire, strizzandosi la radice del naso, con voce ferma ma appena udibile (e scopre che, in fondo al cuore, è ciò che ha sempre pensato).

«Non me lo sono dovuto "ricordare", e lo sai pure tu,» ribatte Bruno, stringendo lo schienale con più forza, tanto che la mano sinistra gli trema leggermente.

E Ricciardi scopre, con un senso di vertigine che lo artiglia dal basso, di aver sempre saputo anche quel fatto: che Bruno era sì febbricitante, ma ancora vigile, quando lui l’ha baciato (e averne conferma è come guardare direttamente il sole, in un atto inutile quanto sciocco, solo per confermare che esiste). Di certo, non ha il coraggio di guardarlo ora.

«Non serve che mi rinfacci nulla,» dice infine, schivando i suoi occhi e accorgendosi col respiro mozzo che gli trema la voce, adesso. «Me ne vado, non voglio importi la mia presenza.»

Le sue gambe si tendono, azzannate dall’istinto di fuga, agognando il momento in cui metterà piedi fuori da quella casa (lo stesso che sancirà la sua ultima visita a Bruno e l’ultima volta in cui lo vede e ci parla, probabilmente, e non riesce a scacciare il senso d’oppressione che gli schiaccia il petto).

È già avviato nel suo slancio per alzarsi, quando una forza contraria lo afferra per il gomito e lo fa ricadere di nuovo seduto, con un impeto tale che gli scaglia il fiato fuori dai polmoni e quasi gli fa sbattere la testa contro la cornice di legno.

Bruno lo lascia andare con la medesima bruschezza, scansandolo poi via con una spinta.

Lo sguardo che gli scaglia addosso è temporalesco, seghettato come un fulmine: Ricciardi non l’ha mai visto così irato, così fuori di sé come in quel momento. Prima di parlare, strizza le labbra con chiaro disappunto:

«Non lo so, cosa mi fa più rabbia. Se il fatto che mi hai baciato e poi sei fuggito o il fatto che stai cercando di fuggire pure ora.»

Sentirlo pronunciare quella frase, delineando il suo crimine con tanta chiarezza, gli invia una stilettata tra le costole e un calore ustionante in viso.

«Ti ho detto che me ne vado,» ripete, col cuore che prende a battergli scompostamente sotto la lingua. «Non so cos’altro vuoi che faccia, ma–»

«Voglio che non scappi per una volta in vita tua!» sbotta Bruno, con la voce che si impenna mentre gli pianta l’indice a un soffio dalla faccia. «E pensare che c’eri quasi riuscito, a non farlo.»

«Modo, se vuoi sfottermi, fai pure,» ribatte lui, e stavolta si alza troppo rapidamente per dargli modo di bloccarlo di nuovo. «Non sono venuto qui per discutere di... di quanto accaduto,» svia all’ultimo secondo, con le parole proibite che si sfaldano un attimo prima di scappargli di bocca.

«E perché sei qui, allora?» Anche Bruno è in piedi, adesso, lo fronteggia implacabile come sempre a due passi di distanza. «È questa la parte che non mi è chiara, di tutte le fesserie che hai fatto e detto finora.»

A quello, come a tutto il resto, Ricciardi non ha risposta. Sapeva sin dall’istante in cui ha accettato di uscire come ai vecchi tempi, che stava commettendo un errore irreparabile. Eppure, ha perseverato (e ce l’ha, la risposta: perché la sua vita, senza Bruno, rischia di essere fin troppo grigia e buia).

«Devo veramente spiegartelo?» e nel dirlo, in quel singulto strozzato, sa di essersi sporto dal ciglio della forra, di aver completamente rotto il fragile equilibrio che ha mantenuto per tre mesi.

«No, grazie, ci arrivo da solo,» gli rovescia addosso Bruno, ancora rosso in viso, ancora coi pugni serrati, e sembra trattenere l’impulso di farglisi incontro con veemenza. «Ma pensi che mi serviva un bacio, per capirlo? Pensi che sia cieco e sordo? Che la gente non parli già... pensi che siano tutti ciechi e sordi?»

Ricciardi non trattiene lo spasmo che lo attraversa. Quelle parole continuano a martellargli nei timpani per interi secondi, con l’eventualità di aver involontariamente messo in pericolo Bruno che gli toglie la terra sotto i piedi.

Si stringe con forza le braccia, imponendosi di rimanere piantato lì (di non fuggire, come l’ha accusato di fare non solo Bruno, ma chiunque lo conosca abbastanza o cerchi di stargli vicino), coi pensieri che gli sfarfallano in testa in stormi inquieti e imprevedibili.

«In realtà, qui l’unico cieco e sordo mi sento io,» riesce a spiccicare, con le dita che si serrano nervose sulla stoffa della camicia, imprimendosi sulla pelle. «Non capisco se ce l’hai con me o se mi stai dicendo qualcos’altro. Ma tanto io non capisco manco quello che penso e non l’ho capito finché non t’ho saputo in mano ai fascisti.»

Bruno sospira a fondo, un suono secco ed esasperato, indice e pollice che si stropicciano le palpebre. Poi sembra fare uno sforzo visibile per parlare a un volume accettabile:

«Ti sto dicendo che ti sei comportato da schifo,» esala piattamente, muovendo a malapena la bocca. «Ti sei preso ciò che volevi e poi sei sparito, mi hai mollato da solo, ridotto a uno straccio. Mi hai evitato finché non ti è servito il mio aiuto con Rosa e poi sei sparito di nuovo. L’avevo accettato, Riccia’. Ero arrabbiato, ma lo capivo. Non mi aspettavo una confessione o delle scuse, ma pensavo che rimanessi coerente. Invece, adesso rieccoti qua, come se nulla fosse.»

«Hai insistito tu per vederci, non io,» gli fa notare piano Ricciardi, senza però negare nessun’altra delle accuse che gli ha scagliato contro.

«Come ogni santo venerdì da quando ci conosciamo!» lo rimbecca pronto lui, muovendo un passo verso di lui. «Niente di più, niente di meno. Ma mi rendo conto di esserci sopravvalutati entrambi, visto come stiamo parlando,» conclude infine, con un sorriso amaro e una luce inattesa, più mite, negli occhi.

«Non posso che concordare,» ribatte meccanicamente Ricciardi, cogliendo al volo quello spiraglio che preannuncia la fine (del discorso e di tutto il resto, in realtà). «Motivo per cui sarà meglio tornare al prima. Al... prima di stasera. Non siamo obbligati a parlare o frequentarci, anche se per le indagini congiunte non posso farci niente, ma–»

Il verso che emette Bruno è lo stesso, basso e strascicato, di quando viene a sapere di dover parlare con qualcuno di sgradito; o di quando lui fa qualcosa di molto stupido o molto avventato; è un latrato a mezza via tra una risata sfinita e un sospiro di rassegnazione.

«Madonna benedetta, Luigi, non puoi essere così idiota.»

Lui scatta, sulla difensiva, prima di poterci anche solo pensare:

«Non c’è bisogno di chiamarmi così.»

Bruno copre la distanza che li separa e gli molla uno spintone inatteso sullo sterno, forte abbastanza da fargli quasi perdere l’equilibrio.

«Alfredo, allora! Commissario, Ricciardi, barone di Malomonte, come sfacimma ti pare! Un idiota rimani!»

E dopo quell’esplosione, quell’accozzaglia di parole e gesti e occhi infiammati, Bruno lo afferra di nuovo per entrambe le maniche e lo tira a sé, cingendolo in un abbraccio improvviso, sconvolgente, troppo stretto (strettissimo, spaccaossa, e gli sembra che le loro costole si fondano in un’unica cassa di risonanza, i suoi battiti impazziti e fuori sincrono con quelli accelerati ma fermi di Bruno).

«Perché credi che io sia ancora qui?» dice Bruno, e quando parla sente vibrare le ossa della sua voce. «Perché credi che non ti abbia allontanato, che non abbia fatto finta di niente, che ti stia inseguendo da mesi, o che ti abbia invitato qui, se non per tentare di capire se sono pazzo io o solo un deficiente tu?»

Ricciardi non riesce a rispondere, almeno non a parole (quelle gli si sono sciolte in gola, inafferrabili, così come torrente di sollievo che gli scorre nelle vene).

Non parla, non potrebbe mai, ma risponde lo stesso: fa scivolare le braccia oltre quelle di Bruno, incastrandovisi con facilità, e lo stringe a sé piano (e subito più forte, più forte, si aggrappa alla sua schiena come se potesse tramutarsi in fumo, dissiparsi come rugiada all’alba).

Preme la fronte contro la sua spalla e inspira a fondo (tabacco, acqua di colonia, quella traccia di creolina che gli rimane sempre addosso) fino a farsi girare la testa e lacrimare gli occhi. Non lo sa, cosa sta succedendo. Non sa cosa sta cercando di dirgli Bruno (anche adesso, pensarlo gli sembra follia).

Non gli importa saperlo, dopotutto, così come non gli è importato la notte che ha deciso di afferrare il sole a occhi chiusi, per poi chiuderlo di nuovo oltre la finestra.

La mano ampia di Bruno gli sfrega la schiena, per poi posarsi salda dietro il collo, le dita che si insinuano tra i capelli, arricciandone le punte (e conosce quel gesto, l’ha già provato). Poi ride, una risata tenue e bassa, di gola, che gli riverbera nel corpo dalla testa ai piedi e gli sfiora l’orecchio.

«Te lo chiedo di nuovo, perché mi sa che i tuoi istinti investigativi sono andati a farsi benedire.» Bruno lo scosta da sé e lo guarda negli occhi, vicinissimo, a un respiro da lui, la sua mano che scivola delicata dalla nuca alla guancia. «Perché sono ancora qui, secondo te?»

E Ricciardi la sente di nuovo, quell’aria ferma e incandescente che sembra bloccare il mondo sul suo asse. Gli preme sul petto, in gola, gli ruba il respiro e gli blocca il cuore in una morsa che ne accentua ogni battito.

Guarda Bruno, lo guarda davvero, e la risposta a quella domanda semplicissima è lì, posata sulle sue labbra come un segreto visibile a tutti (da quanto, e come ha fatto a non vederlo mai?)

Quindi, fa l’unica cosa che potrebbe fare in quel momento. È l’unica azione a essere l’errore più grande di tutti, ma anche l’unica giusta, l’unica sensata, l’unica che trova un posto in quel quadrato di cielo e sole che si è ritagliato e vi si incastona senza sforzo. Non potrebbe fare nient’altro, se non quello.

Lo bacia e preme il proprio segreto contro il suo, fondendoli nella risposta più semplice e naturale del mondo. Qualunque altra scelta sarebbe un errore. Sarebbe scappare e rompere la finestra, spegnere il sole e rintanarsi nel buio.

E, questa volta, lui il sole vuole toccarlo a occhi aperti e rimanerne scottato.

 

 

 

Note dell’Autrice:
Oh, ce l’abbiamo fatta! Anzi, ce l’hanno fatta, direi :’)
Scrivere discussioni, litigi e confronti penso sia una delle cose che mi piace più fare, perché è quando i personaggi sembrano prendere realmente vita e voce (e ti scappano dalle mani, vero, Bruno?), quindi spero che il confronto tra queste due cape toste vi sia piaciuto ♥
La storia potrebbe anche finire qui, ma ci sarà ancora un piccolo epilogo che metterà qualche base per il sequel. Sì, avete letto bene. Perché io mi diverto tantissimo a scrivere gialli e polizieschi, e mi è giusto venuta un’ideuzza compatibile col brutto vizio di Ricciardi di vedere i morti. Non me ne voglia Di Giovanni, ma continuerò a sguazzare nella mia pozzetta fandomica finché ne avrò voglia :D Ulteriori dettagli sul sequel nel prossimo capitolo, così non intaso le note.
Grazie a chi ha letto e commentato fin qui, mi fate felicissima ♥ E comunque, non riesco ancora a credere che abbia più seguito questa storia nata quasi per scherzo, senza manco una sezione, che quelle più "serie" su fandom strapopolari, ma oh, non mi lamento XD
A prestissimo col gran finale,

-Light-

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Epilogo - È qui che ho trovato il mio posto ***




 

          DEV'ESSERE questo, il sole.

È un pensiero in punta di piedi, il suo, indolente e piacevole come una carezza distratta.

Il sole è stare in silenzio, con le teste che si sfiorano, respirando la stessa aria. Sono le dita di Bruno posate sulle sue nocche in una stretta impalpabile, è la naturalezza con cui Ricciardi si è adagiato contro di lui, costato contro costato, in un rimbombo asincrono. Il sole è come conoscersi di nuovo per la prima volta, ed è anche come se non ci fosse mai stato alcun altro modo di stare insieme.

Non sa neanche da quanto tempo se ne stanno seduti lì sul divano, né chi dei due l’abbia deciso per primo, tirando con sé l’altro (ma lo sa, che è stato Bruno). È ovvio, è Bruno che sa sempre cosa fare e come e quando, è lui che ha il coraggio di mettersi e metterlo di fronte alle scelte scomode. È Bruno che vive e fa vivere davvero anche lui (altrimenti, perché mai si sarebbe innamorato del sole?). Ancora gli incute timore, pensarci in questi termini, lui che si è privato di ogni affetto per così tanto tempo da essersi scordato com’è averne uno (forse non ce l’ha nemmeno mai avuto, non così), tanto da non sapere che parole usare per descriverlo.

Ha sempre pensato che fossero complessi, i sentimenti, quelli che rimbalzano contro lo sterno ingabbiati; e lo sono, fanno rumore, si intrecciano tra loro in nodi gordiani, stringono e mollano in ritmi imprevedibili. Però, almeno in alcuni istanti, quel contorno evapora, diventa labile e trasparente. O forse si oscura soltanto, ed è come riuscire finalmente a guardare il sole oltre un vetro affumicato, senza rimanerne accecati.

E allora diventa semplice, come respirare e ridere. Per il tempo di una carezza, di un sorriso, di un bacio (quelle cose a cui non ha mai pensato, mai; erano superflue, erano ciò che non avrebbe mai potuto chiedere né avere, e che ora gli riempiono il petto fino a straripare).

Ci rimane incastrato, in quei momenti. In quel bacio rapido, vero, in piena luce, che ha premuto sulle labbra di Bruno, una frazione di secondo impalpabile (ed era una domanda, un tentativo, un’incertezza).
Non ha quasi fatto in tempo a ritrarsi, ancora in apnea, ancora con la vista sfocata di chi ha chiuso gli occhi troppo forte, che Bruno l’ha cercato di nuovo, più a lungo (ed era una risposta, un azzardo, una conferma).

Ricciardi si sente ancora le labbra sensibili, l’orma delle mani calde di Bruno che gli racchiudono il viso, la scia lieve di tabacco e cognac nelle narici quando l’ha baciato una terza volta, con l’impeto che gli si aggrappava alle costole e le scuoteva come sbarre. E poi la penombra, quando ha premuto il viso contro la sua spalla per non sa nemmeno quanto tempo, con le dita finalmente libere di affondare tra i suoi ricci e stringerli.

Vorrebbe farlo anche adesso. Vorrebbe fare mille cose, guardarlo come non ha mai potuto, compiere tutti gesti che si è rigirato in testa per mesi, baciarlo di nuovo fino a non avere più fiato. No, non le ha mai pensate, quelle cose, e sorprendersi a farlo ora gli invia una scossa di angoscia lungo le ossa. Come se, indulgendo troppo in quei desideri, rischiasse di rompere un equilibrio invisibile, di sconfinare in un mondo ignoto (è irreale stare così accanto a Bruno, è irreale tutto ciò che è accaduto nelle ultime ore).

Bruno, in quel momento, sospira; e lo avverte con tutto il corpo, dalla testa alla punta delle dita, dal fruscio che gli risuona nell’orecchio al refolo d’aria che gli sfiora i capelli. Poi si scosta un poco, voltando il capo per guardarlo in viso.

«Guarda che ora puoi baciarmi quando ti pare,» dice, e sono le prime parole che pronuncia, come sempre dritte al punto, un brillio malizioso nelle iridi scure. «Qui mica è vietato.»

Ricciardi si limita a uno sbuffo nervoso dal naso, la mano che scappa dalla sua e corre a riassestarsi i capelli (a coprire in parte il volto, gli occhi). E capisce che gli sguardi che gli ha rivolto di sottecchi non sono passati inosservati (mai, neanche tutti quelli che gli ha lanciato finora, forse per anni). Ma non lo bacia.

È un mondo irreale, quello in cui si trova sospeso, un mondo in cui due uomini che stanno insieme non è malattia e dove gli spettri non ci sono e stanno nel loro, di mondo. Si chiede come faccia a esistere quell’altro mondo in cui ha sempre vissuto, con l’amore che è malattia e gli spettri che lo fissano e finestre aperte su soli fasulli e calci e pugni che fanno a pezzi le idee.

Non gli sembra possibile vivere in entrambi e non uscirne pazzo.

Bruno, a quella reazione, sorride sotto i baffi con quel suo fare impertinente, di chi il coraggio di fare scelte e vivere con le conseguenze ce l’ha sempre avuto e, anzi, trova quasi divertente sfidare la sorte. Gli prende il mento tra le dita e gli volta la testa, premendo le labbra all’angolo delle sue (non è nemmeno un bacio, è l’anelito elettrico che lo precede, l’istante in cui si prende fiato prima di immergersi), e lo fa con una naturalezza che sembra dettata da anni di quotidianità.

Si ritrae quasi subito e torna a poggiarsi contro di lui come prima, lasciandolo lì con tutti quei mondi che gli collidono in testa, divenendo un unico cosmo. Quello in cui lui vede i morti e ama Bruno (se questo è davvero amare come l’ha capito finora), in cui l’amore può essere malattia e le idee vengono spezzate a suon di botte, e tutti quei pensieri assurdi e pericolosi vanno chiusi nella mente e nel cuore, lontano dagli occhi.

Ricciardi si riassesta contro la sua spalla, la fronte premuta sul suo collo, un
’alcova tiepida. E Bruno allunga un braccio a cingerlo, senza più muoversi né parlare, né chiedere o dare di più di quello. Come se sapesse con esattezza ciò che gli sta passando per la testa, la fatica che sta esercitando per fondere due mondi così distanti, antitetici. Come se stesse facendo pure lui quella stessa fatica, in fondo, anche se non lo dà a vedere. Ricciardi sa che è così. Lo evince dai suoi silenzi protratti, dal modo delicato, quasi cauto in cui si muove, in cui lo tocca, dai suoi occhi più intensi, concentrati.

La consapevolezza di quel tumulto condiviso gli instilla calma, in modo paradossale. È la prima volta, da mesi (forse da una vita) in cui prova un senso di calma così profondo. È il respiro pacato di Bruno, è la sua razionalità medica e analitica che va sempre a complementare la sua logica ferrea e istinto investigativo.

Non è molto diverso da ciò che fanno di solito, se sceglie di vedere tutto in quella prospettiva rassicurante: non è altro che avanzare a tentoni sulle piste oscure di un nuovo caso, aiutandosi a vicenda mentre si cerca di non imboccare vicoli ciechi, riuscendo pure a ridere, a esorcizzare i terrori di quel mondo che vorrebbe schiacciare tutto e tutti (a far brillare il sole, in qualche modo, anche quando non c’è).

«Bruno?» lo chiama, a voce così bassa che a malapena si sente lui stesso.

Lo sente muoversi, in ascolto, e Ricciardi svicola dalla sua stretta per girarsi del tutto verso di lui (anche se era bello anche solo stare così, in silenzio, col peso del suo braccio sulle spalle). Allunga una mano sulla schienale, arrestandola vicino a Bruno, e potrebbe sfiorargli la guancia allungando appena le dita. Non lo fa, anche se il guizzo dei suoi occhi lo tradisce.
 
«Che cosa brutta devi chiedermi?» sogghigna Bruno, dopo averlo squadrato per qualche istante in volto.

Ricciardi si scherma dietro un sorriso sottile, perché riesce sempre a interpretare tutto ciò che fa con la stessa, professionale semplicità con cui stila un’autopsia approfondita.

«Eri serio, quando dicevi che è sotto gli occhi di tutti?»

Bruno non sembra affatto sorpreso dalla domanda. Che, in realtà, è solo un preludio a tutto il resto, al mondo che li attende fuori dalla porta.

«Sì e no,» risponde infine, con uno scatto delle sopracciglia verso l’alto. «La verità è che volevo indispettirti e farti reagire. Potrei aver gonfiato un po’ la cosa,» confessa, con un mezzo sorrisetto che gli guadagna un’occhiataccia. «Però è pure vero che qualche commento ambiguo m’è capitato di sentirlo.»

«Per esempio?» assottiglia gli occhi Ricciardi, con una lieve tensione che gli stringe i polsi.

«Tu non t’accorgi mai di niente, Riccia’, sei incredibile,» sbotta Bruno, alzando i palmi al cielo, stavolta nemmeno troppo scherzoso.

«Perché non mi è mai importato di quel che ha da dire la gente su di me.»

«Mo’ è diverso, però.»

Tra loro corre un battito di silenzio, rumoroso come il sibilo di un missile prima dell’impatto.

«Sì, è diverso,» concorda, piano, gli occhi che scattano dagli occhi, alle labbra, alle mani di Bruno in uno zigzagare indeciso. «Per questo vorrei sapere di cosa preoccuparmi.»

Bruno sospira a fondo, girandosi di fianco con una smorfia un po’ contratta, il gomito puntellato sullo schienale a sorreggere il capo. Ricciardi sposta appena la mano, posandola sul suo braccio, e lui stende le gambe fino a toccare le sue (come se entrambi, in quel momento, avessero bisogno di mantenere un contatto, fosse anche minimo).

«Per esempio, mi chiedi... ecco, “il tuo amico dottore”, per esempio,» recita infine Bruno, scandendo bene quell’espressione. «E non era manco successo niente, quando l’ho sentito; pensa cosa potrebbe saltar fuori adesso.»

Ricciardi alza appena gli occhi al cielo.

«Non pensavo di pubblicizzare la cosa, onestamente,» ribatte lui, senza trattenere un verso stizzito.

«E grazie, commissa’, ma ti ricordo che non sei un grande attore... al massimo una carriera di rivista, ma come soubrette non ti ci vedo,» sghignazza poi, rimediandosi una pacca ammonitrice sul gomito (e un sorriso mal soppresso, che gli storce le labbra per un istante).

Incassa comunque la frecciata in silenzio, sapendo che è fin troppo vero. Gli smuove però un ricordo, quella frase che ha pronunciato Bruno. Forse gliel’ha detta Garzo, forse Ponte, forse qualcun altro. Forse anche più di una persona, più volte (il tuo amico, pronunciato a denti stretti, con sguardo di riprovazione). Non ci ha mai nemmeno prestato attenzione, oppure l’ha attribuito al fatto che Bruno sia considerato un facinoroso, più che ad altri facili sottintesi ai quali, all’epoca, era cieco.

Bruno sospira di nuovo, improvvisamente grave, e lo fissa di sbieco, un ricciolo che gli scivola di fronte agli occhi a minare la gravità del suo sguardo.

«Riccia’, lo sappiamo tutti e due che non c’è una soluzione semplice, facile e pulita. O no?»

Lui scuote appena la testa in risposta, abbassando gli occhi, privo di una replica sensata. Pensa a Pivani e al suo amante, a quanto è facile essere colti in flagrante in modo sciocco (perché il sole acceca tutti, e si perde di vista tutto il resto). Al fatto che, se di fronte a quell’uscio spalancato fosse passato chiunque altri, adesso Pivani sarebbe rinchiuso in un manicomio, nel migliori dei casi, o sarebbe finito davanti alla corte marziale nel peggiore (o forse il contrario; forse, peggio di morire fucilati, c’è morire in una stanza bianca legati a un lettino).

Da quell’immagine si irradia un freddo intenso, polare (quanti spettri potrebbero esserci, in una stanza simile?) e l’istinto di avvicinarsi a Bruno è incontrollabile, lo arpiona sotto le costole e lo sospinge verso di lui in una trazione invisibile (solo pochi centimetri, il poco che serve per avvertirne il calore).

«A me basta questo,» dice poi, stringendogli appena il braccio. «I nostri venerdì sera, le indagini insieme, le colazioni al Gambrinus...» ammutolisce, con le parole che fuggono via dalla sua voce come sempre, finché non le forza a uscire: «Mi è sempre bastato.»

C’è un guizzo di luce più intenso, negli occhi di Bruno, una piega più mite nel suo sorriso altrimenti sardonico, ma ciò che dice è aspro, privo di alcuna dolcezza:

«È bastato anche agli altri per farsi l’idea sbagliata.» Tace per un istante, con un piccolo scatto della testa. «O giusta, in questo caso.»

«E che suggerisci, scusa? Di ignorarci?» chiede, incredulo. «Poi come lo spiego a Garzo o a Maione che non ci sei più tu a farmi da consulente?»

Bruno agita una mano, a scacciare quella proposta come fosse un insetto molesto.

«Per carità, sarebbe un invito a nozze per Garzo, quello non vede l’ora di ficcare il naso dove non dovrebbe.» Si acciglia, come se gli fosse venuto in mente qualcosa. «E tu lo sai bene,» aggiunge, studiatamente.

«Pure troppo,» concorda Ricciardi, accigliandosi a sua volta, in leggero allarme, perché sa esattamente dove sta per andare a parare; e infatti Bruno non si smentisce:

«Ammettiamolo, ti stava facendo un favore, con tutta la faccenda di Livia. Vi stava praticamente organizzando il matrimonio, pur di avere un commissario ammogliato con una dei "piani alti",» riprende, con più grinta di prima, come sempre quando ritiene di aver avuto un'ottima idea.

«Bruno...»

«Tu ti devi accasare, Riccia’, non importa con chi,» sentenzia Bruno, tagliando l’aria col palmo in un gesto perentorio. «Se un buon partito, non avresti problemi.»

«E tu no?» lo rimbecca Ricciardi, cambiando posizione e accavallando le gambe con nervosismo (non può negare che il suo ragionamento abbia senso, ma neanche che gli causi un senso di nausea).

«Non c’è più bisogno di lusingarmi,» sorride malizioso lui, dandogli un colpetto sul tallone col piede. «Comunque, stiamo parlando di te. Nobile, trentenne, celibe, nessuna frequentazione... lo vedi il problema, sì?»

Ricciardi si sfrega una mano sulla fronte di riflesso, anche se per una volta l’emicrania lo sta graziando.

«Sai benissimo che non voglio figli,» dice infine, con voce forzata, perché quel tema per lui è una terra di nessuno in mezzo a due trincee, dove sente sibilare i proiettili vaganti. «Non è un buon biglietto da visita per sposarsi.»

Evita lo sguardo pungente di Bruno. Li vorrebbe anche, dei figli; solo non con la sua stessa maledizione (è forse anche per questo, che quegli inviti a pranzo da Lucia, a casa Maione, con più bambini chiassosi che adulti, non li accetta mai). Sul volto di Bruno aleggia la solita ombra di sospetto che emerge ogni volta che toccano l’argomento (lo sa, lui, che non è quella la verità, ma sa anche quando non insistere).

«Secondo me, vado a intuito, neanche Livia li vuole,» butta lì invece, con leggerezza provocatoria.

«Bru’, per favore,» sbotta Ricciardi, con una vibrazione irata che va a scuotergli la voce. «Livia è fuori questione. Non stavo scherzando, prima; è finita.»

E non gli dice che lei sa tutto, perché quello è un fatto tra lui e Livia, e Bruno non c’entra e non dovrebbe mai farlo. Lui sembra accettarlo, almeno per il momento, perché non indaga oltre:

«D’accordo, vedova Vezzi fuori dai giochi. Però non stupirti quando verrà a bussarti a casa qualche funzionario a chiederti se hai intenzione di figliare per la patria o continuare a mangiare a sbafo sulle sue italiche spalle. Devi farti furbo.»

«Come te?» lo rimbecca Ricciardi, lieto che il fulcro dell’argomento si sia mosso, seppur di poco. «È per questo che vai al bordello?» gli scappa, prima di poterci pensare.

«No,» risponde secco Bruno, senza perdere un battito, impassibile, ma senza traccia di giocosità. «Vado al bordello perché stare da soli fa schifo e là dentro ci sono donne d’oro che mi sposerei pure volentieri; di certo più di quelle che stanno fuori.»

Ricciardi non sa come replicare, a quella confessione, che gli suona tutto meno che sensata.

«Non ti seguo,» ammette frustrato, a corto di risposte coerenti.

«Non devi seguirmi, Riccia’, sappi solo che non smetterò di andarci,» dice lui, d’un tratto sulla difensiva, come se avesse toccato uno dei pochi nervi sensibili che ha.
«Sarebbe da stupidi chiedertelo,» considera Ricciardi, passandosi una mano tra i capelli e decidendo di lasciar correre, per ora (la gelosia non ha mai fatto parte di lui e non è certo questo il momento di accoglierla). «Almeno tu una copertura di facciata ce l’hai.»

«Infatti,» sottolinea Bruno, calcando la parola con quella che suona come rabbia.

Poi libera un sospiro lento, il palmo che va a sfregarsi la barba in quel gesto impacciato di quando sa di aver detto qualcosa di troppo, o nel modo sbagliato.

«Questo,» riprende poi, e si sporge verso di lui, stringendogli con fermezza le braccia in un moto improvviso, «ce l’ho solo con te, punto. Ti va bene?» chiede infine, con veemenza, e forse non col tono che avrebbe voluto usare (c’è confusione, nel suo sguardo e, in fondo, un sentore di quella paura sopita che sembra seguirlo come un’ombra).

Ricciardi sorride ironico, ma con una punta di dolcezza che gli distende il viso (perché quella è la cosa più simile a una dichiarazione che può aspettarsi da Bruno, e va bene così).

«Mi deve andar bene per forza, non credi?»

Bruno scuote la testa, ora con amarezza manifesta, rassegnata. Perché il mondo, per quanto buio, sebbene un po’ più luminoso di prima, è comunque là fuori, e non potrà rimanerci per sempre.

«E pure tutto il resto.»

L’abbraccio spontaneo in cui Ricciardi lo avvolge subito dopo è tiepido e saldo, e Bruno ricambia con prontezza irruenta, aggrappandosi a lui come non ha mai fatto prima e inspirando a fondo, così a fondo che Ricciardi si chiede se gli stia girando la testa (come sta girando a lui, al pensiero di tutto quello che si sta delineando all’orizzonte). Lo sanno entrambi, che questa parentesi di intimità, di pace, di calore, è transitoria, destinata a sfumare non appena apriranno la porta per salutarsi (adesso, o tra un’ora, o domattina, ma comunque troppo presto).

Così lo stringe a sé, imprimendo nella memoria la sensazione delle sue ossa spigolose contro la pelle; il pizzicore della sua barba contro la mandibola; la nota più nascosta del suo vero profumo, oltre tabacco e colonia e creolina, quello della sua pelle e dei suoi capelli, un sentore estivo che sa di grano. Intuisce che lui sta facendo lo stesso, dal modo in cui respira piano, a fondo, lentamente, col viso premuto contro il suo collo. Fa scorrere un palmo lungo la sua schiena, dalla nuca, dove sfiora la cicatrice nascosta tra i capelli che solo lui sa trovare, fino alla base, seguendo l’andamento sobbalzante della spina dorsale, delle costole, il triangolo delle scapole; in punta di dita, con precisione anatomica, eppure calda, come raggi che filtrano dalla finestra e sfiorano timidamente la pelle.

D’un tratto, dopo non sa quanti minuti, Bruno bofonchia qualcosa di incomprensibile, ovattato dalla stoffa della sua camicia. Ricciardi lo scosta appena da sé e incontra i suoi occhi un po’ velati, a corredo di un sorriso ora sornione.

«Riccia’, io tengo un sonno che mi si porta via,» annuncia, come se le sue palpebre a mezz’asta non fossero abbastanza eloquenti.

«E dormi, allora,» dice lui, inarcando un sopracciglio con ovvietà.

Bruno lo fissa per un istante, forse frastornato dalla banalità della sua risposta, forse rendendosi conto in ritardo, con un
’ingenuità insospettabile per luim, che non devono necessariamente separarsi per mettersi entrambi a dormire. Poi scoppia a ridere, una di quelle risate leggere, di gola, che regala di rado.

C’è pure una nota di mestizia, in quella risata, che Ricciardi comprende fin troppo bene. Come se dormire fosse uno spreco, quando il mondo là fuori li aspetta in agguato (e la notte e il buio, per una volta, sembrano compagni e complici).

Ricciardi posa una mano sulla guancia di Bruno, premendo la fronte contro la sua, gli occhi che affondano nei suoi per un istante, poi subito di nuovo bassi. Lui non si muove, se non per la pressione ormai familiare del suo palmo contro la nuca. Lo sente sorridere, un refolo tiepido, allegro, contro le sue labbra.

«Vabbè, al resto ci pensiamo domattina,» mormora Bruno.

Ricciardi annuisce contro di lui, col cuore che spicca finalmente il volo oltre le costole, libero di battere le ali.

«Ci pensiamo domattina.»

Per stanotte il sole, almeno quello là fuori, può pure aspettare.



 

“La poesia più bella del mondo
È un segreto tenuto nascosto
Freddie scende, lo bacia e gli dice
È fra le tue braccia che ho trovato il mio posto

 
Fuori in strada, che buio che c'è”
 

Note dell'Autrice:
Cari Lettori, eccoci alla fine di questa storia ♥
È stata una piccola (per i miei standard) follia estiva che è nata così, senza un perché. Anzi, semplicemente perché mi sono imbattuta in dei personaggi nuovi che, dopo tanto tempo, mi hanno messo addosso la voglia di scrivere di loro, nel modo più inaspettato. Alla fine, chi se lo aspettava di trovare ispirazione in una fiction Rai? Io no di certo, ma eccoci qua, 24.000 e rotte parole dopo.
E non ho finito di scrivere di loro, come accennavo. Avevo una mezza ideuzza di partenza per un caso, e volevo mantenere la base di questo what if. Con tutto ciò che ne consegue per lo sviluppo dei personaggi, ovviamente... quindi, questa relazione un tantino problematica nell’Italia fascista, Livia in atteggiamenti freddi ma meno agguerrita, Bruno che non s’è fatto la vacanza durante l’arresto ma ce le ha prese pesantemente e Ricciardi che qualche gioia se la concede, ma è in una situazione scomoda con Enrica e pure con Bruno in ambito lavorativo. Insomma, un bel casino.
Sarà tutto un po’ più complesso, storicamente accurato e meno all’acqua di rose... diciamocelo, questa storia era un regalo da me stessa per me dopo essere stata in blocco per nove mesi e ho seguito molto l’onda melensa perché mi era congeniale, e perché quando approccio personaggi nuovi parto con delle introspettive... ma qui ci vuole un ritorno alle origini e al pragmatismo plot-oriented!
Dopo 'sto papiro, ringrazio Miryel per essere stata la prima e più tenace sostenitrice di questa pazzia, al punto di arrivare alle minacce per convincermi a pubblicarla. Senza di te, 'sta storia stava ancora nel cassetto, io avevo ancora le pare e la premiata ship "Commissore"... "Brunardi"... "Ricciodo" CODESTA SHIP, INSOMMA (no, dai, trovatemelo voi un nome decente!) non sarebbe salpata. È tutta colpa tua, insomma :D
E un grazie enorme va anche a Duchessa712 per le recensioni assolutamente inaspettate, ma graditissime, che hanno scandito ogni capitolo. Grazie di cuore, sei stata uno sprone non indifferente per continuare a scrivere e ad aggiornare ♥ Ovviamente, grazie anche a voi, lettori silenziosi. Se i numeri non mentono, non siete nemmeno così pochi, e non può che rendermi felice ♥
E detto questo, sparisco e ci vediamo su questi schermi tra pochissimo, spero!

-Light-





 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4059780