I fari

di aletheiamal
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO I - La donna senza volto ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO II - Dramatis persona ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO III - Homunculus ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO I - La donna senza volto ***


I fari

CAPITOLO I - LA DONNA SENZA VOLTO

Come la sua ombra, l’eco dei suoi passi la seguiva per la strada stretta.
La notte aveva trascinato con sé un'aria umida e appiccicosa, che prima scivolava sulla sua pelle come una lurida carezza, e poi la afferrava, quasi volesse stringerla a morte.
Lei sapeva che una volta uscita da quello stretto vicolo, un piccolo capillare di una città infinita, sarebbe riuscita a respirare meglio.
L’odore nauseante che rimaneva appiccicato alle pareti di quegli alti palazzi avrebbe lasciato posto a quello delle strade principali (smog, gas di scarico ed il dopobarba da quattro soldi usato dagli impiegati), e svoltare ed entrare nel suo cuore pulsante avrebbe significato ritornare nel mondo degli esseri umani, immergersi di nuovo nella fiumana di volti sconosciuti e stanchi, così stanchi dei cittadini che popolavano quell’immensa metropoli.
Nel mezzo del vagabondaggio che era diventata la sua vita a volte sulla metrò la donna tentava di esplorare i volti dei pendolari esausti sulle carrozze, si insinuava tra i loro corpi stanchi cercando disperatamente il loro sguardo.
Il suo non era altro che il misero tentativo di immaginare la moltitudine di storie che si celavano nei loro occhi umidi, nella linea delle spalle stanche, nella mezzaluna triste delle labbra.
Erano uomini fatti di carne e spirito, la loro tristezza e il loro sconforto li rendevano infelici ed umani, li avvicinavano l’uno all'altro.
Li invidiava tutti.
Quando le capitava di scorgere il proprio riflesso nello specchio riusciva a vedere solo l'abbozzo di un essere umano: la massa grassa, la cartilagine, le ossa fragili, i tessuti della pelle la ricoprivano come fossero un sudario, non c’era altro che materia.
Un corpo sconsacrato.
Nessuno aveva mai alzato lo sguardo verso di lei e nel movimento frenetico di quella vita c’erano momenti in cui si domandava se qualcuno potesse veramente vederla.
Forse dopo tutti quegli anni anche lei era diventata uno spirito tormentato invisibile agli occhi dei vivi, pronto ad infestare castelli e grandi roccaforti, ma relegato ad una carrozza umida e sporca.
Eppure lei guardava, studiava, analizzava quasi ossessivamente, i suoi occhi erano sempre spalancati come due fari di un’automobile in una strada buia.
Ma nessuno le riservava la stessa cortesia e rimaneva una profilo immobile, un osservatore tormentato.
Voleva urlare fino a strapparsi le corde vocali.
Non vedi che in questo momento io ti sto vedendo?
Ma la donna rimaneva in silenzio e i pendolari di quella metropoli restavano rinchiusi nella loro personale tragedia.

***
Aveva comprato quelle scarpe poche settimane prima.
Erano due stivaletti di cuoio che certamente potevano sembrare insulsi a prima vista, ma dal suono così distinto.
Li aveva intravisti in una vetrina anonima di un negozio vicino al proprio appartamento e, se la prima volta non vi aveva fatto troppo caso, la seconda invece ne era rimasta abbagliata.
Il destino aveva voluto che durante una mattinata grigia si scontrasse con una donna che stava uscendo da quello stesso negozio: non ricordava molto di lei se non l’impressione lasciata sul proprio bulbo oculare di un blando tailleur ed una ricrescita scura, e poi li aveva visti, no…
No, non li aveva visti.
Li aveva sentiti.
Tac, tac, tac.
Il rumore di quelle scarpette così insignificanti, il sordo rimbombo di un tacchetto di cuoio contro il cemento del marciapiede, la sagoma della signora che si allontanava sempre più lontano e svaniva nel traffico della strada congestionata, ma che rimaneva così presente, così viva, il tac tac tac.
Era stato un suono chiaro, improvviso, come quello di un campanellino in mano ad un chierichetto.
Una volta ritornata nel suo appartamento non era riuscita a pensare ad altro se non a quella che ormai nella sua mente era diventata un’orchestra, una cacofonia di suoni, l’impossibilità di ignorare quell’essere umano.
Il giorno dopo era entrata nel piccolo negozio di calzature e sacrificando i guadagni dell’ultimo mese aveva comprato quegli stivaletti.

Ed ora, in quel vicolo buio, camminava.

***
Nei momenti di solitudine che permeavano la sua esistenza, nei lunghi viaggi che la riportavano a casa, si chiedeva che cosa una persona normale avrebbe fatto al posto suo.

Il silenzio gravava sempre su di lei quasi fosse un macigno ed ormai aveva imparato a trascinarlo con sé, esausta, Sisifo reincarnato.
In quegli istanti di sconforto un groviglio di parole le scendeva per la gola e le artigliava il petto come un animale selvatico, facendosi spazio tra le sue membra.
Se solo avesse avuto più coraggio (o più amor proprio) lo avrebbe detto, avrebbe dato voce al suo desiderio.
Ditemi che io esisto.
Ma alla fine rimaneva in silenzio, sulla lingua solo bile e saliva, acide come la sensazione che sentiva nel petto.
In piedi nel vagone, invisa a se stessa, avrebbe voluto scavare con le unghie nella pelle sottile del proprio petto, strappare i pezzi di tessuto che la ostacolavano e andare sempre più in fondo, sempre più giù.
Avrebbe superato i polmoni, lo stomaco, si sarebbe strappata l’intestino dalle viscere, avrebbe raggiunto le parti più nascoste della sua carne.
Si sarebbe liberata da tutto ciò di cui non aveva bisogno.
Avrebbe potuto lasciare i contenuti di quella donna qualunque sul pavimento del vagone, era sicura che i netturbini avrebbero ripulito senza problemi quella bizzarra massa informe.
La donna respirò profondamente.
Tutto quello ora non aveva più importanza perché in quel momento era all’aria aperta, e camminava, camminava, camminava. 
Tac, tac, tac.
La luna si stagliava in quel cielo color cancrena, la sua patetica luce appena visibile tra le nuvole e lo smog.
Tac, tac, tac.
La donna marciava a ritmo con il battito del suo cuore, un rumore costante nelle orecchie ed un eco lontano dal petto.



Note di nessuno
Non sono una scrittrice ma amo scrivere, e questa è la prima volta che faccio leggere qualcosa di mio a qualcuno.
Vorrei poter migliorare quindi se avete apprezzato questo primo capitoletto ditemi pure ciò che vi è piaciuto, e se lo avete detestato, ancora meglio! 
Ditemi cosa invece non vi è piaciuto e cosa trovate si possa migliorare.
Vi ringrazio per aver letto e per avermi dedicato il vostro tempo.
- Aletheia

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Capitolo 2
*** CAPITOLO II - Dramatis persona ***


CAPITOLO II - DRAMATIS PERSONA


La memoria è effimera e dopo una vita non vissuta è anche uno spreco di spazio.
L’ippocampo e la corteccia entorinale, la scheda SD di una macchina fotografica, una piccola scatola con i cimeli della propria infanzia: vicoli bui.
Più ci si addentra e più la mente si confonde, per i suoi corridoi si scorgono ombre inesistenti, mentre ci si lascia abbagliare facilmente dalle luci improvvise dei ricordi.
Nel vicolo cieco della sua memoria si potevano intravedere solo figure indistinte: nomi e visi si confondevano tra loro, si scomponevano e ricomponevano, ricordavano più i personaggi di uno spettacolo teatrale che dei veri e propri esseri umani. 

Persino il suo volto di bambina era ormai irriconoscibile e somigliava più ad una creatura informe piuttosto che ad una persona.
Sottile e minuta, riusciva ad infilarsi negli angoli più angusti della sua casa, scattava spaventata quando percepiva su di sé gli occhi curiosi dei suoi fratelli e si dava alla fuga quando iniziava a sentire che le voci indistinte dei genitori avevano iniziato ad alzarsi dalla cucina. 
Nessuno poteva fermarla e nessuno voleva farlo.
Un tempo era esistita una casa che aveva potuto chiamare sua, una creatura senza cuore e senza calore, il luogo in cui aveva vissuto i lunghi anni della sua infanzia.
Nulla è per sempre.
Non ricordava più i nomi dei membri della sua famiglia, né tantomeno si sforzava di farlo, lei ormai li aveva abbandonati esattamente come loro avevano abbandonato lei.

Se la memoria è una scelta e se Dio ha veramente concesso ai mortali di scegliere, allora sarà l’uomo stesso ad avere pieno potere sul proprio passato.
(Le falsità che sceglieva di credere e le menzogne che raccontava a se stessa erano come bagliori nella notte scura, le impedivano di perdersi e non ritrovare più la strada del ritorno).


***

La prima volta che aveva indossato quegli stivaletti per uscire di casa era stata durante una breve visita al supermercato.
Un pomodoro marcio, un barattolo di sottaceti, del burro.
La desolazione color neon del suo frigorifero l'aveva avvilita.
Una lattina di birra, una bottiglia mezza vuota di rum, del vino acido.
La donna lo aveva chiuso e la cucina di colpo si era riempita di un buio petrolio.
Il ricordo di una torta di mele, il profumo di bollito, un bicchiere di liquore di fronte a suo padre.
Dopo essersi vestita aveva osservato quelle piccole creature color frassino, se le era messe ai piedi ed era uscita immergendosi nella notte della metropoli.
La strada sotto le suole delle sue scarpette era costellata di crepe e osservandole la donna aveva iniziato a pensare a quanti prima di lei avevano calpestato quello stesso suolo, a come il cemento sembrava star cedendo sotto il peso di tutte quelle insignificanti esistenze quasi fosse un animale docile e obbediente.
Eppure quegli stivaletti risuonavano nel buio e lei si sentiva viva.
Tac tac tac.
La città la circondava, la avvolgeva con le sue mille braccia, con i suoi migliaia di artigli, con il suo unico sguardo.
Per la prima volta nella sua esistenza si sentiva come se fosse l’unica persona al suo centro, come qualcuno dentro l’occhio di un ciclone in cui tutto è quieto mentre il resto del mondo viene raso al suolo. 
Nei meandri del supermercato sentiva gli occhi delle persone seguirla come se fossero dei fari e si crogiolava in quella luce, non poteva credere di essere vissuta per così tanto tempo nell’oscurità.
Ogni passo era il suono della sua esistenza, il tac tac tac era costante e nessuno poteva ignorarlo.
Uscita da quell’edificio, la donna senza volto camminava immersa nella luce. 


***

Tutto ciò che rimaneva della luce dei grandi lampioni della via principale erano solo i loro deboli riflessi nelle pozzanghere sporche del vicolo.
Ormai la donna era arrivata alla fine di quel piccolo angolo di mondo, aveva oltrepassato i tombini, i cestini stracolmi di spazzatura e le finestre di quei palazzi dimenticati.
Dentro quei rettangoli luminosi poteva solamente intravedere il movimento delle persone che ci vivevano, le sagome indistinte ma piene di vita dei lavoratori che stavano tornando a casa e che avevano iniziato a preparare le loro cene. 
C’era qualcosa di letale nella gioia altrui, nella serenità di persone conosciute e sconosciute, nella solitudine che si prova solo quando l’altro solo non è.

La donna si era fermata e, appoggiando la schiena al muro di uno dei palazzi gemelli che abbracciavano quel vicolo, aveva ascoltato: il brusio di una radio accesa, il rumore di piatti e stoviglie che venivano spostati, la risata luminosa di una donna e l’eco di un’altra che la seguiva a ruota.
Il silenzio che circondava la sua esistenza la perseguitava come un morbo.
Non importava quanto si sforzasse e quanto provasse, non riusciva a indossare la maschera dell'umano né tantomeno riusciva a fingere di poterlo fare.
I suoi sorrisi sembravano ghigni, le sue risate sussulti e i suoi occhi ricordavano l’acqua stagnante di una palude, torbida e immutevole.
Si sentiva visceralmente umana solamente quando camminava, camminava e continuava a camminare con quegli stivaletti ai piedi e, in qualche modo, riusciva a far riecheggiare la sua presenza senza che le esistenze altrui potessero soffocarla.
Quel vicolo dimenticato dal mondo era il palco del suo personale spettacolo teatrale, chiunque abitasse in quei palazzi poteva sentirla e la donna non bramava nient’altro, non desiderava nulla oltre a quello.
Staccandosi dal muro del palazzo l’omuncolo aveva ripreso di nuovo a camminare.
Il rumore dei tacchi aveva iniziato la sua ouverture e l’attore aveva abbandonato una volta per tutte la maschera.

 

Note di Nessuno

Se siete arrivati qui vi ringrazio per aver letto questo capitoletto.
Qualsiasi tipo di consiglio e insulto è ben accetto!

 


 
 

 

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Capitolo 3
*** CAPITOLO III - Homunculus ***


CAPITOLO III - HOMUNCULUS

 

Ogni opera d’arte ha una cornice.

Dorata o argentata, d’ottone oppure di semplice legno, nessuna creazione viene esposta senza che prima l’artista l’abbia abbellita: un quadro, una poesia, un graffito sul muro sporco di una stazione, che lo si voglia o meno tutto ha una cornice, una storia, un occhio vigile che osserva l’osservatore.

La vita di un essere umano è una cornice vuota.

Non importa di quale materiale sia fatta o quanto grande sia, confonde e affascina, è un diaframma tra realtà e finzione.

Quanto è dolorosamente reale e quanto è solo frutto della nostra mente? 

Se questa è veramente la vita di un essere umano allora l’umanità non sarà altro che una parete di cornici vuote, degli spazi che invece di essere abissi oscuri si trasformeranno in cieli pieni di possibilità.

Che cosa significa per gli altri esistere?

Anche lei per poter vivere veramente avrebbe dovuto essere vista, gettarsi a peso morto nel buio più totale per accettare tutto ciò che aveva rifuggito nella sua vita.

Come un’opera d’arte sarebbe stata osservata e giudicata, intrappolata in una stanza piena di altri insulsi disegni, e le sue emozioni ed i suoi pensieri (tutto ciò che era marcio) sarebbero stati gettati via come carne putrefatta.

Un corpo esanime appeso ad un muro, un’opera d’arte a cui nessuno avrebbe prestato attenzione. 

Quando era giovane aveva desiderato che la sua esistenza pesasse come una piuma, ma quella che era stata la sua più grande forza con il passare degli anni si era trasformata in una lama tagliente che le scavava nella carne: era diventata lei stessa la prima vittima della propria solitudine.

Ora la bambina del suo passato la giudicava, e la donna senza futuro non riusciva a smettere di guardare indietro. 

La sventurata teneva il capo chino e, rassegnata, aspettava che le sue mancanze iniziassero a piombarle addosso come un diluvio di pietre, sperava che il dolore potesse essere anche la sua più grande libertà.


***


Il luogo che non era un luogo non finiva mai di crescere.

La metropoli si ingrandiva con le sue case inospitali e con la sua aria irrespirabile, con le milioni di persone che vi esistevano e il miliardo di solitudini che continuavano a nascere. 

Qualsiasi viaggio tra le sue vie rasentava una sorta di laico pellegrinaggio e, sebbene non fosse una fedele, in quella giornata grigio antracite persino lei aveva iniziato a credere nei miracoli.
Anche se non si ricordava molto della donna dagli stivaletti marroni pensava a lei ogni giorno e sperava ormai da molto di reincontrarla: non aveva visto come fosse vestita, di che colore fossero i suoi occhi, se avesse una fede al dito o se fosse felice, eppure, l’impressione di quella donna si era fissata sul suo bulbo oculare ed era rimasta vivida come una sinfonia, vera come una ferita.

Come un bagliore nella nebbia, due mesi dopo quella fatidica mattina l’aveva rivista sull’ultima carrozza della metrò della linea 1, alla fine dell’ora di punta.

Se le sue scarpette non avessero risuonato in quello spazio claustrofobico non l’avrebbe mai riconosciuta in mezzo a quei redivivi stanchi.

Tac, tac, tac.

La donna era alta e sottile, il suo volto aveva degli occhi, un naso ed una bocca, due orecchie e una mascella: era lo specchio di ogni uomo e ogni donna in quella città, irriconoscibile nella propria indifferenza.

La donna senza volto era rimasta impietrita, aveva dimenticato tutto il resto mentre si trasformava in Perseo e Medusa, si rendeva conto di non poter scappare.

Di non volerlo fare.

Si era chiesta cosa avrebbe potuto dirle, in che modo avrebbe sorriso e regolato il tono della propria voce, come sarebbe riuscita a rendersi ai suoi occhi un poco più umana ed un poco meno se stessa.  
In realtà in cuor suo già si immaginava la conversazione che avrebbero avuto e per la prima volta nella sua esistenza lo desiderava e lo desiderava e non riusciva a desiderare altro.

In mezzo a quella carrozza i suoi muscoli avevano iniziato a somigliare a pezzi di ghiaccio e, nonostante l’impeto improvviso che l’aveva smossa dal torpore della sua esistenza, era rimasta immobile. 

Incapace di fare nient’altro aveva boccheggiato e dopo quella che era sembrata un’eternità aveva spostato un piede verso la donna, le si era avvicinata un poco di più.

Tac, tac, tac.

Le sue scarpette avevano fatto riecheggiare in quello spazio chiuso un do, poi un re, infine un sol.

Riuscendo a vincere il proprio terrore aveva mosso un altro passo verso la donna dagli stivaletti marroni ed il suo cuore aveva iniziato a riempirsi di un’emozione innominabile.

Lei era vicina, lei era viva e così vera, lei che era la sua musa e l’unica persona che era imprigionata nella sua memoria, lei che era così lei, si era girata ed era scesa dalla metrò.

L’omuncolo si era fermato ed aveva osservato quella schiena umana perdersi per sempre e, mentre le porte della carrozza si erano richiuse con un suono ovattato (un mi?), di colpo si era visto riflesso nel finestrino sporco, un profilo scuro che si stagliava sul nulla.

Un lampione alle prime ore dell’alba, un uomo che affoga: la sensazione luminosa e calda che aveva provato nel petto si era spenta per sempre.

La massa informe che esisteva con il nome di donna senza nome aveva iniziato a sgretolarsi ed era svanita da quella carrozza, inghiottita dal vuoto che la circondava.

Ancora una volta si era trasformata in un fantasma, per l’ultima volta si era resa conto di non essere mai esistita neppure per se stessa.


***

 

Non era la prima volta che attraversava quel vicolo.
Le strade si diramavano come vasi sanguigni per quel corpo esanime di metropoli ma la donna le conosceva ormai come i corridoi della sua vecchia casa.
Erano diventate il luogo della sua inconfutabile esistenza.
C’erano stati altri momenti di sconforto che le avevano impedito di rimanere rinchiusa nella sua prigione: quando si rendeva conto di non riuscire più a sopportare il silenzio, quando all’apatia prendeva posto la frenesia, in quel momento decideva di alzarsi, mettersi gli stivaletti, ed iniziare ad esistere.

Prima camminava, poi correva, ora zoppicava, le ombre del suo passato le voltavano le spalle mentre il futuro sembrava sempre più vicino. 
Avrebbe voluto tornare indietro e vivere in quell’illusione di luce che era stata la sua vita dopo quel primo incontro, dimenticare la propria inettitudine e continuare a camminare come se nulla potesse metterla in ombra.
Per quale ragione non si era lasciata rincorrere quella sensazione calda, quell’unico alito di primavera nella sua esistenza d’inverno?

Tac, tac, tac, tac, tac…

Più si muoveva e più le sembrava di rimanere ferma, più rumore faceva e più si rendeva conto di quanto silenziosa fosse.

Perché non era riuscita ad iniziare a vivere?

Aveva desiderato diventare una donna con un volto ed un passato, con un futuro costruito da sé, ma la metamorfosi ha bisogno di sangue e carne viva ed il suo corpo di cadavere non avrebbe mai potuto concederglieli. 

Tac, tac, tac, tac, tac…

Ora anche i suoi stivaletti erano diventati silenti e, nonostante il loro rumore riecheggiasse tra le pareti di cemento, lei non li sentiva più ai piedi.

Anche loro avevano smesso di esistere.

La donna senza volto e senza nome aveva aumentato il ritmo del proprio passo ed il rumore del suo respiro affannoso aveva iniziato a riecheggiarle nelle orecchie come il rintocco sordo di una campana. 

Tac, tac, tac, tac, tac,tac, tactactactactactactactactactactac…
Ciò che desiderava di più era vivere ma sapeva che non avrebbe mai potuto farlo: nel suo futuro c’era solo silenzio, ed il clamore del mondo non sarebbe mai riuscito a raggiungerla. 

…tactactactactactactactactactactactactactactactac…

Ora la sua era diventata una corsa sfrenata, e ad ogni passo aveva iniziato a sbattere i tacchetti degli stivali per terra come in un ballo forsennato: il suo era un valzer, un tango, un urlo disperato che scorticava la gola.

…tactactactactactactactactactactactactactac…

Nessuno la stava ascoltando.

…tactactactactactactactactactactac…

Qualcosa aveva illuminato di colpo l’oscurità.

…tactactactactactactactac…

Gli occhi della donna si erano spalancati improvvisamente e avevano iniziato a riflettere quel mondo buio, non riuscivano a vedere nulla eccetto quel bagliore freddo.
…tactactactactactac…

Il corpo si muoveva, ma il suo rumore era rimasto imprigionato in quel vicolo.

tactactacta–
I fari di un’automobile si avvicinavano sempre più veloci verso di lei, le ricordavano due soli scintillanti nella notte.

La donna esisteva nella luce.

 

Note di nessuno

Ho iniziato questa storia un anno fa ed ero certamente una persona diversa, ma non tanto quanto mi piace credere.

Spero che siate riusciti ad apprezzarla, ed anche se non lo avete fatto sarei molto curiosa di sapere quali sono i vostri pensieri a riguardo.

Grazie per avermi dato il vostro tempo!

Ritornerò, volente o nolente.

- Aletheia

 

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