Qui, in questo mondo

di aelfgifu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La lezione ***
Capitolo 2: *** Un malessere misterioso ***
Capitolo 3: *** Metti una sera dal reumatologo ***
Capitolo 4: *** L’ombra di Stijn ***
Capitolo 5: *** Valerie ***
Capitolo 6: *** “Fantastico all’Old Trafford” ***
Capitolo 7: *** Tutto quel che faccio, lo faccio a precipizio ***
Capitolo 8: *** The day after ***
Capitolo 9: *** Cavoli amari ***
Capitolo 10: *** Vita privata di allenatore olandese ***
Capitolo 11: *** Alla ricerca del sonno perduto ***
Capitolo 12: *** Il primo round ***
Capitolo 13: *** Il secondo round ***
Capitolo 14: *** Lettura conclusa ***
Capitolo 15: *** Cantami, o dea, di Brian Cruyfford l’ira funesta ***
Capitolo 16: *** Rewind: intanto, a Monaco ***



Capitolo 1
*** La lezione ***


1. La lezione 

 

Brian Cruyfford

30 novembre ore 22.37

 

Ti ho pensata molto in questi giorni

 

Brian Cruyfford 

1 dicembre ore 22.05

 

Se non fossi stata la ragazza di Schneider, ti avrei portata via all’istante

 

***

 

Julia (Schneiders vriendin)

1 dicembre ore 22.07
 

Se non fossi la ragazza di Schneider, non mi avresti neanche vista

 

***

 

Uno schiaffo improvviso in piena faccia non avrebbe potuto sorprenderlo di più, né fargli più male. 

Colpa sua; aveva creduto di poter scherzare come fa di solito, aveva voluto fare un dispetto a Schneider. E invece era andato a sbattere contro un muro, anzi un muretto, gentile ed educato ma fermo, che gli aveva impartito una solennissima lezione. (E senza tutte le scene che di solito fanno le donne quando si ritengono offese. Questa era stata forse la cosa più spaventosa).  

Se non fossi la ragazza di Schneider, non mi avresti neanche vista.

E cioè: no, non è vero che sei attratto da me: stai solo giocando

No, non è vero che sei attratto da me: lo stai facendo per ripicca nei confronti del mio uomo. 

Lui da parte sua non era riuscito neanche a stizzirsi per essere stato scoperto, tanto inattesa e forte era stata la rivelazione della sua stupidità.

Hai imparato che non si gioca con le persone, Brian? 

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Capitolo 2
*** Un malessere misterioso ***


2. Un malessere misterioso 

 

Era successo nell’ultima partita prima di Natale, un fuori casa con l’Everton. A dieci minuti dallo scadere, sull’1-1, mentre gli avversari si spingevano tutti in avanti su rimessa lunga del loro portiere, aveva intercettato un passaggio impreciso ed era partito in contropiede da metà campo, dribblando Jenkins e Salford, saltando letteralmente Stuart Randell, passando il pallone dal destro al sinistro e beffando Lewis che si era buttato dal lato sbagliato. Gol. Ma Brian non se n’era nemmeno accorto; nel momento stesso in cui la palla era partita filando verso la rete, una fitta da togliere il respiro gli aveva trapassato la spalla destra, aveva visto tutto nero ed era crollato a terra perdendo i sensi, proprio lì, poco fuori dall’area di rigore dell’Everton. Quello che era successo dopo lo aveva saputo dai giornali e dai suoi compagni. (Titolo maligno di uno dei giornalacci della domenica: “Cruyfford del ManUtd sviene per la gioia di segnare un gol”. Il Guardian: “Brian Cruyfford segna e sviene al Goodison Park”).

Era stato portato in ospedale e trattenuto ventiquattr’ore per accertamenti, ma tutti gli esami avevano dato esito negativo. Insomma, era svenuto sul campo mentre segnava un gol, senza nessuna ragione apparente. Lui aveva spiegato di avere avvertito una fitta fortissima alla spalla destra prima di svenire, ma le lastre non avevano evidenziato nulla. Si era fatto male alla spalla destra cinque anni prima, in uno scontro aereo, ma tutto era andato a posto velocemente, non era rimasta neanche una traccia di quel vecchio infortunio, quindi i medici escludevano che si potesse trattare del ritorno di un trauma. Lo avevano rimandato a casa con la raccomandazione di non sforzarsi troppo e di riposarsi. E lui così aveva fatto.

Nei giorni di Natale era rimasto a casa, steso sul divano, imbozzolato in una coperta, con la paura che il mancamento potesse ripetersi da un momento all’altro.

Solo la sera del 31 dicembre si era fidato ad andare a una festa con amici, ma aveva evitato di bere anche solo un sorso d’alcool. L’anno nuovo era arrivato così. 

A metà gennaio era quasi dimenticato dello svenimento ed era partito per Amsterdam, pensando a quanto sarebbero state belle le vacanze; e invece, a Schiphol gli era successo di nuovo. Mentre si avviava verso l’uscita del terminal, un dolore terribile alla spalla destra lo aveva colto di nuovo di sorpresa. Era inciampato nei suoi stessi piedi, aveva visto nero e non era caduto a terra solo perché aveva fatto leva sulla maniglia del trolley, che gli era servito da punto di appoggio. Stavolta però non era svenuto: dopo qualche secondo aveva ripreso il controllo, ma aveva avvertito un sudore ghiacciato invadergli tutto il corpo, piante dei piedi comprese.

Aveva passato dieci giorni dai suoi, senza andare da nessuna parte. A Kejzer che insisteva per uscire a far serata in compagnia, “come ai vecchi tempi”, aveva dovuto dire che si era preso l’influenza.

 

*** 

 

Con la ripresa degli allenamenti, aveva cominciato a sentire un piccolo fastidio alla spalla destra. Un fastidio sopportabile ma costante, che non gli dava noia più di tanto. Ne aveva parlato al medico della squadra, e avevano fatto nuove analisi; TAC, ECG, risonanza magnetica, angiografie, quel dolore unito al precedente svenimento faceva temere qualche problema a livello cardiovascolare, ma anche stavolta gli esami medici non avevano rilevato niente. Gli ortopedici consultati avevano escluso la presenza di traumi a carico della spalla. Il dottor Campbell gli aveva perfino prescritto un paio di sedute di psicoterapia, perché “forse c’è qualcosa che ti angustia e che non è ancora venuto fuori”. Così s’era fatto due o tre chiacchierate col dottor Sinclair, uno scozzese poco più vecchio di lui con una gran massa di capelli rossi e il viso disseminato di lentiggini. Insieme a Sinclair avevano ripercorso tutte le situazioni che forse potevano avere avuto un ruolo nei suoi recenti malesseri, dalla morte di Stijn all’eliminazione dalla Champions in semifinale della primavera precedente. 

“Mio fratello è morto tanti anni fa, e per la delusione della scorsa Champions sarei dovuto stare male molto prima” aveva obiettato, di fronte allo sguardo azzurro e interrogativo dello psicoterapeuta. 

“Be’, non è detto” aveva replicato Sinclair “il nostro corpo ha una memoria formidabile, e ogni ferita, ogni trauma, ogni dispiacere finisce per venire fuori, anche dopo anni, anche per vie traverse.  Esistono studi che dimostrano la correlazione tra eventi stressanti o traumatici e l’insorgenza di patologie serie come disturbi cardiaci o tumori. Di solito il malessere viene  fuori in un momento di minor resistenza; molti reggono la vita con i denti fino a che c’è da combattere, ma una volta raggiunto lo scopo, ops! inciampano per strada e si fratturano tibia e perone.  Oppure urtano contro lo spigolo di un mobile e si fratturano un piede. Distrazione loro o implorazione del loro corpo che dice: basta, non ne posso più, fammi riposare?” 

“Ma io non posso riposare, dobbiamo vincere il campionato e la Champions e…” 

“… e il Pallone d’Oro” aveva completato Sinclair, serafico. 

Lui gli aveva rivolto un’occhiata furiosa. 

“Sì, certo, anche il Pallone d’Oro, perché no?” aveva esclamato con aria stizzita.

“Ti è molto dispiaciuto non averlo preso lo scorso anno?” 

“Che domande, certo che mi è dispiaciuto. Ma non c’era storia, Schneider l’anno scorso ha fatto meglio di me”. 

“E?” 

“E cosa?” 

“È successo qualcos’altro negli ultimi tempi?” 

“Mah… no” 

“I tuoi cari stanno bene?”

“Sì, mia madre e mio padre stanno bene”.

“Dispiaceri nella vita sentimentale?” 

“In questo momento non ho  una relazione”. 

“Ma vorresti averla? C’è qualcuno nei tuoi pensieri?” 

“No”. 

 

*** 

 

Al rientro, turno casalingo con il Tottenham, non era successo niente. Brian aveva tirato un sospiro di sollievo. Per un mese era andato tutto più che bene. Negli ottavi di finale della Champions, contro i suoi vecchi compagni dell’Ajax, aveva anche segnato un gol e si era divertito a leggere le osservazioni di un commentatore sportivo: “Se non proprio il Pallone d’Oro, è assai probabile che Cruyfford quest’anno vinca la Scarpa d’Oro”. 

Magari, si era detto.

E poi, il 25 febbraio, nel derby con il Manchester City, era successo di nuovo. Sullo 0-0, a cinque minuti della ripresa, aveva avuto uno scontro in area, era stato strattonato un paio di volte, e più che cadere era scivolato, ma una volta a terra  aveva avvertito di nuovo il dolore alla spalla, improvviso e lancinante, e la testa aveva cominciato a girargli vorticosamente.

Senza neanche accorgersene, si era messo a gridare dal dolore, mentre era lì steso in terra; il gioco si era fermato, mentre compagni e avversari lo fissavano trasecolati. L’arbitro si era avvicinato e aveva fatto per estrarre il cartellino giallo contro Subraman del City, quello che lo aveva strattonato. Subraman aveva protestato vivacemente, com’era da aspettarsi. Anche Brian aveva urlato, con tutto il fiato che aveva, come se questo potesse aiutarlo a espellere il dolore che gli era esploso dentro: “Lo lasci stare! Lo lasci stare! Non è stato lui”.

Lo avevano dovuto portare fuori dal campo e sostituire perché non aveva avuto neanche la forza di rimettersi in piedi. I sanitari della squadra avevano escluso il ricovero in ospedale, visto che si era ripetuto un caso dall’eziologia incerta ma la cui ragione organica era più o meno stata esclusa; e tuttavia negli spogliatoi, mentre fuori la partita proseguiva, Brian li aveva pregati, con le lacrime agli occhi: “Per favore, datemi qualcosa; per favore, datemi qualcosa”.

Non sa nemmeno se gli abbiano dato un analgesico, un sedativo, o tutte e due le cose insieme.  Fatto sta che quel qualcosa lo aveva fatto dormire a lungo e quando si era svegliato si sentiva molto meglio. 

Aveva saltato il turno successivo in campionato, e meno male che la Champions era ferma fino ad aprile altrimenti sarebbe stato tenuto fuori anche da lì. Stai a casa, metti ghiaccio sulla spalla, riposa.

Due settimane più tardi, Campbell lo aveva avvisato di avergli fissato una visita con un esperto esterno, il professor Alan Robbins-Stickley. 

“È un luminare di fama mondiale, se qualcuno può capirci qualcosa quello è lui”. 

“E luminare in cosa?” 

“In reumatologia”. 

 

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Capitolo 3
*** Metti una sera dal reumatologo ***


3. Metti una sera dal reumatologo 

 

La segreteria di Robbins-Stickley gli aveva fissato un appuntamento presso lo studio privato del professore (Oldham Street, 30, terzo piano) alle otto di sera, proprio alla fine dell’orario di visite, in modo da non dover incontrare nessuno. (E anche questo è un privilegio delle persone famose.)

Brian si era avviato con un bel po’ di apprensione; che il dottor Campbell avesse chiesto un consulto del reumatologo più importante del Regno Unito non era un buon segno. E visto lo stato in cui si trovava non aveva neanche avuto voglia di prendere la macchina; si era legato i capelli, si era messo in testa un cappellino da baseball con la visiera girata, un paio di occhiali scuri, una t-shirt, un paio di jeans scoloriti, le sue vecchie sneaker, il suo vecchio giubbotto, ed era andato in centro in tram. Gli sembrava che il momento richiedesse umiltà, anche di fronte a Dio. Era una sera ancora invernale, fredda, umida e scura, ma l’aria pareva già più frizzante rispetto al cupo inverno dell’Inghilterra del Nord. Mentre saliva le scale del civico 30 di Oldham Street, le mani nelle tasche, aveva pensato che forse nel corso di quella sera umida, buia, senza stelle si sarebbe decisa la sua vita.

“Signore, proteggimi” fu il suo ultimo pensiero, prima di suonare il campanello. 

 

*** 

 

Quando entrò nella sala d’aspetto, scoprì di non essere solo: c’era un altro paziente prima di lui. Brian represse a stento un gesto di stizza; per coprirlo si portò la destra stretta a pugno contro la bocca, si schiarì la voce, come fa qualcuno che è raffreddato prima di parlare, e mormorò: “Buonasera” prima di dirigersi verso la poltrona che si trovava nel punto più illuminato della stanza. Gli fu risposto con un educato “buonasera a lei”. Si accomodò come faceva lui, sprofondando nella poltrona, una gamba accavallata a quattro, e si guardò intorno. Improvvisamente ebbe una grande voglia di attaccare discorso, ma la ragazza seduta di fronte a lui, dopo aver brevemente alzato la testa per vedere chi era entrato e per rispondere al saluto, si era immersa nuovamente nel libro che stava leggendo. Brian sospirò. La ragazza era magrolina, aveva capelli castani lisci lunghi fino alla spalle, su cui la luce della plafoniera spandeva un alone non bello, ed era vestita come se soffrisse tremendamente il freddo: una lunga gonna di lana marrone, spessi legging di lana nera, calzerotti di lana grigia, scarponcini solidi da trekking, camicia bianca, maglione grigio con maniche oversize, gilè color ruggine, e alle mani mezzi guanti di lana grigia che le consentivano di sfogliare le pagine senza impaccio. Completava l’insieme un cappello di lana bianca con un buffo pompon in cima, che la ragazza aveva tirato giù quasi fino alle orecchie. Per la prima volta durante la giornata, la vista di quella buffa ragazza fece venire a Brian la voglia di sorridere. Aguzzò gli occhi sulla copertina, che la ragazza teneva rivolta verso di lui quasi verticalmente; e quando ebbe letto autore e titolo, fece un sorriso ancora più grande. 

“È un bel libro?” domandò, con la sua voce più suadente.  

La ragazza sollevò la testa e annuì ripetutamente, con un sorriso. 

“È molto bello!” esclamò.

“Ne ho sentito parlare… non sapevo fosse stato tradotto in inglese” continuò Brian. 

La ragazza sfogliò velocemente il libro, si fermò verso le prime pagine, andò avanti, poi tornò indietro, lesse brevemente a mezza voce e poi, alzando di nuovo la testa, annunciò al suo interlocutore: 

“In effetti la traduzione è recentissima, è uscita un mese fa”. 

In quel momento l’assistente del professore fece capolino dalla porta del corridoio: 

“Signora, se si vuole accomodare…” 

La ragazza si alzò di scatto.  Prima di seguire la donna in camice candido, fece tre passi verso Brian e gli tese  libro: “Tieni”. 

Brian tese la mano e prese il libro quasi automaticamente, ma un’espressione interrogativa gli si era formata sulla faccia. 

“Te lo presto soltanto!” rise la ragazza. 

“E come faccio a restituirtelo?” 

”Ci sono i miei recapiti sulla prima pagina” la ragazza agitò una mano in segno di saluto prima di seguire l’assistente del professore.

Brian si rigirò il libro tra le mani, lesse la copertina, il quarto di copertina, il risvolto, il frontespizio; sfogliò qualche pagina a caso. Ritornò all’illustrazione di copertina, che studiò a lungo; poi prese il libro - un piccolo tascabile di circa duecento pagine, dalla copertina flessibile -, lo infilò nella tasca del giubbotto, chiuse la zip e si mise di nuovo ad aspettare.

Quando, circa mezz’ora dopo, la ragazza uscì dalla visita, riattraversando la sala d’aspetto sventolò la destra verso di lui, gli disse “ciao” con voce ferma e allegra, aprì la porta e sparì. Brian sentì l’eco dei suoi passi perdersi lungo le scale, mentre l’assistente di Robbins-Stickley lo faceva accomodare, profondendosi in mille scuse per il disagio e il ritardo, ma “il professore ha avuto una chiamata d’emergenza verso le sette e  quindi c’è stato tutto un effetto domino”. 

 

*** 

 

Alan Robbins-Stickley era un vecchietto piccolo e magro, con una zazzera di capelli bianchi e due occhialoni con lenti spesse come fondi di bottiglia che gli scivolavano continuamente sul naso. Quella vista rallegrò Brian, come lo aveva rallegrato la vista della ragazza freddolosa: un signore dall’aria così simpatica semplicemente non poteva essere latore di cattive notizie. 

“Si accomodi, Mr Cruyfford” il vecchietto, cioè, il professor Robbins-Stickley, gli porse la mano, contemporaneamente invitandolo a sedersi sulla poltrona dalla parte opposta della scrivania. Brian afferrò quella mano e si rese conto che il professore, a dispetto dei suoi probabili settant’anni, aveva una stretta micidiale.   “Buonasera, professore” salutò educatamente. E sedette. 

Robbins-Stickley aprì una cartelletta che aveva davanti e si mise a sfogliarla. 

“Dunque dunque…” 

Sollevò la testa: “È preoccupato?” chiese. “Abbastanza” rispose Brian. 

Il professore ritornò alle sue carte. 

“Dunque dunque” riprese. “Ho sentito Lawrence Campbell, che mi ha inviato tutte le sue analisi e i suoi esami, e mi sento di confermare la sua intuizione. Lei ha avuto un episodio reumatico, anzi, diversi episodi reumatici acuti, di notevole entità. Tuttavia non ha avuto febbre né altri sintomi rivelatori di malattia reumatica, e questo è un bene”. 

“Ma il dolore? La prima volta sono svenuto, l’ultima hanno dovuto somministrarmi non so cosa per non farmi collassare” chiese Brian.

"Mio caro ragazzo, è la caratteristica di certi dolori reumatici: sono dolorosissimi” ammise Robbins-Stickley. Si alzò, fece il giro della scrivania e fece strada a Brian verso il piccolo ambulatorio. “Venga, si sieda qui sul  lettino. Tolga giubbotto e t-shirt”. 

Brian ubbidì di buon grado. Non aveva finito di sfilarsi la maglia, che il professore gli afferrò la spalla destra e gliela tastò in maniera professionale. A Brian sfuggì un lamento. “Fa male?” chiese il professore. E gli manipolò la spalla nello stesso modo di prima. A Brian girò la testa e per un momento vide le stelle.

“È la spalla” commentò fra sé il professore. “Si era infortunato a questo punto qualche tempo fa, vero?” “Vero” rispose Brian, ancora senza fiato per il dolore. “Però ero guarito perfettamente”. 

“È guarito per gli ortopedici. Purtroppo i disturbi reumatici sono sfuggenti, spesso non sappiamo stabilire la loro causa, ma non posso escludere che il suo vecchio infortunio non abbia un ruolo in queste fitte che le sono capitate ultimamente”. 

“Professore, mi guarisca. Io devo giocare” lo interruppe Brian bruscamente. 

Il vecchietto gli si mise davanti con le mani puntate sui fianchi. 

“Avrei scommesso che lo avrebbe detto” sogghignò. “Voi atleti siete tutti uguali. Purtroppo però non è così facile…” 

“Mi sottoporrò a tutti gli esami, farò tutto quello che mi chiede, ma nel frattempo trovi il modo di farmi giocare” replicò Brian per niente impressionato.

"Hm”. Robbins-Stickley lo fissò inarcando le sopracciglia. “Possiamo provare, con molta cautela, una terapia a base di infiltrazioni localizzate, visto che per ora solo le articolazioni della spalla sembrano interessate. E vediamo se sono efficaci. Anche un po’ di fisioterapia potrebbe essere utile. Potrà continuare le  sue attività, ma con molta cautela. Ne parlerò con Larry. Nel frattempo faremo ulteriori analisi; mi pare proprio che nel suo caso dovremo andare piano piano e per esclusione”. 

“Qualunque cosa, ma io devo giocare”. 

 

*** 

 

La visita gli aveva lasciato un sapore strano in bocca. Certo, stando alle parole del professore non poteva dire di averla scampata, ma perlomeno non c’era stata subito una diagnosi infausta. Intanto poteva continuare a giocare, stando molto attento e facendo una terapia preventiva. Poi… c’erano da mettere in conto esami e controesami. Tre mesi fino alla fine della stagione, calcolò Brian mentre riattraversava il centro in tram e guardando nel finestrino vi trovava riflessa solo la sua faccia e i sedili vuoti accanto a lui. Tre mesi fino alla fine della stagione. Robbins-Stickley gli aveva chiesto un autografo per il suo nipotino… 

Davanti alla portone di casa aprì la tasca del giubbotto per prendere le chiavi, e avvertì una massa dura. Si ricordò improvvisamente della ragazza freddolosa e del suo libro.

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Capitolo 4
*** L’ombra di Stijn ***


4. L'ombra di Stijn

 

Dice: se vieni al mondo, qualcosa devi pur fare, un senso lo devi pur trovare. Il tuo senso qual è? Giocare, segnare, infrangere record, stabilirne di nuovi, superare te stesso, vincere

Aveva iniziato immediatamente la terapia preventiva e non si era fatto mettere fuori squadra a costo di un litigio epocale con l’allenatore, litigio di cui avevano parlato anche i giornali. Nessun giornale, nessun blog sportivo, nessun programma alla tv, alla radio o su Internet aveva però riportato precisamente quello che si erano urlati il mister Hans van Veldeke e Brian Cruyfford, anche perché se l’erano urlato nella loro lingua madre - van Veldeke era di Maastricht - e quelli che avevano assistito non ci avevano capito nulla, tranne Jos Steensen, che si era cucito la bocca. Ma in sostanza, Veldeke aveva comunicato a Brian che, data l’incertezza sul suo stato di salute, sarebbe stato preferibile che non giocasse, mentre Brian aveva preteso di essere in campo per la partita successiva, cioè a Wembley contro l’Arsenal per la finale della Coppa di Lega, perché le partite non si vincono con i se e con i ma. Veldeke aveva replicato che non poteva mettere a rischio la vita di un giocatore, al che Brian si era letteralmente infuriato e gli aveva urlato contro: “Ma che vuoi, che ti frega se schiatto in campo? Quando sarò morto mi sostituirete, ma fino ad allora io gioco!” Insomma erano quasi venuti alle mani, li avevano dovuti separate, non si erano parlati per una settimana.

Poi erano successe due cose: la prima fu che Andrés Romero, che avrebbe dovuto sostituire Brian, si era slogato un braccio giocando a tennis, e sarebbe rimasto inutilizzabile per almeno quindici giorni: bisognava far giocare Cruyfford anche col timore di vederlo collassare sul campo. La seconda fu che qualche giorno dopo sua madre aveva inviato a Brian una vecchia foto che aveva ritrovato in fondo a un cassetto. Nella foto c’era la nazionale under 21 di diciotto anni prima. Stijn era il quarto da destra della fila centrale, col suo sorriso scanzonato e il vento che gli scompigliava i capelli; ma quello che sorprese di più Brian fu vedere immediatamente dietro suo fratello, nella fila più alta, un Hans van Veldeke poco più che ventenne, più snello, dal viso imberbe, anche lui con un’espressione allegra e fiduciosa, senza tutte quelle brutte rughe d’espressione che ora gli venivano a furia di aggrottar le sopracciglia e gridare istruzioni a destra e sinistra. 

Hanno giocato insieme? si era domandato Brian. Perché non me ne ricordo? 

Il giorno dopo, dopo l’allenamento, si era fatto coraggio e aveva avvicinato Veldeke. “Mister…” 

“Che vuoi?” aveva risposto l’allenatore, torvo. 

“Voglio mostrarle una cosa” e così dicendo Brian gli aveva messo sotto il naso la foto salvata sullo smartphone. 

Veldeke si era paralizzato come se lo avesse punto una vespa; poi con una smorfia aveva distolto la faccia. 

“Metti via quella foto” gli aveva ordinato. 

Brian aveva rimesso lo smartphone in tasca. 

“Lei era compagno di squadra di mio fratello” aveva constatato. 

Veldeke era rimasto zitto.

“È per questo che ha così paura per me?” 

Veldeke lo aveva guardato con tristezza, si era messo le mani in tasca e fissandosi la punta delle scarpe aveva risposto: “Io ero amico di tuo fratello. E visto che abbiamo già perso Stijn, non vorrei perdere anche te”. 

“Non mi perderete”. 

“Come fai a dirlo?” 

“Lei come fa a essere certo che tornando a casa stasera non inciamperà nel tappeto del salotto, non cadrà, non sbatterà la testa contro lo spigolo del tavolo e addio mondo crudele? A questo mondo certe case non si possono sapere. E finché non si possono sapere, io gioco”. 

“Come credi”. 

“E mi scuso per avere alzato la voce l’altra volta, signore, ma non sapevo come altro fare per farmi ascoltare”. 

“È grave che tu non sapessi come altro fare”. 

“Sarebbe più grave ancora se non giocassi”.  

Tre mesi alla fine della stagione, si era detto Brian tornando a casa. Tre mesi alla fine della stagione. 

Tre giorni dopo aveva segnato due gol all’Arsenal a Londra e regalato la Coppa di Lega alla sua squadra. La settimana dopo, al Parco dei Principi contro il PSG, si era reso protagonista di un’azione formidabile: dopo una progressione in verticale verso l’area avversaria da centrocampo, vedendo che nessuno dei suoi compagni era vicino mentre la difesa degli avversari si chiudeva, gli era venuta l’ispirazione di lanciare il pallone per aria e di colpirlo in mezza rovesciata sorprendendo tutti. Il pallone era filato verso la porta e nonostante il portiere fosse saltato, gli era passato sopra la testa. Tempo per lanciare la sfera in aria, saltare e colpire di destro, dalle misurazioni cronometriche eseguite più tardi sulle riprese delle telecamere: tre secondi. Andando più avanti nella registrazione, le telecamere avevano inquadrato la panchina dei Diavoli Rossi e consegnato alla storia Hans van Veldeke con la faccia di uno che si è preso un enorme spavento. 

Diciassette e cinque in Champions e sette in Coppa d’Inghilterra. Ho ancora tre mesi fino alla fine della stagione.

 

*** 

 

Il libro che la ragazza freddolosa gli aveva lasciato quella sera in Oldham street era rimasto sulla scrivania della sua camera da letto, se lo era quasi dimenticato. Il lunedì mattina, dopo la partita in casa contro l’Aston Villa, alzandosi, gli capitò di gettare uno sguardo sul piccolo tascabile; se lo portò in cucina e si mise a leggerlo mentre faceva colazioneLa ragazza freddolosa aveva effettivamente scritto i suoi recapiti, in piccolo, in alto a destra sulla prima pagina: Val Douglas, seguivano un indirizzo di Trafford e un numero di cellulare. Brian si ricordò di come era infagottata la ragazza quella sera e si mise a ridere tra sé. Chissà se Val sta per Valentine o per Valerie? Se ne tornò a letto insieme al libriccino. 

 

*** 

 

Nota di Ælfgifu. Buon Ferragosto!

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Capitolo 5
*** Valerie ***


5. Valerie
 

Il 12 marzo lo United si era assicurato il passaggio di turno ai quarti di finale di Champions League, battendo il PSG in casa per 1-0. 

Cinque giorni dopo, a mezzogiorno esatto, c’era stato il sorteggio per i quarti e la semifinale: lo avevano guardato in streaming prima di pranzo, e Brian si era ritrovato con le dita incrociate a ripetere come un mantra: “Fa’ che non ci tocchi il Bayern, fa’ che non ci tocchi il Bayern”.

E Dio - o il diavolo - lo aveva ascoltato, perché per il confronto ai quarti era toccato loro il Benfica, mentre per la semifinale si sarebbero scontrati il vincente tra United e Benfica e il vincente tra Barcellona e Manchester City. Mentre i suoi compagni maledicevano l’universo intero, a lui non sembrava vero di avere evitato il Bayern Monaco. Ma poi, perché era così sollevato all’idea? In fin dei conti, il Bayern era senz’altro preferibile al Barcellona o a uno scontro intestino con il City. La verità era che non voleva affrontare Schneider, non in senso sportivo, ovviamente, perché da quel punto di vista era più che preparato: ma era spaventato all’idea di guardarlo in faccia. 

Per ora, comunque, aveva davanti a lui qualche settimana di relativa tranquillità.

 

*** 

 

“Parlo con Val Douglas?” 

“Sì, sono io, chi…?” 

"Ehm… sono il ragazzo a cui hai prestato  il libro quella sera nello studio del dottor Robbins-Stickley”.

“Ah! Brian Cruyfford”.

“Come ?” 

“Sei Brian Cruyfford, no?”

"Sì,  ma…” 

“Hai finito il libro?” 

“N-no. Ne ho letto circa la metà”. 

“Ammazza! Sei lento!” 

A Brian era scappato un sorriso. Non solo la ragazza freddolosa lo aveva riconosciuto, ma non si stava facendo per niente intimidire dal fatto che lui fosse un personaggio famoso. 

“Non sono un gran lettore e comunque ho anche altri impegni…” 

“Be’, basta che mi fai riavere il libro quando lo finisci”.

“Tu abiti a Trafford, giusto?” 

“Eh”. 

“Conosci il pub al 588 di Chester Road?” 

“No, ma se l’indirizzo è giusto lo trovo facilmente”.

"Bene, che ne dici se ci vediamo lì per una birra domani alle  sette?” 

“Devi darmi mezz’ora: facciamo alle sette e mezza. O le sette e mezza sono un problema?” 

“No, no, figurati”.

“Allora va bene”. 

“Va bene”. 

Brian aveva chiuso la comunicazione e si era incantato a fissare il display del telefono. Parlare con la ragazza freddolosa gli aveva lasciato una sensazione strana, come di sollievo e allegria insieme. Eppure non si erano detti niente di straordinario. La ragazza freddolosa comunque aveva una voce bellissima, come un bel fuoco scoppiettante nel camino in una sera d’inverno. 

 

*** 

La ragazza freddolosa entrò nel pub di corsa, con gran frastuono, esattamente alle 19.36. Era infagottata come lo era stata un mese prima, solo che stavolta i suoi abiti erano tutti sui toni del verde sottobosco e del ruggine. Si guardò intorno con aria spaesata, ma subito vide un braccio sollevato che cercava di attirare la sua attenzione e si diresse decisa verso quella direzione. Si sedette pesantemente ed esordì: “Scusa, ho perso l’autobus e ho dovuto aspettare quello successivo…” 

Brian si tolse gli occhiali scuri, li posò sul tavolo ed esplose il suo micidiale sorriso, quello che stendeva tutti e le ragazze per prime. 

“Ciao, Val Douglas”. E stese la mano verso la ragazza.

"Ciao” lei gliela afferrò e gliela strinse  con una forza non sospettabile in una ragazza così mingherlina.

“Val sta per Valerie ?”

"Esatto ”.

“È un bel nome, non dovrebbe essere abbreviato”. 

“Be’, il tuo non corre questo rischio!” 

“Ah ah, vero”. 

Val lo guardò di sotto in su. “Dov’è il libro?” 

“Quale libro?” domandò Brian. 

“Il mio libro, quello che ti ho prestato”. 

“Ah, quello! Non ce l’ho. Te l’ho detto, devo ancora finirlo”. 

Brian tirò fuori un pacchettino e lo posò sul tavolo. “In compenso ho questo”. 

“Per me?” 

“Hm-hm”. 

“Grazie, cos’è?” 

“Be’, scartalo. Intanto io vado a ordinare, che cosa prendi?” 

“Un succo di mirtillo, grazie”. 

 

*** 

 

Aveva speso mezzo pomeriggio per trovare un regalo adatto alla ragazza freddolosa. L’idea di partenza era stata che il regalo avrebbe dovuto essere un libro, ma lui non s’intendeva di libri. Allora era andato difilato nella piccola libreria indipendente che stava a cento metri da casa sua e si era accaparrato subito la commessa, una ragazzina dall’aria furba che non appena si era trovata davanti Cruyfford dello United aveva fatto gli occhi a cuoricino. 

“Dovrei fare un regalo a una persona che ama i libri, però io non me ne intendo, puoi consigliarmi?” 

La commessa si era fatta descrivere il tipo e i suoi presunti gusti, aveva riflettuto per mezzo secondo e poi era tornata con “The Home Child” di Liz Berry. Ora la ragazza freddolosa - Valerie, si chiama Valerie - si stava rigirando il libro tra le mani. “Dev’essere bello, grazie! È un romanzo in versi, come i romanzi medievali…”

“Se non ti piace, prenditela con la commessa di B(r)ooks, io mi sono affidato a lei. Le ho fatto una tua descrizione e le ho detto quale libro stavi leggendo…” 

“Non oso immaginare l’idea che si sarà fatta. E del mio libro che ne dici?” 

Brian ribadì che non lo aveva ancora finito. 

“Ma hai già letto qualcosa, no?”

“Il racconto dello studente…” 

“Quello è bellissimo, fa piangere e fa ridere! È incredibile come l’allegria e il tragico possano coesistere così in una stessa storia…” 

“È la vita che è così… un secondo prima piangi, il secondo dopo ridi”. 

“Sei già arrivato al racconto della ragazzina bullizzata dai compagni di classe?” 

Brian non c’era ancora arrivato. 

“Anche quello è molto drammatico, ma in certi punti fa rotolare per terra dalle risate. La protagonista è forte!”

”Suppongo che sia a immagine e somiglianza  dell’autrice…” 

“Già. Può essere! Quando ci arrivi mi dirai”. 

“Nerd, ambientalista, femminista, attivista sociale” disse Brian.

"Cosa ?” 

“La commessa di B(r)ooks ti ha descritto così”. 

Valerie lo guardò, fece una piccola smorfia indecifrabile e poi alzò le spalle. 

“Diciamo che ci ha azzeccato abbastanza… mi piace leggere  autori che siano giovani e che siano donne e…” 

Il telefono di Valerie improvvisamente squillò. “Scusa” disse la ragazza, si frugò nella tasca del gilet, tirò fuori il telefono, guardò il display con aria corrucciata e aprì la comunicazione. Dall’altra parte una voce maschile giovane e agitata gridò: “Dottor Douglas, Thor ha ancora la febbre, che debbo fare?” 

Brian non capì quello che Valerie stava rispondendo, ma notò la pazienza e l’autorevolezza con cui lo diceva. 

“… e se domattina la situazione non è migliorata, vedremo di intraprendere un’altra terapia, OK? Magari c’è solo bisogno di un antibiotico più forte. Ciao, e non ti preoccupare…” 

Mentre Valerie riponeva il telefono, Brian le chiese: “Sei un dottore?” 

“Medico veterinario”.

 Wow”. 

“C’è poco da fare wow. Ho finito da poco la specializzazione, per ora lavoro in un centro recupero animali randagi, ma devo dividere casa con due coinquiline sennò non ci rientrerei con le spese…” “E le prospettive sono…?” “Il privato, un posto statale o iniziare un PhD e sperare di entrare all’università”.

“E a te cosa piacerebbe?”

“Mi piacerebbe stabilirmi in campagna e occuparmi di cani, gatti, conigli, galline, capre , pecore, maiali, mucche, asini e cavalli. Io sono una campagnola, vengo da Hambleton, cinquanta miglia da qui, duemila abitanti. Conosci Hambleton?”

Brian ammise che aveva letto il nome della località sui segnali stradali, ma no, non conosceva Hambleton.

“I miei hanno una fattoria laggiù. Se potessi ritornare a casa sarebbe fantastico”. 

“Non ti piace la grande città?” 

“Non sono né abbastanza furba né abbastanza sofisticata per la grande città…” 

 

*** 

 

Si erano salutati sulla porta del pub, verso le otto e mezza. Fuori era buio pesto. Brian si era offerto di riaccompagnare Valerie (che ormai nella sua testa era diventata “l’amica degli animali”), ma lei aveva declinato con un sorriso. 

“Non disturbarti: sto a cinque minuti da qui, ci arrivo a piedi. Prima ho dovuto prendere il bus perché venivo dal lavoro!”

“OK, se lo dici tu”. 

“Quando leggi il racconto della ragazzina bullizzata fammi sapere che ne pensi!” 

“Anche tu, fammi sapere che ne pensi di Liz Berry”. 

Quella sera, mentre si infilava sotto le lenzuola, a Brian venne in mente che Valerie non gli aveva domandato nulla sulla sua vita, aveva fatto parlare sempre lui; aveva risposto alle sue domande ma non gliene aveva fatte. Poi si ricordò che non le aveva chiesto la cosa per cui l’aveva invitata al pub: perché quella sera le era venuto in mente di prestargli “Ritratto estivo di ragazzo svedese”? 

La prossima volta non me ne dimenticherò, si ripromise prima di chiudere gli occhi.

 

*** 

 

Nota di Ælfgifu. Liz Berry è una giovane e interessantissima poetessa inglese originaria delle Midlands Occidentali e “The Home Child” è il suo ultimo lavoro. 

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Capitolo 6
*** “Fantastico all’Old Trafford” ***


6. “Fantastico all’Old Trafford”

 

Il dottor Sinclair non credette alle sue orecchie quando Brian gli telefonò e gli disse che avrebbe voluto fare una chiacchierata con lui. Poi, quando finalmente credette alle sue orecchie, rispose: “Ma dammi tu un orario, sono a tua disposizione”. 

L’orario migliore era dopo uno degli allenamenti infrasettimanali. Il dottore vide entrare Cruyfford nello studio con i capelli ancora umidi, il passo lento di chi ha appena terminato il suo lavoro, il borsone gettato sulle spalle che venne immediatamente scaraventato a terra. Appariva stanco, il giovane olandese, non tanto per alcuni segni precisi, quanto per l’andatura e l’espressione languida. 

“Stai bene, Brian?” fu la prima cosa di cui s’informò il dottore, mentre lui si sedeva, o meglio allungava, secondo il suo stile, sulla poltrona posta da un lato della scrivania di Sinclair. 

“Sì…”

“Mi sembri stanco…” 

“Sono stanco”. 

Era anche prevedibile: aveva dato il meglio di sé nelle ultime due settimane, compresa quell’azione spettacolare al Parc des Princes, cosa che non aveva mancato di preoccupare Veldeke e lo staff medico, ma quegli attacchi dolorosi che lo avevano afflitto tra dicembre e febbraio fortunatamente non si erano ripresentati. 

“Ora avrete un po’ di tregua, puoi riposare…” 

“Dottor Sinclair” Brian gli puntò addosso i suoi occhi azzurrissimi. “Non so come cominciare”. 

“Comincia da dove vuoi”. 

“Posso cominciare da mio fratello” riprese Brian, confortato dall’atteggiamento del dottore. “È passato tanto tempo dalla sua morte. Quando ci ha lasciati ero un ragazzino; lui aveva vent’anni, era una promessa del calcio che di li a poco sarebbe sbocciata. La sua morte mi era sembrata così ingiusta che, ragazzetto com’ero, avevo giurato che avrei seguito le sue orme e avrei realizzato qualcosa di memorabile in suo ricordo”. Brian si interruppe, mentre Sinclair aspettava il seguito senza cercare di sollecitarlo. “Speravo di dedicargli il Pallone d’Oro lo scorso anno, ma… insomma, lei sa com’è andata. Ero così deluso e arrabbiato con me stesso che ho commesso anche una scorrettezza nei confronti di Karl-Heinz Schneider. Un’azione stupida, di poco conto, non credo che lui ne abbia mai saputo niente, ma veramente un’azione meschina”. 

“Ti va di parlarne?” 

“Oh, non c’è molto da dire. Ho fatto il cascamorto con la sua ragazza e lei mi ha subito rimesso al mio posto, mi ha fatto subito notare che mi stavo comportando così solo per ripicca. Poche settimane dopo sono svenuto durante la partita al Goodison Park”. Altra pausa. “Lì per lì non ci ho dato peso, ma poi la cosa si è ripetuta all’aeroporto di Amsterdam, a gennaio, e poi nella partita con il City, e abbiamo incominciato a fare tutti quegli esami per stabilire che cosa avessi… e io, io ho incominciato ad avere paura, paura di morire anch’io prima di riuscire a realizzare qualcosa di grande, di importante, e prima di riuscire a dedicarlo alla memoria di Stijn”. 

“È per questo che ti sei messo a fare certe prodezze che a momenti causano un attacco di cuore a Hans?” 

“Lo sa che il coach Veldeke è stato compagno di squadra di mio fratello?” 

“Ah, ecco, ora si spiega tutto. Si preoccupa per te come se tu fossi un fratellino piccolo…” 

“Due pensieri non mi escono dalla mente: la promessa che avevo fatto a Stijn e la paura di morire prima. Sento di non avere più tempo, dottore”. 

Sinclair si schiarì la voce e disse: “Ma non abbiamo ancora una diagnosi e mi sembra che per ora stia andando tutto bene… potrebbero essere anche episodi idiopatici che non si ripresenteranno mai più”. 

“Ma io sento di dover realizzare qualcosa ora, subito, perché forse più avanti non avrò tempo, e mi sembra di soffocare”. 

Brian si portò una mano al collo della maglia, come se veramente gli stesse mancando l’aria. 

Sinclair disse: “Vediamola così. Che cosa ti sembra di aver realizzato nella tua vita?” 

Brian non seppe cosa dire. 

“Vuoi che ti faccia l’elenco?” continuò Sinclair. E cominciò, contando con le dita: “Campione d’Europa Under 21 e migliore marcatore del torneo. Due edizioni dell’Eredivisie. Miglior realizzatore della Premier League lo scorso anno. Candidato al Pallone d’Oro lo scorso anno. La Coppa di Lega neanche due settimane fa. Se continui così quest’anno nessuno potrà contenderti la Scarpa d’Oro. Hai la fascia di capitano della tua nazionale. Sei universalmente ritenuto uno dei migliori calciatori del mondo della tua generazione… Non pensi di aver già onorato abbastanza la memoria di tuo fratello?”

Alle parole “uno dei migliori calciatori del mondo della tua generazione”, Brian era visibilmente arrossito. 

“Vedi di non arrossire, perché è tutto vero” aggiunse Sinclair “e se non hai mai avuto modo di soffermarti a riflettere su quanto hai fatto nella tua vita, fallo ora. E chiediti invece cosa hai fatto per te”. 

“Davvero ho fatto tutto questo?” 

Brian sembrava davvero confuso. Non gli era mai sembrato di aver combinato un granché.

“Pare che tu soffra di un tipico disturbo da overachiever” commentò Sinclair. “Preso come sei dalle cose da conquistare, non ricordi neanche più quello che hai già ottenuto”.  

“Io sono un overachiever?” domandò Brian scettico. Non si era mai ritenuto uno che lavorava moltissimo.

“Accidenti se lo sei” rise Sinclair. “E io credo che tu con la tua vita abbia onorato più che a sufficienza la memoria di tuo fratello. Ora lascia che ti ponga una domanda”. 

“Mi dica”. 

“Che cosa provi quando scendi in campo? Vorresti scappare?” 

Brian rifletté per un momento. “No, quando entro in campo, quando gioco, sono felice… ma ho paura di non avere più tempo. Ogni volta ho paura che sarà l’ultima”. 

Sinclair rifletté per un momento. 

“Concentriamoci sulla gioia che provi giocando, non sulla paura. Descrivimela”. 

“Oh beh…” Brian esitò. 

“È come voler descrivere i colori a un cieco, vero?” suggerì il dottore. 

Brian annuì con forza. 

“È… immagino che sia la stessa cosa che prova un pesce nuotando nell’acqua o un uccello mentre vola, sono nel mio elemento, sono un tutt’uno con l’universo e in quei novanta minuti spesso mi dimentico perfino di me stesso”. 

Sinclair sorrise. 

“Tu hai la benedizione di tutti coloro che svolgono un’attività creativa ad altissimo livello.  Quella che gli atleti americani chiamano “la zona” e che uno psicologo ungherese, dal nome impronunciabile, ribattezzò “il flusso”. In pratica quanto di più vicino un essere umano possa sperimentare a quello che possiamo definire uno stato di beatitudine. Vedi? Non ti sei mai accorto di quante cose meravigliose hai nella tua vita. E forse ora questo problema di salute ti sta facendo riflettere…” 

Brian alzò le spalle. 

“Allora che cosa devo fare?” 

“Respira. Respira forte. Sii quello che sei. Non farti divorare dalla paura. E non dimenticarti che sei vivo”.  

 

*** 

 

Valerie aveva ragione: il racconto della ragazzina bullizzata era fortissimo. C’erano punti in cui ti prudevano le mani dalla rabbia e punti in cui ridevi a crepapelle. La storia era questa: Sophie, sedici anni, era stata presa di mira dai compagni di classe e accusata di “puzzare”. Ci avevano creduto tutti, dagli insegnanti alla mamma, che le aveva fatto fare un numero incredibile di analisi per stabilire le origini della puzza; puzza che, ovviamente, non esisteva se non nella testa e nei pregiudizi degli altri. Un giorno, per caso, Sophie aveva letto il testo di un discorso di un famoso poeta russo sulla resistenza; e da quel momento aveva incominciato deliberatamente e dimostrativamente a spruzzarsi addosso a casa e a scuola il contenuto di fialette puzzolenti, in modo da puzzare davvero in modo insopportabile. Convocata dal preside, aveva detto: “Vogliono che io puzzi? E io faccio in modo di puzzare” e si era spezzata addosso una stink bomb, inondando di puzza tutta la presidenza…  

 

(Tra parentesi. 

 

Al grido (muto) di battaglia “vediamo chi sei, Val Douglas”, Brian aveva cercato (e trovato) online il curriculum della ragazza freddolosa alias l’ “amica degli animali”: era nella pagina del centro di recupero degli animali randagi presso cui lavorava. 

Valerie M. Douglas, trent’anni, BVMS presso l’Università di Edimburgo (migliore laureata del suo corso), scuola di specializzazione in etologia e benessere animale sempre a Edimburgo. “Si è specializzata in etologia e benessere animale, ma attualmente sta facendo molta pratica di medicina d’urgenza”. 

Nella foto del profilo Valerie appariva sorridente, sempre infagottata nei suoi vestiti oversize e abbracciata a un asinello di piccola taglia).

 

*** 

 

15 aprile ore 17.23 

Valerie Douglas

 

In bocca al lupo, Brian Cruyfford!

 

*** 

 

“Fantastico all’Old Trafford”

 

di B.I. 

 

Mercoledì abbiamo assistito a una partita che non possiamo non definire incredibile. All’andata dei quarti di finale di Champions League, lo United ha affrontato i portoghesi del Benfica in una partita che sarebbe stata normalmente in perfetto equilibrio e in cui solo la fortuna avrebbe potuto avere la parola decisiva, se non fosse stato per Brian Cruyfford. Il n. 14 dello United, nel suo duplice ruolo di regista e attaccante, è davvero stato il dodicesimo e il tredicesimo uomo della sua squadra, organizzando azioni a un ritmo e con un’intelligenza forsennati, segnando una tripletta e dando l’assist a Reaney per uno splendido gol di testa. Il risultato conclusivo di una delle partite più belle in assoluto che ci sia mai capitato di vedere è stato uno stupefacente 5-2 per il team inglese.

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Capitolo 7
*** Tutto quel che faccio, lo faccio a precipizio ***


7. Tutto quel che faccio, lo faccio a precipizio
 
Each thing I do I rush through so I can do
something else. In such a way do the days pass—
a blend of stock car racing and the never
ending building of a gothic cathedral.
Through the windows of my speeding car, I see
all that I love falling away: books unread,
jokes untold, landscapes unvisited […]
Glancing over my shoulder I see its shape
and so move forward, as someone in the woods
at night might hear the sound of approaching feet
and stop to listen; then, instead of silence,
he hears some creature trying to be silent.
What else can he do but run? Rushing blindly
down the path, stumbling, struck in the face by sticks;
the other ever closer, yet not really
hurrying or out of breath, teasing its kill. 
 
Stephen Dobyns, Pursuit (Cemetery Nights, 1987) 
 
 
Per capire tutto - e tutti lo capirono, da Meneer Cruyfford senior seduto davanti alla TV ad Amsterdam, a Tsubasa Ozora che guardava la partita da Barcellona insieme ai suoi bambini, a Valerie, che rientrando un po’ più tardi dal lavoro trovò le sue coinquiline e i rispettivi ragazzi stravaccati in salotto davanti allo schermo in compagnia di una sconcia quantità di patatine, pop corn e birre, e si fermò con  loro a guardare la partita senza nemmeno togliersi il cappotto - per capire tutto, dicevamo, fu sufficiente la telecamera che inquadrò Brian quando le squadre, al termine della partita, rientrarono negli spogliatoi. L’espressione risoluta, la mascella contratta, gli occhi spiritati puntati verso qualcosa che solo lui poteva vedere. 
“Quello si è calato qualcosa per giocare così” sentenziò Ian, il ragazzo di Jacqueline. 
“Già, tu sei l’esperto” gli rispose Valerie. Era noto che Ian era affezionato alle canne e a certe pasticchette che vi vendono nei locali, ma il rimprovero di Valerie, che di solito  sarebbe stato accolto con un “ecco, è arrivata la moralista”, quella sera, chissà perché, fece ridere tutti.
L’indomani mezzo mondo parlava della “partita di Brian Cruyfford”.
 
*** 
 
Valerie era al lavoro quando le arrivò il messaggio: 
 
Brian Cruyfford ore 15.47
 
Pensavo di festeggiare la mia tripletta. Posso invitarti a cena?
 
Valerie dovette rileggere.
 
*** 
 
Aveva meditato a lungo su cosa indossare, si era fatta addirittura prestare la piastra per i capelli da Jackie, aveva tirato fuori la sua attrezzatura da make-up per la prima volta dopo quanto tempo? non se lo ricordava, forse dalla sera del 31 dicembre. E le sembrò strano che per una volta la sua compagnia non fossero gatti investiti dalle automobili, cani abbandonati, cuccioli infilati in una busta e lanciati nei fiumi e nei canali, che qualche anima buona salvava e portava al rifugio più morti che vivi; o il povero Thor, che ancora portava le tracce delle percosse e i segni dei denti dei cani, affamati e torturati come lui, contro cui lo avevano fatto combattere, fino a che, mezzo dissanguato dopo l’ennesimo combattimento, lo avevano buttato come un sacco di immondizia a morire in un fosso poco fuori città. Ormai viveva ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette, in compagnia del male del mondo in una delle sue forme più raccapriccianti, la crudeltà e la noncuranza contro i nostri fratelli più piccoli, quelli che non hanno il pollice opponibile per usare la frusta e i bastoni, quelli che non sanno parlare. Era tanto immersa nel dolore da aver dimenticato che esisteva anche altro: quelle sconclusionate delle sue coinquiline coi loro fidanzati più squinternati ancora, il viso spiritato di Brian Cruyfford dopo aver segnato tre - tre! - gol, un invito a cena! 
Si erano dati appuntamento davanti al pub di Chester Road. Valerie rimase a bocca aperta di fronte alla moto e al centauro col casco sollevato che le porgeva a sua volta un casco. Porca miseria, mi stiro i capelli per la prima volta dopo non so quanto e questo qui mi porge un casco! Le venne da ridere. 
“Come si chiama questo mostro?” 
“Falco. Si chiama Falco. Metti quel casco”.
“Dove si va?” 
“Al Lucky Cat, King Street. Mi ha ispirato il nome, ti si addice, non trovi?“
 
*** 
 
Al Lucky Cat Brian aveva riservato una delle salette private, cosī che stavano addirittura larghi. E se le pietanze non furono entusiasmanti, in compenso le chiacchiere fluirono allegre e fiduciose. Brian sembrava molto più allegro della volta precedente e molto più disposto a parlare di sé. Valerie si era ripromessa di non raccontare tutta la sua vita come faceva di solito con le persone appena conosciute, ma non appena aprì la bocca, addio! Forse anche a causa di quel bicchiere di vino che aveva preso, prese a chiacchierare come una forsennata e se il suo interlocutore non l’avesse interrotta ogni tanto avrebbe parlato per un‘ora filata. Gli riferì anche tutti i particolari della sera precedente. “Avevo dimenticato com’è guardare una partita con gli amici… ci siamo divertiti. Tu sembravi così determinato! Avevi un’aria da fare spavento”. 
“Ho da onorare una promessa”. Brian in quel momento era soprappensiero. “Da quando ho avuto problemi di salute, ed è inutile girarci intorno, visto il posto dove ci siamo incontrati, ho l’urgenza di strafare. Mi è presa una paura irrazionale di non fare in tempo”. 
“Non hai già fatto abbastanza?” si incuriosì Valerie. 
“Anche questo mi è stato detto…” 
“Allora forse è vero…” 
“Bah. Forse un anno fa avrei aspettato un mese prima di invitarti a cena”. 
“A proposito, Ritratto estivo come procede? Lo hai finito?” 
Lui si mise a ridere. 
“No, ma ho letto il racconto di Sophie la puzzolente. Avevi ragione, è forte”. 
“Già. Facciamo che mi restituisci il libro quando lo United avrà vinto il campionato…” 
“Mancano solo clnque partite, in effetti”. Brian sollevò la mano aperta e mostrò le cinque dita ben tese.
“E il City e il Liverpool vi tallonano…” 
Quando uscirono dal ristorante, lui le chiese semplicemente: 
“Posso invitarti da me?” 
Valerie normalmente non avrebbe mai accettato un invito simile. Quella volta, invece, disse di sì senza neanche starci a pensare. 
 
***
 
La prima cosa che Valerie disse entrando in quel bellissimo appartamento di duecento metri quadri in centro: “Accidenti!” 
Brian le fece fare il tour della casa e lei non la finiva più di entusiasmarsi per la piccola palestra e il piccolo studio privato. Oltre che per le quattro camere da letto.
“Qui potrebbero vivere comodamente otto persone!” Girandosi verso il giovane olandese scoppiò in una risata: “Si vede che ho passato gli ultimi otto anni tra studentati e affitti condivisi?” 
“Anche stare larghi è un lusso” commentava intanto Brian. “Nel mio paese lo sappiamo bene! Vieni”. 
Le fece strada verso il salotto, un ambiente che a Valerie sembrò tanto grande da non riuscire a vederne la fine. Riuscì a individuare solo un immenso divano, due poltrone enormi, una enorme tv a schermo piatto incassata alla parete di fronte al divano, un tavolo da dodici nell’angolo più lontano e un grande mobile bar. 
Non tutti guadagniamo qualche decina di milioni di sterline all’anno! pensava Valerie. 
“Ti va di bere qualcosa?”
“Ancora?“
“Certo!“
Si avvicinò al mobile bar e tirò fuori il Glenmorangie delle grandi occasioni. 
“Vuoi?” 
“Non hai qualcosa di analcolico?” 
“Sì, il succo d’arancia con cui faccio colazione”. 
“Ecco, grazie, quello va bene”. 
Brian posò il Glen Morangie e spari in cucina. Tornò dopo un paio di minuti con grosso bicchiere da acqua e una confezione di succo d’arancia rossa (Red oranges from Sicily, recitava la scritta rossa che abbracciava diagonalmente tutta la confezione). Posò il tutto sul ripiano del mobile bar, metodicamente aprì la confezione di succo d’arancia, ne versò una generosa dose nel bicchiere, richiuse la confezione, porse il bicchiere a Valerie, poi si versò un mezzo bicchiere di whisky. 
“Ma tu puoi bere così tanto?” 
“Al diavolo! Oggi mi va di festeggiare” sogghignò Brian. E si sedette a gambe larghe sul suo divano. Valerie era rimasta in piedi vicino alla finestra, quasi intimidita. 
“Di’ un po’, Valerie Douglas” riprese Brian, dopo aver mandato giù un sorso. “Te lo volevo chiedere anche la volta scorsa, ma me lo sono dimenticato, ultimamente dimentico un po’ troppe cose. Come mai ti è venuto in mente di prestarmi il libro di Julia Gutenbrunner?” 
Valerie sorrise. 
“Avevi un’aria così nervosa e impaurita”.
“Io?” 
Valerie accennò di sì con la testa. “Avrei voluto fare qualcosa per te, ma ero un’estranea, non sapevo cosa.  L’unica cosa in comune che avevamo era quel libro…” 
“Hm” Brian socchiuse gli occhi e assunse l’aria da ragazzino terribile che tanto piaceva alle donne. “Magari non sapevo niente di quel libro, magari lo avevo usato solo per attaccare discorso…”
“Sapevi che l’originale è in tedesco. Mi sembra abbastanza” fu la replica sorridente di Valerie. 
“In effetti non conoscevo il libro. In cambio conosco Julia Gutenbrunner”. 
“Davvero?” 
“L’ho incontrata a Parigi”. 
“E com’è?” 
“È come te”. 
“Tu sai come sono? È la terza volta che ci incontriamo!” 
“Non ho bisogno di anni per capire come è una persona. Bastano cinque minuti”. 
“Eh già, infatti”. 
Brian guardò la ragazza dal basso verso l’alto, un lungo sguardo penetrante. Lei rimaneva in piedi accanto alla finestra. 
“Sei bella” mormorò infine Brian. “Ecco come sei. Bella”. 
Valerie stava zitta.
“E” di nuovo l’aria da ragazzino terribile “non mi aspettavo che fossi così ben messa lì davanti…”
Valerie avvampò e distolse la faccia, mentre l’olandese, continuava:
“E io ti ho chiesto se volevi vedere casa mia perché in realtà nutrivo, nutro, la speranza che tu venga a letto con me. Possibilmente qui e ora. Perché ti desidero, e ti desidero tanto da provarne dolore”.
“Hai bevuto troppo…” 
“Non ho bevuto troppo”. Per sottolineare meglio il concetto, Brian finì di buttare giù il whisky e posò il bicchiere sul tavolino con molto rumore. 
“Ascolta, forse ho sbagliato a…” stava cominciando Valerie. 
Lui la interruppe: “No, ascolta tu -“
E proprio in quel momento una fitta tremenda alla spalla destra gli fece vedere le stelle.
 
*** 
 
Si ritrovò steso con le gambe sul divano, un cuscino sotto la testa, un plaid addosso e del ghiaccio sulla spalla. E il viso di Valerie a cinque centimetri dal suo, gli occhi - ma guarda, ha anche due occhi meravigliosi, di che colore sono? Ambra, sono color ambra… Dio mio sto delirando - sgranati dall’ansia.
“Devo chiamare qualcuno? Vuoi andare in ospedale?” 
Brian socchiuse gli occhi e fece di no con la testa. 
“Sto bene” mormorò. Il dolore lo aveva lasciato senza respiro. Cercò di sollevarsi, ma Valerie lo tenne giù con decisione.
“Fermo lì” gli disse. “Aspetta che il ghiaccio faccia il suo dovere. Ti hanno prescritto qualche antidolorifico apposito? Chiamo il professor Robbins? Il medico dello United?”
“Non mi servono antidolorifici. È passata”. Gli parve di vedere come un’ombra liquida negli occhi di Valerie, che infatti subito rispose: “È passata così?” e spinse il palmo della mano contro la spalla di Brian. Al quale girò la testa per il dolore. 
“Ahia! Accidenti a te” Brian avrebbe voluto urlare ma riuscì ad articolare solo un ringhio afono. 
“Sono infiammazioni reumatiche, Brian Cruyfford, non ci si scherza”. 
“Contro il dolore serve solo la felicità” cercò di scherzare lui.
“Contro il dolore serve qualcosa che faccia passare il dolore. Ma se non mi dici dove tieni gli antidolorifici…“ 
Valerie gli accarezzò una guancia passandoci più volte, leggera leggera, il dorso della mano; gli ravviò i capelli dalla fronte ancora gelida di sudore. 
“Baciami” mormorò Brian. 
“Eccolo che straparla di nuovo…” 
“No, dico sul serio. Baciami”. 
“Va bene, e poi?” 
“Vedrai che il dolore mi passa”. “Come ai bambini quando dai loro un bacino sulla bua?”
“Esattamente”. 
“Ma sei proprio scemo, Brian Cruyfford…” 
Valerie si chinò su di lui e gli sfiorò la bocca con le labbra, leggera leggera, una volta, due volte. Alla terza volta, Brian fu veloce a prenderle il viso tra le mani e a ricambiare il bacio. Si staccarono forse cinque minuti dopo, fronte contro fronte, senza fiato. 
“Vedi? il dolore è passato”. 
Si meravigliarono: durante quei cinque minuti, senza accorgersene, si erano presi strettamente per mano. 
“Ti dispiace se resto qui con te stanotte? Se dovessi avere bisogno di aiuto, sono pur sempre un dottore”. 
“Sei il dottore adatto a un asino come me” rise Brian piano.
“Gli asini sono animali eccezionali. Sono intelligenti, costanti, decisi, grandi lavoratori, simpatici e affettuosi. Non ti fanno arrossire”.
“Perché ti ho detto che hai un bel seno e che avrei voluto…? Pensavo fosse un complimento”. 
“È… è anche imbarazzante”. 
“Sei una ragazza strana. Ti imbarazza un uomo che manifesta il suo desiderio per te?” 
Valerie annuì più volte, mentre il suo labbro inferiore si arricciava e gli occhi le si riempivano di lacrime. Finì per rannicchiarsi accanto a Brian, piangendo silenziosamente, mentre lui, non sapendo che fare, da una parte provava a stringerle più forte la mano, dall’altro cercava di rassicurarla. 
“Non avevo cattive intenzioni, Valerie, a volte sono solo troppo sfrontato. Non volevo farti star male, non… scusami”.
“Lo so. Bastano cinque minuti per capire una persona”. 
Valerie gli sorrideva tra le lacrime. 
Si rannicchiò verso l’altra estremità del divano mentre Cruyfford, balbettando assurdità, piano piano scivolava nel sonno. Meno malesta meglio, pensò Valerie mentre si lasciava andare a uno sbadiglio. 
Si svegliò con il primo chiarore dell’alba che filtrava dalle tende. Fece per alzarsi, ma dovette scostare la coperta nella quale era premurosamente avvolta. Brian riposava tranquillo dall’altro lato. Durante la notte doveva essersi svegliato, le aveva preso una coperta, gliel’aveva adagiata addosso e si era rimesso a dormire.  Valerie si alzò, si avvicinò,  vide che il petto del ragazzo si sollevava e si abbassava regolarmente, ritmicamente, sotto il pesante plaid di pile. Meno male, respira. Respira, è vivo. Un braccio spuntava fuori dal plaid, abbandonato lungo il fianco. Valerie risentì il tocco gentile e lievemente ruvido di quei polpastrelli sulla sua faccia. Ha mani così forti e carezzevoll e ha paura di morire. 
 
*** 
 
Note di Ælfgifu. 
 
In questo capitolo Brian un po’ fa lo sbruffone, un po’ ci prova sfacciatamente, un po’ sta male, un po’ fa il bambino, un po’ si rivela dolce e ammodo. Come tutti noi, del resto! 
 
Il “falco” è la Suzuki Hayabusa (“falco pellegrino” in giapponese), una delle moto più veloci al mondo. 
 
Il Lucky Cat è uno dei ristoranti di Gordon Ramsay a Manchester; l’ho scelto non per via di Gordon Ramsay ma per il nome (che si addice molto a Valerie) e alcune sue caratteristiche. Per quanto riguarda la cucina… ehm, ho dato un’occhiata ai menu e da italiana ho pensato che esiste di meglio... 😂😂😂
 
Pursuit di Stephen Dobyns è forse la poesia che spiega meglio in assoluto la paura della morte e l’ansia di non avere tempo per fare tutto quello che si vuol fare. Mi sembrava di ricordare che ne esistesse una traduzione italiana, ma non sono riuscita a recuperarla. Per chi vuol leggere l’intera poesia in inglese: https://www.latimes.com/archives/la-xpm-1997-oct-05-bk-39339-story.html
 

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Capitolo 8
*** The day after ***


8. The day after
 
Fu Valerie a svegliarlo, con dei colpetti gentili sul braccio. 
“Buon giorno, Brian Cruyfford, vedo che hai dormito bene…” 
Lui la mise a fuoco, si stiracchiò e sorrise. 
“Ti ho svegliato perché devo andare al lavoro e volevo assicurarmi che stessi bene. Tu però dovresti avvisare qualcuno e prenderti un giorno libero dai tuoi impegni”. 
Brian si mise a sedere, si sgranchì le braccia e il collo e disse: 
“Ho bisogno di una doccia. Tu?” 
“Non importa, non farei in tempo”. 
“Allora almeno aspettami cinque minuti, facciamo colazione insieme e se vuoi ti accompagno io al lavoro…” 
“Tu oggi dovresti rimanere a casa e avvisare qualcuno dello staff di quello che è successo ieri sera. Io chiamo tranquillamente un taxi”. 
Brian si avviò mollemente verso la stanza da bagno: “Intanto vedi se in cucina trovi qualcosa che ti va!”
Valerie entrò in cucina come una volpe nel pollaio, quatta quatta. Era talmente grande e attrezzata che le ci volle qualche minuto per esplorare tutto il frigorifero, individuare i reparti dei piatti, delle tazze, dei bicchieri, delle posate e delle padelle nella credenza, scovare uno spremiagrumi, scoprire l’angolo della macchina per il caffè. Se pensava a casa sua, dove dovevano fare i turni per prepararsi la colazione! Non osò avventurarsi a preparare frittelle o friggere uova, ma tirò fuori pane, formaggio, burro, prosciutto, frutta, latte e succo d’arancia. Dispose tutto sul tavolo e stava iniziando a imburrare una fetta di pane, quando il padrone di casa entrò asciugandosi i capelli con un asciugamano. Era a piedi nudi, aveva indossato una maglietta e pantaloni puliti, e profumava di docciaschiuma, con in aggiunta una nota vegetale di erba fresca che sicuramente doveva essere il profumo di detersivo che esalava dai vestiti puliti.
“Oh, brava, vedo che hai trovato tutto” disse sedendosi e gettando l’asciugamano sulla spalliera della sedia accanto a lui. 
“Non ti asciughi i capelli?” 
“Si asciugano da soli”. 
“Hai un’infiammazione reumatica, così peggiori la situazione”. 
Lui non la guardò neanche in faccia, le tolse pane, burro e coltello dalle mani e continuò a imburrare il pane. 
“Vuoi qualcosa di particolare?” 
“N-no. Tu cosa mangi di solito?” 
“Io un bel panino con formaggio e prosciutto e succo d’arancia. Vuoi che ti frigga un uovo?”
“No, va bene, mi faccio anch’io un panino”. 
Valerie prese un altro coltello, altre due fette di pane, e quando allungò la punta del suo coltello verso il panetto urtò inavvertitamente l'ultima falange del mignolo contro il piattino del burro. Si sentì nettamente un rumore simile a un piccolo schiocco. Valerie esclamò “ahi”, lasciò cadere il coltello e la fetta di pane e si prese immediatamente la mano destra nella sinistra. Brian la vide mentre si tastava la falange del dito, cautamente. 
“Ti sei fatta male?” domandò incredulo. 
“No, no” Valerie continuava a tenersi la mano destra nella sinistra, aveva la faccia deformata dal dolore e parlava a fatica. “Ora mi passa”. 
“Da’ qui, faccio io” disse lui, e prese a imburrare le due fette di pane di Valerie. Le imburrò coscienziosamente, vi pose sopra due fette di formaggio e due di prosciutto, richiuse il panino e lo mise davanti alla ragazza. Poi le riempì il bicchiere di succo d’arancia, quindi continuò a prepararsi la sua colazione. Valerie non prendeva ancora in mano il panino. 
“È tutto OK?” domandò Brian. Ormai aveva finito di prepararsi il suo pane e prosciutto, aveva deposto il coltello, afferrato il panino con due mani e stava per assestargli il primo morso. 
“Tutto OK”. 
Valerie protese le mani in avanti e prese il suo panino con cautela. 
“Grazie” disse. “Sai, c’è un motivo per cui ci siamo incontrati nello studio di Robbins-Stickley”. 
“Immagino di sì”. 
“Per essere esatti, io soffro di artrite reumatoide”. 
Brian smise di masticare. 
“Hai sentito il rumore che ha fatto la mia falange contro il piattino di coccio? Si è sentito chiaro e forte. Be’, quelle sono le mie articolazioni malandate”. Brian riuscì finalmente a mandar giù il suo boccone. 
“Ma hai trent’anni…”
“Non c’entra molto l’età”. Valerie si strinse nelle spalle. “È una malattia autoimmune per cui non si conoscono cure. Colpisce soprattutto le donne. Peggiora con il tempo, ma può essere tenuta sotto controllo. A meno che non avvengano sviluppi drammatici, come malattia non mi renderà del tutto invalida, ma impatterà abbastanza sulla qualità della mia vita, come si suol dire”. 
Valerie staccò un morso dal panino e lo masticò coscienziosamente. 
“E… il tuo lavoro?” 
“Tra dieci anni non potrò operare e probabilmente non potrò più svolgere azioni che implicano un coordinamento fine, per esempio avrò bisogno di aiuto per praticare un’iniezione a un gatto, ma potrò ancora fare molte cose. In questo sono stata fortunata. Immagina se avessi fossi stata un chirurgo… scusa. Dovevo dirtelo”.  
“Dovevi?”
“Sono una malata cronica, Brian Cruyfford. Il mio medico era pronto a riempirmi di cortisone fino alle orecchie vita natural durante, ma l’ho mandato al diavolo e mi sono rivolta al professor Robbins. La terapia che sto seguendo con lui mi fa bene, ma il fatto rimane: soffro di una malattia autoimmune sistemica e potenzialmente invalidante per cui non esistono cure”.  
Brian la guardava senza parlare. 
“… e quindi è ora che chiami un taxi e vada al lavoro”. 
 

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Capitolo 9
*** Cavoli amari ***


9. Cavoli amari
 
Se n’era andata quasi di corsa, sfuggendo ogni suo tentativo di abbracciarla o di salutarla con un bacio. 
Brian era confuso, non capiva bene cosa fosse successo. Rientrò in cucina e abbracciò con lo sguardo il tavolo ancora carico di stoviglie e degli avanzi della colazione. Si sedette pesantemente e tirò fuori lo smartphone. La sera prima il Barcellona aveva vinto in casa contro il City per 1-0. Tra sei giorni loro sarebbero volati in Portogallo e i catalani a Manchester. Decise di ignorare le raccomandazioni di Valerie e di andare lo stesso all’allenamento, ovviamente senza dire nulla della sua crisi della sera prima né a Veldeke né ai medici. Anzi, nell’ordine, né ai medici né a Veldeke.
 
***
Valerie, invece, arrivando al lavoro trovò una bella sorpresa. Thor, il pitbull che era stato gettato agonizzante in un fosso dopo essere stato gravemente ferito in un combattimento clandestino di cani, e che a lungo li aveva tenuti col fiato sospeso perché stentava a riprendersi, era allegro e vivace, aveva mangiato tutta la sua razione di carne e croccantini - come riferito fedelmente da Rupert - e quando Val aprì cautamente la porta della cuccia per esaminarlo, le andò incontro felice, sia pure zoppicando sulle zampe steccate, e incominciò a farle le feste tra guaiti e abbài. “Ehi ehi! Fai piano!” scoppiò a ridere Valerie, cercando di sfuggire alle effusioni del pitbull. La contentezza nel vedere quella creatura torturata che stava di nuovo bene, era di nuovo forte, ed era di nuovo in grado di fidarsi di un essere umano, le fece quasi passare la tristezza che l’aveva accompagnata da casa di Brian. 
Che strano ragazzo. Era un campione famoso, sicuro di sé, egocentrico al quadrato, letteralmente sfacciato a volte, eppure anche così dolce e fragile. Chissà cosa aveva visto in lei? La sera prima era stato diretto, perfino troppo esplicito, tanto che a un certo punto ne aveva avuto paura. Ma chissà, l’adrenalina della partita non gli era ancora passata, e poi aveva anche bevuto. E poi, certo, l’incertezza dovuta allo stato di salute. Chissà se in una situazione normale uno così  avrebbe mai fatto caso a lei. Comunque, aveva agito bene dicendogli della sua artrite: meglio metterlo alla prova prima che dopo. Se poi lui avesse deciso di lasciar perdere la ragazza malata, non ci sarebbe stato da stupirsene: era già successo con altri che, al contrario di Cruyfford, non erano né campioni di calcio, né famosi, né carini, né ricchi.
Mentre si avviava lungo il vialetto del centro, seguita dai guaiti di felicità di Thor, Valerie si ritrovò a dire al cane: 
“Bravo, giovanotto! Almeno tu riprenditi la tua vita, fallo per zia Val!”
 
*** 
 
Nei giorni seguenti non ci fu tempo nemmeno per pensare: il sabato avevano avuto il turno di campionato, il martedì giocarono a Lisbona. La sera dopo, per quanto fosse letteralmente a pezzi, Brian andò al Manchester Stadium a guardare il ritorno tra il City e il Barcellona. Il City fece novantasette minuti di lotta feroce, passò in vantaggio all’ottantesimo minuto. 1-1 alla fine del centottanta.Si dovettero giocare i tempi supplementari, che terminarono senza reti né da una parte né dall’altra. Erano quindi andati ai rigori. Dopo la prima batteria erano ancora in parità. Furono costretti a tirarne altri tre da una parte e dall’altra, e alla fine Dursley del City si prese un crampo proprio mentre calciava il suo tiro, che atterrò calmo e lento tra le braccia del portiere. 8-7 per il Barcellona ai tiri di rigore.  In campo e sugli spalti si verificarono scene deliranti, tra i ventidue in campo chi era buttato sull’erba, le mani sulla faccia; chi era rimasto in piedi, ma appoggiando le mani sulle ginocchia e guardandosi intorno smarrito; chi zoppicava sorreggendosi a un compagno, massacrato dalla stanchezza e dalla fatica. Piangevano per la stanchezza anche quelli del Barça. I tifosi erano impazziti, la gente piangeva, urlava, cantava, si strappava i capelli, si rotolava per terra. La polizia metropolitana dovette far intervenire un reparto speciale per garantire l’uscita delle squadre e il deflusso in sicurezza del pubblico. Brian arrivò a casa all’una di notte. Mentre si chiudeva la porta alle spalle, gli arrivò un messaggio del suo amico Thijs De Jonge del City, che gli inviava uno scatto: Rivaul e Tsubasa Ozora in mezzo al campo, l’uno di fronte all’altro, le mani sui fianchi, troppo stanchi perfino per abbozzare un sorriso.
Abbiamo perso, ma gliel’abbiamo fatta sudare, scriveva Thijs. 
Mentre ancora stava leggendo il messaggio di Thijs, dling!, notifica di messaggio arrivata sulla chat della squadra. Scriveva Dempsey, il primo portiere dello United: Gente! Ora sono cavoli amari! 
Le risposte si affollarono, si accavallarono: 
-Stai zitto! 
-Ce li mangiamo a colazione… 
-Basta che non arriviamo ai rigori come stasera… 
-Se solo a Dursley non fosse preso un crampo!…
-Alla fine non si tenevano più neanche in piedi. 
-La faccia di Ozora! 🤣
-Perché, avresti preferito giocare contro il City? 
-Dobbiamo tornare da Barcellona con un pareggio e vincere a casa, semplice! 
-Semplicissimo, guarda… 
-Come bere un bicchier d’acqua 😂😂😂
-Andate a dormire!
 
***
 
Il lunedì successivo andò alla visita di controllo da Robbins-Stickley, il quale lo accolse con cordialità fin troppo esagerata, pensò Brian. (Questa volta non c’erano stati imprevisti, la sala d’attesa era vuota come promesso.) Le notizie, comunque, erano ottime: gli esami non avevano rivelato nessuna anomalia, nessuno era riuscito a spiegarsi il perché di quelle fitte così dolorose che, comunque, non stavano segnalando nessuna malattia. I suoi organi interni erano sanissimi, le sue articolazioni a posto. 
“Con le conoscenze in mio possesso, per ora posso solo dire che in quel modo il tuo corpo rende concreti pensieri ed emozioni conflittuali che tu provi”. 
“Mi è capitato di nuovo pochi giorni fa” gli confessò Brian. “Non è stato fortissimo, insomma non sono svenuto, ma ha ragione, mi è capitato mentre stavo facendo qualcosa che desideravo molto ma che tutto mi sconsigliava di fare…” 
Robbins-Stickley, fortunatamente, non s’informò sul “cosa” Brian stava facendo quando gli era arrivato il misterioso dolore.
“Il problema è, ragazzo mio, non nella spalla ma nella testa. Mi pare di capire che tu abbia un senso molto forte di quello che si deve o non si deve fare, e soffri conflitti intensissimi quando, diciamo, il principio di piacere, la voglia di vivere si insinua nella tua disciplina interiore”. 
“Non mi sembra di avere chissà quale disciplina”.
“Risposta da manuale”.
“Professore… posso chiederle una cortesia?” 
“Se è nelle mie possibilità, volentieri”. 
“Mi può spiegare esattamente che cos’è l’artrite reumatoide?”
 
*** 
 
Note di Ælfgifu. 
 
Ora la squadra di Brian si scontrerà col Barcellona… saranno davvero cavoli amari!
Che ne dite? I calciatori di un club di professionisti avranno anche loro una “chat di gruppo”? A me piace pensare di sì.

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Capitolo 10
*** Vita privata di allenatore olandese ***


10. Vita privata di allenatore olandese
 
Al ritorno da Lisbona, Hans van Veldeke trovò casa sottosopra. Che cos’era successo? La sera prima i gemelli, insieme al loro amichetto Wesley ufficialmente invitato per guardare tutti insieme la partita Benfica-United, alla fine della partita, per festeggiare il passaggio del turno, avevano preso il sopravvento sulla baby sitter e si erano messi a lanciarsi i pop corn e le patatine e a spruzzarsi la Coca Cola e il ketchup, e avevano combinato un disastro. (Le pareti del soggiorno e il divano sfoggiavano inquietanti macchie che sarebbero potute sembrare sangue a chi non fosse stato al corrente della situazione.) 
La signora Veldeke, che era uscita a cena con alcune amiche, era stata istericamente richiamata a casa, ma al suo arrivo aveva trovato lo sconquasso già apparecchiato. Così quel pomeriggio, quando Hans aprì la porta di casa, trovò ad accoglierlo sua moglie, mesta e a occhi bassi. 
“Be’, che è successo?” chiese Hans, spingendo il trolley nell’ingresso. 
Ria gli spiegò che Johan e Jacob l’avevano combinata grossa. 
“E cioè?” 
“Vieni in soggiorno…” 
In soggiorno Hans non seppe se ridere o arrabbiarsi, mentre Ria gli esponeva la dinamica degli eventi. Lui girò sui tacchi, si avviò per il corridoio, arrivò davanti alla stanza dei gemelli, bussò brevemente e imperiosamente ed entrò senza aspettare risposta. Johan era seduto alla scrivania, intento a fare i compiti; Jacob era spaparanzato sul letto e smanettava sul cellulare. Dice che con i gemelli accade sempre così, c’è il giudizioso e c’è l’anarchico. Il guaio con i suoi figli era questo: era sempre l’anarchico a trascinare il fratello nelle sue imprese, mentre la calma e la posatezza di Johan pareva non avere nessuna influenza sullo scatenato Jacob. Vedendo comparire il padre sulla porta, ancora in giacca e cravatta, Johan sembrò farsi più piccolo, Jacob invece balzò in piedi e inalberò il suo sorriso più seducente. 
“Ciao papà!” 
Veldeke incrociò le braccia: 
“Ciao, ciao… è opera vostra quello che ho appena visto in soggiorno?” 
Johan assentì, abbassando la testa, mentre il fratello esclamava:
"Ci è scappata la mano, papà, volevamo solo festeggiare la qualificazione!” 
“Facendo impazzire Faith e la mamma e distruggendo il soggiorno?”
A questo rimprovero anche Jacob non trovò da ribattere. La sentenza arrivò rapida e inappellabile: 
“La mamma e io abbiamo deciso: niente paghetta per un mese e aiuterete gli imbianchini che verranno a riverniciare”.
Jacob represse a stento un gesto di esultanza perché non gli avevano tolto lo smartphone. 
“Ora venite a fare merenda con me” disse Hans ai ragazzi. “Avanti, marsch!”
Tutti seduti attorno al tavolo del tinello attorno al pane, burro e marmellata e ad enormi bicchieri di latte, il papà raccontò della trasferta portoghese e tirò fuori alcuni ricordìni: prendeva sempre qualcosa per Ria e i ragazzi quando andava all’estero, anche se spesso non aveva tempo per scegliere qualcosa di veramente bello e doveva accontentarsi di gadget da duty free. 
“E ovviamente voi due potete sognarvi di venire allo stadio per la partita di ritorno contro il Barcellona!” 
A Johan salirono le lacrime agli occhi. 
“Ma papà, la colpa è stata di Jacob e di Wesley, sono loro che hanno cominciato!…” 
Suo padre gli fece gli occhiacci: 
“E tu che hai fatto? Sei andato dietro a tuo fratello e a Wesley, quindi sei responsabile quanto loro”. 
Quella sera ebbe una lunga conversazione con la moglie. 
“Non dovresti aspettare sempre me per punire le loro marachelle. Sei la loro mamma. Puoi essere severa, se serve…” 
Ria si sentiva sopraffatta.
“Fatico a star loro dietro, Hans… non hanno più tre anni e straripano di energia”. 
“Ma sono bravi bambini” obiettò lui. “Basta un po’ di fermezza”. 
“Tu sei abituato a gestire ventidue giovanotti grandi e grossi per volta…” 
“Hm”. 
“Sai, forse c’è un progetto lavorativo in vista”.
“Di che si tratta?” 
“Con Michelle e Belinda pensavamo di rilevare una piccola attività”. 
“Cioè?” 
“Una piccola sala da tè a Stretford”. Ria fece un risolino. “È veramente la sala da tè dei Puffi, avrà al massimo venti posti a sedere, ma l’idea è di farne un posticino accogliente e di tendenza”. 
Ria era stata maître d’hotel e nei dieci anni trascorsi a fare la moglie di un calciatore, poi allenatore, e la mamma di Johan e Jacob, aveva sentito molto la mancanza del suo lavoro. 
Già, pensò Hans, un marito sempre fuori per lavoro non è il massimo, anche se è famoso e guadagna milioni di sterline. E poi i ragazzi crescono alla velocità della luce, e andranno via prima di quanto immaginiamo, e si ritroverà con un gran vuoto nella sua vita. Ha ragione a voler riprendere a lavorare. 
“Il posto è piccolino e io potrei gestirmi il lavoro autonomamente, non trascurerei i bambini…” 
“Non hai mai trascurato i bambini. Sai, è una bella idea”. 
“Pensavo la prendessi male…”
“Male, perché?” 
“Johan e Jacob…” 
“Prendiamo una governante a tempo pieno: vecchia scuola, tipo signorina Rottenmaier, che metta in riga quelle due pesti come si deve. Ce lo possiamo permettere”.  
 
*** 
 
L’indomani arrivò all’allenamento con tre quarti d’ora di anticipo e trovò Cruyfford già in campo. Si stava esercitando a tirare calci di rigore. Dagli undici metri: rasoterra, verso destra. Entrava in porta, recuperava il pallone, tornava agli undici metri, sistemava il pallone sul dischetto. Basso, a sinistra. Entrava in porta, recuperava il pallone, tornava agli undici metri, sistemava il pallone sul dischetto. Alto all’incrocio dei pali, a destra. Entrava in porta, recuperava il pallone, tornava agli undici metri, sistemava il pallone sul dischetto. Alto all’incrocio dei pali, a sinistra. Entrava in porta, recuperava il pallone, tornava agli undici metri, sistemava il pallone sul dischetto. Pallonetto centrale. Entrava in porta, recuperava il pallone, tornava agli undici metri, sistemava il pallone sul dischetto. Preciso, metodico, ostinato. Tac, tac, tac, tac. Rimase a guardarlo affascinato da bordo campo per più di cinque minuti, fino a che fu Brian stesso, mentre recuperava il pallone dal fondo della rete, ad accorgersi della sua presenza. 
“Buongiorno, Mister, è mattiniero!” lo salutò. 
“Anche tu” rispose Veldeke. 
Brian, il pallone sotto braccio, si diresse verso gli undici metri, sistemò la sfera sul dischetto.
“Pareggeremo in Spagna e andremo ai rigori all’Old Trafford” spiegò tranquillo. “Mi devo esercitare”. 
“Ne sei così convinto?” 
“L’ho sognato”. 
Brian girò attorno il dischetto fino a fronteggiare il pallone, fece tre passi indietro, guardò davanti a sé, scattò in avanti, colpì di interno destro. La palla si sollevò veloce, compì un arco e andò a finire nell’angolo sinistro della porta. 
“Il tuo schema solito è: basso, interna destro, diagonale a sinistra. Si aspetteranno un tiro del genere” osservò Veldeke. “Devi sorprenderli”. 
“Allora crede anche lei che finiremo ai rigori?” 
“Non ci farà male stare pronti. Raccogli un po’ quel pallone…”
Brian raccolse il pallone. 
“Prova ancora. Ora destro, di collo, basso, a destra”. 
Brian eseguì. Il pallone entrò in rete dopo aver compiuto una traiettoria diritta come uno spaghetto. 
“Vai. Ora con l’interno destro, imprimi effetto, verso destra”. 
Brian ruotò leggermente per imprimere la direzione voluta. 
“Ho sentito il dottor Campbell” lasciò cadere Veldeke mentre il giovane trotterellava verso la porta. “Pare che tu abbia una specie di problema psicosomatico”. 
“Già” gli rispose Brian raccogliendo il pallone. 
“Da una parte è un’ottima notizia, dall’altra parte è preoccupante”. Erano distanti almeno quindici metri l’uno dall’altro e per sentirsi dovevano parlare forte.
“Preoccupante, perché?” 
“Che cosa ti fa soffrire, Brian?” disse Veldeke, accorato come un fratello maggiore. 
“Mi fa soffrire il fatto che non ho ancora vinto la Champions League”.
 

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Capitolo 11
*** Alla ricerca del sonno perduto ***


11. Alla ricerca del sonno perduto
 
Brian era entrato nell’atmosfera adrenalínica che precede la battaglia. Si sfogò in campionato, segnando due gol nelle due partite successive, ma ancora non gli bastava, la notte non dormiva, pensava al Barcellona e ai tiri di rigore, all’una di notte si alzava, accendeva il pc e andava a rivedersi partite e azioni, si studiò i possibili rigoristi della squadra catalana e i loro stili di tiro e obbligò anche Dempsey e Hjalmarssen a fare altrettanto. Arrivava agli allenamenti un’ora prima e andava via un’ora dopo, gli addetti dovevano letteralmente cacciarlo via.  Veldeke tentò di dirgli che avrebbe dovuto riposare di più ma lui gli rispose che andava tutto bene. 
Da quando il professor Robbins-Stickley gli aveva rivelato che i suoi malesseri erano “nella testa”, gli era caduto un macigno dalle spalle. Sta a me, era stato il suo pensiero, e se sta a me, ce la faccio. Un’energia spaventosa si era impadronita di lui. 
Alla terzultima giornata di campionato lo United conquistò là Premier League. Brian si affacciò ai festeggiamenti ma andò via prima di mezzanotte. Non bevve neanche un sorso di spumante. Quella notte non dormì, il suo corpo sfrigolava di energia, sentiva addirittura l’elettricità sui polpastrelli delle mani. Si infilò le cuffie in testa e si mise a correre sul tapis roulant a suon di musica. Correva ancora quando l’alba fece capolino dalle tende. La cosa si ripete anche la notte successiva. Alle sette si infilò sotto la doccia, poi andò a fare colazione, scorse le notizie sullo smartphone, andò a vestirsi e fu al campo tre quarti d’ora prima degli altri. Alle undici meno un quarto stramazzò sull’erba.
"Sovraffaticamento e mancanza di sonno” sentenziò il dottor Campbell. Veldeke gli fece una memorabile lavata di capo, il dottore lo spedì a casa con la prescrizione per una confezione di compresse di melatonina e l’ordine di mettersi a letto e riposare. Quando Brian se ne fu andato, Campbell guardò l’allenatore e scosse la testa: 
“Non dormirà fino a quando non sarà arrivato dove dice lui”. 
 
*** 
 
Brian era andato a casa e si era messo a letto, ma era come essere sdraiato su un tappeto di chiodi, non aveva pace, si girava a destra e sinistra. Nella testa rivedeva continuamente i rigori di City-Barcellona, ormai li conosceva a memoria, ripassava le angolazioni, l’altezza dei tiri, la velocità. Si sentì sopraffatto dalla stanchezza e dalla voglia di piangere, aveva ragione il mister, aveva ragione Campbell, doveva darci un taglio, ma come? I pensieri e le immagini gli si affollavano in loop nel cervello. D’improvviso tra le immagini fece capolino il visetto di Valerie. Non l’ho più richiamata, si disse Brian, avrà pensato che l’ho scaricata. Si era ripromesso di sentirla dopo aver vinto la semifinale di Champions League, ma ora il proposito vacillava, si ritrovò in preda all’impazienza di chiamarla. È probabile che il Barcellona ci mandi a casa, a che pro aspettare? Le inviò un vocale e la invitò a passare la serata da lui. Non lo disse esplicitamente a chiare lettere, ma non cercò di nascondere le sue intenzioni: ti voglio, Valerie, tu mi vuoi? 
Valerie gli rispose dopo due ore. Immagino che potrò aiutarti a dormire, con una faccina sogghignante a completare la frase. 
 
*** 
 
Quando lei arrivò, la sera, Brian non perde tempo, la chiuse in un abbraccio e la baciò mentre erano ancora sulla porta. L’aveva afferrata con tanta energia che Valerie, che era di dieci centimetri più piccola di lui, si sentì sollevare da terra, non toccava più con i piedi. “Wow, che accoglienza” disse, mentre lui la rimetteva giù dopo aver richiuso la porta alla cieca con un colpo di gomito. “Comunque ti ho portato una tisana contro l’insonnia. Credo ci siano camomilla, melissa, meliloto e…” 
Brian rispose secco: “Non me ne frega niente” e la baciò di nuovo. E mentre la baciava, le strinse forte un seno con la mano. 
“Mi stai facendo male” gli soffiò Valerie contro la guancia. 
“Scusami” la stretta diventò una carezza. La abbracciò di nuovo, e Valerie abbracciò lui, e così stretti si avviarono verso la camera da letto di Brian. 
E fu così che il campione olandese dello United scoprì che l’apparenza spesso inganna, e che anche una ragazza magrolina e dall’aria timida come Valerie, una ragazza freddolosa e affetta da una malattia con cui non si scherza, può essere la donna più appassionata del mondo. Fecero l’amore letteralmente come due che devono morire il giorno dopo, diedero letteralmente fondo a tutte le loro energie tanto fisiche che emotive, e alla fine Brian si sentì sprofondare in un abisso di indicibile stanchezza e di altrettanto indicibile pace. 
“Ora di sicuro dormirai profondamente” stava ridendo Valerie, sdraiata al suo fianco. Lui le posò la sua mano calda sull’inguine, facendola sobbalzare. 
“Ho chiesto al professor Robbins di spiegarmi meglio la tua malattia… e lui mi ha detto che si può tenere sotto controllo, con le dovute accortezze potrai continuare a fare molte delle cose che fai, e… l’artrite non pregiudica la possibilità di avere figli…” 
Valerie pensò che quella domanda dei figli era stata la seconda domanda che aveva posto a Robbins quando il professore le aveva chiesto se aveva domande. La prima era stata: diventerò un’invalida? 
“Potrai rimanere incinta se vorrai e…” 
“Non posso credere che tu abbia chiesto una cosa del genere al professore”.
“L’ho chiesto in generale, e poi… sarei interessato all’argomento…” 
“Eh?” 
“Dico, avere… bambini…” 
A quel punto Brian tacque: si era addormentato nel giro di un secondo. Non aveva nemmeno tolto la mano dalla pancia di Valerie, che girò la testa e lo vide così, a occhi chiusi, in pace, un piccolo sorriso all’angolo delle labbra, coi bei capelli dai riflessi dorati sparsi sul cuscino. 
 
*** 
 
La mattina dopo, alle sette, dormiva ancora come un bambino. Valerie si assicurò che respirasse, si alzò senza fare rumore, si rassettò brevemente in bagno, si rivestì e uscì. Un’ora più tardi, prima di entrare al lavoro, gli inviò un messaggio. 
 
Ascoltare il rumore della pioggia tranquillizza lo spirito e concilia il sonno: 
https://m.youtube.com/watch?v=mPZkdNFkNps&pp=ygUXcmFpbiBzb3VuZCBmb3Igc2xlZXBpbmc%3D 🤗
 
*** 
 
Nota di Ælfgifu. 
 
È risaputo che contro l’insonnia avere una persona amata da tenere abbracciata fa miracoli, ma anche ascoltare il rumore della pioggia è un rimedio efficace!
 

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Capitolo 12
*** Il primo round ***


12. Il primo round
 
Brian si svegliò riposato e allegro, con un’allegria indefinibile che gli formicolava il nelle braccia e nelle gambe. Aveva sperato di trovare Valerie, ma la ragazza era uscita senza far rumore prima che lui si svegliasse. In compenso sul telefono c’erano il suo messaggio e due chiamate perse dell’allenatore (ore 6.17 e ore 6.31, ma a che ora si svegliava Veldeke?) Richiamò subito. 
“Mister, sto bene, ho riposato e posso allenarmi” esordì senza neanche augurargli il buon giorno. “Buon per te se è così” gli rispose Veldeke. “A più tardi!” E chiuse la chiamata. 
Brian rimase a fissare per un momento il telefono, poi mandò un vocale a Valerie:
Speravo rimanessi, potevamo fare colazione insieme
Lei gli scrisse:
Io inizio a lavorare alle otto e tu dormivi così bene!
 
All’allenamento Dempsey e Hjalmarssen lo accolsero mostrandogli il palmo della mano destra aperta e le dita ben distaccate: -5 alla partita contro il Barcellona. 
 
*** 
 
A ora di pranzo Valerie gli telefonò. Gli raccontò che aveva avuto una mattinata un po’ movimentata perché avevano portato due gattini di poche settimane, abbandonati lungo una strada trafficata, disidratati, affamati ma fortunatamente non feriti, e lei aveva prestato loro i primi soccorsi, li aveva visitati e aveva dato loro da mangiare (erano troppo piccoli e non ancora svezzati, quindi aveva dovuto dare loro il latte con il biberon). Poi gli mandò la foto dei due micini, uno tutto bianco e l’altro arancione. Erano veramente minuscoli e fragilini, con due piccole code spelacchiate, ma avevano l’aria decisa e combattiva. Valerie li aveva ripresi mentre miagolavano, le piccole fauci spalancate in cui i dentini stavano appena accennando a spuntare. La foto recava la seguente didascalia: “Kat & Poes”. Ti ho pensato mentre li curavo!, aggiungeva Valerie. Ti piacciono i loro nomi?
Cruyfford si mise a ridere forte con la faccia puntata sul telefono, tanto che i suoi compagni si guardarono straniti: nel giro di una giornata era cambiato da così a così.   
 
Conosci la mia lingua?
 
No, ho cercato su Google Translate. Forse li adotterò io, quando saranno più grandicelli, e li porterò dai miei a Hambleton dove faranno una fantastica vita da mici di campagna
 
*** 
 
Quei giorni, ora, a distanza di tempo, Brian li ricorda avvolti nel silenzio. Ovviamente è tutto il contrario, è tutto avvenuto nel bel mezzo del rumore, anzi del clamore, dei flash e di luci accecanti: la partenza, il volo, l’atterraggio a El Prat, il trasferimento in albergo, le conferenze stampa, gli allenamenti, l’arrivo al Camp Nou prima della partita, il predicozzo motivazionale di Veldeke negli spogliatoi, l’ingresso in campo. Per lui tutti questi eventi sono senza suono, così come la partita. Eppure, rivedendo spezzoni dell’incontro, e a sentire i suoi compagni, lui durante quei novantasette minuti s’era letteralmente sgolato. 
Era stato chiaro fin dalle prime battute di gioco: la strategia che lo United aveva previsto (non prendere gol fuori casa e portarsi in vantaggio sul proprio terreno) era anche quella a cui avevano pensato i blaugrana, i quali comunque giocavano in casa la prima partita e se avessero vinto a Barcellona avrebbero dovuto solo amministrare saggiamente il risultato a Manchester, quindi avevano un notevole vantaggio psicologico. Ai Diavoli Rossi non era rimasto che giocarsi il tutto per tutto, attaccando e difendendosi con tutta la generosità di cui erano capaci. Era stata una partita violenta, non rabbiosa ma molto dura. Brian era stato mandato a gambe all’aria in più di un’occasione, due volte Dempsey aveva salvato la rete con un giocatore del Barcellona che letteralmente gli era franato addosso. Le gambe tese, le trattenute e le gomitate non si contarono: l’arbitro sanzionò quelle che si poterono vedere. Al novantatreesimo si era rischiato grosso: Dempsey non era riuscito a trattenere un pallone parato, sul quale si era avventato Tsubasa Ozora, pronto a infilarlo in rete nell’angolo opposto, ma Brian aveva intercettato il tiro al volo rispedendolo a centrocampo. Alla fine il risultato era stato di zero a zero, ed erano usciti dal campo chi con un occhio pesto, chi zoppicando, chi con un cerotto da qualche parte. Insomma, si erano picchiati per bene. 
Negli spogliatoi Veldeke li aveva abbracciati uno per uno: uscire dal campo del Barcellona con uno zero a zero aveva del miracoloso. Lui, Brian, con un sopracciglio spaccato, si era lasciato abbracciare, ma con la mente era già avanti di una settimana, si vedeva già all’Old Trafford.
Ritornato in albergo, quella sera, ancora pieno di adrenalina, aveva scritto a Valerie che non vedeva l’ora di essere di nuovo a casa, cioè a Manchester. Avrebbe voluto scriverle anche qualcos’altro, ma si era ricordato che la notte in cui Val era stata a casa sua, lui aveva incominciato a dirle qualcosa di artrite reumatoide e della possibilità di avere figli… cosa che una ragazza intelligente come Valerie sicuramente aveva interpretato per quello che era, perciò non c’era bisogno di aggiungere nulla. Poi era cominciato il diluvio di telefonate da casa, cioè dai Paesi Bassi. 
 
***
 
Nota di Ælfgifu. Kat e poes sono due sinonimi per “gatto” in olandese.
 

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Capitolo 13
*** Il secondo round ***


13. Il secondo round
 
Valerie incominciava a rendersi conto di che razza di girandola impazzita fosse la vita di un calciatore professionista, una vita che non lasciava respiro. Ora capiva perché quei ragazzi di solito si fidanzavano e si sposavano giovanissimi: era perché avevano bisogno di stabilità emotiva e non potevano sprecare tempo ed energie preziose andando in giro a caccia di avventure come i loro coetanei. Certo, scambiare le avventure con la stabilità a vent’anni poteva essere abbastanza frustrante, ma se la prospettiva era di massimizzare l’efficienza di una macchina approntate per guadagnare milioni, la cosa aveva un senso.
Si trovò a chiedersi come mai Brian non fosse già sposato con figli, carino com’era, con quella sicumera sfrontata che lo rendeva simpatico anziché far venire voglia di prenderlo a schiaffi. Chissà quante gli si erano proposte. Certo non doveva essere poi tanto bello fare la moglie del calciatore, era un po’ come essere un regolatore dell’umore a due gambe con compiti di rappresentanza. L’aspetto curioso era che come moglie di calciatore una  persona valeva l’altra, c’era completa fungibilità: bastava essere carine, non troppo rozze e con buona salute. Carine, non troppo rozze e con buona salute.
 
Ti va se passo da te lunedì sera? gli scrisse dopo la partita di Premier. 
Brian la accolse con un abbraccio e la tenne così a lungo. 
“Grazie” le disse in un orecchio. 
Val non ebbe neanche il tempo di rispondergli che lui già la stava baciando.  Fecero l’amore lì per terra, mezzi vestiti, come se non avessero neanche il tempo di fare quei quindici passi che li separavano dalla stanza da letto di Brian, come se il tempo di fare le cose più compostamente non ci fosse. Val sentiva tutta la forza e le emozioni represse del giovane passare dentro di lei, e gli rispose con tutta l’energia di cui era capace. Liberati, amore mio, pensava, stringendo quella schiena possente. Si sentiva un po’ una ladra a formulare quei pensieri, come se si stesse prendendo un diritto che non le spettava, ma scacciò quell’idea molesta. È tutto nella mia testa e nessuno ne saprà niente, si disse, abbandonandosi definitivamente alla stretta di Brian. Quando alla fine si staccarono, Valerie aveva gli occhi umidi. 
“Che cosa c’è” le domandò lui allarmato. 
“Solo troppe endorfine in circolo..."
“Davvero?” 
“Hm”. 
“Senti, dopodomani sera… se riesco a trovare un posto in tribuna, ci vieni alla partita? Così, per portarmi fortuna?”
Valerie scosse la testa, sorridendo.  
“Non mi sentirei a mio agio in mezzo ai vip.  Però guarderò la partita da casa e ti porterò fortuna lo stesso”. 
 
*** 
 
La sera della partita, i soliti Ian e Michael si erano autoinvitati, così mentre Jackie e Frances preparavano birre e patatine, Val ebbe la buona idea di mettere insieme uno sformato di verdure, così quei quattro sciagurati avrebbero potuto mangiare qualcosa di decente. Nel momento in cui tirava fuori dal forno la teglia con lo sformato ben cotto, con la sua bella crosta dorata, Valerie sentì il solito scricchiolio nelle ossa che annunciava una crisi di artrite. Fece appena in tempo a posare la teglia che il dolore arrivò tutto insieme, la fece piegare in due. Non appena si fu ripresa, tolse velocemente il grembiule e i guanti da forno, disse con un filo di voce a Jackie di far raffreddare lo sformato e poi suddividerlo in porzioni, e col sudore che le colava dalle tempie mormorò che non si sentiva tanto bene, che sarebbe andata a riposare, che non si preoccupassero per lei. Andò nella sua stanza portandosi dietro una bottiglia d’acqua, prese immediatamente i medicinali che la aiutavano durante le crisi, si stese sul letto tirandosi addosso la coperta. Intanto di là erano arrivati i due casinari: Val sentiva le risate, i discorsi, la voce acuta di Ian, quella di gola del suo compare, il rumore delle bottiglie stappate, quello delle forchette che strisciavano sui piatti (a quanto pare lo sformato era stato accolto molto favorevolmente). I due casinari si affacciarono addirittura da Valerie per salutarla e dirle “chiamaci qualunque cosa ti serva!”
Pur nell’indolenzimento che quasi ottenebrava la sua capacità di riflettere, Valerie si trovò a sogghignare.  Almeno quei quattro non avrebbero bevuto a stomaco vuoto. Alle nove, si collegò su Amazon Prime dal cellulare e rannicchiata sotto le coperte, ancora dolorante, si dispose a guardare la partita. 
All’Old Trafford non c’era un posto libero, dichiarò il commentatore in apertura di telecronaca. 
Se avesse voluto procurarmi un posto, forse non lo avrebbe neanche trovato. 
 
***
 
Lo United andò sotto di un gol al settimo minuto, e per le strade della città si propagò una specie di ruggito - tutta la delusione e la frustrazione dei tifosi di casa. I ragazzi impiegarono qualche minuto per riscuotersi dallo stupore, ma di fronte a un pallone che avrebbe potuto essere il secondo gol del Barcellona si risvegliarono. Da lì la partita cambiò completamente: gli ospiti si difendevano, provando ad attaccare occasionalmente con lanci lunghi, mentre i biancorossi pressavano instancabilmente. Il Mare del Nord che batte contro le dighe, pensava Valerie. Le telecamere inquadravano la panchina dello United, dove un Veldeke scarmigliato, tarantolato, faceva avanti e indietro urlando istruzioni ai suoi ragazzi. Al quarantesimo minuto Dempsey si fece male a una mano, poté giocare solo fino alla fine del primo tempo, ma alla ripresa entrò Hjalmarssen. Quando mai capitava di dover sostituire il primo portiere? Brutto segno. L’intervallo trascorse sotto una cappa di malumore, nonostante i cronisti inglesi che tentavano di riempire quel vuoto pesante con statistiche e aneddoti. Quando le squadre rientrarono in campo e si vide che nella porta dello United stava il secondo portiere, nessun tifoso poté reprimere un brutto pensiero: le cose si mettevano male. Ma Hjalmarssen appariva tranquillo, le telecamere lo mostrarono mentre scambiava sorridendo qualche parola con Green. Al fischio dell’arbitro, i padroni di casa ripartirono come indemoniati, ma Whitelow si fece rubar palla e Gonzalez lanciò Rivaul che si presentò pericolosamente sotto la porta avversaria e sparò una bordata che per fortuna si rivelò troppo centrale e fu afferrata saldamente da Hjalmarssen, il quale vacillò nel prenderla. E mentre tutto si affollavano nell’area dello United perché ci si aspettava un rilancio corto, il secondo portiere invece rilanciò lungo, ben oltre il centrocampo. L’azione era stata inattesa sia per i compagni che per gli avversari, ma quando Brian vide il pallone filare a gran velocità sopra la sua testa, gli corse dietro, confidando nel fatto che la sorpresa potesse lasciare indietro gli avversari di pochi preziosi secondi. Cruyfford agganciò il pallone sui tre quarti, dribblò due difensori  avversari, calcolò la distanza, andava bene, passò il pallone sul piede sinistro e tirò un rasoterra diagonale che passò in mezzo alle gambe di tre giocatori e sorprese Rosales. Uno a uno. L’Old Trafford esplose.  
 
*** 
 
Alla fine andò come Brian aveva “sognato”. Rimasero sull’uno a uno fino allo scadere della partita, e nemmeno durante i due tempi supplementari si poté sbloccare il risultato. Alle undici e mezza della sera, tutti pieni di crampi e grondanti sudore, si andava ai rigori. 
Veldeke annunciò la cinquina dei battitori con una freddezza glaciale. Brian era l’ultimo.
"Qualcuno si rifiuta?” domandò l’allenatore, con una minacciosa occhiata circolare. I ragazzi si guardarono, intimiditi, impauriti dalla situazione, ma nessuno osò dire “io non batto”. 
“Bene” commentò Veldeke. Brian si trovò improvvisamente nello stesso stato che aveva sperimentato durante la partita di andata: vedeva le cose come se fosse uscito fuori da sé stesso. Gettò un’occhiata alla panchina avversaria e vide che anche gli spagnoli erano stanchi e preoccupati, perfino più di loro: dopotutto avevano dovuto sostenere la lotteria dei tiri dagli undici metri anche nel turno precedente. Hjalmarssen si tormentava i guanti e saltellava da un piede all’altro. Nelle settimane precedenti avevano passato ore insieme a osservare lo stile di tiro degli avversari, era stato Brian a insistere coi portieri perché facessero quel lavoro supplementare: ora sarebbe servito? 
Toccò al Barcellona aprire la serie dei tiri. Il capitano blaugrana sul dischetto, fischio, tiro, gol. 
Poi fu il turno di Green. Pallone sul dischetto, tiro, gol. 
Mateo García, pallone sul dischetto, tiro, gol. 
Il nervosismo saliva come una cappa sullo stadio, la tensione si poteva tagliare con un coltello. Nessuno più parlava o cantava. Nichols, pallone sul dischetto, tiro. Alto. Un unanime mugugno di dolore si alzò dalle gradinate. Le telecamere zoomarono su Veldeke, poi sulla tribuna: il presidente guardava verso il campo, pallido, senza parole. 
Rivaul sul dischetto, fischio, tiro, gol. Il brasiliano aveva mirato all’estremo angolo sinistro con tale precisione che Hjalmarssen non ci sarebbe arrivato neanche stirandosi per il doppio del suo metro e novantotto. Ora toccava a De Vries. Era la prima volta che il giovane centrale dello United, vent’anni, batteva un tiro in una partita così importante. Mannaggia, pensò Brian, asciugandosi il sudore dagli occhi. Ma il piccolo de Vries si comportò benissimo.
 Francisco Guzmán per il Barcellona. Palo. I tifosi non ebbero neanche la forza di esultare. Erano pari, si riapriva tutto. 
Holgersson per lo United, alto, ad effetto, sorvolò Rosales che era saltato e poi scese avvitandosi.
Era il turno di Ozora per il Barcellona. Il giapponese si dispose davanti al pallone, aspettò il fischio dell’arbitro, tirò. Era uno dei suoi famosi tiri a foglia morta. Brian chiuse gli occhi per un istante, solo per riaprirli su Niels Hjalmarssen che saltava e, stendendosi in tutta la sua notevole mole, riusciva a intercettare la palla ancora alta con tre dita della mano destra e mandava il pallone oltre la traversa. Hjalmarssen ricadde in ginocchio, la testa voltata all’indietro, contemplando incredulo la palla rotolata dietro la porta. 
Ora toccava a lui, Brian. Incrociò Tsubasa Ozora che si ritirava dagli undici metri, muto. Si scambiarono un’occhiata. Milioni di telespettatori videro Cruyfford dirigersi sul dischetto, sistemare il pallone sul punto esatto, fare tre passi indietro. 
 
Nulla due volte accade 
Né accadrà, sussurrò Valerie sotto la coperta,
Per tal ragione 
Nasciamo senza esperienza, 
moriamo senza assuefazione.

Ieri, quando il tuo nome 
Qualcuno ha pronunciato, 
mi è parso che una rosa 
sbocciasse sul selciato… 

 
Fischio dell’arbitro… Cruyfford si porta sul pallone. Tira di destro, il suo piede migliore… e gol, gol! Rosales e il pallone sono andati in due direzioni opposte! Quattro a tre per lo United! Lo United si qualifica per la finale di Champions League! 
 
Valerie sentì una fitta percorrerle tutto il corpo e pensò che non ce l’avrebbe fatta a sopportare il dolore. Poi vide sullo schermo il giovane olandese che scompariva sotto gli abbracci dei suoi compagni fuori di sé dalla gioia. Hans van Veldeke, i capelli sconvolti sulla fronte, la giacca stazzonata, le braccia abbandonate lungo i fianchi, assisteva alla scena da bordocampo con gli occhi sgranati.
 
Nulla due volte accade, 
né accadrà 

 
*** 
 
Nota di Ælfgifu. “Nulla due volte accade” è una celebre poesia di Wisława Szymborska.
 

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Capitolo 14
*** Lettura conclusa ***


14. Lettura conclusa
 
Il giorno dopo Valerie non riuscì ad andare al lavoro. Non riuscì neanche ad andare a casa di Cruyfford che avrebbe voluto festeggiare con lei la vittoria del giorno prima. 
“Quando sto così a volte devo stare a riposo un giorno o due” si scusò. 
“Ti stai scusando, Val Douglas? Da quando uno si deve scusare perché è malato?” 
Da quando sei una ragazza che ha sofferto per anni e per anni si è sentita dire che era una lagna, una che voleva attirare l’attenzione, una che si rovinava la salute con abitudini poco sane, e che molti medici deridevano, accusandola di soffrire di dolori immaginari. Qualcuno mi aveva anche consigliato di rivolgermi a uno psichiatra perché secondo lui soffrivo di un disturbo di personalità. 
Ma ovviamente tutte queste cose Valerie le pensò, o meglio le rievocò, non le disse. 
Brian passò la serata a casa. Non accese TV né laptop, solo verso le dieci e mezzo controllò le notizie di calcio sullo smartphone e vide che nel ritorno dell’altra semifinale di Champions League il Bayern Monaco aveva sconfitto il Milan. Aveva sperato fino in fondo di evitare il Bayern, ma a quanto pareva, alla fine della fiera, volente o nolente, era con Schneider che si sarebbe dovuto scontrare. 
La chat dei ragazzi si riempì di commenti alla notizia di chi sarebbe stato il loro prossimo avversario, ma Brian non contribuì alla conversazione. Gli sembrava che questo scontro finale si proiettasse contro uno sfondo più alto, uno sfondo che qualcuno più ispirato di lui avrebbe anche potuto chiamare destino. Era destino che la sua statura di atleta si sarebbe dovuta misurare sulla misura di Karl-Heinz Schneider? E da Karl-Heinz al Ritratto estivo di ragazzo svedese non fu che un passo. Il libretto era sempre posato sulla scrivania, aveva continuato a leggerne qualche pagina prima di dormire, ma gli mancava un racconto.  Aprì il libretto a pagina 58. Si intitolava Il dono. Era una riscrittura in chiave contemporanea del miracolo del cieco dalla nascita narrato nel Vangelo secondo Giovanni, ma con un finale molto diverso dal racconto evangelico. Brian lesse fino in fondo, poi richiuse il libro con un colpo secco. Ecco che cosa interessava tanto a Valerie. Ecco il suo legame con Julia Gutenbrunner. Lettura conclusa.  
 
***
 
Il giovedì, poco prima della chiusura, Brian si presentò al centro di recupero e chiese di parlare con la dottoressa Douglas. Valerie era seduta a una piccola scrivania, in un ufficetto dall’aria quanto mai provvisoria, e stava compilando alcuni moduli. Quando il suo giovane collaboratore bussò alla porta, la giovane donna alzò la testa incuriosita e si trovò davanti Brian in t-shirt, jeans e sneaker nere, le mani in tasca e il suo solito sorriso luminoso e sfrontato stampato sulla faccia. Era appena uscito dall’allenamento e anziché tornare a casa, aveva girato l’auto nella direzione opposta. 
“Sono venuto a prenderti”.  
“Perché sei venuto a prendermi?” 
“Per assicurarmi che tu stia bene”. 
“Sto bene, la crisi è passata, dopo un giorno o due di solito passa, te l’ho detto”. 
“Mi fai vedere i due gatti che avete salvato?” 
Kat e Poes erano cresciuti nel giro di poco più di una settimana: avevano recuperato peso, stavano mettendo i dentini, il loro pelo era diventato più soffice, folto e luminoso. Kat era un micino timido e tranquillo, mentre il suo fratellino arancione era più estroverso e chiassoso. 
“Vedi? Prendersi cura fa la differenza. Spesso fa la differenza tra la vita e la morte” gli disse Valerie, mentre grattava Poes con un dito dietro la collottola e il gattino si esibiva in buffe fusa.
“Mi somiglia” rise Brian. “Fa tanto lo spaccone, ma poi ha bisogno di tenerezza”. Guardò la ragazza di sottecchi. “Val?” 
“Sì?” 
“Ti riaccompagno a casa o vuoi venire da me?”
“Quantomeno avrei bisogno di fare una doccia e di cambiarmi…” 
“Allora ti porto a casa, tu ti prepari nel giro di un quarto d’ora, non di più, e poi usciamo, andiamo dove vuoi”. 
 
***
 
Finirono col fare una lunga passeggiata in riva al fiume, mentre faceva buio. L’aria si era fatta più calda, era finalmente piena primavera. E mentre passeggiavano, Brian disse: 
“Ho finito il tuo libro”. 
“Non è mio, è di Julia Gutenbrunner!”
“Non cercare il pelo nell’uovo, hai capito cosa intendo…”
“OK. Quindi posso riaverlo?” 
Lui si fermò e socchiuse gli occhi sorridendo. 
“No”. 
“Come no?” protestò Valerie. “Era un prestito, Brian Cruyfford, non cercare di fare il furbo!” 
“Sarà anche stato un prestito, ma lo considero un regalo. Perciò me lo tengo”. 
Valerie lo fissò contrariata.
“Ma siccome ci tenevi, te ne ho ricomprato un’altra copia”. E a quel punto tirò fuori dalla tasca del giubbotto una copia di Ritratto estivo, e gliela porse. Sulla prima pagina aveva scarabocchiato il l’indirizzo di casa di Manchester e il suo numero di telefono e, poco più in basso, perfino l’indirizzo di casa di Amsterdam. 
“Ora sai come trovarmi sempre”. 
Valerie prese il libretto senza dire niente e lo ripose nella sua borsa. Si guardarono negli occhi. 
“E non aspettarti che a questo punto io pronunci frasi smielate” disse Brian con aria strafottente, infilando un paio di occhiali dalle lenti scure. 
“Frasi smielate come?”
"Roba come ‘sono innamorato di te’, ‘voglio stare con te’ eccetera eccetera”. 
Valerie scoppiò a ridere. 
“Sei buffo, Brian Cruyfford! Ma perché metti quegli occhiali se è già buio?” 
“Per non farmi riconoscere”. 
Ripresero a camminare. Valerie sorrideva sotto i baffi. 
“E così” disse a un certo momento “non sei il tipo che usa frasi smielate…” 
"Esatto. Io non dirò mai ‘Valerie, ti amo’!” 
Per tutta risposta, Valerie gli gettò le braccia al collo e lo baciò forte su una guancia. 
“Io invece spesso preferisco non parlare, ma agire!”
Gli diede un altro bacio sul naso. Brian la strinse con un braccio. E lei gli diede un altro bacio a tradimento, tra il mento e l’orecchio. Rimasero così come due stupidi, l’una incastrata tra le braccia dell’altro. Brian si sentiva le gambe molli e la testa nelle nuvole, Valerie aveva voglia di ridere forte senza smettere più. 
 
***
 
Due settimane dopo la squadra partì alla volta di Madrid, dove si sarebbe tenuta la finale di Champions League. I ragazzi si presero un po’ di tempo per fare un giro della città e costrinsero gli spagnoli della squadra a far loro da guida. Il martedì pomeriggio Veldeke, Brian e Dempsey andarono ad assistere alla conferenza stampa dei loro avversari; si sedettero proprio in fondo, cercando di passare inosservati, e ai giornalisti che li intercettarono per porre loro qualche domanda, risposero declinando cortesemente, perché quella era la conferenza dei colleghi del Bayern, non la loro. 
Erano arrivati da neanche cinque minuti, quando entrarono il vicepresidente del Bayern, il coach Schneider e Stefan Levin e sedettero tutti e tre compostamente, tra i flash e le esclamazioni dei presenti. 
“Buon pomeriggio, signore e signori, possiamo cominciare con le domande…” 
“Dov’è Schneider?” sussurrò Brian a Dempsey. “Di solito è sempre lui che parla coi giornalisti prima di una partita importante”. 
“Boh!” rispose il portiere alzando le spalle. 
“Speriamo che non si sia infortunato!” 
“Ma speriamo invece che SI SIA infortunato!” lo interruppe Veldeke. “Vuoi mettere il Bayern con Schneider e il Bayern senza Schneider?”
I giornalisti intanto ponevano le domande più varie, da come avevano trovato la città, a come sembrava loro la temperatura, cosa temevano, cosa auspicavano. Fu un cronista del País a prendere coraggio e a chiedere la cosa che incuriosiva tutti: “Ma dov’è capitan Schneider?” 
Occorse un minuto perché il fronte bavarese si ricomponesse. 
“Karl-Heinz al momento non è qui” disse il vicepresidente. 
“È stato trattenuto a Monaco, ma non disperiamo di averlo con noi tra due giorni” disse Frank Schneider. 
“Nel frattempo, da vicecapitano della squadra, svolgo io le sue funzioni” spiegò Levin nel suo bell’inglese cantilenante e inalberando il suo consueto sorriso metà angelico e metà diabolico. 
A quel punto Brian si alzò di scatto e lasciò la sala senza spiegazioni, mentre Veldeke e Dempsey lo guardavano andar via sbalorditi. 
 
*** 
 
Nota di Ælfgifu. Che furbacchione Cruyfford, dice che non dice quello che dice! E che sarà successo a Karl?
 

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Capitolo 15
*** Cantami, o dea, di Brian Cruyfford l’ira funesta ***


15. Cantami, o dea, di Brian Cruyfford l’ira funesta

 

Ritornato in albergo, Brian prese a pugni e calci anche i mobili e i muri della stanza che condivideva con Hjalmarssen. Il secondo portiere lo guardava senza parole, mentre tirava calci al muro in mezzo a un profluvio di parolacce in nederlandese. 

“Ma che hai, che è successo?” 

“Quello str***o! Quel figlio di puttana!” ansimava Brian, che a un certo punto stava perdendo la sua battaglia contro il muro.

“Ma chi?” 

“Schneider! Karl! Non è qui e non sanno se potrà esserci dopodomani”.

“Scusa, eh, ma non è meglio per noi se Schneider non ci sarà?” 

“Quello non è venuto perché ci sottovaluta e preferisce starsene a Monaco a guardare le farfalle!” si infervorò Brian.

“Brian, tu hai bisogno di una camomilla… ti pare che Schneider ci sottovaluti? Può essere che sia infortunato!” 

L’educata ipotesi di Niels fece infuriare Brian ancora di più. 

“E lo fa apposta a infortunarsi prima della finale contro di noi? ‘Sto cretino!” 

Niels, calmo e sereno, intanto digitava sul suo smartphone. Annunciò allegro: “Sul web non c’è nulla su un ipotetico infortunio di KHS”. 

“Non avranno voluto farlo sapere !” esclamò Brian.

"Vabbè” rispose il danese “non capisco perché ti arrabbi. Se manca Schneider, meglio per noi!”

“No!” 

“Perché no?” 

“Perché IO devo battere Schneider”. 

“Ah, perché la partita è Brian Cruyfford vs Karl-Heinz Schneider? Non è Manchester United vs Bayern Monaco?”

L’osservazione pacata e giudiziosa di Hjalmarssen fece uscire Brian dai gangheri. 

“Imbecille!” gli urlò, prima di uscire sbattendo la porta. Rimase d’umor nero per tutta la giornata, a pranzo e cena non parlò con nessuno, durante l’allenamento si accaniva sui palloni come se li volesse distruggere. Quella notte non riuscì a dormire. Il giorno dopo, vigilia della partita, rischiò di fare a botte con de Vries, a cui aveva risposto male. Nel frattempo, nessuna notizia era arrivata su Schneider. Nello staff dello United pregavano tutti che il capitano del Bayern si fosse preso la febbre quartana, la peste o il vaiolo, anzi meglio tutt’e tre insieme, ma Brian, quando sentiva i suoi colleghi e i tecnici fregarsi le mani dicendo “speriamo che Schneider non ce la faccia”, avrebbe voluto saltar loro al collo. Durante la conferenza stampa, quando i giornalisti chiesero a Veldeke cosa pensava di quell’inattesa defezione di Schneider, e Veldeke ridendo rispose che ci avrebbe volentieri messo una firma, Brian alzò gli occhi al cielo. Possibile che fossero tutti così stupidi?

Alla fine si decise e scrisse un WhatsApp a Julia Gutenbrunner: 

Di’ al tuo ragazzo che se non si presenta domani a Madrid è un vigliacco! 

Attese con ansia una risposta qualunque, che però non arrivò. Julia doveva anche avere disattivato la spunta blu della visualizzazione. Ecco, pensò Brian, me la sta facendo ancora pagare per quei due stupidì messaggi di sei mesi fa. Che st***a, anche lei! Due begli st****i, sono bene accoppiati, non c’è che dire! 

 

*** 

 

Il giorno della partita Brian sembrava essersi relativamente calmato. 

Se quel vigliacco non gioca, senz’altro meglio per noi, si disse, ma rimane sempre un vigliacco e la prossima volta che lo incontro gli spacco la faccia. 

Valerie, quando al telefono Brian aveva fatto anche a lei quelle sparate assurde su Schneider, non lo aveva né contraddetto né aizzato: sapeva che in realtà dietro quell’aggressività faceva capolino tutto il rispetto e l’ammirazione che Brian nutriva per il tedesco, e il suo dispiacere per non potersi battere alla pari con lui. 

“Con un po’ di rabbia addosso giocherai meglio” lo aveva confortato. E con tale spirito il giovane olandese era andato allo stadio. 

Quale dunque non fu la sua meraviglia quando le due squadre emersero sul terreno di gioco l’una accanto all’altra e lui poté scorgere la testa bionda di Schneider che apriva la fila dei bavaresi. 

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Capitolo 16
*** Rewind: intanto, a Monaco ***


16. Rewind: intanto, a Monaco
 
Viktoria Schneider era nata alle 17.15 di due giorni prima: una bella bambina sana e forte di due chili e settecentocinquanta grammi, già piena di capelli biondi e ricci, con occhi di un vivido azzurro e polmoni davvero poderosi. Quando l’avevano messa in braccio al padre, c’era mancato poco che lui, il Kaiser, il campione, il grande calciatore, non svenisse, per l’emozione o per la paura o per tutt’e due insieme. 
Sembrava che tutto fosse a posto e quella sera Karl era tornato a casa e aveva preparato la valigia per raggiungere la squadra in Spagna l’indomani, quando alle otto del mattino - stava per uscire di casa - aveva ricevuto una chiamata dalla dottoressa Seuss: Julia aveva avuto un’emorragia. 
“Co-come un’emorragia?”
La dottoressa gli aveva spiegato che un’emorragia post partum poteva accadere, per una serie di ragioni, e che… 
“È grave?” aveva chiesto lui, afono dal terrore. 
“Non le nascondo che la situazione è seria… finché non riusciamo a scoprire la causa, non sapremo come intervenire”. 
Karl aveva subito chiamato suo padre: “Non posso partire, Julia sta male”. 
“Come sta male?” 
“Un’emorragia, dice la dottoressa Seuss”.   
Quando era arrivato in ospedale, trafelato, con aveva trovato Uta, i genitori di Julia, sua madre, Marie e Alexander Schnell, muti e sbigottiti. Avevano aspettato fino a dopo mezzogiorno per avere qualche aggiornamento, erano le 15.17 quando la dottoressa Seuss era andata loro incontro con un sorriso incoraggiante: la causa dell’emorragia era stata trovata e le perdite ematiche erano state fermate, ma:
“C’è bisogno di sangue, c’è urgente bisogno di sangue… qualcuno della famiglia può donare?” 
A quel punto avevano fatto un passo in avanti contemporaneamente Uta e Karl-Heinz. 
“Abbiamo lo stesso gruppo, sono sua sorella” aveva detto Uta. 
“Anch’io posso” aveva detto Karl. “Sono zero positivo. Se avete bisogno di fare verifiche possiamo chiedere subito la mia documentazione clinica allo staff medico del Bayern, così non si perde tempo”. 
Bloccata l’emorragia, con le trasfusioni Julia era migliorata rapidamente.  I familiari erano stati cortesemente invitati a tornarsene a casa, e così lui aveva fatto, non prima di essere passato a salutare la sua piccolina che gli rivolse uno sguardo gioioso con i suoi stessi occhi, uno sguardo allegro e sereno che gli morse il cuore. A casa non era riuscito a riposare neanche un minuto, era rimasto seduto in poltrona, con gli occhi sbarrati, a fissare il buio per tutta la notte. 
Alle sette del mattino il primario di ginecologia e ostetricia s’era presentato tutto allegro di fronte a sei persone dagli occhi disfatti dalla mancanza di sonno e dalla paura, e aveva annunciato  che la paziente era fuori pericolo, i suoi valori si erano stabilizzati, ora riposava tranquilla. Sarebbe dovuta rimanere in ospedale per alcuni giorni, sotto osservazione, prima di poter tornare a casa. (Il dottore era stato lì lì per chiedere a Karl di fargli un autografo, ma vedendolo in quello stato aveva lasciato perdere).
Karl aveva preso il telefono e aveva parlato con qualcuno, poi aveva chiuso la comunicazione. A quel punto Marie aveva assistito a qualcosa di incredibile: suo fratello si era avvicinato ad Alexander Schnell, gli aveva posato una mano sulla spalla, lo aveva condotto nel vano di una finestra e lì gli aveva detto qualcosa. Marie non aveva sentito cosa si erano detti, aveva solo visto il signor Schnell annuire con forza più volte. Poi Karl gli aveva stretto la mano, lo aveva lasciato vicino a quella finestra da cui entrava la prima luce di un mattino che si annunciava splendente, era andato da Marie, le aveva sussurrato: “Vado a Madrid” ed era scappato via. 
Più tardi avevano saputo che era partito con un volo privato, e nelle quattro ore di volo fino a Madrid i medici a bordo lo avevano abbondantemente rifocillato e costantemente parametrato: quella giornata tremenda, senza pace e senza sonno, e quei 250 ml di sangue in meno, avrebbero potuto giocargli qualche brutto scherzo. 
A mezzogiorno, Marie aveva ricevuto un messaggio: 
Sono arrivato. Dammi notizie. 
Lei aveva risposto immediatamente: Julia è stabile e sta dormendo. Ho visto la piccola, dormiva anche lei. 
Il secondo messaggio era arrivato alle cinque: Dammi notizie. E lei gli aveva dato le ultime notizie.  
L’ultima volta lo aveva sentito alle 19: Stiamo andando allo stadio, papà vi saluta. Come va? 
Marie gli aveva scritto: chiama, Julia è sveglia. 
Il telefono era squillato nel giro di mezzo secondo. “Ciao Karl” lo aveva salutato Marie, senza dargli neanche il tempo di parlare “ti passo Julia” e aveva messo il telefono in viva voce, posandolo tra le mani di Julia. Le prime parole di Karl-Heinz erano state: “Tutto bene?” 
Julia si era sforzata di ridere. 
“Sì, mi sento debole ma ora è tutto a posto, devo riposare. Alla piccola hanno pensato le ostetriche, io non ce la faccio ancora, ma secondo la dottoressa Seuss tra qualche giorno dovrei aver ripreso abbastanza le forze… com’è il tempo in Spagna?”
“Ventun gradi, un po’ nuvoloso”. 
“Rischia di piovere?” 
“No, direi di no…” 
“OK, allora dovrebbe andare bene. Salutami Frank e Stefan e Genzo e i ragazzi e… e anche Cruyfford. Mi ha mandato un messaggio!” 
“Cruyfford? E che dice?” 
“Mi ha incaricato di dirti che se non scendi in campo a Madrid sei un vigliacco” aveva ridacchiato Julia. 
“Quel…” aveva imprecato Karl-Heinz “io lo…!” 
“E dai. È ansioso di confrontarsi con te…”
“Magari possiamo seguire la partita in streaming” era intervenuta Marie. 
“Non farla stancare” le aveva raccomandato lui. “Ehi, guarda che ti sento” aveva protestato Julia. 
“Appunto. Non devi stancarti, devi riposare”. 
Un quarto d’ora dopo era arrivato il signor Schnell con Robby. 
“Siamo andati a vedere la sorellina. Somiglia a Marie!” aveva esordito Robby entrando di furia nella stanzetta. E subito aveva cercato di arrampicarsi sul letto per tuffarsi tra le braccia della mamma, ma il padre lo aveva trattenuto, poggiandogli le mani sulle spalle e consentendogli di avvicinarsi solo lentamente e cautamente. 
“La mamma non si è sentita bene” aveva detto a Robby con una voce sorprendentemente dolce e persuasiva “abbracciala piano!” 
E così Robby aveva fatto, stringendosi a Julia che a sua volta se lo era avvicinato per quanto poteva. 
“Ma poi ritorni forte?” aveva domandato il bambino.
“Sì, Robert, tra qualche giorno starò di nuovo bene.  Non vorresti andare a prendere un’aranciata con Marie?” 
Marie e il piccolo erano scesi al bar della clinica e avevano ordinato due aranciate. Mentre bevevano, Marie ne aveva approfittato per chiamare Levin. 
“Ti faccio vedere come sta tuo fratello” le aveva detto lui, inviandole un’immagine di Karl che guardava fisso davanti a sé, con aria assente. “Non capisco se sia preoccupazione quella che gli si legge in faccia o se sta semplicemente raccogliendo le forze per la battaglia”. 
Nel frattempo, nella stanzetta al primo piano, Alexander Schnell si era seduto nella piccola sedia accanto al letto. 
“Robby è stato tranquillo?” 
“È stato con Uta e con tua madre e Mick lo ha distratto parecchio con la playstation. È felicissimo per l’arrivo della sorellina”. 
“Hm, hm”. Julia aveva fatto un sorriso affaticato. “È bello che non sia geloso”. 
“Schneider ti ha dato il sangue, te l’ha detto la dottoressa Seuss?” 
“No, non mi ha detto niente nessuno”. 
“Sì, avevi perduto molto sangue, loro non avevano abbastanza riserve o forse avevano bisogno di fare in fretta, e così…” 
“Quindi ora ho letteralmente il suo sangue in circolo”. 
“Già”. 
“Ma che cosa romantica, non trovi?” 
“È stato molto bello da parte sua”.
“Ma potrà giocare? Non si sarà indebolito?”
“Chissà, stiamo a vedere. Avrei una mezza idea di mandare Robby a casa con la piccola Schneider e di restare io qui con te. Pensavo di guardare la partita in streaming, ma forse non è il caso di esporti a emozioni violente…”
“E Lorenz e tua madre?” 
“Con i vicini, una volta tanto”.  
“Mi dispiace” si era schermita Julia. 
“Hai sempre avuto ragione tu” era stato il commento di  Alex. 
 
Alle ore 21 precise, sull’erba dello stadio Santiago Bernabéu, alla presenza di oltre 80.000 spettatori, il Bayern Monaco e il Manchester United avevano fatto il loro ingresso in campo. Quando era stato chiaro a tutti che quello che apriva la fila dei bavaresi era proprio Schneider, tutto lo stadio aveva trattenuto il respiro. “Karl-Heinz Schneider è riuscito a raggiungere la squadra”, “Qualunque impedimento il capitano del Bayern abbia avuto, ora sembra rientrato”, le voci di cronisti e corrispondenti s’incrociavano in molte lingue. 
Mentre uscivano sul campo, Brian Cruyfford apostrofò il capitano bavarese: “Si può sapere dov’eri?” 
Karl rispose con una smorfia. 
“Sono stato trattenuto, Cruyfford. Era importante”. 
“Più importante di questo?” 
Schneider annuì, stavolta con un sorriso aperto, e passò oltre. 
“Che mi prenda…” mormorò Brian. Mentre ancora imprecava fra sé, qualcuno gli bussò sulla spalla. Si girò di scatto e si trovò di fronte il viso algido ed enigmatico di Levin. Lo svedese si schiarì la voce:
“Due giorni fa è nata sua figlia, subito dopo Julia è stata male, e lui è rimasto con lei finché non si è ripresa. E poi è corso qui, è arrivato poche ore fa. Compris?” 
Due secondi dopo, da bordocampo tutti poterono vedere Brian Cruyfford, le mani sui fianchi, che rideva da solo come un matto, a gola spiegata, ma quando Dempsey gli passò accanto si stava strofinando gli occhi con una mano. Stava piangendo. 
“Ehilà, Brian, che succede?” gli disse Dempsey, stringendogli un braccio con fare incoraggiante.  
Brian gli sorrise tra le lacrime. 
“Tutto bene. Mi è solo entrato qualcosa in un occhio!”
 
*** 
 
“Gentili telespettatori, signore e signori, prepariamoci ad assistere a una grande partita”. 
 
***
 
[Terminato di scrivere il 4 settembre 2023]
 
*** 
 
Note di Ælfgifu. La nascita di una piccola Schneider con la madre che rischia la vita mi è stata ispirata da un capitolo del bellissimo “La nuova stagione” di Vallentyne (grazie Vallentyne, avevo bisogno di una scusa per far soffrire tremendamente Karl e per farlo arrivare a Madrid all’ultimo momento!) 
Bella la famiglia allargata di Julia e Schneider, eh? E Levin è sempre un grande, non c’è che dire 😍 Nota bene, Brian alla fine ride/piange di contentezza, non è diventato pazzo! 😂😂😂. Grazie a Francyzago77, Gaijin, MilanistaEly, Sheila259 e Vallentyne, che hanno assiduamente commentato la storia, e grazie anche ai molti lettori silenziosi: la mia sfida era quella di far interessare i lettori del fandom a un personaggio molto trascurato di Captain Tsubasa, che il maestro Takahashi ha un po’ abbandonato per strada dopo il brillante esordio in “L’avversario più forte: Holland Youth”… io l’ho sempre trovato veramente affascinante e mi ha dato modo di lavorare bene sul character building. Brian Cruyfford uno di noi 😍
 

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