I Fiori di Sambuco - CA Cap. I

di EmmaJTurner
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cercasi Ammazzamostri [REVISIONATO] ***
Capitolo 2: *** La Prova sul Campo [REVISIONATO] ***
Capitolo 3: *** Botanica, Spacciatrice di Erbe [REVISIONATO] ***
Capitolo 4: *** Le Strigi e un Cestino [REVISIONATO] ***
Capitolo 5: *** La Succube [REVISIONATO] ***
Capitolo 6: *** Luna Piena e Fiori di Sambuco [REVISIONATO] ***
Capitolo 7: *** Addio? [REVISIONATO] ***



Capitolo 1
*** Cercasi Ammazzamostri [REVISIONATO] ***


Cercasi Ammazzamostri

Cercasi AMMAZZAMOSTRI

per raccolta di sambuco 

la prossima luna piena.

Pagamento 200 nk

50% in anticipo, 50% a lavoro ultimato.

Per info chiedere di Meli

 

“È tuo questo?”.

Meli sobbalzò. Qualcuno aveva sbattuto un foglio di pergamena sul tavolo della taverna su cui stava finendo il suo pranzo. Riconobbe il volantino con cui aveva tappezzato tutta Berg. Non apprezzò il fatto che ci fosse un lungo coltello infilato dentro.

Meli lanciò un’occhiataccia allo sconosciuto che torreggiava su di lei.

“È mio” confermò. “Sono io Meli. E tu sei…?”.

“Logan” tagliò corto l’uomo. “Sono qui per il lavoro”.

“Lo avevo intuito” sibilò lei, sfilando il coltellaccio dal tavolo e riprendendosi il volantino. “Cosa ti fa pensare di essere adatto?”.

L’uomo la guardò pieno di sdegno. “Sono adatto”.

Meli lo squadrò. L’uomo aveva il trucco degli elfi oscuri: una banda orizzontale di nerofumo che gli attraversava il viso all’altezza degli occhi, mettendone in risalto il colore. Ma non aveva orecchie a punta sotto i capelli neri e ondulati, tagliati corti sulla nuca alla foggia degli uomini del luogo. Un mezz’elfo? Un bastardo?

“La luna piena è tra quattro giorni. Se ti troverò adatto per allora, ti pagherò la prima parte del salario. A lavoro ultimato avrai la seconda parte. Inutile dire che, se muoio quella notte, non avrai il saldo”.

“Tra quattro giorni? Ho bisogno dei soldi ora” ringhiò.

Meli era abituata a tollerare la maleducazione e i modi rozzi degli ammazzamostri di quella regione. E sapeva anche cosa voleva dire avere fame.

“Il pranzo è offerto” disse Meli, facendo un gesto benevolente alla sedia di fronte a sé. Vide il lampo avido negli occhi dell’uomo, che cedette e scostò la sedia per caderci seduto di malagrazia.

Meli ordinò il piatto del giorno “per il suo accompagnatore” e lo guardò divorare il pane e la zuppa di fagioli. Aspettò che si fosse pulito la bocca con l’orlo della tovaglia — non la manica; un vero gentiluomo — prima di riprendere il colloquio.

“Fantasmi, demoni, licantropi?” iniziò, scarabocchiando sul taccuino rosso che aveva aperto sul tavolo.

“Non sono un problema”.

“Incantesimi di protezione?”.

“Ho studiato da incantatore”.

“Hai studiato, ma hai anche imparato qualcosa?”.

L’uomo grugnì il suo fastidio a quella supposizione. Meli lo ignorò.

“Incantesimi di guarigione?”.

“Ho studiato da incantatore” ripeté l’uomo, fissandola con una faccia che diceva prova-a-contraddirmi-se-hai-il-coraggio.    

Meli non si lasciò intimorire. “Non è una risposta. Cosa sai fare?”.

“So guarire ferite di secondo livello, bruciature di terzo, so eseguire una fasciatura e un’amputazione”.

“Ferite magiche?”.

“Livello base”.

“Devono averti buttato fuori presto dalla tua scuola” lo provocò Meli, per nulla turbata.

Gli occhi dell’uomo si fecero due linee sottili e arrabbiate.

“Non ti scaldare, non sei il primo che passa di qui oggi con quel volantino in mano. Devo valutare bene le mie opzioni. Non è un’incombenza facile quella che chiedo di fare”.

L’uomo sostenne il suo sguardo. “Io sono il migliore”.

Meli lo studiò con attenzione. “Cosa te lo fa dire? Ho già un”, Meli sfogliò alcune pagine del taccuino che aveva tra le mani, “ranger di Jauklon, un elfo di Lin e una driade in fila prima di te” elencò.

“Io sono il migliore” ripeté l’uomo.

Meli alzò le spalle e scrisse spavaldo sul suo taccuino. Poi lo richiuse e regalò all’uomo il suo sorriso più insolente. “Grazie mille. Domani ti informerò sulla mia decisione”.

L’uomo la guardò con un’animosità sopita negli occhi. Sembrò voler ribattere, ma alla fine colse il messaggio: si alzò e se ne andò. 

“Ah, per il pranzo? Prego, non c’è di che” mormorò Meli a nessuno in particolare, già persa in altri pensieri.

 

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Capitolo 2
*** La Prova sul Campo [REVISIONATO] ***


Il giorno seguente, Meli attendeva con santa pazienza gli arditi candidati davanti al dungeon di Larvik, il più vicino alla ridente cittadina di Berg. Il dungeon era incastonato dentro il versante est della montagna; vi si entrava, dopo aver superato la porta di pietra, da una scala buia in fondo alla galleria.

Il sole inondava i picchi della Catena, facendo luccicare le vette di un biancore accecante e, sotto i ghiaioni color cenere, boschi di larici e abeti si srotolavano a perdita d’occhio. Era una splendida giornata, profumata di muschio e resina dolce. Perfetta per andare ad ammazzare qualche bestia al buio pesto sotto tonnellate di roccia.

Meli guardò le cime immacolate e schioccò la lingua. Erano tutti in stramaledetto ritardo. Come se lei non avesse avuto niente di meglio da fare. Già non aveva nessuna voglia di impelagarsi in quella faccenda del sambuco — sua sorella le aveva chiesto un favore, e sua sorella non chiedeva mai favori — se poi ci si mettevano in mezzo anche degli ammazzamostri cialtroni…

Sospirò e strappò un ciuffo di pimpinella. Se la infilò in bocca e masticò solerte fino all’arrivo del primo candidato, il ranger, sobrio e avveduto nel suo mantello verde salvia.

Lo salutò con un cenno di capo e sorrise sorniona.

Perché, se sua sorella era occasionalmente una sprovveduta, Meli non era donna da lasciare le cose al caso. Quando decideva di affrontare la luna piena — e non era spesso, perché alla sua pelle ci teneva — non si affidava al primo sedicente ammazzamostri che si vantava di quanto affilata fosse la sua spada d’argento. Oh, no: Meli faceva quella che le piaceva chiamare la Prova sul Campo.

“Come immagino sappiate” stava infatti dicendo, un’ora dopo, ai quattro candidati in fila davanti a lei “questo è il dungeon di Lavik. Il primo livello è gremito di chiropti rossi, il secondo di coboldi, nel terzo potreste trovare qualche troll e viverna delle grotte. La prova che vi chiedo di fare è molto semplice: arrivare al quarto livello e staccare un pezzo del cristallo viola che si forma solo laggiù. Chi ci riuscirà per primo sarà nominato il vincitore e otterrà il lavoro — se torna vivo e con tutti gli arti al loro posto, s’intende”.

“Questa è un’immensa stronzata” sbottò subito la driade, i capelli verdi che si agitavano di vita proprio attorno al bel viso color mogano. Gli altri non parlarono, ma le espressioni indignate erano eloquenti.

Meli non cambiò espressione. “Se non ritenete la prova adatta alle vostre capacità, siete liberissimi di andarvene”.

La driade strinse le labbra in una linea saccente, ma nessuno si mosse.

Meli li rimirò soddisfatta con le mani sui fianchi. “Benissimo. Se non ci sono altre opinioni in proposito, per me potete andare. Io vi aspetterò qui”.

In un borbottamento di malcontento e sbatacchiare di armi, i quattro candidati si mossero a disagio verso l’ingresso del dungeon.

Quando la porta di pietra si chiuse dietro di loro con un rumore definitivo, Meli si sedette su un masso scaldato dal sole e attese.

***

Il primo a riemergere fu l’elfo di Lin, una creatura bionda estremamente piacevole agli occhi, che però non portava il cristallo. In compenso esibiva parecchie bruciature sugli abiti e un profondo morso sul braccio. Meli gli diede una fiala di rinvigorente e lo rispedì a Berg alla ricerca di un guaritore. Tirò poi una linea sul suo nome scritto sul taccuino.

La seconda fu la driade, che uscì bestemmiando. Era illesa, ma la sua spada era spezzata. Ringhiando qualcosa sulla cacca di troll e i botanici del cazzo, prese la sua cavalcatura e se ne andò senza salutare.

Meli attese parecchio prima di vedere uscire il ranger. L’uomo, ricoperto di un liquido verde e viscoso, tossì a lungo e si schiarì la voce prima di borbottare: “Troppe viverne. Niente cristallo”. Lui non se ne andò, però; rimase con lei, in attesa.

Meli occhieggiò il suo taccuino. Un ultimo nome era rimasto intonso.

E Logan riemerse dalla porta del dungeon con un aspetto terribile, un’imprecazione e il mantello strappato. 

“Questa” sputò “è stata proprio un’idea del cazzo”.

Meli si strinse nelle spalle. “Meglio scoprirlo ora che dopo. Così nessuno si è fatto male — non troppo, almeno”. Tirò una riga sull’ultimo nome della lista, chiuse il taccuino e si alzò stiracchiandosi. 

“Molto bene. Temo che questo chiuda la questione. Nessuno di voi ha superato la prova, quindi nessuno otterrà il lavoro. Cercherò un altro ammazzamostri non appena…”.

Logan la inchiodò con due occhi di fuoco. “Chi cazzo ha detto che non ho superato la prova?” 

E lì, sul suo palmo aperto, grezzo e opaco alla luce del sole, un piccolo cristallo viola.

***

Meli inarcò le sopracciglia e afferrò la gemma. 

“Molto bene, ammazzamostri” disse piano, studiando a turno il cristallo e la faccia rigida e accaldata dell’uomo. “Sei assunto”. 

Era sinceramente colpita. Non molti riuscivano ad arrivare al quarto livello del dungeon di Lavik. Pochissimi al primo tentativo. E ancora meno ne uscivano senza un graffio.

Il ranger si complimentò con Logan e si congedò. Meli lo guardò allontanarsi con la coda dell’occhio. Erano sempre così ben educati, i ranger. Poi tornò al pressante presente di un forse-uomo-forse-mezz’elfo-oscuro che la fissava indignato.

Intascò la gemma, raddrizzò la schiena e assunse il tono pratico e sbrigativo che usava per le transazioni di lavoro. “La luna piena sarà tra tre giorni, e io ho delle consegne da fare prima di allora. Se vuoi venire con me, andrò a Costoi”.

“E se non volessi?” replicò subito l’ammazzamostri con tono battagliero.

“Se non vuoi” replicò Meli senza scomporsi, tirando fuori venti navok “ci vediamo tra tre giorni alla radura vicino al Lago Rosso, due ore prima del tramonto”. Porse i soldi all’uomo che li afferrò titubante. “Per la gemma” specificò Meli.

L’uomo osservò i soldi, e osservò lei. La sua espressione si fece più accomodante.

“Vitto e alloggio compresi?”.

Meli fece una smorfia. “Trattabili”.

L’ammazzamostri sembrò rifletterci su.

“Vengo con te”.

***

Costoi era a poche ore di cammino da Berg giù per la valle. Meli e il suo ammazzamostri nuovo di zecca si avviarono a piedi subito dopo la prova al dungeon di Larvik, certi di poter raggiungere la meta prima del tramonto.

Il faggeto era splendido in quella stagione. Le fragoline di bosco arrossivano timide sotto le foglie, e campanule viola punteggiavano i declivi tra le curve del sentiero.

Meli si infilò due minuscole fragole in bocca e, gustandosi l’esplosione di dolcezza sulla punta della lingua, studiò con vago interesse l’ammazzamostri che le camminava a fianco.

Tale Logan — se aveva un cognome, non gliel’aveva detto — indossava abiti scuri sotto le stringhe di cuoio degli spallacci, un mantello logoro che forse una volta era stato nero, una spada d’argento e una fila di boccette azzurre agganciate alla cintura. Portava in faccia il trucco degli elfi oscuri, ma non aveva le movenze animalesche di quel popolo, né le caratteristiche orecchie a punta. I capelli erano ancora neri, senza traccia di fili d’argento: se era umano, Meli calcolò che doveva avere circa la sua età. Non vecchio, ma nemmeno un ragazzino… da un bel po’. Era inoltre sbarbato e curato nell’aspetto più di molti altri ammazzamostri che aveva assunto — ma lo stato dei suoi vestiti e il fisico troppo magro le fecero intuire quanto i soldi di quel lavoro gli servissero davvero.

“Da dove vieni?” lo interrogò. Non era curiosa; era la prassi essere messa al corrente delle informazioni di base di chi lavorava per lei.

Logan le lanciò un’occhiata in tralice. “Da Morovi, dopo la Catena”.

Fuori regione. Un foresto. Questo spiegava come mai non l’avesse mai incrociato prima; ormai, a causa del suo lavoro, Meli conosceva quasi tutti gli ammazzamostri di Zolden.

“È la prima volta che passi per Berg?” continuò, efficiente, mentre i suoi piedi si muovevano sicuri tra le radici del sottobosco.

“Sì”.

“Dove hai studiato?”.

“Non ti riguarda”.

Meli alzò gli occhi al cielo. Le era capitato di nuovo uno di quelli simpatici. E mo’ avrebbe dovuto sorbirselo fino alla luna piena, per tre interi giorni.

Non si diede per vinta. “Da quanto fai questo lavoro?”.

“Che cos’è, un interrogatorio? Mi hai già assunto”.

Meli rimase impassibile. “Appunto. Preferisco conoscere le persone che pago per guardarmi le spalle”.

Seguì un silenzio meditabondo, rotto solo dal lieve frusciare delle felci che sfioravano loro le caviglie. “Sono bravo in quello che faccio” rispose infine l’ammazzamostri.

“Me lo auguro” ribatté Meli in tono neutro.

Il silenzio si prostrasse di nuovo per diversi minuti, ma non fu spiacevole. Meli era abituata a trattare con i bifolchi. E poi gli uccelli cinguettavano sopra le fronde verdeggianti, e l’aria profumava di sole e terra calda. Se non avesse dovuto accollarsi la pittima del sambuco, Meli avrebbe potuto persino essere di buon umore.

“Per cosa sei stato cacciato da scuola?” si informò.

Logan grugni. “Non sono fatti tuoi”.

“Allora sei stato cacciato” disse Meli amabile. Sapeva essere fastidiosa quando lo voleva, ed trovava sempre piacevole vendicarsi della maleducazione altrui.

Fu il turno dell’ammazzamostri di roteare gli occhi. Per un po’ non disse nulla; poi, con un sospiro irritato e voce animosa, concesse: “La biblioteca potrebbe aver preso fuoco”.

“Potrebbe, eh?” sghignazzò Meli. “Chimica?”.

“Scienze applicate”.

“Originale. E sei finito a fare l’ammazzamostri”.

Non era una domanda, ma Logan rispose comunque. “Paga a sufficienza”. E, dopo un attimo di riflessione, aggiunse: “E sono un pessimo guaritore”.

Meli apprezzò l’onestà non richiesta. “Questo non l’hai detto al colloquio” disse sorridendo.

L’uomo si strinse nelle spalle. “Ho detto quello che mi avrebbe fatto ottenere il lavoro”.

“Hai detto di essere il migliore”.

“Lo sono. Ad ammazzare le cose”.

“Se questo è vero lo scopriremo fin troppo presto”.

Dopo qualche altra domanda di rito, a cui seguirono risposte laconiche alternate a grugniti infastiditi, Meli si ritenne soddisfatta e non parlò più. Arrivò persino ad apprezzare che Logan fosse un tipo taciturno: meno parlava, meno stronzate sarebbero uscite dalla sua bocca.

Arrivarono a Costoi con il rosseggiare del tramonto. Non erano affaticati: per Meli era abitudine camminare nei boschi per giorni, e fu felice di constatare che il novello compagno riusciva a tenere il suo passo gagliardo.

“Due camere e la cena” disse Meli al locandiere corpulento dietro il bancone de I Due Passi, unica locanda appena prima del ridicolo grumo di casette bianche e grigie che costituiva il paese. Logan non mosse un muscolo per tirare fuori i soldi; rimase piantato dov’era a braccia incrociate, scandagliando il soffitto con precisa noncuranza. Meli pagò mordendosi la lingua.

Dopo una cena di poche parole si accordarono per trovarsi all’ingresso del locale il mattino seguente, otto in punto. Togliendosi con eleganza un pezzo di carne dai denti, Logan chiese: “Cosa andiamo a fare?”.

Pensando a quello che l’aspettava, Meli fece una smorfia schifata. Non aveva nessuna voglia di svolgere quelle commissioni, ma ormai…

“Lo vedrai” disse solo, volutamente criptica. E, salite le scale di legno, si chiuse nella sua stanza.

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Capitolo 3
*** Botanica, Spacciatrice di Erbe [REVISIONATO] ***


Botanica, Spacciatrice di Erbe

Gabe puzzava così tanto che Meli pensò che fosse morto.

La donna allungò il collo sopra il corpo del vampiro accasciato a terra. Si trovavano nella comune del clan di Costoi che, come tutti gli alloggi vampireschi, era sporca, male illuminata e permeata da un distintivo odore di chiuso, metallo e muffa.

Meli diede un calcio alla gamba del vampiro. Nessuna reazione. Logan le lanciò uno sguardo interrogativo.

“È strafatto, credo” disse lei. Scavalcò le gambe senza vita e si accovacciò di fianco alla creatura. Con fare esperto gli sollevò una palpebra. L’iride al di sotto era velata di una patina azzurra e opaca.

“Si è fatto da poco” confermò una voce nel buio. Meli lasciò ricadere le mani e si alzò circospetta.

La voce continuò: “Chi vi ha fatto entrare?”.

Meli incrociò le braccia al petto. Avevano bussato e atteso diversi minuti fuori dalla comune; dopodiché Meli si era scocciata e si era avventurata nell’oscurità senza invito ufficiale, cosa risaputamente poco apprezzata dai vampiri.

Leo, il capo del clan, avanzò verso di loro. La tremula luce delle candele gli illuminò i numerosi tatuaggi sul collo e sulle braccia scoperte dalla giubba senza maniche. Portava i capelli annodati in lunghi dreadlocks, e un accenno di barba gli incupiva le guance.

“Oh. È da parecchio che non ti si vede, Meli. Come mai da queste parti?” chiese il vampiro, cordiale.

“Consegna di artemisia, quattro fiale” rispose laconica lei. “Mia sorella è impegnata” aggiunse poi a mo’ di spiegazione.

Il vampiro sorrise mostrando in un flash i canini appuntiti. Leo era bello come era bello un mare pieno di meduse, pensò la donna. Da lontano, uno schianto; da vicino, viscido e pericoloso. Di sicuro ti passava qualsiasi voglia di toccarlo.

“Otto navok, deduco?” chiese lui, estraendo i soldi da un logoro borsello di pelle. Meli afferrò le otto monete squadrate facendo attenzione a non toccare le lunghe unghie del vampiro.

“Corretto” disse, e appoggiò le quattro boccette di liquido scuro su un tavolo lercio alla sua sinistra.

Leo studiò le fiale con desiderio, poi tornò a concentrarsi sull’interlocutrice. “Ottimo. La cara Anja come sta?”.

“Come sempre” rispose brusca Meli. Ci mancava solo che qualche maledetto vampiro si interessasse a sua sorella.

Il vampiro le si avvicinò. Il suo fiato puzzava di ferro arrugginito. “Sei qui per le strigi?” indagò lui, falso e indolente. I suoi occhi scattarono famelici sul collo della donna. Logan, vicino alla porta, avanzò di un passo.

Meli non indietreggiò. “No. Sambuco” rispose impassibile. Ma il suo cervello cominciò a correre veloce. Strigi, in quel periodo dell’anno? Da dove diavolo arrivavano? Meli scacciò il naturale orrore che provava per quelle bestie e si costrinse a mantenere una maschera di rigida indifferenza. Certo le avrebbero potuto garantire un’interessante entrata extra… dopotutto, un ammazzamostri ce l’aveva già…

Leo fece per dire altro, ma Meli lo precedette. “È tutto, Leo. Alla prossima”. O, preferibilmente, a mai più.

Il vampiro, troppo vicino, si leccò le labbra, la lingua disgustosamente rosa e morbida tra i denti acuminati. Aveva un piercing proprio nel mezzo. “Alla prossima, se farai attenzione. E salutami tua sorella”.

Meli fece un verso di gola, girò sui tacchi, scavalcò Gabe e uscì in strada. Logan le fu subito dietro.

“Fattoni del cazzo” mormorò la donna appena furono liberi dal fetore di sangue e droga della comune. Grata di essersi liberata di quell’incombenza, Meli ispirò l’aria che sapeva di pane. Costoi era un paesino di montagna che contava forse trecento anime, con una chiesa, una locanda, una stazione di posta, un panettiere e un assembramento di case bianche con spioventi tetti di legno e vasi di gerani alle finestre. E una comune di vampiri, a quanto pareva, perché quegli schifosi erano dappertutto. Peggio delle blatte

“Cosa se ne fanno i vampiri del liquore di artemisia?” chiese Logan, adeguandosi al suo passo lungo la strada principale.

“Il liquore di artemisia è un blando neurostimolante. I vampiri lo usano per allungare il sangue umano, che è o illegale o costa molto caro” spiegò lei dirigendosi con sicurezza verso la piazza.

Arrivarono davanti alla chiesa, dalla quale stava uscendo, ridacchiando e spintonandosi, un gruppo di giovani monache. Le ragazze portavano al collo sottili crocifissi d’argento e i capelli raccolti in lunghe trecce che dondolavano sulle tonache verde scuro. Un fiore bianco dipinto sulla fronte le identificava come sorelle dell’Ordine del Cardo.

Meli lanciò a Logan un’occhiata eloquente. “Di qua”.

Si infilò rapida tra le giovani donne, entrando nella chiesa. All’interno del piccolo edificio la temperatura era più bassa e il profumo di incenso tanto intenso che Meli starnutì. 

La pretessa, intenta a sistemare l’altare dopo la messa, alzò gli occhi e li fissò sospettosa sui nuovi arrivati; quando riconobbe Meli, la sua espressione si fece di granito.

“Melissa”.

"Eilei".

La sacerdotessa, a differenza delle accolite, indossava un camicione bianco stretto in vita da una fascia celeste. Una lunga collana di pietre rotonde le adornava lo sterno dall’incavo delle clavicole fin giù dentro lo scollo della tunica, mentre un ronéla d’argento le cingeva la fronte. I capelli, raccolti in due grosse trecce alla moda del distretto, erano bianchi come il latte e le arrivavano sotto il seno.

Le due donne si studiarono con evidente antipatia reciproca. Eilei era sempre stata una bellezza algida, anche prima di avere i capelli completamente sbiancati dalle polveri incantate e dall’incenso che le continue pratiche mediche e religiose la costringevano ad inalare. Anche le ciglia le erano diventate bianche, notò Meli, e contrastavano in modo particolare contro la pelle abbronzata e gli occhi scuri.

La pretessa la guardò dall’alto degli scalini, di fianco all’altare. “Perché tu? Dov’è Anja?”.

“Mia sorella è impegnata” rispose Meli. Quante volte avrebbe dovuto ripeterlo ancora?

La sacerdotessa serrò le labbra in una linea dura. Scegliendo di ignorare l’irrefutabile negatività che permeava nell’aria, Meli allungò un sacchetto di lino. “La silimarina che hai ordinato”.

La sacerdotessa alzò il mento e scese aggraziata i tre gradini che la separavano dai nuovi arrivati. Prese il sacchetto, lo aprì e studiò le pasticche ovoidali al suo interno. Lo richiuse con sgarbo.

“Quanto?”.

“Dodici”.

“Anja mi fa dieci”.

“Anja è tua amica”.

La pretessa strinse gli occhi al sottinteso. Meli trovò buffo che, pur essendo una donna di religione, Eilei non riuscisse proprio a lasciare andare il rancore di fatti avvenuti tanti anni prima.

Mentre Meli attendeva paziente i soldi che le spettavano, Eilei studiò lei e Logan con aperto sdegno. “Un ammazzamostri?”.

“Nuovo fiammante” rispose Meli.

La sacerdotessa incrociò le braccia al petto. Due polsiere d’argento le coprivano per intero gli avambracci. “Perché? Per le strigi?”.

Meli, divertita, aggrottò la fronte.“Non mi risulta di essere in confessione. Non è affar tuo”.

“Sei nella mia città e nella mia chiesa. Dimmelo. O non ti pagherò”.

Meli alzò gli occhi al soffitto richiamando a sé la pazienza — nel farlo, vide Logan inarcare un sopracciglio stizzito.

“Mia sorella vuole il sambuco per la pozione antilupo”.

La facciata dura della sacerdotessa si incrinò. Rilassò le spalle e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. “Pensavo avesse smesso”.

“È ostinata”.

“È inutilmente pericoloso. Fiori e foglie senza luna piena vanno bene uguale”.

“Non secondo mia sorella. Ed ecco che torniamo all’ammazzamostri”.

Eilei lanciò un’occhiata torva all’uomo vestito di scuro. “È un foresto”.

“Andrà benissimo”.

Eilei indugiò. Sembrò voler dire qualcosa e poi cambiare idea. “Molto bene. Non è affar mio se vai a farti uccidere” disse, rigettandole indietro la frase di poco prima. “Ecco i soldi. Dodici. E dirò una preghiera al tuo funerale”.

“Concisa, mi raccomando” rispose Meli prendendo il denaro.

Si congedarono in astioso silenzio sotto gli occhi del crocifisso a grandezza naturale appeso nell’abside. Infine, con dodici navok tintinnanti nel borsello dentro lo zaino, Meli uscì dalla piccola chiesa.

Si allontanarono dalla piccola piazza svicolando per le vie acciottolate. Dopo un po’, Logan chiese: “Che diavolo è la silimarina?”.

Meli sorrise. “Ahi ahi, non andavi bene in chimica…”.

Logan non si lasciò turbare dal tono faceto della donna, e continuò a camminare in attesa di una risposta.

Sorpresa, e pensando distrattamente che la curiosità del suo accompagnatore cozzasse con il suo carattere scontroso, Meli rispose: “Un epatoprotettore estratto dal cardo mariano. Si usa per riparare i danni del fegato dovuto all’eccesso di alcol o all’intossicazione di funghi del genere amanita. Eilei, oltre a essere alla guida della parrocchia, è la Guaritrice assegnata a Costoi; immagino che di solito si occupi da sola della sintetizzazione dei suoi medicinali, ma forse in questo periodo è più impegnata del solito…? Non saprei. Non è una mia cliente abituale; oggi io eseguo e basta”.

Sua sorella avrebbe dovuto farle una statua, pensò. O almeno portarle un bel po’ di verbena gratis da vendere al negozio ad un prezzo spropositato. Sì, la verbena sarebbe andata bene.

A proposito di verbena. Meli tirò fuori un pezzo di carta dalla tasca dei pantaloni. Agrimonia, achillea, camomilla, carota selvatica, verbena, piantaggine. Ora che aveva finito con le rotture a Costoi e che alla luna piena mancavano ancora due giorni, aveva tutta l’intenzione di sfruttare il tempo disponibile per ottenere almeno metà delle specie botaniche sulla sua lista. Sempre che non ci fossero cose più interessanti da racimolare… Meli lanciò un’occhiata al cielo terso, che le rispose solo con cinguettii adorabili. Si chiese chi avrebbe potuto darle indicazioni sulle strigi senza sollevare troppe domande. Forse conosceva la persona giusta. Nel frattempo…

Meli si voltò verso Logan e esibì il suo sorriso più innocente. “Ti piacciono i fiori, ammazzamostri?”.

***

Minuscoli fiori gialli a grappolo punteggiavano la distesa erbosa tra due rive di bosco. Meli ne raccolse uno, dal lunghissimo stelo, e inspirò. Il profumo era quello giusto. Ne raccolse fino a farne un mazzo che legò con lo spago. 

Erano usciti dal paese e erano ora immersi fino alla vita nei pascoli incolti sotto il monte Seghia. Lungo la strada avevano già trovato un bel mucchio di piantaggine, dalle morbide foglie a forma di lancia e il sapore di fungo porcino, e di achillea, dai lunghi steli e il profumo di camomilla. Solo di tanto in tanto, quando non era impegnata a tastare, raccogliere e annusare, Meli scrutava torva il cielo.

Logan osservava perplesso il suo daffare. “A che ti serve tutta questa erba?”.

“Questa erba è il mio lavoro” rispose brusca, sfilando via uno stelo che si era aggregato illegalmente all’agrimonia che stava raccogliendo.

“Il tuo lavoro…? Sei una spacciatrice?”.

Meli, suo malgrado, rise. “Il termine esatto sarebbe botanica. Ma immagino che anche spacciatrice di erbe potrebbe andare”.

“E che ci fai con…?”. 

“L’agrimonia?”.

“...quella roba lì”.

“La raccolgo. La vendo. La trasformo in cose utili, come oleoliti, unguenti e pozioni”. Meli lanciò un’occhiata a Logan. Ancora una volta, quel groviglio di curiosità e carattere di merda era assai bizzarro. “In particolare, con agrimonia a artemisia si fa un acetolito utile per pulire le ferite da arma da fuoco” aggiunse. “E pure un discreto disinfettante per le malattie della gola”.

Le sopracciglia di Logan si alzarono in un improvviso moto di interesse. “Come la riconosci?”.

“Mmh”. Meli raccolse un nuovo fiore e lo studiò da vicino. “I fiori gialli hanno sempre cinque petali, e sono tutti riuniti in un unico stelo. Le foglie sono di forma ovale e hanno il margine dentellato; sono di colore verde scuro nella pagina superiore e sono pelose in quella inferiore. Inoltre le cauline sono, in genere, minori degli internodi. Due stipole avvolgono il fusto, il che differenzia questa pianta da altre specie della stessa famiglia, le rosacee”.

L’espressione di Logan si fece più corrucciata che mai e Meli capì di  essere entrata troppo nel dettaglio. Si strinse nelle spalle e aggiunse il fiore al mazzo. “Esperienza”.

Qualcosa si mosse nell’erba alta davanti a loro. In allerta, Logan sguainò la spada d’argento.

Meli scrutò il prato e rimase in ascolto, ma null’altro si mosse. Sbuffò divertita quando notò la reazione esagerata di Logan. “Sono solo pignoleti. Vengono qui a mangiarsi le lumache. Niente di cui preoccuparsi”.

Logan le scoccò un’occhiataccia e rinfoderò la spada. “Tu fai il tuo lavoro. Io il mio”.

La botanica alzò le mani in segno di resa e si rimise a raccogliere i fiori con un mezzo sorriso sulle labbra.

Un’ora dopo, soddisfatta del suo raccolto di agrimonia, scese lungo il prato incolto alla ricerca di un’altra pianta da depennare dalla lista. Quando udì Logan lamentarsi a mezza bocca dietro di lei, gli disse che poteva anche tornarsene in paese, se si annoiava tanto; le sue abilità da ammazzamostri non erano richieste quel giorno. Ma Logan rimase, e continuò a esternare la sua impazienza solo tramite sguardi scocciati e l’occasionale sospiro esasperato.

I lunghi steli con fiori a ombrello erano al perfetto stadio di fioritura. Meli ne catturò uno tra le dita e ne annusò il gradevole odore di iris. Sapeva che la stagione non era quella giusta, ma per curiosità estrasse la radice dal terreno friabile. Troppo piccola.

“Che roba è?”. Logan, per combattere la noia, aveva allungato il collo e osservava il sottile tubero bianco che Meli stava ripulendo dai resti di terriccio.

“Carota selvatica. Ma non è una pianta adatta ai principianti, questa: è un’ombrellifera troppo facile da confondere con la cicuta — che, come immagino tu sappia, è mortale anche in piccole dosi”.

Gli mostrò il fiore appena colto illustrandogliene le caratteristiche. Era possibile riconoscere la carota selvatica grazie al fiore porpora al centro dei tanti fiorellini bianchi e dal profumo dolce; la cicuta invece dal gambo maculato e dall’olezzo di pipì di gatto. Logan si finse interessato e annuì.

Di nuovo, qualcosa di piccolo e agile fece ondeggiare l’erba alta. Meli ne seguì lo spostamento quasi certa che non fosse nulla di minaccioso, ma la sua mano corse comunque all’impugnatura del coltello che teneva alla cintura.

Infine, tra gli steli verdi, scorse una piccola pigna dotata di gambe. Rilassò la presa sul coltello mentre un esserino alto un palmo emergeva dall’erba alta. Aveva un faccino che pareva appena abbozzato su una ghianda, un grosso cappello di pigna e braccine a gambette come stecchini di legno articolati.

Meli sorrise mentre il pignoleto balzava in un adorabile attacco per agguantare una lumaca che si stava facendo i fatti suoi lungo il gambo di un giglio rosso. L’esserino, tronfio del successo, si trascinò dietro la conquista e si sedette su un sasso poco lontano. Con le gambette penzoloni si mise la lumaca in grembo e infilò felice le braccine dentro il guscio. Un esagerato rumore di risucchio confermò che era riuscito nel suo intento, e che ora il pignoleto stava pranzando soddisfatto con il risultato della sua avventurosa sessione di caccia.

“Un temibile mostro” commentò Meli divertita. Logan, intento a rimettere la spada al suo posto, le rispose con un grugnito inintelligibile. Lei gli sorrise sorniona e gli allungò il fiorellino bianco in segno di pace. L’ammazzamostri non lo accettò.

Continuò a raccogliere le piante, ignorando Logan che aveva cominciato a camminare avanti e indietro nello spiazzo erboso con espressione sempre più accigliata. Quando anche un bel mazzo di fiori di carota fu pronto, Meli si accinse a legarlo allo zaino. 

Fu la voce di lui a bloccarla. “Dobbiamo tornare indietro”. Il tono suonava stranamente rigido.

Meli si guardò attorno. Quando vide che nessuna minaccia era in vista — il temibile pignoleto, sazio, stava godendosi il calore del sole sulla roccia — replicò infastidita: “Non ho finito”.

“Non mi…”.

“Oh, insomma. Ti ho già detto che te ne puoi andare, se vuoi. Oggi i tuoi servigi non sono richies—”. 

Un cumulo di terra e erba esplose a pochi metri da Meli, che cadde gambe all’aria in un tripudio di fiori volanti. I denti si avventarono su di lei prima che potesse anche solo pensare di fare qualcosa. Gridò e chiuse gli occhi.

Ma il dolore non arrivò. Con cautela, la donna si arrischiò a guardare. I denti, bianchi e ricurvi, erano ad un palmo dalla sua faccia, disposti in cerchio su tre file attorno al buco disgustoso e fetido che era la gola di un mostro che si contraeva spasmodico… perché aveva la spada di Logan conficcata nel cervello.

Meli sollevò lo sguardo su Logan. L’ammazzamostri ruotò la lama e il mostro gorgogliò; l’essere ricadde a terra agonizzante non appena l’arma venne estratta. Una pozza di sangue cominciò a inzuppare l’erba e il terreno.

Logan, con la spada lorda di sangue in pugno, la guardò dall’alto con un’espressione di sfacciata superiorità. “Stavi dicendo?”.

Meli era senza parole. Guardò di nuovo la carcassa che le sfiorava i piedi. Aculei pelosi ricoprivano il corpo possente di una specie di bruco carnoso, dotato di una bocca zannuta di una circonferenza tale da poter ingoiare un uomo adulto senza difficoltà. Un bigaaso.

Cosa diamine ci fa qui? Non ce ne sono mai stati in questa zona. Mai.

“Come te ne sei accorto?” ansimò Meli, ancora scossa.

“Il terreno” spiegò Logan, “suona a vuoto in alcuni punti. I bigaasi scavano gallerie vicino alla superficie per attaccare a sorpresa”. Come ora, era il palese sottinteso.

Meli deglutì e sbatté gli occhi più volte nel tentativo di sincerarsi che quello che vedeva fosse reale. Logan ripulì la spada nell’erba alta.

“Sei… stato abile”.

L’uomo le scoccò un’occhiata in tralice. “A te l’erba. A me i mostri”.

Come dargli torto? Meli si rialzò sulle gambe instabili e recuperò i fiori volati dappertutto. Di sottecchi spiò l’uomo misterioso che l’accompagnava. Prima la gemma. Ora questo. Cominciava a pensare di non trovarsi davanti ad un comune ammazzamostri di montagna. Scrutò il cielo. Forse avrebbe davvero potuto…

“Stai pensando a quello che ti ha detto quel vampiro. Alle strigi”.

Il viso di Meli scattò nella sua direzione. Non le erano mai piaciuti gli uomini troppo perspicaci: per esperienza, portavano solo rogne. Raddrizzò le spalle e lo squadrò sospettosa.

Logan fece un cenno verso l’alto. “Il cielo. Non hai smesso di guardare in su da quando l’hai saputo” disse a mo’ di spiegazione.

“E se anche fosse?” lo sfidò.

“A quanto li rivendi? Gli artigli?”

“Se trovo la persona giusta, duecento l’uno”.

“Voglio due terzi”.

“Pazzo. Metà”.

“Sessanta percento. Faccio io il lavoro sporco”.

Meli strinse gli occhi e si prese qualche secondo prima di rispondere. “Sai quello che fai?”.

Logan alzò il mento con ostentata superbia. “Conosco un modo”.

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Capitolo 4
*** Le Strigi e un Cestino [REVISIONATO] ***


Le Strigi e un Cestino

“Mi stai pigliando per il culo?”.

L'espressione di Logan rimase impassibile. “Funziona, ti dico”.

“Ma è ridicolo” disse Meli, osservando il contenuto del cesto che le porgeva l’ammazzaspettri. “Come può funzionare?”

“Non chiedermi i tecnicismi, io eseguo e basta”.

“E ne sei certo?”.

“Ne sono certo”.

Dopo una seconda notte a Costoi, il suo contatto fidato — un bardo assolutamente poco rispettabile che si fingeva un menomato di guerra — le aveva riferito che le strigi erano state avvistate sul versante ovest del Seghia. Volteggiavano lì da almeno una settimana, aveva detto, spaventando a morte i viandanti con le loro risate stridule. Erano già state inviate due squadre per scacciarle, ma entrambi i gruppi erano tornati a valle con ferite profonde sulla testa e una nuova idiosincrasia nei confronti degli animali dotati di becco e piume.

E artigli: gli artigli di strige erano dotati di proprietà febbrifughe tali da far valere il loro peso in oro. Senza contare gli sciamani e le fattucchiere che ne bruciavano le polveri per sedicenti pratiche divinatorie… 

Insomma, riuscire a mettere le mani sulle estremità uncinate di quelle bestie sarebbe stato un bel colpo. Nonostante il solo pensiero provocasse in Meli un nodo di ansia gelida alla bocca dello stomaco, se Logan diceva che si poteva fare… Osservò di sottecchi l’ammazzamostri intento a sistemarsi il cestino di vimini sulle spalle: con i vestiti scuri, il trucco nero e l’espressione arcigna, era un’immagine spassosa. Meli si morse l’interno della guancia e rifletté, indecisa se fare un atto di fede. Dopotutto le aveva portato la gemma viola, no? E aveva ammazzato quel bigaaso con la ferocia di un assassino prezzolato. Però il contenuto del cestino era assai ridicolo; il suo modo di fare tutt’altro che rassicurante. Avrebbe potuto cavarsela contro uno stormo di orride strigi…?

Meli decise di fidarsi del suo istinto. Aveva sempre avuto un buon occhio per le persone, si disse; augurando di non star facendo un epico errore, disse: “D’accordo. E strigi sia. Andiamo”.

***

Si arrampicarono sulla montagna per quasi due ore prima di sentire la prima strige. Le loro risate, stridule e cattive, avrebbero fatto rizzare i peli sulle braccia anche al più coraggioso tra i paladini. 

Fu Logan a individuarle per primo. Afferrò Meli per la manica della camicia e la trascinò sotto un basso albero di pino. La bestia veleggiò sopra di loro, enorme e scura, scandagliando con i suoi occhi gialli il sentiero rupestre.

Meli, spiando tra le fronde di aghi verdi, trattenne il respiro. Non aveva dimenticato quanto fossero temibili quelle creature. La presa di Logan si fece più lieve e rassicurante sul suo braccio.

“Procediamo” sussurrò lui, facendo un cenno con il mento. “Da quella parte”. 

Risalirono un sentiero meno esposto fino a raggiungere un pianoro roccioso. Meli si arrampicò sulle rocce sconnesse, gettò un’occhiata al di là e subito si ritrasse. 

Erano arrivati al nido delle strigi.

Le strida e le risate ora erano vicinissime, poco sopra di loro. Meli sentì un sudore gelido colarle dietro il collo. Forse non era stata una buona idea. Lo disse a Logan. “‘Sti gran cazzi, ormai siamo qui” replicò lui. La convinse.

Si addossarono alle rocce e discussero sottovoce. “Tu starai nascosta qui” disse Logan. “Io mi terrò vicino al nido, sulla parete della montagna” le disse. “Le strigi sono meno agili a terra. Meno possibilità hanno di volare, meno possibilità avranno di ucciderci. Chiaro?”. Meli annuì. Il sudore ghiacciato le aveva incollato la camicia alla schiena. Logan le porse il cestino. La cosa al suo interno si agitò.

“Usalo solo in caso di emergenza” l’avvertì. Logan sfilò la spada dal fodero di pelle. E si lanciò in mezzo ai mostri. 

Le strigi urlarono scandalizzate, spalancando i lunghi becchi arcuati e agitando le ali nere. Gli occhi gialli, infossati in brutti visi di donna, lampeggiarono furibondi per quell’intrusione. 

La strige più vicina si erse e attaccò Logan con le quattro zampe artigliate. L’ammazzamostri attese fino all’ultimo istante e poi balzò in alto, colpendola alla nuca con il tacco dello stivale. La bestia piombò in avanti e si schiantò contro la parete di roccia.

Le sue sorelle infernali schiamazzarono infuriate. Meli ne contò otto. Otto donne demoniache con corpo di uccello. Troppe, per un solo uomo. Meli si appiattì contro la montagna, tentando di restare nascosta e allo stesso tempo di non perdere di vista Logan. Il peso nel cestino di vimini si spostò tra le sue mani.

Due strigi gli furono addosso nello stesso momento. Logan tranciò di netto due zampe artigliate e si chinò per evitare di essere investito. Rotolò a terra e si rialzò in un baleno, in posizione a gambe larghe, la spada scintillante di sangue. Una strige lo puntò con le fauci spalancate; Logan fece roteare le spada e la colpì sul becco, che fece un orribile rumore di ossa spezzate. La bestia urlò di dolore e balzò via.

Le strigi stavano facendo un baccano infernale. Logan se la stava cavando egregiamente, ma quanto sarebbe durato? Meli non fece in tempo a chiederselo che due zampe artigliate la sollevarono da terra e la scaraventarono sul pianoro di roccia, in mezzo alla lotta.

Meli, schiena a terra, strinse al petto il cestino e tirò fuori il suo coltello da erbe. Tre orrendi visi beccuti risero di lei. 

“Pensavi di poterti nascondere dalle striiigi, bambiiiina?” strillò una di loro sopra la sua faccia. “Lo sai cosa fanno le striiigi ai biiimbiii cattiiiivi?”.

Meli non seppe mai cosa facevano le strigi ai bimbi cattivi, perché la testa di quella particolare strige volò via, mozzata da un fendente di Logan, e andò a rimbalzare contro la montagna. 

Le strigi si voltarono verso l’uomo, fumando di rabbia, sbattendo le ali e facendo schioccare i lunghi becchi. Gli furono addosso in un turbinio di piume e zampe artigliate. Erano troppe. Meli capì che quello era il momento. 

Aprì il cestino.

***

Meli ne lanciò il contenuto verso la calca di mostri. E lì atterrarono, miagolando infastiditi, quattro adorabili gattini. Le strigi si immobilizzarono con il becco spalancato, fissando frastornate i nuovi arrivati. Logan, a terra, insanguinato e con la spada sguainata, restò in attesa.

Meli ebbe la certezza matematica che i mici fossero vicini alla loro prematura dipartita; socchiuse gli occhi preparandosi alla visione di ciuffi di pelo volanti e carne maciullata. Ma le strigi lanciarono fischi acuti, terrorizzati, e indietreggiarono. I gattini miagolarono più forte, zampettando instabili verso i mostri.

“Schifosiiii bambiiini! Cosa ciii avete portato!” strillarono le strigi. E poi, inspiegabilmente, presero il volo. Meli e Logan, increduli, osservarono le figure di uccello farsi sempre più piccole contro il cielo azzurro. 

Erano rimasti soli nel nido abbandonato. Be’, soli: con due cadaveri di strigi, e quattro adorabili micetti. Si guardarono ansimanti e si fecero un cenno stanco. Erano ancora vivi.

Meli, dolorante, si mise a sedere. Adesso che l'adrenalina era scesa, sentiva i profondi tagli sulle spalle dove la strige l’aveva artigliata. Logan si alzò. Era coperto di sangue, ma non era suo. Non aveva un graffio, il maledetto. Meli si lasciò controllare le ferite. L’uomo borbottò un inelegante incantesimo di guarigione e la tirò in piedi senza premura. “Dobbiamo scendere prima che si faccia notte” l’avvertì.

Meli si avvicinò alle carcasse e, coltello in mano, rimosse i lunghi artigli ricurvi dalle zampe delle bestie. Li infilò poi, ancora sanguinanti, in un sacco di iuta che infilò nello zaino. Recuperarono i gattini — non erano andati lontano — e li richiusero nella cesta di vimini. Nervosi e stanchi scesero veloci giù dai tornanti sassosi, imprecando e scivolando spesso, fino ad arrivare al sentiero nel bosco. Lì osarono rallentare. Il sole aveva ormai da molto superato la linea delle montagne, e il cielo si era tinto di una delicata sfumatura di indaco.

“Ma poi” chiese Meli con il fiato corto, “perché proprio i gattini?”.

“Ma che cazzo ne so perché i gattini” borbottò Logan.

Meli annuì come se avesse appena ricevuto un’esauriente spiegazione. “E perché non li abbiamo lanciati subito nella mischia?”.

Un miagolio lamentoso arrivò dalle spalle di Logan. La mascella dell’ammazzamostri si irrigidì. “Perché non ero affatto sicuro che avrebbe funzionato”.

Meli pensò di offendersi, ma non ci riuscì; suo malgrado, fece uno sbuffo divertito. “Lo sapevo che eri un ciarlatano. Tutta apparenza e niente sostanza”.

“Ti ho appena salvato la pelle da uno stormo di strigi assatanate” replicò asciutto lui.

“È letteralmente il tuo lavoro”. 

“Non mi hai pagato per questo lavoro. Solo per i licantropi”.

“Ti pagherò. E mi auguro che tu non mi abbia mentito anche sulla tua abilità con i lupi mannari”.

Logan le lanciò un’occhiataccia. “I licantropi sono il minimo sindacale per un ammazzamostri”.

“Per un ammazzamostri bravo, sì. Ma per un ciarlatano…”.

Logan si scaldò e cominciò a elencare una serie di esperienze curriculari pregresse e di ragioni per cui, lavorando con lui, non avrebbe dovuto avere nulla di cui preoccuparsi. Meli lo ascoltò divertita. Quell’ammazzamostri era arrogante, permaloso, e facile all’ira. E lei, che quando si impegnava sapeva come essere irritante, si dilettò nel punzecchiare ogni nervo scoperto che riuscì a trovare finché non giunsero a Costoi.

Arrivarono che era ormai notte; la luna alta nel cielo era quasi un cerchio perfetto. Si infilarono tra le case buie sulla deserta stradina acciottolata. Un miagolio acuto ricordò loro che non erano soli. “Andiamo. So chi ci può dare da dormire con così poco preavviso” disse Meli.

Si avviarono verso la zona più esterna del paese, dove le case si facevano sparute e le vie sempre più larghe. Giunsero ad una casetta di pietre del tutto simile alle altre, ma con un rigoglioso cespuglio di lamponi di fianco alla porta. Meli bussò due volte e furono accolti da una vecchina con i capelli grigi, occhi a mandorla e un grembiule rosa che, dopo un momento di confusione, abbracciò Meli stretta stretta e, senza dire una parola, li fece entrare.

La vecchina indicò il tavolo e le sedie e, prima che potessero rifiutare, tirò fuori latte, carne salata e polpette di pane. Li osservò mangiare soddisfatta, le mani sui fianchi ossuti. Meli tirò fuori i gattini e un lauto pasto fu preposto anche per loro. “Dobbiamo pur ringraziarli” disse a Logan, che alzò gli occhi al cielo.

Distrutti, ma con la pancia piena, si alzarono da tavola. “Grazie Meimei. Ti devo un favore, come sempre”.

La vecchia le fece un cenno con la mano e un buffetto sulla guancia. Lesta sparecchiò le stoviglie e indicò loro la camera, sempre la stessa, che Meli affittava per le emergenze. La vecchia accese il fuoco nel camino e se ne andò.

Appena la porta si richiuse alle loro spalle, Logan chiese: “È tua nonna?”.

“No. Una sua amica”.

“Non parla”.

“È muta”.

“Ah”.

La stanza era piccola e accogliente, con il focolare, un tappeto di vimini intrecciato, una grossa cassapanca, un letto, una sedia e un appendiabiti di legno grezzo. La frugalità risoluta con cui Meimei conduceva la sua vita si rispecchiava nel sobrio arredamento della casa.

Logan indicò l’unico letto della stanza. “Ti avviso, io non ho nessuna intenzione di fare il cavaliere e di dormire per terra”.

“Io nemmeno”.

“Bene”.

In comune accordo decisero che, prima di infilarsi sotto le coperte, era meglio togliersi di dosso il sangue secco e l’odore di gallina delle strigi. Si lavarono nella fontana gelida fuori dalla casetta e tornarono dentro ad asciugarsi battendo i denti davanti al focolare. 

Tremando di freddo, Meli notò che il trucco nero di Logan si era sciolto, perduto nell’acqua ghiacciata della fonte di montagna. E non poté fare a meno di notare che, senza tutto quel nerofumo a nascondergli i tratti, Logan era un bell’uomo. Non che gliel’avrebbe mai detto, ovviamente. 

“Come mai ti metti tutto” Meli fece un gesto con la mano a indicare la sua faccia “quello?”.

Lui la guardò stizzito. “Sono cresciuto con gli elfi”.

“Ma non sei un elfo”.

“Non sono fatti tuoi”.

Meli roteò gli occhi. “Era solo per fare conversazione. Che permaloso”.

“Mi paghi per salvarti la pelle, non per chiacchierare” disse lui, in tono decisamente permaloso.

Una volta asciutti, esausti e infastiditi dalla presenza l’uno dell’altra, si misero a letto.

***

La notte montana era buia e silenziosa. Il fuoco si era spento. Meli stava finalmente per prendere sonno quando Logan le diede un pugno sulla schiena.

Meli sobbalzò e si voltò rabbiosa. “Oh, che cazzo fai?”.

Ma Logan non era sveglio. Stava sognando. 

Meli si mise seduta, si strofinò gli occhi e scrutò il viso dell’uomo con la poca luce bianca che entrava dalla finestra. Logan stava balbettando qualcosa di inintelligibile e si agitava, scuotendo la testa e le braccia in movimenti convulsi. Ecco perché le aveva tirato un gancio destro: stava facendo un incubo. E doveva essere un incubo crudele, perché iniziò a tremare e ansimare. Il sudore gli aveva appiccicato i capelli neri sulla fronte. Meli, presa da pietà, allungò una mano per svegliarlo. 

Fu allora che la sentì. Il buio attorno alla sua mano si fece denso come fango gelido. A Meli mancò il respiro. 

Non era un incubo. Era una succube.

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Capitolo 5
*** La Succube [REVISIONATO] ***


La Succube

Meli ritrasse la mano di scatto, e la succube si rivelò. Era uno spirito maligno in forma di donna, con il volto pallido, corna nere, lunghissimi capelli bianchi e vesti candide che ondeggiavano come immerse nell’acqua. Lo spirito era a cavalcioni su Logan e lo fissava con occhi sfigurati dalla lussuria. 

La mano di Meli corse al coltello, ma non lo aveva; se l’era tolto per dormire, convinta di essere al sicuro a casa di Meimei.

Incespicò indietro e cadde dal letto. La succube si voltò di scatto verso di lei, la bocca spalancata piena di denti aguzzi. Ma parve non vederla, e riportò l’attenzione sulla sua vittima. Faccia a faccia con l’ammazzamostri, la succube srotolò una lunga lingua, nera e biforcuta, verso di lui.

Col cazzo, pensò Meli.

Urlò e si avventò sulla succube con l’unica cosa che aveva a disposizione: se stessa. Caddero entrambe dall’altra parte del letto, rotolando e impigliandosi nei lunghi capelli bianchi. Intrappolata sotto il peso del mostro, Meli ebbe la sensazione di essere caduta in una pozza di fango ghiacciato. La succube spalancò la bocca per strapparle la faccia, ma Meli afferrò l’attizzatoio dal camino spento e lo usò come uno scudo; i denti del mostro si chiusero sull’asta di ferro, piegandola.

La succube sputò l’attizzatoio e urlò, un suono acuto e terribile. A Meli rimbombò il sangue nelle orecchie. La succube la afferrò per le spalle e la trattenne a terra, fissandola con i suoi occhi di carbone. Di nuovo, la lingua a due punte guizzò fuori. Meli si divincolò, ma lo spirito sembrava pesare dieci volte la sua stazza. La lingua le sfiorò il mento. Un brivido freddo si riverberò da dove la punta umida l’aveva toccata.

Ci fu un rumore sordo al piano di sopra. La faccia orribile della succube scattò verso l’alto. Meli pregò che Meimei si fosse svegliata, e approfittò di quel secondo di distrazione per sollevare i fianchi con tutta la sua forza. La succube fu catapultata in avanti, la faccia contro il tappeto. Meli sgusciò via da sotto e si liberò.

Corse a recuperare il coltello e si preparò in posizione. La succube, a carponi sul pavimento, si girò lentamente verso di lei. Gli occhi neri, incontrando la luce che entrava dalla finestra, brillarono come tizzoni nel buio. Con le vesti fluttuanti e i capelli bianchi davanti al viso, era spaventosa. E incazzata. 

Meli deglutì e si preparò all’attacco. Con la bocca spalancata, il demone si scagliò su di lei. Meli scartò di lato e inflisse un fendente al fianco del mostro. Quella si bloccò, osservò il sangue che le sgorgava dalla ferita, e si incazzò ancora di più.  

Mi serve un’arma più grossa, pensò Meli, stringendo il coltello nella mano sudata.

La succube le fu addosso. Meli mirò alla faccia, ma il mostro si scansò e il colpo andò a vuoto. La donna-demone le afferrò il polso e Meli perse la presa sul coltello, che cadde a terra tra di loro. Per evitare un morso che le avrebbe staccato la testa dal collo, Meli indietreggiò e cadde. In un istante lo spirito fu di nuovo a cavalcioni su lei, bloccandola in una morsa gelida. Meli si guardò freneticamente attorno, ma non vide nulla da poter usare come arma. Aveva finito le idee. 

Poi la porta si spalancò. Attraverso le vesti galleggianti del mostro, Meli vide la vecchia Meimei. La vecchia si mise in posizione di combattimento e fece un gesto intricato con entrambe le braccia. Un’accecante luce verde esplose nella stanza. Meli chiuse gli occhi e, mentre un piacevole flusso di calore spazzava via il fango gelido, si sentì sollevare da terra per poi ripiombare giù con forza. Qualcuno urlò.

Disorientata e madida di sudore, Meli riaprì gli occhi. Un fumo grigio sfrigolava nella stanza. La vecchia Meimei era ancora in posizione, a gambe larghe con un ginocchio piegato e un braccio teso davanti a sé. L’attizzatoio deformato giaceva a terra poco lontano. Logan, sdraiato a letto, sembrava illeso.

La succube era sparita.

***

Logan ci mise un giorno intero a riprendersi dall’attacco della donna-demone. Meli gli spiegò che era normale che fosse stato lui ad esserne colpito: le succubi attaccano solo gli uomini, nutrendosi della loro forza nel sonno. Quello che non era affatto normale, invece, era che ci fosse una succube lì, a Costoi, nel bel mezzo dell’estate.

Prima le strigi, e adesso una succube? Meli si lambiccò su quelle stravaganti anomalie mentre portava un vassoio di cibo in camera per Logan. Lo guardò mangiare per un po’, poi non resistette. “Ti ho salvato la vita” gongolò. “Tu le strigi, io la succube. Siamo pari”.

Logan non sollevò nemmeno lo sguardo dalla zuppa. “La vecchia mi ha salvato la vita”.

“Saresti morto stecchito se io non mi fossi svegliata”.

“Ma se mi hai detto che ti sei svegliata perché ti ho tirato un cazzotto”.

Lei gli disse che era troppo pignolo, e che un grazie sarebbe stato sufficiente. Lui le disse di stare zitta e di lasciarlo mangiare in pace. Meli alzò le mani e uscì dalla stanza.

La vecchia Meimei la accolse in cucina con un dolcissimo sorriso sdentato. L’aspetto di Meimei, con i suoi capelli grigi e il grembiule rosa, ingannava. Era un’ex soldato della Guerra delle Catene, ormai in pensione, e aveva combattuto con sua nonna nella battaglia per il Pola, tirandola più volte fuori dai guai. Era muta perché era stata prigioniera di guerra e le avevano tagliato la lingua. Una volta libera, lei aveva tagliato ben altro ai suoi secondini.

Meimei le fece segno di avvicinarsi e le disse, con veloci movimenti di dita, che era felice che il suo amico stesse bene, e che era dispiaciuta di non essersi accorta prima della succube sotto il suo tetto. Meli era arrugginita con la lingua dei segni, e faticò a seguire i gesti veloci della donna. Meimei, con espressione afflitta, aggiunse il gesto “sto invecchiando”.

“Invecchiando? Tu, Meimei? Ma se le hai fatto il culo”.

La vecchia si strinse nelle spalle con un sorriso mesto, poi ricominciò a segnare. “Pericolo” “da sotto” “mostri” “numerosi” “mistero” fu tutto quello che Meli capì. Vedendola in difficoltà, la vecchia si munì di carta da lettere e di un carboncino con cui scribacchiò veloce.

Meli afferrò il pezzo di carta e lesse: Qualcosa non va. Troppi mostri. Vengono da sotto, richiamati da qualcosa. 

“Vengono da sotto?” chiese Meli.

La vecchia annuì.

“Chi li richiama?”.

Meimei fece di nuovo il segno che indicava “mistero”.

Meli guardò la donna, e poi il biglietto tra le sue mani. Un piccolo fuoco, a lungo smorzato, si accese dentro di lei.

***

Meli tornò in camera per controllare il suo uomo. Logan era sdraiato a letto con un braccio appoggiato sugli occhi, infastidito dalla luce del tardo pomeriggio. Era ancora pallido e non sembrava avere nessuna voglia di alzarsi. Il vassoio di cibo, vuoto, era posato sulla scrivania lì vicino.

Meli, mani sui fianchi, accettò la situazione.

“Logan, sei a terra” disse. “Non puoi affrontare i licantropi. Considerati liberato dal contratto. Posso trovare un altro ammazzamostri”.

Logan fece un verso rauco e scattò a sedere. “No. Ce la faccio. Vengo io con te” disse un po’ troppo in fretta. Poi, con più calma, aggiunse: “E poi non troveresti un altro ammazzamostri con così poco preavviso. La luna piena è stanotte”.

Aveva ragione, ovviamente; ma Meli non aveva alcuna intenzione di mettere in pericolo la vita di entrambi con un ammazzamostri allo stremo delle forze. Sospirò. Frugò nella sua bisaccia e tirò fuori due pozioni rinvigorenti. Scosse le bottigliette tonde e il liquido al loro interno da azzurro si fece oro intenso. “Sono ancora buone. Bevi”.

Logan inarcò le sopracciglia, colpito. “E queste dove le hai prese?”.

Meli colse l’occasione al volo: “Non sono fatti tuoi”.

Logan scosse la testa e ingollò le pozioni. Il suo viso riprese subito un colore più accettabile. Meli non si stupì: quelle pozioni erano il meglio del meglio sul mercato, e costavano una fortuna.

Ma era ancora titubante. “Sei sicuro di farcela? Ti pagherò gli artigli di strige. Non sei obbligato a…”.

“Smettila di chiedermelo. Verrò” la interruppe lui scoccandole un’occhiata di fuoco. Stava decisamente meglio, pensò Meli.

“Molto bene” replicò lei, laconica. “Preparati allora, partiamo tra un’ora”.

***

Prima di andarsene, Meimei regalò a Meli un bastone di legno di castagno. Commossa, la botanica passò i polpastrelli sul legno levigato. Era spesso ma leggero, elegante ma letale. Le arrivava al mento: l’altezza perfetta per combattere all’orientale, stile che Meli aveva padroneggiato sin da bambina grazie proprio agli insegnamenti di nonna Nene e Meimei. Stringendolo con entrambe le mani, Meli chinò la testa e ringraziò profusamente. Per la cultura di Meimei regalare un bastone del genere era segno di grande affetto e rispetto senza pari. E poi Meli ne aveva terribilmente bisogno: il suo vecchio bastone aveva fatto una brutta fine dentro un crepaccio del ghiacciaio di Vatna e, tra i mostri e le consegne, non aveva ancora avuto tempo di sostituirlo. 

La vecchia le fece i segni di “stai attenta” e “ti voglio bene”. Meli la abbracciò di nuovo e, con un Logan taciturno e infastidito al suo fianco, uscì nella luce avvolgente del tardo pomeriggio.

Dopo aver affrontato le strigi, suo terrore da quando era bambina, i licantropi non le facevano così paura. Aveva fatto diverse sessioni di luna piena con sua nonna e le sue sorelle. Si trattava perlopiù di muoversi in fretta e guardarsi alle spalle a vicenda. E non farsi mordere, ovviamente.

Si avviarono sul sentiero nel bosco verso il lago. Meli guardò Logan e si chiese se si fosse davvero ripreso dall’incontro di quella notte. Pensò alla succube e alle strigi, alle loro risate stridule così stonate contro il cielo estivo. Qualcosa non andava. Ripensò al biglietto di Meimei, al sicuro nella tasca del gilè, trasudante una promessa di mistero e di avventura. Si chiese se quel viaggio avrebbe portato molto di più di quello che prometteva. E, in un guizzo di isteria, si chiese anche se non sarebbe stato meglio, dopotutto, tenersi quei gattini.

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Capitolo 6
*** Luna Piena e Fiori di Sambuco [REVISIONATO] ***


Luna Piena e Fiori di Sambuco

Era quasi l’ora. 

Meli osservò il sole, una palla di fuoco arancione, tuffarsi piano dietro le montagne. Erano arrivati appena in tempo alla radura vicino al Lago Rosso, così chiamato per una particolare specie di alga che ci proliferava dentro — anche se, ovviamente, le leggende locali sproloquiavano di principesse morte in guerra e altre scempiaggini.

Gli alberi di sambuco erano carichi di fiori bianchi, alcuni già sciupati, in attesa dell’ultima possibilità di essere raccolti. La luna sarebbe sorta a breve, rotonda e indifferente. 

Meli cincischiò con il grosso sacco di iuta che aveva legato in vita. Non appena il sole fosse calato e i primi raggi lunari avessero toccato le foglie del sambuco, avrebbe potuto cominciare il suo lavoro. Dovevano essere rapidi e precisi, silenziosi ed efficienti.

Nelle notti di luna piena i licantropi — o le persone affette da licantropia, come avrebbe detto sua sorella, più politicamente corretta di lei — si trasformavano in bestie feroci che come unico scopo avevano quello di trucidare qualunque cosa respirasse. Persone, gattini, altre bestie? Poco importava.

Quindi, perché rischiare la pelle uscendo in queste notti così pericolose? Perché con i fiori e le foglie di sambuco raccolti alla luce della luna piena si potevano realizzare pozioni anti-licantropia di grande efficacia. Minor dosaggio e ottima copertura dei sintomi per il novantasette percento degli individui testati. Le pozioni si potevano realizzare anche con i fiori e con le foglie più tenere raccolti in ogni periodo dell’anno a prescindere dalla fase lunare? Sì. Ma con i medicinali così ottenuti la percentuale di efficacia crollava al sessantadue percento: non toglievano proprio tutti tutti i sintomi, ecco. E sua sorella a questi dettagli ci teneva.

Addirittura, sua sorella chiedeva alla sua scorta di ammazzamostri di non uccidere i licantropi, in quanto potevano essere scappati dalla prigione-cantina in cui la famiglia amorevole li aveva rinchiusi per la loro sicurezza. Era un’anima bella e ingenua, sua sorella.

Lanciò un’occhiata a Logan appostato alle sue spalle, la spada sguainata. Le dava la schiena. Meli pregò che le pozioni rinvigorenti fossero state sufficienti. Non aveva paura di morire, ma non farsi mordere era fondamentale: checché ne dicesse la sua, di famiglia amorevole, Meli si sarebbe ammazzata piuttosto di vivere il resto della sua vita con in faccia il marchio della licantropia.

Il sole, infine, sparì dietro le montagne. Il primo ululato incrinò il silenzio nella radura.

Meli si mise subito all’opera, staccando i boccioli di sambuco con mani esperte e facendoli cadere delicatamente nel sacco legato alla cintura. Logan, alle sue spalle, non emetteva un suono.

Apparvero le prime stelle. L’aria era umida e permeata dal profumo dolce del sambuco.

Gli ululati si fecero più frequenti e vicini. I lupi si stavano radunando in branchi, si salutavano, si azzuffavano. Ben presto, nel buio tra gli alberi attorno a loro, si udirono rumori di zampe e foglie spostate. Meli procedeva veloce e assorta nel suo lavoro.

Qualcosa di grosso ringhiò. Meli si immobilizzò, la mano a mezz’aria tra i fiori e il sacco pieno per tre quarti. Fece per dire qualcosa, ma Logan la zittì. 

“Sono qui”.

Meli aguzzò le orecchie. Tutt’attorno gli alberi frusciavano e il buio si muoveva denso e minaccioso. 

“Coprimi le spalle” fu l’unica cosa che Logan le disse prima che i lupi emergessero dal bosco. Tre, poi quattro, poi cinque. Erano circondati.

Meli abbassò lo sguardo sul licantropo più vicino a lei. A quattro zampe, alto almeno un metro al garrese, aveva occhi cremisi venati di sangue e un brutto ghigno pieno di zanne gialle. La luce bianca della luna gli illuminava il pelo grigio, annodato e sporco. 

Logan fece oscillare la lama d’argento e si mise in posizione. Il lupo arricciò le labbra e emise un basso ringhio ammonitore senza staccargli gli occhi di dosso. Meli, cauta, chiuse il sacco e afferrò il suo bastone.

Quando il primo lupo mannaro attaccò, l’ammazzamostri non ci andò leggero: con un fendente deciso gli aprì il petto dalla gola allo stomaco. In una cascata di sangue, l’animale si schiantò a terra. 

Il branco guaì e latrò indignato. I lupi, fissandoli con occhi cremisi e la bava alla bocca, cominciarono a girare in tondo. 

Meli strinse il bastone nelle due mani. Non ci fu il tempo di pensare ad una strategia. Quando un licantropo marrone ringhiò e le balzò addosso, roteò il bastone e lo colpì sul muso; l’animale, caduto a terra, venne finito una coltellata dritta nella tempia.

“Sono troppo vecchia per queste stronzate” borbottò Meli estraendo il coltello lordo di sangue.

Alle sue spalle, Logan stava facendo a pezzi un grosso lupo nero. Tre licantropi a terra. Erano rimasti due contro due. Assolutamente fattibile, pensò Meli. Il sacco di sambuco era quasi pieno; fatti fuori quei due pelosi, avrebbero potuto finalmente tornarsene a casa.

I due combattenti si prepararono, schiena contro schiena, all’ultimo assalto.

***

…che non arrivò. I due licantropi, per un attimo, sembrarono scombussolati. Poi annusarono l’aria, guairono e fuggirono rapidi tra gli alberi.

“Ma che—?” cominciò Meli, abbassando il bastone; ma un respiro pesante, rantoloso e enorme la interruppe. I due combattenti si guardarono allarmati; poi, insieme, sollevarono il viso

E quello che videro non era decisamente un licantropo. Somigliava più ad un enorme leone spelacchiato, gonfio di muscoli venosi e con una striscia di peluria irta sulla schiena, con sei occhi malvagi incastonati lungo il brutto muso color sabbia.

La bestia spalancò la bocca e ruggì un ruggito che non aveva nulla di lupesco. Meli notò con orrore le due file di denti acuminati della dimensione della sua faccia. Alle spalle del mostro, due sottili code dentellate di aculei ricurvi frustavano l’aria.

“Che ci fa un nekorai qui?!” sbottò Meli. Prima le strigi, poi la succube, e adesso quella chimera infernale a metà tra un puma e una iena gigante? Avrebbe avuto da dire due o tre parole a sua sorella, oh sì.

Che poi il nekorai non era un mostro di quelle longitudini; Meli lo conosceva solo grazie alle favole orientali che Meimei e nonna Nene raccontavano, tanti anni prima, a lei e alle sue sorelle prima di dormire. Era topico delle torride savane orientali, non certo adatto alla vita di montagna. Che diavolo ci faceva lì?

Logan non restò fermo a chiederselo. Caricò la bestia facendo un salto e puntando dritto alle sei paia di occhi neri. Ma non arrivò al bersaglio: il nekorai indietreggiò e con una zampata scaraventò Logan a diversi metri di distanza. L’ammazzamostri grugnì e rotolò dolorante. Meli corse verso di lui, mettendosi tra l’uomo a terra e il mostro. Il suo cervello correva all’impazzata. Quel mostro era enorme. Non avevano speranze.

Logan si alzò a fatica dietro di lei. Aveva la spalla lacerata dagli artigli della bestia. Grondava sangue. 

“Riesci a combattere?" gli chiese Meli impanicata, frugando nello zaino alla ricerca di una soluzione. Ecco, lo sapeva: avrebbero dovuto tenersi i gattini. Logan raccolse la spada con la mano sinistra e sputò a terra un grumo di sangue. “Sì” rispose.

Il nekorai avanzò verso di loro. Meli non aspettò il suo turno per fare la pignatta. Mollò lo zaino e con il bastone colpì il muso della bestia mentre Logan sferrava un fendente alla spalla.

Il ruggito di dolore dell’enorme felino fece vibrare i sassi sotto i piedi di Meli, che finalmente trovò quello che cercava: la boccetta verde. La scagliò nella bocca aperta del mostro. Il nekorai, colto di sorpresa, si bloccò a metà ruggito; poi ingoiò la boccetta, vetro e tutto. 

Non accadde nulla.

“Ottima strategia” grugnì Logan.

“Pensavo funzionasse” si difese lei.

Passato il momento di sbigottimento, il nekorai rabbioso le fu addosso. Ma Logan fu più veloce: la afferrò per la giubba e la scagliò all’indietro, al sicuro. Dove un attimo prima c’era Meli, adesso c’era Logan, inchiodato a terra da una zampa artigliata. Il mostro che torreggiava su di lui ringhiò e aprì le fauci.

Eccallà. Lo avrebbe inghiottito in un boccone. Meli, orripilata, si alzò di scatto. Si sentì impotente come mai in vita sua. Il bastone le scivolava dalle mani sudate. Cosa poteva…?

Ma il nekorai sussultò e si bloccò con la bocca aperta. Una bava verde e schiumosa cominciò a colargli tra le zanne, mentre convulsioni sempre più forti gli scuotevano i muscoli mostruosi. Logan sgusciò via dalla presa. L’animale crollò a terra, il corpo contorto da spasmi orrendi.

Meli osservò la scena con un miscuglio di emozioni confuse: disgusto, rapimento, fascinazione; inaspettata speranza.

Logan, ricoperto di bava verde dall’odore nauseante, le si fece accanto. “Che gli hai lanciato?”.

“Aconito” rispose lei, incapace di distogliere lo sguardo dalla bestia agonizzante. Infine, in un ultimo singulto strozzato, il nekorai morì. 

Meli e Logan si guardarono straniti. Ce l’avevano fatta. Avevano raccolto il sambuco durante la luna piena.

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Capitolo 7
*** Addio? [REVISIONATO] ***


Addio?

Meli se ne stava seduta accanto al cespuglio di lamponi sui gradini della casa di Meimei — che ancora una volta li aveva accolti e rimessi in sesto con dedizione e un accattivante sorriso sdentato — e ammirava le montagne della Catena Bianca tingersi di corallo alla luce del tramonto. Era l’ora dell’enrosadira: il fenomeno quotidiano che dipingeva, all’alba e al tramonto, le montagne della Catena BIanca di un tripudio di sfumature rosa, rosso e arancione. Secondo la leggenda, l’enrosadira avveniva ogni giorno a causa di un re che non aveva saputo nascondere a dovere il suo giardino di rose — o qualche stronzata del genere. Meli non aveva buona memoria per le storie inventate.

Aveva dovuto portare Logan di peso fino a Costoi, e non era stato affatto facile. Soprattutto perché l’ammazzamostri, grondante sangue da tutta la parte destra del corpo, non aveva mai smesso di lamentarsi del puzzo del rigurgito verde che “gli si sarebbe attaccato ai capelli”, tanto che Meli, esasperata, aveva valutato di finire lei il lavoro del nekorai scagliando l’ammazzamostri giù per un dirupo. La vecchia Meimei per fortuna non aveva perso la mano con ago e filo e lo aveva ricucito quasi come nuovo; certo gli sarebbero rimaste un bel po’ di cicatrici, ma quelle andavano forti tra gli ammazzamostri, e Logan le pareva un tipo abbastanza vanesio da farsene lustro nelle osterie di campagna.

Grazie all’ospitalità di Meimei potevano contare in un letto caldo anche per quella notte, e il mattino seguente sarebbero ripartiti alla volta di Berg, la tappa iniziale del loro strano viaggio insieme, per vendere il sambuco e infine separarsi. 

Meli si stava stiracchiando i muscoli indolenziti quando qualcosa di morbido e peloso le sfiorò il polpaccio: era uno dei quattro gattini salvati dalle strigi. Questo in particolare era grigio con il muso e le zampine bianche, come se portasse dei minuscoli calzini. Il gattino fece un miagolio acuto e si arrampicò su per i pantaloni di Meli.

La donna rise. “Che fai, vuoi venire a casa con me?”. Il micio, imperturbabile, si acciambellò sul suo stomaco e lì rimase, soddisfatto, a fare le fusa.

Il cielo si stava facendo color lilla, i grilli frinivano, e il freddo della sera cominciava a infilarsi sotto i vestiti. Meli, gli occhi pieni dello spettacolo del tramonto, sospirò soddisfatta. Presto sarebbe tornata a casa.

***

“Trecento per il sambuco, seicento per sei artigli di strige”.

Gli occhi lattiginosi di Victor strabuzzarono da dietro le lenti degli occhiali che teneva in bilico sulla punta del naso adunco. “Meli, sono prezzi folli; tua sorella mi fa la metà”.

“Mia sorella lavora per la gloria, io per il contante”.

La botanica litigò con Victor, il farmacista di Berg, per parecchi minuti prima di farsi comprare il sambuco. Il vecchio non ne volle sapere, però, di prendere gli artigli di strige; dopo quello che avevano rischiato per ottenerli! Non se li meritava, decise Meli. Li avrebbe venduti al negozio di zia Fernanda; a fatica, visto che Pecul era un paesino più piccolo e meno frequentato di Berg, ma almeno avrebbe potuto venderli al prezzo congruo. Con buona pace di Victor. Vecchio barbagianni. 

Meli uscì stizzita dal negozio stipato di spezie, erbe e unguenti; sbatté la porta e cacciò in mano i navok ad un Logan dall’espressione impassibile.

“Questa è la tua parte per il sambuco; per gli artigli di strige ancora niente da fare, ti toccherà passare in negozio da me più avanti”.

L’ammazzamostri fece un grugnito infastidito.

“Non li svendo a chi fa il difficile” si lamentò Meli a sua volta, avviandosi giù per la strada verso il mercato. Arrivarono davanti alla locanda di Berg dove si erano incontrati per la prima volta. “Bene. Questo” disse Meli, scribacchiando su un pezzo di carta, “è il mio indirizzo a Pecul. Direi che puoi passare tra due mesi; per allora avrò venduto sicuramente buona parte degli artigli ad un prezzo degno, e troverai il tuo compenso ad aspettarti”.

Logan afferrò il biglietto, lo lesse e lo intascò. “Il sessanta percento, a Pecul, tra due mesi. Non pensare che me ne dimentichi” scandì l’uomo in tono minaccioso.

“Non l’ho pensato nemmeno per un secondo. Anzi, scommetto che sei il tipo di uomo di cui, una volta entrato in scena, è impossibile liberarsi” lo prese in giro lei.

Logan la fissò accigliato, come se non sapesse come interpretare quel commento. E, si disse Meli, in effetti non lo sapeva nemmeno lei.

“Bene, ammazzamostri. È stato un piacere. Sei licenziato”.

Logan le scoccò un’occhiataccia. “Ottimo. Addio”.

Meli lo guardò allontanarsi mesto giù per la via principale. Aveva la spalla destra fasciata stretta, ma si vedeva che era rigida e dolorante anche sotto il farsetto e gli spallacci. Le dispiaceva un po’ vederlo andare via: era un ammazzamostri coi controcazzi, come non se ne trovavano tanti in giro, e sarebbe stato utile poterlo assumere ancora. Ma non poteva dargli torto, se preferiva non lavorare più per lei: se l’erano davvero vista brutta con quel nekorai.

Appoggiata a braccia conserte al muro della taverna di Berg, Meli osservò Logan farsi largo tra le bancarelle chiassose del mercato e, infine, sparire.

Polpetta, il neo battezzato micino grigio, miagolò da dentro la tasca del suo gilè. Meli scosse la testa. Quel gattino che avrebbe dovuto diventare la cena di uno stormo di donne demoniache — da cui il nome edibile — si era trasformato in un efficace diversivo grazie alle ridicole conoscenze di un ammazzamostri fuori dal comune. Ripensò al pignoleto e al bigaaso; alle strigi e alla succube; al nekorai e a tutta quella stramba vicenda che le era piombata addosso a rotta di collo solo perché aveva accettato di sostituire sua sorella per qualche giorno.

Meli si staccò dal muro e guardò il sole alto nel cielo. Partendo ora, in un paio di giorni di cammino sarebbe arrivata a casa. 

Addio, aveva detto Logan. Cazzate! pensò Meli, e sorrise: volente o nolente, si sarebbero rivisti molto presto.

***

Arrivò al Pecul che era notte inoltrata. Meli si incamminò tra le vie silenziose del paese, godendosi il freddo montano e il profumo degli abeti rossi.

La porta del negozio era sbarrata, ma Meli si era portata via le chiavi di riserva. Mentre le infilava nella toppa osservò l’insegna sbiadita sopra la sua testa: Emporio di Erbe e Pozioni di zia Fernanda.

Entrò e un familiare odore di legno bruciato, terra umida e funghi essiccati la accolse come un apprezzatissimo abbraccio di benvenuto. Meli recuperò una gemmaluce dalla mensola accanto alla porta e la svolse. Alla flebile luce gialla la donna guardò con affetto il bancone di legno scuro, gli scaffali strabordanti di barattoli e ampolle colorate, i mazzi di erbe appesi a seccare sul soffitto e i libri ammucchiati vicino alla poltrona gialla di fronte al camino spento, i cui i tizzoni, ancora ardenti, brillavano di rosso tra la cenere. L’unico rumore era il lieve russare di Zeno, il garzone, che dormiva nello stretto spazio tra le file di scaffali. Scavalcandolo con cautela — facendo particolare attenzione a non pestargli la coda squamosa — Meli andò nel retrobottega. 

Qui l’odore di terra arricchita e umida era più forte. Due larghi banconi da lavoro erano sommersi da strumenti di laboratorio e piante in vasi di terracotta. Viticci di piante esotiche scendevano da vasi tondi appesi al soffitto e correvano lungo i ripiani più alti degli scaffali di legno scuro che ricoprivano le pareti; le mensole erano cariche di libri, pergamene, bilance, bottiglie e barattoli di rame pieni di erbe sminuzzate. Alla sua sinistra, una seconda debole gemmaluce illuminava le piante più rare e velenose, chiuse dentro una teca di vetro. A destra, il secondo camino, spento probabilmente da tutto il giorno, faceva entrare spifferi spiacevoli. Meli non si stupì che Zeno, parte kon dal sangue freddo, avesse preferito dormire nel calore del negozio.

Lasciò cadere lo zaino accanto alla brandina che era diventato il suo letto. Quel negozio-laboratorio era passato a lei dopo la morte di zia Fernanda, pace all’anima sua, ormai tre anni prima. Zia Fernanda, che era stramba ma mica scema, non si era mai sposata e non aveva avuto figli. Non di cui si sapesse, almeno. Meli era quindi l’erede legittima più diretta dell’intera famiglia, in quanto nipote — zia Fernanda era la sorella di sua madre — e la maggiore tra le sue sorelle. 

Meli controllò che tutto fosse in ordine — non che avesse molti dubbi, con Zeno a fare da guardia: il bastardello era piccolo, ma meticoloso e feroce. 

Estrasse il gattino e lo posò sulla branda. Il micio, instabile sulle zampette, miagolò assonnato. Meli non lo biasimò: anche lei era stanchissima. Da ragazzina era stata una viaggiatrice instancabile, ma ora che quel negozio era diventato una sua responsabilità non si allontanava mai più di qualche giorno di cammino dal distretto di Pecul. E, inaspettatamente, la cosa le piaceva. Le piaceva avere un posto dove tornare, scuotere la polvere dai calzoni e poter chiamare, seppur impropriamente, casa.

Meli si diresse verso un mobiletto con le ante da cui recuperò una scaldapietra. La liberò dal panno in cui era avvolta e la saggiò. Il ciottolo nero e butterato era stato di recente ricaricato di potere magico e emanava ora un piacevole calore omogeneo. Meli appoggiò la pietra di fianco al gatto, che vi si arrotolò lesto tutt’attorno per carpirne il calore. Cominciò a fare le fusa. Era, anche lui, felice di essere a casa.

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