Il fantasma del 2 piano

di ClodiaSpirit_
(/viewuser.php?uid=223740)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Benvenuto Simone ***
Capitolo 2: *** In love with a ghost ***



Capitolo 1
*** Benvenuto Simone ***


I fantasmi di ricordi e di addii vi si mescolano con l'inizio di centinaia di viaggi per destinazioni lontane, senza ritorno. (Zafón, Marina)




 

 

 

Quando decisi di trasferirmi in una nuova casa, per allontanarmi dal temuto tetto condiviso con un coinquilino - da già tre -, ero già sulla soglia dei trent'anni.
Lavoravo già, ma non ero mai riuscito a comprare ancora una casa per me, neanche un piccolo e decente appartamento a poche miglia dal centro di Roma. Era impensabile trovarlo anche solo perché da un po' di tempo ricorrevo un quell'impresa.
Dividevo le spese, le bollette, gli orari in cui il mio giovane coinquilino come un personaggio venuti fuori da qualche vita alternativa e differente dalla mia, ritornava quattro sere su sette tardi a casa.
Non ho mai saputo secontinuasse a studiare o meno, ma io avevo già un lavoro da ben due anni.
Fare il professore di matematica: era in questo che avevo sempre eccelso, questo che mi era piaciuto scegliere, che avevo voluto scegliermi come professione fin dal liceo.
Trovavo nei numeri le probabilità più esatte a tutto il resto: la vita, semplicemente, mi era più prevedibile.
Quando finalmente potei di comprare un appartamento e potevo permettermi il lusso di avere i miei orari, la mia autonomia, di invitare chiunque volessi, c'era stato solo un piccolo problema: parte dei soldi, che avevo categoricamente rifiutato perché i miei mi sistemassero, avevo dovuto metterli da parte - prima che iniziasse a lavorare e escludendo di spendere quelli della mia laurea - per almeno quattro anni. La speranza che avevo coltivato, si era in qualche modo esaudita gli ultimi mesi della mia convivenza forzata, controllando i vari siti infiniti di offerte e svendite di monolocali in affitto e appartamenti che spulciavo con un'ossessione maniacale.
La speranza arrivò in un giorno pari di Novembre.
Lo ricordo bene, il cielo era grigio e non pioveva e il mio presunto coinquilino si era chiuso in stanza per dormire. Mi interessò uno degli ultimi annunci, si trattava di un appartamento all'interno di un vecchio palazzo semi-ristrutturato. Avevo scorso almeno su una quindicina di foto (alcune si ripetevano) da cui avevo tratto l'impressione che non fosse una truffa. Per sicurezza, quel 18 del mese avevo salvato il numero in rubrica. Chiamai quella sera stessa per informarmi meglio. L'interno era al secondo piano, la zona del condominio era periferica - ma non importava perché guidavo e prendevo i mezzi pubblici solo per spostarmi lo stretto necessario in centro e dintorni - e con parcheggio incluso data la scarsa presenza di vicini. Quella speranza formato mura ridipinte e finestre rinforzate, costava ben più della metà di tutti i miei risparmi, ma la verità è che non vedevo l'ora di imballare la mia roba, salutare il mio tremendo coinquilino e trasferirmici all'istante.
Vedevo già fiero il futuro nome affisso sulla targhetta accanto alla porta: Simone Balestra.
Avevo fissato un appuntamento per vedere la casa. La speranza mi aveva baciato la fronte: rispettava esattamente ciò che avevo visto nelle foto sul sito di vendita. C'era da cambiare solo qualcosa, aggiustare qualche presa elettrica o togliere qualche quadro troppo antico. Mi sembrò subito perfetta per viverci.

Mi trasferii una settimana dopo.
La ditta di trasporti arrivò puntuale (per mia fortuna) un lunedì pomeriggio. Venni avvisato prima di pranzo in modo da organizzarmi e così, salì a poco a poco tutto in casa.
Mi ero ricordato di videochiamare mio padre e di mandare un vocale a mia madre ovviamente, tra un pacco e l'altro e di pranzare con dei tramezzini comprati in un supermarket vicino insieme a qualche birra e delle uova e formaggio. Fu la mia cena mia cena di quella sera, avevo bisogno di qualcosa di veloce per via della stanchezza.
Seppi in breve tempo di avere poca compagnia in quel palazzo, gli inquilini erano rispettivamente uno al secondo e l'altro al terzo piano. Il primo piano era ancora in fase di ristrutturazione e sarebbe stato messo in vendita a breve, almeno così avevo sentito dire.
Una famiglia di quattro persone al terzo piano e una signora che viveva con un cane di piccola taglia al secondo, proprio di fronte alla mia porta.
Quelle persone mi salutarono entrambe, solo, in momenti diversi.
Della famiglia conobbi i due gemelli e la madre, una donna abbastanza giovane e dalla pelle perlacea, il marito era sempre al lavoro e non ebbi mai modo di vederlo.
La signora in compagnia del suo cane invece, si interessò di più, invece. Nel martedì, corsi via dalla mie due normali ore di lezione. Mi muovevo infatti con la porta aperta, senza paura che nessuno curiosasse all'interno.
Oppure semplicemente inconscio, approfittavo della mia libertà di non avere qualcuno di insopportabile tra i piedi.
Avevo fatto una seconda spesa più consistente il secondo giorno - dato che il frigo era capiente e la sua presa elettrica non doveva essere sostituita - ed ero sul punto di aprire pochi altri scatoloni con i miei effetti personali dentro e liberarli da chili di scoatch, quando un leggero guaito, seguito da dei passi sulle scale non umani, mi fece girare. Uno yorkshire terrier con un collare mi fissava e usciva fuori la lingua, mentre la sua padrona sulla sessantina, teneva le chiavi di casa in mano e gli sussurrava qualcosa. Poco dopo, lo guardò e copiò il piccolo peloso. La donna mise su un sorriso rivolto tutti quanto a me, indossava un cappotto grigio, come i suoi capelli corti.

« Ah, buongiorno, lei deve essere il nuovo inquilino? »

Annuì, mostrando a mia volta un sorriso. Mi mossi nel corridoio e mi sporsi per allungarle la mano.

« Piacere, Simone. Non ci siamo presentati prima, sa il trasloco... mi dia del tu se vuole. »

Aveva poche rughe, la sua stretta libera dal guinzaglio, la trovai vigorosa e forte.

« Antonia »

Mi studiò abbastanza, mentre mi chinavo per accarezzare il cane ai suoi piedi, che mi leccò senza mostrarsi ostinato.

« Sei di Roma? »

« Sì, insegno, sono un professore. »

« Così giovane, ah, beh che fortuna. » si complimentò.

Antonia annuiva sempre più curiosa ad ogni informazione.

« Devi avere un bel fegato ragazzo, come tutti gli altri che sono venuti ad abitare qui, del resto. » si lasciò scappare, colorando il tutto con una risata.

Trovai curioso quel suo atteggiamento.

« Perché mai?»

Antonia, la mia nuova inquilina, aprì la serratura della porta di casa, il cagnolino rimase a studiarmi con la lingua esposta in fuori. Sospirò rivolgendomi gli occhi chiari.

« In quell'appartamento c'è morto un ragazzo, circa due anni fa, io vivevo già qui allora.» spiegò metodica « Quel giorno ero fuori casa, ci fu un incendio. I pompieri non sono arrivati in tempo. Ecco perché l'ascensore è nuovo, meglio rispetto al precedente: i fili elettrici si sono bruciati. Il poveretto però, dopo un'ora e mezza era bello che andato. È da allora che l'appartamento viene venduto e svenduto in tempi record di pochi mesi. »

La mia faccia dovette assomigliare a un punto interrogativo per lei, perché sorrise divertita. Ero ancora piegato ad accarezzare le orecchie del suo cane.
Era scontato, troppo palese chiederlo, ma io lo feci ugualmente.

« E perché? »

Antonia, scrollò le spalle, invitò Byron dentro casa, lasciando il guinzaglio a e quello scomparve oltre la porta in un lampo.

« Perché dicono che quell'appartamento sia infestato.»

Mi alzai dalla mia posizione, mi grattai la testa.

Le storie di fantasmi sono solo storie.

« E lei ci crede? »

« Non ho mai saputo che cosa pensare, » ammise la signora, una linea piatta sulle labbra, le sostituì la dentatura ancora non intaccata e sfoggiata poco prima « sono una povera vecchia per riuscire a spiegare certe cose, so solo che non ho mai voluto entrarci. Più che altro, » continuò abbassando la voce mettendo la mano affianco alla bocca « non mi fidavo tanto degli inquilini. »

Quello sguardo doveva farmi paura forse, ma io non credevo alle leggende, né tanto meno a spiriti o fantasmi. Quelli esistevano nella fantasia e nelle storie degli adulti per spaventare o divertire i bambini, ma erano solo storie. Non mi spaventai, credo che trovai solo un po' ambizioso credere a eventi soprannaturali in un posto come Roma, soprattutto nella periferia. La cosa più soprannaturale che esisteva erano le centinaia di buche, turisti cafoni e vortici in cui la spazzatura non veniva risucchiata ma si accumulava a dismisura.
Antonia mi lanciò un sorriso quasi dispiaciuto e che sistemasse la mia espressione confusa. Ero arrivato da otto giorni, parlare di presenze non era di certo l'argomento migliore per accogliere un nuovo arrivato.

« Chissà, forse questa volta sarà diverso. Forse è solo suggestione. Beh, ti auguro una buona giornata e una buona permanenza nel condominio. »

Le sorrisi come lei sorrise a me e quando la mia inquilina chiuse la porta dietro di sé, ritornai dentro quella che sarebbe stata la mia nuova casa. Decisi di accendere lo stereo, collegai il cavo del cellulare alla porta usb e la mia playlist preferita per occupare il tempo mentre mi attendavamo altri scatoloni da spacchettare e vecchie cose da sistemare.
 

**

 

Il primo weekend lo trascorsi pulendo da cima a fondo il mio nuovo appartamento - nonostante mi fosse stato presentato impeccabile - per la paura della polvere gli scatoloni avevano trasportato e anche perché, sentì la necessità di accendere la musica ancora una volta e poi rilassarmi con una tazza di thè fumante. Il mio pomeriggio fu tranquillo, con la pioggia che batteva sui vetri e il bollitore, un regalo di nonna, che non raggiungeva la temperatura sul fuoco. Deve essere stato in quel momento, mi ero girato un attimo a controllare il film da guardare quella sera, che il cucchiaino messo dentro la tazza sul bancone cadde a terra. Forse, distratto, non lo avevo più messo dentro l'oggetto, ma lasciato fuori.
Così lo raccolsi, sospirando. Era da un po' che sistemavo quel nuovo nido per così dire, per renderlo confortevole e perfetto in mezzo ai turni mattutini che spendevo per la mia classe, ai compiti che portavo a casa.
Probabilmente la mia, era solo stanchezza.

La mattina seguente, ripresi la mia routine solita: tanto caffè, due biscotti e un bicchiere d'acqua. Avevo già messo la moka sul fuoco - ero contro l'uso di macchinette industriali del caffè, preferivo un aroma deciso, pronto a svegliare anche l'orso più pigro del mondo. Questa volta, mentre mi lavavo i denti, sputavo il dentifricio e finivo pulendo lo spazzolino, il rumore dalla cucina mi colpì particolarmente. Non fu il cucchiaino a cadere, bensì la tazza in ceramica ancora non riempita. Il caffè era appena salito dentro la moka col suo odore tipico. Mi grattai la testa imprecando appena. Avevo lasciato la finestra aperta quella domenica, l'aria era frizzante ma non tirava molto vento.

« Okay, questo è strano. » ricordo di essermi detto tra me e me.

Chiusi così la finestra attesi a non tirare le tende perché erano ancora le nove del mattino e sospirai.
Per fortuna, avevo portato una serie di tazze custodite nei primi pacchi che avevo disfatto dal trasloco, non perché le collezionassi, ma perché era parte del corredo che mi aveva conservato nonna prima di finire da alcuni mesi in un ospizio per problemi motori e quelle tazze variopinte, me la ricordavano.
Non ero il né primo né l'unico materialista che vedeva in un oggetto un ricordo.
Non ci misi molto a buttare i vetri rotti dopo averli raccolti, sostituì la tazza vecchia con una nuova, presi la zuccheriera, versai il caffè, feci lo stesso con lo zucchero e girai con un cucchiaino che riposi subito dopo nell'apposito cassetto.
Mentre bevevo il caffè e cercavo di godermelo, davo le spalle al bancone della cucina, il tavolo davanti a me, così come la finestra.
Pioveva, c'era una tipica arietta pre-invernale.
Non so perché, ma in quel momento le parole della mia inquilina mi tornarono in mente, le ricordavo nonostante fossero passati nove giorni, beh devi avere un bel fegato. Poi però pensai lucidamente. Risi in modo ridicolo, guardai il caffè dal suo colore scuro: mamma mi aveva sempre detto che molte cose le costruiamo noi stessi per compensazione alla solitudine, per tormento, dando vita a nuovi mostri interiori che ingigantiamo e ci divorano pian piano. Non era una psicologa, ma ne avevo frequentata una al liceo. Poteva essere il tipico comportamento di chi manifestava la propria paura attaccandola un po' a tutto, anche ai piccoli oggetti.

C'ero solo io in quella casa, nessun'altro. Stavo vivendo in prenda a una suggestione, solo questo.

« Gli spiriti non esistono, sei solo stanco. » mi ripetei.

Ritornai dall'uscita con i miei amici di vecchia data - e gli unici ad essere rimasti credo, dopo una serie di cambiamenti e presenze che erano andate e venute nella mia vita - e stanco morto, ricordo che aprì la doccia. I miei occhi erano aperti, riuscì ad aprire il doccino e toltomi i vestiti di dosso, senza nemmeno fare caso a dove mette o cosa, mi infilai in doccia. Il getto della doccia caldo fu un sollievo sulla mia pelle gelida.
Il sapone profumava i miei ricci, forse l'unica parte del mio corpo di cui andavo fiero e geloso e quando toccò al bagnoschiuma, quello mi sfuggì dalle mani. Riuscì ad acciuffarlo in breve, spremerne un po' sul palmo della mano e iniziare a insaponarmi ad acqua chiusa.
Abituato ad eventi spiegati in fisica e calcoli, mi stupì quando il contenitore del bagnoschiuma cadde dall'apposito ripiano, senza nemmeno una folata di vento. Le mani si fermarono sul mio corpo: il bagno non aveva una finestra in quella casa. Non so perché ma ebbi l'istinto di guardarmi intorno, come se qualcuno mi stesse spiando. Anche l'ordine del mio shampoo ora era diverso, non più a destra, ma a sinistra in alto.
Per la prima volta pensai fosse inquietante. Mi chinai dopo alcuni secondi di riflessione, come se potessi ricomporre il puzzle di stranezza che si insinuava dentro di me.

« Simone Balestra, stai diventando forse pazzo?» dissi in terza persona, proprio come uno schizzato.

Mi misi a cantare a voce così alta che avrei potuto spaventare qualsiasi ladro o scassinatore che avesse voluto entrare in casa e prendere ciò che voleva.
Una spiegazione più che valida.

La cosa più strana però, non era ancora arrivata.
Terminata la doccia, asciugati i capelli, avvolto nel mio pigiama, non avevo sonno.
Disteso a letto gambe divaricate e braccia dietro la schiena, ripensavo al cucchiaino, alla tazza ed ora, al bagnoschiuma.
Ecco, che il salotto mi accolse, accesi la televisione e controllai: le tre di notte.

Per fortuna non avevo lezione l'indomani.

Stringevo il telecomando in mano. Accesi la televisione sperando che mi inducesse la sonnolenza che all'improvviso era scomparsa. Beccai un film per caso su un canale, non mi informai neanche sulla trama, avevo solo bisogno che i miei occhi si stancassero. Una scena di donna e un uomo, intenti in una situazione classica comunemente vietata a un minore di diciotto anni, sbattuta lì per gli insonni e indurli a pensare alla sfortuna e carenza di chi praticava le stesse pose o gli stessi versi. Sospirai, portando una mano sul viso. La cosa più divertente avvenne proprio nel momento in cui il climax si stava definendo, la bocca della donna era troppo rossa e sguaiata, - ma di cui dimenticai subito perché i miei occhi erano rivolti solo su di lui - il canale cambiò senza che toccassi un pulsante.
Ero lucido.
Cambiai un'altra volta, portando il corpo a rannicchiarsi sul divano come un animale spaurito che aveva superato la fase dello svezzamento.
Tremava la mano con cui reggevo l'oggetto. La cosa successe altre due volte, e due volte ritorni al canale precedente. Alla terza, spensi il televisore. E me ne tornai a letto. Ricordo perfettamente di aver urlato senza grazia, né candore:

« VAFFANCULO! »

 

Non dormii per due notti di fila, il mio ritorno a scuola ne risentì. Avevo in corpo almeno due caffè e un terzo preso nella macchinetta a scuola, ma dopo mezz'ora che mi trovavo in quel luogo, le palpebre volevano chiudersi e il corpo stendersi in un anfratto di letto e dormire.
Ero riuscito ad ascoltare un mio studente chiamato alla lavagna per i primi dieci minuti, poi lo avevo mandato a posto, senza controllare che avesse risolto così bene l'equazione.
Sapevo che una volta ritornato a casa, sarei stato indaffarato a capire se vivevo davvero da solo o dividevo i miei spazi con qualche anima fluttuante che amava prendermi in giro.
Pensai di aver scritto sulla fronte pazzo visionario.
Facevo abbastanza rumore di mio quindi, da quando quegli eventi erano cominciati: avevo preso l'abitudine di canticchiare in determinate ore per evirare che venissi colto di sorpresa o a chiudere più volte le finestre durante la giornata.
Come uno straccio giovedì tornai a casa, aprì la porta di casa, buttai le chiavi sul tavolo, tolsi le scarpe senza riporle e il cappotto allo schienale della sedia, tutto in questo preciso ordine.

« Ora ti fai un thè caldo e ti stendi. Simone, sta calmo. »

Tranquillo, divenne la mia parola mantra.
Come se una parola potesse effettivamente risolvere le cose all'interno della mia testa.
Il miracolo di una parola che potesse contenere l'ansia e l'inquietudine, dovevano ancora inventarla.
Forse avrei dovuto pratica della meditazione, molti miei colleghi a scuola ne parlavano, non era una cattiva un'idea.
Inviai anche un messaggio di risposta a Laura - una delle mie amiche storiche - per scriverle che non riuscivo a raggiungerla per pranzo.
Trovai la forza di mettere su il bollitore con l'acqua, presi una bustina a caso e aspettai. Il gas era acceso, tenevo gli occhi fissi sulla tazza in modo che non avesse intenzione di saltare giù questa volta e rompersi. O meglio, che qualcuno la buttasse giù per romperla. Combattei contro lo sbadiglio che sentivo arrivare. L'acqua stava per sfiorare il bollore, strappai l'involucro della bustina di thè. La stanchezza vinse e nel momento in cui strizzai gli occhi per sbadigliare, non ebbi nemmeno il tempo di spendere il gas. Stesso schema di sempre, finestre chiuse. Raccolsi le forze che mi rimanevano, presi il bollitore e lo sbattei con una certa forza contro il bancone, poco distante dalla tazza che reggevo dal manico.

« Ascolta, adesso basta! » alzai il tono di voce, furente « sono stanco, chiunque tu sia, ho bisogno di dormire, non ho tempo per questi giochetti! Ti diverti? Bene, io no. Cazzo, non mi diverto per niente. Non voglio disturbare nessuno, » non sapevo a chi stessi parlando, ma mi ero girato di scatto verso il divano, la scrivania a muro con la piccola libreria Ikea, vicine alla seconda finestra « sono venuto in questa casa per stare meglio. Voglio solo che questa giornata passi e soprattutto voglio riposare. » borbottai.

Discutevo e parlavo al silenzio, versai l'acqua dentro la tazza, era ancora calda. Sperai che Antonia, la mia inquilina non fosse in casa, lo sperai davvero.

« Lo capisci questo? R i p o s a r e. » scandì bene.

Forse parlavo a un'anima straniera, non potevo esserne certo. Mi sentivo uno stupido in ogni caso, però come ogni stupido che si rispetti, non potevo mettere un punto a ciò che avevo iniziato. Dovevo arrivare alla fine. Era un giovedì e Simone Balestra parlava al nulla dentro casa sua. « Se ti annoi puoi benissimo passare oltre i muri e cercarti qualcun altro da tormentare. »

Attesi.

Non so perché mi aspettassi una risposta.
Mi stava prendendo la pazzia che qualcosa di soprannaturale mi rispondesse e la cosa mi provocava una risata quanto raccapriccio.
La scienza non poteva venirmi in soccorso, solo qualcosa al di fuori, qualcosa di diverso al suo posto.

Mi sedetti al tavolo, a bere dalla mia tazza, percepì solo il rumore dei miei sorsi, l'aroma del thè, il respiro che faceva fatica a calmarsi. Un punto fisso della parete aveva preso la mia attenzione, forse credetti di poterci vedere qualcosa. Forse avrei avuto un po' di pace, da quel momento in poi.



 

**


 

Non so che ore fossero di preciso.
Dopo una giornata stancante, che in parte mi aveva portato a fare visita mia nonna Virginia in ospizio, fare la spesa, passare in banca e dividere la spazzatura, cenai con latte e biscotti, una cena frugale ma veloce e senza impegno che mi ricordò quando ero ancora un adolescente. Avevo lasciato le finestre aperte per fare girare l'aria dentro la camera. Era novembre inoltrato, ma per qualche strana ragione non sentivo freddo. Ricordo che chiusi gli occhi dopo aver a lungo cazzeggiato su internet dopo cena e cercato di portare a termine la correzione di qualche verifica dei miei studenti, arrivando a correggerne circa meno della metà per via degli occhi pesanti.

Pazienza, mi dissi, avrei concluso l'indomani.

Molti di quei fogli erano rimasti sul comodino, altri erano scivolati a terra perché il sonno mi aveva preso con sé.
Il vento li spostava creando un leggero rumore di carta sul pavimento.
Questo almeno fui certo di non immaginarlo.
Il sorriso di mia nonna mi accompagnò chiudendomi gli occhi, respirai piano e quando quel respiro si fece regolare, caddi addormentato.
Ero così stanco che non dimenticai tutti i miei pensieri.
Anche quello, mi avrebbe fatto ridere se /lo avessi elaborato: non esisteva Simone Balestra senza un cervello iperattivo che lavorasse più del dovuto, anche dormendo. E invece non sognai nulla.
Proprio per questo stato di mollezza e abbandono, non so cosa mi portò a svegliarmi.
Forse avevo bisogno di bere, oppure cominciai a sentire freddo.
Ma il mio corpo - fui sorpreso di capire - era già al caldo, coperto.
Non ricordavo di aver tirato le coperte. Troppo stanco, non avevo nemmeno tolto la tuta per stare a casa, ero maglia a maniche corte e pantaloni pesanti. Ero crollato a letto senza infilarmi il pigiama, intento com'ero a correggere le verifiche, figuriamoci tirarmi addosso il piumone.

Mi stropicciai gli occhi con una mano e lentamente mi portai sul materasso tirandomi su. I miei occhi si aprirono. Sbattei le palpebre più volte.

Rabbrividì.

Non esistevano i fantasmi. E allora cosa stavo guardando?

All'inizio mi sembrò un'ombra. Ma le ombre non erano chiare, né fatte di una luce bianca e velata tanto da potervi vedere attraverso. Proprio come un angelo, ma di meno, credo. Non ne ero sicuro dato che non avevo mai avuto la fortuna di vedere un angelo. Non avevo mai creduto a quelle cose, non ero un esperto.
Quella luce velata, un po' abbagliante, aveva un sagoma, quella sagoma era quella di un uomo, ne ero certo. Non credetti ancora a cosa stavo vedevo, scattai indietro con la schiena contro la tastiera del letto, spaventato.

« Che diavolo...» mormorai ansioso.

Lo spirito si mosse, indietreggiando con la testa o almeno così lessi quel movimento. Fu troppo veloce da elaborare. Distinguevo meglio quello che una volta era stato il naso, la bocca, gli occhi. I capelli onde indistinte, forse fatte di ricci, una volta..
Avvertì come una brezza di vento soffiarmi addosso, quando quella luce sagomata parlò.

« Tu riesci a vedermi? »

La mia testa incontrollata faceva su e giù, mi tenni a debita distanza. L'ombra era in qualche modo, seduta di fronte a me sul mio letto. Deglutì.

« Tu mi vedi. » ripeté. Lo stesso spruzzo d'aria mi investì il viso.

Quell'ombra sembrò stupirsi, quando invece la persona a cui doveva rifarsi quel sentimento ero io.
Io che avevo subito i suoi scherzi, io che mi dannavo per quelli da una settimana, io che non avevo mai visto qualcosa di soprannaturale al di là dello schermo della mia televisione.

Fu chiaro senza alcun dubbio ormai: io Simone Balestra vivevo ufficialmente con un fantasma dentro casa.
Potevo testimoniarlo, non era ancora pronto a morire di crepacuore.

Il fantasma del ragazzo restò immobile.

Seppi che era una domanda stupida quella che stavo per porgli, ma non mi era stato descritto, anche se davo per scontato quell'informazione e così lo chiesi lo stesso.

« Sei... » articolai senza finire. Strinsi appena il bordo del piumone con le dita e cercai di capire come fosse possibile riconoscere quei tratti di un'anima che una volta era in vita.
« Sei il ragazzo che è morto qui dentro, vero? »

Non ricordavo il suo nome, ero troppo scosso, i miei occhi ancora pesanti ma furono vinti dal mio battuto accelerato. Forse non era poi così tardi per perdere i sensi.
Antonia me lo aveva detto al nostro secondo incontro il giorno in cui l'addetta del servizio del palazzo era intenta a lavare le scale, mentre ritornavo da casa dei miei.
Forse me lo sognai, ma mi era sembrato stesse facendo una smorfia. Non entrava nessun tipo di luce, quello spirito era il solo ad emanarla.
Non sapevo cosa provare, non mi ero ancora abituato a quella presenza.

« Manuel, quello che c'ha avuto la fortuna de morirci, sì. E tu sei il nuovo inquilino. »

Me lo disse con un misto di disappunto, di rassegnazione, anche curiosità forse. Non lo so, non riuscì a interpretarlo: era pur sempre qualcosa di evanescente, irraggiungibile.

Non ero mai stato il tipo da cose misteriose, anzi, quelle preferivo segregarle con me se necessario. Ma erano piccole. Non avevo morti sulla coscienza. Mi resi conto che era passato più di un secolo dall'ultima volta che avevo parlato.

« Sei qui da molto? »

Il mio cervello mi urlò automaticamente che dovevo comporre il numero di qualcuno, un psichiatra, un medico, qualcuno che sapesse dare un minimo di significato a quella visione. Il corpo invece portò due dita a pizzicarsi il braccio sopra la felpa.

« Non tanto, » anche la risata vibrò come una brezza che parve spostarmi i ricci « solo due anni. »

Annuì. Due anni prima vivevo ancora con il mio coinquilino, e stavo finendo i miei studi universitari.

« Ha intenzione di tormentarmi ancora? » chiesi con un filo di voce.

Mi studiò.
Un fantasma mi studiava e sembrava che si divertisse nel farlo. Si dondolò - o almeno ci provò - e la sua forma incorporea attraversò l'aria, anche se mi sembrò di finire dentro le sue pupille vuote.
Non rispose, si teneva le mani sulle piante dei piedi, speculari. Non avevo capito quando, ma si era messo a gambe incrociate, quelle che comunque una volta lo erano.
Deglutì ancora.

« Non so se hai ucciso qualcuno o se sei qui per un tornaconto personale, » cominciai a dire senza sapere dove stessi andando con quelle parole « ma non lascerò questa casa, qualsiasi cosa tu faccia. Io ci vivo, adesso. »

Il fantasma di Manuel scoppiò a ridere.
Ricordoche il rimbombo mi arrivò in un eco e al petto, come se nella stanza si fosseromaterializzate delle montagne o alte vallate in un secondo e io fossi sullaloro cima.

« "Ucciso qualcuno", ma che te sembro, Patrick Swayze in Ghost? »

Strabuzzai gli occhi.
Non mi venne da sorridere, anzi, masticai l'interno del palato quasi imbarazzato.
Quell'approccio fu il più strano della mia vita.
I miei occhi dovettero sembrargli interessanti, perché si fermò il tempo per riprendere a studiarmi. Alzò una mano, per portarla dietro la testa, parte delle dita non affondarono, fluttuarono in aria.

« Non ho ucciso nessuno. E nessuno ha ucciso me. Sono bloccato in questa casa da quando sono morto. »

Era un passato scomodo quello che si stagliò nei suoi occhi che davano più sul grigio, rispetto al resto della sua forma.

« Oh... » borbottai.

Mi dispiace che uno spirito sia rimasto intrappolato in casa mia.
La bocca non seguì la testa, andò slegata, impertinente.
Non fermai la mia lingua quindi.

« Due anni sono tanti per annoiarsi... »

Lo spettro sembrò ridere.

« E lo dici a me? »

« Sono sicuro che troveremo un accordo. » buttai fuori aria invisibile.

Pensai che fosse il suo passatempo, nonché l'unico per tenersi occupato. Mi misi nei panni di quella strana presenza.
Lo spirito di Manuel continuava a studiarmi invidioso forse della mia forma in sangue e carne. Non gli andava sicuramente a genio una presenza che disturbasse il suo spazio.
Il mio desiderio era quello di una convivenza pacifica.

« Io voglio restare. » conclusi.

Manuel non mi rispose.
Fece un'altra smorfia ma non rivolta verso di me, guardò la finestra alla mia sinistra, invece.
Io volevo restare e lui voleva andarsene ma per un motivo che non capivo non avrebbe potuto farlo.
Bloccato, aveva detto.

« Forse già sai, quasi tutte le mattine la casa è libera... » non lo guardai in quelle pupille vuote, non perché mi facessero paura, ma perché non riuscivo ancora a rendermi conto che era vera quella esperienza.

Lo invitai con quella affermazione a fare tutto il caos che desiderava, senza la mia presenza, speravo di averlo reso chiaro.

« Giusto, allora penso di non avere altra scelta. » mormorò, mi arrivò una brezza leggera addosso. Non fece nessuna smorfia, sospirò forse da quel che potei vedere rialzando lo sguardo. « Limiterò la mia presenza per quel che posso. »

Mi sistemai il piumone alzandolo sopra le ginocchia. Mi infilai all'interno, ma non ero più spaventato come prima. Prima che il fantasma sparisse però, ricordo molto bene cos'altro gli chiesi. Ormai, non avevo più una spiegazione razionale e non credevo ci fosse più motivo di perdere le forze a cercarla.

« Dove uhm... dove sei abituato a dormire? »

Glielo chiesi come fosse una cosa normale.
Ci ripensai bene: rientrava nella categorie delle domande stupide da non fare per non essere scambiati per deficienti, appunto. Ma la logica mi aveva pure sempre abbandonato, quindi mi concessi qualche stupidaggine.
Me lo chiesi, anche perché ero già da dieci giorni in quell'appartamento e se ero stato spiato nel sonno o guardato come era capitato quella notte, avrei voluto saperlo.
In fondo, credevo di avere già la risposta ma non mi spinsi oltre quel muro.

« Simone, » sussurrò, Manuel si era già alzato dal mio letto, il busto si torse, gli occhi diventarono più piccoli, la sua figura ancora l'unica fonte luminosa della stanza « i fantasmi non dormono. »

L'altra cosa che mi chiesi fu perché sapesse il mio nome.
Manuel mi anticipò.

« Antonia. »

Manuel si dirigeva verso la cucina, perché uscito fuori dalla camera, la prima stanza che avrebbe incontrato sarebbe stata quella.
Il tavolo con il runner e sopra il vaso con i fiori freschi di un giorno.
O quella o avrebbe vagato per la casa. « Quella donna è 'na santa che cammina. Vi ho sentito parlare. »

Annuii lentamente.
Non seppi che altro fare, quindi mi stesi a letto girandomi su un fianco. Guardai la sveglia sul comodino, avevo l'impressione segnasse le tre.
Passarono pochi secondi, il silenzio avvolgeva di nuovo la stanza ed io ebbi l'urgenza di parlare un'ultima volta quel giorno.
Mi sembrò strana tutta quella situazione, gli eventi che la avevano preceduta, ma lo ammisi a me stesso dall'altra parte, trovavo conforto nell'avere qualcuno con cui condividere quello spazio.

Sì, Simone, sei pazzo, mi sussurrai in mente.

« Buonanotte... »

Non ricevetti risposta. Quella brezza proveniente dalla direzione opposta si allontanò.
Chiusi gli occhi, la stanchezza mi riprese con sé, così come lo stato di calma.
Dall'altra parte della stanza invece, mentre io venivo cullato da Morfeo, lo spirito mi guardò in silenzio per vari minuti.
Restò davanti la porta, poi si sentì in qualche modo libero di lasciarmi dormire.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** In love with a ghost ***




C'è forse un nascondiglio in cui non entri la paura della morte? Un luogo tanto difeso e fuori mano dove si possa vivere tranquilli senza temere il dolore? Dovunque ti nasconderai, i mali dell'uomo ti circonderanno col loro strepito.

(Seneca)






 

Quasi un mese passò senza che me ne accorgessi.
Avevo ricevuto alcune visite tra cui la mia inquilina e il suo cagnolino, la mia amica Laura e prima o poi, avrei smesso di evitare mio padre e mia madre per fargli vedere la mia nuova casa. Antonia e la famiglia al piano di sopra si organizzarono con quello che avevano l'albero di Natale sotto, nell'atrio.
Furono giorni abbastanza impegnativi, più che altro perché non riuscivo a organizzarmi con i miei genitori separati e vederli entrambi per le festività.
Era fuori discussioni invitarli da me, per ovvi motivi.
Non c'era modo di spiegare che un'altra persona viveva in casa tua e che non era fisicamente visibile. Manuel, mi faceva strano chiamarlo così, col suo nome di nascita, non diede più o quasi fastidio in casa. Molte volte mi fissava mentre correggevo i compiti o scrivevo sull'agenda per tenere conto dei miei impegni settimanali.
Altre invece, trovavo quello spirito intento a sfogliare uno dei miei libri.
Mi sorpresi: aveva un delicato interesse per la poesia, quei pochi libriccini che tenevo e che mi ero disturbato a comprare in adolescenza, l'età dell'illusione romantica. Imparai che aveva un interesse anche per le uova fritte e gli hamburger di carne, perché ogni volta sceglievo quella cena, Manuel fluttuava nei pressi della cucina senza mai allontanarsi.
Molte volte, durante la notte fissavo il soffitto e non prendevo sonno per quanto fosse assurdo ciò che mi ritrovavo a vivere.

Mi piaceva immaginare se non fossi stato solo io ad aver vissuto un'esperienza del genere.
Internet forniva poche informazioni al riguardo, ritrovai cercanco tra i vari link anche una voce intitolata spettrofilia e ne restai abbastanza incuriosito, oltre che stupito di quello che poteva essere definito rapporto extrasensoriale.

Non era il mio caso, comunque.

Sapevo ancora come ci si univa, come si faceva l'amore, anche perché la società non faceva che ricordarlo ai miei occhi, sui giornali, in televisione, nei romanzi. Non frequentavo un uomo da un po' di tempo, ero fin troppo abituato a stare con me stesso e in ogni caso, non avevo tendenze spirituali di quel tipo.

Così, una notte, per via dei troppi caffè che avevo preso e dopo aver deciso di iscrivermi a un corso in palestra per occupare il mio tempo libero, mi misi a cercare un po' su youtube.
Vari video esplicativi dai protagonisti più disparati raccontavano di parenti che ritornavano ogni tanto a visitarli nel sonno, nei momenti più bui, di amori passati che avevano perso tragicamente. Ascoltai tutto così attentamente, senza perdermi neanche una virgola. Molti dei testimoni erano stranieri e in molti casi erano riportati dei sottotitoli sotto i loro volti.
A un certo punto, sentì quella brezza tipica arrivarmi davanti. Ferma il video, accesi la luce e mi fermai a fare attenzione al mio speciale inquilino.
Gli invidiai, soprattutto quella notte, che non avesse bisogno di dormire o riposare.

« Che guardi? » mormorò indicando lo schermo del pc con la sua mano luminosa.

Girai il computer dalla sua parte, cioè di fronte a me. Spuntò un sorriso su quel viso dimentico della carne e del peso.

« Ah fidate, fossi in te non ce perderei troppo la testa »
Si prese la briga di usare quel tono confidenziale, non mi dava fastidio, ma se mi avesse visto qualcuno dall'esterno avrebbe chiamato uno specialista. Manuel sventolò una mano davanti al mio viso, controllava che ci fossi ancora forse. Dopo un po' si stancò, ma me lo chiese lo stesso.
« Me vedi ancora? »

« Ti vedo ancora, Manuel. » sussurrai secco.

Non avevamo parlato da un po', in realtà. Lui non invadeva me - più di quanto già non facesse vagando per il mio appartamento - e io rispettavo i suoi spazi.

« Posso chiederti perché ti stupisce questa cosa? »

Si mise comodo sul mio letto che rimase intatto, senza nemmeno una piega.

« Nessun inquilino precedente m'ha mai visto in faccia. Non c'è mai riuscito. »

Mi sembrò doppiamente strano. Non ero nato certo con i superpoteri, sempre se riuscire a fare della matematica un mestiere lo fosse.

« Come fai a dirlo? »

Manuel sembrò scrollare le spalle o meglio ciò che erano state spalle.

« Lo so perché è proprio così che ne approfittavo. » un sorriso sornione gli si allungò sul viso « Me mettevo a ridere, li spaventavo, facevo rumore. Mi annoiavo e me sentivo minacciato, così puntavo su quello. Quando stavo di fronte a loro non guardavano me, ma guardavano al vuoto » confessò.

« Era di sicuro la paura. » mi affrettai a rispondere.

Lo spirito ondeggiò ostinato con la testa e fu come vedere più dettagli però confusi in velocità.

« Nessuno m'ha mai visto. » confermò. « C'era la paura, sì, ma me prendevo anche le parole e gli insulti come te puoi immaginare perché non sapevano con chi prendersela. Ecco perché, quando ho visto che qualcuno mi rispondeva guardandomi in faccia, » Manuel si indicò quasi tracciando la sagoma della sua testa, le dita ricaddero a puntarsi un petto magro e inesistente « sono stato io a cagarmi quasi sotto. »

Effettivamente non sembrava avere voglia di prendermi in giro. Restammo in silenzio per un po', l'indice restò indeciso sul pulsante del pc per sbloccare il video e mandarlo avanti.

« È appena diventato tutto più inquietante. » sospirai.

Cercai di sorridere come riuscivo. Cercai di provare a risultare spontaneo, ma finii per portarmi una mano sulla faccia esausto.
Sentì un'aria leggera investirmi, come una specie di carezza.

« Me dispiace. »

Non guardai né il pc e nemmeno la porta, sembravo solo un pazzo di trent'anni che voleva cercare conforto negli occhi inconsistenti e troppo giovani appartenuti all'ombra di un ragazzo che aveva vissuto dove adesso, vivevo io. Avrei voluto parlarne con qualcuno oltre che con Manuel, senza apparire un pazzo che teneva sotto chiave quello che sembrava un segreto indicibile sotto forma di aria o vento.

« Vorrei darti delle risposte, ma non ne ho neanche per me. »

Quella notte terminò in quel modo.
Non gli diedi neanche la buonanotte. Pensai di essere maleducato, egoista, una volta racchiuso il mio mondo di preoccupazioni, di ansie che non era nulla in confronto a quello di uno sconosciuto piombatomi in casa senza invito.
Manuel era arrivato prima di me. Che dovere potevo mai avere se non quello di concedergli la gratitudine che mi lasciasse in pace?
Soprattutto se il suo spirito era sincero. Non avrei mai saputo se quel comportamento era stato uguale in vita.

Ma la contraddizione più grande era che messa in moto la ragione, forse non volevo poi tanto essere lasciato in pace.

Sentii di nuovo le palpebre pesanti, le mani chiusero lo schermo del pc senza nemmeno premere il pulsante per spegnerlo e lo misi ai piedi del letto.

« Cerca de dormì, Simone. »

Lo sentii distintamente, con le mani sotto al cuscino e la testa che si abbandonava alla trama morbida.
Chiuse la porta della camera, mi spense la luce. Mi chiesi come mai fosse così difficile abituarsi al concetto di morte.






**




 

L'albero nell'atrio lo decorammo in tre, quattro se si aggiungeva il piccolo black terrier grigio di Antonia.
Era un albero finto - ovviamente - e alto, decorato in argento con una stella di tutt'altro colore.
Nell'insieme io, Antonia e il signor Andrea - conobbi finalmente il marito della famiglia che abitava al terzo piano, un uomo sulla quarantina affascinante e le cui bambine erano a letto con la febbre - eravamo riusciti in qualcosa che non risultasse pacchiano ma gradevole all'occhio.
Quando ritornai dentro casa, mi aspettava una cena simile a quella di un re: polpettone - che rimaneva in frigo avvolto in una pellicola e da riscaldare - con patate al forno.
Trovai Manuel lì, seduto sulla terza sedia del tavolo, senza occupare davvero quello spazio.
Non mi sorpresi, ormai quella presenza era diventata un'abitudine quasi normale.
Si può dire che ogni pranzo o cena a meno che Manuel non fosse intento a fare altro in casa, la condividevo con lui. Non c'era bisogno tenessi nemmeno la televisione accesa, perché commentava sempre ogni mio pasto con un velo di nostalgia e mancanza.
Anche quella sera, quello spirito benigno nelle sembianze passate di un uomo, non mancò di dire la sua.

« Me ricordo tanto quando cucinava mi madre, me ne conservava sempre un po'. Quanto me piaceva il pollo co' le patate... » commentò sospirando.

Mi arrivò la sua malinconia come una bolla di sapone che non aspettava per esploderti in faccia.

Manuel riusciva a percepire gli odori oltre che i rumori, così mi aveva raccontato un giorno all'interno della nostra strana convivenza. Era una delle cose che avevo imparato di lui. Così, da quella sera presi l'abitudine di descrivergli il sapore di ogni cosa che consumavo, dolce o salata che fosse, in modo che potesse in qualche modo rievocare il senso del gusto.
All'inizio, Manuel lo trovò strano ma poi, prese l'abitudine lui stesso di chiedere che sapore avesse ciò che mangiavo. Così si passò da un primo timido e insospettabile "descrivimi com'è quel pezzo di pizza, Simone" o anche "è calda quella crocchetta de patate? Che ce sta dentro?" per arrivare a come, per sfizio di una sera, mi concessi un gelato nonostante fossimo in pieno inverno come ricompensa perché il colloquio genitori-insegnati mi aveva sfinito. Manuel non esitò anche in quel frangente a chiedermi che gusto avesse.

« Vaniglia, » risposi sostenendo con le due dita il cucchiaio sporco « è dolce e fresco, una coccola per il palato. »

Ricordo che non mi limitai solo a quello, perché quello spirito che brillava di curiosità era affamato di ricordi polverosi e che vivevano in altre persone che io non avrei potuto conoscere.
Mi sembrava che gli dovessi almeno quello, se potevo alleviare anche di poco la sua condizione.
Non mi costrinsi, non fu un peso, non ci dovetti pensare più di una volta: io volevo farlo.
Non so perché, ma il volume della televisione era bassissimo e io mi stavo concentrando più su occhi inesistenti che sulla prelibatezza gelata, che tenevo sul grembo.

« Un po' come il mare d'estate, un po' come bere un bicchiere d'acqua ma con un sapore più deciso, e che da un bacio su una guancia calda. » aggiunsi alla precedente descrizione.

« Il sapore di un bacio... » pronunciò Manuel nubivago.

Simone Balestra, sei ormai diventato scollato dalla realtà.

Questo pensai, per un frammento mi sentì anch'io in preda da poteri quali invisibilità, bloccato in quelle mura ma non per prigionia, quanto per scelta volontaria.

Qual è la realtà giusta allora, la mia passata o quella di adesso?

Manuel era lì, non gli chiesi cosa pensava, forse i fantasmi preferivano un flusso di pensieri destinato a volare via nell'istante in cui venivano formulati. Se fosse stato così, io, Simone, nonostante la scienza, i calcoli, l'abilità matematica in sintesi, riconoscevo di non avere quella capacità.

« Mi sono concesso forse una vena troppo poetica » ammisi senza repliche « è il mio preferito. »

Manuel mi guardò per un tempo troppo lungo.

Mi faceva troppo strano ormai chiamarlo spirito.
Ormai avevo perso l'abitudine a voce, lo pensavo soltanto così come pensavo che lui preferisse lo chiamassi per nome.
Una persona non perde il suo nome di battesimo nemmeno da morta, è qualcosa di eterno.
Una giornata mi disse che potevo anche cercarlo sui social se volevo, per capire meglio come era fatto, com'era in vita dato che il profilo era pubblico ed era rimasto aperto anche dopo la sua morte. Manuel mi disse anche che sua madre - che mi menzionava raramente - non aveva avuto il coraggio di cancellarli.
Nonostante il consiglio, non lo feci: mi sembrava di spiare in una vita che non mi riguardava.

« Nocciola. » mormorò dopo un tempo lunghissimo, un soffio breve quasi inesistente mi sfiorò il naso con un'altra piccola cucchiaiata di gelato.
« A me piaceva la nocciola. »

Annuì a lungo, fissai un punto preciso ricoperto di bianco dietro il suo orecchio sinistro.

« Ricordo che ce stava un gusto chiamato bacio, però » ridacchiò - non conobbi mai la differenza tra un suo sorriso e una sua risata, perché era sempre così luminoso con entrambi addosso.

Annuii di nuovo.

« Esiste ancora. »

« Era 'na cosa simile al cioccolato. » disse vago.

« Cioccolato e nocciole. »

Mi guardò stringendo le labbra. Allora, chiusi la confezione di vaniglia, la riposi in freezer. Ricordavo di aver comprato dell'altro gelato, più piccolo, una confezione da 200 gr.

La figura luminosa di Manuel si mosse, mi seguì con la testa.

« Che stai a fà? »

L'altra cosa a cui mi ero abituato era il suo accento romano e la cosa che suonò strano a lui le prime volte fu il perché non lo avessi anch'io.
Gli avevo spiegato che mio padre era un professore e che a casa si parlava italiano.

Mi rimisi seduto a tavola, scoperchiai la confezione, ma usai lo stesso cucchiaio di prima, per la noia di dover lavare un'altra posata.

« Non vuoi sapere che gusto ha? »

Manuel portò il viso in avanti, si reggeva con i palmi interni delle mani e i gomiti coperti sempre da quelle vesti per me indecifrabili, senza causare ingombro sul tavolo.
Infilzai la posata nel gelato.
In realtà neanche io ricordavo più il sapore di quel gelato, fu quindi come riscoprirlo una seconda volta.

« È dolce, fin troppo, e con una punta secca alla fine. È glicemia pura, la tipica riserva che tieni in frigo per una delusione, per la tristezza. » risposi dopo averlo assaggiato.

« Quindi anche questo è 'na coccola. »

Arricciai il naso, scavando dentro la vaschetta.

« È più un abbraccio. »

Non avrei dovuto dirlo, la sua espressione mutò poco dopo viaggiando davanti ai miei occhi.
Risucchiai le labbra, interpretai la mia descrizione come una catastrofe.

« Manuel, scusa -»

« Va tutto bene, Simone » rimase nella stessa posizione di prima.
Chiusi il tappo della vaschetta, lo riposi e buttai il cucchiaio nel lavandino.

« Guarda che potevi finirlo... non è successo nulla de che'.»

Misi le mani sulla pancia, come a imitare un mal di pancia istantaneo. Alcune risorse le avevo ereditate da nonna per finzione, dato che era stata un'attrice di teatro.

« Sono apposto così, poi vorrei dormire stanotte e troppi zuccheri non mi fanno bene. »

Mi imposi di mentire.

« Immagino che non se possa descrivere » lo sentì mentre sciacquavo la posata sotto il getto d'acqua prima di insaponarla. « Deve essere buono il sapore di un abbraccio. »

Sapessi spiegartelo, lo farei, Manuel.

Andai a dormire con l'amaro in bocca, nonostante avessi mangiato il gelato. Andai a dormire pensando che avrei potuto dargli una qualche risposta per consolarlo.
Mi sentii un po' inutile.





 

**



 

« Ti aiuto io! »

La porta era aperta da soli pochi minuti e il mio fiatone fu abbastanza evidente per fare sì che Manuel senza che neanche aspettassi di entrare, spostasse due dei sacchetti della spesa dentro casa. Non riusciva ad afferrare le cose non solide, però riusciva ad alzarle o spostarle.

« Grazie » buttai fuori cercando di incanalare aria dentro, poi indicai senza forze le due casse d'acqua che avevo salito da solo « per l'acqua ce la faccio. »

Manuel depositò le buste sul tavolo della cucina e così ci curiosò dentro come suo solito anche se non sapevo se lo facesse per reale curiosità o perché anche quello era un tratto che Manuel avesse sviluppato durante la sua clausura tra quelle mura.

« 'Mazza quanta salsa, tonno e uova » esclamò tirando fuori dal sacchetto nella sua ispezione « Ah, ce sta pure il pane, oh, avevi finito pure il caffè ma cosa sei, Simone, 'na moka umana? »

Risi appena nel tentativo di depositare le buste d'acqua nell'angolo dove ero solito posizionale. Poi ne tirai fuori due dall'involucro, per metterle dentro al frigo.

Presi il cibo che andava in frigo a breve scadenza e sfiorai quella brezza all'altezza delle sue dita che stava sopra io cartone del latte, quasi prendendone ogni volta una leggera scossa.

« Un po' te capisco però, anch'io ne facevo abuso, più che altro co' gli orari de lavoro che avevo...»

Misi su una smorfia di curiosità.

« Che lavoro facevi? »

« Magazziniere, ma nel tempo libero me occupavo de riparare motori, c'avevo un officina sotto casa. »

Mi fermai un attimo e annuì. Forse era troppo evidente il punto interrogativo che si formò poco dopo sul mio viso perché Manuel si girò verso di me, le mani sui fianchi inesistenti.

« Che me devi dì, Simone? »

Scrollai le spalle, prendendo le uova.

« Nulla »

Incurvò le sue labbra bianche.

« C'hai la faccia de uno che vorrebbe chiedere qualcosa ma glie sembra brutto. »

Ricorda che è stato una persona Simone.

« Perché non hai voluto studiare più? Se posso chiedere...»

« Ah » percepì un soffio di sollievo nella sua voce, ormai quella brezza per me era un suono definito, non più una sensazione. « Beh non è che fossi n' cervellone. »

« Ci sono casi in cui anche chi non eccelle in una cosa, magari alla fine scopre di riuscire bene in qualcos'altro. »

Finii di riporre tutta la spesa in frigo, poi gettai i sacchetti smistandoli nel contenitore della plastica.
Ottenni un sospiro da parte di Manuel, un fruscio.

« L'unica materia dove annavo davvero bene era filosofia. Potevo piglià due in matematica e tre in latino, ma in filosofia un sette e mezzo riuscivo sempre e strapparlo. »

Non citai al fatto che mio padre fosse proprio un professore di filosofia, anche se forse qualcosa Manuel aveva intuito qualcosa dal soprannome che certe volte mi dava quando correggevo verifiche. Il professorino indicava di sicuro la mia indole precisa, meticolosa.

« Poi però ho voluto subito darmi da fare, lavorà »

Mi misi seduto sulla sedia, mi ravvivai i capelli con una mano.

« E tua madre...i tuoi voglio dire, come la hanno presa? »

Centrai un tasto scoperto - senza saperlo - di nuovo. Me ne accorsi perché mi fu impossibile non notare che Manuel cambiava espressione, se ne stava zitto.
Serrai gli occhi e scossi la testa.

« Non devi rispondermi se non ti va. »

Mi chiesi per quanto ancora dovevo stare male per un mio passo falso fatto a mia insaputa.

« Mia madre non era d'accordo, ma non ha avuto impatto sulla mia decisione, non c'ho avuto un padre pe' na vita intera e lei mi ha sempre mentito su di lui. Non mi ha mai detto fosse ancora in città. »

Mi arrivò un vento più forte ma il suo tono era fermo, solo più duro.

« Manuel »

« E poi me volevo fà una vita, per conto mio. Ho avuto brutti giri al liceo, cose che in cui un ragazzo non dovrebbe cascà. » fece un gesto rumoroso con la bocca, prese il suono della goccia che cadeva dal lavabo della cucina « Un lavoro mi avrebbe rimesso al mondo e lo sapeva pure lei in fondo. »

Quella volta qualcosa la feci, nel tentativo di spostare le chiavi di casa posate veloci sul tavolo, attraversai le sue dita.
Avrei voluto afferrarne la mano.

Manuel chinò il capo, non riuscivo a vedere bene la sua espressione. Quello che era un ricciolo nella vita, ora era solo una curva che ricadeva in avanti.

« Mi dispiace... » mi ritrovai a squittirlo basso « Non voglio chiederti qualcos'altro che può farti del male. »

« Se te limitassi a trattare soli argomenti che non me fanno male, non parleremmo quasi de niente, Simone. » si sforzò di sorridermi. Conoscevo bene quella sensazione, il muro di finzione che veniva fuori per nascondere il marcio interno logorante.
« Sta' tranquillo. »

« Dico sul serio, se non ti va, possiamo evitare di parlarne, cambiare pure argomento. »

Mi negò con la testa fluttuando quelle onde bianche che avrei potuto solo immaginare come dei veri capelli, un po' di tempo fa.

« Un po' me lo merito, no? Te ho fatto cagà sotto la prima settimana e sapevo cosa bene stavo facendo. »

Oscillai a più riprese in un segno negativo.
Era passato un mese e più, la consideravo acqua passata ormai.

« Nessuno si merita di stare male. » feci notare a Manuel.
Sapevo che i suoi scherzi erano il suo diletto, lo erano stati e avevo provato a immaginare più volte il poveretto che li avrebbe subito al mio posto se io non mi fossi deciso a prendere quella casa.
« Fare male fa schifo, soprattutto se di quel dolore ne si è fatto un'abitudine. »

La sincerità uscì fuori come l'argine straripato di un fiume.
Manuel aprì la bocca, la richiuse. Guardai come muoveva quelle dita bianche invisibili e passavano attraverso le mie.
Anche lui avrebbe voluto essere tenuto per mano.

Simone non puoi farci nulla.

Distolsi lo sguardo, non riuscivo a sopportare una cosa a cui non potevo rimediare.
Non sopportavo la debolezza di Manuel. Stavo male per la debolezza di qualcuno che non avevo conosciuto in vita. Ma in verità, nessuno aveva mai scritto una legge su chi potesse essere indirizzata l'empatia.

E in quel caso, non potei fare a meno di pensare a come sua madre avesse tenuto quella ma mano una volta fatta di carne e sangue di Manuel, prima di seppellirlo.

Mi obbligai a strizzare gli occhi.

« Dolore. È questo lo stesso motivo per cui non m'hai ancora chiesto su come ce so morto qua, vero? »

Ebbi l'impressione che si stesse chiedendo la mia stessa cosa, come facessi a empatizzare con qualcuno che non avevo vissuto, che non avevo frequentato, con cui non avevo passato gli anni.

« Non voglio costringerti a parlarne se non vuoi. Sono libero con te come tu lo sei con me. »

« Ma la curiosità ti è venuta. »

Mi sentii quasi in uno scontro ora che i suoi occhi senza colore mi guardavano.

« Antonia mi ha spiegato per sommi capi cos'è successo pochi giorni dopo che mi ero trasferito, » mi sbrigai a chiudere la conversazione « non le ho chiesto altro.
Non ho voluto sapere altro, non ci credevo nemmeno.»

Ci sostenemmo con lo sguardo a lungo.
Un umano e un ragazzo che avrebbe ancora voluto esserlo ma era stato strappato alla vita troppo presto.
Fu un approccio quasi normale, più evoluto rispetto a settimane fa.
Era quasi ora di cena, ma la fame era passata in secondo piano da quando avevamo intavolato quell'argomento.

« Non voglio sapere nulla se non te la senti. »

Il silenzio mi ingoiò vivo, il suo e di conseguenza anche il mio.

« Non avrei mai pensato che uno sconosciuto si interessasse così a me. » disse d'un colpo, mi lasciò senza parole.

Continuai a ripetermi in testa che mi sarebbe piaciuto riuscire a prendergli la mano perché con quel gesto gli avrei comunicato tutto quanto senza dirgli niente.
Un giorno mi avrebbe detto cos'era successo, Manuel lo avrebbe raccontato e vissuto di nuovo e io sarei stato lì ad ascoltarlo.
Cercai nella mia mente qualcosa, qualsiasi cosa a cui aggrapparmi per non piangere.
Forse la mia reazione avrebbe provocato una sua risata. Non ero mai stato bravo a sopprimere le lacrime quando salivano in superficie, ma ci provai lo stesso: per lui.
La buttai sul ridere ma scansai la via delle lacrime.

« Sconosciuti... chissà perché ma pensavo avessi avuto molte spasimanti in vita.»

Fui solo io a smorzare con una risata nervosa, lui mi guardò soltanto.

« Non c'ero più abituato. È 'na bella sensazione.»

Mi alzai, scossi il capo per annuire. La mia inappetenza continuava.

« Credo andrò a farmi una doccia, mettermi il pigiama e guardare un film al pc. Non ho voglia di cucinare. » blaterai, rimettendo la sedia sotto il tavolo.
Mi ero voltato per circa cinque secondi, non li contai.

« Grazie. »

Mi girai di nuovo sorridendogli.
Era il primo sorriso sincero che forse mi risultò spontaneo dopo tanto tempo.
Anch'io mi sentii una piacevole sensazione addosso, anche in quel caso non sapevo descriverla. Forse era quello il segreto: non avere le parole perché nulle.

Manuel incrociò le braccia al petto.

« E 'pe quanto riguarda le spasimanti, » mi apostrofò fiero « me la cavavo abbastanza, sì, anche se prima di diventare un fenomeno fantastico, ce stava un po' de siccità! »

Mi diressi quindi verso il bagno ricoprendo lo spazio con la mia risata senza osservare la sua espressione.

Immaginai che anche lui, stesse sorridendo.


 

Anche quel Natale passò.
Alla fine, cedetti e andai a cena dai miei, mia nonna invece, andai a trovarla la mattina della vigilia.
Non era stata una brutta serata, ma per tutto il tempo che ero rimasto nella mia casa, quella che mi aveva visto crescere, cadere, mettere il broncio e piangere le prime volte, dove avevo coltivato testardaggine e prime consapevolezze, non so perché, avvertii la mancanza di qualcosa.
Forse, la magia si era spenta definitivamente per quel periodo festivo. Forse avevo troppe volte lanciato uno sguardo alla finestra aiutata in salone e che dava sul giardino, fuori e il fatto che mi aspettassi una lieve brezza investirmi, anche minima che fosse. Mio padre non se ne era accorto, mamma invece mi disse che le sembravo strano. Ma sapevo che non era solo per quello. Ero strano perché non avevo portato né presentato nessuno a cena anche quell'anno e anche perché mi barcamenavo alle domande dei miei inserendo più che potevo il mio lavoro nelle loro domande o qualche aneddoto comunque collegato ai miei studenti. In quello mi accorsi piano piano di aver raccolto una delle caratteristiche di mio padre. Lui infatti, non sembrò notare il mio aspetto impaziente e insofferente dopo il dolce e i regali, affinché ritornassi a casa.
A fine serata avevo varcato finalmente la soglia della mia nuova casa abbastanza tardi. Un viaggio silenzioso tranne che per i suoni che mi investivano dato il finestrino abbassato per rilassarmi alla guida e l'atmosfera data dalle luci di decorazioni sospese per angoli della città che incontravano i miei occhi.
Buttate le chiavi nel contenitore, tolto il cappotto, mi sfilai le scarpe e mi buttai sul letto senza nemmeno togliermi la camicia o i pantaloni.

Simone Balestra hai le pile scariche per la socialità. E non solo a Natale.

La finestra era chiusa e infatti non mi preoccupai di sentire Manuel provocare quel vento all'interno della stanza.
Sorrisi nella penombra, non avevo acceso le luci.

« Serata difficile? » lo sentii vicino, forse si era avvicinato al letto.

« Mh mh » mormorai. Mi era caduta la testa sul cuscino, gli occhi non volevo aprirli ma non perché avessi sonno.

Credo solo sentissi il bisogno di immaginarmi quel ragazzo reale.

« Vedila così: sei sopravvissuto »

Risi appena divertito.

« Non ho ricevuto né ritirato il mio premio degli ultimi tre anni. »

Ci riflettei bene, poi. Il mio premio per arrivare alla fine di quella serata, era stato ritornare da lui. Solo che dirglielo sarebbe stato come ammettere di essere un folle. Un completo folle.

« Secondo me se fai richiesta te lo fanno arrivà a casa senza manco pagà la spedizione. »

Era una battuta semplice ma riuscì comunque a strapparmi un sorriso.

« Me dispiace... » continuò Manuel. Forse mi immaginai il vento accarezzarmi la schiena sopra la camicia. Mi sforzai di rievocare la sensazione fisica di una mano calda o tiepida. « Ne vuoi parlà? »

« In pratica non è stato così male... solo che ai miei sembra strano che non ci sia nessuno nella mia vita. Soprattutto perché ho preso un appartamento da solo. » borbottai contro il cuscino, ma sapevo che Manuel riusciva a sentirmi in ogni caso.

« Ce tengono a vederti felice. »

Sospirai.

A quello Manuel si fece più acido in voce, la brezza simile a un risucchio.

« Che ho detto? »

« Nulla, » mi alzai lentamente portandomi sui palmi delle mani, il corpo venne trascinato sul materasso senza fretta « è che a volte preferirei fossi stupido o mi dicessi ciò che non so, Manuel. »

Non lo punzecchiai, anzi mi limitai a fargli notare con morbidezza quello che anche io sapevo.

« Mi vogliono felice, ma prima vorrei essere sicuro di esserlo io con me stesso. » mi misi a gambe incrociate.

Era il 26 del mese, le tre di notte forse, - non ne ero sicuro perché non avevo minimamente dato retta all'orario sul telefono o sulla sveglia sul comodino - e svuotai parte di ciò che mi aveva corroso da dentro, rovesciandolo addosso a lui.

« Sei stato male quando c'avevi qualcuno? »

Non mi sentii giudicato. Respirai profondamente prima di rispondere.

« Non ho nessuno perché non è stato facile guarire dall'ultima volta. E non è più ricapitato. E non voglio forzare le cose affinché accada. Come mi ha sempre ripetuto mia nonna: ogni cosa ha il suo tempo. »

« E i tuoi lo sanno? Voglio dì- »

« Certo che lo sanno, perfino il mio ex coinquilino - da cui sono scappato - lo sapeva, le prime volte che ho provato ad attaccarci bottone prima di capire che fosse impossibile stabilirci un rapporto. »
Non so perché stessi fissando le mie mani, sapevo di avere Manuel di fronte o di fianco a me, avvertivo il suo sguardo vuoto.

Scrollò le sue spalle.

« E allora tu ignorali. »

« Sto meglio, ho il mio lavoro, sono autonomo, ho la mia vita, entro ed esco da casa quando voglio...»

Cercai di giustificarmi, nemmeno io so da che cosa. « So che non è la stessa cosa, ma potrei stare peggio. Potrei stare male essermi fratturato qualcosa, ma sono sano, ho un lavoro - »

« Potresti vivere ancora coi tuoi. »

Annuì e colsi la comprensione nei suoi occhi.

« So che sono strano, molte volte me lo ripeto anche io, sottovoce.»

Manuel scosse la sua testa bianca.

« Quelli strani sò altri. »

Inclinai la testa.

« Ad esempio? »

« L'inquilino prima de te aveva un po' de abitudini particolari come afferrare le posate co' le dita dei piedi, spegnere e riaccendere la luce tre volte ogni mattina oppure recitare il rosario ogni notte prima de dormire. »
Risi senza ritegno. Manuel aggiunse qualcosa bisbigliando, un lieve fruscio che avrebbe accarezzato le foglie « Anche se credo che quello fosse pe' colpa mia. Me facevo detestare. »

Misi le mani avanti.

« Non lo biasimo, Manuel »

« Seh, anche il fatto che non se lavava pe' quattro-cinque giorni de fila era 'na cosa strana. Poi prima de andarsene - per merito del sottoscritto - » Manuel si indicò fiero « s'era fatto allungà dei baffi orrendi, l'ultimo giorno quindi come ultimo saluto, glieli ho tagliati nel sonno. »

Arricciai le labbra. Guardai Manuel come facevo sempre. C'era qualcosa di diverso e mi battevo dentro, mi aggrappai a tutto pur di non cedere a quell'idea insana e svalvolata. In uno strano meccanismo che spinse un organo rosso e fondamentale ad agire, non controllai il groviglio che mi portavo appresso da un mese e mezzo, quando uscirono dalla mia bocca le parole successive.

« Vorrei tanto che fossi reale. » sussurrai.

Mi guardava e io guardai lui. Strizzai un pezzo di piumone con una mano. In quel momento desiderai essere anche io trasparente se non era possibile averlo in carne ed ossa.
Desiderai diventare incorporeo e leggero, non avvertire niente che potesse farmi male o farmi soffrire per qualcosa che non potevo avere.
Quello era successo in un mese e mezzo e dio solo sa se sarebbe durato ancora.
Rabbrividì al pensiero di Manuel che non spuntava più per la casa o di Manuel che non mi teneva compagnia quando correggevo le verifiche o guardavo un programma spazzatura in televisione.

« Scusami, straparlo, sono stanco - »

« Simone »

Mi morsi il palato interno e sentii meno dolore di quello che forse stava provando lui anche se non aveva più organi a cui fare appello. « Va tutto bene. »

Annuì a più riprese.
Mi pizzicavano gli occhi.
L'unico modo per evitare che si inondassero era chiuderli e togliersi il pensiero.
Non avevo mai vissuto per istinto se non nei miei primi anni di vita, i più ingenui, i più sereni.
Era una carta che ritornai a giocare forzatamente perché ormai il dubbio si era insinuato dentro di me.
Non sapevo come avrei fatto. Ero certo che Manuel non si sarebbe offeso e non avrebbe sentito nulla dato il suo stato.

« Manuel, puoi chiudere gli occhi? » chiesi.

Fu lui ad annuire senza rispondere. Lo vidi abbassare le palpebre e rimanere immobile davanti a me.
La sua fiducia che mi concesse, mi fece quasi venire da piangere il doppio, ma non diedi ascolto a quella sensazione.
Mi mossi da solo senza costringermi, mi sbilanciai in avanti con la schiena e incurvai le labbra. Mi sembrò di toccare il vento.
Durò poco, percepii un soffio lungo, rilassato.
Risultai nervoso e indietreggiai dopo cinque secondi, fu quello l'istante in cui mi decisi ad aprire gli occhi.
Immaginai che cosa stesse pensando Manuel proprio quando decisi di staccarmi.
Avevo imparato che nonostante la sua forma la sua intelligenza era anche più forte della mia. Avevo imparato a capire le sue espressioni e cosa non gli piaceva. Era incredibile che vivessi con qualcuno senza effettivamente poterlo dimostrare. Manuel rimaneva ancora immobile, lentamente mi diede di nuovo i suoi occhi privi di colore, mi diede la sua attenzione silenziosa.
Mi sentii uno stupido, ma anche tanto libero.

« Hai sentito nulla? »

Ingenuo, speranzoso e incline al romanticismo nonostante mi fossi rintanato in un angolo protetto della mia testa. Angolo a cui era stato tolto il lucchetto dal cancello da pochi minuti.
Manuel mi guardava e io pensai che forse se fossi stato anch'io un fantasma, uno spirito, non sarebbe stata così evidente la mia delusione perché sapevo che era impossibile. Me lo aveva pure spiegato quando glielo avevo chiesto. Avvertii il fruscio sul viso, le sue mani si mossero sul mio viso. La sensazione sembrava tanto simile al phon che passavo sui capelli in modalità 'freddo'. Chiusi gli occhi e risentii prepotente la voglia di piangere.

« Simone, apri gli occhi. »

Dovetti portare una mano al petto e respirare piano per calmarmi. « Simone » Manuel aveva scelto di cantarmi una ninna nanna con quella voce « apri gli occhi, per favore »

« Un inquilino innamorato ti è capitato prima, qua dentro? » chiesi.

Non so cosa mi aspettassi, non sapevo come uscirne. Se avessi dormito forse non sarei stato così patetico. Un uomo sulla soglia dei trent'anni che viveva un sentimento paranormale: ero già pazzo oltre ogni regola e misura, un giorno lo avrei raccontato e mi avrebbero mandato a quel paese, ma a Manuel, questo, non sembrava importare.

« Non mi eri ancora capitato tu. »

Avrei voluto davvero respingerlo e non attraversarlo con la mano, toccarlo.
Avrei voluto impormi di dormire e dargli la buonanotte, dirgli qualcosa mandarlo via.
Manuel non sentii le mie ragioni - che anche io dimenticai di ascoltare - e forse nemmeno le sue, perché si protese verso di me e con i miei occhi ancora aperti e vigili nella penombra, posò la sua bocca sulla mia.

Mi sentii accarezzare il viso, mi vennero i brividi e chiusi gli occhi di conseguenza.

Non feci nulla.

Rimansi fermo.

Non riuscivo a fare nulla, perché sapevo di volerlo.

Avevo accettato di volerlo, mi scordai che la risposta a quel desiderio fosse negativa.

Poi, lo sentì mormorare e allora mi svegliai: ripresi consapevolezza.

« Hai le labbra calde » credetti di morire su quel letto.

« Riesci a sentirle? » borbottai.

Quel vento mi accarezzò le labbra, erano le sue dita. Credetti di morire una seconda volta.

« Non riesco a percepire i sapori, ma il calore lo sento. Però forse sono pure morbide. Non lo so credo sia un po' come te che mi vedi. »

Mi coprì le guance con entrambe le mani: ora, ero completamente caldo.

« Ti... ti era mai successo?»

Lo guardai. Manuel sorrise, mi sembrò un bambino intrappolato dentro una forma leggera ma anche troppo pesante per lui.

« Sai me avevano già baciato prima - » poi così come rise mentre scherzava, si fermò, aggiunse un sospiro « no, è la prima volta, in realtà. Che sento qualcosa in questa forma. »

Restammo in silenzio.
Non mi sentii in imbarazzo, avrei voluto solo restare nella penombra con lui dentro la mia stanza, per sempre. Sarebbe stata la mia scelta definitiva se solo con un solo battito di ciglia, fossi stato in grado di fermare il tempo.

« Dovresti dormire, è tardi. »

Manuel me lo fece notare e mi sembrò la cosa più stupida da fare, ma aveva ragione. Sarei stato distrutto l'indomani, - anche se sarebbe stato un giorno libero in un mese di festa - ma sarei voluto restare in quel modo, così, fermi a guardarci. A sperare che io diventassi come lui.
Due entità diverse in apparenza, ma che si capivano allo stesso modo all'interno.

« È vero...per caso vuoi restare qui? » vidi Manuel dischiudere le labbra. « Non a dormire, so che non dormi, voglio dire qui, » tastai il materasso « disteso.»

Anziché girovagare in giro per casa, pensai.

Al suo cenno di assenso mi infilai sotto il piumone di conseguenza, senza la voglia di svestirmi e restando in camicia. Respirai a lungo e mi rannicchiai su un fianco. Poco dopo ritrovai la brezza di prima a soffiarmi dietro il collo, sulla nuca.
Il cuore mi arrivò in gola, ma non avevo paura. Era impossibile averne: a suo modo, Manuel mi stava abbracciando.

« Simone va bene se sto così? Te da fastidio? »

Mi portai indietro appena, i miei capelli sulla nuca vennero solleticati.

« Assolutamente no. »

Guardai la finestra chiusa davanti a me, le lucette a neon rosse sopra la tenda. Non potevo augurargli una buonanotte normale perchè lui non avrebbe dormito.

« Allora... mh, passa una buona notte, Manuel » dissi incerto.

Mi chiesi quanto sarebbe rimasto con me e se quel tempo mi sarebbe bastato.
E dopo la testa mi abbandonò: mi addormentai in poco tempo, cullato e stretto da quella fantasia stupenda di ragazzo, un misto di aria e vento che mi accompagnavano.

« Buonanotte a te, Simone »



 

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4060711