La Bizzarra, Anacronistica Storia di un Cavaliere, una Londinese ed un Faro di IlakeychanMorgain28 (/viewuser.php?uid=82229)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le Cose Che Detesto ***
Capitolo 2: *** Le notti di Albert ***
Capitolo 3: *** Di un Museo ed un Faro ***
Capitolo 1 *** Le Cose Che Detesto ***
Green 1
La Bizzarra, Anacronistica Storia di un Caveliere, una Londinese ed un Faro
Prima collaborazione tra me, Morgain28, ed Ilakey_chan. Un'idea nata
dal delirio sul Green Knight e la sua situazione sentimentale, che
abbiamo voluto realizzare a tutti i costi! Speriamo vivamente che ci
accompagnerete alla scoperta di un cavaliere che, diviso tra due mondi
diversissimi, troverà, infine, un posto nella vita di una
modernissima, pazza londinese dei nostri tempi. E di come lei lo
troverà nella sua.
Dedicato a Bertilak, Cavaliere Verde, mio imperituro amore, e a noi, nella nostra prima, pazza avventura.
Capitolo 1: Le Cose Che Detesto
Il faro rosso e bianco spiccava imponente sulla città di Plymouth. In
qualunque punto uno si trovasse, avrebbe potuto vedere la grossa struttura
innalzarsi, orgogliosa e solitaria, sugli abitanti della città, abbracciando con
fare quasi protettivo la baia, ogni notte. Al momento, tuttavia, il faro
riposava tranquillo, lasciando il posto ad un pallido sole i cui raggi passavano
a fatica attraverso la coltre di nubi grigio scuro, una seria minaccia di
pioggia.
Dal suo appartamento al secondo piano, Eva O'Connel fissava il cielo
in subbuglio con espressione imbronciata, tentando di scacciare il cattivo
presentimento che le attorcigliava lo stomaco: la promessa del temporale non
faceva altro che rendere il suo umore, già teso come una corda di violino,
ancora più nervoso. Eppure, tutt'altra era stata la sua reazione quando aveva
saputo che, dopo un'infinità di tempo e impegno, avrebbe realizzato uno dei suoi
sogni più arditi: entrare da dipendente nel Museo Elisabettiano di Plymouth.
All'epoca, quando la sua ex professoressa di Letteratura Inglese le aveva
comunicato la notizia, aveva creduto di poter toccare il cielo con un dito,
nonostante sapesse quali e quanti cambiamenti la scelta di accettare avrebbe
implicato nella sua vita; adesso che il momento era arrivato, l'unico sentimento
che provava era un'acuta voglia di vomitare.
Si voltò verso lo specchio
intero che occupava quasi tutta la piccola stanza semivuota, che portava ancora
i segni del suo recentissimo trasferimento in città. Distrattamente, passò una
mano a lisciare una grinza sui sobri pantaloni neri che aveva comprato per
l'occasione, nella speranza di darsi un minimo di credibilità; poi, rise di se
stessa. Non era facile darsi un tono, quando ti ritrovavi il viso lentigginoso e
la struttura fisica di una quindicenne, per di più bassina, pur avendo dieci
anni di più. Le efelidi le costellavano gli zigomi pallidi e paffuti e il naso
piccolo, che spariva dietro alla montatura degli occhiali quando leggeva; le
lentiggini continuavano il loro tragitto, diffondendosi per il resto del corpo e
non accennavano a diminuire nonostante la lotta agguerrita in cui Eva le aveva
ingaggiate fin dall'adolescenza - stava così poco al sole da sembrare un
fantasma. Ma la cosa che più la infastidiva in assoluto era un'altra: il rosso
intenso dei suoi capelli, ereditati chissà da quale antenato irlandese nella
linea di sangue di suo padre. Quel colore, oltre a renderle praticamente
impossibile vestirsi ogni mattina, era di un'appariscenza inconcepibile; se
avesse voluto fare la spia di professione, ragionò, a causa della sua
capigliatura non ne avrebbe mai avuto la possibilità. Per quella, e per la sua
innata goffaggine.
Quella mattina, aveva cercato di rimediare
attorcigliandoli in una crocchia severa sulla nuca, ma la pettinatura non
smorzava granché l'effetto torcia che le provocavano. Sua madre, orgogliosa
posseditrice di una sobria chioma nera, per scherzare, andava dicendo che
avrebbe fatto meglio a chiamarla Anna; per scherzare, e per irritarla
deliberatamente a morte. Il che non era poi così difficile a farsi, dato che Eva
incarnava consapevolmente tutte quelle dicerie che pullulavano sulle persone con
il suo colore di capelli; irritabile, litigiosa e testarda. E fiera di esserlo,
si disse con orgoglio. Nonostante quel suo carattere focoso, l'umidità di quella
città sembrava aver spento tutta la sua baldanza; si sentiva nervosa come poche
volte lo era stata in vita sua. Il suo flusso di coscienza terminò bruscamente
quando avvertì un insopportabile puzzo di bruciato provenire dalla cucina; si
diresse verso la stanza correndo, rischiando di rompersi l'osso del collo
scivolando su un tappeto, ma non fece in tempo ad evitare il disastro: fissò con
disgusto i resti della sua colazione, che pur concepita come una fetta di pane
tostato, assomigliava di più ad un tizzone carbonizzato. Con cautela, lo gettò
nel secchio sotto i fornelli, il naso arricciato per l'odore pungente: perfetto,
persino il tostapane aveva deciso di fare il difficile, quella mattina.
Fantastico.
Mentre apriva la finestra nella speranza di respirare di nuovo,
il suo orologio da polso, programmato con cura per ovviare ad una sua certa
tendenza ad essere sempre in ritardo, cominciò a suonare. Eva si bloccò di
colpo, presa dal panico: non aveva tempo di fare colazione, se voleva arrivare
in tempo alla fermata dell'autobus, e rifiutava di concepire l'idea di arrivare
meno che puntuale, ad ogni costo. Afferrò la pesante borsa in fretta, chiuse a
chiave l'appartamento e caracollò giù per le scale alla volta della fermata
dell'autobus per la strada affollata del centro. Corse a perdifiato, andando a
sbattere contro diversi passanti sistematicamente, i piedi doloranti per lo
sforzò, e urlando scuse sconnesse; arrivò in tempo per un soffio, esausta e
accaldata pur in quella fredda giornata di ottobre. Cinque minuti dopo, si
dirigeva alla volta del suo posto di lavoro, pigiata tra un passeggino ed un
uomo di mezza età che emanava un forte odore di sigaro. Un'altra cosa da
annoverare tra le tante che detestava, decise: gli autobus pieni del lunedì
mattina. Aveva già percorso quel tragitto il giorno precedente, per evitare di
sbagliare strada; il tratto dalla fermata al Museo era misericordiosamente breve
e diretto. Ma la domenica era un altro universo rispetto all'affollamento del
lunedì: l'abitacolo era pervaso dal parlottio della gente, pacato ma che creava
lo stesso un brusio poco piacevole; il respiro della folla appannava i vetri dei
finestrini, in una patina di umidità. Eva ci passò un dito, creando una scia
dritta e netta sul vetro sporco. Cominciava a innervosirsi di nuovo, dopo
essersi ripresa dalla corsa mattutina. Allentò la sciarpa intorno al collo della
giacca pesante. La sua testa si riempì nuovamente di ipotesi e sogni ad occhi
aperti: chissà dove avrebbe lavorato, si chiedeva tra timore ed anticipazione, o
cosa avrebbe dovuto fare. Come sarebbero stati i suoi colleghi? Gli sarebbe
piaciuta? L'autobus frenò all'improvviso, ricordandole dove si trovasse. Mise da
parte le sue riflessioni, prestando attenzione alla strada. Per dieci minuti
osservò il continuo susseguirsi degli edifici: la città prendeva vita sotto i
suoi occhi, il rumore dei clacson echeggiava dall'esterno. Riconobbe il suo
punto di riferimento, la grossa insegna di un ristorante cinese, ancora spenta
ma ben visibile nel suo violento colore rosso fuoco. Un po' a spinte, un po' a
balzi, arrivò all'uscita, scendendo più in fretta che poté nel traffico
cittadino. Poteva già vedere la cima dell'edificio bianco ed alto che era la sua
meta. Saltò giù con la poca agilità che possedeva, evitando una pozzanghera
grigiastra e fangosa per un pelo, mentre gettava uno sguardo all'ora: era ancora
in tempo. Doveva essere un miracolo. Si avvio a passo svelto nella via di fronte
a lei, scalpitando come un cavallo nervoso, fino ad arrivare, finalmente al suo
traguardo: " Museo e Galleria d'Arte della Città di Plymouth", recitavano i
caratteri cubitali incisi sulla facciata dell'edificio. Eva si passò una mano
tra i capelli, ormai inevitabilmente arruffati dalla corsa, un largo sorriso
pieno di aspettativa che si formava sulle labbra nude e sottili: iniziava
l'avventura.
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Capitolo 2 *** Le notti di Albert ***
Nuova pagina 1
Introduzione al capitolo secondo: Mi chiamo (si fa per dire) Ilakey_chan
ed inizio con gioia questa collaborazione con Morgain28, una fanciulla che ho
ossessionato con fumettini su un cavaliere verde : D e su altre amenità (il 60%
delle quali a sfondo slash). Ma chiudendo i blateramenti, vi lascio al secondo
capitolo.
Capitolo 2: Le notti di Albert
Albert era una persona mediamente normale. Ha ventidue anni, un'intelligenza
media, un monolocale nel centro di Plymouth e una famiglia relativamente
benestante.
Faceva un lavoro che detestava, il contabile per un'azienda di mobili, aveva un
colore di capelli che detesta, blu a causa di una vecchia scommessa, e viveva in
una città che riteneva esageratamente caotica.
Albert era come una persona normale solo per metà perché l'altra sua metà era
completamente immersa in qualcosa che lui davvero conosceva, di prima mano.
Ma erano finiti i tempi in cui, nell'antica Camelot, Albert poteva farsi
chiamare Bercilak, il Green Knight, il Cavaliere maledetto e nemico della corte
di Artù.
E per quanto questo possa sembrare strano, Albert era felice di essere solo
Albert e non avrebbe voluto altro.
(Se non fosse che la notte sognava il loro volto, degli altri- il viso di
Morgana, l'odore dell'erba al tramonto dopo una lunga cavalcata sotto il sole,
il maestoso palazzo che poi era crollato e che un tempo fu-)
Ma Albert, che sua madre adorava chiamare Bert, non amava rivangare vecchi
ricordi.
"Bert?" lo chiamò Lucinda, una delle sue colleghe di lavoro. Un'anziana donna di
mezza età che insisteva testardamente nel suicidio ad opera di sigarette e
tabacco.
"Scusami, Lucy, mi sono distratto un momento."
"Mi sembri un bel po' distratto in ogni momento," ribatté Lucinda, acidamente.
Non amava le persone.
A dir la verità nemmeno Albert amava troppo le persone. Temeva di vedere nei
loro volti le fattezze di antichi cavalieri della sua vita precedente.
E allo stesso tempo temeva di vedere solo delle persone anonime che non aveva
mai conosciuto e mai avrebbe conosciuto.
Sua madre gli ripeteva che, effettivamente, era un bel indeciso.
"Sono solo stanco, non dormo molto."
"Baldoria tutte le sere," esclamò Mark, il ragazzo che faceva sempre le
fotocopie per la signora Lucinda.
"Più o meno," mentì Albert, passandosi una mano tra i capelli blu, un tempo di
un castano slavato.
"Qui nessuno viene pagato per dormire, caro mio," sospirò Lucinda, sembrando
quasi, per un momentino, affranta, prima di sbattergli sulla scrivania un
pesante fascicolo marrone.
Irritato dal comportamento della donna, Albert si appoggiò alla scrivania, sulle
braccia incrociate e lasciò ai suoi occhi scuri il compito di fulminare Lucinda
con lo sguardo corrucciato.
Mugugnò qualcosa tra le braccia.
"Cosa hai detto?" domandò Mark, incuriosito, sporgendosi verso di lui.
Albert alzò il volto. "Ho detto che comunque il mio turno finisce fra venti
minuti."
"Renditi utile almeno in questi venti minuti, allora!" ribatté Lucinda,
esasperata dall'inutilità della gioventù moderna, prima di tornarsene nel suo
ufficio.
Con soddisfazione, Albert si immaginò di nuovo cavaliere con la testa del suo
capo Lucy appesa alla sella del suo cavallo.
Quell'immagine gli riportò subito alla memoria sir Gawain, con la sua ciocca di
capelli di donna appesa alla spada, in memoria della fanciulla che per sbaglio
aveva ucciso.
"Oh no," sussurrò Bert, appoggiandosi di nuovo alla scrivania e tentando di
pensare a qualcosa d'altro.
Tornando al motivo per cui il povero Bert non poteva eseguire i suoi doveri di
contabile, bisogna specificare che non era una mera scusa da ufficio.
Albert, soprattutto quando si avvicinava il Natale, aveva dei seri problemi di
insonnia che nessuna magica pillola prescritta era riuscita a curargli.
Così Albert aveva trovato il proprio personale metodo di cura, forse un po'
placebo, forse un po' melodrammatico.
Nelle notti senza fine in cui ancora cavalcava nella foresta di Camelot, Albert,
un tempo Bercilak, usciva di casa, prendeva la sua piccola bicicletta rossa che
arrugginiva nel sottoscala da anni e si dirigeva al faro.
Laggiù poteva rimanere seduto anche per delle ore a guardare il mare ed
ascoltare il richiamo disperato di quel faro rosso e bianco. Come il richiamo di
una creatura solitaria che cerca un compagno.
E Bert si sentiva così, solo in un mondo che non gli apparteneva del tutto.
Lì, al faro, a volte riusciva a dormire, a volte, semplicemente, riusciva a
raggiungere la pace.
Ma quella notte del 12 ottobre non fu la pace a raggiungere Bertilak.
Fu una ragazza che, da lontano, stava camminando verso di lui, senza nemmeno
notarlo.
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Capitolo 3 *** Di un Museo ed un Faro ***
eva2
Capitolo 3: Di un Museo ed un Faro
Un numero imprecisato di ore dopo, le dita lunghe e lentigginose di Eva
volavano sulla tastiera di un apparentemente vetusto computer in una
sala buia e appartata dello schedario del museo. Il cervello del mostro
preistorico lavorava alacremente, mentre Eva digitava veloce i codici
dei nuovi arrivi della galleria numero sei. Una tazza di caffè e
l'involucro di un panino giacevano inutilizzati accanto alla tastiera.
Eva si scostò una ciocca di capelli dal viso, del tutto
concentrata sul suo lavoro, gli occhi stanchi per aver fissato a lungo
lo schermo luminoso. Ancora uno, pensava speranzosa, mentre barrava le
ultime cifre dell'elenco. Appoggiò la schiena sulla sedia,
stirando i polpastrelli indolenziti. Quel lavoro non era poi molto
diverso da quello di una segretaria, considerò: avrebbe potuto
farlo benissimo senza la sua laurea ad Oxford. La sua bocca si
piegò in una smorfia scontenta, nella semioscurità
dell'ufficio dalle pareti grigio chiaro. C'era arrivata quella mattina,
dopo un infinito numero di peripezie, coi capelli scarmigliati e le
guance arrossate, accompagnata dall'algida direttrice del museo. La
donna, una bionda alta e gelida sulla cinquantina, l'aveva guardata
come si guarda uno scolaro indisciplinato, soffermando gli occhi grigi
sulla sua chioma in disordine. Con tono condiscendente, l'aveva
ragguagliata sulle credenziali del museo e sulla responsabilità
che essere un suo dipendente comportava, guidandola attraverso le
sei gallerie che componevano la struttura. Eva aveva corso il
serio rischio di scivolare sul pavimento pulito di fresco; era riuscita
a ricomporsi un attimo prima che il suo nuovo capo tornasse a
guardarla, indicandole una porta nell'angolo più sperduto
dell'edificio: un archivio che conteneva i nuovi arrivi, un luogo pieno
di scaffali con un solo ed unico computer, che avrebbe potuto benissimo
essere un pezzo da museo anch'esso. Poi le aveva spiegato quali
sarebbero stati i suoi compiti, sempre con quell'atteggiamento
superiore che aveva avuto un effetto immediato sui suoi nervi
già logori: l'aveva fatta imbestialire. Quando la signorina
Walker se ne era andata per la sua strada augurandole una buona
giornata, Eva aveva dovuto combattere una crociata contro la parte
adolescente di sé che avrebbe voluto farle una meritatissima
linguaccia. Si era redarguita dicendosi che, malgrado le apparenze, lei
non aveva più quindici anni, e si era messa a lavoro, con una
fitta di rimpianto per il modernissimo portatile che riposava
abbandonato sulla scrivania della sua camera da letto.
Eva amava il passato e le leggende
arturiane con passione viscerale, ma era profondamente consapevole che
non avrebbe potuto vivere in nessun altro secolo, se non il suo. Era
dipendente dalla tecnologia in modo quasi patologico, e sapeva
destreggiarsi abbastanza, se si escludevano quegli elettrodomestici che
avrebbero dovuto garantirle la sopravvivenza, tipo i forni a microonde.
Perciò, dover lavorare con quel vecchio mostro la costernava
abbastanza; comunque, lamentarsi era inutile, ed era tutto per una
buona causa: dopo qualche tempo di lavoro di ufficio, avrebbe potuto
dedicarsi a quello sul campo, le sembrava di aver capito. Con
quell'obbiettivo in mente, nulla l'avrebbe fermata. Si mosse sulla
sedia: i pantaloni le tiravano. Da domani, decise, avrebbe indossato i
suoi soliti vestiti. Dopotutto, era completamente sola in quella
piccola stanza e le pareva di aver compreso che lo sarebbe rimasta: per
quello che la signorina Walker ne sapeva, avrebbe potuto persino venire
a lavorare nuda. Ridacchiò all'idea, alzandosi dalla scrivania.
Erano le sette e mezzo passate: fine del primo giorno. Raccolse le sue
cose e si avviò fuori dall'archivio, con la segreta speranza di
non perdersi, qualcosa che tendeva ad accaderle spesso.
Attraversò varie gallerie, coperte di quadri ed illustrazioni
antiche, e reperti accuratamente conservati in teche di vetro; un
quadro in particolare attrasse la sua attenzione. Era una
raffigurazione di Lancillotto e Ginevra, una delle tante esistenti al
mondo. Il cavaliere e la regina, chini sull'erba, si abbracciavano
strettamente, le teste vicine, i capelli d'oro di lei che contrastavano
con l'armatura grigio scuro che copriva il petto di lui. Eva si
fermò a guardare il quadro con un sorriso ironico. Si chiedeva
spesso se quel supposto grande amore fosse stato tanto impossibile come
lo aveva raffigurato la storia successiva: per quanto la riguardava,
trovava che i rapporti tra eroi ed eroine arturiane fossero un po'
troppo...liberi, per incarnare quello che per lei era l'amore vero. Eva
aveva un'idea ben precisa di cosa si trattasse: l'aveva visto negli
occhi del gigante rosso e lentigginoso che era stato suo padre, il cui
aspetto ricordava più quello di un avventuriero da far west che
quello di uno stimato professore di Letteratura Antica, mentre
osservava sua madre, qualunque fosse il contesto, comprese le loro
frequenti liti. L'aveva visto negli occhi di sua madre fino alla fine,
fino a quando i capelli rossi come i suoi si erano fatti radi per la
chemioterapia, e la sua pelle era diventata più bianca delle
lenzuola del letto di ospedale che l'avevano ospitato nel momento
peggiore della malattia. Dopo, nulla era più stato lo stesso per
sua madre. Ecco, quella era la sua idea di vero amore,
pensò. Strinse le labbra, mentre sentiva gli occhi gonfiarsi di
lacrime. Le ricacciò indietro, allontanandosi dall'immagine in
fretta, camminando spedita finché non fu fuori, sulla strada.
Salì sull'autobus come in trance, ancora rattristata: le
succedeva sempre quando pensava a suo padre; il dolore e la perdita
erano ancora troppo freschi perché accadesse il contrario.
Assorta com'era nei suoi pensieri, non si accorse di aver sorpassato la
sua fermata. Ancora e ancora. Quando riprese coscienza di dove si
trovasse, si rese conto di essere finita praticamente dall'altra parte
del globo rispetto al suo appartamento. Con un moto di stizza, si
affrettò a scendere dall'autobus, maledendo sé
stessa e la propria distrazione: ora avrebbe dovuto prendere un taxi,
dato che non aveva idea di quale fosse l' autobus che potesse
riportarla in centro a quell'ora.
Sempre che le bastassero i soldi
che aveva con sé. Di bene in meglio. Quando si districò
dal mare di corpi che popolavano l'abitacolo, in modo non molto
differente dalla mattina, sì ritrovò di fronte alla
spiaggia. Nel buio, la distesa del mare solcato da qualche barca era
illuminata ad intermittenza dalla luce del faro solitario. Eva si
sentì rincuorata: poteva vedere il faro dal suo appartamento,
perciò, teoricamente, se si fosse avvicinata camminando lungo la
spiaggia si sarebbe ritrovata vicino a casa. Con quella speranza, si
diresse verso la riva, facendo scivolare i piedi fuori dalle lucide
scarpe di vernice nuove che rifiutava categoricamente di sporcare. Si
avviò nel buio, confortata dalla luce del faro, il rumore del
mare che spazzava via i pensieri tristi. Cammino a lungo, a distanza di
sicurezza dalle onde che si infrangevano accanto a lei ritmicamente,
riflettendo su tutto e niente. Il mare era una delle cose che
più aveva rimpianto, dopo essere andata a vivere a Londra, poi
ad Oxford. L'aveva sempre trovato estremamente rilassante per i nervi.
Soprattutto per i suoi, che parevano sempre a fior di pelle. Pensare
alla sua indole litigiosa le fece venire in mente la cocente
frustrazione della mattinata. Più ripensava alla condiscendenza
della sua datrice di lavoro, più sentiva il suo umore
infiammarsi. Salutò l'irritazione con gratitudine: tutto era
meglio che rivivere la sofferenza che le portava il pensiero di suo
padre. La luce del faro si faceva più intensa a mano a mano che
si avvicinava; e più la luce cresceva, più la rabbia le
ruggiva nel petto. Eva detestava essere giudicata dal suo aspetto
vagamente da folletto irlandese; le era successo più di una
volta di non essere presa sul serio, proprio per quel motivo. Davvero
un peccato, non poter essere tutte algide e bionde, pensò. Un
attimo dopo, come spesso le accadeva, lo stava urlando alla spiaggia
deserta: “ Ma insomma! Cosa posso farci, se ho l'aspetto di
un'adolescente appena entrata nella pubertà!?”,
esclamò all'indirizzo della sua datrice di lavoro, augurandosi
che si trovasse molto, molto lontano. “ Non si può mica
essere tutte bionde e seriose!”, continuò, battendo i
piedi a terra come una bambina e consapevole dell'infantilità
delle sue azioni, “ Se avessi potuto scegliere, sarei stata una
bionda leggiadra anche io, invece che un microbo rosso e goffo. Peccato
che così non sia stato. La prossima volta, si cerchi
un'impiegata sul catalogo delle modelle di Vogue!” A forza di
dimenarsi, si ritrovò all'improvviso distesa a terra, la bocca
piena di sabbia. Si voltò a pancia sopra, sputacchiando con
disgusto: “ Ma...ma che schifo!”, urlò, oltraggiata: persino il suo equilibrio era contro di lei, quel giorno. Ma sì può?
Fu allora che lo sentì.
Durò un momento, ma fu perfettamente udibile nel silenzio della
spiaggia deserta. O forse, non così deserta, data la risatina
incerta ma divertita che era partita da un punto imprecisato alle sue
spalle. Eva ruotò su se stessa, troppo sul chi vive per essere
spaventata; in quel momento, la luce del faro illuminò la figura
seduta di un ragazzo. Doveva avere più o meno la sua età,
ma a causa della luce intensa non riusciva a distinguerne bene i
lineamenti del viso. Quello che non poté fare a meno di notare
fu il blu intenso della sua capigliatura. Ma al momento, non aveva
tempo per un'analisi approfondita sul perché mai qualcuno
dovesse tingersi i capelli di blu: sentì un fiotto di calore
pari a quello di un'esplosione nucleare salirle su per le guance,
inesorabile; sapeva di essere del colore rosso di una mela matura. E
mentre la consapevolezza si diffondeva in lei, i neuroni
momentaneamente impazziti per il panico, fece la prima cosa che le
capitò in testa: gli indirizzò una convinta, sentita
linguaccia, quella che per tutto il giorno aveva trattenuto. Per poi
fuggire via a gambe levate. Il suo ultimo pensiero coerente, mentre per
la seconda volta correva a perdifiato con le guance infuocate per lo
sforzo e l'imbarazzo alla disperata ricerca di un taxi, fu che la prima
cosa che avrebbe fatto non appena arrivata a casa sarebbe stato un
accurato lavaggio dei denti: sentiva ancora in bocca i granelli di
sabbia. Che schifo.
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