Il Maestro è nell'anima

di BluCamelia
(/viewuser.php?uid=1253080)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Prima parte: IV Liceo scientifico ***
Capitolo 3: *** A. Attenzione al Metodo ***
Capitolo 4: *** B. Bad boys and bad girls ***
Capitolo 5: *** C. Consiglio di classe ***
Capitolo 6: *** D. Dolori e gioie ***
Capitolo 7: *** E. Enemies ***
Capitolo 8: *** F. Fuga da Alcatraz ***
Capitolo 9: *** Seconda parte: V Liceo Scientifico ***
Capitolo 10: *** G. Grande inizio ***
Capitolo 11: *** H. Hegel e gelosia ***
Capitolo 12: *** I. Intervento paterno ***
Capitolo 13: *** Terza parte: verso l'università ***
Capitolo 14: *** L. Lettere e filosofia ***
Capitolo 15: *** M. Maestro ***
Capitolo 16: *** N. Normale ***
Capitolo 17: *** O. Ora degli addii ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Anno 2005

Novantasette anni. Il terribile vecchio aveva superato le mie previsioni.

Quando arrivai davanti all'edificio adibito ai funerali non confessionali notai che non eravamo esattamente una folla. Me lo aspettavo, ma provai un moto di rabbia.

Fino a quel momento avevo tenuto gli occhi bassi, un po' perché si confaceva all'occasione, un po' perché mi veniva spontaneo tenere d’occhio l'anello che portavo; mi stava largo e rischiava continuamente di scivolare via. Sollevai la testa e lanciai delle occhiate discrete in giro. Gli altri erano quasi tutti uomini, di mezza età o oltre, eleganti o di quella particolare trasandatezza tipica degli anticonformisti di classe superiore. Ero la più giovane, una delle poche donne, e, sperai, quella con lo sguardo meno allucinato.

A proposito di sguardi allucinati, non era possibile che mancasse...

Continuai a passare in rassegna i presenti con una certa urgenza, finché i miei occhi si posarono su una figura familiare.

Eccolo lì.

Dovevo aver sussultato, perché attirai l’attenzione di Vanini. I nostri occhi si incontrarono ma nessuno dei due accennò ad avvicinarsi. In realtà ero imbarazzata; visto il suo rapporto particolare con il defunto non sapevo se fosse il caso di fargli le condoglianze.

Dopo un veloce cenno di riconoscimento il suo sguardo si fermò sul mio anello. Mi sarebbe piaciuto vederlo restare a bocca aperta, ma la sua faccia restò inespressiva come al solito. Comunque prima di accendersi la sigaretta rimase per un attimo immobile con l'accendino sollevato.

Trattandosi di lui, avrei dovuto accontentarmi.


Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Prima parte: IV Liceo scientifico ***


Anno 1994.


L'edificio era vecchio, probabilmente della fine dell'Ottocento. Con una manutenzione decente avrebbe avuto qualche pretesa di eleganza, ma vedendo l'intonaco scrostato e i graffiti sulla facciata sospettai che non fosse questo il caso. Ripensai alla mia vecchia scuola e storsi il naso.

Purtroppo avevo buoni motivi per trovarmi lì.

Entrai. Soffitti alti con macchie di umido, una scala troppo angusta che saliva al primo piano, finestre alte e strette che lasciavano entrare poca luce. Che sorpresa.

Andai in segreteria a chiedere in che classe mi avessero messo e mi diressi dove mi aveva indicato la segretaria. La classe era in fondo a un corridoio.

A pochi metri dall'ultima porta mi si affiancò una ragazza molto alta. Mi chiese: «Scusa, è questa la quarta B?»

«Credo di sì, sono nuova, mi sono appena trasferita.»

«Davvero? Anch'io, mi chiamo Carla.»

Il mio cuore si alleggerì all'istante. Dello studio non avevo paura, ma le mie doti sociali non erano il massimo, e non sapevo se sarei riuscita ad inserirmi in un gruppo dove tutti si conoscevano da tre anni.

«Io sono Milena, ma mi chiamano Milly.» Il diminutivo che usava mio padre, Lilly, lo sopportavo solo da lui perché mi sembrava troppo da cagnolino.

Entrammo. Il professore non era ancora arrivato. La prima persona che notai fu una ragazza affacciata alla finestra; il mio sguardo era rimasto calamitato dai capelli ramati e da un posteriore decisamente grosso. Sentendo che le chiacchiere dei compagni si erano ammutolite la rossa si girò verso la porta. Stavo per presentarmi, ma all’improvviso mi ritrovai davanti alla faccia un quaderno arrotolato a mo' di megafono.

«Ed ecco le vincitrici del grande concorso!» Era un ragazzo scheletrico col naso grande e gli occhi infossati, una specie di giovane Don Chisciotte. Io e Carla ci bloccammo, sorprese.

«Quest'anno ce ne hanno mandato addirittura due?» chiese la rossa. «Poveracce, le avete già spaventate...»

«Che concorso abbiamo vinto?» chiesi, cercando di sembrare disinvolta.

«Dei fortunati che finiscono in sezione B. È uno scherzo» spiegò il nasone. «Siamo in pochi perché in questa sezione bocciano un sacco...» un moro che portava i capelli raccolti in un codino e una maglietta con Che Guevara gli diede una teatrale gomitata «...così quando qualcuno si trasferisce da un’altra scuola lo mandano sempre qui. Noi siamo contenti. Per noi, non per i nuovi.» Altra gomitata. «Specialmente se sono ragazze carine. Siete brave? Non vogliamo perdervi subito...» Maglia rossa prese un quaderno e glielo sbatté in testa. Don Chisciotte lo allontanò con uno spintone.

«Mah, così così» disse Carla.

«Sì, abbastanza» risposi io, dando un'immediata dimostrazione delle suddette doti sociali.

Sentimmo avvicinarsi il rumore di tacchi di una donna che camminava con passo deciso. L'aula era in fondo al corridoio, quindi poteva venire solo da noi.

«La preside!» disse qualcuno. Tutti si affrettarono a sedersi, e anche io e Carla ci infilammo in un banco rimasto libero. Invece entrò una ragazza con lunghi ricci neri che le ballavano sulla schiena al ritmo del suo passo baldanzoso. Era in jeans e maglietta ma portava le scarpe coi tacchi, e non quelli larghi e quadrati che si usavano allora, ma proprio i tacchi a spillo, e una tracolla al posto del classico zainetto. Sembrava più grande di noi e non capivo se fosse un’insegnante giovanissima o una ripetente. Vedendoci tutti zitti e seduti sporse le labbra carnose in un grazioso broncio. «Perché  mi guardate così?»

«Ma vaf... Noemi, ci hai fatto prendere un colpo. Pensavamo che fosse la preside. Quando cammini fai un rumore...» disse il ragazzo con la maglietta di Che Guevara.

«Poteva essere pure la zoccola artistica.»

«No, ho visto Paris poco fa e mi ha detto che alla prima ora veniva lui.»

«Matematica il primo giorno alla prima ora, o gioia!» si sedette al banco rimasto libero, che era proprio quello dietro di me. «Ciao, siete nuove? Io sono Noemi.»

«Sì, io sono Milly.»

«Io Carla».

 Ci studiò da dietro gli occhiali dalla montatura dorata, che in contrasto con il fisico formoso le davano un po' l'aria della segretaria porno. Forse voleva controllare che la sua supremazia femminile nella classe non fosse minacciata dalle nuove arrivate. Mi liquidò con una velocità offensiva, poi esaminò Carla più attentamente. Quasi uno e ottanta, una gran massa di capelli neri trattenuti a fatica da un elastico, zero trucco, pantaloni della tuta e scarpe da ginnastica. Era una bella ragazza, ma era chiaro che aveva passato la vita sui campi di pallavolo o giù di lì e che se avesse provato a camminare con i tacchi a spillo sarebbe caduta faccia a terra.

«Parliamo dopo, ecco il prof» disse Noemi.

Questo Paris era un tipo snello ed elegante di un’età indefinita tra i trentacinque e i cinquanta, con capelli biondo cenere che cominciavano a ingrigire. Occhi inquietanti. Classica espressione da vigliacco che si diverte a torturare quelli più vigliacchi di lui. Non mi piacque neanche la voce, aveva quel tono teatrale e artificioso di chi vuole essere per forza simpatico e non ci riesce. «Facciamo conoscenza con le nuove arrivate. Voi siete...? Carla Costa e Milena Barbier...»

«Bàrbier» lo corressi. Tutti pronunciavano il mio nome alla francese.

Paris disse due scemenze sulle vacanze finite e sul nuovo anno che iniziava e ci fece presentare alla classe. La rossa era Elisa, Che Guevara era Gabriele e Don Chisciotte Alberto.

In teoria dopo avrebbe dovuto cominciare la lezione, ma sembrava stranamente riluttante, come se aspettasse qualcosa.

Un vocione da energumeno dietro di me disse: «Ma prof, non ci vediamo da tre mesi. Sicuramente avrà scritto qualcosa di nuovo. Ce lo legge?»

Un coro di ‘sììì’ e ‘per favore’ si unì alla richiesta.

Vedendo la mia faccia sorpresa, Paris disse: «Mi diletto di poesia» con aria di scusa. Era chiaro che la classe voleva solo rimandare l’inizio della lezione e lo stava pure prendendo un po’ per il culo, ma era come se in prof non potesse resistere. Sospettai che le sue poesie non avessero una platea di estimatori troppo ampia.

«Bene, se insistete... questa poesia si intitola Sul ciglio del burrone».

Sinceramente non so se fosse bella o brutta, ero troppo esterrefatta per ascoltare. La poesia non era abbastanza lunga da occupare un'ora, però finita la lettura il generoso Paris non iniziò a spiegare, ma ci concesse di provare a interpretarla.

Il suono della campanella fu un sollievo. Anche se non avevo partecipato mi sentivo come Fantozzi nella scena della Corazzata Potëmkin.

«Almeno abbiamo scampato trigonometria...» disse Gabriele, con espressione furba.

«Io sinceramente avrei preferito» disse Alberto.

«Allora è davvero il professore di matematica?» chiese Carla, sorpresa. «Credevo di aver capito male.»

«E il professore di filosofia che fa, scrive sulla lavagna i conti della spesa?» chiesi.

I nostri compagni scoppiarono a ridere troppo di gusto rispetto alla mia freddura.

«Vanini ne sarebbe capace!»

«Già, troverebbe qualche profondo significato nel prezzo del formaggio.»

«E il guaio è che poi ti interrogherebbe sul prezzo del tonno...»

«Ma ce l'avete un professore normale?»

«No» risposero, quasi a una voce.

«Ci sarebbe la prof di italiano...» disse Elisa.

«Chiamala normale, è un sonnifero umano.» disse Alberto.

«Ti sembra così perché ti piace la matematica, vai addirittura d'accordo con Paris. Ma la Guida non è male.»

«Qualche nota positiva, in questo panorama...?» Chiesi, con la faccia abbattuta. In realtà ero contenta, i professori matti erano un ottimo argomento di conversazione e come ho detto non mi preoccupavano davvero.

«Vanini è bello» disse una ragazza di cui non ricordavo il nome, suscitando risatine e versi ironici.

Meglio che niente. A proposito, Carla aveva aperto il diario per scrivere gli orari della settimana, e vidi che all'interno della copertina aveva incollato la foto di un giovane sui venticinque anni. Non sembrava abbastanza bello per essere un attore, ma la foto era ritagliata da una rivista, quindi non poteva essere il suo ragazzo. Solita figura di merda in arrivo perché non conoscevo le celebrità.

«Chi è?»

«Non segui la pallavolo, eh? Il grande Andrea Giani!»

Va bene, non seguire la pallavolo era socialmente accettabile. Prima che potessi rispondere entrò la professoressa dell'ora successiva, la Colombo, disegno e storia dell'arte. Una ragazza carina sui trenta, con un caschetto biondo, ma dal modo in cui ci squadrò freddamente da capo a piedi capii che potevo scordarmi quell'atteggiamento amichevole e informale tipico dei professori giovani.

«Quest'anno studieremo il Rinascimento. Prendete il manuale. Ora, senza aprirlo, chi mi sa dire cos'è l'immagine in copertina?»

Seguì un imbarazzante silenzio, finché qualcuno disse: «E' la Madonna con due angeli di Filippo Lippi.»

Ci girammo verso Elisa. Dagli sguardi sorpresi degli altri capii che non era esattamente nota come esperta di pittura rinascimentale.

La professoressa invece di essere contenta aveva tutta l'aria di chi ha preso un ceffone ma cerca di non scomporsi. «Ah, bene Bartezaghi... e come mai la conosci?»

«Mia madre ha una riproduzione appesa in camera sua.»

«Una riproduzione» ripeté, schifata, alzando ancora di più il suo nasino all'insù. Capii che avrebbe voluto sentirsi dire da Elisa che si era alzata alle sei di mattina per fare la fila agli Uffizi o dovunque fosse esposto il quadro. Cominciò a parlare del Rinascimento e disse che quell'anno avremmo lavorato in stretta coordinazione con Vanini e Guida per avere una visione interdisciplinare di storia, filosofia, letteratura e arte di ogni periodo.

«Ah, adesso quello che vuole fare con Vanini si chiama interdisciplinarità» sussurrò qualcuno dietro di me. Riconobbi la voce un po' roca di Noemi.

 

Per fortuna era il primo giorno e avevamo solo tre ore. Uscii dalla scuola molto più rilassata per aver affrontato la prova. A dire il vero i prof non mi erano piaciuti ma la classe sembrava a posto. Come ulteriore incoraggiamento, nel cortile della scuola incrociai un gran bel ragazzo dagli occhi verdi che mi lanciò un’occhiata incuriosita. Mi succedeva spesso di attirare l’attenzione dei ragazzi, che da lontano vedevano una figura alta e lunghi capelli biondi; poi quando si avvicinavano e vedevano i miei occhialetti e la mia faccia da "ho letto Anna Karenina in tre giorni" molti perdevano interesse.

Tornai a casa impaziente di raccontare  tutto a mia madre. Non mi ero ancora abituata a quel palazzo scalcinato e battei il piede mentre aspettavo l’ascensore che se la prendeva comoda cigolando. Calma Milly, mi dissi, ricordati perché sei qui.

Aprii la porta e mi precipitai in soggiorno; mia madre era al telefono ma non resistetti: «Inizio brillante, uno sciroccato e una stronza!»

Lei mi fece segno di tacere. Credevo che fosse per non disturbare la conversazione telefonica, ma quando sentii una risata maschile provenire dalla cornetta capii la vera ragione.

«Sì, te la passo » disse lei, in tono rassegnato.

Presi il telefono. «Ciao, pa’.»

«Lilly, la scuola nuova non ti piace? Ti avevo avvertito che ne parlano male. Sei ancora in tempo a cambiare idea.» Il tono tronfio non era esattamente quello di un genitore preoccupato.

«Per andare da qui al mio vecchio liceo ci metto un’ora, traffico permettendo.» Me ne pentii all’istante perché già immaginavo la risposta.

«Torna a stare da me. Capisco che tua madre voglia darmi una dimostrazione, ma noi non abbiamo mica litigato, no?»

«Sì che abbiamo litigato. Quando sono rientrata all’improvviso e ho trovato in cucina la tizia nuda che mangiava il mio yogurt alla papaya.»

«Che humour inglese. Be', mi arrendo. Quando si tratta di questioni di principio è chiaro che si può rinunciare alla scuola privata... e anche alle lezioni di equitazione.»

«Chissà da chi l'ho preso, lo spirito» dissi, sbattendo giù la cornetta.

Non aveva affatto intenzione di arrendersi. Chiaramente pensava che non avrei resistito molto, e per un attimo lo pensai anch’io. In quel periodo non avevo il ragazzo e le amiche del cuore le avevo al maneggio, non a scuola, per questo ero stata così pronta a seguire mamma dall’altra parte della città, ma avrei dovuto immaginarmi che papà avrebbe tagliato i soldi per l’equitazione. A differenza del liceo privato la considerava una spesa inutile: erano anni che lo supplicavo ma non aveva mai accettato neanche di prendere un cavallo in mezza fida.

Dopo una lunga telefonata con Claudia per raccontarle le novità, mi sedetti in camera mia a rivedere gli appunti, ma non quelli di storia dell’arte e tanto meno quelli di matematica, visto che il prof aveva recitato una poesia, ma quelli sui miei compagni. Ebbene sì, con la gente nuova ero una tale frana che se potevo scrivevo qualcosa sulle persone che mi avevano presentato, per evitare le mie classiche figuracce. Sull'ultima pagina del quaderno avevo descritto i compagni che mi avevano colpito di più. Quelli che ricordavo meglio erano Elisa la rossa, Gabriele il comunista e Alberto lo scheletro umano. La brunetta sexy era Noemi, poi Carla... be', fino alla mia compagna di banco ci arrivavo. Comunque vicino al suo nome scrissi “Tullia Kaido” perché mi ricordava il personaggio di Mila e Shiro. Poi Miriam, una ragazza molto carina con lineamenti delicati e occhioni scuri, Rita, che aveva parlato pochissimo, Emanuele, il ragazzo col vocione, e altri ancora.

"La prof di disegno ha una cotta per il prof di filosofia" scrissi poi. Ridacchiai; questo l’avevo scritto quando Noemi aveva fatto la battuta sull’interdisciplinarità. Aggiunsi, solo per gusto, perché non c’era pericolo di dimenticarmene, “scoprire il nome del ragazzo con gli occhi verdi.”


Il giorno dopo potei assaporare altre delizie: il professore fantasma (chimica, assente cronico per problemi di salute) e la professoressa-valium (italiano). Alla quarta ora avevamo il famoso Vanini (storia e filosofia). Non stavo più nella pelle dalla curiosità.

Non mi parve particolarmente bello. Era alto e sottile, molto pallido, col viso affilato e la fronte spaziosa. Volendo era meglio Paris, a parte l'espressione sgradevole. Indossava un completo scuro e un dolcevita color panna. Sopra quell’abbigliamento fuori moda mi sarei aspettata un cespuglio da sessantottino con i capelli lunghi e la barba, invece era una testa molto ordinata: riga da una parte, con i capelli neri pettinati leggermente all'indietro, in uno stile retró.

Ci salutò, andò dietro la cattedra, ma senza sedersi, tirò fuori dei dadi e cominciò a lanciarli, scrivendo qualcosa su un foglietto.

Mi girai verso Alberto, nel banco a fianco al nostro, e mi abbassai gli occhiali sul naso, nella classica imitazione della professoressa scandalizzata. «Ma è vera questa scuola?» sussurrai. Lui spalancò teatralmente le braccia.

«Numeri cinque e uno. Di Matteo e Barbier. Barbier?» ripeté in tono interrogativo. Alzai la mano: «Bàrbier.»

«Visto che sei nuova non posso chiederlo a te. Di Matteo!»

«Sì, professore?» rispose Alberto.

«Vuoi spiegare brevemente ai nuovi a che punto del programma siamo arrivati l'anno scorso?»

«Purtroppo, professore, non l'ha capito nessuno.»

Boato di risate.

«Quattro, Di Matteo» gli annunciò Vanini in tono soave. Alberto non fece una piega. «Parliamo del Rinascimento. L'epoca rinascimentale, il suo spirito, il suo nucleo, direi, il suo DNA... Barbier!»

Alzai di scatto la testa dal quaderno.

«Secondo te com'è il DNA del Rinascimento?»

Ma di che parlava? Il DNA? Boh, forse voleva dire che il papà del Rinascimento era il Medio Evo e la mamma l'epoca classica...

«Va bene, sei e mezzo.»

Non avevo pronunciato una sola parola. Vanini ricominciò a parlare ma mi persi le prime frasi perché ero troppo sorpresa. Mi chinai verso Alberto. «Ma non li scrive davvero sul registro, eh? I voti che ci ha dato, il tuo quattro e il mio sei e mezzo.»

«Oh sì, che li scrive. E non puoi capire che fatica sarà far sparire quel quattro...»

Lo guardai per vedere se era seccato per il mio voto guadagnato senza far niente ma sembrava tranquillissimo.

Quando suonò la campanella mi attardai dopo che gli altri erano usciti. Vanini stava scrivendo sul registro.

«Professore...»

«Sì?»

«Perché mi ha messo la sufficienza se non ho detto niente?»

Per un attimo sembrò che non mi avesse sentito, poi smise di scrivere e alzò lo sguardo. Aveva un viso poco espressivo e non si capiva cosa stesse pensando, ma ebbi l'impressione che fosse sorpreso. Questo aumentò la mia confusione. C'era poco da stupirsi per la mia domanda, mi sembrava naturale.

Vanini abbassò la testa e ricominciò a scrivere.

«Perché sono matto, Barbier. Sei qui da due giorni, non dirmi che non ti hanno ancora informato!» Chiuse il registro, raccolse le sue cose e uscì.


Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** A. Attenzione al Metodo ***


Quando conobbi la professoressa d'inglese, Marianna Canè, la giudicai una delle donne più brutte che avessi mai visto. Molto alta e un po' curva, portava maglie oversize sopra gonne al ginocchio e scarpe che sembravano da uomo (e forse lo erano, con quei piedoni non doveva esserci molta scelta di scarpe femminili.) Comunque era simpatica, e decisamente era un altro tipo originale. Quali che fossero i difetti di quella scuola, non ci si annoiava.

«In che rapporti siete con la brughiera?» chiese a me e Carla, quando ci presentammo.

«Come?» credetti di aver sentito male.

«E con i cimiteri? Siete in grado di apprezzare la pallida bellezza di una vergine in una bara foderata di raso?»

Io e Carla ci guardammo in faccia.

«Siete mai state in un castello infestato da fantasmi? No? Niente, vedo che siete mediterranee senza speranza.»

Vedendo le nostre facce attonite la classe scoppiò a ridere. Sul momento non capii il motivo. Conoscendo la professoressa scoprii che nella sua passione per il gotico e il romanticismo, che per la verità contrastava in modo buffo con la sua faccia cavallina e i denti da castoro, si era inventata tutta una nuova serie di insulti. Per esempio "mediterraneo" se lo spirito britannico ti era alieno senza speranze. Poi c'era "illuminista" per quelli con tante belle teorie edificanti che cascavano miseramente nelle pratica, e altri ancora.

«Be'... però il mio cavallo preferito si chiama Grendel» la informai. Non era un grande argomento, anche perché il nome non l'avevo scelto io, ma la prof ne fu contenta. Invece sentii delle risatine soffocate dietro di me. Probabilmente in classe ero l'unica ad avere un "cavallo preferito".

Dopo inglese avevamo storia e filosofia. Ero troppo curiosa di vedere le nuove trovate di quel Vanini.

«L'anno scorso mi sono accorto che molti di voi sono in grado di ripetere decentemente questo o quel capitolo del libro ma non hanno il minimo senso della storia, per esempio, se dicessi che Cavour tifava la Juve non farebbero una piega... (a dimostrazione che il prof esagerava si videro molti sorrisi.) Così quest'anno vi farò un test per vedere se vi sapete orientare tra i diversi periodi storici. Non sarà nozionistico e non lo valuterò, quindi sono compresi anche argomenti di storia contemporanea.»

«Ma, professore... ci fa un test sul programma che dobbiamo ancora svolgere?»

Vanini guardò Elisa con malcelato disprezzo.

«Bartezaghi, per l'amor del cielo, non fare quella faccia da pecora portata al macello. Prima delle scuole superiori avete frequentato le elementari e le medie, inoltre ci sono i libri, il cinema, i racconti del nonno, ecc. Mia nipote si impiccherebbe prima di studiare una riga di storia medievale, ma sa Il nome della rosa a memoria e può parlarti per un'ora delle dispute tra francescani e benedettini. Non vi metterò un voto, è un test di livello per capire come devo impostare le lezioni.»

Mi aspettavo un foglio con delle domande invece consegnò a ciascuno un mazzetto di foglietti con un paragrafo di testo, un po' come delle versioni di latino.

«Ordinatele cronologicamente e cercate di datarli. Se non ci capite niente mettete la datazione meno approssimativa che riuscite, per esempio, "dal XVI al XVIII secolo", oppure "dall'età della pietra a oggi".»

Erano dei brani dove non c'erano riferimenti precisi come nomi di re, date, o guerre famose, ma che era possibile datare in modo generico grazie agli elementi interni, per esempio, se si parlava della Prussia o della Germania, ecc. Non era difficilissimo perché i salti temporali tra i vari testi erano molto grandi. Da come erano scritti sembravano fonti dell'epoca.

Vanini si fermò davanti a me. Notai che al mignolo portava un grosso anello con una pietra nera quadrata, forse onice, ornata da un filo d'oro che formava delle figure geometriche. Era bello ma dava il colpo di grazia al suo assurdo abbigliamento. Non capivo come fosse umanamente possibile infilarsi dei pantaloni di velluto a coste quando si portava un anello del genere.

Vedendo che avevo subito messo a sinistra quello scritto in linguaggio più antiquato e latineggiante e all'estremità destra quello in stile dannunziano, disse: «E' un test di storia, non di letteratura. Un brano può essere scritto in un certo periodo e parlare di avvenimenti di cent'anni prima. Usa un po’ di Metodo.» Lo disse facendo risaltare la parola come se avesse avuto la maiuscola.

Feci un gesto come per dire che ero stata stupida e lessi più attentamente il testo dannunziano. Certo quello più antiquato non poteva parlare di avvenimenti del futuro, a meno che non fosse un brano di Nostradamus. Anche rileggendolo mi sembrava riferito all'inizio del Novecento. Lo lasciai al suo posto.

«Infatti era giusto, ma non dovevi datarlo senza leggerlo.» Vanini si allontanò per controllare gli altri e dopo un po' ci ritirò i foglietti. Avevamo solo un'ora con lui. Nei miei appunti segreti scrissi: Metodo molto interessante, ma che razza di anello.

Per chiudere in bruttezza una giornata scolastica decente, dopo ci toccava la "zoccola artistica", secondo la definizione di Noemi. Parlò per un'ora del Rinascimento, quindi disse: «Dividetevi in gruppi e portatemi una ricerca sul significato alchimistico della Primavera di Botticelli.»

Strinsi  i denti. Allora non c'era internet, e se nella biblioteca della scuola o a casa tua non avevi i libri giusti ti toccava andare alla biblioteca comunale. E nella mia nuova casa libri sull'interpretazione alchimistica di Botticelli non ce n'erano di sicuro. La scuola era cominciata da due giorni e già ci stavano andando pesante coi compiti. Mi mancava solo un intero pomeriggio in biblioteca.

Notando il nostro scarso entusiasmo aggiunse in tono offeso: «Volevo darvi un argomento un po' stimolante, invece che leggere semplicemente quello che c'è sul libro, ma al solito non dimostrate molta curiosità intellettuale. Ma non vi leggete mai qualcosa per conto vostro, o, che so, conoscete un quadro perché l'avete visto e vi ha colpito...?»

«Peccato che anche se lo conosciamo non va bene lo stesso...» sussurrò Elisa, scura come un nuvolone.

«Prego, Bartezaghi? Parla pure a voce alta.»

Elisa rispose, col tono di chi sa che sarà una perdita di tempo ma non vuole fare la parte della vigliacca: «Ieri ho risposto alla domanda su Filippo Lippi, ma non le andava bene.»

«Che sciocchezza, quando mai ho detto che non andava bene! Ho detto che era giusto.» (Ma l'hai detto come una che sta per vomitare, pensai.) «Non so perché vedi tutto così nero, addirittura se un'insegnante ti loda capisci al contrario. Sei in quei giorni?»

Sul momento non capii le ultime parole, ma vedendo Elisa tutta rossa e col viso contratto dalla rabbia il significato mi fu chiaro. Il mio umore era decisamente rovinato. Uscii dalla classe a testa bassa.

Nel piazzale della scuola notai di nuovo il ragazzo dagli occhi verdi. Lo guardai cercando di non farmi vedere. Un po’ troppo magro, ma le guance incavate facevano risaltare gli zigomi e le labbra, e poi c’erano quegli occhi verdi allungati. Portava i capelli neri con la riga in mezzo tagliati pari all’altezza dell’orecchio, una pettinatura che allora era il marchio di fabbrica dei ragazzi fighi, un po’ perché ti dava un’aria da dandy decadente, un po’ perché per portarla dovevi essere figo per forza, o ti faceva sembrare ritardato. Aveva i soliti jeans, ma invece della maglietta indossava una camicia con gilè. Sembrava un tipo originale e un po’ raffinato, chissà cosa ne pensava delle ragazze che leggono troppo?

Vidi la bionda vicino a lui lanciarmi l’inconfondibile sguardo da difesa del territorio. Indossava fuseaux con una maglietta corta, stivali borchiati con una zeppa di dieci centimetri, e il labbro superiore era il triplo di quello inferiore. Le mie speranze scesero a zero.


Quella settimana io, Carla ed Elisa andammo insieme in biblioteca per la ricerca, e naturalmente finimmo a spettegolare a voce bassa su professori e compagni. Chiesi: «Ma Noemi è ripetente? Sembra più grande di noi.»

«Dimostra venticinque anni, vero? No, è solo più matura. Nella nostra classe lei è l'esperta di sesso. Parla sempre di chi sbava per chi, anche in faccia ai diretti interessati. E purtroppo vede tutto. Abbiamo avuto certe risse... E poi ogni volta che parliamo di queste cose prende un atteggiamento di superiorità. Sai, lei lo faceva già in prima.»

«Davvero?» chiesi, anche se non me ne importava niente. Avrei preferito finire quella stupida ricerca, se no saremmo dovute tornare in biblioteca anche un altro giorno, ma non volevo cominciare la vita in una nuova scuola come l'eterna asociale. Poi ebbi il lampo orribile di Occhiverdi con la dea del sesso e chiesi: «Il suo ragazzo è della nostra scuola?»

«No» disse Elisa con il tono di chi dà notizie gustose: «Sta con un tipo molto più grande. Non dice mai 'il mio ragazzo' dice 'il mio uomo'. Deve avere almeno venticinque o trent'anni, anzi, secondo me ne ha quaranta!»

«Sì, vabbè, adesso si scopre che è Paris» rise Carla «Perché pensi che sia così vecchio?»

«L'hai vista, di solito si mette in jeans, ma una volta che aveva una gonna, giuro, ho visto spuntare un reggicalze!» Un reggicalze nella nostra classe dai muri sporchi e i banchi scassati... scoppiai a ridere.

«Trent’anni... ci vuole un bello stomaco» dissi, inconsapevole della nemesi in agguato nel mio futuro.

«Bleah... al massimo ventiquattro» disse Carla.

La guardai incuriosita. «Perché proprio ventiquattro e non venticinque?»

«Come Andrea Giani» spiegò lei. «La prof di ginnastica fa giocare a pallavolo?»

«Quasi mai. Facciamo esercizi con la trave e cose del genere.»

Come compromesso con la mia coscienza, mentre chiacchieravamo sfogliavo velocemente i libri annotando il numero delle pagine dove c'era qualcosa di utile, così le avremmo fotocopiate e avremmo continuato a casa. Oltre ai numeri presi i miei soliti appunti sui nostri pettegolezzi.


«Barbier e Di Matteo» chiamò Vanini.

«Ehm, professore... » dissi timidamente «i nostri numeri sono usciti proprio l'altro giorno!»

«Se volessi una successione di interrogazioni ordinata e prevedibile non userei i dadi, ma chiamerei i nomi dal registro. Così tutti saprebbero quando è il loro turno e studierebbero solo due volte a quadrimestre. Tranquilla, voglio solo parlare dei test dell'altro giorno e voi due mi darete gli spunti.» Si alzò e cominciò a camminare su e giù. «Il test era di una facilità disgustosa, ma molti sono riusciti a sbagliarlo lo stesso. E comunque vi ho teso una piccola trappola e ci siete cascati tutti, tranne le due persone che ho appena chiamato.» Miriam mi lanciò un’occhiata seccata. Oh, finalmente un po’ di rivalità intellettuale, ero stufa di tutte quelle sfide a chi era la più sexy! Anche perché di solito non le vincevo.

Vanini continuò: «Avete visto un brano che parlava della Francia e di un imperatore e avete pensato tutti a Napoleone. Invece era Napoleone III.» Si fermò e valutò la classe con un'occhiata circolare. «Mmm... vedo dalle vostre facce che mi considerate una carogna. Chi accidenti va a pensare a Napoleone III... Chiediamo a Barbier e Di Matteo come hanno fatto. Forse si ricordavano della politica di Napoleone III perché l'hanno studiata bene alle elementari. O forse sarà perché ne parlano così spesso al cinema. Di Matteo, perché l'hai datato come 'seconda metà dell'Ottocento'?»

«Be', a un certo punto parlando della Francia dice qualcosa come 'le nostre fabbriche', così, casualmente, come se ce ne fossero un sacco, quindi doveva essere per forza in pieno periodo industriale.»

«E meno male che qualcuno se ne è accorto. Per chi ha un minimo di senso della storia quella frase doveva essere come un'insegna al neon. Perché non l'hai datato come brano del Novecento?»

Alberto batté le palpebre, come cercando una risposta brillante, alla fine si arrese e disse: «Non mi pare che recentemente la Francia sia stata governata da imperatori.» Ridemmo.

«Non risulta neanche a me, Di Matteo. Vedete che le mie domande non sono poi così difficili.»

Carla alzò la mano: «Scusi prof, ma si accennava a non so che rivoluzione sanguinosa, per quello ho pensato alla rivoluzione francese e Napoleone.»

«Sì, infatti. Parlava della Comune di Parigi.»

Carla era evidentemente in alto mare. Alberto si azzardò: «Però non mi ricordo una grande rivoluzione successa in quell'epoca...»

«E chissà perché. Stai commettendo uno degli errori più frequenti nello studio della storia: lo sguardo retrospettivo. Leggi duecento volte che le forze reazionarie hanno stroncato un moto operaio e quando ti mettono in mano una fonte dell'epoca ti aspetti che ci sia scritto "Noi forze reazionarie abbiamo appena stroncato un moto operaio".» Pur nel suo strano modo di fare freddo, Vanini si stava infervorando. La voce era vibrante e lo sguardo diventava sempre più intenso. «Invece ci trovi scritto che per fortuna siamo riusciti a sconfiggere quei pazzi sanguinari, gente che massacra donne e bambini e che per mettere in pratica la ripugnante dottrina dell'uguaglianza sfregia le persone troppo belle, non ridere, Costa, nel brano che vi ho dato non c'era ma è stato scritto davvero» si piegò verso Alberto e vidi che lo sguardo di Vanini era diventato bruciante, sembrava davvero matto. Non era per niente bello, aveva il colorito smorto e le occhiaie viola, sembrava un vampiro appena uscito dalla bara. «E questo errore non si fa solo nello studio della storia, si fa sempre. Scommetto che quando leggi quei libri di spionaggio da quattro soldi e il capo del complotto comunista dice "dobbiamo chiudere tutti i giornali per abolire la libertà di pensiero" non ci trovi niente di strano!»

«Non mi piacciono i libri di spionaggio, professore!»

«Ma hai capito quello che sto dicendo?» Adesso Vanini stava mostrando i denti, che erano irregolari. No, non era bello. «Cosa direbbe un comunista vero? Lombardi, salvami tu. Mi sembra che ti consideri un comunista, ma forse porti la maglietta con la faccia di Che Guevara per far vedere che sei più figo di lui!»

«Be' professore, se parliamo di cos'è un vero comunista... ci sono discussioni a non finire...» rispose Gabriele.

«Non fare lo scemo, non mi interessa la dottrina, intendevo un comunista in carne e ossa e non uscito da un libro da quattro soldi.»

«Ah sì, certo. Direbbe che bisogna chiudere i giornali perché appartengono ai gruppi industriali Tizio e Caio e quindi sono la voce della borghesia.»

Anche dopo aver interpellato Gabriele, Vanini era rimasto con le mani appoggiate sul banco di Alberto e la faccia vicina alla sua. Se non avesse avuto un'espressione così feroce avrei pensato che stava per baciarlo. Alberto sembrava sull'orlo del panico.

La risposta di Gabriele calmò Vanini all'istante, come se tutta la scena fosse stata studiata apposta per suscitare un barlume di intelligenza da parte nostra.

«Infatti» disse, raddrizzandosi. Tirammo un sospiro di sollievo. «Costa, che conclusioni hai tratto da tutto ciò?»

«Ah... che noi vediamo gli avvenimenti storici diversamente da come li vedevano i contemporanei...»

«Quando faccio una domanda a uno studente è sottinteso che voglio la verità, quindi in questo caso la risposta esatta era "che lei è matto da legare."» Ridemmo ma era una risata un po’ nervosa. «Bene, vi siete divertiti, ma sono riuscito a ficcarvi in zucca un po’ di Metodo? Ma quando mai, che me lo chiedo a fare...»

Me ce l’ha con questo metodo, scrissi nell’ultima pagina.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** B. Bad boys and bad girls ***


Quando Alberto mi aveva beccato che guardavo il gruppo di Occhiverdi mi aveva chiesto: «Ti interessano quei ragazzi?» come se avessi rivelato un lato inaspettato della mia personalità. Vedendo il mio imbarazzo aveva fatto un sorrisetto complice e aveva lasciato cadere il discorso.

Un giorno incontrai il ragazzo misterioso alla macchinetta degli snack, una volta tanto da solo. Decisi di salutarlo. Dopotutto eravamo vicini di aula.

«Ciao.»

«Ciao. Sei nuova, vero?»

«Sì, mi sono trasferita quest’anno, mi chiamo Milly.»

«Ok.» Non mi disse il suo nome. «Be’, ti serve qualcosa?»

Mi parve che avesse dato un’intonazione particolare alla parola ‘qualcosa’ e mi sentii arrossire. Lui alzò gli occhi al cielo come se mi trovasse incredibilmente stupida e dietro di me sentii una risata femminile sguaiata. Mi girai di scatto. Figuriamoci se Labbro Gigante era lontana.

I due si dileguarono in tutta fretta e vidi che si stava avvicinando la Canè. «Hai fatto amicizia con Zanetti?» mi chiese.

«Proprio amicizia non direi» risposi, sarcastica. Non capivo perché le dovesse importare qualcosa delle mie amicizie.

«Guarda che non ti perdi niente... vieni, è ora di iniziare.»

Per fortuna le sue lezioni erano sempre abbastanza interessanti da distrarmi.

Si sedette alla cattedra e declamò:

«Allombradeicipressiedentrolurneconfortatedipiantoèforseilsonnodellamortemenduro?»

Io e Carla ci guardammo in faccia. La Canè che recitava Foscolo, doveva avere la febbre alta.

«Ti si aggroviglia la lingua solo a pronunciarlo.» Scoppiammo a ridere. «Sentite questo, invece:


The ice was here, the ice was there,

The ice was all around :

It cracked and growled, and roared and howled,

Like noises in a swound!»


E recitò alcuni versi della ballata del vecchio marinaio, con la sua voce profonda quasi maschile. Era piacevole, un po' come una campana in tono basso.

A nessuno importava veramente dell'insulto a Foscolo, comunque per spirito di contraddizione Gabriele obiettò che secondo tutti i suoi amici inglesi l'italiano ha un suono bellissimo.

«Può essere musicale quanto ti pare, ma bisogna vedere quello che ci scrivi. Qualcuno di voi ha letto Frankenstein? Cime Tempestose? Oliver Twist

Si alzarono diverse mani tra cui la mia.

«E secondo voi quanti ragazzi inglesi si sono letti I promessi sposi per divertimento?»

Tié, sistemato anche Manzoni. Leopardi, hai le ore contate!


«Leooo...» i tacchi della Colombo ticchettarono più in fretta nel tentativo di affiancarsi a Vanini. Trovava sempre qualche scusa per parlarci.

Eravamo fuori per la ricreazione e Carla imitò i suoi passetti, senza fare lo stesso rumore, visto che indossava le Adidas.

Ridacchiai. «Leo? È proprio il tipo da chiamarsi Leonardo o Leopoldo.»

«Ancora peggio, si chiama Leandro» mi informò Carla.

Si avvicinò la Guida: «In classe!» Guardai l’orologio, seccata. La ricreazione non era ancora finita. «Su, su, tutti dentro!» Non è che potevamo dirle di non rompere, così ci avviammo verso la classe.

Qualcuno mi piombò addosso. Alzai il viso per dirgli il fatto suo ma rimasi senza parole vedendo Zanetti.

«Scusa» mormorò, in tono molto più educato del solito. Quasi dolce.

Restai senza parole e prima che mi riprendessi lui si era già allontanato. Entrai in classe con passo più leggero del solito.

 Pochi minuti dopo mi fu chiaro perché i prof ci volevano seduti. Entrarono due poliziotti con cani antidroga.

«Non vedo l'ora di raccontarlo ai miei» disse Carla, ironica.

«Non dirmelo... la mia diventerà matta!» più che per il fatto in sé, perché mio padre aveva avuto ragione valutando quella scuola, ma questo non lo dissi.

I cani cominciarono ad abbaiare. Mi girai per vedere il colpevole, ma stavano abbaiando ad una delle giacche.

La mia.


Quello stronzo di Zanetti mi aveva infilato in tasca una bustina di pastiglie. La cosa più ridicola è che l'avevo vagamente sentito armeggiare intorno alla mia tasca e avevo pensato mi stesse rifilando un biglietto con il suo numero di telefono o qualcosa del genere.

Mi ritrovai dalla preside. Avevo la lingua incollata al palato. Mi sembrò che durasse tantissimo, ma probabilmente furono pochi secondi. Alla fine presi un bel respiro e dissi: «Non è mia... mentre passavo in mezzo alla folla qualcuno mi si è buttato addosso e mi ha infilato la mano in tasca.» Speravo di non dover dire di chi si trattava. Non morivo dalla voglia di spiegare i miei rapporti con Zanetti.

«Va bene, adesso ne parliamo con i tuoi genitori.» Dal tono di voce non riuscii a capire quanto mi credesse. Vidi che componeva il numero.

“Stai fresca” pensai. Mio padre era sempre irreperibile e mia madre era sempre in giro per commissioni o a colloqui di lavoro.

Qualcuno bussò, era Gabriele. La preside gli fece cenno di entrare.

Evidentemente mia madre non rispondeva, perché la preside chiuse il telefono e chiese a Gabriele cosa volesse.

Gabriele aveva visto la scena. Non il sacchetto di pastiglie, ma la mano di Zanetti nella mia tasca.

«E perché non hai avvertito Barbier?»

«Pensavo che Zanetti...» (mi stesse infilando in tasca un bigliettino?) «...magari era nei guai con i suoi... ehm, amici, e infilava le mani in tasca alla gente cercando soldi o un portafoglio. Quando ho visto che non aveva preso niente ho lasciato perdere.»

La mattinata passò senza che ascoltassi una sola parola di lezione. Stavo veramente pensando a come dirlo a mia madre.

Lei diventò di tutti colori, le si dilatarono le narici, mi parve di vederne uscire un filo di fumo, strinse la labbra, e non disse assolutamente niente. Quando cominciavo a pensare che la notizia le avesse provocato un ictus, disse: «L'anno prossimo cambi scuola.»

«Ma mamma, non...»

«Non intendevo la tua vecchia scuola, cercheremo un liceo con un ambiente migliore. Non sarà una tragedia se invece di cinque minuti di autobus ne fai venti.»

Nei giorni seguenti si parlò ancora della faccenda. Prima di tutto notai che la bionda stronza e le sue amiche mi guardavano con odio. Scottata dalla sorpresa con Zanetti, avevo deciso di basarmi meno sulle mie geniali intuizioni e parlare di più con i miei compagni, così chiesi subito a Noemi informazioni più precise.

«Quella alta e bionda è la ragazza di Zanetti, si chiama Penelope ma si fa chiamare Penny, anche lei si impasticca. Le altre due sono le sue migliori amiche.»

«Mmm... se mi chiamassi Penelope prenderei droghe pure io.»

«Vuoi sapere perché ce l'hanno con te?» Chiese Noemi, ironica.

«Zanetti ha passato guai, eh?»

«Temo proprio di sì. Oltre che drogarsi spacciava a scuola, e adesso è pure maggiorenne.»

Origliai anche una conversazione tra la Canè e il professore di religione. Lui le stava chiedendo:

«Ma se hai visto Barbier con Zanetti, perché non l'hai avvertita?»

«Illuminista che non sei altro. Dì a una ragazzina che deve stare alla larga da quel bel moro perché è un cattivo soggetto e hai fatto nascere un grande amore. Non ho detto niente perché speravo che vedendo la situazione lo lasciasse perdere spontaneamente.»

Mi seccai un po' per questa idea della Canè che mi piacesse un ragazzo solo perché era stronzo, ma alla fine dovetti ridere per quel “illuminista che non sei altro”, soprattutto rivolto al nostro prof di religione. Decisi di dimenticarmi quella sgradevole faccenda. Peccato che altri a scuola avessero la memoria lunga.

Con tutti quegli avvenimenti non mi bastava più l’ultima pagina del quaderno per i miei appunti personali, così decisi di comprarmi un diario. Non volevo un diario del cuore con la faccia di Holly Hobbie e il lucchetto; mi comprai una grossa rubrica telefonica con la copertina cartonata, e presi l’abitudine di cominciare ogni entrata con la lettera della rubrica a cui mi trovavo quel giorno.


In ogni classe ci sono dei personaggi. Alberto era il genio in matematica, Gabriele il comunista, Noemi la dea del sesso, Miriam la secchiona, Rita... be' se non ho detto niente di lei fino ad ora è perché lei era quella invisibile. Io avevo resistito un po' ma stavo già scivolando nel mio solito ruolo: quella strana.

Dal punto di vista delle amicizie non stava andando molto bene. Parlavo parecchio con Carla perché era la mia compagna di banco e con Elisa perché la sua personalità calorosa rendeva tutto facile, ma erano rimaste amicizie superficiali. Potevo sforzarmi come avevo fatto in biblioteca, ma alla fine la mia mancanza di interesse per i classici argomenti femminili veniva a galla e mi fregava. E non avevamo neanche altri interessi in comune. Anche nella vecchia scuola non avevo un'amica del cuore, però avevo fatto amicizia con le ragazze del maneggio. Ci sentivamo ancora, ma gli incontri si stavano diradando perché sentir parlare di cavalli mi faceva soffrire.

Un giorno Carla mi chiese: «Non è che preferiresti stare nel banco con Miriam?»

Risi. A Miriam stavo sulle scatole perché prima che arrivassi io era la più brava della classe. Veramente lo era ancora perché i miei voti non erano eccezionali, ma il mio successo con Vanini era un evento troppo inedito per non mettermi sotto i riflettori.

Poi dalla faccia di Carla capii che l'aveva detto sul serio.

«Ma se non mi sopporta!»

«Boh, ho pensato che magari potevate parlare di letteratura.» Cercò di pronunciare la parola 'letteratura' in modo disinvolto, ma dal tono capii che non lo considerava un argomento perbene.

Invece i professori continuavano in linea con le impressioni dei primi giorni. Italiano e latino erano una tortura, mi sarebbero serviti quegli aggeggi per tenere aperti gli occhi tipo Arancia Meccanica. Di chimica non stavamo imparando proprio niente, il professore era spessissimo assente e avevamo supplenti sempre diversi. Con Paris mi arrangiavo come potevo. Avevo scoperto che le sue lezioni erano una sorta di riassunto per chi sapeva già tutto, e leggendomi in anticipo sul libro gli argomenti che avrebbe dovuto spiegare mi trovavo meglio. Anche se di solito funziona che il professore aiuta gli alunni spiegando il libro, non il contrario. Se poi capitava che dovesse sostituire un collega o qualche altra occasione speciale ci toccava di nuovo la lettura di poesia. Gabriele disse che se Paris avesse letto di nuovo i suoi poemi apocalittici durante l'ora di fisica l'avrebbe registrato su una cassetta e fatto licenziare per infermità mentale.

Questa voce arrivò alle orecchie di Paris che si offese e disse: «Visto che volete solo lezioni ortodosse...» e raddoppiò la torchiatura in matematica e fisica.

Quanto alla zoccola artistica, si sedeva, accavallava le belle gambe, commentava la nostra abissale ignoranza, e ci affibbiava qualche compito inverosimile, sottolineando il fatto che lo faceva esclusivamente per il nostro bene. Oppure faceva di peggio.

Una volta durante la lezione di storia dell'arte, Miriam, in un tentativo di dimostrare interesse per la materia, disse che gli era piaciuta di più la Venere di Botticelli rispetto a quelle di Tiziano che stavamo studiando allora. Non aveva ancora capito che la tecnica di quella donna era invitarci ad esternare le nostre opinioni e conoscenze solo per dimostrare che non valevano niente.

«Non sarà solo perché assomiglia di più a una modella?» chiese la Colombo nel suo classico tono di disprezzo. «Al solito non fate il minimo sforzo per comprendere lo spirito dell'epoca. Allora c'era un concetto di bellezza molto diverso. Mi pare che almeno qualcuno dovrebbe apprezzarlo.» E guardò direttamente Elisa, che in tutta la classe era quella meno botticelliana e più tizianesca. Lei si alzò e uscì dall'aula sbattendo la porta. Correrle dietro per consolarla sarebbe stato come dare della stronza alla prof, così in classe ci fu un momento di imbarazzo. Aspettai pochi minuti quindi chiesi se potevo andare in bagno.

Individuai il bagno dove si era chiusa Elisa e bussai. «Eli apri, non vorrai dare soddisfazione a quella stronza? Non ha niente da fare nella vita, quando riesce a offenderci ci fa la giornata!»

«Avrà senz'altro da fare quella troia, almeno è bella» rispose lei tra i singhiozzi, da dietro la porta.

«Se fossi un uomo mi si congelerebbe solo a guardarla» dissi, in tutta sincerità. «Mia mamma si è preoccupata moltissimo per la droga; l'anno prossimo mi voglio trasferire. Ci trasferiamo insieme, eh? Cerchiamo una scuola decente. Però adesso torna in classe, falle vedere che non te ne frega niente.»

Elisa spalancò la porta così di scatto che mi colpì sul naso. Avevo portato dei fazzolettini e glieli offrii, perché stava cercando di asciugarsi gli occhi con uno dei rotoli di carta igienica di riserva.

«Per oggi l'ho vista abbastanza quella faccia di cazzo!» gridò.

Paris si affacciò appena alla porta del bagno: «Che succede qua dentro?» chiese con la sua voce affettata. Chiaramente aveva capito che stavamo parlando di un insegnante. Quel tono che trasudava ipocrisia e gioia maligna per una prevedibile punizione era giusto quello che ci voleva per Elisa.

«Uh, professore, questo è il bagno delle ragazze» dissi in tutta fretta prima che Elisa snocciolasse altri insulti.

«Lo so bene, Barbier, infatti come vedi non sono entra...» non riuscì a finire la frase perché gli arrivò il rotolo di carta igienica in faccia.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** C. Consiglio di classe ***


«Bene» annunciò Paris, con un tono che già smentiva la parola. «Credo che ci siamo accorti tutti che in questa classe l'atmosfera è diventata pesante. Speriamo che questo incontro tra professori e studenti concordato coi vostri rappresentanti serva a qualcosa. Cominciamo con le lamentele degli studenti nei confronti dei professori.»  

In realtà non era tanto un incontro tra la classe e i professori, quanto tra la classe e i magnifici tre, Colombo, Paris e Vanini, visto che tutte le lamentele degli studenti erano nei loro confronti e viceversa. La Gigli e la Guida stavano lì giusto per impedire uno spargimento di sangue, il prof di chimica era malato come al solito e la Canè non si era disturbata a venire. Anche l’assenza della più grande pietra dello scandalo, cioè Elisa, non aiutava molto.

Di fronte al nostro silenzio, Paris chiese in tono velenoso: «Tu, Lombardi, hai qualcosa da dire?» Voleva vedere se Gabriele avrebbe avuto il coraggio di ripetere pubblicamente la sua sparata sull'infermità mentale.

«Già detto» rispose Gabriele, tranquillissimo.

«Altri?»

Miriam si stava tormentando i capelli e si agitava come chi raccoglie il coraggio per parlare. Alla fine disse: «I voti del professor Vanini sono completamente arbitrari.»

Vanini si guardò le unghie come se volesse controllarsi la manicure. Forse faceva veramente la manicure, aveva mani perfette. Poi disse, con voce alta e chiara ma senza alzare lo sguardo: «I miei voti sono giusti. Fatevi valutare da qualche altro professore di storia e filosofia e vedrete che non ci sarà una gran differenza.»

«Ma per esempio ha dato la sufficienza a Barbier per una domanda a cui non ha risposto.»

«Sì, è vero.»

Seguì un silenzio sbigottito. Era ovvio che Miriam si era aspettata uno sfacciato diniego.

«Be’, allora...»

Vanini rimase nella stessa posizione di prima, facendo dondolare una gamba.

«...Insomma, come può dire che i suoi voti sono giusti?»

«Ho fatto a Barbier una domanda un po' insolita, di quelle che più che studio richiedono ragionamento. Mi aspettavo la solita faccia da triglia bollita, invece, anche se non ha saputo rispondere, ho visto che aggrottava la fronte e si metteva a pensare. Ovvero, ha dato per scontato che la domanda avesse un senso e che sforzandosi avrebbe trovato la risposta; non sarà un gran che ma è uno spettacolo che non si vede mai in questa classe. Di Matteo, tu sei un ragazzo onesto, ho ragione? Dì pure la verità, ti metterò quattro in pagella ma non sarà certo per questo.»

«Ehm... sì professore, ha ragione. Ma non è che sono pigro, davvero le sue domande non le capisco.»

«Ma non ci provate neanche. L'anno scorso avete deciso che mi inventavo domande assurde per il gusto di mettere voti bassi e da allora non avete più fatto il minimo sforzo.»

Oltre a dare per scontato che le domande di Vanini avessero un senso, chiedendogli spiegazioni avevo dato per scontato anche che dietro il suo voto ci fosse una ragione decente, e non fosse solo un modo per esercitare il suo potere. Per quello era rimasto sorpreso. Ma io ero sempre andata bene a scuola e non vedevo gli insegnanti come nemici sempre pronti a metterti quattro per sadismo. Fino a quando non avevo conosciuto Paris e Colombo.

«Secondo me il problema è che gli insegnanti danno troppi giudizi su noi come persone» dissi. «Non è certo ripetendo all'infinito che siamo apatici e ignoranti che ci farete appassionare alle materie.»

«La scuola non è una trasmissione televisiva, non è che abbiamo il dovere di essere interessanti se no voi non la seguite» disse Paris. «La situazione della classe è peggiorata notevolmente. E non parlo solo dei voti, che comunque non sono allegri. Abbiamo avuto drammi isterici, la classe è stata coinvolta in storie di droga...»

Mi irrigidii.

«Credevo fossimo tutti d'accordo che Barbier è stata coinvolta per puro caso» disse la Guida.

«Fare amicizia proprio con Zanetti tra tutti gli studenti non mi sembra un puro caso.» Sentii le guance che diventavano bollenti. «E poi, siamo sicuri che sia andata come dicono tutti? Abbiamo una ragazza che viene da un'altra scuola, sembra la classica studentessa modello ma guarda caso subito comincia a ronzare attorno al gruppo dei drogati. Forse ha cambiato scuola perché nell'altra ha avuto problemi di droga e appena arrivata qui si è messa in cerca dei contatti giusti.»

Mi sembrava che qualcuno mi stesse strangolando. Non potevo spiegare che avevo avvicinato Zanetti perché mi piaceva.

Mi alzai in piedi, con i pugni chiusi che tremavano: «Professore, se avessi avuto problemi di droga ci sarebbe scritto sui documenti che vi ha mandato la mia vecchia scuola.»

Paris borbottò qualcosa a voce bassa, ma riuscii a distinguere le parole “scuola privata” e “basta pagare”.

Cosa aveva detto quello stronzo?

Aprii la bocca per aggiungere che quella scuola faceva cagare e mi sarei trasferita l'anno seguente, quando Vanini si alzò in piedi facendomi tacere per la sorpresa.

«Calma, Barbier, nessuno crede veramente che tu sia il nemico pubblico numero uno. Lo sappiamo perché ti sei avvicinata a Zanetti. Purtroppo il mio collega è disinteressato all'argomento e non ne capisce niente, per questo ha frainteso.»

La classe scoppiò a ridere selvaggiamente.

«Cos'è che non capisco, Vanini?» chiese Paris con voce soave come una nuvola.

Vanini si chinò fino ad avere il naso a dieci centimetri da quello del collega e dopo qualche secondo di tensione disse: «Il rock, Mario, quello bello duro. Zanetti e Barbier vanno matti per i Metallica e si scambiano cassette.» Le risate raddoppiarono. Anch'io cominciai a ridere, anche se una lacrima mi era scappata. «Non ti sarai offeso perché ho detto che non ne capisci niente, quella musica ti fa schifo, no? Adesso scusate ma ho un impegno urgente... del resto le lamentele nei miei confronti le abbiamo già affrontate... arrivederci. E francamente se fossi in voi chiuderei qui.»


Quella notte non dormii. La mia testa vorticava pensando alla riunione.

Possibile che Paris pensasse veramente quello che aveva detto? Un insegnante che non distingue gli alunni tossici da quelli puliti sarebbe un bell'idiota. Mi sembrava che attaccando me avesse voluto attaccare Vanini, che prima mi aveva lodato. Non sapevo che problemi avessero tra loro, ma non ci voleva molto a immaginarsi che Paris, con il suo disperato desiderio di fare bella figura, fosse invidioso di ogni insegnante carismatico.

Mi ricordai di come la Colombo ci aveva accusato di non capire lo spirito dei tempi passati ed ebbi un'illuminazione: sia lei che Paris stavano imitando Vanini! Incapaci di imitarne l'intelligenza ne imitavano lo snobismo e l'eccentricità. Chiaro, il loro scopo era una specie di triumvirato di snob:  “guardate quanto ci distinguiamo in questa scuola da quattro soldi noi persone intelligenti ed elitarie”. Peccato che Vanini non se li filasse neanche per sbaglio. Quell'uomo era veramente una specie di vampiro che a poco a poco infettava tutta la scuola. Se almeno avesse potuto infettarla in senso buono...


Dopo questo successone non mi restava che tirare avanti in qualche modo fino alla fine dell'anno e poi cambiare scuola. Si volevano trasferire anche Elisa (che era stata sospesa), Carla, e un ragazzo e una ragazza che probabilmente avrebbero lasciato la classe comunque causa bocciatura. Il resto dell’anno si prospettava fantastico; i trasferimenti avevano indispettito ancora di più i prof, che secondo me avrebbero voluto la soddisfazione di decimare la classe personalmente. La gita scolastica era saltata con una motivazione tecnica che non aveva ingannato nessuno.

I pochi professori bravi ci aiutavano a tirare avanti. La Canè ci aveva fatto recitare delle scene da Cime Tempestose e aveva fatto interpretare Catherine e Heathcliff a me e Alberto, una scelta veramente poco azzeccata. Come ho detto lui con il suo metro e novanta di pure ossa e il suo naso assomigliava di più a Don Chisciotte da giovane, e io... be', alla fine della lettura la professoressa aveva recensito così la mia vibrante interpretazione di Catherine: «Encefalogramma piatto.» La classe era scoppiata a ridere, me compresa. Capivo che ci dava ruoli improbabili non per farci fare brutte figure ma per farci uscire da quelli che ho chiamato i nostri "personaggi".

Poi c'era Vanini. Da quando alla riunione mi aveva difeso umiliando quel grande stronzo di Paris mi era diventato molto più simpatico. Non lo vedevo più così strano e freddo. E poi a guardarlo bene non era neanche brutto, con quelle sopracciglia definite che si alzavano verso le tempie e le labbra dalla piega ironica come le statue etrusche. Certo era un po' vampiresco con quelle guance scavate e le occhiaie viola, ma non vogliamo mica essere classicisti! ("Classicista" era l'insulto della Canè per chi ammirava solo le cose armoniche, luminose ed eleganti ed era incapace di apprezzare una bellezza oscura o selvaggia.) Ma la parte migliore naturalmente erano le sue lezioni.


Dopo la sospensione Elisa non era tornata a scuola. Ormai era sicuro che l’anno seguente si sarebbe trasferita, ma oltre a questo aveva anche supplicato i suoi di farle finire l’anno in una scuola privata. Dopo la tragica assemblea di classe anche una delle candidate alla bocciatura aveva deciso di abbreviare l’agonia e se n’era andata. In teoria la sua compagna di banco e quella di Elisa avrebbero potuto sedersi assieme, in pratica ci fu un riassestamento generale dei posti tipo domino. Probabilmente con tutte quelle bocciature e trasferimenti nella nostra sezione non si erano create delle coppie molto affiatate. Così due persone si ritrovarono senza compagna di banco. Una era Miriam, l’altra indovinate chi era.

Carla mi sorrise con aria di scusa dal posto dove prima sedeva Elisa.

«Bene, pare che faremo un sacco di discussioni letterarie» dissi sarcastica, sedendomi vicino a Miriam. Lei non era molto più contenta di me.

Vanini entrò, lanciò un’occhiata disinteressata alla nuova sistemazione e scrisse alla lavagna: “Oswald Spengler”. Quindi appoggiò la schiena al davanzale della finestra con le braccia conserte e le caviglie incrociate.

Era vestito meglio del solito, con camicia bianca e pantaloni neri. Insomma, invece di un residuato anni Settanta sembrava un becchino. Ma con quella pettinatura e quell’anello riusciva quasi a rendere nobile quello stile spartano, anche grazie al suggestivo cielo tempestoso che si intravedeva dalla finestra e gli faceva da sfondo.

«Ma professore, è programma dell'anno prossimo» si lanciò Miriam. Meglio mettere subito in chiaro chi fosse la fuoriclasse. Lei conosceva già il programma di quinta!

Se mai ho visto nella realtà l'equivalente dell'espressione “fulminare con lo sguardo” è stata quella volta. In effetti provai dispiacere per Miriam. Era abbastanza interessata e zelante da sapere chi fosse Spengler, ma dopo un anno e mezzo di Vanini che le urlava in faccia ancora non aveva capito niente di quell'uomo.

«Visto che state così attenti a orari, tabelle e programmi non vi sarà sfuggito che questa è l'ora di stoooria.» Strascicò la parola in modo sarcastico come per rimarcare la pedanteria di Miriam. «È un'illusione pensare di studiare storia e basta, ogni libro di testo, che non sia un elenco telefonico completamente inutile, offre una particolare visione della storia. Il testo che usiamo noi è blandamente marxista, dà una grande importanza ai fattori economici. Non vi farà male se prendiamo in considerazione altre concezioni. Quindi sì, sto per spiegarvi un filosofo, ma è un filosofo che vi aiuterà a capire meglio la stoooria. Ho il vostro permesso?»

Dopo un’introduzione del genere nessuno avrebbe osato negarglielo.

Ci spiegò che la concezione di Spengler era lontana dall'idea di progresso e si rifaceva di più all'idea di storia ciclica, quindi disse molto brevemente che secondo Spengler la civiltà occidentale è nella fase declinante e ci chiese di scrivere quali fossero secondo noi le motivazioni.

Vedendo le nostre facce aggiunse: «Non dovete dare la risposta giusta, solo riflettere un po'. Mamma mia come vi spaventate per poco... io avevo quella faccia al terzo capitolo di Metodo del quarto ordine. Suggerimenti: primo, non copiate dall'enciclopedia che me ne accorgo subito; secondo, fate ipotesi liberamente ma non scrivete stronzate.»

«Ehm, professore, cosa intende dire con “stronzate”?» chiesi ridacchiando. Mi divertivo talmente con quell'uomo che anche se mi lasciava secca con qualche battuta acida non me ne importava.

«Per esempio non scrivete che secondo Spengler la società occidentale è in declino per colpa della televisione e del rock satanico, spero che i motivi siano ovvi... Barbier, cosa stai scrivendo?» Si avvicinò al mio banco e vide che avevo scritto "Metodo del quarto ordine". Di solito Vanini reagiva positivamente alla curiosità intellettuale, quindi restai di stucco quando strappò il foglio dal mio quaderno ad anelli e lo appallottolò: «Non prenderlo come un suggerimento, è troppo difficile anche per te.»

Mi venne un’idea. «Professore, quando dice ‘Metodo’ con la lettera maiuscola, intende il Metodo del quarto ordine?»

Rispose in tono serio, come se mi stesse fornendo un’informazione importante: «Barbier, nel linguaggio parlato non esistono le maiuscole.»

La classe scoppiò a ridere, Miriam più di tutti.

Scrissi nei miei appunti: bella schivata, prof, ma se crede che mi arrenda così...


Se la storia vi sta piacendo, su Wattpad sono un po' più avanti con la pubblicazione:    https://www.wattpad.com/user/CameliaBlu

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** D. Dolori e gioie ***


«Milly!» sussurrò Carla, alla mia destra.

Ancora in posizione di ricezione, con le mani unite per il bagher, mi girai verso di lei: «Co...?»

Mi sembrò di essere investita da un treno in faccia. Ma era solo il maledetto pallone.

Quel giorno la Gigli si era svegliata di buon umore, così, invece di farci correre in tondo scandendo il ritmo dei marines, ci aveva concesso l'agognata partita di pallavolo. Agognata, ma non certo da me. Ero una nemica giurata di qualunque oggetto rotondo e rimbalzante. E poi dividevamo la palestra con la V D, ovvero la classe del compianto Zanetti, e mi sentivo sempre a disagio con Penny e le sue scherane che mi guardavano come se volessero ridurmi in polpette. E, vista la mia inettitudine, con la partita avevano finalmente avuto la loro occasione. Per fortuna la schiacciata di Penny mi aveva colpito di sbieco e gli occhiali erano saltati via, invece di frantumarsi sulla mia faccia.

Lanciai uno sguardo alla prof, ma stava parlando col collega che faceva lezione ai ragazzi. Come sempre quando ci permetteva di giocare a pallavolo, se ne fregava di quello che succedeva in campo.

Raccolsi gli occhiali e chiesi a Carla: «Cosa volevi dirmi?»

«Di stare più attenta, stanno tirando su di te perché non sei forte in difesa» rispose lei. La totale mancanza di umorismo con cui lo disse suscitò varie risate tra le nostre compagne.

 «Stronzate» risposi.

Carla mi guardò scettica.

«Voglio dire, certo che non sono brava in difesa. Se è per quello faccio schifo anche in attacco. Ma mi stanno bersagliando perché sono ancora incazzate per Zanetti.»

«E meno male che qualcuno se ne è accorto» disse Noemi, riuscendo a imitare non solo le parole, ma anche il tono di disprezzo di Vanini.

«Oh.» Carla sembrava cadere dalle nuvole. «Adesso le sistemo io!» Attaccare il punto debole del nemico era strategia, ma le motivazioni personali in campo le risultavano inaccettabili. Riprendemmo la partita e cominciò a buttarmisi davanti parando tutti i tiri. Combinò un po’ di casino ed era umiliante, ma meglio delle pallonate. In attacco era già aggressiva da prima; segnò diversi punti ma quanto a dolore fisico mise a segno un solo colpo, con mia grande gioia sulla faccia di Penny. Alla fine il suo labbro superiore era ancora più gigantesco.

*

Mentre l’ambiente generale di quella scuola mi piaceva sempre di meno, le lezioni di Vanini mi piacevano sempre di più. Ormai avevo preso gusto al suo metodo e cercavo di applicarlo anche alle altre materie. Man mano che lo facevo mi accorgevo che molti fatti che prima mi sembravano non correlati o addirittura contraddittori non erano altro che due facce della stessa medaglia, finché tutte le nozioni che avevo in testa si ricomposero in una specie di quadro globale. La “logica misteriosa” di Vanini era diventata chiarissima, anzi, era diventata la mia, come se mi avesse prestato i suoi occhi. Mi sentivo come se un rituale misterioso mi avesse reso sua figlia in età adulta. Succede così quando ti vampirizzano avevo pensato, ricordando il mio paragone, e mi ero messa a ridacchiare. In realtà non c'era niente da ridere, ma ancora non lo sapevo.

La mia applicazione del suo metodo non cambiò più di tanto il mio rapporto con le altre materie, dove i professori non richiedevano tanti sforzi di immaginazione ma ci interrogavano in modo meccanico. Invece in storia e filosofia ero passata da "una scema come gli altri ma che almeno dimostra interesse" alla prima della classe. Ormai ragionavo quasi come il professore. Non solo sapevo rispondere alle sue domande, ma avrei potuto direttamente fare lezione al resto della classe con il suo stesso stile.

«Quando Alberto ha detto che gli piacevano le lezioni di Paris credevo che fosse il massimo, ma una cocca di Vanini... secondo me non fai parte della specie umana!» fu il commento di Gabriele.

Un giorno Vanini disse: «Se si potessero fondere Barbier e Di Matteo si avrebbe l'alunno che ogni professore sogna. Solo che, mentre Barbier nelle materie scientifiche è almeno dignitosa, Di Matteo in quelle umanistiche lascia a desiderare.»

«Professore, non è colpa mia se non mi piacciono. E poi all'università farò matematica, chi se ne frega se le mie ricerche saranno carenti dal punto di vista letterario.»

«Ti sbagli di grosso se pensi che il mio cruccio sia che non ti piacciono le mie materie e preferisci matematica, come se fosse una gara tra me e Paris a chi ottiene più applausi. Quello che cerco di fare è insegnarvi a ragionare, una cosa che serve in tutti i campi, comprese le scienze esatte, spero. Scommettiamo che ti faccio una domanda di matematica che richiede conoscenze di quinta elementare e che non riuscirai a rispondere?»

«Be' professore, penso proprio di riuscirci.»

«Bene, allora, se accetti la sfida...» Vanini andò alla lavagna e disegnò varie figure di dimensioni diverse, regolari, irregolari, piene, vuote, poligoni aperti e chiusi.

«Dal punto di vista geometrico, trova l'elemento comune tra tutte queste forme. Provateci tutti.»

Calò il silenzio. La mia mano era già scattata verso l'alto.

«Giù quella mano, Barbier, lo so che lo sai, ma mi sono un po' rotto le palle di sentire sempre la tua voce.» Mi scappò una risatina da oca, come se un bel ragazzo mi avesse fatto un complimento.  «Qualcun altro l'ha capito?»

Devo dire che da quando era risultato chiaro che le domande di Vanini in realtà avevano un senso, visto che di solito io riuscivo a rispondere, i miei compagni ci provavano un po' di più.

«Hanno tutte la stessa area» disse Emanuele.

Vanini si girò a guardarlo da sopra la spalla. Quando non capivamo la sua logica era abbastanza sgradevole, ma le stronzate che si sarebbero potute evitare con un po' di buonsenso lo mandavano addirittura in bestia. «E secondo te come farei a disegnare a mano libera tante figure diverse che hanno esattamente la stessa area?» chiese in tono feroce. «Comunque no, non è questo. Guarda, adesso disegno una linea retta. Area zero.» Disegnò una linea, quindi indietreggiò di un passo, ammirando il suo capolavoro, e inclinò all'indietro la lavagna, come per metterlo in piena luce.

Suonò la campanella. «Provate a pensarci e domani ne parliamo. Barbier, aspetta il più possibile prima di spifferare la soluzione... ci vediamo, ragazzi.»

Come se la classe si stesse suicidando dalla curiosità di capire i suoi ragionamenti. L’unica eccezione era naturalmente Alberto, che appena Vanini era uscito si era alzato e incombeva su di me a braccia conserte, scuro come un nuvolone. Non poteva sopportare che l'avessi battuto in matematica.

Decisi di torturarlo un po'. «Scordatelo. Proprio tu che mi prendi sempre per il culo perché mi piace Vanini... te lo puoi immaginare che farò tutto quello che dice lui!»

«Siamo amici o no?» Questa frase drammatica mi fece scoppiare a ridere, ma aveva un'espressione talmente angosciata che mi arresi.

«Oh... va bene. Le figure fanno tutte parte dello stesso piano geometrico.

Alberto rimase di stucco. «Che stronzata. Certo che fanno parte dello stesso piano, erano sulla lavagna. Dove dovrebbe disegnare, sul pavimento?»

«Sarà ovvio ma non ci hai pensato. Ti ha anche aiutato, hai visto, ha inclinato la lavagna per far vedere che ruotando il piano ruotavano tutte le figure insieme...»

«Ma vaff... » Alberto si allontanò alzando le mani in segno di disperazione e io risi di nuovo salutandolo con la mano.

Quella lezione mi fece venire in mente il libro Flatlandia e decisi di rileggerlo. Trovai che la descrizione del Quadrato trascinato nella terza dimensione dalla Sfera fosse un’ottima analogia per quello che mi era successo, e cominciati a riferirmi al metodo di Vanini come “la terza dimensione”.

Un giorno mi venne un’idea pazzesca. Vanini aveva nominato un certo Metodo del quarto ordine. Forse quarto ordine era inteso come quarta dimensione, cioè voleva dire che esisteva un metodo per salire di un altro livello e avere una visione ancora più globale? Era un’intuizione tirata per i capelli, ma non riuscii a togliermela dalla testa. Di chiederlo a Vanini non se ne parlava, aveva reagito male solo perché mi ero annotata il titolo. Alla prima occasione mi precipitai in biblioteca, ma non avevano il libro, un’edizione universitaria fuori stampa di un certo Guglielmo D’Auria. Dovetti farlo arrivare col prestito interbibliotecario e passarono altri giorni, mentre mi mangiavo le unghie dalla curiosità.


*


In questo mio nuovo stato mentale alcuni avvenimenti passarono in sordina.

Si avvicinava il mio diciottesimo compleanno. Non avevamo abbastanza soldi da affittare un locale, così decisi di invitare a una semplice cena in pizzeria la mia classe e Claudia, Eliana e Monica, le mie amiche del maneggio. Avevo invitato anche Elisa, ma era troppo incasinata. I genitori avevano accettato di malavoglia di farle finire l’anno privatamente, ma l’avevano messa in punizione per la sospensione.

I miei non accennavano a riconciliarsi. Non vedevo mio padre in faccia da mesi e, anche se a pensarci mi sembrava incredibile, mi stavo abituando. Quando al telefono mi chiedeva ironicamente se mi mancava il cavallo gli rispondevo tutta dolce che il pomeriggio facevo la baby sitter per pagarmi le lezioni.

In realtà ci avevo pensato ma non avevo trovato niente, e poi non avevo tempo. Il pochissimo tempo libero che mi restava dopo la maledetta scuola e i maledetti compiti era occupato dalla mia nuova ossessione. In realtà il libro di D’Auria era stato una delusione totale; era scritto in un linguaggio molto specialistico e anche dopo aver cercato i termini nuovi sul dizionario filosofico non afferravo il senso complessivo. Comunque non volevo arrendermi e mi fotocopiai tutte le ottocento maledette pagine.

*


«Il regalo più egoista che si sia mai visto» disse Claudia porgendomi una busta da lettera con un fiocco dorato. Lei, Eliana e Monica si guardavano l'un l'altra un po' incerte, come se non fossero affatto sicure che il regalo mi sarebbe piaciuto. I miei compagni di classe guardavano la busta con curiosità.

La aprii. Erano dieci lezioni al maneggio. Capii che avevano paura che mi offendessi. Invece mi vennero le lacrime agli occhi dalla felicità e le abbracciai. «Ma perché avete detto che è un regalo egoista?»

«Perché te l'abbiamo fatto per vederti un po' più spesso!»

La festa stava andando bene. Dopo molto tempo mi sentivo di nuovo un essere umano; ero andata dalla parrucchiera e i miei capelli erano di nuovo di un biondo uniforme e perfettamente lisci. Non avevo voluto vestirmi in modo troppo elegante per una pizzeria e portavo un vestito corto in diverse sfumature di azzurro su fuseaux e scarpe col tacco basso. Noemi non si metteva di questi problemi: indossava un vestito rosso scollato con uno di quei nuovi Wonderbra che era l'ultima cosa di cui avesse bisogno. Ma la vera sorpresa era stata Carla, con una gonna, un po’ di trucco e i capelli finalmente a posto. Era buffo accorgersi che in realtà con un minimo sforzo Carla e Miriam (sì, era venuta anche lei) erano più carine di Noemi, che al netto di quei tacchi vertiginosi era bassottina con un fisico tarchiato.

«Sei bellissima!» dissi a Carla. «Peccato, avevo invitato anche Andrea Giani ma era occupato!»

Lei mi diede una delle sue pacche amichevoli che rischiavano di rovesciarmi a terra.

All'inizio ero un po' nervosa perché la mia classe e le mie vecchie amiche non mi sembravano molto compatibili, ma alla fine i miei compagni erano a posto e Claudia, Eliana e Monica non erano affatto snob. Al maneggio c'erano un sacco di oche montate ma con loro non avevo certo fatto amicizia.

Anzi, da quell’incontro rischiava di nascere qualcosa di buono.

Carla si sporse verso di me e sussurrò: «Gabriele ci sta provando con Eliana.»

«Lo vedo. Poveraccia, è un’ora che la bombarda con nomi di gruppi ma lei non ne conosce neanche uno.»

«E certo, sono gruppi che suonano nei centri sociali... Eliana non mi sembra il tipo.» Ridemmo.

Carla avvicinò ancora di più il viso al mio e capii che era arrivato il momento che odiavo in ogni nuova amicizia: «Ma hai gli occhi azzurri? Non l’avevo notato!»

Ho gli occhi azzurro scuro, ma avendoli da brava miope un po’ infossati e sempre nascosti dagli occhiali non risaltano per niente. Per quella serata mi ero concessa le lenti a contatto; mi davano un po’ fastidio, quindi le riservavo al maneggio e alle uscite con gli amici. Ma sentir ripetere continuamente che uno dei miei pochi pregi fisici era destinato a restare nascosto mi dava sui nervi.

E c'era qualcos'altro che stava peggiorando il mio umore.

Guardai l'orologio. Mezzanotte e dieci. Il giorno del mio compleanno era ufficialmente finito. Presi la borsetta e mi diressi al telefono a gettoni del locale.

Dovetti contare un sacco di squilli, ma alla fine mio padre rispose, un po' irritato e un po' spaventato per una telefonata a quell'ora. «Ma chi è?»

«Grazie degli auguri per il mio diciottesimo compleanno» dissi, acida.

«Lilly? Tesoro, scusa, me ne sono dimentica...» sbattei giù la cornetta.



Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** E. Enemies ***


Finalmente al maneggio!

Ero in ritardo per la prima lezione perché la nuova scuola era lontanissima e non avevo calcolato bene i tempi, così appena arrivai mi cambiai in fretta e furia. Claudia ed Eliana vennero subito a salutarmi, ma appena mi girai di spalle per prendere dalla borsa un elastico per i capelli scoppiarono a ridere all’unisono.

«Che succede?» chiesi.

«Il tuo sedere!»

 Pensai subito a uno scherzo di Penny e company. Contorcendomi vidi che avevano scritto qualcosa sul retro dei pantaloni da cavallerizza con un pennarello nero a punta larga. Me li tolsi. C’era scritto “Barby equitazione” nella scrittura svolazzante associata alla bambola.

Stavo ribollendo di furia omicida. Rovinarmi il ritorno al maneggio era un bel modo per colpirmi dove fa più male, e mia madre non avrebbe gradito affatto di dovermi ricomprare i pantaloni. «Che fantasia» ringhiai. «E poi 'Barbie' non si scrive così.»

«Milly, giuro che sei l’unica capace di lamentarsi perché lo spelling dell’insulto era sbagliato!» disse Claudia, ancora ridendo.

Visto che non avevo alternative tornai a infilarmi i jeans.

Dopo la lezione mi chiesi come avessero fatto. Non ero così scema da portarmi il borsone con l’attrezzatura da equitazione in palestra, alla portata della magica V D, e, anche se la loro classe era a fianco alla nostra, mi sembrava strano che avessero agito durante la ricreazione. La maggior parte di noi usciva nel cortile interno per fumare o chiacchierare, ma in aula restava sempre qualcuno; per esempio Miriam usciva poco perché usava la ricreazione per ripassare. Per un attimo sospettai di lei, ma per quanto io le fossi antipatica era troppo conformista per aiutare una come Penny. Decisi di chiederle di tenere d’occhio la mia roba.

*

«Consegnate i disegni che vi ho assegnato per casa, li correggerò mentre fate il compito» disse la Colombo.

Aprii la cartellina e diventai rossa. «Oh, cavolo.»

«Che c'è, Barbier?»

«Me li hanno rovinati!» lanciai uno sguardo di rimprovero a Miriam, che mi ignorò così ostentatamente da farmi sospettare di nuovo.

«Baaarbier» belò la stronza in cattedra. Sembrava dire “e io dovrei credere a questa patetica scusa?”

Tirai fuori i disegni e li alzai per farli vedere bene: «Non penserà che questo l'abbia fatto io, vero?» con alcune sapienti aggiunte il cilindro in assonometria era stato trasformato in un organo maschile. La classe scoppiò a ridere.

«Non c'era proprio bisogno di farli vedere a tutti. Avete questa mania infantile delle provocazioni... Va bene, ti hanno fatto uno scherzo, ma io purtroppo se non ho i disegni non te li posso valutare. Che ne dici di provare a farli tutti e tre insieme mentre la classe fa la nuova assonometria? A un altro non lo chiederei ma visto che sei una delle migliori...»

Chiaro, è impossibile dare un voto a una persona se in quel quadrimestre ha fatto diciotto disegni invece che venti! Vaffanculo. Senza perdere tempo a obiettare attaccai direttamente il foglio sul banco e cominciai. Quaranta minuti ad assonometria, forse ce l'avrei fatta.

Tornai a casa di pessimo umore. Mia madre volle sapere cosa fosse successo e glielo raccontai. Mi disse: «Non preoccuparti, sono ancora pochi mesi. A proposito, mi sto informando sugli altri licei...»

Sul momento non capii di cosa stesse parlando: «Eh?»

«Dobbiamo decidere in che scuola ti trasferirai l'anno prossimo, no?»

«Forse trasferirmi non è una buona idea, dopotutto.»

Mia madre mi guardò basita. Avevo appena finito di parlarle per l'ennesima volta di teppistelli che mi prendevano di mira e professori stronzi!

«Non avrai paura perché è l'anno della maturità, vero? Sei brava, te la caverai.»

Me n'ero completamente dimenticata della maturità.

Non potevo spiegare a mia madre che mi servivano le lezioni di Vanini perché ero a caccia della quarta dimensione. Mi arrangiai alla meglio dicendole che le sue lezioni erano così interessanti che quasi quasi valeva la pena di sopportare tutto.

Mia madre non fu per niente contenta. Era chiaro che in quella scuola rischiavo. Soprattutto era rimasta sconvolta dalla faccenda della droga. E mio padre non migliorava la situazione, rinfacciandole all’infinito di avermi trascinato in quel posto.

In effetti neanch'io ero entusiasta di sorbirmi un altro anno di Paris e Colombo, e anche di Penny, visto che rischiava di farsi bocciare. Dovevo trovare una soluzione, ma come al solito non avevo tempo né di pensare né di fare nient'altro, avrei dovuto passare tutta la serata a fare i compiti.

Fissai con odio gli appunti di fisica.

Be’, che l’avevo imparato a fare il metodo di Vanini se poi non ne approfittavo?

Cercai di ricreare quello stato mentale. La teoria si articolò in una serie di passaggi logici e in venti minuti l'avevo memorizzata.

*

«Muori, zoccola!» Salto. «Vai, tesoro, adesso li stendiamo tutti! Fottiti, Paris!» Grendel saltò, impeccabile. Il ritorno al maneggio era stato liberatorio e lo stavo festeggiando come si conviene ad una raffinata amazzone di buona famiglia. Avevo rinominato ogni ostacolo come uno dei miei prof, e ad ogni salto avevo davvero la sensazione di rimetterli al loro posto. «Vaffanculo, Vanini!» A lui un insulto più leggero perché era bravo, ma fondamentalmente ero incazzata pure con lui, perché mi metteva davanti al dilemma di passare un altro anno di merda oppure rinunciare a trovare la via per la quarta dimensione.

*

Vanini quando vide mia madre all'ora di ricevimento mi parve leggermente seccato. Forse pensava che fosse venuta per crogiolarsi nei complimenti per la mia bravura, ma non era così.

Lei cominciò a parlare di tutti i problemi che avevo avuto a scuola, cosa del tutto inutile perché Vanini ne era già al corrente.

«La questione della droga è stata del tutto chiarita, se in futuro Milena starà alla larga da quei ragazzi sono sicuro che andrà tutto bene.»

«Certo che è strano» me ne uscii «prediche infinite per insegnarci a non emarginare chi ha qualche problema, poi alla prima prova pratica salta fuori che se solo ti avvicini sei diventato un lebbroso pure tu...»

«Brava, Barbier, mettiti in testa di salvare i drogati e sei a posto» disse Vanini, non con il suo solito tono sarcastico ma con una punta di affettuosa commiserazione. «Purché non sia Zanetti, ti assicuro che è irredimibile.» Sorrise. Il suo sorriso era un po' inquietante. Scopriva di più i canini che gli incisivi, faceva pensare a un lupo.

Arrossii. «Non voglio salvare nessuno, ma il professor Paris mi ha accusato solo perché ci ho scambiato due frasi in tutto!»

«Il mio collega era seccato e gli è sfuggita una battuta infelice, sono sicuro che non parlava seriamente.»

Lo guardai incredula. Capivo che non poteva dire quello che pensava del suo collega di fronte a un genitore, ma quella ipocrisia non mi piacque molto.

«Comunque ci siamo allontanati un po' dall'argomento» riprese mia madre. «A parte i problemi con la scuola in sé, Milena non si trova bene con gli altri pro... insomma, in questa sezione. Però a quanto pare apprezza molto le sue lezioni e non vorrebbe rinunciarci. Ci chiedevamo se si potesse fare qualcosa in questo senso, magari l'anno prossimo spostarla in un'altra sezione dove insegna lei?»

«Mmm... nelle altre sezioni le classi sono molto più numerose, temo che la preside non sarebbe d'accordo.»

«Capisco che sia difficile, ma si può almeno tentare?» chiesi. La preside era membro del club “Vanini è Dio”. Impensabile che gli rifiutasse un favore così ridicolo.

«Be’, sì, si potrebbe tentare.»

Da quel giorno cominciai a rompergli le scatole dopo le lezioni chiedendogli cosa avesse detto la preside. Lui non mi rispondeva in modo chiaro “Le ho parlato e ha detto di sì (o di no)”. Diceva: “E' difficile”, “E' un casino” e cose del genere.

Nel frattempo mi applicavo come una pazza alle sue lezioni alla ricerca della via della quarta dimensione, ma niente. Il libro di D’Auria si era rivelato inutile, però pensai che ci dovessero essere dei libri che trattassero quell’argomento. Provai in biblioteca ma non sapevo bene cosa cercare. Tutti i libri di psicologia mi lasciarono delusa. Provai con quelli sull'apprendimento e sulle tecniche didattiche, peggio ancora.

Una volta stavamo chiacchierando in classe e qualcuno disse: «Vanini dice che nell'altra scuola dove insegna...»

Saltai quasi dalla sedia. Senza neanche aspettare la lezione seguente lo bloccai  in corridoio all'ora di ricreazione: «Se la preside non accetta di trasferirmi potrei trasferirmi direttamente nell'altra scuola dove insegna... mi faccio mettere nella sua sezione!»

Mi guardò leggermente incuriosito: «Barbier, il tuo zelo mi commuove. E' lontano...»

«Ma chi se ne...» mi fermai, rendendomi conto che non era il modo di parlare a un professore.

«Ma il problema non è la distanza. E' un liceo classico, anche se sei intelligente non puoi recuperare anni di greco in un'estate.»

Me ne andai, delusa. Mi era sembrata la soluzione perfetta.

*

«Professoressa, oggi non sto bene» dissi alla Gigli. Lei fece un cenno di approvazione e io mi sedetti su una panchina a guardare le altre. Era il giorno peggiore delle mestruazioni.

Vidi che Penny e le sue amiche si sedevano su un'altra panchina, poco distanti da me. Forse a furia di fare le stronze insieme avevano le mestruazioni sincronizzate. Però invece di fissarmi con disprezzo come al solito sembravano quasi spaventate. Non prometteva niente di buono.

Dopo un po' di corsa e riscaldamento la prof cominciò a chiamare per il salto alla cavallina.

«Barbier sta male, allora... Bartez...» cominciò la Gigli, ma si interruppe. Il nome di Elisa era ancora sul registro. «Caccialupi!»

«Assente!»

«Insomma, chi fa ginnastica oggi? Costa!»

Carla prese la rincorsa e saltò sulla pedana. Le mani scivolarono sulla cavallina e cadde a testa in giù. C’era il materassino, ma perdendo l’appoggio aveva fatto una mezza giravolta e aveva sbattuto la faccia contro la gamba di metallo dell’attrezzo. Quando si rialzò si stava tenendo il naso sanguinante.

Le altre si affollarono intorno a lei offrendo fazzolettini. Stavo per raggiungerle ma un vago sospetto mi fece restare sulla panchina.

«Costa, stai bene? Che diavolo è successo?» chiese la prof.

«È unta» disse Carla, con voce nasale.

La prof si avvicinò alla cavallina, ci passò una mano sopra e si guardò il dito con un gesto significativo.

Mi alzai e mi avventai su Penny. «Adesso basta!» Non era abituata a vedermi reagire in modo aggressivo e rimase sbigottita per un attimo, ma quando provai a girarle i polsi per guardare se aveva le mani sporche oppose resistenza. Le sue amiche cercarono di staccarmi da lei.

«Voi, smettetela immediatamente!» gridò la prof.

«Sono state loro!» gridai. «Sanno che di solito sono la prima!»

Presi la sua borsa e le rovesciai senza tanti complimenti. Insieme a quaderni, astuccio, beauty, merendina e una rivista per tredicenni uscì anche una boccetta di lubrificante. Sceme a portarselo dietro. Ma del resto avevano calcolato che sul materassino a tenermi il naso sanguinante si sarei stata io.

«E così abbiamo risolto il problema con quelle tipe, sicuramente prenderanno una bella sospensione.» disse mia madre quando le raccontai tutto.

«Già, risolto il problema! Con una sospensione lunga proprio prima della maturità c'è una buona probabilità che le boccino, e me le ritroverò qui un altro anno! E poi, ricordati di Zanetti. Anche se se ne vanno ci sarà tutta la loro classe che giura vendetta!» Scoppiai a piangere. Aggredire gli altri mi sconvolgeva quasi più che essere aggredita, e poi ero in piena tempesta ormonale.

Mia madre mi abbracciò. «Non puoi continuare così. Devi trasferirti, non in un'altra sezione ma proprio in un'altra scuola.» Aveva un tono stranamente comprensivo. Forse pensava che avessi una cotta per Vanini.

«Sai che ti dico? Mi sa che hai ragione.» Tirai su col naso. Quel Vanini comunque non aveva intenzione di aiutarmi, mi stava prendendo in giro.


Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** F. Fuga da Alcatraz ***


Alla fine della lezione, mentre gli altri uscivano, notai che Vanini mi guardava. Evidentemente si aspettava che andassi a rompergli le palle come al solito. Io lo ignorai e sistemai la mia roba nello zaino. Stavo per uscire lasciandolo con un palmo di naso, ma mi resi conto che dovevo parlargli, nell'improbabile caso avesse chiesto veramente aiuto alla preside.

«Ah, professore, per quanto riguarda il mio trasferimento...»

«Eh, Barbier, è un casi...»

«Non importa, alla fine ho deciso che è meglio cambiare direttamente scuola. Grazie lo stesso e arrivederci.» Uscii in fretta senza guardarlo in faccia.

Il giorno dopo avevamo di nuovo lezione con lui alle ultime ore. Alla fine mi disse: «Barbier, fermati qualche minuto, ti vorrei parlare.»

Sentii il cuore che accelerava. Da una parte non volevo che insistesse e mi ponesse altri dilemmi, dall'altra ci sarei rimasta male se non gli fosse importato niente del mio trasferimento. Dopotutto in classe ero l'unica che gli desse soddisfazione.

Dopo che gli altri furono usciti, Vanini aprì la finestra e si mise a fumare appoggiato al davanzale. Quando aspirava socchiudeva gli occhi e lo sguardo si faceva vago, come se il fumo gli ispirasse chissà che riflessioni. Sembrava si fosse dimenticato di me. Alla fine chiesi: «Sì?»

«Davvero vuoi andartene?»

Ma va' al diavolo... è un mese che ti chiedo tutti i giorni se hai parlato alla preside...

«Sa bene che mi dispiace, ma...»

«Sarebbe un peccato, hai un grande potenziale e questa scuola può darti molto.»

“Questa scuola” andava tradotto “io”, visto che l'unica cosa che mi davano gli altri professori, a parte la Canè, erano conati di vomito. Paris e la Colombo stavano persino diventando leggermente stronzi con me, nonostante i miei buoni voti.

«Mi pare che ne abbiamo già parlato» risposi con voce venata di sarcasmo.

Vanini buttò la sigaretta fuori dalla finestra e si girò leggermente per guardarmi meglio in faccia, sempre con gli occhi socchiusi ma con uno sguardo intenso. Ebbi quasi paura. Sembrava che volesse dire: abbiamo scherzato, adesso basta con le stronzate e parliamo seriamente. Invece non disse niente, prese la sua valigetta e uscì.

Quella scena mi lasciò un'impressione sgradevole, come se avessi stuzzicato un drago addormentato. Avevo fatto il mio dovere, cioè avvertito Vanini. Sarebbe stato meglio non coinvolgerlo ulteriormente nella faccenda del trasferimento.

*

Uscendo dalla segreteria incrociai Vanini. Istintivamente cercai di non farmi vedere, ma subito provai un senso di fastidio. Perché dovevo nascondermi davanti a lui?

«Giorno, prof!» Mi avviai verso la mia classe, ero già in ritardo. Qualcosa di caldo e forte mi afferrò al polso. Restai raggelata.

Mi girai di scatto e Vanini mi lasciò il polso immediatamente.

«Cosa ci facevi in segreteria?»

«Burocrazia, prof... niente di interessante!»

Il lupo sorrise. «Stavi chiedendo il nulla osta per il trasferimento? Guarda che non c'è bisogno di mentire, come puoi notare il portone non ha le sbarre.»

«Eh già...»

«Come ti dicevo è un peccato.» Mettendomi la mano sulla schiena mi guidò gentilmente verso le macchinette. «La tua relazione su Rousseau era molto ben fatta.»

«Grazie! Adesso dovrei andare a lezio...»

«Chi hai? Paris? Ci parlo io, anche se ti perdi i primi dieci versi del suo ultimo poema epico non succede niente» disse, con una sfumatura di impazienza.

«Temo che peggiorerebbe la situazione.» Avevo l'impressione che i miei successi in storia e filosofia facessero girare le palle a Paris e Colombo, non tanto perché non amavo le loro materie, quanto perché invece di comportarsi come Cesare e fare il triumvirato con loro, Vanini stava imitando gli imperatori della decadenza allevandosi un successore, cioè me.

«Già, me lo immagino.» Vanini fissò un punto al di sopra della mia spalla con quello strano sguardo concentrato. Quindi distese le sopracciglia che teneva quasi sempre aggrottate e cercò di sorridere in modo un po' meno lupesco. Notai che con quell'espressione quasi rilassata gli angoli degli occhi si voltavano leggermente all'insù. «Quando si hanno le potenzialità per raggiungere qualcosa di grande si deve imparare a lottare, perché maggiore è l'obiettivo maggiori saranno gli ostacoli. Io ti consiglio di non badare a certe meschinità. Alla tua età sembrano importanti, ma quando lascerai la scuola vedrai ben altro.» Mi diede un colpetto sul braccio. «E non raccontare agli altri che faccio prediche da professore saggio, che mi rovini la reputazione.» Se ne andò senza prendere il caffè. Io ritrovandomi da sola come una scema davanti alle macchinette automaticamente inserii delle monete e presi una barretta di cioccolato.

«Barbier, ti davamo per dispersa.» Era Paris, affacciato alla porta della nostra classe. «Fa piacere vedere che ti sei semplicemente presa venti minuti per fare uno spuntino!»

A me non importava un accidente della sua rabbia, comunque notai che Vanini non si era disturbato a giustificarmi. «Ho avuto un calo di zuccheri, professore, stavo per svenire!» Lo seguii in classe pensando a tutt'altro. Chissà se con quel discorso sul raggiungere qualcosa di grande Vanini voleva alludere alla strada per la quarta dimensione. Dovevo ripensarci daccapo? No, non dovevo. Se Vanini ci avesse tenuto davvero così tanto avrebbe parlato con la preside da un pezzo.

*

«Elisa!»

La nostra ex compagna era venuta a trovarci. La circondammo, abbracci, baci, ecc.

Paris, che in quel momento era in classe con noi, commentò: «Certo è facile scappare davanti alla prima difficoltà.»

Elisa gli lanciò uno sguardo di puro disprezzo, come per dire “Non sono più costretta a sopportarti”. E in effetti tra i due mi sembrava Elisa quella più saggia. Non capivo perché mai uno dovesse sopportare un branco di professori deficienti solo per temprarsi il carattere. Certo se ci fosse stato qualche motivo serio, tipo la quarta dimensione...

«Com'è la nuova scuola? Mi voglio trasferire anch'io!» Le chiesi.

«Be’, meglio di questa. Non è che ci vuole molto, eh!» Suonò la campanella della ricreazione. «Andiamo alle macchinette così ti racconto.»

Mentre mangiavamo le nostre barrette di cioccolato Elisa mi parlò della nuova scuola. Improvvisamente si interruppe, fissando un punto al di sopra della mia spalla. Disse: «Vanini ci sta guardando.»

Non volevo girarmi, così dissi: «E' normale, no? Ti rivede per la prima volta dopo il trasferimento.»

«No, aveva una faccia strana.» Rabbrividì. Vanini normale era già un problema, ma Vanini che ti guarda in modo strano... roba da chiamare il 113. Suonò la campanella di fine ricreazione.

«Adesso devo andare. Sei vuoi sapere altro sulla mia scuola chiamami pure!»

Avevo un brutto presentimento. Mi diressi verso la classe il più in fretta possibile ma Vanini mi sbarrò la strada. «E' il caso di parlare.»

«Sono in ritardo, e l'altra volta il professore non l'ha presa bene. Tra l'altro lei aveva detto che mi avrebbe giustificato, ma...» il mio tono di rimprovero si perse nel nulla.

Tutti gli altri erano rientrati in classe. Il corridoio deserto mi sembrò silenzioso in modo innaturale.

«Sai che c'è, Barbier?» sorrideva, non solo scoprendo di più i canini, ma scoprendo uno dei canini più dell'altro. «Non voglio che tu te ne vada.»

Quell'indefinibile aura di carisma che faceva venir voglia agli altri professori di creare triumvirati, e che gli procurava il rispetto della classe nonostante le sue lezioni fossero giudicate più o meno inutili, sembrava essersi concentrata come un raggio su di me. Non era una bella sensazione. Feci un passo indietro e non dissi nulla. Qualunque risposta sarebbe suonata valida e ragionevole quanto lo starnuto di una mosca.

Mi accorsi che il silenzio non era un'alternativa migliore, visto che ero costretta a sostenere il suo sguardo rischiando un'ustione di terzo grado.

«Mmm, professore, sono molto lusingata ma...» non riuscivo a trovare niente da aggiungere dopo quel “ma”.

Vanini avanzò di un passo e io indietreggiai di nuovo. Mi ritrovai con le spalle alle macchinette e non potei allontanarmi quando fece un altro passo in avanti. Adesso era davvero troppo vicino. Sentivo il suo odore, che non era una di quelle improbabili miscele di muschio, assenzio e non so cosa, ma un semplicissimo profumo di sapone con appena una traccia di sigaretta.

Dovevo avere un'espressione sgomenta perché disse in tono tagliente: «Non fare quella faccia, non sto per strapparti i vestiti.» Che era la frase giusta per mettermi a mio agio. Persi completamente la bussola e chiesi in tono rauco: «Allora cosa vuole?» come se avessi davvero pensato qualcosa del genere.

Non rispose e per un attimo pensai veramente che mi avrebbe baciato, non per motivi che avessero qualcosa a che fare con l'amore o il sesso, ma semplicemente per polverizzarmi il cervello e poi muovermi con la sua volontà, come una marionetta.

Sorrise inclinando gli occhi e fu come se avesse spento il generatore di energia. Il calore bruciante nei suoi occhi marrone scuro si ridusse al piacevole tepore di un caminetto, che ti riscalda e ti fa sentire al sicuro. «Volevo solo mettere in chiaro che dico sul serio sul fatto che non voglio che tu te ne vada, e ti assicuro che nella mia carriera non mi è successo molto spesso. Magari hai pensato che lo dicessi per dovere.»

«No, ehm, non l'ho pensato.» feci il gesto di spostarmi da lì ma Vanini mi bloccava la via.

«Allora mi credi, Milly? Prometti che rifletterai su quello che ti ho detto?»

Da quando in qua mi chiavava Milly? E cosa diavolo ci faceva una ciocca dei miei capelli nella sua mano?

«Sì, certo, ci penserò.» Pur di farlo levare da lì avrei promesso anche di farmi suora.

Dopo questa frase il mio cervello andò in tilt per qualche minuto. La cosa seguente che ricordo è che ero seduta a terra, sempre con la schiena appoggiata alle macchinette, Vanini era sparito e invece davanti a me c'erano due gambe lunghe in un paio di jeans a campana. Sollevai lo sguardo e vidi la zoccola artistica.

Devo essere in ritardo di venti minuti. Adesso mi fa nera.

«Barbier, hai avuto un altro calo di zuccheri?»

Mi stava prendendo per il culo ma era meno acida di quello che mi sarei aspettata. Mi alzai e la guardai in faccia. Sotto i chili di mascara mi parve di vedere uno sguardo vagamente comprensivo. «Non fa niente. Qualche volta succede anche a me, sai... dev'essere l'arrivo del caldo.» Il tono era ironico ma anche un po' complice. Tornammo in classe.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Seconda parte: V Liceo Scientifico ***


Il giorno dopo sarebbe iniziato il nuovo anno scolastico, ma prima dovevo risolvere un problema fondamentale.

Dovevo sistemare quei capelli.

Prima li portavo lunghi e biondi con la riga in mezzo, ma, dimagrita com’ero e con le occhiaie perenni, mi davano un’aria da vergine martire che non mi piaceva per niente. Così avevo pensato a un caschetto corvino anni Venti, ma quella parrucchiera ritardata invece di farmi una frangia netta aveva scalato i capelli ai lati del viso, in un taglio completamente fuori moda. Ero sexy come San Francesco. Con gli occhiali poi ero inguardabile, il ritratto della sfiga.

«Questo è anni Sessanta. Non avrei mai creduto che una parrucchiera non conoscesse i diversi stili» mi ero lamentata con mia madre.

Lei, come sempre quando i miei riferimenti culturali portavano a errori e brutte figure, invece di sostenermi aveva rincarato la dose. «Avresti dovuto darle un esempio concreto.»

«Tipo Louise Brooks?» avevo chiesto, sarcastica.

Lei si era messa a contare sulla punta delle dita: «Valentina di Crepax. La ragazzina in Léon...»

«Ok, ok, ho capito. Dovrò andare da un’altra parrucchiera a farmeli sistemare» avevo aggiunto, con una punta di malignità. Le spese extra non erano mai benvenute.

«Dovrebbe tagliarteli cortissimi.»

Aveva ragione. Ero sola con la mia spazzola e il mio phon a rimediare a quel disastro.

Li lavai e li asciugai girando le punte in fuori. Non male, ma faceva un po' troppo brava scolaretta. Scompigliai i capelli e fissai il tutto col gel perché non mi ricadessero a scodella. Il risultato finale, a parte il colore, ricordava un po’ Chloe nelle prime stagioni di Smallville. C'era un piccolo problema: a Smallville mancavano ancora un bel po' di anni. Allora quella pettinatura non era di moda. Sperai che sarebbe passata per un mio gusto eccentrico.

Poi dovevo portare le lenti a contatto perché con gli occhiali ero proprio stramba. Notai per la prima volta che il mio sguardo aveva preso una strana luce, quasi febbricitante. Col nuovo taglio e quello sguardo invece di una vergine martire sembravo una tossica. Se avessi avuto quella faccia ai tempi di Zanetti non mi avrebbe creduto nessuno.

Ma forse non è una bella cosa raccontare la scena con Vanini e poi staccare su un dibattito da parrucchiere. In quale scuola mi sarei presentata col nuovo taglio? Insomma, il mio prof era riuscito a fregarmi o no?

Be’, sì e no. Più sì che no.

Mi rendevo conto benissimo di quello che aveva fatto Vanini, compreso il lato squallido. Eppure quell'episodio aveva altre implicazioni. Aveva fatto di tutto per trattenermi, e il significato era... non voleva che me ne andassi.

Ero abituata a considerare la mia intelligenza come qualcosa che mi avvantaggiava a scuola, ma ero anche arrivata alla conclusione che nei rapporti umani fosse meglio non esibirla troppo. Persino mia madre, anche se mi voleva bene ed era contenta dei miei successi scolastici, se astrattamente avesse potuto scegliersi una figlia non avrebbe mai scelto me, l’avevo capito già alle elementari. Mio padre non se ne preoccupava, dava per scontato che avendo il suo DNA andassi bene a scuola, e nella sua testa si immaginava anche che fossi una vincente nella vita sociale. E lasciamo perdere i ragazzi. Non ero abituata all'idea che qualcuno mi volesse per la mia intelligenza, tanto meno un tipo brillante e un po’ stronzo come Vanini, inutilmente corteggiato dai suoi colleghi più mentecatti (la Canè non se lo filava, anzi, sembrava trovarlo antipatico.)

Ma a parte la mia vanità solleticata, c'era la sindrome di Flatlandia. Ormai ero legata a lui per quello che mi aveva insegnato, si sentiva anche lui legato a me? La risposta sembrava positiva. Se aveva usato un metodo del genere... qualcuno avrebbe potuto vederlo mentre mi accarezzava i capelli col naso a un palmo dal mio. Mi correggo: qualcuno l'aveva visto. La Colombo. Se l'avesse visto qualcuno che lo odiava, metti Paris, avrebbe potuto passare dei guai. (Paris lo corteggiava ma lo odiava, era un rapporto molto Mozart e Salieri.)

Non che quella scena mi fosse piaciuta. Quella sensazione di essere la sua figlia spirituale si era trasformata prendendo una tinta morbosa. Il paragone col vampiro sembrava più che mai adatto.

Morbosità o no, avevo deciso per un altro anno di vampirismo.

*

Misi le mani sui fianchi: «Ohhh... è uno scherzo, vero? Ditemi che è uno scherzo!»

Tra bocciature e trasferimenti eravamo rimasti in pochi, così la V B era finita in una specie di sgabuzzino sufficiente a malapena per sei banchi. Il primo banco era letteralmente attaccato alla cattedra. Il professore e il fortunato seduto là si sarebbero guardati in faccia come due commensali ai lati di un tavolo. Su un banco notai lo zaino di Miriam affiancato a quello di un’altra ragazza, ma questa volta essere mollata dalla mia compagna non mi disturbava più di tanto. Quella sistemazione aveva ben altri problemi.

«Non possiamo passare tutta la mattina in questo posto per nove mesi della nostra vita. Facciamo qualcosa! Ci sarà qualche legge sui metri cubi d'aria a persona. Non è che dobbiamo accettare tutta la merda che questa scuola di merda ci tira addosso!»

Alberto sbadigliò. «Milly, puoi aspettare almeno l'intervallo per preparare la rivoluzione? E' veramente troppo presto.»

Entrò un ragazzo sconosciuto. «E' questa la V B?»

«Ed ecco il vincitore del primo premio...» cominciò Alberto, ma senza l'entusiasmo dell'anno precedente.

Risposi un po' spazientita: «Macché, non lo vedi che è uno sgabuzzino dove buttano i banchi vecchi?»

«Però con lui siamo in tredici. Dovranno spostarci per forza, un banco in più non ci sta di sicuro» osservò Alberto.

«Mi dispiace deluderti ma si è trasferita anche Carla. Con lui siamo in dodici.»

«Sei rimasta sola» notò Alberto. «Può sedersi con te.»

Guardai il nuovo arrivato. Sembrava un indefinito groviglio di capelli e vestiti sgualciti.

«Non svenire dall'entusiasmo» mi disse, sarcastico.

Arrossii. «Scusa, sono stata una gran maleducata. Tu non c'entri, sono nera perché ci hanno messo in questo buco. Io sono Milena, ma mi chiamano Milly.»

«Federico. Mi sa che non ci ho fatto un gran guadagno a cambiare scuola.»

«Ti sei trasferito?»

«Non mi trovavo molto bene. In effetti mi hanno bocciato.» Sentimmo un rumore di tacchi ed entrò Noemi. Federico la seguì con lo sguardo. «A parte gli scherzi, non sembravi entusiasta di avermi come compagno di banco. Non ti offendi se mi siedo con lei, vero?»

Noemi lo guardò schifata e disse in tono ipocrita: «Mi dispiace ma ho già una compagna di banco.» Poi ci chiese: «Ma dove sono gli altri?»

«Alle macchinette» rispose Alberto. «Non so perché ma hanno avuto tutti un attacco di claustrofobia. Ma eccoli... uffa, sono con Paris, è già arrivato.»

I banchi migliori, cioè quelli a ben due metri dalla cattedra, erano già stati occupati con zaini e giacche. A me e Federico restò il primo banco, ma almeno non era quello sul lato della cattedra. Quello in faccia al prof era rimasto a Noemi.

Quando ci sedemmo lo sguardo di Paris si incollò alla sua scollatura.

«Caccialupi, quella maglia è inappropriata.»

«Ma professore, l'ho portata per tutto l'anno scorso...» obiettò lei in tono innocente. Si stava divertendo un mondo.

Paris non poteva dire la verità, cioè "Sì, ma l'anno scorso eri nell'ultima fila, quest'anno ho le tue tette proprio sotto il naso." Aveva la fama di misogino, impotente, nonché tormentato da una continua frustrazione sessuale, probabilmente diretta verso il sesso maschile. Non credo ci fossero validi motivi per pensare questo di lui, a parte i modi affettati e l’eleganza. A me pare che essere a disagio di fronte  a una scollatura sia segno di eterosessualità.

«Sarà, ma domani presentati vestita come si deve.» Si alzò e cominciò a declamare col suo tono artificioso: «Quest'anno iniziamo l'analisi matematica. Probabilmente la troverete difficile perché è una materia molto astratta, ma è fondamentale per chi vorrà continuare gli studi in facoltà scientifiche.»

Un insegnante che presenta la sua materia dicendo che probabilmente la odierete e al novanta per cento non vi servirà neanche a niente...  Chinai la testa e me la strinsi tra le mani.

«Barbier, è solo la presentazione. L'analisi ti ha già fatto venire il mal di testa?»

«No professore, mi sono ricordata improvvisamente una cosa, ma sto ascoltando, davvero.»

Sentii dei passi nel corridoio e mi girai per guardare. In quel buco era impensabile chiudere la porta, e, poiché era in un punto di passaggio, almeno avevo la consolazione di vedere Vanini ogni volta che passava, e ogni volta era un'imbarazzante ondata di calore.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** G. Grande inizio ***


Il giorno dopo, come per prendere per il culo Paris, Noemi aveva indossato un sottogiacca a collo alto, aderentissimo e senza reggiseno sotto. Paris la guardò e diventò praticamente strabico. Ci aspettavamo che si mettesse a urlare, invece, in un raro guizzo di buon senso, risolse il problema alzandosi e mettendosi a spiegare alla lavagna, in modo da dare le spalle alla ragazza.

Dopo la spiegazione avanzarono alcuni minuti, così fece qualche domanda a Federico. La notizia che si trattava di un ripetente non sembrò fargli piacere.

«E in matematica andavi molto male?» chiese, nel suo tono falsamente simpatico.

Federico si grattò la criniera. «Normale... veramente avevo voti normali in tutte le materie.»

«Oh? E allora perché non ti hanno ammesso all'esame?» Forse stava sospettando altre storie di droga.

«Ma sì che mi hanno ammesso.»

Un attimo di silenzio. Paris fece la domanda che volevamo fare tutti. «Ti sei fatto bocciare all'esame di maturità? Ma come hai fatto?»

«Mah, quella commissione era strana...»

Lo guardammo increduli.

«E poi, quando ho mandato affanculo il presidente...»

Scoppiammo a ridere. Paris sembrava ancora meno contento di prima.

Anche gli altri professori diedero il benvenuto a Federico secondo il loro particolare stile.

Vanini disse: «Ma guardate quale illustre aggiunta alla nostra classe! Lorenzo!» Ridemmo, perché, a parte l’accento, davvero assomigliava al personaggio di Corrado Guzzanti. In compenso, quando vide Vanini lanciare i dadi, fu Federico a dire a voce alta: «No, non ci credo!»

«La realtà se ne frega di quello che credi tu» rispose Vanini. «Per esempio, se mi avessero detto che Barbier quest'anno si sarebbe presentata con un taglio punk non ci avrei mai creduto.»

La Canè per sentire la sua pronuncia gli chiese di leggere un brano di Oscar Wilde dove doveva interpretare un Lord inglese, tra le nostre risatine scettiche. Lasciando tutti di stucco Federico ci riuscì benissimo. Saltò fuori che quando poteva passava le vacanze a Londra. Ovviamente i suoi amici londinesi non parlavano così, ma l'aveva imparato guardando la televisione.

«Anch'io vado spesso a Londra» intervenne Gabriele. I due si scambiarono rapidamente un po' di impressioni su vari locali, discoteche e negozi alternativi. A dire la verità uno dei locali famosi Federico lo conosceva perché ci aveva lavato i piatti per pagarsi la vacanza.

Nonostante il look e l'atteggiamento da sbandato, Federico era osservatore e dimostrava una certa curiosità intellettuale e senso dell'umorismo. Non mi trovai male come sua compagna di banco.

Anche lui decise generosamente di passare sopra al fatto che non ero sexy come Noemi. Anche se avevo un solo anno meno di lui cominciò a trattarmi come una bimba ingenua e allo stesso tempo farmi delle avance, più per irritarmi che per attrazione nei miei confronti. Il suo argomento preferito era che ero troppo seria e avevo bisogno di sesso per rilassarmi.

«Si vede che vuoi sempre mantenere il controllo, ma anche perdere il controllo non è male. Allenta lo stress.»

«Prova, prova» commentò Noemi dal banco accanto. «Milly ha gusti insospettabili, magari le piacerai anche tu.»

«Cosa intendi dire?» avevo chiesto, in tono un po' più aggressivo del solito.

«Be', ti sei fatta piacere due dei più grandi stronzi della scuola.»

«E chi sarebbe il secondo, scusa?» Era una mossa kamikaze perché pensavo che avrebbe detto il nome di Vanini senza problemi.

«Zanetti» aveva risposto, come a dire che la mia cotta per Vanini era così lampante che stava al primo posto.

E già, come andavano le cose col mio professore preferito?

Non molto bene. Cominciò a dare per scontato che fossi preparata (infatti era vero) e a non interrogarmi neanche. Visto che l'interrogazione era la nostra unica occasione per interagire questo atteggiamento mi dava incredibilmente sui nervi. In compenso aveva preso a salutarmi con quel sorriso dolciastro e condiscendente che si dedica a una persona che ha una cotta senza speranza. Era un po’ poco per compensare il fatto che avevo deciso di passare un altro anno di merda solo per sentire le sue sante parole. E poi come pensava di darmi spunti per la quarta dimensione se non interagivamo? Le sue lezioni da sole non mi facevano più effetto, ormai mi ero impadronita del meccanismo.

Visto che ero rimasta in quello schifo di scuola per le sue insistenze, mi sentivo in diritto di chiedere un po' di attenzione. Durante un'ora buca lo raggiunsi in sala professori. Per fortuna era solo.

«Professore, avrei bisogno di farle delle domande.»

«Di cosa si tratta?»

La quarta dimensione?... Una parola.

«Non è qualcosa di specifico che mi può spiegare adesso in dieci minuti, avrei bisogno di un po' di tempo.»

Vanini abbozzò un sorriso, non il solito da lupo ma uno vero, divertito.

«Barbier, mi stai chiedendo lezioni extra? Guarda che undici in pagella non te lo posso mettere!»

«Be', sono rimasta in questa scuola perché 'poteva darmi tanto' ma in effetti non mi sta dando molto. Sì, mi piacerebbe approfondire.»

«Eh, ci scommetto che ti piacerebbe... » disse, quasi tra sé ma in modo perfettamente udibile. Aveva usato un tono tale che lo guardai oltraggiata, con la bocca serrata e le narici dilatate.

Parve rendersi conto di aver esagerato e aggiunse: «Non posso Barbier, già dicono che sei la mia cocca e altre scemenze. Se la cosa salta fuori come la giustifico? Dico che ti sto dando ripetizioni perché vai male in filosofia?»

Accidenti, che atteggiamento moralista per uno che usava certi metodi!  Era una scusa talmente oscena che rimasi senza parole. «Dicendo la verità?» risposi, ironica. «Per esempio potremmo vederci in biblioteca sotto lo sguardo vigile di Angelina.» Ma capii che le difficoltà pratiche non c'entravano. Figuriamoci se Vanini aveva paura dei pettegolezzi, se fosse rientrato nei suoi progetti didattici sarebbe venuto a scuola nudo.

«Mi dispiace» tagliò corto, tornando ai suoi compiti.

*


Un giorno la Canè, dopo avermi guardato pensierosa, mi disse: «Non avrai preso troppo alla lettera i miei elogi della bellezza gotica? Non ho mica detto che le ragazze mediterranee devono mettersi a dieta, smettere di dormire e scappare quando vedono un raggio di sole!»

Al solito l'aveva detto in modo divertente, ma il significato mi colpì. Quella sera mi spogliai e mi guardai bene allo specchio. Avevo l'aria di chi ha passato un brutto periodo e ha bisogno di una vacanza, anche se in realtà le vacanze erano finite da poco. I capelli neri mi facevano più bianca. Il viso sembrava meno ovale e più triangolare, e i polsi e le spalle sembravano più ossuti. Tra dimagrimento e lenti a contatto gli occhi sembravano molto più grandi, e si vedevano di più anche le occhiaie. Salii sulla bilancia e rimasi a bocca aperta. Ero dimagrita di sette chili.

Non avevo mai usato il correttore, considerandolo un trucco da quarantenni, ma da quel giorno presi quello di mia madre e provai a nascondere un po' le occhiaie. Va bene essere stressati, ma non volevo che compagni e professori facessero battute sul fatto che finalmente ero pronta a interpretare Catherine Earnshaw, soprattutto visto che i più svegli si erano accorti che nella mia tensione c'entrava Vanini. Ma qualcosa mi fece dimenticare completamente la preoccupazione per eventuali prese in giro.

*

«Ah, allora ci sei... con quei capelli stupidi non ti stavo riconoscendo!»

Ero appena uscita dalla scuola dopo una riunione di studio extra per la maturità. Sul momento non avevo capito che quella frase fosse rivolta a me, ma alzando lo sguardo avevo visto Penny che fumava appoggiata al muro. Era con le solite amiche.

«Una bella faccia da culo a non cambiare scuola, dopo che qui dentro hai rovinato la vita a quattro persone.»

Non risposi. Tentare di discutere sarebbe stato inutile. Pensai di tornare dentro, aspettare finché fosse uscito qualcun altro e chiedergli di accompagnarmi, ma, a parte la vigliaccheria, era tardo pomeriggio ed erano rimaste poche persone. Potevo aspettare Paris, la lezione extra era la sua, ma la sola idea di farmi proteggere da lui era ridicola. Magari avrebbe trovato qualche scusa per lasciarmi sola e si sarebbe goduto lo spettacolo da dietro l’angolo.

Le altre possibilità erano gridare litigiosamente sperando che qualcuno venisse a interromperci oppure prepararmi a combattere. Nessuna delle due era il mio forte.

«Hai cambiato faccia ma è sempre una faccia da culo» aggiunse una delle amiche. Immagino fosse il massimo di umorismo che potessi aspettarmi da quel trio.

Nello spiazzo davanti alla scuola passava solo chi doveva entrare nell’edificio, e a quell’ora non c'era nessuno. La prima cosa da fare era allontanarmi da lì e raggiungere un’area un po’ più frequentata; per quanto non fosse il migliore dei quartieri non pensavo che avrebbero osato picchiarmi pubblicamente.

Ma forse non avevano intenzioni serie e volevano solo spaventarmi.

Le ignorai e mi avviai con falsa disinvoltura, ma non funzionò. Le tre mi sbarrarono la strada.

*


«Barbier, che diavolo ti è successo?» chiese Vanini la prima volta che mi vide dopo i giorni di assenza.

«Be', professore, si ricorda di quando mi ha consigliato di stare alla larga da certe compagnie? Ecco, sono certe compagnie che non vogliono stare alla larga da me.» Lo fissai negli occhi per vedere se avesse colto il nesso tra il mio naso rotto e il fatto che fossi rimasta in quella scuola per lui, ma non avevo proprio la stoffa per metterlo in imbarazzo. Lui mi restituì lo sguardo e come al solito era impossibile capire cosa stesse pensando.

«E cosa è successo alle cattive compagnie?»

«Nelle mani della legge. Ormai siamo tutti maggiorenni, non si tratta più di ramanzine e sospensioni.» Nella sua rabbia sulfurea mia madre aveva avuto una grande consolazione: quella di poter denunciare Penny e le altre e di non dover più sperare inutilmente in un'azione di quelle checche (parole sue) dei miei insegnanti.

«Uhm, e a parte la faccia come ti senti?»

Bella domanda. All'inizio ero come anestetizzata dall'incredulità. Tre stronze che ti aspettano per darti una lezione? Non ero abituata a scene del genere nella mia vita, mi sembrava di essere precipitata in un telefilm americano. I ceffoni di Penny mi avevano riportato alla realtà. Dopo che una delle amiche si era presa un calcio sul ginocchio, si erano accorte che anche se ero sola contro tre non ero per forza innocua, così erano passate al sistema scientifico di due che mi tenevano a terra mentre la terza mi prendeva a calci. Mi ero messa a urlare, e finalmente un bidello era uscito  per venire a vedere. Era stato più che altro uno shock psicologico. Per quanto riguardava il dolore fisico lo sapevo affrontare: come tutte le cavallerizze avevo fatto i miei bravi capitomboli. Una volta mi ero anche fratturata.

«Eh, professore, che le devo dire... passerà. Come dice lei bisogna affrontare certe piccole meschinità!»

Dovevo ammettere che la mia decisione di non cambiare scuola era stata un disastro. Vita in un buco e pestaggi. Ma quello che faceva ancora più male era l’umiliazione totale nel mio rapporto con Vanini. Con quel suo modo di infilarci disinvoltamente l'elemento sessuale mi aveva degradato da figlia spirituale a classica alunna con la classica cotta. Infatti anche se la mia opinione su di lui era decisamente peggiorata, dopo la scena dell’anno precedente non potevo fare a meno di vederlo in modo diverso. Avevo addirittura cominciato a riviverla nella mia immaginazione facendola finire con un bacio.

L'anno scolastico era iniziato da poco e in teoria avrei pure potuto trasferirmi, ma l'idea di non vedere più Vanini ormai non era più tra le opzioni praticabili.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** H. Hegel e gelosia ***


«Ho una bella sorpresa per voi» disse Vanini.

Lo guardammo, preoccupati.

Imitò una voce femminile stizzita, forse la madre di qualche alunno: «"Almeno una volta vorremmo delle valutazioni attinenti al programma di storia e filosofia di quest'anno". Bene, oggi c'è un compito in classe di filosofia. Veramente è "interdisciplinare"» pronunciò la parola scandendola bene e facendo una specie di smorfia, come se fosse d'accordo con l'opinione di Noemi che quel termine in fondo veniva usato per coprire delle porcherie.

«Mmm, quindi è filosofia e italiano? O filosofia e storia dell'arte?» chiese Alberto. Avevamo ancora l'incubo del compito sull'interpretazione alchimistica di Botticelli.

«Filosofia e storia dell'arte, che banalità. No, l'interdisciplinarità io la voglio fare con Paris.» si bloccò ostentatamente, come se si fosse accorto di aver detto qualcosa di osceno, e ridacchiammo. In realtà non c'era niente da ridere. Una valutazione incrociata Vanini-Paris era un incubo di nuovo livello.

Scrisse alla lavagna: "Commentate questa affermazione di Friedrich Engels: il calcolo infinitesimale non è altro che l'applicazione delle leggi della dialettica ai rapporti matematici." «Dove naturalmente la dialettica è la dialettica hegeliana» aggiunse a voce. Si accorse che era calato un silenzio gelido e si voltò. «Be', cosa c'è? Vi sembra che vi sto valutando su qualcosa che non abbiamo studiato? State studiando l'analisi matematica, no?»

Un mormorio di assenso.

«E la dialettica di Hegel l'abbiamo appena studiata, o sbaglio? Bene, allora confrontatele. Voglio solo sapere se avete afferrato il concetto fondamentale, quindi non mi serve un trattato. Una pagina sarà più che sufficiente. Avete un'ora e mezza.»

L’idea sembrava fatta apposta per il metodo di Vanini, eppure, anche se avevo chiara la relazione in testa, metterla per iscritto mi creò qualche difficoltà. La parte di Hegel non era un problema, ma i concetti matematici tradotti in termini quotidiani suonavano male.

Comunque scrissi quello che potevo, controllai brevemente eventuali errori e consegnai dopo una mezz'ora. Vanini, senza neanche guardarlo, segnò sul foglio un nove e me lo ridiede. Poi me lo tolse di mano, lesse velocemente, cancellò il nove e scrisse otto. «L'esempio dell'acqua che bolle è abusato e noiosissimo, Barbier. Potevi inventarti qualcosa di più interessante, magari i cambiamenti dell'adolescenza. Non te ne accorgi, cambi di giorno in giorno, poi una mattina ti svegli e puff! Non sei più una bambina ma una donna. La quantità si è trasformata in qualità.» Gli strappai il foglio di mano e mi girai in fretta per non far vedere che ero diventata un peperone.

«Era riferito a te quel discorso?» chiese Federico con uno scetticismo a dir poco offensivo.

«Cosa vuoi che ne sappia di quello che intendeva Vanini. Comunque, e se fosse?»

«Non so com'eri prima, ma adesso non sembri una donna. Sembri un incrocio tra la sopravvissuta di un lager e un ragazzo gay che fa troppo sesso sadomaso.»

Non mi avevano mai fatto un complimento simile, comunque decisi di prenderla come uno scherzo e rispondere a tono: «Non esistono solo le bionde abbronzate con le poppe grandi e un sorriso a trentadue denti. Esiste anche la bellezza gotica. Sei troppo classicista.»

Sorrise perché anche lui apprezzava il linguaggio estroso della Canè. «E poi ti vesti male. Sembra che ti vuoi vestire da collegiale fighetta ma...» si fermò, imbarazzato. Immagino che il seguito fosse “porti robetta da quattro soldi”. I vestiti di buona qualità ce li avevo ancora, ma ero talmente dimagrita che mi stavano male. E le nuove entrate non erano un gran che. Avevamo sempre difficoltà economiche e compravamo vestiti e scarpe non proprio all'ultima moda ai saldi o in negozietti strani.

«Ma cosa?» volevo vedere se avrebbe avuto il coraggio di dirlo.

«Ma non rispecchia la tua vera personalità. Secondo me dentro in realtà sei una ribelle.»

Me l'aveva rigirata talmente bene che risi di cuore.

«Ti porto io in un negozio adatto a te!»

«In tutta sincerità, mio caro Lorenzo, sei l'ultima persona al mondo che prenderei come consulente d'immagine!» Sembrava ancora una palla di vestiti sgualciti.

«Voi due, volete stare zitti?» chiese Vanini, bonario. Al solito avevo finito prima degli altri. Quanto a Federico, non ci aveva neanche provato a trovare il nesso tra analisi e dialettica. Gli altri stavano ancora scrivendo.

Mi immaginai a fare shopping alternativo con quel tipo assurdo. Perché no? Continuavo a fare amicizia più coi maschi che con le femmine, ma non uscivamo mai insieme.


*


Contro ogni aspettativa il negozio dove mi portò Federico mi piacque davvero. C'erano cappelli di tutti i tipi, giacche in stile militare con file di bottoni che non finivano più, gonne di velluto dal taglio asimmetrico, stivali alti tutti laccetti e gancetti. Ovviamente lui si concentrò su body di pizzo e minigonne inguinali.

«Ma dai, solo diecimila lire?» chiesi, alzando una giacca per guardarla.

«Questo potrebbe aiutarti a sembrare veramente una donna» disse Federico tirando fuori da un mucchio una maglia scollata fino all'ombelico. Neanche Noemi avrebbe avuto il coraggio.

«Non ho bisogno di sembrare una donna, lo sono» tagliai corto.

Federico sembrava letteralmente schifato da tanta inconcepibile ingenuità. «Non capisci proprio niente. Devi veramente fare un po' di sesso.»

«E facendo sesso capirò le cose?»

«Dai, provati questa maglia con la giacca sopra. Be', qualcosa di fondamentale lo capiresti di sicuro. Almeno sapresti com'è quando un uomo entra dentro di te e ti sconvolge tutta.»

«Devi credermi sulla parola, l'ultima cosa che mi serve adesso è un uomo che entra dentro di me e mi cambia la visione del mondo» gli risposi da dentro il camerino.

Però, sembrava una stronzata ma la maglia scollata con sopra una severa giacca militare era veramente carina. «Mi passi anche quella gonna lunga di velluto?»

«Guarda che non ti ho portato qui per farti vestire come Rossella O'Hara. Provati questa.»

«Ma che è?» Presi la gonna che mi aveva passato, che sembrava un fazzoletto di raso nero. Un fazzoletto per vampiri. «Non posso andare a scuola vestita così, sei matto?»

«Vedi che non capisci niente? Non esiste solo la scuola. Potresti incontrare Vanini in giro per il quartiere.»

Mi venne un flash di come Vanini mi aveva fregato con due frasette e una mano sui capelli. Forse veramente con la mia famosa intelligenza non capivo un cazzo. Mi arrabbiai talmente che per lanciare la gonna in faccia a Federico scostai un po' troppo la tenda del camerino, anche se ero mezzo nuda.

«E comunque quei mutandoni di cotone fanno schifo» concluse, trionfante.


*


Povero Paris, vedendo che avevo deciso di aderire al club dall'abbigliamento discutibile prese un'espressione di pura sofferenza. Eppure non poteva dirmi niente. Sopra la maglia avevo la giacca militare abbottonata, era chiaro che sotto avevo una cosa scollata ma non si vedeva niente di troppo. Mi piaceva l'effetto, era sexy. All'ora seguente avevamo Vanini, chissà se anche lui avrebbe roteato gli occhi.

Sì, certo, ma per la nostra stupidità.

«Ragazzi, mi avete fatto girare le pa...» Vanini camminava su e giù con le mani dietro la schiena «Mi avete irritato. Se non ci avevate capito niente potevate avere il buon gusto di lasciare il foglio in bianco, che almeno mi sarei risparmiato la fatica di correggere dieci compiti completamente inutili. Era inutile parlare separatamente della dialettica e dell'analisi, il punto era trovare la relazione. O forse dovrei dire trovare una relazione, perché le applicazioni della dialettica di Hegel si possono trovare praticamente dappertutto. Sì, Caccialupi, che c'è? Non sembri d'accordo.»

«È che... prima ci rimprovera perché non ci proviamo neanche, poi dice che facevamo meglio a lasciare il foglio in bianco...»

«Dovete provare a trovare la risposta, non certo a fregarmi. Anche perché non ci riuscite, credo sia superfluo dirlo.»

«Ha detto dieci compiti inutili? Quindi oltre a Milly qualcun altro l'ha fatto bene?» chiese Federico.

«Bene è una parola grossa, però...»

La classe restò col fiato sospeso.

«Di Matteo!»

Alberto sobbalzò.

«Ti esprimi da cani, specialmente per quanto riguarda la filosofia, ma ho avuto la sensazione che ci fosse qualcosa di buono in mezzo a quel guazzabuglio. Forse abbiamo scoperto il modo per vincere il tuo odio per le materie umanistiche, basta trovare un aggancio con le scienze. Magari Guida e Canè potrebbero spiegarti che il linguaggio umano ha una sua struttura logica, proprio come i linguaggi di programmazione dei computer.»

Ridemmo. Io oltre che per la battuta ridevo perché mi immaginavo la scena. Dire a Marianna Canè che la grammatica inglese assomigliava ad un linguaggio di programmazione era oltre qualunque audacia. Si sarebbe di sicuro inventata un nuovo insulto apposta, magari "meccanicista".


*


«E va bene, lo ammetto» annunciai solennemente allo specchio. «Sono gelosa.»

Non c'era nessun'altra spiegazione al fatto che vedere Vanini e la Colombo che prendevano il caffè insieme fosse sufficiente a rovinarmi la giornata. L'avevo guardata con occhio critico, la zoccola artistica, e non potevo negare che fosse proprio carina. Aveva una pelle perfetta, un vaporoso caschetto biondo scuro con le punte sempre arricciate con cura e la bocca piccola col labbro inferiore arrotondato.

Avevo la consolazione che Vanini non sembrava stimarla più di tanto, ma ci pensò Noemi a darmi il colpo di grazia.

Da quando era maggiorenne il suo uomo la portava in un sacco di locali fighi, e chi aveva incontrato una volta? Vanini! E con chi?

«La Colombo?» chiesi, inorridita. Noemi scoppiò a ridere di gusto.

«Quella gattamorta, le piacerebbe! Era Desirée Cavalieri!»

Rita spalancò gli occhi, Miriam disse: «Ma va!» e Gabriele: «Non dire cazzate!»

Noemi mi guardò con intenzione, ma dovetti deluderla.

«E chi sarebbe?» chiesi, tesa. Mi ero aspettata una nostra conoscenza.

«Scusa, dimenticavo che miss Einstein legge solo Focus» rispose lei, con disprezzo.

Appena quella stronza si allontanò chiesi spiegazioni a Rita. Desirée Cavalieri era la figlia di qualche nobilotto e ogni tanto saltava fuori nelle riviste di gossip e nei talk show.

«La figlia? Quanti anni ha?» chiesi, sperando che il mio tono acido passasse per indignazione morale.

«Boh, ventuno, credo.»

Per un mese sprecai la mia misera paghetta in riviste scandalistiche, ma, le rare volte che appariva, Desirée non era certo abbracciata a Vanini. Mi chiesi se davvero non fosse uno scherzo; non credevo che ragazze del genere uscissero coi professori di liceo. Ma il difetto di Noemi semmai era la troppa sincerità, non quello di inventarsi le cose. Forse aveva solo visto una ragazza che somigliava a Desirée. Ma in quel caso doveva comunque avere una ventina d'anni.

Alla faccia. E io che avevo pensato che la Colombo fosse troppo sciocchina per Vanini!

Nell'ultimo anno non ne avevo azzeccata una. Mi sentivo così stupida che stavo seriamente prendendo in considerazione l'idea di chiedere a Federico di darmi lezioni. In senso generale, non sessuale. Ma se fosse stato necessario per rendermi meno idiota non mi sarei neanche tirata indietro davanti all'idea del sesso con una persona che non mi interessava. Dopotutto per continuare il mio percorso di crescita mi ero fatta rompere il naso, non poteva essere peggio! Mi immaginai la faccia di Federico se avessi accettato le sue avance con un argomento del genere.

Restando in argomento, la scena dell'anno prima con Vanini era diventato il mio perenne incubo, un po' perché avrei voluto tornare indietro nel tempo e dargli un calcio nelle palle, un po' perché la rivivevo nelle mie fantasie e assaporavo quell'intimità che al momento non mi era piaciuta per niente. Ma ormai non potevo più rimediare.

Mi buttai sullo studio serio, non quello per la maturità, e sull'abbigliamento alternativo. Ci avevo preso gusto. Mi truccavo anche di più e portavo stivali con i tacchi. Paris mi guardava schifato. Una volta che mi ero messa la gonna lunga di velluto persino il prof di religione mi chiese se credevo di andare a una sfilata. Non me ne fregava niente, avevo troppo poche gioie nella vita per rinunciare a vestirmi in un modo che mi piaceva e non violava nessuna regola scolastica. Solo quando vedevo le ragazze del maneggio mi vestivo semplicemente in jeans e maglietta. Mi facevo addirittura una minuscola coda di cavallo. Ma loro non c'entravano con quella follia che era diventata la mia vita.


Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** I. Intervento paterno ***


“Il che ci porta a considerare la coscienza nella sua possibile articolazione in livelli.”

Era l'unica riga utile del libro, una nuova uscita della facoltà di psicologia. Dopo quella frase cambiava argomento.

«Grazie prof! Concretamente che vuol dire che la coscienza è articolata in livelli?»

A parte quel libro le mie ricerche mi stavano portando in direzioni inattese. Una descrizione che ricordava vagamente quello che era successo a me l'avevo trovata persino nel Golem di Mayerink. Ecco, mi mancava solo di andare a finire nell'esoterismo! Avrò anche potuto paragonare Vanini a un vampiro, ma uno spettro dalla testa di ibis era davvero un po' troppo.

Era un pomeriggio con qualche avvisaglia di primavera e mi ero seduta a leggere nel giardinetto sotto casa. A quell'ora c'erano ancora mamme con bambini e vecchiette coi cani. Coppiette e tipi sinistri sarebbero arrivati più tardi.

Sollevai gli occhi dal libro e mi ritrovai di fronte una visione incredibile: mio padre si avvicinava con un mazzo di fiori in mano. Si guardava intorno con aria smarrita.

«Scusa, conosci per caso una ragazza della tua età che si chiama Milena? Sua madre ha detto che è venuta in questo pa...» mi riconobbe e spalancò gli occhi.

La mia prima reazione fu di rabbia. Era riuscito addirittura a dimenticarsi la mia faccia!

Poi capii che aveva le sue ragioni. Aveva lasciato una ragazza dal viso ovale, con lunghi capelli biondi, occhiali, jeans e scarpe da ginnastica, e si ritrovava una specie di mantide tutt’occhi, col naso rotto, i capelli neri sparati col gel, una gonna con inserti di pizzo che sembrava stracciata e stivali allacciati fino al ginocchio.

«Vedo che cambiare ambiente ti ha fatto bene» disse, in tono duro. Mi girò bruscamente i polsi per vedere il titolo del libro. Coscienza e cambiamento. Chissà cosa si aspettava. Tutto sulla droga. O Histoire d'O.

«Grazie dei fiori. E' un'offerta di pace?»

«È solo per te, non per tua madre. Tra due settimane è il tuo compleanno ma sarò in viaggio per affari, così ho pensato di farti una sorpresa per farmi perdonare per l'anno scorso.»

«Grazie.» Ero davvero commossa. Mio padre non chiedeva scusa quasi mai, era troppo arrogante. «Mi piacerebbe se salissi a casa a prendessimo qualcosa tutti insieme, ma se non vuoi vedere mamma non voglio insistere. Andiamo al bar?»

Lui sprizzava rabbia da tutti i pori. «No, invece mi va benissimo salire e fare due chiacchiere con lei.»

Capii che si era messo in testa che mi fosse successo qualcosa, forse che mi fossi invischiata in cattive compagnie, e ne riteneva responsabile la scarsa sorveglianza di mia madre. Cercai di spiegargli che non era successo niente del genere, ma era come recitare una poesia durante un uragano. Mia madre a sua volta non gradì l'accusa di fregarsene e non sorvegliarmi abbastanza, anche perché aveva sopportato tutto da sola, droga, bullismo, naso rotto ecc. e rispose a tono. E così la festa anticipata per il mio compleanno andò a finire con una litigata talmente furiosa che quasi  quella sulla donna nuda in cucina scompariva. Dopo un'ora di urla mi arresi e uscii.

Quando dal parco vidi mio padre che usciva dal palazzo rientrai, ed andai ad abbracciare mia madre che piangeva.

«Mi... mi dispiace» disse.

«Come se fosse colpa tua, ci mancherebbe altro!»

«No, non capisci... si è preso il tuo diario. Gli ho detto che non ne aveva il diritto, ma mi ha risposto che sei cambiata tantissimo, che solo una stupida come me poteva non accorgersene e che aveva il diritto di sapere cosa stava succedendo a sua figlia.»

«Il diario?» L'idea di mio padre che entrava in camera mia, frugava nei cassetti e si portava via il mio diario segreto aveva un che di ridicolo. Soprattutto considerando che si aspettava sicuramente qualche torbida storia di droga e sesso e invece si sarebbe trovato davanti tutte quelle stronzate su Flatlandia e la quarta dimensione. Non potei fare a meno di ridere. Mi dispiaceva che si fosse preoccupato fino a quel punto, ma avevo provato a spiegargli tutto e non mi aveva ascoltato. Almeno il diario l'avrebbe convinto!

«Davvero non sei arrabbiata?»

«Be' un diario segreto dovrebbe essere privato, ma sai com'è... credo che si annoierà. E' molto filosofico!»

Mia madre mi capì all'istante perché conosceva bene il mio lato “filosofico”. Probabilmente le era anche venuto il dubbio che ci fosse qualcosa di vero nelle preoccupazioni di papà e sapere che il contenuto del mio diario era noioso l'aveva rassicurata. Finimmo per ridere insieme.

Che storia... avevo cambiato testa, avevo cambiato faccia, avevo anche cambiato famiglia perché mio padre si era dileguato e invece mi ritrovavo questa specie di vampiro master. Ero ancora me stessa o ero diventata un'altra persona? Mi vedevo nei panni di Alice: “Vede, signore, io non sono io...” Quando ti vengono dubbi esistenziali di questa portata c'è una sola soluzione: devi fare quello che ti fa sentire veramente te stessa.

«Vai, Grendel, tesoro!»  

*

Le avvisaglie di primavera si rivelarono solo l'ennesima fregatura. Avevo deciso di mandare le mie preoccupazioni al diavolo e di rilassarmi facendomi carina e andando per negozi in centro, ma il mio abbigliamento inadatto stava rovinando tutto. Avevo osato una gonna a pieghe a mezza coscia con le parigine, e mi stavo congelando. Alzai il colletto della mia giacca militare. Per fortuna i capelli erano un po' ricresciuti e mi riparavano il collo.

Mi specchiai in una vetrina. Niente di più sexy di una ragazza col mento affondato nel colletto e il cappello calato fino alle sopracciglia. E poi i miei disturbi mentali stavano peggiorando: c'era un tizio riflesso dietro di me e il mio cervello ci aveva incollato sopra la faccia di Vanini.

«Barbier!»

«Prof!» Mi girai. Capii perché avevo pensato che fosse un'illusione. Indossava un soprabito scuro lungo fino alle caviglie, che non gli avevo mai visto, e quello che spuntava di camicia, pantaloni e scarpe era molto più elegante del solito. In qualche modo quell'abbigliamento gli era più consono. Non sembrava più un tipo eccentrico ma un uomo distinto e attraente, anche se non proprio bello. Ma perché si era vestito così? Pensai che forse aveva un appuntamento con Desirée e mi venne da vomitare. «Dove va di bello?»

«Volevo solo prendere un po' d'aria, ero stufo di stare a casa. Tu stavi andando da qualche parte? Possiamo fare due passi insieme.»

Dunque quello era il suo modo normale di vestirsi. Forse quando veniva a scuola si vestiva in modo più semplice per mimetizzarsi. Se era così ci riusciva in pieno: come una fenice in un pollaio.

Si accese una sigaretta ma non prese la sua solita espressione concentrata, anzi, aveva quell'aria rilassata che a scuola gli si vedeva di rado. Questo mi diede l'impressione che in quel momento mi vedesse come un'amica e non come un'alunna, e mi sentii stranamente tranquilla e beata. Non avevo più freddo. La serata improvvisamente mi sembrava perfetta.

«Sei diventata molto graziosa.»

Be', questo non me l'aspettavo. «Qualcuno ha detto che sembro un gay uscito da un lager o qualcosa del genere.»

Vanini inarcò le sopracciglia, mentre si accendeva un'altra sigaretta. «Chiunque te l'abbia detto non ne capisce molto di donne.»

Certo non come uno che esce con Desirée. «Non ha neanche tutti i torti, sono troppo magra e ho il naso rotto».

«Due cose a cui si può rimediare facilmente, anche se il naso è un po' seccante.» Sorrise inclinando gli occhi.

«Non credo che me lo aggiusterò, mi sentirei stupida.» Me lo toccai. Non era diventato un naso da pugile, aveva una gobbetta ed era appena storto. Mi venne da pensare che avevo spesso studiato le potenzialità estetiche dei miei occhi e della mia bocca ma non avevo mai apprezzato il mio naso dritto.

«Non è che ti stai facendo due tette sesta misura, è comprensibile aggiustarsi un naso rotto. Tra l'altro potresti avere anche problemi di respirazione.»

«Il problema non è che mi vergogno. Ma quando uno sta facendo una cosa importante non si ferma a guardare le cicatrici.» Ero indecisa se andare avanti col discorso. Non volevo sembrare pomposa, ma del resto, se non mi capiva lui... «Se è una cosa molto importante può darsi addirittura che gli faccia piacere tenersi un segno. Se l'immagina un cavaliere alla ricerca del Graal che si prende un colpo di lancia in faccia e appena tornato a casa corre dal chirurgo estetico?»

«Barbier, cosa mi dici mai!» Sobbalzai. L'aveva detto in tono espressivo e realmente sorpreso. «Non avrei mai pensato che nella nostra scuola ci fosse qualcosa o qualcuno che una persona come te potesse considerare il santo Graal. In che sezione è il fortunato?»

Ma che... davvero pensava che stessi parlando di qualche brufoloso di cui mi ero innamorata? Alla faccia dei suoi discorsi! “Questa scuola può darti molto...” “Quando si hanno le potenzialità per qualcosa di grande...”

«Oh oh, scusa, non volevo essere indiscreto.» Fraintendimento totale della mia occhiata assassina. «Ma sta nevicando?» In effetti sul nero del cappotto e dei suoi capelli stavano comparendo dei puntini bianchi.

«Benvenuta primavera!»

*

«Dobbiamo parlare» disse mio padre sbattendo il mio diario sul tavolo della cucina. Al ritorno del suo viaggio d'affari di due settimane si era precipitato dritto da me.

Lo fissai senza rispondere. Alla fine mi chiese: «Che c'è?»

«“Scusa se ho letto il tuo diario segreto, Milly!”»

«Capirai bene che l'ho fatto solo per te. O no?» chiese, spazientito. «Allora, chi cazzo è questo Vanini e come si permette di decidere che scuola deve frequentare mia figlia? Lasciando perdere il pezzo dove l'ha convinta a furia di ferormoni, che gli spacco la faccia!»

Aveva trovato il punto interessante in mezzo a tutte le divagazioni teoriche. Arrossii. Il riassunto di mio padre non suonava molto bene, ma purtroppo era esatto. «Se fossi venuto almeno una volta ai colloqui coi professori lo conosceresti.»

«Stai tranquilla che ho intenzione di conoscerlo» ringhiò.

Ci mancava solo quello, mio padre al ricevimento in versione bomba testosteronica, e Vanini che se lo studiava calmo e aristocratico come sempre.

«Oh? E cosa gli dirai? Non è vietato dire a una studentessa “sei molto brava e se te ne vai mi dispiace.”»

«Sai perché se un professore tocca il sedere a un'alunna lo licenziano? Non è perché se tocchi il sedere a una ragazza quella muore... »

«Eh già, lo sai per esperienza!»

 «...gli insegnanti hanno dei doveri, non si devono approfittare di adolescenti influenzabili per farsi i cazzi loro. Questo Vanini ha approfittato del suo ascendente su di te. Per quanto mi riguarda è come se ti avesse toccato il sedere.»

Ecco da chi avevo preso la mia attitudine al ragionamento filosofico.

«Non hai nessuna prova che abbia ‘usato il suo ascendente’. Ti dirà che mi sono inventata tutto.»

Peggio, non l’avrebbe detto, l’avrebbe insinuato con compatimento, ma le sfumature non erano il punto forte di mio padre.

«L’ho letto sul tuo diario. Che senso ha scrivere balle sul diario segreto?» Distolsi lo sguardo. «Ah, vuoi dire come una specie di fantasia erotica?» Continuai a fissare un punto al di sopra della spalla di mio padre, sentendo le guance che diventavano sempre più calde. Non avrei mai creduto che la scala dell’umiliazione avesse tanti gradini. «Però dici che vi ha visto la professoressa di disegno.»

Come no, la Colombo che testimoniava contro Vanini.

«Su di lei non ci conterei proprio!»

«Vabbè, ho capito, questo diario non ci serve a un cazzo.» Si alzò e cominciò a camminare su e giù con aria pensierosa. «Mi sono informato su questo Vanini: viene da una famiglia importante è lui è una specie di filosofo dilettante che insegna per hobby. Nessun aggancio col mondo degli affari.»

Perché, voleva ridurlo sul lastrico per dargli una lezione? Ma almeno si spiegava come Vanini potesse frequentare Desirée.

Sentimmo la chiave che girava nella serratura e vedendo gli occhi di mio padre che lampeggiavano gli dissi: «Non ti sarai arrabbiato con la mamma, eh? Lei in questo che c'entra?»

«C'entra perché...» alzò la voce proprio mentre mia madre entrava in cucina «...ha un problema che riguarda sua figlia e chiede aiuto al primo stronzo che passa!»

«Chissà perché non ho chiesto aiuto al padre di mia figlia!» urlò lei. «Ma chissà perché!»

Mi venne in mente che mia madre non aveva idea del fatto che Vanini le avesse promesso di aiutarci e poi avesse fatto esattamente il contrario. Quella conversazione sarebbe stata dannatamente sgradevole.

*

Parlando della scala dell’umiliazione, un giorno, mentre eravamo in classe con Vanini, entrò una ragazza che non conoscevo, una bionda carina. L'aria stantia del nostro buco sembrò illuminarsi di una luce soffusa color rosa confetto. Vanini le scoccò il sorriso meno inquietante del suo repertorio e le fece qualche domanda sull'università (filosofia, naturalmente). Una ex alunna molto affezionata che era tornata al liceo a trovare il suo prof preferito.

«Mi ricordo ancora quella relazione sul Risorgimento, veramente, una delle migliori che abbia mai visto...»

La ragazza sorrise modestamente, con gli occhi luminosi come due stelline.

«…anzi, perché non me la vai a prendere? Mi sono venute in mente delle nuove idee sull'argomento e nella tua relazione c'erano molti spunti. In sala professori, nel mio cassetto. Prendi tutte quelle che ci sono, se no ci metti due ore a trovarla.» Le diede le chiavi del cassetto. La ragazza corse via, entusiasta.

Io ero troppo impegnata a vomitare mentalmente per capire bene cosa stesse succedendo. Dio, dovevo avere anch'io quella disgustosa espressione adorante quando stavo intorno a Vanini! Chissà se quando entravo in classe e c'era lui l'aria diventava rosa...

La bionda tornò con un fascio di fogli voluminoso.

«Ecco la mia, professore, l'ho trovata subito!»

«Grazie!» Vanini aumentò i megawatt del sorriso e prese il foglio. «Visto che ci sei, mi separi quelle dove dietro c'è scritto VC da quelle della VB?»

Se Vanini aveva alzato i megawatt del sorriso, la ragazza abbassò istantaneamente i megawatt dell'adorazione. «E se li mettessi in ordine alfabetico, separando le tre classi, saresti veramente gentilissima!»

La ragazza cominciò il lavoro, tra l'altro in piedi perché non c'erano banchi in più. Aveva un'espressione perplessa, come se non avesse capito bene come si era ritrovata con un lavoro palloso che non era certo di sua competenza. In classe si cominciavano a sentire risatine. A me non faceva ridere proprio per niente. La tirata di mio padre sul fatto di toccare il sedere alle alunne mi sembrava più che mai azzeccata.

Federico stava guardando Vanini con quel misto di invidia e compiacimento di un maschio che vede un altro maschio fregare una donna. Gli mollai una gomitata nelle costole, più forte che potevo.

«Ma che ti prende! Sei gelosa? E io cosa c'entro?»

«Gelosa, no, caro, il mio rapporto con Vanini è unico. Cosa vuoi che siano cinque minuti di lavoro in confronto a sette chili di peso e un naso rotto!»

«Non te l’ha mica rotto lui il naso...»

Dopo una decina di minuti finì l'ora e Vanini concesse alla bionda il premio di consolazione di un caffè alle macchinette.

«Vecchio maiale» disse Federico, sempre grondando invidia.

«Te l'ho detto che era uno stronzo» disse Noemi, che, come succedeva spesso negli intervalli tra un'ora e l'altra, si stava rinfrescando il trucco.

«No, non l'hai detto. Quando l'avresti detto?»

«Quando ho parlato del fatto che a Milly piacciono gli stronzi.» In realtà non aveva fatto il nome di Vanini, solo di Zanetti. «Dovresti sentire le storie che mi ha raccontato una mia amica del Newton!»

«E che ne sa la tua amica?» intervenni io. Ormai ero pronta a tutto, anche a sentirmi dire che era l'amante di Vanini.

Veramente no, non proprio a tutto.

Noemi mi guardò come se fossi ritardata. «Che ne sa... è il suo professore di filosofia!»

«Il Newton è un liceo scientifico, Vanini insegna solo qui e in un liceo classico.»

«E chi te l'ha detto?»

«Me l'ha detto lui. Lo saprà, no?»

«Allora ti ha detto una stronzata, e non chiedermi a cosa gli serviva una balla così idiota. Vanini insegna qui e al Newton. Se non ci credi chiedi pure in giro. Lo sanno tutti.»

Mi alzai di scatto, rovesciando la sedia, e corsi in bagno.

Noemi mi trovò che vomitavo inginocchiata davanti al water e mi tenne i capelli. La guardai con gratitudine, non me lo sarei aspettata da lei.

«Sei incinta?» mi chiese, con gli occhi scintillanti.

Le mollai uno schiaffo.

Mi sciacquai la bocca e tornai in classe. Be', colpa mia che facevo amicizia solo coi maschi. Alberto e Federico avevano una faccia preoccupata, ma non potevano seguirmi in bagno.

Appena arrivò la Guida le dissi: «Professoressa, mi sento male, vorrei andare a casa.» Lei mi guardò in faccia e acconsentì subito.

Quando arrivai a casa per fortuna mia madre non c'era. Andai in camera mia e mi buttai sul letto.

Dunque avrei potuto trasferirmi al Newton ma il signore non voleva e si era inventato quella stronzata sul liceo classico! Ma perché? Non mi aveva trattenuto perché mi voleva come alunna, avrebbe potuto avermi come alunna anche al Newton. Risposta tristissima ed evidente: non voleva che  quello schifo di classe già decimata da bocciature e trasferimenti perdesse anche una delle studentesse migliori. Ma a Vanini della scuola non importava un cazzo, lo vedevano tutti, meno che mai poteva importargliene di una classe che tra un anno sarebbe caduta nell'oblio. Quindi, per sacrificarmi sull'altare della classe, quanto gliene fregava di me? Meno di un cazzo?

Avrei preso un chiodo e scritto tutto quello che pensavo di lui sulla carrozzeria di quella merdosa Audi verde. Avrei chiesto a mio padre di pagare qualcuno per massacrarlo di botte. Avrei...

Mia madre mi trovò accovacciata ai piedi del letto che mi tiravo i capelli come una pazza.

Il giorno dopo chiesi a Vanini se davvero insegnasse al Newton. Non che avessi dubbi, ma volevo sapere se si ricordava di avermi mentito. Lui rispose tranquillamente di sì, un po' perplesso. Non si ricordava.


Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Terza parte: verso l'università ***


Bussano.

«Sì, avanti.»

La porta si apre, non più di due dita. «Buongiorno, professore.»

Oh, no. Di nuovo lei.

«Buongiorno. Entri pure, signorina.»

Lei entra.

Sicuro che non oserà protestare per la mia distrazione, mi prendo qualche secondo per riflettere sul perché quella benedetta ragazza mi irriti tanto, nonostante sia ovviamente intelligente e interessata. Dev'essere per la voce civettuola e un po' impostata, che fa pensare al cinema. Quando commenta la lezione, anche in modo pertinente, mi sembra una stonatura, come se Doris Day si mettesse a discutere di Heidegger. Se la vedessi bene in faccia probabilmente sarebbe diverso, infatti è esile come un giunco e ha i capelli scuri, non assomiglia affatto a un'attrice.

«Immagino che avrà delle domande» dico, in tono ironico. Con tutte le domande che fa a lezione non dovrebbe aver bisogno di precipitarsi al ricevimento appena mi rendo disponibile.

«No... cioè, solo una.»

A tu per tu è più impacciata che in aula. Non mi era sembrata un tipo timido, ma probabilmente si è accorta di avermi irritato. «Sto scegliendo la tesi, e mi piacerebbe essere seguita da lei.»

Inarco le sopracciglia. «Temo che dovremo riparlarne dopo l'esame.» Mi alzo e giro intorno alla scrivania. «Per fare la tesi con me bisogna superarlo, e con un buon voto.» Stanco di sentire sempre quella voce senza mai vedere una faccia, mi chino bruscamente verso di lei, invadendo il suo spazio personale. «O pensa che sia scontato solo perché le sue domande sono un po' meno banali di quelle di Crocetti?»

La mia debole vista coglie una rapida visione di due occhi scuri atterriti, un naso un po' lungo e una bocca semiaperta dalla sorpresa, poi la ragazza si allontana altrettanto bruscamente con un passo all'indietro.

Povera piccina, l'ho spaventata.


*


La primavera era finalmente esplosa e tutti saltavano su e giù agitati per la maturità, tranne Federico che aveva già vissuto l'esperienza.

Non me ne fregava niente.

Ero in serio pericolo di perdere altri sette chili tutti in un colpo. Non raccontai a mia madre cosa avevo scoperto, se si fosse incazzata con Vanini sarebbe stato anche peggio perché non potevamo fare niente. Invece finii dal medico. Lei disse che le sembrava una "depressione reattiva" e che se non riuscivo a venirne fuori avrebbe potuto indirizzarmi a uno psichiatra, ma che probabilmente sarebbe passata da sola.

L’idea degli psicofarmaci mi spaventava, così provai a reagire. Soprattutto mi dedicai al maneggio, ma mi sentivo come se una specie di cupola invisibile mi separasse da tutto, persino dai cavalli.

Un giorno Claudia mi trovò che piangevo abbracciata a Grendel e venne dichiarata una riunione d’emergenza al McDonald’s.

Alle mie amiche avevo raccontato una versione semplificata, senza quarto ordine, solo che il mio professore mi aveva fregato. Tra hamburger e patatine si scatenarono proponendo vendette che partivano dai pneumatici squarciati e diventavano via via più assurde, ma in quel momento niente che avesse remotamente a che fare con Vanini poteva farmi ridere.

Però Claudia ci andò vicino.

«Senti questa, l’ho letta in una rivista nei “dieci modi per vendicarsi di un uomo”. Ordinare un camion di ghiaia e farglielo scaricare sotto casa!»

Le altre approvarono schiamazzando. Io immaginavo che Vanini abitasse in qualche palazzo del centro storico, nobile ma un po’ ammuffito, e pensai che in una di quelle viuzze il camion non ci sarebbe neanche entrato. E poi chissà quanto costava la ghiaia.

«No, se devo essere denunciata per danni preferisco qualcosa di più violento!»

Alla fine mi ero un po’ rilassata. Mentre raccoglievamo gli ultimi residui di ketchup con gli ultimi frammenti di patatine, Eliana disse: «È il momento di sfoderare l’arma segreta.» Frugò in borsa e mi porse un libretto dalla copertina grigia.

«Cos’è?»

Lessi il titolo. “Facoltà di Lettere e Filosofia - ordine degli studi”.

Le lanciai uno sguardo così furioso che sobbalzò.

«Vabbè, il tuo prof è un pezzo di merda» disse lei in tutta fretta «ma la filosofia è la tua passione, e mica te lo ritroverai all’università, no? Volevamo farti pensare un po’ al futuro...» concluse debolmente.

Non risposi ma continuai a stringere il libretto fissandolo come se volessi incenerirlo con lo sguardo. In realtà stavo solo facendo uno sforzo per combattere l’impulso di fuga che mi coglieva ogni volta che pensavo a Vanini, ma capivo il senso di quello che dicevano le mie amiche e stavo provando a pensarci freddamente.

Mi accorsi che col mio silenzio la tensione era salita alle stelle.

Cercai di sorridere. «Non sono arrabbiata. Cioè, sì, mi avete fatto incazzare. Però avete ragione lo stesso.»


Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** L. Lettere e filosofia ***


In teoria avevo deciso di seguire il consiglio di Claudia, Eliana e Monica. In pratica, non sapevo bene cosa fare.

Intanto avevo dato buca alla gita scolastica. Una settimana con Vanini, vade retro. E dire che solo un mese prima ero così contenta che fosse lui il nostro accompagnatore!

Quindi decisi di chiedere al nostro medico altre due settimane di malattia dopo la gita, per riflettere in pace. Del resto, se non lo sapeva lei com’ero messa...

Lei accettò senza problemi, così, trascorsi gli ultimi giorni di scuola, ero pronta a ‘pensare al futuro’.

Prima di tutto non ero sicurissima di voler fare filosofia. Era diventata la mia fissazione per via del Metodo, ma c'erano altre materie che mi piacevano altrettanto, come storia e inglese. In quel corso di laurea qualcuno mi avrebbe insegnato il Metodo? A giudicare dalle mie ricerche infruttuose in biblioteca e dall’antichità del libro di D’Auria ne dubitavo. Decisi di fare un giro all’università per vedere come avrei reagito all’atmosfera della facoltà.

Si avvicinava la fine dell’anno scolastico e alcuni studenti distribuivano l’ordine degli studi ai ragazzi interessati. Che stupida, quello che mi aveva dato Eliana non l’avevo neanche guardato! Ne presi un altro e mi sedetti sui gradini della facoltà a sfogliarlo.

Il nome di D’Auria balenò tra le pagine.

‘Professore emerito’.

Balzai in piedi come colpita da una scossa elettrica.

L’autore di Metodo del quarto ordine era ancora vivo e camminava tra noi mortali, addirittura nella nostra università! Forse allora Vanini non si era limitato a studiare il suo libro, forse era stato un suo allievo...

Partenza sbagliata. Vanini avevo deciso di togliermelo dalla testa, dovevo pensare a me.

Mi rivolsi alla studentessa che distribuiva l'ordine degli studi. «I professori emeriti si possono trovare in facoltà?»

«No, sono in pensione. Professore emerito è solo un titolo.»

Mi accorsi che un ragazzo che fumava vicino al banchetto delle informazioni chiacchierando con un amico si era interrotto e mi stava guardando con curiosità. Era bruno con i capelli mossi, un pizzetto curato e occhialetti ovali, decisamente più grande di me. Doveva essere un laureando o un dottorando. Non era bello, a parte gli occhi intelligenti e ironici, ma era la prima volta dai tempi di Zanetti che guardavo coscientemente un ragazzo, così per prolungare questa scintilla di vitalità gli rivolsi la parola: «Mi sono spuntate le antenne?»

«Scusa se ti stavo fissando, ma i liceali in cerca di informazioni di solito vogliono sapere tutt'altro. Posso chiederti chi è il professore emerito che ti interessa?»

«D'Auria.»

«D'Auria?» lui e l’amico si guardarono in faccia. «Cazzo.»

«Cazzo cosa?»

Sembrarono divertiti dal fatto che cercassi D'Auria senza avere idea del personaggio. «Chi è il filosofo, mamma o papà?» chiese l’amico.

«Me ne ha parlato il mio prof di filosofia, se è quello che intendi.»

«Mmm... gusti un po’ antiquati.»

Visto che avevo sperimentato di persona la bontà del Metodo la presi come un’offesa personale. «Scommetto che le sue scoperte sono ancora valide.»

Vedendo la mia faccia corrucciata i due scoppiarono a ridere. «Oh, quell’uomo ha un piede nella fossa ma fa ancora danni! Eccone un’altra che muore dalla voglia di entrare nel suo circolo.»

«Ha un circolo?» chiesi, curiosissima.

«Scordatelo. È una porta stretta come la cruna di un ago, ma a differenza del regno dei cieli non ne vale la pena. Comunque non so se esiste ancora, saranno tutti morti.»

«O in manicomio» aggiunse l’altro.

L’ultima precisazione mi fece alzare le sopracciglia. Avevo il forte sospetto che almeno un membro del circolo fosse ancora vivo e momentaneamente a piede libero.

 «Grazie delle vostre informazioni. Molto interessanti. In effetti avete raddoppiato la mia curiosità.»

Lo studente agitò vagamente le mani come per dire che si arrendeva di fronte alla mia testardaggine.

Mi ritrovai nella mia stanza. Per un attimo pensai seriamente di essermi teletrasportata, tanto ero riuscita a perdermi nei miei pensieri.

Più precisamente, ero impegnata a elaborare una pazza idea...

Perché no? Gli scrivo una lettera. Di telefonare neanche a pensarci, non avrei mai il coraggio. Gli dico che le sue teorie sono molto interessanti e vorrei chiedergli...

Calma, le sue teorie in realtà non le conosci, visto che del suo libro non hai capito neanche l'introduzione.

In realtà non sapevo neanche se quel benedetto metodo del quarto ordine fosse davvero la versione superiore del metodo di Vanini, magari era tutt’altra cosa! E poi, chissà se D’Auria riceveva. Secondo lo studente aveva “un piede nella fossa.” Magari aveva l’Alzheimer. Uffa, avrei dovuto chiedere informazioni più precise! Come al solito mi ero lasciata trascinare dalla parte filosofica e avevo dimenticato i dettagli concreti. Mia madre mi avrebbe di nuovo preso per il culo, se solo le avessi parlato di quella storia, ma non ne avevo la minima intenzione.

Comunque, se aveva l’Alzheimer l’infermiera o chi per lei avrebbe semplicemente cestinato la lettera e non ci avrei perso niente.

Tornando al piano, gli dico che sto studiando filosofia e che vorrei fare la tesi su...

E come pensi di spacciarti per una laureanda in filosofia col tuo bagaglio di conoscenze da quinta liceo?

Pensai a tutti i libri che avevo letto cercando di capirci qualcosa dei metodi di Vanini, molta psicologia e pedagogia ma anche letteratura e filosofia.

Ecco, sto facendo una tesi di psicologia su questi argomenti (elaborare qualcosa di plausibile come titolo e indice dei capitoli, nel caso mi facesse domande). Ho sentito parlare delle sue teorie e credo che darebbero una svolta originale alla mia tesi, purtroppo non essendo del campo il suo libro è troppo tecnico per me, ma se fosse così tremendamente gentile... anche solo da indicarmi i testi di base su cui potrei acquisire le conoscenze per leggerlo, sarei felice di lavorarci da sola...

Quella che era partita come un’idea pazzesca prendeva forma a poco a poco.

Dopo due settimane passate a organizzare le mie letture eterogenee in qualcosa che assomigliava allo scheletro di una tesi, cercai l'indirizzo del professor D'Auria sull'elenco telefonico. Gli scrissi raccontandogli la storia che mi ero preparata. Poi rilessi la lettera e la strappai. Mi tremava la mano e non volevo dare una brutta impressione con la mia calligrafia. La riscrissi.

Contro ogni aspettativa mi chiamò una segretaria fissandomi un appuntamento.


Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** M. Maestro ***


Dopo la grande litigata, mio padre aveva smesso di fare lo stronzo e ci passava di nuovo i soldi, così mi concessi il lusso di comprarmi qualcosa che mi facesse sembrare un po' più adulta. Decisi di mettermi una gonna grigia a trapezio con scarpe coi tacchi alti e punta arrotondata. E anche un Wonderbra. Se addosso a Noemi era superfluo, addosso a me era insufficiente: le mie tette avrebbero avuto bisogno dell'acqua di Lourdes. I capelli non li portavo più neri e acconciati col gel, stavano ricrescendo del mio castano naturale e li raccoglievo ai lati con due forcine per nascondere il brutto taglio. Mi truccai anche con cura, cercando di non calcare troppo la mano.

D'Auria abitava in quel genere di palazzo del centro storico, coi soffitti alti e un vago odore di muffa, che mi ero sempre immaginata come abitazione di Vanini. Suonai il campanello e salii al primo piano.

Mi accolse una signora di mezza età, e dal modo neutro e professionale con cui mi si rivolse capii che non era una parente ma una segretaria o un'assistente. Mi fece entrare in un salotto arredato con mobili antichi, che grazie alle grandi finestre risultava molto più accogliente e luminoso di come mi sarei immaginata. Un signore anziano era seduto su una poltrona e quando entrai si alzò per salutarmi.

Era sugli ottant'anni, molto alto, e la magrezza, il vestito nero e l'aureola di capelli bianchi e svolazzanti ne accentuavano l'altezza facendolo sembrare quasi un gigante. Gli occhi erano ciechi e lattiginosi. Le sopracciglia avevano un disegno ad angolo che gli dava un'aria sprezzante. La combinazione di capelli, sopracciglia ed occhi biancastri che risaltavano sulla carnagione scura dava la strana impressione di guardare un'immagine in negativo.

«Buo... buonasera. Sono Milena Barbier...»

«Si accomodi» disse, con una voce sorprendentemente forte e profonda per quella figura spettrale.

Mi sedetti sul divano di fronte a lui. Notai che all’anulare destro portava un anello uguale a quello di Vanini e aggrottai le sopracciglia.

«La mia filosofia è tutt'altro che popolare e il fatto che ne abbia sentito parlare alla facoltà di psicologia è sbalorditivo. Vorrei sapere chi è il professore che non solo ha il coraggio di nominarmi, ma ha addirittura descritto le mie idee in modo da suscitare l'interesse di qualcuno. Gli sono profondamente grato.» Le ultime parole avevano un tono leggermente ironico.

Lo so che è assurdo: credevo che avrei saputo rispondere a qualunque domanda, ma a questa non ero preparata. Eppure era ovvia. Avevo dato per scontato che D'Auria se ne sarebbe bellamente fregato di come era nato il mio interesse, e invece avrebbe cominciato subito a parlare di se stesso e delle sue idee. Due anni di Vanini mi avevano fatto male.

«A dire la verità non è stato un professore a parlarmene, mi sono imbattuta nel suo libro durante una ricerca bibliografica e ho avuto l'impressione che fosse esattamente quello che mi serviva. Ma perché ci vuole coraggio a nominarla?»

«Be', è ben noto che sono un uccellaccio del malaugurio.» Trovai tranquillizzante che quel tipo mefistofelico conoscesse l'autoironia e sorrisi. Poi ricordai che non poteva vedermi. Avrei potuto risparmiarmi tanta cura nell'abbigliamento. «Tra i miei allievi c'è un'alta percentuale di disturbi psichici» continuò.

Non capivo se stesse scherzando. «Professore, l'unico suo allievo che conosco è benestante, ha un certo fascino, considera il suo lavoro un hobby e passa il tempo libero con una bellissima ragazza dell’alta società.»

Vidi un muscolo contrarsi sulla sua guancia, come se avesse represso una smorfia. Se è per Desirée hai appena guadagnato un punto, pensai. «Un uomo felice» commentò, con pesante ironia.

Solo in quel momento mi colpì come una rivelazione il fatto che Vanini non sembrava affatto una persona felice. Le rare volte che l'avevo visto con un'espressione un po' più distesa avevo pensato: 'Ehi, oggi sembra quasi sereno!' Che razza di innamorata di merda ero, che non me n'ero mai accorta?

«Allora, cosa voleva chiedermi?»

«Le secca se registro?»

«Faccia pure.»

Presi dalla borsa il libro di D'Auria e il registratore. Eravamo seduti nell'angolo lontano dal tavolo quindi dovetti appoggiarlo vicino a me sul divano. Aprii il libro e sfogliai alcune pagine:  «Nell'introduzione parla di...»

«Ma che fa?» urlò D'Auria «Viene da me per parlare del mio lavoro e si presenta col mio libro fotocopiato?»

Mi caddero le fotocopie di mano. Doveva aver riconosciuto il rumore raschiante dei fogli contro la rilegatura a spirale.

«Professore, ma è fuori stampa da secoli!»

«Fuori stampa da secoli, ah! Vedo che ha preso lezioni di diplomazia da Kissinger!»

«Ma non posso sequestrarlo dalla biblioteca all'infinito!» aggiunsi, sperando che la sottintesa lotta contro la bibliotecaria per tenere il suo libro più a lungo possibile lo rabbonisse.

«Le manderò una copia autografata!»

La mia fiducia in quello stupido piano crollò. Come potevo essere convincente parlando di una tesi inventata quando ero così ignorante sulla vita universitaria?

Oltre i diversi tipi di fruscii della carta stampata, evidentemente D'Auria sapeva interpretare anche i silenzi, perché disse in tono più calmo: «Non si lasci intimidire, sono in pensione da tanti anni e spaventare gli studenti è un divertimento che mi mancava troppo.»

«Ah... non si preoccupi, non sono intimidita.» Infatti non lo ero, ero terrorizzata.

Il suono del campanello ci interruppe.

L'assistente andò ad aprire ed io mi sporsi verso la porta per vedere, sperando che non fosse un pacco o qualcosa di altrettanto veloce. Sarei stata più che contenta di rimandare l'incontro finché non avessi elaborato un piano migliore.

Rimasi di sasso vedendo Vanini. Allora non solo era stato allievo di D'Auria secoli fa, ma erano rimasti in contatto! Doveva davvero essere un membro del ‘circolo’.

Devo dire che una volta tanto lui rimase più di sasso di me. «Barbier? Cosa ci fai qui?»

«Un'intervista sul metodo del quarto ordine» risposi, in tono ironico. Era la verità, ma a lui sarebbe suonato come 'non sono fatti tuoi'.

«Se vuoi avere la bontà di aspettare, Leandro, avevo un appuntamento con questa signorina» disse D’Auria.

Quindi erano in confidenza se Vanini si presentava senza telefonare. Il mio prof sembrava seccato dallo sconvolgimento delle naturali gerarchie, e questo era divertente, ma non avevo la minima intenzione di parlare di quell'argomento con lui che prendeva il caffè nella stanza accanto. «Se per lei va bene, professore, posso tornare un'altra volta.» D'Auria fece un cenno affermativo e mi strinse la mano. Raccolsi le mie cose in tutta fretta, uscii e rimasi stupidamente fuori dalla porta. In quei palazzi antichi, con quelle mura spesse e i portoni pesanti, non c'era da pensare che si sentisse qualcosa.

Evidentemente non ero stata l'unica a pormi la questione, perché la porta si riaprì e Vanini mi chiese: «Ancora qui?»

«Guardi che non stavo mica origliando, è che credo di aver dimenticato...» Vanini mi sbatté la porta in faccia. Era ovvio che la mia presenza a casa del suo vecchio professore lo destabilizzava. Finora mi aveva trattato di merda un sacco di volte, ma sempre entro i limiti delle regole sociali. Quel po' di simpatia che avevo provato per lui quando avevo pensato alla sua infelicità svanì in fretta.

Il mio piano di andarmene e rimandare l'intervista non era più applicabile. Aspettai una decina di minuti sperando che Vanini si levasse di torno ma non accadde; alla fine suonai il campanello e l'assistente mi aprì. Vanini era in corridoio e mi vide.

«Veramente, Barbier...»

Lo ignorai ed entrai in fretta nell'appartamento di D'Auria.

«Gliel'avevo detto che avevo dimenticato qualcosa» gli dissi, uscendo dal salotto.

«E cosa avresti dimenticato?» chiese lui, ironico.

«Questo» risposi, alzando il registratore con i tasti play e record ancora abbassati.

Una spacconata. Avrei fatto meglio a non dirglielo. Avrebbe potuto afferrarmi per il braccio, in passato non aveva avuto problemi a farlo, e allora addio cassetta. Ma mi ero rotta le palle di prenderle sempre da quell'uomo. Una volta tanto che riuscivo a metterlo in svantaggio ci tenevo a farglielo sapere.

«Non fare la stupida, dammi quella cass...»

Varcai la soglia dell'appartamento pochi passi avanti a lui e gli chiusi la porta in faccia. Approfittai del vantaggio galoppando giù dalle scale. Sentii la porta dell’appartamento aprirsi, alzai la testa e vidi Vanini che usciva nelle scale e mi inseguiva. «Barbier!»

«Merda!» Uscii dal palazzo e chiusi il pesante portone dietro di me per aumentare il vantaggio.

Ormai non mi avrebbe più inseguito, avrebbe dovuto correre e non sarebbe stato dignitoso, giusto?

No, sbagliato.

Il portone si aprì e Vanini si precipitò dietro di me. Dovevamo essere ridicoli, eravamo vestiti tutti e due in modo abbastanza elegante.  I miei tacchi facevano un rumore infernale sull'acciottolato. Che oltraggio per  il severo Corso Rinascimento!

Con le sue gambe lunghe Vanini stava guadagnando terreno e mi avrebbe raggiunto. Forse voleva  placcarmi come un giocatore di rugby e prendermi la cassetta con la forza.

Vidi alla fermata il tram che aspettava col semaforo rosso. Forse con un ultimo sforzo...

L'autista mi vide correre, si impietosì ed aprì le porte. Per un attimo pensai che avrebbe aspettato anche Vanini, ma il semaforo era scattato, così le richiuse e partì.


*


L'inseguimento di Vanini mi aveva fatto sospettare che la registrazione non contenesse esattamente discorsi di filosofia. Divorata dalla curiosità, salii a casa di gran carriera, entrai in camera mia, chiusi la porta, mi buttai sul letto e accesi il registratore. Riavvolsi il nastro fino al momento in cui ero uscita e cominciai a mordicchiare una penna dal nervosismo.

La voce di D'Auria. "Grazie della pubblicità."

"Prego?"

"Credevo che si fosse imbattuta nel mio nome durante lo studio, ma quando ti ha descritto in modo così espressivo ho capito che eri stato tu a nominarmi. Però non sembrate in buoni rapporti."

"Barbier aveva una cotta per me, e adesso comprensibilmente è seccata. Ma mi ha colto di sorpresa, non credevo che sarebbe arrivata al punto di venire a casa tua."

"Rimpiango più che mai la mia vista perduta. Devi essere diventato bellissimo se le fanciulle vengono da me a discutere tomi di ottocento pagine nella vaga speranza di incontrarti!"

A questo punto una persona normale si sarebbe sentita in imbarazzo. Vanini imbarazzato era un po' una contraddizione in termini, comunque quando rispose, dopo una breve pausa, nella sua voce c'era un pizzico di incertezza.

"Se è venuta per parlare dei tuoi libri non dico che fosse solo una scusa. Barbier è realmente interessata alla materia, anche troppo."

"Ma perché le hai parlato di me? La stai aiutando con la tesi?"

"Ti ha detto che stava facendo la tesi?" Cominciò a bofonchiare e capii che si era acceso una sigaretta. "Fa progressi, solo l'anno scorso era di un'ingenuità sconfortante. Ti ha raccontato balle, è una mia alunna di quinta."

"Leandro, che diamine, dimmi che ho capito male e che non è vero che insegni le mie teorie ai liceali."

Vanini scoppiò a ridere. Era la prima volta che sentivo quel suono. Aveva una nota stridula, come se non fosse stata una manifestazione di divertimento, ma uno sfogo per i momenti di tensione.

"Cosa vuoi che ci capiscano? Insegno giusto un po' di Metodo, non guasta mai."

"Comunque adesso ho la prova definitiva che mi hai mentito."

"A che proposito?"

"Hai sempre detto che volevi insegnare al liceo e non all'università perché seguire i ragazzi giovani è più stimolante. Beh, si vede quanto ti interessa. Trovo grottesco che la tua alunna abbia dovuto inventarsi una storia e intrufolarsi a casa mia per parlare delle mie teorie, quando il suo professore è il massimo esperto dell'argomento dopo di me."

"Non sai quello che dici quando parli di seguire i liceali. Eh già, quando senti la parola 'liceo' ti immagini l'Umberto I di Roma ai tempi della Grande Guerra, col professore di fisica che se la fa sotto quando deve chiamare alla lavagna Enrico Fermi..."

"Eccolo, ora mi tratta da vecchia mummia..."

"E comunque non è vero che me ne frego degli alunni, per Barbier mi sono fatto in quattro."

La penna mi cadde dalla bocca.

"Sì, i risultati si vedono. Davvero, non ho mai capito perché non hai voluto insegnare all'università quando te l'ho proposto."

"Se dopo vent'anni non hai capito perché non insegno all'università vuol dire che non vuoi capire... non so più quante volte te l'ho spiegato." La voce di Vanini cambiò tono, come se stesse perdendo la pazienza.

"Chissà, forse alle tue motivazioni non ci credo." Il vocione prese un'incongrua sfumatura maliziosa. "Qualunque cosa tu ne dica, tua madre ne sarebbe stata orgogliosa. Secondo me avevi paura di essere considerato un epigono."

"Niente affatto" rispose Vanini, seccamente. "E questa da dove arriva? Non mi hai mai trattato come una specie di scimmia che ti imita."

''Non ho mica detto che lo penso io. Ho detto che è quello che pensi tu."

"Stronzate!" gridò Vanini.

Risatona catarrosa. "A quanto pare ho arruffato le penne all'uccellino!"

A questo punto spensi il registratore.

Arruffato le penne all'uccellino? Ma chi parla così? Cominciai a sudare. Mi vennero in mente alcuni particolari. Gli anelli uguali, la smorfia quando avevo nominato Desirée, la frase 'devi essere diventato bellissimo'... Tutti gli maschi che conoscevo avevano un certo ritegno ad usare la parola 'bellezza' riferita ad un altro uomo, persino per scherzo. I miei pensieri si bloccarono per autocensura. Avrei preferito vedermi una maratona di venti ore di tutti gli amplessi tra Vanini e Desirée piuttosto che immaginarmi un solo bacio sulla guancia con Mefistofele.

Riaccesi il registratore, ma i due avevano smesso di parlare e si sentivano solo rumori vaghi. Per la pace del mio spirito mi sforzai di immaginarmi Vanini che fumava incazzato, seduto sul divano, e D'Auria che andava su e giù con i suoi occhi ciechi persi nel vuoto.

Dopo un silenzio decisamente lungo sentii il vocione di D'Auria ingentilito da una nota affettuosa: “Vuoi un goccio?”

“Grazie, magari un'altra volta.”

“Mamma mia come sei permaloso...” si sentì un rumore come se Vanini si fosse spostato bruscamente e avesse urtato una sedia: “No, guarda che non sono proprio in vena!”

A quel punto spensi di nuovo, e definitivamente. La gioia per la caduta dal piedistallo del mio prof si era trasformata in disagio. Mi ero infilata in una storia che non mi riguardava proprio.


*


Una volta superato lo shock mi accorsi che in realtà Vanini mi aveva fregato un'altra volta. Non potevo più tornare da D'Auria a finire il discorso; gli aveva già rivelato che avevo detto una balla sulla tesi, sicuramente l'avrebbe informato anche sul trucco della cassetta. D'Auria non mi sembrava proprio il tipo che dice 'che furba quella ragazza, adesso mi è ancora più simpatica!'

«No, questa volta non te lo permetterò» dissi a voce alta. Se i rapporti personali tra D'Auria e Vanini non erano fatti miei, come studentessa che aveva sopportato di tutto in nome della filosofia avevo i miei diritti. Andai al telefono e chiamai D'Auria.

«Buonasera, professore, sono Milena Barbier.»

«Oh? Ha una bella faccia tosta a chiamarmi! Ha ragione Leandro quando dice che non conosco i giovani d'oggi. Mai mi sarei immaginato che una signorina dalla voce così timida si sognasse di ingannare un cieco lasciandogli un registratore acceso sotto il naso!»

La voce era tonante come quando mi aveva rimproverato a casa sua, ma sotto si sentiva una specie di tremolio. Secondo me stava trattenendo una risata.

«Ma non l'ho fatto apposta, professore! L'arrivo di Lea... di Vanini mi ha scombussolato e me ne sono dimenticata. È vero, ho iniziato ad ascoltare la cassetta perché Vanini non mi parla più e ho pensato che magari avreste parlato della vostra passione comune. Quando mi sono resa conto che il contenuto del discorso era personale ho smesso subito di ascoltare.»

Mi aspettavo che rispondesse: 'E perché dovrei crederle, dopo che mi ha già mentito due volte?' In effetti la mia versione era un po' addomesticata.

Invece disse: «Per la verità anch'io ho avuto un momento di indiscrezione. Quando ho sentito che le porte venivano chiuse con tanta malagrazia ho capito che avevate litigato, così mi sono affacciato alla finestra.» Evidentemente dall'alto dei suoi ottant'anni la differenza d'età tra me e Vanini gli sembrava insignificante e ci vedeva come due giovinastri dal sangue caldo. «Ho sentito che la chiamava, e poi passi di corsa. Non l'avrà mica inseguita?» chiese in tono ridanciano.

«Sì, mi ha inseguito e ho preso il tram al volo. Una scena molto da film.» Approfittando dell'atmosfera rilassata mi azzardai ad aggiungere: «Posso tornare a finire il discorso?»

«No, visto che stavamo parlando di una tesi inesistente.» Dal tono ironico capii che ero perdonata. «Inizieremo un discorso nuovo. Mi porti qualche tema o saggio che ha scritto per Leandro.»


*


Se fino a quel momento mi era sembrato che Vanini in classe mi avesse ignorato, mi ero sbagliata di grosso. Dopo la scena con D'Auria diventai la donna invisibile. Eppure dovevo affrontarlo.

«Professore, mi servirebbe uno dei compiti che ho fatto per lei.»

«Barbier, credo che tu abbia qualcosa di mio. Prima di chiedere sarebbe il caso di compiere un gesto di buona volontà.»

La cassetta non mi serviva più a niente. Di certo non volevo sapere il finale della scena con D'Auria, e a parte tutto avrei potuto semplicemente duplicare la registrazione, ma l'espressione 'qualcosa di mio' mi aveva urtato. Se la cassetta non apparteneva a me allora apparteneva a D'Auria, non certo a Vanini. A casa recuperai la brutta copia di un tema e la corressi. La bella non serviva, tanto avrei dovuto per forza leggere a voce alta.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** N. Normale ***


«La preparazione non è un gran che» disse D'Auria.

Arrossii. Da quando Vanini mi stava ignorando non davo più il massimo con lui, ma mi concentravo sui miei studi personali. Comunque mi aveva messo otto in quel tema, e lui era il più esigente dei nostri professori. D’Auria doveva essere un drago.

«Ma si sentono delle idee e una certa originalità» continuò. «Se mancasse quello non ci sarebbe niente da fare, invece la preparazione si può sempre migliorare con uno studio più approfondito.»

La precisazione mi diede coraggio. «Sì, credo di poter fare di meglio. Quest’anno ho studiato molto per conto mio, ma sono cose al di là del programma e non aveva senso metterle nei temi.»

«Ah, certo, stai scrivendo la tesi» ricordò D’Auria in tono ironico. «Cosa pensavi di fare dopo il liceo?»

«Veramente non ci ho ancora pensato seriamente.»

D'Auria inarcò le sopracciglia con espressione incredula.

«Sono sempre stata brava in tutte le materie senza spiccare particolarmente in nessuna, e negli ultimi due anni francamente ho avuto altri problemi.»

«Hai mai pensato alla Normale di Pisa?»

«So a mala pena cos'è.» Le università più prestigiose non erano esattamente un argomento di conversazione alla nostra tavola.

«Procurati il bando e pensaci, ma non troppo a lungo. Se decidi di tentare devi già cominciare a lavorare sodo. Te ne parlerei io, ma come mi fa delicatamente notare il mio ragazzo sono un relitto d'anteguerra e le mie informazioni sarebbero storie del tempo che fu.»

«Eh?» Non riuscii a frenarmi. Qualunque cosa avessi sospettato, sentire le parole ‘il mio ragazzo’ dalla bocca di D'Auria era sconcertante.

«Sei sorpresa? Ma allora davvero non avevi ascoltato la cassetta?»

Allora non mi aveva creduto. «Solo un pezzo, a un certo punto è diventata veramente molto personale...»

«Capisco, sì. Leandro è ossessionato dalla segretezza. Prima pensava a sua madre, ma adesso che lei non c'è più, non capisco il motivo. Mi pare che oggi la notizia non interesserebbe più a nessuno. Forse è solo l'abitudine.»

«Comunque mi piacerebbe molto sentire storie del tempo che fu. Davvero è stato in classe con Enrico Fermi?»

«Certo che no, non sono così vecchio!» Non capii se fosse una battuta o se il tono offeso fosse sincero. «Me l'ha raccontato mio fratello. Ho una foto della sua classe, la vuoi vedere?»

«Scherza? Certo che la voglio vedere.»

D'Auria uscì dalla stanza e tornò con un cofanetto di legno che sembrava antico.

«Dovrai cercarla tu. Non preoccuparti, non c'è niente di troppo personale.»

Trovai la foto di una classe ma era così piccola che le facce si distinguevano a malapena. Comunque le foto antiche mi avevano sempre affascinato, così approfittai del permesso e ne presi una manciata per guardarle una per una. Immagini bellissime di Roma negli anni Quaranta o Cinquanta... due ragazzi bruni con lo sguardo fiero che dovevano essere D'Auria e suo fratello... Vanini in un'affascinante foto in bianco e nero che ne addolciva i lineamenti e lo rendeva più bello... no, un attimo, non poteva essere lui, c'era quella luminosità sfumata tipica delle foto antiche. La guardai meglio. Il viso era un po' troppo squadrato, il naso più corto e le labbra avevano un disegno diverso. Mi avevano ingannato la pettinatura anni Quaranta, le sopracciglia e soprattutto gli occhi, non ancora sbiaditi ma neri e intensi. Sollevai il viso per guardare il mio ospite. Adesso che lo sapevo mi accorsi della somiglianza con Vanini.

Che stupida, Vanini non era il giovane amante del suo professore, era il figlio! Dovetti premermi le mani sulla bocca per soffocare una risata. Mi uscì comunque uno strano sbuffo, ma forse D'Auria lo prese per uno starnuto represso, mentre la sua aiutante che era venuta a portarci il tè mi guardò con rimprovero.

Continuai ad armeggiare con le foto per avere una scusa per riflettere. Dunque Vanini aveva rifiutato di insegnare all'università per proteggere la madre. Doveva essere anche lei nell'ambiente universitario, probabilmente un'allieva di D'Auria. Certo che il prof che mette incinta una studentessa e poi alleva il figlio illegittimo come membro della sua scuola filosofica sarebbe stata una bella storia anche considerando il famigerato nepotismo dell'ambiente, soprattutto perché all'epoca avere un figlio al di fuori del matrimonio era più grave. E poi mio padre aveva detto che la famiglia di Vanini era in vista.

Chissà se tra quelle foto c'era sua madre. Continuai a frugare ma c'erano poche donne, e nessuna dell'età giusta.

Se fossi stata una studentessa di D'Auria mi sarei innamorata di lui? Sembrava avere un carattere ancora più difficile di Vanini, ma in qualche modo più onesto. Non ce lo vedevo ad usare gli stessi metodi. Mi immaginai mentre camminavo per i corridoi della facoltà di filosofia con indosso una gonna ampia, le scarpine col cinturino, i capelli arricciati e il rossetto rosso che mi faceva la bocca a forma di cuore... dato che la logica conclusione di quella fantasia ero io che partorivo quello stronzo del mio prof, deviai bruscamente il corso dei miei pensieri.

Chissà se l'anello nero era un gioiello di famiglia. No, che stupidaggine, un vecchio gioiello di famiglia in duplice copia. Visto che ormai sapevo il peggio la questione dell'anello era una sciocchezza, così lo chiesi direttamente a D'Auria.

«Lo portano i miei allievi. La storia del nostro circolo è iniziata così tanto tempo fa che vi si possono trovare delle tracce residue di romanticismo.»

Notai che D’Auria lo portava all’anulare destro, mentre Vanini al mignolo. Forse era quello di sua madre e gli stava piccolo, ma non capivo perché non ne avesse ordinato uno per sé. Senza riflettere chiesi: «Chi è l'ultimo che l'ha ricevuto?»

«Ma che strana domanda. Forse aspira ad una copia?»

L’aveva detto in tono ironico ma arrossii, un po’ per il piacere e un po’ per il senso di inadeguatezza. «Solo se riesco a evitare i disturbi psichici» scherzai, per nascondere il mio imbarazzo. «Posso chiederle cosa significa questa battuta? L’ho sentita anche all’università.»

«Diciamo che la ricerca del quarto ordine tende a diventare ossessionante, al punto che qualcuno ne ha risentito a livello di vita quotidiana. Ma non è che a leggere il mio libro si diventi matti, eh. Guardi com’è tranquillo e ragionevole Leandro!»

«La ricerca? Quindi il metodo del quarto ordine in effetti non esiste?»

«Temo di no, e dal suo tono deluso direi che sono intervenuto appena in tempo.» Capii che il mio prof doveva aspettarsi una bella ramanzina. «Quanto a noi, facciamo un patto, cerchi di entrare alla Normale e decida cosa le interessa veramente. Se deciderà per la filosofia potremo riprendere il discorso sulla mia scuola.»


*


I miei compagni si accorsero che era cambiato qualcosa tra me e Vanini ma avevano problemi più importanti a cui pensare, per esempio la maturità. Comunque qualche curiosità l'avevo suscitata. Chiaramente Noemi sospettava che, alla faccia della mia palese mancanza di attrattive, fossimo finiti a letto e lui mi avesse trattato malissimo. E un giorno che Federico era venuto da me per studiare si azzardò a dire: «Comunque tifiamo tutti per te. Sei tu la vera anima gemella di Vanini. Non arrenderti!»

«Ma di che stai parlando? E perché sarei la sua anima gemella?» Vista la stronzaggine del soggetto non ero sicura che fosse un complimento.

«Non solo sei strana, sei strana proprio come lui» disse Federico, in un tono entusiasta che contrastava con le sue parole poco lusinghiere. «Non si capisce niente. Ti giuro che siamo impazziti cercando di capire perché quando hai saputo che si scopa Desirée Cavalieri ti sei solo un po' stranita e invece quando hai saputo che insegna al Newton hai avuto una crisi isterica!»

Non riuscivo a credere di aver sofferto per quella faccenda di Desirée. Mi sembrava che fosse passato un milione di anni. Decisi di cessare le ostilità e, in un momento in cui lo trovai da solo, consegnai la cassetta a Vanini.

«Molto saggio, Barbier, specialmente con la maturità in arrivo.»

Non era la prima volta, ma quel suo modo di interpretare tutte le mie azioni nel modo più squallido possibile mi irritò.

«Professore, ho deciso di provare a entrare alla Normale...» Lui non disse niente ma parve riflettere. Forse sospettava lo zampino di D'Auria. Poi, accorgendosi che i progetti universitari della sua migliore allieva richiedevano un commento, aggiunse: «Buona idea. Volevi aggiungere qualcosa?»

«Solo che si entra per concorso e il voto della maturità è irrilevante.» Girai sui tacchi e uscii dalla sala professori.


*


Diedi la maturità in trance e iniziarono le vacanze. Anche se dopo gli ultimi fatti stavo un po' meglio dal punto di vista psicologico, lo studio per l'ammissione alla Normale mi rese ancora più stanca e tirata. Mio padre quando mi vide si spaventò e mi volle portare una settimana ai tropici. Accettai, a condizione che venisse anche mamma e che cercassero di non litigare. Non l'avevo fatto sperando di farli tornare insieme, semplicemente mi sembrava che dopo tutta quella merda mia madre si meritasse una vacanza.

Mi ammisero alla Normale, e a mente fredda decisi che in realtà non mi interessava studiare nel dettaglio complicati sistemi filosofici, ma che il metodo che avevo imparato da Vanini avrebbe reso le mie analisi più efficaci in qualunque materia avessi scelto. Così scelsi di specializzarmi in studi storici. Quando scrissi la tesi di dottorato ci aggiunsi una prefazione dove spiegavo il mio debito verso la scuola di D'Auria e gli mandai una copia.

Qualche anno dopo mi arrivò un pacchetto con l'anello, senza ulteriori messaggi. Forse pensava che il dono fosse abbastanza eloquente. Dalla misura capii che non ne aveva fatto fare uno nuovo ma mi aveva dato il suo. Il tempo trascorso tra l'invio del mio libro e il dono mi fece pensare che sapesse di non avere molto da vivere e come ultimo gesto gli facesse piacere accogliere nella sua famiglia filosofica un'allieva onoraria. Con il cuore stretto cominciai a tenere d'occhio le notizie dalla facoltà di filosofia della nostra città e, dopo poco tempo, venni a conoscenza della morte del professore emerito e del fatto che sarebbe stato sepolto nella sua città natale, Roma.

Dopo la maturità non avevo più visto Vanini, anche se tornavo a casa spesso per vedere i miei genitori e i miei amici: Federico, Alberto, le ragazze del maneggio... e naturalmente Grendel. La prima cosa che avevo fatto appena avevo cominciato a lavorare era stata prenderlo in fida. Avevo rivisto il resto della classe ai funerali della professoressa Guida, ma Vanini non c'era. Ma non poteva certo mancare a quelli del padre, quindi dovevo prepararmi psicologicamente.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** O. Ora degli addii ***


Eccolo lì.

Dovevo aver sussultato, perché attirai l’attenzione di Vanini. I nostri occhi si incontrarono ma nessuno dei due accennò ad avvicinarsi. In realtà ero imbarazzata; visto il suo rapporto particolare con il defunto non sapevo se fosse il caso di fargli le condoglianze davanti a tutti.

Dopo un veloce cenno di riconoscimento il suo sguardo si fermò sul mio anello. Mi sarebbe piaciuto vederlo restare a bocca aperta, ma la sua faccia restò inespressiva come al solito. Comunque prima di accendersi la sigaretta rimase per un attimo immobile con l'accendino sollevato.

Trattandosi di lui, avrei dovuto accontentarmi.

Distratta da Vanini non mi ero accorta che altre persone si erano avvicinate, circondandomi. Tutti vestiti di nero, tutti concentrati e più o meno pallidi, tutti con l'anello. Per la prima volta dopo anni ricordai le mie fantasie giovanili su Vanini come vampiro.

«Forse anche a lei piacerebbe dire due parole?» chiese uno di loro, guardandomi la mano.

Essendo una cerimonia laica non c'era un celebrante, ma solo i partecipanti che condividevano i loro ricordi sul defunto. Non mi aspettavo quella richiesta, ma dopo anni passati a discutere le mie teorie con interlocutori decisamente esigenti la mia timidezza si era ridimensionata, così accettai e nel mio intervento ripetei quello che avevo scritto nell'introduzione alla tesi, ma con più calore umano.  

Dopo la cerimonia mi avvicinai a Vanini per fargli le condoglianze e lui fui più cordiale di quanto lo fosse mai stato dall'incontro a casa di suo padre. Scambiammo dei convenevoli. A parte l'anello nero alla sua destra, ora aveva anche una fede all'anulare. Desirée? Grazie al cielo non mi interessava più.


Prendo il foglio protocollo dove gli studenti hanno firmato per prenotarsi all'esame. Con la solita sensazione di fastidio per un gesto che mi fa sembrare un vecchio rudere, infilo i miei fondi di bottiglia e avvicino il foglio al viso finché non è a fuoco.

Naturalmente il primo nome della lista è il suo.

E te pareva, come dicono dalle mie parti.

«Doris Day» chiamo.

Mi dispiace non poter vedere le facce degli studenti in attesa, ma noto un certo tramestio nella prima fila. Invece la sagoma di Martinelli, seduto al mio fianco, resta immobile, come se la mia parola fosse vangelo anche quando chiamo le attrici di Hollywood a sostenere l'esame di Filosofia Teoretica.

A volte mi interrogo sui miei criteri nella scelta degli assistenti. Nonostante la mente di prim'ordine quel carattere canino mi infastidisce, e l'idea che si costruisca una carriera accademica facendo il mio nome non è particolarmente piacevole.

Va bene, lo sfizio me lo sono tolto, è ora di cominciare con gli esami.

«Signorina Lina Vanini.»


FINE

*

*

*

Grazie a tutti per avermi seguito! 

Il titolo è tratto dalla canzone di Paolo Conte "Il Maestro".

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4059945