Verbum Dei

di Rumyantsev
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il fuggitivo ***
Capitolo 2: *** La bestia crudele ***
Capitolo 3: *** Ogni cosa ha il suo rovescio ***



Capitolo 1
*** Il fuggitivo ***


Per rendere la lettura più scorrevole ho scelto di riferirmi ai personaggi che in canon sono non-binari (quelli che usano pronomi they/them) con il femminile, tranne che in un caso, nei capitoli che seguono, in cui ho usato il maschile. Non è mia intenzione negare il non-binarismo di questi personaggi e spero che nessuno si offenda, ma mi è sembrata la soluzione più immediata e fruibile che l'italiano ad oggi possa offrire.
Tutte le figure religiose presenti in questa storia sono scritte da me come personaggi di finzione, nello spirito provocatorio e parodistico di Good Omens. Non è mia intenzione offendere o prendere in giro chi crede. 
In questa storia è presente un personaggio originale che è già comparso qua. Le due storie comunque non sono consecutive né collegate in alcuna maniera, non è necessario leggerla per capire questa: ho solo riutilizzato il personaggio.

 

1. IL FUGGITIVO
 

Saint James Park sembrava un dipinto romantico più che un luogo reale nel centro di Londra. I sentieri di ghiaia si snodavano tra pioppi, querce e ippocastani. Negli scorci di lago incorniciati dai salici, le papere e i cigni solcavano l’acqua lasciando scie increspate, brillanti dei riflessi del sole. Nell’aria aleggiava un profumo di terra fresca, rose e gelsomini, mentre si udivano il verso stridulo di un parrocchetto, lo stormire del vento tra le foglie e lo scrosciare sereno della corrente, accompagnati dal festoso zampillio delle fontane. Ogni tanto qualche voce umana di passaggio.
Crowley osservava quella bellezza magica, seduto su una panchina con una bottiglia di vino tra le mani, nella luce soffusa di fine giornata, e pensava che non fosse giusto. Non aveva più un luogo dove andare a rifugiarsi ed era preda del proprio smarrimento. Si sentiva ardere lo stomaco di una rabbia che solo il vino era in grado di spegnere, annebbiandogli i pensieri. La Terra non aveva alcun diritto di essere così bella, non ora che lui se n’era andato.
Non stava pensando a cosa avrebbe fatto dopo. Per quel che lo riguardava, non esisteva neanche un dopo. La vita si era congelata nell’istante in cui lui era andato via e si era portato appresso tutto il senso dell’esistenza di Crowley. Avrebbe voluto che la libellula che gli stava passando sotto al naso prendesse fuoco, che il fuoco si propagasse rapidamente, avvolgendo gli alberi e tutto il parco, fino a lambire Londra, la Terra, e il creato intero. Che l'Inferno e il Paradiso svanissero mangiati dalle fiamme. Tutto sparito, tutto distrutto. Ma non stava accadendo nulla. La libellula si posò su un ciuffo d’erba in riva al lago, indifferente, e il tempo continuò a scorrere inesorabilmente.
Mentre era impegnato in quelle fantasie violente, Crowley non si accorse di ciò che stava accadendo a pochi metri da dove si trovava. Se avesse prestato attenzione, avrebbe avvertito un rumore, come uno strappo, e voltandosi avrebbe visto la figura che era appena comparsa tra i tulipani. Un gigantesco cavaliere in un’armatura che pareva medioevale, con lunghi nastri rossi che partivano dalla sommità della cresta. La visiera era calata ma non avrebbe fatto differenza se non lo fosse stata: l’elmo era liscio senza aperture per gli occhi. Sulla gorgera e sugli spallacci erano raffigurati in bassorilievo una serie di occhi stilizzati, al centro della panzera si distinguevano invece due ruote intersecate intagliate nel metallo. Nella cintura attorno alla vita teneva infilata una frusta e tra le mani stringeva una forca a due rebbi con punte affilatissime, che si stagliavano perpendicolari alla biforcazione.
Se Crowley l’avesse visto l’avrebbe riconosciuto, anche se quella sarebbe stata la prima volta che lo guardava con i propri occhi, e allora avrebbe potuto fuggire. Ma non lo vide finché il clangore metallico del suo incedere non fu troppo vicino, e udì il sibilo di qualcosa che si stava per abbattere sulla sua testa. Solo allora Crowley saltò giù dalla panchina, appena in tempo per evitare che la frustata lo centrasse in pieno. Lo schiocco fragoroso che risultò da quel colpo non portato a segno fece fuggire via tutti gli uccelli dagli alberi vicini.
Crowley era atterrato con la faccia nell’erba. Gli occhiali da sole che indossava erano volati via e la bottiglia gli era sfuggita di mano rotolando verso il lago. Non fece in tempo ad alzarsi che la frusta si era calata su di lui di nuovo, costringendolo a strisciare sul prato per evitarla. Lì si voltò tra l’erba, alzando lo sguardo sul suo assalitore. Allora in un secondo il terrore lo invase, riportandolo alla sobrietà senza bisogno di miracoli.
Il cavaliere si stagliava immenso su di lui contro al cielo rosso del tramonto, con il braccio sinistro alzato a mostrare la forca e la frusta nella mano destra, pronta a colpire ancora. Le foglie degli alberi tutt’attorno a lui e i nastri del suo elmo ondeggiavano sotto l'effetto della brezza che piegava i fili d'erba al suo passaggio.
«Tu…», sussurrò Crowley, per qualche istante troppo sorpreso e pieno di paura per muoversi. Poi, con la mente accelerata in un turbinio di pensieri febbrili, scattò da un lato, finendo dentro a un cespuglio di rosa canina, e si smaterializzò.
 
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Aziraphale trascorreva le sue giornate in Paradiso in maniera ben diversa da come si era immaginato. Come l’idealista che era, si sarebbe aspettato di riuscire a contagiare in fretta gli altri angeli con la sua sete di cambiamento, ora che aveva acquisito il titolo di Supremo Arcangelo. Tuttavia, si era presto scontrato con la realtà. Non solo gli altri Arcangeli lo ascoltavano svogliatamente: dopo un primo colloquio con loro in presenza di Metatron, gli era stato affidato un incarico che lo teneva ben lontano dal Concilio del Paradiso che prendeva le decisioni importanti.
Se ne era accorto in seguito, perché nel momento in cui Metatron gli aveva comunicato cosa avrebbe dovuto fare l’emozione era stata troppa. Se avesse posseduto delle ghiandole sudoripare, si sarebbe inzuppato di sudore. Era un compito di enorme responsabilità, gli era stato detto, qualcosa che mai nessun angelo prima di lui aveva affrontato.
Quello che Aziraphale doveva fare, in sostanza, era educare il bambino Gesù sulle cose della Terra in vista della sua seconda venuta. Una cosa grande davvero, aveva pensato, una cosa che avrebbe fatto la differenza.
Si era recato al primo incontro con Lui, pieno di entusiasmo, pronto ad assistere a ciò che avrebbe dovuto essere la meraviglia più incredibile di tutta la sua lunga esistenza. Il cuore gli palpitava in petto, impazzito, ma… nello spazio bianco e vuoto del Paradiso, seduto a un tavolino basso come quelli che si trovavano nelle scuole elementari sulla Terra, trovò semplicemente un bambino. Il bambino Gesù era un bambino come Aziraphale ne aveva già visti di infiniti nel corso dei secoli. Di circa dieci anni di età, con un viso rotondo di una pienezza tipica dell’infanzia, gli occhi a mandorla e una spazzolata di corti capelli neri. Era intento a far niente, in attesa. Qualcuno aveva pensato di vestirlo con un completo da uomo della stessa sfumatura di turchese che indossavano alcuni angeli, con tanto di cravatta bianca infilata nel panciotto. Aveva alzato su Aziraphale uno sguardo annoiato e aveva fatto un suono tra uno sbuffo e una pernacchia. Aziraphale si era sentito lo stomaco sprofondare sotto alle scarpe.
«Tu sei quello che mi deve insegnare? Possiamo fare presto?», aveva detto in tono lamentoso.
Aziraphale non aveva troppa pazienza con i bambini lamentosi. Sforzandosi di non mostrare alcuna traccia di delusione, si era seduto sulla sediolina accanto a lui e si era presentato. Non avrebbe voluto parlare a Gesù come si parla ai bambini umani, ma gli era uscito senza volerlo quel tono cantilenante e un po’ paternalistico: «Io sono Aziraphale, piacere di conoscerti».
Gesù l’aveva guardato da sotto in su battendo le palpebre: «Azipapale», aveva detto, dopo una piccola pausa, con un sorriso di sfida che gli scopriva una fila di denti in cui si distingueva un incisivo un po’ storto.
Oh no, aveva pensato Aziraphale, Santo Cielo no. «Non è molto… ehm, carino prendere in giro gli altri per il loro nome», quasi non ci credeva di aver redarguito il Cristo.
Non ci credette neanche il bambino: assottigliò gli occhi e fece una smorfia indispettita. «Sono Gesù», disse, «Non mi puoi sgridare».
Aziraphale voleva urlare. Il bambino Gesù, un piccolo arrogante?! Doveva trattarsi di uno scherzo!
«Be’, è importante che voi capiate come comportarvi con gli altri se dovete andare sulla Terra», ragionò nel tono più conciliante che riuscì a produrre.
«Non mi interessa, tanto gli altri devono fare tutto quello che voglio io», rispose Gesù.
Aziraphale capì che il suo sarebbe stato un lavoro lungo e tedioso, ben lungi dalle meraviglie ed episodi eccitanti che si era immaginato.
Negli incontri successivi, Gesù si era rivelato non solo arrogante ma anche completamente intrattabile e irragionevole. Aziraphale aveva preparato per lui tutta una serie di strumenti didattici, tra immagini, testi, musiche, pellicole cinematografiche, oltre che giochi, oggetti e strumenti elettronici, perché Gesù potesse provare con mano cosa voleva dire essere umani. Tuttavia, Gesù si ribellava in ogni modo possibile: quando le cose andavano bene, si limitava a sbuffare e a rifiutarsi di partecipare attivamente a qualsiasi attività avesse preparato per lui. Quando le cose andavano male... be', una volta aveva spazzato via tutti i bicchieri contenenti le bevande che Aziraphale cercava di fargli assaggiare, un'altra volta aveva fatto cadere un cellulare in una tazza di tè, e un'altra ancora si era tappato le orecchie urlando per non dover ascoltare un pezzo di Mozart dal grammofono.
Aziraphale era stato istruito ad essere ossequioso con lui, a chiamarlo Vostra Grazia e obbedire a qualsiasi suo ordine. Per questo motivo anche in quelle circostanze si era sforzato di reagire con condiscendenza e garbo, mantenendosi rispettoso. Finché una volta, semplicemente, non ci era riuscito.
Per la lezione di quella giornata, aveva scelto una copia de Il Giardino Segreto con illustrazioni pop-up che sperava l’avrebbero interessato e gli avrebbero insegnato qualcosa della natura, sia paesaggistica che umana. Ma Gesù lo aveva accolto con la solita insolenza. Gli aveva fatto una serie di boccacce mentre Aziraphale cercava di spiegargli i passaggi edificanti di quella storia e poi, quando aveva avuto il libro tra le mani, guardando l’angelo negli occhi aveva preso una delle pagine illustrate e l’aveva strappata a metà.
In Aziraphale si era acceso un furore che mai aveva provato nella sua intera vita. Era scattato in piedi, ergendosi in tutta la sua statura sul bambino seduto. «Tu», aveva tuonato, «Hai superato il limite! Sei un bambino discolo e insopportabile!». Gli aveva tolto il libro di mano.
Gesù si era fatto piccolo sotto al suo sguardo severo. «Non mi puoi mica sgridare», disse, ma era incerto. Nessuno gli aveva mai parlato in quella maniera.
«Oh posso eccome», esclamò Aziraphale, «Sai qual è il mio ruolo? Educarti, mio caro! E da ora in poi sarà ciò che farò. Niente più giochi, o torte, o cartoni animati. Te li dovrai sudare!».
E così fece. Gesù aveva cambiato atteggiamento, guardava ad Aziraphale con circospezione. Faceva quello che gli veniva detto senza entusiasmo, ma anche senza fiatare. Aziraphale gli leggeva brani tratti da testi di storia, biologia, fisica, geografia, letteratura e Gesù prima lo stava ad ascoltare e poi rispondeva alle domande che gli venivano poste con una vocina riluttante. Era un miglioramento, certamente, ma Aziraphale non era contento. Una pedagogia che non contemplasse il divertimento e il gioco, lo sapeva, era totalmente errata. Inoltre, da quando questi aveva smesso di essere un piccolo tiranno, aveva cominciato a notare in Gesù la tenerezza tipica di tutti i bambini.
Un giorno, Aziraphale gli propose di colorare insieme dei disegni con gli animali, e mentre li coloravano, parlò con dolcezza di quegli animali. Piano piano, Gesù, aveva cominciato a rispondere, prima incerto, poi facendo domande curiose. Alla fine, Aziraphale l’aveva premiato con un piatto di biscotti allo zenzero.
Durante le lezioni Aziraphale senza accorgersene si faceva scappare qualche parola di troppo. Come quando aveva spiegato a Gesù il concetto di spazio-tempo della fisica umana. Lasciandosi prendere dall’entusiasmo gli aveva fatto un monologo accorato riferendosi a problemi che il decenne Gesù non avrebbe mai potuto capire. In quel frangente si era lasciato sfuggire qualche battuta sarcastica sulla noia che avrebbe portato un tempo che non cambia mai, che non si piega con la gravità, che non si dilata né restringe, così come lo voleva il Paradiso. In un'altra occasione Gesù gli chiese perché sulla Terra esistessero le malattie.
«Perché Lei ha voluto così», aveva detto Aziraphale stringendosi nelle spalle.
«Ma di tante malattie si può morire! Perché gli uomini devono morire?», era stata la risposta risentita di Gesù.
«Perché ogni cosa ha il suo rovescio. Non puoi avere la vita senza Morte», aveva risposto Aziraphale.
«Ma se la Terra è così bella come dici tu allora gli uomini non vorranno lasciarla», aveva riflettuto Gesù, «Gli uomini odiano la Morte? È per questo che io li devo far risorgere?».
Aziraphale ci aveva pensato un po’ prima di rispondere: «Non tutti la odiano, no. Molti muoiono troppo presto e questo causa dolore, ma anche il dolore non è che il rovescio di qualcos’altro che vale la pena di avere».
A quel punto sentiva di aver conquistato la fiducia del bambino, finalmente. Il suo ruolo era più piacevole, senza dubbio, ma gli restava addosso l’insoddisfazione di non poter immediatamente realizzare ciò che si era prefissato. Ormai era passato troppo tempo dal suo arrivo in Paradiso e ancora non c’era traccia della rivoluzione che aveva sognato.
Soprattutto, non era scomparso in lui il dolore dell’addio che aveva dovuto dire a Crowley. Solo pensare quel nome gli causava una fitta lancinante al centro del petto.
Crowley era in tutte le cose che Aziraphale faceva. Mentre insegnava la Terra a Gesù lui c’era come un rumore di fondo. In ogni pianta, animale, tradizione, libro, film o angolo dell’Universo, c’era incastrato un ricordo di Crowley. Era intessuto nella trama dell’esperienza di vita di Aziraphale in una maniera inscindibile. Il senso di perdita, poi, si acuiva quando Aziraphale faceva qualcosa di nuovo, pensava un pensiero mai pensato prima, e l’istinto gli diceva chiama Crowley, dillo a lui! prima che la ragione potesse fermarlo o che i ricordi irrompessero con la loro forza distruttrice.
Le giornate in Paradiso non terminavano mai e Aziraphale non era quasi mai solo ma, non appena poteva, si recava nell’unico luogo del Cielo in cui valesse davvero la pena di stare.
Era l’Osservatorio dell’Universo. Una sala gigantesca immersa sopra, sotto e tutt’intorno, nei colori del cosmo. C’erano le nebulose come iridi scintillanti di rosso, porpora e verde, le galassie puntellate di bianco e di giallo, i buchi neri, le stelle che nascevano in vortici turbinosi o esplodevano in una luce accecante. C’erano tutti i pianeti e i loro satelliti. Quando Aziraphale camminava in quella sala, non poteva credere che quelle fantastiche architetture variopinte fossero create in funzione del rigore bianco e asettico del Paradiso, e che potessero smettere di esistere un giorno.
Lontano dall’ingresso, in un angolo remoto, c’era la Terra. Sospesa volteggiava tra il pavimento e il soffitto di stelle. Lì Aziraphale si fermava e lo cercava. Crowley era un puntino rosso di una grandezza infinitesimale, ma per Aziraphale non c’era luce in tutto il creato più brillante della sua. Si perdeva ad osservarla per tutto il tempo che poteva, consolandosi di sapere che lui, seppur lontano, era nel suo stesso Universo.
Di solito lo trovava in Inghilterra, a Londra, cioè precisamente dove l’aveva lasciato. Ma quella volta, quando andò a cercarlo, non riuscì a trovarlo. Girò attorno al globo per cercarlo altrove, ma di lui non c’era traccia in tutta la Terra. Si mosse allora a grandi passi verso la palla verde smeraldo che era Alpha Centauri, ma neanche lì c’era Crowley. Con un senso di panico crescente, scandagliò cercandolo tutti i pianeti vicini, e le stelle, i meteoriti… non era da nessuna parte. Ormai Aziraphale correva senza meta.
«Dove sei?», disse ad alta voce come se Crowley avesse potuto udirlo e rispondergli.
Alla fine si fermò, con la testa che gli girava e il batticuore che si sentiva ad altezza della gola. Crowley, il suo Crowley, era scomparso? Non era una cosa possibile in quanto nessuna creatura poteva essere separata dal creato se non da morta, e Crowley, un demone, era immortale. Allora dov’era? Che fosse tornato all’Inferno? Ma non poteva, pensò Aziraphale, era stato esiliato dopo aver sventato l’Apocalisse e, se c’era qualcosa che all’Inferno certamente non facevano, era perdonare.
Aziraphale capì che non avrebbe potuto continuare a svolgere il suo compito in Paradiso se non avesse prima avuto la certezza che Crowley stesse bene.
Si recò immediatamente presso di Michael che, come tutti gli altri Arcangeli, passava il tempo a chiacchierare e non fare nulla di particolarmente produttivo. Era seduta su uno sgabello a goccia in mezzo al nulla, immersa, appunto, in una conversazione con Saraqael.
«Io devo andare», le disse Aziraphale appena fu alla portata del suo orecchio.
Michael e Saraqael si voltarono simultaneamente a guardarlo, sorprese. Non avevano mai smesso di guardarlo come se fosse un essere fastidioso e un traditore, neanche ora che Aziraphale era loro superiore.
«Andare?», Michael alzò entrambe le sopracciglia.
«Ho… delle faccende da sbrigare sulla Terra», si giustificò Aziraphale.
«Hai il permesso? Guarda che gli angeli non se ne possono andare in giro sulla Terra come pare e piace a loro», disse Saraqael, guardandolo come Aziraphale aveva guardato Gesù mentre faceva i capricci. Certo aveva ragione, gli angeli dovevano ottenere ordini precisi per poter camminare sulla Terra e lui, che era un Arcangelo, il Supremo peraltro, avrebbe dovuto avvisare con largo anticipo prima di lasciare il posto vacante anche solo per poche ore. Ma non era tanto sciocco da credere che gli avrebbero concesso di andare a cercare Crowley. Crowley era tollerato dal Paradiso ma per nulla amato. Meno Aziraphale lo nominava e più si sentiva sicuro che l’avrebbero lasciato in pace.
«Certamente», mentì. Un tempo mentire gli causava una fitta allo stomaco, tanto era contro la sua natura di angelo, ma ormai non sentiva quasi più nulla. Solo, forse, un pizzico di agitazione nel retro del cervello, più per l’idea di venire scoperto che per il fatto in sé.  
«Perché non ce lo fai vedere?», domandò Michael. Fosse stato qualsiasi altro angelo a chiederglielo, Aziraphale avrebbe creduto che avesse qualche sospetto, ma Michael era troppo ottusa per accorgersi che qualcosa non andava.
«Perché», Aziraphale fece un piccolo ghigno, «Io sono l’Arcangelo Supremo, e faccio quello che mi pare». Sentì l’eco delle parole di Gesù nelle proprie. Avrebbe potuto sentirsi ipocrita, ma la soddisfazione di dire quella frase a Michael era troppa per fermarsi a pensare ad altro.
«Tornerò presto. Nel frattempo voi due occupatevi di Gesù», ordinò.
Sui volti degli altri due angeli si dipinse una espressione di assoluta incredulità. «Noi?», chiese conferma Michael, indicando se stessa e Saraqael con un gesto esagerato delle braccia.
«Esatto», confermò Aziraphale, «E mi raccomando, siate rispettose». Dentro di sé non poté fare a meno di immagine come l’uragano Gesù le avrebbe rimesse a loro posto. Crowley sarebbe stato così divertito da quella idea, pensò, ma poi il suo pensiero si spostò su di lui, causandogli la solita stretta al cuore e una rinnovata preoccupazione. Senza più occuparsi delle proteste di Michael e Saraqael, raggiunse l’ascensore.
Verso la Terra, verso Crowley…
 
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Muriel aveva progettato di rinnovare l’organizzazione dei libri nel negozio. Dopo che il Supremo Arcangelo Aziraphale era andato via, lei aveva dato una sbirciata tra gli scaffali e si era accorta di come i libri fossero disposti secondo un criterio assolutamente incomprensibile. Né in ordine alfabetico, né per formato o per anno di pubblicazione, neanche per dimensione! In Paradiso, le era stato insegnato che ogni cosa doveva avere un posto e un motivo preciso, e Muriel intendeva applicare lo stesso principio ai libri.
Solo che poi, nel prenderli per rimetterli in ordine, aveva cominciato anche a leggerli… La situazione era peggiorata quando una bambina bionda di nome Olive aveva fatto la sua comparsa nel negozio. Olive affermava di avere il permesso da parte del signor Fell di leggere tutti i libri che desiderava. Muriel non sapeva chi fosse questo signor Fell, ma la bambina le era sembrata così sicura di sé che non era riuscita a contraddirla. Così Olive aveva cominciato a frequentare la libreria, ed erano diventate amiche.
Leggevano insieme, sedute sulle poltrone una di fronte all’altra nell’aria polverosa del negozio. Commentavano i libri, prendevano il tè e Olive l’aiutava a scacciare i clienti, dal momento che Muriel non era ancora molto brava ad essere sgarbata.
Quel giorno Metatron le aveva fatto l’onore di venirla a trovare mentre Muriel era ancora da sola e aveva appena aperto il negozio. Fuori pioveva e lui era entrato avvolto nel suo cappotto nero, con un ombrello gocciolante sotto il braccio. Muriel si era precipitata a toglierglielo di mano prima che inzuppasse il pavimento dell’Arcangelo Supremo e solo dopo averlo preso si era ricordata che quello era il suo negozio e che Metatron, la personalità più importante del Paradiso, ci era appena entrato.
«Oh mi scusi signore io…», aveva balbettato, cercando di rendergli l’ombrello.
Metatron aveva sorriso bonariamente sotto la sua barba bianca, e con un gesto indulgente le aveva fatto segno di tenerselo.
«Ricordi», le aveva chiesto, «Che avevo un compito importante per te?».
«Certo!», aveva risposto Muriel con entusiasmo.
«Ecco», disse Metatron, sempre sorridendo, «Si tratta di una cosa molto semplice, ma molto importante. Devi trovare il demone Crowley. Se mette piede sulla Terra, tu lo farai sapere a me come prima cosa».
Muriel non si era stupita di quella richiesta: già da un po’ le era stato ordinato, tramite un altro angelo, di tenerlo d’occhio. Non sapeva per quale motivo al Paradiso dovesse interessare tanto proprio quel demone, ma aveva capito subito di non dover chiedere nient’altro. Gli angeli comuni non sono fatti per conoscere l’ineffabile piano della Divina, ma Metatron sì. Aveva annuito con convinzione, senza riuscire a trattenere l’eccitazione che le causava l’idea di mettersi alla prova e rendersi utile a qualcuno di importante come lui.
Subito dopo che Metatron se ne fu andato, mentre Muriel stava per uscire per andare a cercare il demone Crowley, era arrivata Olive. Indossava il suo impermeabile rosa e aveva i capelli stretti in due codini ai lati della testa, gocciolanti di pioggia.
«Oggi non possiamo leggere, Olive», le aveva detto Muriel, cercando di non sembrare circospetta. Non poteva rivelare gli ordini divini a una bambina umana!
«E perché?», aveva chiesto Olive, già drizzando le orecchie per la curiosità, fiutando il nervosismo nell’atteggiamento dell’altra.
«Perché…», non aveva davvero pensato a una bugia, «Perché ho altro da fare!». Fu la scusa migliore che riuscì a trovare. La bambina arricciò il naso, poco convinta.
«Allora lo farò con te»
«Ma veramente io-»
«Il signor Fell ha detto che posso», chiuse la questione la bambina. Di nuovo, Muriel non aveva idea di chi fosse il signor Fell, ma quella combinazione di sillabe le comunicava un senso di autorità che non si sentiva di sfidare.
Uscirono insieme. La bambina camminava sotto la pioggia, saltando nelle pozzanghere con le sue galosce gialle a pois e schizzando tutti quelli che le passavano accanto. Nel frattempo, Muriel cercava rifugio sotto l'ombrellino rosa che Olive aveva portato. Non aveva infatti voluto prendere quello che Metatron le aveva lasciato, per paura di rovinarlo. Le sue scarpine bianche erano già tutte infradiciate e sporche. Se avesse saputo che gli umani potevano prendere il raffreddore, avrebbe avvertito Olive di fare più attenzione e coprirsi meglio, ma in quel momento non lo sapeva ancora.
«Allora dov’è che andiamo?», chiese la bambina.
Muriel recitò mentalmente tutti i posti di sua conoscenza in cui il demone Crowley andava: qualche bar lì intorno, il negozio del Supremo Arcangelo, vari negozi di scarpe, tanti ristoranti… tutti posti in cui però nell’ultimo mese non era stato, tranne… «Al parco!», esclamò illuminandosi.
«Parco? Ma piove! Cosa devi fare in un parco?», aveva protestato Olive.
«Ho qualcuno da cercare», si lasciò sfuggire Muriel, mettendosi una mano sulla bocca subito dopo che quelle parole erano state pronunciate, come se potesse spingerle di nuovo dentro.
«Le persone non vanno al parco quando piove, sarà da un’altra parte di sicuro», commentò Olive, tirando un calcio ad una pozzanghera e schizzando il cappotto dell’ignara signora che stava camminando davanti a loro.
«Non è una persona», rispose Muriel, anche questa volta per sbaglio.
«E cos’è? Un cagnolino?», Olive si sentiva già meglio disposta ad affrontare quella ricerca.
«Ѐ più un…», Muriel si trattenne prima di lasciarsi scappare la parola demone, «Un serpente», terminò, abbastanza soddisfatta di sé per come se l’era cavata senza neanche dover mentire.
Olive le rivolse uno sguardo allucinato da sotto in su attraverso la cortina di pioggia che le separava. «Hai perso un serpente nel parco?», disse incredula, poi scoppiò a ridere. La stravaganza della situazione la divertiva. «Ma quale parco?».
«Saint James», rispose Muriel con nonchalance.
Olive rise più forte: cercare un serpente in Saint James Park! Muriel era davvero la persona più strana che conoscesse, ancora più del particolarissimo signor Fell.
Nel parco il rumore delle gocce di pioggia che si abbattevano con violenza sulle foglie degli alberi e sulla superficie del lago era quasi assordante. Muriel camminava sulla ghiaia dei sentieri con le scarpe che le si riempivano di sassolini impastati dall’acqua, guardandosi attorno in cerca di una familiare chioma rossa. L’ombrellino le riparava la testa riccia ma poiché la pioggia cadeva in obliquo, aveva oramai le spalle fradice. La piccola Olive le saltellava attorno e, siccome pensava di star cercando un serpente, si piegava ogni due passi per guardare se non c’era una coda tra l’erba e tra i fiori, o negli arbusti. Chiedeva cose come: «Ma di che colore è? Ma è grande? È un pitone o è una vipera?». E Muriel distrattamente rispondeva: «Nero con la testa rossa, sottilissimo… direi né l’uno e né l’altro, ma più vipera». Le risposte non se le stava inventando, anche se non l’aveva mai visto da serpente: pensava al corpo umano di Crowley.
Erano arrivate in un punto in cui il sentiero si apriva su uno spazio ghiaioso sulla sponda del lago. Si trattava di un passeggio cadenzato di panchine e lampioni spenti. Olive si accovacciò sotto un cespuglio di rosa canina, mentre l’attenzione di Muriel fu attirata da qualcosa in riva al lago. Era una bottiglia di vino vuota, abbandonata per terra. Le dispiacque molto pensare che qualche umano avesse osato gettare un oggetto del genere in un luogo così incantevole. Con un piccolo miracolo, dopo essersi accertata che nessuno la stesse osservando, fece semplicemente sparire la bottiglia.
«Qualcuno ha perso questi!», strillò Olive per farsi sentire da sopra il rumore della pioggia. Muriel la vide, con il viso rivolto all’insù, tutto gocciolante. Aveva inforcato un paio di occhiali da sole neri con le lenti rotonde.
Muriel li riconobbe subito.
«Sono i suoi!», esclamò illuminandosi di gioia.
«Del serpente?», chiese Olive, sollevando le sopracciglia bionde da dietro al cerchio delle lenti nere, che coprivano più di metà del suo piccolo viso.
Muriel annuì, distrattamente, avvicinandosi per toglierli dal naso della bambina.
 
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Aziraphale si trovava sulla strada che conduceva al suo negozio. Ritornare a Londra era stato quasi uno choc. Non appena le porte dell’ascensore si erano aperte era stato investito dai rumori delle auto, dal vociare delle persone e dallo scalpiccio di passi sul cemento. Aveva respirato l’odore sgradevole dei tubi di scappamento misto al profumo umido della pioggia sprigionato dall’asfalto. Aveva visto i colori variopinti delle giacche, dei capelli, delle scarpe degli uomini e delle donne che gli passavano davanti, i loro volti intenti, distratti, parlanti, tristi e felici. Un clacson aveva suonato e un’auto aveva fatto una brutta sfrenata stridente. Aziraphale aveva fatto un passo sul marciapiedi e aveva alzato lo sguardo: gruppi di nuvole grigie da temporale soffiate via dal vento stavano svelando un cielo azzurro solcato da un arcobaleno. Aveva sentito che qualcosa in lui stava tornando a posto. Quella scena sanava una sensazione sgradevole che aveva avuto addosso per così tanto tempo da non riuscire più a notarla finché non era sparita. Davanti alla porta del negozio aveva sentito una stretta di nostalgia al petto.
All’interno, l’atmosfera era la solita di sempre. Erano stati accesi i lumi e l’ambiente era riscaldato dalla loro luce dorata. Nell’aria aleggiava l’odore di tè nero e libri polverosi che Aziraphale portava scolpito nella memoria. Si concesse qualche secondo per riassaporare la sensazione di essere tornato a casa, ma la magia del momento venne interrotta da una specie di gridolino prodotto da qualcuno in fondo alla stanza.
Era Muriel, che aveva alzato lo sguardo su di lui non appena aveva udito suonare il campanello sulla porta. Lei e Olive erano rientrate qualche minuto prima, dopo aver continuato a cercare senza successo Crowley nel parco. Avevano abbandonato scarpe e giacche bagnate sull’uscio e ora si stavano frizionando con degli asciugamani per asciugarsi. Olive aveva i capelli biondi elettrizzati che le volavano tutt’attorno alla testa.
«Azi!», aveva gridato Olive, correndogli incontro, mentre Muriel ancora cercava di calmare l’agitazione.
Aziraphale riconobbe la bambina che per mesi aveva frequentato il suo negozio, leggendo sulla sua poltrona mentre lui si dava da fare a sistemare gli affari propri. «Care», disse loro, sorridendo, «Siete fradice!».
«Siamo andate al parco perché Muriel ha perso il suo serpente, ma abbiamo trovato solo i suoi occhiali», gli spiegò la bambina, indicando gli occhiali da sole in cima alla pila di libri sulla scrivania, sotto alla finestra. Muriel, dietro di lei, con gli occhi sgranati annuiva febbrilmente.
Aziraphale si sentì gelare. A grandi passi si avvicinò alla scrivania e sollevò gli occhiali con mani tremanti, portandoseli ad altezza del viso, come se fossero indossati da un Crowley in piedi davanti a lui. Una delle due asticelle di metallo era leggermente piegata, come se fossero stati schiacciati. «Dove li hai presi?», chiese a Muriel. La voce gli uscì roca e tremula.
«Erano per terra in Saint James Park», rispose lei, avvicinandosi. Lo guardava come un’adolescente guarderebbe il suo cantante preferito.
«Vicino a una panchina», precisò Olive.
«E non c’era nient’altro?», insisté Aziraphale.
«No…», disse Muriel, poi ci pensò, «Be’, c’era una bottiglia».
Gli occhi di Aziraphale scattarono verso di lei. «Una bottiglia di cosa? Dove?».
Muriel si agitò: «Io non saprei… era più o meno così», fece una serie di gesti per indicare forma e dimensione, «L’ho fatta sparire perché sporcava!».
Aziraphale a quel punto si sentiva tremare di paura. Una bottiglia e gli occhiali di Crowley per terra, nel parco, e lui irrintracciabile. Non se n’era andato volontariamente, non poteva essere. Qualcuno, pensò con angoscia crescente, lo aveva preso. Non c’era altra spiegazione perché se Crowley fosse semplicemente scappato, Aziraphale l’avrebbe trovato in qualche punto dell’Osservatorio. Doveva essere stato un altro demone: l’aveva rapito e condotto all’Inferno e ora forse Crowley stava per essere immerso nell’acqua santa, o forse era già successo... Non riusciva nemmeno a immaginare quella terribile possibilità.
«Devo ancora dirlo a Metatron. Mi dispiace signore ma io sono appena arrivata e non ho fatto in tempo a-», Aziraphale interruppe Muriel alzando una mano nella sua direzione. Aggrottò le sopracciglia.
«Cosa devi dire a Metatron?», le chiese.
«Che ho trovato un indizio!», rispose lei, entusiasta.
Aziraphale sentì un nodo di apprensione stringersi nella sua gola: «Metatron ti ha chiesto di cercare Crowley?», chiese, mentre il respiro si faceva pesante. Nella testa gli si affollarono una serie di idee, una più infausta dell’altra. Muriel, con un grande sorriso, annuì.
«Mi era stato chiesto di controllarlo finché era a Londra e l’ho seguito. Non faceva molto, stava in macchina quasi tutto il tempo», si strinse nelle spalle, «E aveva sempre sete. Ma comunque oggi mi hanno detto di cercarlo di nuovo».
«Pensaci bene Muriel: chi ti ha detto di fare che cosa e quando?», le fece pressione Aziraphale.
«Metatron è venuto oggi e mi ha detto che l’avrei dovuto cercare, e avvisarlo se mai avesse messo piede sulla Terra», rispose Muriel, un po’ spaventata per il tono perentorio di Aziraphale.
Aziraphale allora rifletté: Metatron doveva esserci accorto che Crowley era sparito. Lo stava controllando ma… perché? Da quando Aziraphale era andato in Paradiso, Crowley non aveva fatto nulla per attirare l’attenzione degli angeli. Se così fosse stato, infatti, Aziraphale l’avrebbe saputo in qualità di Arcangelo Supremo.
«Io… ho fatto bene, signore?», gli chiese Muriel con una vocina incerta. Aziraphale era troppo agitato per occuparsi di lei.
«Stammi a sentire cara: tu ora non dirai nulla a nessuno di ciò che hai trovato, o di avermi incontrato», le ordinò.
Muriel lo guardò, titubante. «Ma, signore», protestò debolmente, «Devo fare rapporto».
«L’hai fatto a me», dichiarò in tono definitivo e si voltò per uscire. La strada gli venne sbarrata dalla piccola Olive, che per tutto il tempo era rimasta in silenzio ad ascoltare ciò che si erano detti. Non aveva capito molto, solo che c’era un mistero e lei non voleva perderselo per nessun motivo al mondo.
«Dove vai, Azi?», gli chiese, a braccia conserte guardandolo da sotto in su.
Aziraphale restò interdetto: si era dimenticato completamente della presenza della bambina. Preso in contropiede le rispose: «Ho delle faccende da sbrigare».
«Allora veniamo con te», ribatté Olive, indicando se stessa e Muriel.
«Non potete venire! È un posto pericoloso».
Lo sguardo di Olive si accese di furbizia. «E quindi ci vai da solo?», chiese.
«Certamente», rispose Aziraphale.
«Ma tu una volta mi hai detto che non si può andare da soli in un posto pericoloso. Devi sempre portarti qualcuno che ti aiuti se dovessi farti male. Ricordi? Mi hai detto una bugia?», concluse, battendo le palpebre con aria innocente.
Muriel, stupita da quella rivelazione, si unì all'indignazione di Olive: «Davvero le avete detto questa cosa, signore?!» Non poteva credere che l'Arcangelo Supremo avesse mentito.
Aziraphale si trovò a dover cedere all'insistenza di Olive. Non aveva tempo di discutere e conosceva bene il carattere determinato della bambina. Se avesse tentato di dissuaderla, avrebbe soltanto perso ore preziose. La situazione era incerta, possibilmente molto pericolosa, ma non poteva rischiare di far aspettare Crowley più a lungo del necessario. Inoltre, lui era l'Arcangelo Supremo, una creatura di enorme potenza, se si fosse presentato un pericolo avrebbe certamente potuto proteggere una bambina e un angelo inesperto.
Con un sospiro rassegnato, acconsentì: «D’accordo. Mettetevi le scarpe e andiamo, forza».
Tuttavia, quando venne il momento di spiccare il volo guardò la bambina, incerto su come comportarsi. Non poteva mostrare a una umana i propri poteri in maniera così palese…
La bambina, notata la sua esitazione, gli sorrise: «Puoi fare tutte le magie che vuoi, Azi. L’ho capito da un pezzo che voi due non siete normali».
 
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Aziraphale aveva dovuto pensare in fretta a cosa fare. Se Crowley non si trovava sulla Terra e in nessuna altra parte del creato c’era poco che lui, come angelo, potesse fare per trovarlo. In realtà non poteva fare proprio niente. Gli sarebbe servito un demone che avrebbe potuto cercare Crowley all’Inferno al posto suo. Ma non c’era nessun demone che avrebbe reso un servizio al Supremo Arcangelo. Per fortuna però, Aziraphale conosceva qualcuno che non era un demone ma ci andava abbastanza vicino da poterlo aiutare.
Non era una sua conoscenza diretta. Si trattava di una figura che Crowley aveva sfruttato in qualche occasione durante il lungo periodo in cui lui e Aziraphale erano stati sulla Terra. Gliene aveva parlato una volta che erano a cena insieme. Crowley gli aveva raccontato della stranezza di quella creatura e anche della sua utilità quando c’era bisogno di certi servizi particolari che non si volevano far conoscere all’Inferno o al Paradiso. A quel punto gli aveva dato l’indirizzo e Aziraphale ne era rimasto offeso. Era un tempo in cui negava ancora il sentimento che lo legava a Crowley e l’insoddisfazione che provava nei confronti del Paradiso. «Non me ne faccio niente di questo, già è abbastanza male che parli con te!», aveva sbottato. Ora ripensava a quel momento con una fitta di dolore nel petto: come si era chiusa l’espressione di Crowley quella volta e tutte le altre in cui Aziraphale, ottuso e insensibile, l’aveva rifiutato! Come l’ultima volta, di cui conservava un ricordo che era una ferita ancora aperta e incancrenita.
Ora era atterrato sull’eremo indicatogli da Crowley, tenendo per mano Olive e Muriel.
Si trattava della cima impervia di una montagna rocciosa, caratterizzata da pietre irregolari e puntute che sembravano essere plasmate dalle incessanti sferzate di vento freddo. Nelle fenditure tra una pietra e l’altra crescevano un’erba bassa e verde e qualche arbusto coriaceo. Non c’erano zone d’ombra: l’intero paesaggio era battuto dalla luce del sole che si rifletteva, accecante, sulla bianca superficie delle rocce.
«Dove siamo?», chiese qualcuno. Aziraphale, distratto, non riuscì a distinguere se fosse stata Olive o Muriel a parlare.
«Non importa», rispose, «Venite con me». Lasciate le loro mani prese a camminare tra le rocce. Non c'era un sentiero definito; dovevano posare i piedi sulle sporgenze naturali della montagna e spesso aggrapparsi con le mani quando il terreno diventava più stretto e accidentato. Guardando in basso, vedevano un precipizio che si apriva per diverse centinaia di metri sulla valle alberata sottostante. Aziraphale cercava a tentoni l’incavo della roccia che, Crowley gli aveva spiegato, era l’accesso alla tana della creatura. Il vento gli gonfiava la giacca e i pantaloni. Dietro di lui Muriel e Olive lo seguivano osservandolo attentamente, per mettere i piedi laddove li metteva lui. Alla fine Aziraphale mise il piede su un terreno stabile: aveva raggiunto una insenatura profondamente scavata sul fianco della montagna, una sorta di grotta riparata dal sole. Notò sulla parete rocciosa una apertura verticale grande abbastanza da lasciar passare un corpo umano come il suo. Capì di aver raggiunto l’obiettivo. Fatto segno a Muriel e Olive di seguirlo, si avviò all’interno.
Entrare in quella crepa gli procurò la sensazione di immergersi in uno strato di gelatina: era chiaramente una forma di magia posta all'entrata. Non era un miracolo del Cielo né dell’Inferno, ma qualcosa di una natura terrena che Aziraphale non aveva mai avvertito prima.
Una volta dentro, si trovò in uno spazio che assomigliava a una sala da ballo solenne dei secoli passati. Dal soffitto pendeva un grosso lampadario con gocce smeraldo che rimandavano una luce acquosa e frammentata. Al di sotto del lampadario si trovava un’ampia scalinata in marmo verde scuro fittamente striato di blu e di azzurro, che copriva anche il resto dell’ambiente. Alzando gli occhi sul soffitto notò invece la pietra della montagna, da cui si allungavano stalattiti tutte di dimensioni diverse. Alcune di esse gocciolavano ma l’acqua non raggiungeva il pavimento: ogni goccia restava sospesa nell’aria per qualche secondo e poi spariva nel nulla. Nel marmo delle pareti, vide Aziraphale avvicinandosi, erano raffigurate in altorilievo immagini provenienti, sembrava, dalle mitologie di diversi popoli e culture. Riconobbe per esempio una Titanomachia, l’uccisione di Humbaba da parte di Gilgamesh ed Enkidu, la cacciata di Lucifero, la battaglia di Horus contro Seth.  Non sembrava esserci alcun ordine discernibile nella organizzazione di quelle scene. Poco lontano da lui Olive e Muriel si lasciavano andare tra loro ad espressioni di meraviglia che Aziraphale non ascoltò con attenzione, troppo assorto nella propria esplorazione.
Poi, nel vuoto della sala echeggiò il rumore di passi che si avvicinavano da sopra alla scala. Aziraphale alzò gli occhi per osservare la figura che stava scendendo lentamente verso di loro.
Era la creatura, così come l’aveva descritta Crowley tempo prima. Una donna alta, fasciata da un abito scuro, con due occhi grandi e profondissimi cerchiati da un nero strato di kajal e un prominente naso aquilino. Guardava verso di Aziraphale come se fosse l’unico nuovo venuto e come se lo conoscesse già. Aziraphale avvertiva da lei delle vibrazioni che non erano né umane né di demone.
Crowley l’aveva definita una strega, ma non era come le altre streghe che Aziraphale aveva visto durante la sua lunga permanenza sulla Terra. Aveva, con un patto, legato la propria esistenza a quella di diversi demoni e in lei scorreva un grandissimo potere infernale. Inoltre era vecchia, Aziraphale lo leggeva nelle sue pupille. Quegli occhi avevano visto passare davanti a loro quasi altrettante ere sulla Terra quante ne aveva vissute Aziraphale stesso.
«Sei antica…», Muriel e Olive si erano zittite alla comparsa della strega, ma Muriel, dopo aver notato le stesse cose che Aziraphale aveva pensato, non era riuscita a trattenere quel sussurro ammirato. La guardava completamente trasognata. La strega era arrivata sull’ultimo gradino e lì si era fermata ma ora, dopo aver posato il suo sguardo magnetico su Muriel, riprese a camminare verso di lei. Raggiuntala, alzò una mano e, sotto alla luce verde, si accorsero tutti di come le sue lunghe dita magre terminassero in artigli neri da rapace. Prese il volto di Muriel con delicatezza e lo voltò da un lato e dall’altro per studiarla. Muriel tremò sotto a quella ispezione, ma non si spostò. Non aveva motivo di temerla poiché qualsiasi strega, per quanto potente, non avrebbe potuto ferire un angelo, ma in lei c’era una qualità ammaliante che incuteva soggezione. Muriel non reagiva bene alle emozioni forti.
«Come lo sei anche tu», disse infine la strega, con una voce profonda che rimbombò nella stanza. Carezzò la guancia di Muriel con il dorso della mano prima di lasciarla cadere sul fianco.
«Sei Nunet», le disse Aziraphale, andandosi a posizionare accanto a Muriel. Poteva leggere nel cuore umano della strega e aveva capito che non avrebbe fatto loro del male, ma gli risultava ancora ambigua.
«E tu sei venuto per Crowley», rispose lei.
Aziraphale ebbe un tuffo al cuore. «Ѐ qui?», le chiese, nonostante sapesse che non era possibile.
«No, Arcangelo», disse la strega, senza cambiare la sua espressione intensa, «Ti ho letto dentro quando sei entrato come tu hai fatto con me. So perché siete venuti». Poi il suo sguardo scivolò su Olive: «Mi è meno chiaro perché vi siete portati anche lei».
«Allora puoi cercarlo?», Aziraphale ignorò l’ultimo commento.
«Posso farlo», rispose lei, «Ma ho due condizioni. La prima è che ognuno di voi sarà in debito con me, compresa la bambina», alzò un artiglio, «E la seconda è che mi forniate un oggetto di Crowley».
Aziraphale aggrottò le sopracciglia: non poteva permette che la piccola Olive stringesse un legame di alcun tipo con una strega. «La bambina no», scossa le testa, «Piuttosto potrai chiedere a me un doppio riscatto».
La strega ci pensò su. «La bambina è esentata. Ma i due debiti saranno suoi», e indicò Muriel, che sussultò per la sorpresa.
«Io sono il Supremo Arcangelo», protestò Aziraphale.
La strega si strinse nelle spalle, come se per lei quel titolo non valesse molto.
«Va bene», disse Muriel, determinata anche se ancora spaventata. Voleva infatti rendersi utile al Supremo Arcangelo, che era sempre stato gentile con lei. Avrebbe fatto tutto ciò che poteva per ricambiare la sua gentilezza e portare avanti il piano ineffabile della Divina.
«Ma non è giusto!», esclamò Olive, parlando per la prima volta da quando erano arrivati. La strega la guardò di nuovo, e Olive non riuscì a interpretare cosa pensasse. Di solito le veniva semplice capire cosa pensassero gli altri. L’incertezza le metteva un po’ paura. Se non fosse stata tanto orgogliosa si sarebbe andata a nascondere dietro la gamba di Azi per cercare la sua protezione. Aziraphale, intanto, le aveva posato una mano sulla testa bionda per ammonirla e per mostrare alla strega che non doveva fare brutti scherzi con lei.
«Ѐ tutto a posto, Olive», la rassicurò Muriel.
«Chiarito questo», riprese la strega come se non fosse mai stata interrotta, «L’oggetto».
Aziraphale si rese conto che non aveva portato nulla di Crowley e stava per precipitare nel panico più assoluto, ma Olive gli tirò una manica della giacca e gli porse gli occhiali da sole. «Li ho presi io», gli disse piano.
«Oh, benedetta bambina!», si rallegrò lui. Le prese gli occhiali di mano e li porse alla strega.
«Molto bene», disse Nunet, «Seguitemi».

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Capitolo 2
*** La bestia crudele ***


Ho inserito nelle note finali un avviso su i contenuti di questo capitolo da consultare per chi avesse esigenze particolari. Si tratta di un spoiler molto grande della fanfiction quindi, se non siete particolarmente sensibili, io sconsiglierei di andarlo a leggere prima di aver terminato il capitolo. 
 
 
2. LA BESTIA CRUDELE
 
 
Crowley riapparve direttamente nell’ufficio di Furfur. Il primo istinto durante il volo era stato quello di raggiungere Aziraphale, ma due pensieri si erano ricorsi velocissimi nella sua mente: il primo era che, se il suo assalitore lo stava inseguendo, avrebbe messo in pericolo l’angelo, e il secondo fu la barriera contro i demoni che gli avrebbe impedito di raggiungere il Paradiso in quella maniera. Solo ora, con i piedi di nuovo per terra, si accorse che forse il suo primo pensiero sarebbe dovuto essere che Aziraphale lo aveva rifiutato già una volta, quindi perché non poteva farlo una seconda?
Con amarezza, si passò le mani tra i capelli per sistemarli un po’ e si scosse la ghiaia dalla giacca.
«Ma allora?!», Furfur lo guardava, seduto alla sua scrivania, con un sopracciglio alzato e una piuma tra le dita, mentre sbrigava le infinite pratiche infernali impilate davanti a lui. «Sei stato esiliato, Crowley. Come ti salta in mente di presentarti qui?!».
All’Inferno era sempre tutto buio e in ogni luogo c’era odore di bruciato e un vago sentore d’aglio, come nelle case delle persone anziane. Crowley arricciò il naso. Gli era sempre spiacevole trovarsi lì, ma era giusto. L’Inferno era progettato per essere disgustoso.
«Sono solo di passaggio», gli spiegò. L’adrenalina non gli era ancora scesa. Sapeva che chi aveva cercato di ucciderlo non avrebbe mai potuto raggiungerlo laggiù, ma la paura era stata così tanta che ancora aveva l’istinto di guardarsi attorno. «Ho bisogno di un declassamento», annunciò.
«Sei stato esiliato», ripeté Furfur, sottolineando la parola con un gesto eloquente delle mani, con il tono di chi parla a un idiota, «Non credo possa andarti peggio di così».
Crowley voleva rispondere e invece ma si trattenne. Voleva una cosa ben precisa e la voleva subito, prima che qualche altro demone si accorgesse della sua presenza lì e avvisasse qualche pezzo grosso.
«Senti, ti offro qualcosa di davvero, davvero interessante se fai quello che ti dico», rispose. Era consapevole di non essere mai stato particolarmente simpatico a Furfur, come a tutti gli altri demoni in realtà. Avevano sempre pensato, Crowley l’aveva capito, che fosse un tipo strano e anche fastidioso. Molti erano gelosi della posizione che aveva ottenuto sulla Terra e di come era stato tenuto in gran conto dai capi, e godevano della sua destituzione. Furfur poteva essere uno di questi e mettersi nelle sue mani era pericoloso, soprattutto alla luce di ciò che stava per chiedergli, ma non c’era assolutamente nessun altro modo rapido per mettersi al sicuro dalla minaccia che lo stava seguendo. Sentiva di avere le ore, addirittura i minuti contati e doveva agire in fretta.
«E cioè?», chiese Furfur.
«Cioè», disse Crowley, «Non mi vedrai mai più».
 
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La strega Nunet li aveva condotti ad una delle innumerevoli stanze della sua tana. Aveva acceso una candela e li aveva guidati all’interno. Si trattava di un angusto spazio cieco, circolare e scavato direttamente nella roccia, dove c’era a malapena spazio per fare quattro passi. Quando si fu chiusa la porta alle spalle, Nunet fece segno ad Aziraphale, Muriel e Olive di addossarsi alla parete il più possibile per farle spazio. Dopodiché si inginocchiò, l’ampio abito adagiato tutt’attorno a lei in un milione di piegoline che catturavano i riflessi della candela. Con un lungo artiglio tracciò un cerchio sul pavimento e la roccia sembrò cedere, aprendosi. Quel buco fu presto spontaneamente riempito di un liquido denso e nero, essudato dalla roccia stessa, che gettava bagliori verdastri sulle pareti della grotta. Olive, con la mano stretta in quelle di Muriel e Aziraphale, emise un piccolo sospiro di sorpresa, appena trattenuto. Muriel si coprì la bocca con la mano libera per non fare lo stesso errore.
La strega appoggiò a terra la candela e prese invece gli occhiali di Crowley, tenendoli sospesi sopra il cerchio.
«Tenani lehitqarev le'Olam haAtzilut», cantilenò per cinque volte. La sostanza mutò da nera a bianca, illuminando a giorno e con sfumature dorate le pareti irregolari della grotta. Aziraphale notò come le sue due compagne osservavano con meraviglia quello che a loro doveva essere parso un assoluto prodigio. Le streghe avevano un modo di praticare la magia molto spettacolare, e lui non poteva fare a meno di invidiarle un po'.
Infine, Nunet strinse con forza gli occhiali di Crowley tra le mani e questi si sbriciolarono, facendo cadere la polvere nel liquido sottostante.
«Metza oto», ordinò, e immerse le mani nel buco. Il liquido attorno ai suoi polsi si tinse di rosso con luminose sfumature violacee. La strega rovesciò la testa all’indietro, in un turbinio di capelli neri. Fu attraversata da un lungo brivido, con gli occhi chiusi puntati al soffitto.
Olive strinse la mano di Aziraphale ancora più forte.
La strega, dopo un tempo che parve infinito, aprì gli occhi e li puntò su Aziraphale.
«Oh», disse, sul viso un’espressione allucinata, «Questo non ti piacerà, Arcangelo». Non appena ebbe estratto le mani dal liquido rosso, questo si ritirò, lasciando la stanza nuovamente nel buio, rotto solo dalle deboli emanazioni della fiamma palpitante della candela. Il buco nel pavimento si richiuse come una ferita che si rimargina e la strega si alzò. Senza aggiungere altro, uscì dalla stanza. Aziraphale lasciò la mano di Olive per raggiungerla, seguendola quasi di corsa. Le sue parole ambigue lo avevano lasciato preda di una angoscia soverchiante. Temeva che avesse visto Crowley ferito, o peggio… ma non riusciva neanche a pensarlo!
«Cosa hai visto?!», le afferrò una spalla per costringerla a voltarsi. Erano tornati nella sala del lampadario, e il suo urlo rimbalzò sul marmo producendo un’eco breve. Dietro di sé sentì i passi concitati di Muriel e Olive che li raggiungevano.
«Non è morto», disse lei, come se gli avesse letto nel pensiero. «Ma non è neanche vivo».
«Cosa intendi dire, parla chiaro!», si innervosì Aziraphale.
«Il motivo per cui non può essere trovato nel creato è che non ne fa più parte», rispose Nunet, non meno enigmatica di prima.
«Come sarebbe a dire? Tutto ciò che esiste è parte del creato!», protestò lui.
«Ma lui ha subito un mutamento che non era concepibile. È scivolato fuori dal creato ed ora è qualcos’altro», disse lei.
«Cioè che cosa?», si intromise Muriel, meravigliata.
«Qualcosa che non sarebbe mai dovuto essere: un umano».
Aziraphale sgranò gli occhi, sconvolto, Muriel emise una specie di strillo e si portò le mani sulle guance, in stato di choc. Olive aggrottò le sopracciglia: «Cosa c’è di strano nell’essere umani?», domandò, perplessa da quelle reazioni così esagerate.
«Crowley è un demone», le disse Muriel, troppo distratta per ricordarsi che non doveva rivelare certe cose alla bambina, «Non può diventare un umano! Non esiste un modo per farlo!».
Nunet scosse la testa. «Oh, esiste», disse, «Ma nessuno mai l’ha tentato prima».
Aziraphale non sapeva cosa pensare. Crowley amava gli umani, lo sapeva, ma non credeva li amasse tanto da voler diventare uno di loro. No… Crowley non aveva mai manifestato quel desiderio: voleva vivere nelle zone grigie tra Inferno e Paradiso, voleva la libertà di agire e muoversi come gli andava, voleva i piaceri della vita senza i doveri e le costrizioni. Non si sarebbe mai legato di sua sponte alla zavorra di un corpo mortale. Doveva essere stato in pericolo, o costretto da qualcun altro, non c’era altra spiegazione.
«Dove si trova?», chiese a Nunet, sentendo nascere in sé una nuova determinazione.
«Dove è sempre stato: a Londra», e gli spiegò dove andare per raggiungerlo.
Aziraphale annuì. «Io vado a cercarlo», annunciò.
«Azi, veniamo con te!», disse Olive, venendogli incontro. Tutte quelle rivelazioni e l’avventura magica che stava vivendo l’avevano sconvolta. Si sentiva smarrita e non voleva che Aziraphale la lasciasse indietro.
Quel desiderio del suo cuore arrivò forte e chiaro ad Aziraphale, che si addolcì. Le carezzò la testa bionda con affetto. «Direi che la tua scorribanda è durata abbastanza, cara», le disse, sorridendole teneramente, «I tuoi genitori ti aspettano a casa. Muriel ti accompagnerà a lì», poi, rivolto a Muriel: «Dopo tu andrai al negozio e ci resterai finché non mi vedrai tornare. Non farai niente e non contatterai nessuno fino a mio nuovo ordine, intesi?».
Muriel, come Olive, non aveva alcuna voglia di lasciarlo andar via da solo, ma al tono perentorio dell’Arcangelo Supremo scattò sull’attenti in automatico. «Sì, signore!», esclamò.
«Quanto a te», Aziraphale si rivolse alla strega, «Pagherò il tuo pegno quando lo chiederai. Sai bene come trovarmi».
Prima che una delle tre potesse rispondere, Aziraphale era già scomparso.
 
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Aziraphale era arrivato dove la strega gli aveva detto. Si trattava di una palestra all'interno di un edificio scolastico riadattato in una struttura per accogliere senzatetto. Si era materializzato in un vicolo appartato e aveva raggiunto l’edificio a piedi, per non destare l’attenzione degli umani che affollavano i marciapiedi. Era entrato nella palestra attraverso una porta a vetri, trovandosi in un'anticamera dalle pareti bianche. Dietro a un bancone stava seduto un signore di mezza età con una camicia a quadri rossi e un paio di baffoni grigi. «Posso aiutarla?», l’aveva guardato da capo a piedi, rendendosi conto che Aziraphale decisamente non era un tipo che sarebbe venuto in quel posto per chiedere ospitalità.
«Sto cercando un uomo», gli spiegò Aziraphale, avvicinandosi fino a poggiare i gomiti sul bancone, «Alto così, capelli rossi, sicuramente vestito di nero e molto magro».
«Ah», disse l’uomo, con un’aria di comprensione, «Ce l’hanno portato poco fa, stavamo per chiamare la polizia».
Aziraphale si allarmò: «Ha fatto qualcosa di male?», chiese.
«No, lui niente, ma sembra che qualcuno l’abbia fatta a lui», rispose l’uomo, prima di interrompersi e guardare Aziraphale con sospetto. «Lei è un parente? Ha un documento?».
Aziraphale con un miracolo fece comparire un documento nella tasca del suo panciotto e glielo passò. «Sono un parente, sì. Vorrei vederlo», disse, cercando di non tradire la propria impazienza.
L’uomo sembrò convinto dal documento e glielo rese. «Il fatto è che dovremmo proprio chiamare la polizia, signor Fell», sembrò sinceramente dispiaciuto. Aziraphale lesse in lui preoccupazione e sconcerto.
«La chiamerò io stesso, però mi consenta di vederlo», lo rassicurò con un tono pacato che era molto convincente e riscuoteva spesso successo quando trattava con gli esseri umani, tranne che con Olive.
L’uomo annuì e gli fece strada. «Abbiamo una piccola infermeria, ma il medico non è ancora arrivato, e comunque dubito possa fare molto per lui. Che psicofarmaci prende?», chiese mentre camminavano tra le file di letti nella palestra, protetti alla vista da tendine bianche, alcune chiuse. L'ambiente era ben riscaldato e illuminato, e c'erano uomini seduti sui letti intenti a chiacchierare tra loro o a riposare. Qualcuno mangiava.
«Psicofarmaci?», si stupì Aziraphale.
L’uomo gli gettò una strana occhiata: «Non ne capisco molto, eh, ma mi sembra proprio preda di un delirio psicotico». Nel frattempo avevano raggiunto la porta dell’infermeria e l’uomo l’aprì.
Era una stanza piccola, tutta suoi toni del bianco e del celeste, con una scrivania e un lettino. La prima cosa che Aziraphale notò furono le due persone che, in piedi, gli bloccavano parzialmente la vista del letto. Erano un uomo barbuto e una donna tarchiata. Parlottavano tra loro, ma non appena notarono il loro ingresso, si voltarono a guardare Aziraphale e l'uomo che entrava.
«Ѐ un parente», spiegò loro l’accompagnatore di Aziraphale, «Signor Fell, questa è la mia collaboratrice Kate, e questo è Bill. È stato lui a portarcelo».
«L’ho trovato seduto a terra davanti a un supermercato qua vicino», raccontò Bill, «Ho pensato che stesse chiedendo l’elemosina ma non mi sembrava molto centrato». Accompagnò quelle parole disegnando un cerchio nell’aria con un dito, all’altezza della propria tempia.
Come Aziraphale ebbe emesso la prima sillaba per ringraziare i tre e presentarsi, si udì un urlo e lo scricchiolare delle molle del materasso.
Aziraphale vide allora la figura che si era messa a sedere sul lettino. Gli dava le spalle, ma riconobbe il rosso dei suoi capelli e l’aspetto della sua nuca. In verità, lo avrebbe riconosciuto anche solo dal dito mignolo.
«Cos’è questo chiasso!», disse la voce di Crowley, nella sua tipica qualità bassa e arrochita. Aziraphale si sentì il cuore impazzire nel petto.
«Oh caro», sussurrò, ignorando l’apprensione che emanava dalle altre persone nella stanza. Si diresse rapidamente verso il letto, lo aggirò e si trovò finalmente di nuovo faccia a faccia con il suo demone.
Era il viso di sempre, con quell’ombra di barba sulla mascella, le rughe di espressione attorno alla bocca e sulla fronte e l’arco morbido delle sopracciglia nere aggrottato in atteggiamento burbero. Un viso che Aziraphale ricordava a memoria, ma con una nota stonata. Il tatuaggio del serpente sotto all’orecchio era scomparso e i suoi occhi, i suoi bellissimi occhi da rettile che Aziraphale aveva immaginato così spesso di rivedere da quando si erano lasciati, erano castani. Semplici occhi umani con la pupilla rotonda al centro, e lo stavano guardando.
«Ah», si lamentò seccamente Crowley, come se fosse irritato, «Vattene».
Aziraphale non sapeva cosa aspettarsi da quell’incontro, né aveva avuto abbastanza tempo per immaginarselo, ma quella reazione lo colpì nel profondo. Si sentì come se Crowley gli avesse tirato uno schiaffo. Si portò una mano alla bocca per trattenere un gemito mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime. «Caro», disse, «Ti scongiuro, non mandarmi via».
Crowley scosse la testa. Con uno slancio si mise in piedi e lo raggiunse, stringendogli le spalle con le mani e scuotendolo. «Se tu sei qua sarà qua anche lui», disse con urgenza.
«Lui chi? Di chi parli?», domandò Aziraphale, sconvolto dalla sua vicinanza. Si sentiva preda di un’emozione travolgente che gli rendeva difficile coordinare i pensieri, ora che Crowley era di nuovo con lui.
Crowley fece un verso di frustrazione e si passò freneticamente le mani tra i capelli. Solo in quel momento Aziraphale registrò quanto fosse scompigliato e sporco. La sua giacca era impolverata e i suoi jeans erano macchiati di terra, mentre gli stivali erano graffiati sulle punte. Aziraphale non riuscì a trattenersi e gli mise le mani sul petto magro per spazzare via un po’ di polvere, ma soprattutto per toccarlo e basta. «Oh dimmi chi è stato», gemette, «Chi ti ha fatto questo? Ti proteggerò io da adesso in poi», cercava di rassicurarlo, accarezzandolo.
Crowley si scansò da Aziraphale con un grugnito, continuando a tormentarsi i capelli con le mani. «Non dovresti essere qui», ripeteva tra sé.
«Chiamo un’ambulanza», si intromise la donna di nome Kate, rivolta ad Aziraphale, «Sembra che suo marito stia avendo un attacco di panico».
«No lui-», Aziraphale si interruppe, incerto su come rispondere. Forse un’ambulanza non era una cattiva idea, ora che Crowley era umano. Poteva essersi ammalato, aver battuto la testa... Non sapeva cosa fare e fu colto da un senso di ansia inarrestabile. Di questo passo l’ambulanza avrebbero dovuto chiamarla per lui, pensò.
«Sparisci», gli sibilò contro Crowley, «Subito», e lo spintonò. Aziraphale barcollò un po’ e dovette appoggiarsi a un armadietto per ritrovare l’equilibrio. Crowley sembrava disperato, ma Aziraphale era troppo ferito dalle sue parole per leggere l’urgenza dei suoi gesti e nella sua voce. Non fece nient’altro che scoppiare a piangere.
Gli altri umani, fino ad allora spettatori passivi, pensarono di intervenire temendo che Crowley potesse diventare ancora più violento. Ogni azione fu troncata sul nascere quando dalla palestra giunsero una serie di grida, passi di corsa e un clangore metallico in avvicinamento.
«Cazzo!», ringhiò Crowley, prendendo a camminare avanti e indietro nella stanza.
Il signore che aveva accompagnato Aziraphale corse alla porta e la spalancò. Fuori era il caos. C’erano uomini che correvano in tutte le direzioni mentre una gigantesca figura in armatura incedeva verso l’infermeria. Travolgeva i letti e strappava le tende, brandendo la sua forca e schioccando la frusta per liberare il cammino, con i nastri rossi sull’elmo che si agitavano ad ogni suo passo.
Aziraphale strabuzzò gli occhi. Quello era… «Onesiel!», esclamò, guardando Crowley che nel frattempo non aveva smesso di fare su e giù freneticamente, torcendosi ciocche di capelli tra le dita. «Ma cosa ci fa lui qui?». Crowley non gli rispose.
Onesiel, l’angelo punitore. Aziraphale credeva fosse una leggenda: nessun angelo l’aveva mai visto e non figurava nelle Scritture. Si diceva che prendesse ordini solo da Dio stessa e che le sue armi fossero progettate per ferire a morte qualsiasi creatura, anche gli altri angeli. Venire colpiti dalla sua frusta o impalati sulla sua forca avrebbe significato non solo la discorporazione, ma la completa cancellazione dall’esistenza ultraterrena. E Crowley, capì Aziraphale, stava scappando da lui.
Ragionò in fretta: Onesiel non gli avrebbe obbedito anche se era l’Arcangelo Supremo, e non aveva alcuna speranza di affrontarlo in combattimento. L’unica cosa che poteva fare per proteggere Crowley era scappare.
Mentre Onesiel era ormai alla porta, pronto a spaccare il muro con un colpo di frusta per entrare con la sua imponente stazza, e gli umani si erano stretti in un angolo in preda al terrore, Aziraphale afferrò il braccio di Crowley e lo tirò a sé. Lo strinse forte contro al suo petto tenendolo per la vita, e sparì assieme a lui.
 
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Dopo che Aziraphale si fu volatilizzato, Olive si rivolse a Muriel. Lo sconcerto e la paura che aveva provato durante il rituale della strega stavano pian piano scemando dentro di lei, lasciando spazio alla preoccupazione per Aziraphale. «Dobbiamo andare a cercarlo», le disse.
Muriel aggrottò le sopracciglia: «Mi ha ordinato di riportarti a casa».
«Sì», rispose Olive, «Ma non voleva veramente che ce ne andassimo».
«Lo pensi davvero?».
«Certamente! Nessuno vorrebbe stare solo in un momento simile. Questo Crowley è importante per lui e ha bisogno del suo aiuto», ragionò Olive.
«Be’», disse Muriel incerta, «Ma allora perché ci ha detto di andare via?».
«Perché è preoccupato per noi, non vuole che ci facciamo male. Ma noi siamo sue amiche e dobbiamo aiutarlo», Olive era assolutamente determinata a convincere Muriel.
«Credi che io sia sua amica?», Muriel non era affatto sicura che una come lei potesse considerarsi ad un livello di confidenza di quel tipo con qualcuno potente come il Supremo Arcangelo. Era vero, era stato gentile con lei, ma era solo cortesia la sua.
«Sì», disse Olive annuendo, «E tu», si rivolse alla strega, «Tu quel tipo, quel Crowley, lo conoscevi già, non è vero?».
Nunet, che era rimasta a guardarle discutere, piegò la testa incuriosita: «Come lo sai?», chiese alla bambina.
«Quando siamo arrivati hai detto il suo nome senza che nessuno l’avesse detto prima», le spiegò, ignorando la soggezione che le mettevano i suoi occhi neri puntati nei suoi, «Sapevi che non era umano e poi hai detto a Londra dov’è sempre stato, quindi un po’ lo conosci».
La strega fece un piccolo accenno di sorriso: «Ma che bambina sveglia», apprezzò.
«Allora sei una sua amica?», domandò Olive.
Nunet emise un suono tra uno sbuffo e una risata: «Crowley non ha che un amico al mondo e non sono io, ma mi ha reso un servizio dal valore inestimabile».
Quella frase enigmatica attirò l’attenzione di Olive. «Che servizio?», chiese.
Nunet non sembrò offendersi della sua impertinenza. Le rivolse anzi un altro piccolo sorriso, stavolta venato di furbizia. «Vuoi vedere?». La bambina, come era prevedibile, annuì senza pensarci due volte. Nunet allora si avviò verso una delle tante porte tra gli altorilievi del salone e l’aprì, facendo segno a lei e a Muriel di entrare.
Fu come arrivare nel cuore di una foresta. C’erano alberi altissimi dalle chiome così fitte che non si vedeva se sopra c’era un soffitto o il cielo. Una luce forte orlava d’oro tutte le foglie sulle loro teste e illuminava il sottobosco nei punti in cui riusciva a penetrare nella vegetazione. Le loro orecchie si riempirono del rumore delle foglie mosse dal vento, di acqua che scorreva in lontananza, del canto degli uccelli, del ronzare e ticchettare degli insetti. Le loro narici furono investite dagli odori del legno e della terra, oltre che dell’umido aroma del muschio che ricopriva i tronchi degli alberi. Ma la cosa più meravigliosa erano gli animali. Entrando Olive e Muriel si trovarono davanti un gruppo di scimpanzé che agilmente si arrampicava sugli alberi più vicini; su una foglia sostava una ranocchia verde con le zampe arancioni e gli occhi rossi. Un tucano planò dolcemente atterrando dietro di loro, sulla spalla della strega. E mentre piene di meraviglia studiavano il posto, gli occhi di un giaguaro brillarono nell’ombra tra le felci a pochi metri da loro, facendole rabbrividire per lo spavento.
«Non abbiate paura», disse la strega, portandosi tra loro e il felino, «Sono tutte buone», e tese la mano come per richiamarlo. Il giaguaro si mosse con passi felpati emergendo dalla vegetazione fino ad arrivare, con la propria testa, a sfiorare la mano di Nunet che l’accarezzò.
«Ѐ stato Crowley a fare questo per te?», chiese Olive, tenendo stretta la mano di Muriel, entrambe ancora intimorite dal giaguaro.
«La foresta è mia, un vecchio ricordo», disse Nunet. Stava grattando dietro l’orecchio del giaguaro mentre il tucano le beccava affettuosamente una ciocca di capelli. Anche gli scimpanzé e la rana si stavano avvicinando a lei. «Dovete sapere che ho avuto molte mogli, nella mia lunga vita», raccontò, «E sebbene io avessi grandi poteri, non sono mai riuscita a renderle immortali. Prima o poi mi lasciavano sola», puntò gli occhi oscuri su di loro, «Il regalo che Crowley mi ha fatto è stato di poterle tenere con me, anche se in forme diverse».
«Non capisco, cos’è che ha fatto?», chiese Muriel, confusa, mentre Olive era rimasta a bocca aperta per la sorpresa.
«Quelle sono le tue mogli?», chiese infatti, indicando gli animali attorno lei.
Nunet stavolta le rivolse un sorriso pieno e sincero, sembrando finalmente una creatura veramente umana. «Ѐ così. Ce ne sono molte altre e verranno da me se sentiranno la mia voce».
«Ma come è possibile?», chiese Muriel incredula.
La strega si strinse nelle spalle. «Solo un demone può concedere questo potere, e Crowley me l’ha dato senza chiedere che stipulassi un patto con lui», rispose. Una nota di sincera gratitudine era distinguibile nella sua voce profonda.  
«Allora», riprese Olive, una volta riavutasi dalla sorpresa, «Lo aiuterai?».
La strega aggrottò le sopracciglia: «Come potrei aiutarlo?».
«Non lo so», rispose la bambina, «Ma è stato buono con te e Azi è stato buono con noi», con il pollice indicò se stessa e Muriel, «Perciò, ecco, dobbiamo andare da loro!».
 
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Aziraphale era atterrato nel suo negozio di libri con Crowley tra le braccia. Per qualche istante si era concesso di restare fermo e continuare a stringergli i fianchi ossuti. Sentire la consistenza del suo corpo sotto le dita e vedere la sua chioma rossa gli dava un senso di sicurezza e di stabilità. Si era ricordato all’improvviso, ritrovandolo, quanto era più bella e più semplice la vita se gli stava vicino.
Ma in quel momento di semplice non c’era un bel niente. Crowley era se stesso, ma anche qualcosa di completamente diverso. Aziraphale sentiva il battito del suo cuore contro al proprio petto, i suoi polmoni che si gonfiavano d’aria sfregando i loro corpi, e si rendeva conto che era vivo in una maniera nuova. Vivo come gli umani, ma soprattutto vulnerabile come loro e completamente indifeso. Gli ripiombò addosso la disperazione di sentirsi inadeguato a proteggere la cosa che più amava in tutto il creato. E pensare che aveva acquisito i poteri dell’Arcangelo Supremo per lui, per rendere il mondo un posto più bello, per cambiare il Paradiso perché fosse più conforme a lui. Tutto era stato per lui! E adesso non sarebbe stato in grado neanche di tenerlo in vita.
Lo lasciò andare per occuparsi della difesa del negozio. Non conosceva in realtà alcun miracolo che potesse proteggerli da Onesiel, ma forse, pensò, con una barriera l’avrebbe almeno rallentato…
Nel frattempo, Crowley barcollò un po’ per poi finire sdraiato di traverso sulla poltrona di pelle nera vicino alla scrivania di Aziraphale. Si portò, senza che Aziraphale lo notasse, una mano alla fronte e produsse un sibilo tra i denti digrignati e scoperti, strizzando gli occhi come in preda a un fortissimo mal di testa.
Aziraphale si stava apprestando a compiere un miracolo quando il campanello sulla porta suonò. Si trovò davanti Muriel, Olive e la strega Nunet. «E voi cosa ci fate qui?!», esclamò alzando entrambe le sopracciglia.
Olive e Muriel aprirono la bocca per rispondere, ma il suono del campanello le interruppe di nuovo. Aziraphale per poco non gridò vedendo in faccia il nuovo arrivato. Non si era ancora abituato, infatti, a non provare una sgradevole sensazione in presenza di Gabriel.
«Oh meno male, siamo arrivati in tempo», disse Belzebù, spuntando da dietro la schiena di Gabriel.
«Cosa…? Come…?», balbettò Aziraphale. Ignorando le sue domande, Gabriel percorse a grandi passi la distanza che li separava e lo abbracciò. Nella sua stretta vigorosa Aziraphale restò perfettamente immobile, come se lo stesse abbracciando un orso.
«Ho percepito che c’erano problemi», gli disse Gabriel, sciogliendo l'abbraccio e picchiettandosi l'indice su una tempia, «Io e Belzebù siamo venuti ad aiutare». Dietro di lui Belzebù annuì con veemenza.
«E perché dovreste aiutarci?», chiese Aziraphale.
«Aziraphale», Gabriel si mise una mano sul petto in corrispondenza del cuore, «Tu e Crowley mi avete protetto come dei genitori amorevoli. È un po’ come se foste i miei papà».
La strega Nunet fece una specie di risata spernacchiante, Muriel e Olive restarono interdette. Aziraphale fece una smorfia disgustata, «Cielo, no», commentò.
«Forse è un po’ troppo, dolcezza», gli disse Belzebù, indulgente, battendogli una pacca sulla spalla per poi scivolare con la mano sul suo braccio fino a intrecciare le loro dita assieme, «Ma vogliamo aiutare per davvero».
Crowley, ancora sprofondato nella poltrona, si produsse in un gemito più rumoroso e fece voltare tutti nella sua direzione. Aziraphale, trovando sul suo viso un’espressione sofferente, gli corse incontro e si inginocchiò accanto a lui. «Cos’hai caro?», chiese con apprensione.
Crowley non rispose che con un altro verso di dolore.
«Ma è umano…», commentò Belzebù, che li aveva raggiunti assieme agli altri.
«Una lunga storia», le disse Nunet.
«Sembra che stia male», sottolineò Muriel.
«Me lo immaginavo più… serpente», si intromise Olive.
«Non c’è niente che non si possa curare con una cioccolata calda», suggerì Gabriel con aria da esperto.
«Sono i suoi ricordi», a parlare era stata una voce nuova. Il demone Furfur stava in piedi al centro del negozio, a pochi metri di distanza da loro, con la sua fascia verde da Conte dell’Inferno di traverso sulla giacca di broccato nero, vagamente iridescente. «Quel piccolo cervello umano non può contenere tutte le esperienze di un demone millenario».
Aziraphale scattò in piedi, mettendosi davanti a Crowley per schermarlo dal nuovo venuto. «Cosa ci fai tu qui?», disse in tono basso e minaccioso, venato di disprezzo. Contro Onesiel non poteva fare molto, ma se quel demone pensava di torcere anche un solo capello di Crowley, Aziraphale l’avrebbe disintegrato.
Furfur alzò entrambe le mani in segno di resa e fece un piccolo sorriso: «Vengo in pace. Sono stato io a trasformarlo».
Aziraphale si sentì ribollire dentro una furia mai sentita prima: «Tu…».
«Me l’ha chiesto lui! Lasciami spiegare!», esclamò il demone, «Ѐ venuto da me a chiedermi che lo trasformassi, non molto tempo fa. Sembrava andasse di fretta e la richiesta era strana, ma sai com’è Crowley. L’ho aiutato», si strinse nelle spalle, «Sono voluto venire a controllare perché con queste cose non si sa mai. Mi sembra che abbia fatto bene».
«Allora puoi farlo tornare come prima?», chiese Olive, la cui testa spuntava da dietro una gamba di Aziraphale.
Prima che Furfur potesse rispondere, un boato dalla strada li fece voltare tutti in direzione della porta. Aziraphale corse alla finestra: nel bel mezzo della carreggiata si ergeva Onesiel. Doveva essere comparso all’improvviso, facendo scontrare tra loro due auto che avevano bruscamente frenato per evitarlo. Gli umani, vedendolo, avevano preso a correre via in tutte le direzioni. Come nel rifugio per senzatetto, si era creato un panico generale e un caos senza precedenti. Il punitore non se ne curò minimamente. Era come se non vedesse niente, né le auto, né i cestini dell’immondizia sul marciapiedi, né tantomeno gli umani. Avanzava spedito verso il negozio.
«Onesiel…», disse Gabriel che si era affacciato assieme ad Aziraphale, in contemplazione.
«Non è possibile, è una leggenda», negò Belzebù, terrorizzata.
«Non lo è, tesoro», le rispose Gabriel, prendendola per mano, «Lo avevo visto solo una volta, tanto tempo fa in Paradiso», poi, rivolto ad Aziraphale: «Non ti obbedirà, anche se sei il Supremo Arcangelo».
«Lo so bene», rispose Aziraphale.
«Bisogna erigere una barriera a difesa del negozio», disse Nunet con urgenza, «Servirà tutto il nostro potere».
Aziraphale non se lo fece ripetere due volte: la raggiunse e le prese una zampa artigliata. Belzebù si unì a loro stringendo la mano libera di Aziraphale mentre l’altra era già intrecciata a quella di Gabriel. Furfur, senza che nessuno lo chiedesse, prese l’altra mano di Gabriel.
«Anche tu, angioletto», disse la strega a Muriel, facendole segno di avvicinarsi con la mano libera. Deglutendo visibilmente, Muriel gliela strinse.
Si concentrarono intensamente per qualche secondo, serrando gli occhi. Aziraphale sentiva una energia potente risuonare nel petto e nel punto in cui toccava gli altri, ma sapeva che non era abbastanza. Se solo anche Crowley avesse avuto il suo potere: insieme loro due avrebbero trovato un modo…
«Ha funzionato?», chiese Gabriel, aprendo un occhio.
Olive corse alla porta: vide che il mostro in armatura si era fermato a metà strada. Si trovava tra il caffè e il negozio di dischi. Lo osservò mentre alzava un guanto di metallo scintillante, quello libero dalla forca. L’aria davanti a lui, nel punto in cui la stava toccando, vibrò di un colore rosato prima di tornare trasparente. La bambina stava per urlare, trionfante, che sì, ce l’avevano fatta, ma il suo sguardo fu attirato da una gruppo sempre più folto che si stava raccogliendo dietro al cavaliere, avanzando per raggiungerlo. Non solo arrivavano dalla strada in cui era passato Onesiel: ce n’erano altri che venivano dall’incrocio e dalla strada opposta. Erano dei mostri: facce sfigurate, corpi storti e grotteschi, sporchi e minacciosi. Ad occhio ce n’erano più di un centinaio e continuavano ad arrivare, sembravano emergere direttamente dall’asfalto.
«Azi!», lo chiamò la bambina, allontanandosi dal vetro con il cuore che batteva forte, impazzito di paura.
Aziraphale si staccò dagli altri e accorse da lei. «Demoni», disse, come se fosse un’imprecazione, «La seconda volta quest’anno!».
«Ma chi li ha mandati?», si chiese Belzebù.
«Sono troppi, abbatteranno la barriera!», disse Nunet.
Crowley a quel punto scivolò giù dalla poltrona con un grido. Si sentiva come se gli avessero spaccato la testa a metà. Aziraphale gli fu accanto in meno di un secondo, in ginocchio accanto a lui gli prese la testa tra le mani. «Oh amore mio…», gemette. Crowley aprì gli occhi su quelli azzurri dell’angelo, ma era come se non lo vedesse. I suoi occhi umani erano velati e pieni di lacrime. Anche Aziraphale sentì che stava per piangere. Avrebbe voluto potergli togliere il dolore e portarselo via, ma non sapeva come fare e non aveva dove fuggire.
Muriel continuava ad osservare, tremando, ciò che accadeva fuori. Le due ruote nella panzera di Onesiel avevano preso a girare su se stesse, lasciando intravedere come dentro all’armatura in realtà non ci fosse nulla. Gabriel, che era vicino a lei, le spiegò: «Non ha un corpo, per impedire che venga discorporato».
I demoni si affollavano attorno alla barriera, facendo pressione su di essa con centinaia di mani di vari gradi di mostruosità. «Qualcuno li comanda», disse Belzebù, «Ma non riesco a capire chi sia».
«Ѐ colpa mia», singhiozzò Aziraphale, «Se non fossi venuto a cercarlo non lo avrebbero trovato». Non riusciva ancora a spiegarsi perché Onesiel l’avesse attaccato. Che fastidio poteva dare Crowley a Dio? Era un demone come ce n’erano tanti altri! Solo per Aziraphale era speciale… E gli altri demoni, erano venuti per lui? O ce l’avevano con lo stesso Aziraphale? I pensieri gli si affollavano in testa, misti all’angoscia di tenere tra le braccia un Crowley così sofferente.
«Non avrebbe resistito comunque. Di questo passo impazzirà, o morirà», gli rispose Nunet, in piedi vicino a loro.
«La barriera sta crollando!», Olive era corsa alla finestra che dava su un’altra strada e anche lì aveva trovato decine e decine di demoni che cercavano di abbattere la barriera. Assistette impotente mentre una serie di buchi dai contorni rossi si creavano nell’aria attorno a loro.
«Muriel», chiamò Aziraphale, la voce di nuovo salda e autoritaria nonostante il suo tumulto interiore, «Porta via la bambina e anche tu», guardò Nunet, «Va’ via. Non puoi combattere contro i demoni».
Muriel stette in silenzio qualche secondo, poi disse, semplicemente: «No».
Tutti la guardarono come se fosse impazzita tranne Olive, con la quale Muriel si scambiò un piccolo sorriso d’intesa. «Come sarebbe a dire no?», le chiese Aziraphale, con le sopracciglia aggrottate.
«Siamo amici», Muriel si strinse nelle spalle.
«Cosa-»
«Arcangelo», lo interruppe Nunet, «Ricordi il debito che hai con me?». Aziraphale annuì, interdetto. «Ecco, pagalo: sta’ zitto», e chiuse il discorso.
In quel momento, tutti i presenti che avevano contribuito a formarla, avvertirono il crollo della barriera.
«Arrivano!», gridò Gabriel.
Aziraphale abbassò lo sguardo sul volto di Crowley. Sembrava perso in un altro mondo. Respirava molto piano e guardava un punto imprecisato sul soffitto. La sua espressione non era più di sofferenza, ma vuota. Con il pollice Aziraphale gli carezzò la guancia sudata, poi si tolse la giacca e la piegò sotto alla sua testa. Prima di alzarsi, gli sussurrò: «Resisti, amore. Tornerò presto da te».
«Io posso tenere fuori i demoni», annunciò Belzebù.
«Vengo con te», disse Gabriel. Si portò una mano nella tasca del cappotto e ne estrasse una lunga spada scintillante.
«E quella da dove arriva?», si stupì Belzebù.
«Rubata dalla collezione di Michael tempo fa. Non si sa mai», le fece l’occhiolino. Belzebù d’impeto gli si lanciò addosso e, presolo per il maglione, lo baciò.
«Wow», commentò scioccamente lui quando si fu staccata, «Se avessi saputo che ti piacciono tanto ne avrei presa una anche per te».
Lei fece un sorrisetto compiaciuto: «Preferisco usare le mani», e uscì scrocchiandosi le dita una per volta, seguita da un Gabriel ancora un po’ imbambolato.
Onesiel aveva ripreso la sua inesorabile avanzata. Belzebù e Gabriel dovettero scartare da un lato per evitare la sua frusta, che si abbatté invece sulla porta del negozio distruggendola assieme a parte della facciata del palazzo.
La strega Nunet, che era la più vicina, recitò una serie di parole non udibili e l’intero negozio si riempì di una foschia nera e fitta. Sperava di disorientare il cavaliere in modo che non riuscisse a trovare Crowley.
Muriel, trovandosi nella totale incapacità di vedere dove stesse andando, si mosse a tentoni nella nebbia fino a tastare qualcosa di duro, che riconobbe come lo spigolo di una libreria. Poi si sentì afferrare la giacca da qualcosa.
«Muriel?», sussurrò la vocina di Olive. Muriel le cercò la mano con la propria e la strinse forte. In quel momento udirono uno schiocco e l’aria immediatamente di fronte a loro fu liberata. Si trovarono faccia a faccia con Onesiel. Muriel lanciò un grido e tirò la bambina per toglierla di mezzo. Onesiel le puntò contro la forca, caricando il colpo per infilzarla.
Olive, con tutta l’esigua forza che possedeva, si oppose a Muriel che voleva spostarla e, anzi, le si mise davanti per proteggerla dal colpo. Entrambe chiusero gli occhi in attesa di sentirsi trapassare il corpo dai rebbi appuntiti ma… non accadde nulla. Onesiel si era fermato con la forca sospesa a pochi centimetri dalla testa di Olive che proteggeva il petto di Muriel. Il suo elmo con la visiera calata, che sembrava una fila di denti digrignati, si avvicinò al viso di Olive come per studiarla. Muriel da dietro la strinse contro di sé e indietreggiò di qualche passo, fino a urtare uno scaffale con la schiena. Il cavaliere si drizzò nella sua statura imponente e si voltò per tornare nella nebbia.
Olive si girò nell’abbraccio di Muriel, e le due si guardarono in faccia per qualche secondo. Poi, all’unisono, dissero, in tono contemplativo Olive ed entusiasta Muriel: «Non può uccidere gli umani!».  
Aziraphale con un piccolo miracolo aveva diradato la nebbia davanti a sé, riuscendo a ritrovare il punto in cui aveva lasciato Crowley. Era ancora a terra ai piedi della poltrona. Aziraphale aveva intenzione di condurlo sul retro del negozio, dove avrebbe aperto con un miracolo un’uscita secondaria per portarlo via.  Udiva le grida e i ruggiti dei demoni che combattevano fuori in strada. Avvertì anche il grido di Muriel e per qualche secondo fu tentato di andare a cercarla, ma non poteva. Afferrò una spalla di Crowley e lo tirò per alzarlo. Il suo corpo non pesava granché; avrebbe potuto prenderlo in braccio con agio anche senza avere i poteri di Arcangelo. Ma mentre faceva questa considerazione, la frusta di Onesiel schioccò, spezzando a metà la poltrona accanto a lui. Aziraphale scartò dal lato opposto, tenendo Crowley, che si lasciava trascinare a peso morto, per un braccio. Gli si mise davanti per proteggerlo.
Ora fronteggiava Onesiel. Ricordò con un tocco di amarezza la propria spada fiammeggiante: se solo l’avesse avuta in quel momento! Si accontentò di evocarne una normale con un miracolo, assumendo la posizione di difesa. Non era mai stato un grande spadaccino, ma lui e quella spada ora erano tutto ciò che si frapponeva fra Crowley e la morte, pensò. Non c’era mai stato un motivo più importante per combattere.
Guardò Onesiel caricare il colpo della forca e si preparò a parare. Quando il colpo si abbatté su di lui, riuscì a fermare il manico dell’arma nemica con la lama della spada, ma Onesiel cominciò ad esercitare una pressione incredibile. Aziraphale cercò di resistere, ma l’altro era semplicemente troppo forte. Non riusciva a spingere via la forca, e avrebbe presto perso la presa sull’impugnatura della spada. Le braccia gli dolevano. Sarebbe morto, avrebbe lasciato che Crowley morisse per via della sua inettitudine… ma qualcuno arrivò di corsa e lo spinse via, facendolo atterrare sui frammenti della poltrona. La spada gli cadde di mano, andando a finire chissà dove.
«Non può uccidere gli umani», gli gridò Muriel a un centimetro dalla faccia, atterrata su di lui dopo esserglisi lanciata contro a peso morto.
«No, Crowley!», gridò Aziraphale, che non aveva neanche capito cosa lei avesse detto. Se la tolse di dosso con malagrazia.
Nunet, che aveva udito quel trambusto, con uno schiocco di dita ritirò la nebbia.
Allora la scena apparve chiara: Olive era rimasta in piedi accanto alla libreria, dove Onesiel aveva attaccato lei e Muriel. Quest’ultima si trovava invece seduta per terra sotto la finestra, con Aziraphale in piedi accanto a lei, con le mani tra i capelli. Guardava esterrefatto mentre Crowley si alzava in piedi sulle gambe magre e malferme, aggrappandosi allo schienale della poltrona bergère. Onesiel gli stava di fronte, immobile, la forca ancora nella posizione in cui era quando Aziraphale stava cercando di trattenerla con la spada.
«Che c’è? Hai paura bastardo? Guarda che cosa hai combinato!», sibilò Crowley rivolto ad Onesiel, con un cenno alla distruzione che regnava nel negozio.
«Caro…», gemette Aziraphale, e fece un passo nella sua direzione. Muriel gli afferrò la caviglia per fermarlo. «Non andare! Non lo ucciderà!», gli assicurò.
Infatti, Aziraphale notò come l’angelo non si fosse ancora mosso. Dopo un lungo istante, le braccia gli caddero a penzoloni lungo i fianchi, con la frusta e la forca strette in mano, come se non sapesse che farci. Poi, lentamente, si voltò. Fece due passi in direzione della porta e disparve in una luce dorata.
Per qualche secondo restarono tutti con il fiato sospeso, ascoltando i rumori della battaglia dei demoni contro Belzebù e Gabriel, che ancora infuriava per strada. Aziraphale tirò un sospiro di sollievo.
I suoi occhi incrociarono quelli di Crowley, che ora sembravano riconoscerlo appieno.
«Angelo», gli disse infatti, con la voce roca che ad Aziraphale era mancata così tanto e il suo sorriso più affascinante, che gli arricciava le labbra su un lato della bocca. Aziraphale si sentì le guance bagnate di lacrime di gioia. Provava nei suoi confronti un amore che gli gonfiava il petto e gli scoppiava nella pancia come fuochi di artificio. Era salvo, pensò, il suo Crowley era vivo ed era davanti a lui e sarebbe stato bene! Ah, Aziraphale avrebbe fatto qualsiasi cosa perché stesse bene. Si sarebbe recato in Paradiso e avrebbe affrontato Dio stessa perché lo lasciasse in pace, e poi avrebbe trovato un modo per restituirgli la sua natura di demone. Capì, guardandolo nuovamente davanti a sé dopo tanto tempo, che nient’altro era importante. Era stato un errore imperdonabile lasciarsi Crowley alle spalle, ma avrebbe rimediato. C’era tutto il tempo del mondo, e anche di più.
Aziraphale, infine, mosse qualche passo verso di lui ma poi… Crowley sussultò e allargò le braccia, come colpito da qualcosa. Aziraphale in un primo momento non capì cosa fosse accaduto finché l’altro non ebbe aperto la bocca e ne vide scivolare fuori un rivolo rosso che gli gocciolò giù dal mento.
«Angelo», ripeté Crowley, stavolta con un rantolo, prima di cadere in ginocchio. Aziraphale corse nel breve spazio che li separava e gli si inginocchiò accanto. «Crowley, Crowley cosa…», cercò di dire, ma quando toccò la schiena di Crowley, sentì la mano bagnarsi di sangue.
Alzò lo sguardo e vide Furfur con in mano un tagliacarte, uno che Aziraphale riconobbe come il proprio che teneva sulla scrivania per aprire le lettere. Era insanguinato.
«Avrei dovuto farlo prima», disse Furfur, stringendosi nelle spalle con noncuranza, sotto lo sguardo attonito di tutti i presenti, «Speravo di poter delegare al bestione ma, sai come si dice: se vuoi che una cosa sia fatta bene te la devi fare da solo. Non guardatemi così, era un fastidio per tutti! Persino a Dio fa più comodo da morto».
Muriel era arrivata da loro gattonando. «Non riesco a curarlo», disse ad Aziraphale, mentre qualche lacrima le cadeva sulle guance.
Aziraphale si riscosse e provò a fare un miracolo per far riassorbire il sangue nel corpo di Crowley. Non funzionò. Riprovò ancora una volta, e un’altra ancora, e un’altra…. «Perché cazzo non funziona?!», ringhiò.
«Non è parte del creato», anche Nunet era arrivata accanto a loro e si era chinata su Crowley, «Nessuna magia o miracolo può curarlo».
Crowley, con la testa appoggiata alla spalla di Aziraphale, mugolò qualcosa.
«Cosa c’è amore?», gemette Aziraphale, avvicinando l’orecchio alla sua bocca.
«Ѐ tutto ok», esalò lui, con le labbra e il suo respiro caldo che sfioravano la pelle di Aziraphale, «Sei fuori pericolo…».
«Oh no, Crowley…», singhiozzò Aziraphale, cercando di spostarlo perché stesse più comodo.
Crowley alzò una mano e la posò su quella che Aziraphale teneva sul suo petto per tenerlo dritto. «Grazie di essere venuto», disse, la voce sempre più flebile, «Ti perdono…». La sua mano strinse un’ultima volta quella di Aziraphale, poi ricadde sulla coscia.
Crowley era morto.                                                         
 
Aziraphale sentì il proprio corpo intorpidirsi. Era una sensazione di freddo che risaliva dagli arti al torace e si stringeva nella sua gola in un nodo doloroso. Era una nebbia che gli offuscava i pensieri. Era un distacco da se stesso, come guardarsi dall’alto con gli occhi di un altro. Era un’ombra nera dentro di lui, più oscura della disperazione più profonda.
Tutt’attorno, cominciò il terremoto.
 
 

AVVISO SUI CONTENUTI: morte di un personaggio principale. 
Per chi è arrivato qua sotto dopo aver letto tutto... non mi picchiate! Il prossimo capitolo arriva più presto che posso, non spoilero niente ;D

 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Ogni cosa ha il suo rovescio ***


3. OGNI COSA HA IL SUO ROVESCIO
 
 
Il posto in Paradiso in cui Metatron stava era lontano da quello abitato dagli altri angeli. Era il centro del Paradiso stesso, il punto più luminoso e vicino a Lei. Metatron ascoltava e interpretava la Sua voce e viveva in contatto costante con Lei. Questo gli conferiva la massima autorità, nessuno in Paradiso poteva disobbedirgli. Era amato, ascoltato, venerato.
Ma Lei aveva smesso di parlargli da tempo.
Era accaduto da un giorno all’altro. Lei lo aveva lasciato senza le Sue parole e Metatron si era trovato a brancolare nel buio, senza più sapere cosa fare, camminando alla cieca sul sentiero di Lei come tutti gli altri angeli. Era stato un dolore grandissimo pensare di aver perso il Suo favore. Si era interrogato a lungo su cosa questo potesse significare. Se fosse stato per colpa dell’Apocalisse che non era arrivata, se Lei avesse imputato a lui quel fallimento. Metatron non aveva mai prima d’allora sperimentato cosa fosse l’insicurezza, non sapeva cosa fosse il dubbio. Come nessun altro in tutto il creato, la sua convinzione non aveva mai vacillato. Perché finché Lei aveva sussurrato al suo orecchio lui non aveva mai dovuto fare congetture, mai aveva dovuto scegliere niente. Senza di Lei camminava nel buio, disperato, come un bambino in un bosco oscuro senza un lume da seguire o una casa a cui tornare.
Poi aveva capito, all’improvviso, quello che Lei voleva.
Da sempre lo aveva istruito perché seguisse le regole che Lei dettava, assicurandosi che le insegnasse anche agli altri e ora, come un genitore responsabile, gli aveva lasciato la mano perché proseguisse la strada solo sulle proprie gambe, per quanto malferme all’inizio, certa che l’avrebbero portato dove Lei l’aveva ben indirizzato.
Metatron aveva predisposto le condizioni perché si realizzasse il Suo regno e aveva fallito la prima volta, ma il responsabile non era stato lui. C’era una variabile impazzita nella trama del creato che si era opposta al Suo piano. Era stato un demone che aveva circuito un angelo e impedito l’Apocalisse. Una cosa contro natura, inaccettabile. Aveva osservato quell’amicizia con disgusto, e l’aveva tollerata solo perché Lei non gli aveva mai ordinato di intromettersi. Ma ora aveva capito che lo stava preparando a cose più grandi e Metatron non poteva permettere che il Suo piano venisse compromesso una seconda volta. Era Lei che indirettamente lo chiedeva, consegnandogli le redini del Paradiso. Gli diceva che era tempo di Apocalisse e di ordine, finalmente.
Il demone andava eliminato, l’angelo riportato sulla via retta. Era questo che Lei gli aveva insegnato a fare, rendendolo l’unico in grado di distinguere i contorni netti tra ciò che è Bene e ciò che è Male. Con l’angelo aveva già ottenuto il successo che sperava: era tornato in Paradiso ed era troppo impegnato in un compito faticoso e inutile per poter pensare alla ribellione. Gli aveva concesso un’autorità del tutto fittizia, quel tanto che bastava perché si credesse importante, fondamentale addirittura, e aveva immediatamente dimenticato il demone.  
Metatron quella volta non aveva sottovalutato il suo nemico. Lo aveva prima studiato a lungo per capire come agire e poi gli aveva lanciato contro l’arma più potente a sua disposizione. Il demone non ne sarebbe uscito vivo. Sarebbe stato cancellato dall’esistenza e impossibilitato a tornare per sempre. Si era nascosto in qualche modo, ma non sarebbe riuscito a sfuggire al proprio destino. Una volta risolta quella faccenda, poi, sarebbe stata la fine del mondo per come lo si era conosciuto fino ad allora. Cioè il compimento ultimo dell’opera di Lei. Si sarebbe realizzata l’utopia verso cui tutto il lavoro fatto dal Paradiso fino ad allora aveva teso.
Mentre ragionava attorno a questi pensieri, udì i passi di qualcuno che stava arrivando al suo cospetto.
Era l’angelo Uriel, retto e compito con le mani dietro alla schiena, che gli fece un piccolo inchino formale prima di parlare.
«Il punitore è tornato», disse, «Non ha compiuto la sua missione».
Metatron, colto ancora una volta da quella orrida sensazione di spiazzamento, pensò che era impossibile. Una volta rilasciato, infatti, Onesiel non poteva tornare prima di aver eseguito l’ordine che gli veniva impartito. «Com’è potuto accadere?», gli chiese. Provò un sentimento di profondo sdegno verso se stesso notando quanto la sua voce aveva tremato di incertezza, nel pronunciare quelle parole.  
Uriel, saldo e composto, con durezza rispose: «Forse è meglio che lo vediate con i vostri occhi, signore».
                                                                                                            
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Michael stava tirando il bambino Gesù per una caviglia, trascinandolo sul pavimento immacolato del Paradiso, mentre Saraqael osservava la scena massaggiandosi le tempie con due dita.
«Vostra Grazia, dobbiamo fare la lezione», stava dicendo Michael, in un tono sibilante di impazienza. Gesù provò a tirarle un calcio con la gamba libera.
«Non voglio non voglio non voglio», gridò, battendo i pugni per terra, «Voglio Aziraphale».
«Non c’è, Vostra Grazia», ripeté Michael, ormai quasi gridando anche lei.
«Tornerà presto», si intromise Saraqael, con un tono un po’ troppo passivo aggressivo per una che si stava rivolgendo al Salvatore.
Gesù lanciò un altro urlo: «Io lo voglio adesso!».
«Probabilmente sarà sulla Terra», ragionò Michael, cercando di calmarsi mentre dentro di sé voleva solo prendere il bambino e defenestrarlo come aveva fatto, al tempo, con Lucifero.
«Allora voglio andare sulla Terra!», rispose il bambino, esibendosi in una specie di pianto isterico senza lacrime.
«Ma Vostra Grazia, non potete andare sulla Terra. Non siete ancora pronto», disse Saraqael.
«Io posso fare quello che voglio!», strepitò Gesù.
Michael e Saraqael si scambiarono smorfie che volevano dire circa io questo bambino lo ammazzo e tieni duro, è nostro Signore Gesù Cristo.
«Ve lo ordino», gridò ancora il bambino, allungando tutte le vocali delle parole in strilli incontrollabili, «Portatemi da Aziraphale!».
 
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Gabriel aveva appena decapitato con un colpo di spada un demone dal capo caprino e Belzebù affondato le mani nel petto di un altro demone strappandone via il cuore. Erano entrambi zuppi di sangue nero e secrezioni di vario tipo, al centro di un cerchio di demoni che li stringeva schiena contro schiena. Tutt’attorno a loro c’erano la polvere e gli scarti che si erano lasciati dietro i demoni che già avevano annientato. Erano pronti ad affrontare il prossimo che si sarebbe fatto avanti, quando tutto si fermò e la terra cominciò a tremare.
Iniziò con un lieve vibrare dei vetri alle finestre dei palazzi attorno a loro. Poi avvertirono la scossa sotto ai piedi. Si scambiarono sguardi confusi con i demoni, che sembravano sorpresi quanto loro.
Infine, dal negozio qualcuno gridò.
Belzebù cercò la mano di Gabriel e la prese nella propria, correndo con lui verso la fonte del rumore.
Dentro al negozio gli scaffali tremavano, producendo un rombo basso e un tintinnio di oggetti che cozzavano tra loro, mentre i libri cadevano a terra uno dopo l’altro in una pioggia di tonfi sordi. La polvere dei calcinacci prodotti dalla distruzione che Onesiel si era lasciato dietro non si era ancora posata del tutto, rendendolo loro difficile distinguere a un primo sguardo cosa stesse accadendo.
Videro le sagome della strega e di Furfur, in piedi, visibili nel contrasto con la luce che entrava dalla finestra. Video la bambina umana che aveva trovato riparo sotto a un tavolino. Videro Muriel e Aziraphale, seduti per terra e, infine, videro le gambe inerti di Crowley, sdraiato in mezzo a loro. Gabriel provò a fare un passo verso di loro ma Belzebù lo trattenne.
«Qualcosa non va», gli disse, ad alta voce per farsi udire nel chiasso che aveva inghiottito il negozio.
Ciò che non andava era Aziraphale.
Piegato su se stesso aveva appoggiato le mani sul pavimento, quella pulita e quella sporca del sangue di Crowley, poi la aveva strette in un pugno graffiando come se volesse strappare il parquet. Aveva emesso un verso basso e gutturale, sotto gli occhi attoniti di tutti i presenti.
La strega Nunet era stata l’unica a muoversi, indietreggiando di qualche passo per allontanarsi da lui. Aveva capito cosa stava accadendo.
«Scappa», disse a Muriel, che alzò su di lei uno sguardo confuso. «Va’ via, scappa», ripeté.
Ma nessuno fece in tempo a fare nient’altro. Con uno scatto Aziraphale si era alzato in piedi e aveva afferrato Furfur per il collo. L’aveva sollevato con una mano e questi aveva gridato per la sorpresa. Il tagliacarte gli era scivolato dalle dita finendo per terra con un rumore metallico, ancora gocciolante del sangue di Crowley.
Allora tutti avevano visto: gli occhi di Aziraphale brillavano di luce propria. Erano diventati di un rosso ribollente, come la lava fusa che scivola sul fianco di un vulcano, fin nella sclera. Il suo volto non aveva più nessun colore, era bianco come quello di uno spettro ma sotto alla pelle smorta si intravedevano bagliori rossastri. Era come se un fuoco lo illuminasse da dentro, scorrendo in lui come sangue.
«Un demone», sussurrò Gabriel. Nessuno lo udì ma non ce n’era bisogno, tutti i presenti avevano capito.
«Lasciami, razza di ridicolo damerino!», gridò Furfur scalciando a vuoto, cercando con le mani di sciogliere la presa dell’altro sulla sua gola, graffiandogli le dita con le unghie corte. Aziraphale aprì la bocca e ne uscì un lungo rombo basso, come di un aereo in volo o un tuono, un suono mostruoso che fece incrinare i vetri alle finestre e poi li infranse. Tutti si portarono le mani alle orecchie, cercando di proteggersi da quel frastuono insopportabile.
Furfur a quel punto si era fermato, cambiando completamente il proprio atteggiamento arrogante in uno supplice e terrorizzato. «Mi dispiace!», gridò con una punta di isteria, «Lasciami, mi dispiace».
Il punto in cui la mano di Aziraphale toccava il suo collo cominciò a fumare. «Mi dispiace! Mi dispiace!», continuava a gridare Furfur, sempre più terrorizzato, «Faccio quello che vuoi! Ti prego, ti scongiuro!». La sua faccia si stava riempiendo di venature rosse che emettevano sempre più fumo nero: Aziraphale lo stava incenerendo.
«Aiutatemi vi prego!», continuava a urlare Furfur, supplicando ora Aziraphale e ora gli altri, «Ti prego, te lo posso riportare indietro!».
Udite quelle parole, Aziraphale serrò ancora di più la presa e Furfur, lanciando un ultimo verso di dolore, si sgretolò in un mucchio di cenere.
A quel punto la terra smise di tremare e calò il silenzio. Aziraphale prese a camminare verso il buco che c’era ormai al posto della porta del negozio, dove Belzebù e Gabriel ancora sostavano attoniti. Passò indifferente sotto gli occhi dei suoi amici, come se non li vedesse. La piccola Olive trattenne il fiato quando le fu vicino ma lui non la degnò neanche di un’occhiata veloce. Uscì fuori tra i demoni, che sbigottiti lo osservarono senza sapere che fare. Chi li aveva condotti lì era appena morto per mano della strana creatura che era ora Aziraphale, e non sapevano se dovevano combatterlo oppure lasciarlo andare via.
Aziraphale guardava dritto davanti a sé. Era pomeriggio inoltrato e il sole illuminava Londra con i suoi ultimi raggi. L’arcobaleno che l’aveva accolto al suo arrivo quella mattina era scomparso.
Mentre tutti lo guardavano, Aziraphale si piegò in avanti.
Si udì un suono inquietante, di qualcosa che veniva strappato con violenza, e tra le scapole di Aziraphale lentamente sorsero due appendici che sembravano due zampe di ragno nerissime. Si allungarono e allargarono, fino ad assumere la forma di due ali senza piume, come quelle di un pipistrello. Quando si muovevano, lasciavano cadere a terra spolverate di cenere. Era come se le sue ali di angelo si fossero bruciate in quel corpo pieno di fuoco, e ora cercassero di fuggire per salvare quello che era rimasto. Poi il corpo di Aziraphale si gonfiò. Almeno, così sembrò all’inizio. Stava crescendo in altezza, diventando grande il doppio, il triplo, superava i palazzi… I demoni si dispersero tra grida di terrore e rumore di passi concitati sull’asfalto per lasciargli spazio.  
Aziraphale, ritornando in posizione eretta alla fine di quella mutazione mostruosa, produsse nuovamente quel rombo che gli usciva direttamente dal petto, cento volte più forte per via delle sue dimensioni, e la città intera tremò. Scoppiavano le finestre, crollavano i tetti, gli umani che dalle strade vicine lo vedevano, alto sulle case, stagliato contro al cielo con i suoi occhi fiammeggianti e le sue ali bruciate che gettavano lunghe ombre sulla Terra, fuggivano in preda al panico. Quelli che non lo vedevano, troppo lontani o chiusi nelle loro case, pensavano di essere sotto ad un bombardamento.
«Dobbiamo fermarlo…», sussurrò Muriel. Insieme con gli altri sostava sull’entrata distrutta del negozio per guardare fuori.
«Non possiamo fermarlo, è troppo potente», disse la strega.
«Ma ci sarà un modo…», ribatté Muriel, con una vocina che tradiva quanto lei stessa non avesse alcuna fiducia in ciò che aveva detto.
«Ѐ un arcangelo… Ricordi cos’era Lucifero prima di diventare Satana?! E per di più lui è il Supremo», disse Belzebù.
«Mio Dio», disse Gabriel, «Distruggerà ogni cosa».
Aziraphale si incamminò, abbattendo con una gamba la caffetteria dirimpetto al negozio. A ogni passo creava fossi nell’asfalto. I demoni, riconosciuta in lui la sua enorme potenza, dopo un momento di esitazione gli andarono dietro, in una specie di parata infernale. Quelli che possedevano le ali, si alzarono in volo attorno a lui come uno sciame di mosche, altri strisciavano, altri si muovevano al galoppo. Ciò che non demoliva Aziraphale con il suo pesante incedere, lo buttavano giù i demoni in festa.
«Di là c’è casa di mia nonna», disse Olive, pianissimo, portandosi entrambe le mani sulla bocca per l’orrore.
Nel frattempo Metatron e Uriel erano arrivati sulla Terra. Dal tetto di un palazzo lontano avevano assistito alla trasformazione di Aziraphale.
«Com’è potuto accadere?», chiese Metatron tra sé, per la seconda volta in una sola giornata. Quello non era il suo piano, non era così che aveva pensato all’Apocalisse! Possibile che ancora una volta il demone Crowley fosse stato capace di rovinare ogni cosa?!
«Non è questo che le ha detto di fare Dio, signore?», gli domandò Uriel, in un tono che gli parve sarcastico. Metatron era tanto sconvolto che si era persino dimenticato di averlo accanto. Lo fulminò con un’occhiata ammonitrice.
«Quel mostro deve essere abbattuto al più presto», gli ordinò, «Va’ ad avvisare Michael perché organizzi l’esercito. Lo voglio morto prima che spunti l’alba».
Uriel annuì, sebbene non si sentisse affatto convinto, e disparve.
 
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Michael e Saraqael arrivarono con il bambino Gesù in Saint James Park proprio mentre le luci dei lampioni si stavano accendendo. Sulla ghiaia dei sentieri c’era ancora qualche pozzanghera lasciata dall’acquazzone mattutino che aveva raffreddato l’aria. Erano atterrati sotto una quercia e subito Gesù la riconobbe, grazie agli insegnamenti di Aziraphale, e ne strappò una foglia per studiarla da vicino. «Questa fa delle piccole ghiande», disse, entusiasta, sventolando la foglia sotto al naso di una insofferente Saraqael, «E poi gli scoiattoli le mangiano! Come quello de L’era glaciale!». Prese a correre tra l’erba, sporcandosi di terra le scarpe e l’orlo dei pantaloni turchesi, indicando ogni cosa vedeva e chiamandola per nome: tulipano, formica, pietra, faggio…
Le sue accompagnatrici, intanto, si guardavano attorno.
«C’è una puzza strana», considerò Michael.
«La Terra puzza sempre», commentò Saraqael con una smorfia.
«No c’è una puzza… di guerra», insisté Michael, allargando a più riprese le narici e assottigliando gli occhi.
«Guerra? Siamo in Inghilterra», rispose Saraqael alzando gli occhi al cielo.
«Forse stanno cercando di conquistare una nuova colonia?», ipotizzò Michael.
«Ah, Cielo», sbuffò Saraqael, «Credevo avessero smesso secoli fa».
«Cos’è quello?», gridò Gesù. Gli angeli alzarono gli occhi verso dove stava indicando e videro, in lontananza, una grossa testa con gli occhi rossi da sopra le chiome degli alberi. Era una visione grottesca contro al cielo trapuntato di stelle, la pelle effusa di un lucore scarlatto e l’espressione vuota di una statua di marmo. Attorno a lui volava uno sciame di piccoli oggetti che i due angeli non riuscirono a distinguere, neanche assottigliando gli occhi per affinare lo sguardo. 
«Assomiglia al tuo ex», celiò acida Saraqael. Michael le rivolse una smorfia risentita.
«Ѐ Aziraphale!», disse ancora Gesù. Ora che Saraqael e Michael lo guardavano meglio, in effetti, sembrava proprio Aziraphale anche a loro.
«Ma è un demone?».
«Cos’altro vuoi che sia? Non vedi che occhi ha?!».
«Voglio andare lì», le interruppe Gesù, continuando ad indicare verso il mostro. Prima che una delle sue accompagnatrici potesse opporsi, prese a correre in quella direzione.
 
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Uriel non aveva trovato Michael in Paradiso, e si era arrangiato a dare personalmente gli ordini agli angeli perché organizzassero l’esercito. Era poi tornato sulla Terra, atterrando nella strada in cui aveva visto l’ultima volta il demone Aziraphale. Tra i palazzi crollati, nella folla crescente di umani che scappavano da una parte e dall’altra, aveva visto il negozio di libri con la facciata diroccata. Si era sentito chiamare all’improvviso.
«Fratello!». Gabriel, che gli sembrava di non vedere più da una vita ormai, gli era corso incontro e gli aveva gettato le braccia al collo, lasciandolo immobile ed esterrefatto.
«Cosa ci fai tu qui?», gli chiese, respingendolo, «Non eri scappato con il tuo… demone?».
Gabriel lo prese per un polso e lo trascinò verso il negozio, evitando gli umani che schizzavano per la strada in tutte le direzioni come bestiame spaventato: «Siamo tornati», spiegava intanto, «Perché c’erano dei problemi. Non pensavamo fossero così grossi però!».
«Ѐ l’Apocalisse», rispose Uriel.
Nel negozio avevano liberato un tavolo e ci avevano adagiato sopra il corpo di Crowley. Con la propria giacca Muriel gli aveva pulito il sangue che si stava raggrumando sotto alla sua bocca e sul mento, Belzebù gli aveva chiuso gli occhi e Olive gli aveva sistemato i capelli. La strega, Nunet, con una magia aveva ricostruito i suoi occhiali neri e li aveva posati tra le sue mani, incrociate sul petto. Avevano acceso delle candele, poiché la corrente aveva smesso di funzionare in tutto il quartiere, e ora gli stavano attorno: Muriel, Belzebù, la strega e la piccola Olive, senza sapere cosa fare mentre la furia di Aziraphale distruggeva il mondo intero.
Uriel, entrando al seguito di Gabriel, le vide così, strette attorno a quel corpo sul cui viso senza espressione le candele gettavano una luce tremula e ombre profonde, e si sentì attraversato da una commozione che non aveva mai provato prima. Non sapeva se fosse per il morto, per coloro che lo vegliavano, o per Aziraphale…
«Ѐ così triste», Gabriel diede voce al suo pensiero, con il viso bagnato di lacrime.
«L’esercito celeste è pronto ad attaccare», disse Uriel, senza riuscire a distogliere lo sguardo dal punto in cui Crowley giaceva, «Aziraphale sarà annientato».
«Sei così sicuro che vincerete», disse Belzebù, rivolgendogli un’occhiata cattiva e carica di rabbia, «Ma l’esito di questa guerra non è certo come credi. Quell’angelo ha qualcosa che nessun altro ha avuto prima di lui: è disperato. Non c’è niente di più pericoloso».
«Lui non avrebbe mai voluto questo», singhiozzò Muriel, guardando Crowley.
«Non stava facendo niente di male», pigolò Olive.
«Ѐ stato Metatron», si lasciò sfuggire Uriel, e si stupì di non pentirsi affatto di averlo detto. «Lo voleva morto a tutti i costi. Lo odiava». Era molto grave dire di un angelo che odiava un'altra entità, soprattutto uno importante come Metatron, ma Uriel ne era così convinto che il bisogno di dire la verità prevalse su quello di rispettare l’autorità. «Non importa chi materialmente ha compiuto il fatto: se lui non avesse scagliato Onesiel contro Crowley tutto questo non sarebbe accaduto». Poi, rivolto a Gabriel disse: «Credo non parli più per conto di Lei da un pezzo. Almeno da quando ti abbiamo mandato via, e me ne sono accorto solo ora», concluse con amarezza.
«Non è colpa tua, fratello», Gabriel gli strinse il polso per mostrargli la sua comprensione.
«Se lo credi davvero», disse Belzebù, avvicinandosi a loro, «Allora non permettere all’esercito celeste di attaccare».
Uriel la guardò con sprezzo: «E dovrei lasciare che i demoni si prendano la Terra?».
«Noi potremmo parlare con Aziraphale… convincerlo», disse Muriel, «Siamo suoi amici».
«Devi lasciarci provare. Guadagnare tempo. Se non funziona allora…», Belzebù non si premurò di continuare la frase: sapevano tutti molto bene quali sarebbero state le conseguenze.
 
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Una schiera di carrarmati era stata disposta all’ingresso di Constitution Hill per fermare l’avanzata di Aziraphale e dei demoni che aveva al seguito. La famiglia reale era stata evacuata secondo il protocollo. Ora il re con la sua consorte stavano fuggendo da Londra a bordo di un elicottero militare, contemplando impotenti la città devastata, illuminata dagli incendi, che si faceva sempre più lontana, lasciandosi indietro le urla di coloro che invece non potevano scappare. Nel frattempo, tutte le forze armate disponibili erano state impiegate a difesa di Buckingham Palace. Ovviamente non era servito a niente: Aziraphale aveva ignorato i carrarmati, calciando via quelli che gli sparavano contro, e schiacciato i soldati che gli capitavano sotto ai piedi. I demoni avevano continuato il suo lavoro di distruzione, uccidendo quelli che si erano salvati e stavano cercando di mettersi in fuga.
Per strada volavano colpi di arma da fuoco e cannonate, si udivano le grida degli uomini e delle donne feriti o morenti e i versi dei demoni. Dappertutto sparsi sul terreno c’erano una disfatta di calcinacci dei palazzi distrutti, alberi sradicati, cadaveri e feriti e soprattutto sangue. Sangue rosso e sangue nero. Su ogni cosa pioveva la cenere dei fuochi che lambivano gli edifici e le auto. La terra tremava sotto ogni passo di Aziraphale.
Questa era la scena che si trovavano davanti Muriel, Olive, Nunet, Belzebù e Gabriel. Uriel li aveva lasciati per tornare in Paradiso: aveva deciso di concedere loro il tempo che gli avevano chiesto, ma in quella guerriglia stavano tutti perdendo le speranze anche solo di farsi udire da Aziraphale. C’era troppo rumore, troppe persone…
Imboccarono Constitution Hill risalendo verso Buckingham Palace. Per tutta la strada la situazione era la medesima. Nunet lanciò un incantesimo su tutti per evitare che un proiettile vagante li colpisse.
Finalmente, nella polvere intravidero il palazzo e la piazza dove Aziraphale stava in piedi di fronte a una fila di soldati che tentavano di abbatterlo a fucilate. I loro minuscoli proiettili non lo scalfivano minimamente.
«Li schiaccerà!», gridò Olive. Gabriel, con uno schiocco di dita, li fece sparire e ricomparire da un’altra parte prima che Aziraphale potesse abbattere il piede su di loro.
Allora il gigante aprì la bocca: ne fuoriuscì una fiumana incandescente che illuminò la notte di rosso vermiglio. Si abbatté al suolo travolgendo tutto ciò che incontrava. Divorò il Victoria Memorial e lambì Buckingham Palace, consumandone la struttura, facendo scoppiare le finestre per il calore e crollare i muri, penetrando all’interno attraverso i varchi che aveva scavato.
Le grida si fecero più intense: uomini e demoni fuggivano per non essere colpiti dai lapilli o travolti dalla lava che serpeggiava sul terreno, espandendosi in tutta la piazza.
Fu in quel momento che arrivarono Michael, Saraqael e Gesù. Comparvero accanto a Gabriel, ma nella confusione generale non era possibile determinare se fossero arrivati volando o camminando.
Michael afferrò il fratello per una spalla per attirare la sua attenzione. «Ti spiacerebbe spiegare che cosa cavolo sta succedendo qui?», ordinò. A discapito di tutte le cose incredibili e terribili che stavano accadendo tutt’attorno a lei, sembrava solo molto scocciata.  
Gabriel piegò la testa da un lato, troppo preso dalla situazione per stringere anche lei in un abbraccio di riconciliazione.
«Crowley è morto, lui ora è un demone», si intromise Belzebù, per amor di brevità, «Consigli utili per fermarlo?».
Michael e Saraqael si scambiarono un’occhiata perplessa. Gesù, invece, disse: «Aziraphale è un demone?». Aveva parlato direttamente a Belzebù.
Lei, come gli altri, non fu in gradi di riconoscere il Cristo in quel bambino asiatico vestito come un impiegato di banca che abbia sbagliato a dividere i colori in lavatrice. Lo guardò, decisamente poco impressionata.
«Ѐ così», gli rispose invece Olive. I due bambini si studiarono a vicenda per qualche secondo.
«Ok», disse Gesù, spostando lo sguardo su Aziraphale. Quest’ultimo, dopo aver distrutto la residenza del sovrano, si stava già avviando per portare la sua devastazione altrove. «Credo che abbiamo bisogno di una pausa», disse ancora Gesù.
Ad un cenno della sua testa, il mondo intero si fermò.
 
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Gesù e Aziraphale erano seduti al tavolo basso su cui facevano lezione, uno di fronte all’altro. La carnagione di Aziraphale era tornata del consueto colore roseo e i suoi occhi erano azzurri, ma celavano sotto alla superficie i riflessi del fuoco che ancora gli bruciava dentro. Si guardò attorno, sorpreso e nervoso, come un animale braccato. Gesù lo studiava con curiosità.
«Raccontami cosa è successo», gli chiese con il tono di sempre, quello che usava per chiedere i nomi delle piante, il perché delle stagioni o cos’era un certo oggetto.
Aziraphale scosse la testa in segno di diniego.
«Tu mi piaci molto. Michael e Saraqael sono antipatiche, non voglio che te ne vai e mi lasci con loro», si lamentò il bambino, «Perché sei arrabbiato?».
Aziraphale non rispose.
«Sono stato io a farti arrabbiare?».
Altro cenno di diniego.
«Allora uno degli altri angeli?».
Aziraphale si piegò su se stesso, in preda a un dolore che lo squarciava da dentro. Voleva liberarsi, incenerire il Paradiso con la lava che gli stava bollendo nel corpo, ma Gesù lo tratteneva con un potere contro il quale lui non poteva fare niente.
«Tu ami la Terra, Aziraphale, perché la vuoi distruggere?», insisté.
Aziraphale si contorse contro le catene invisibili che lo tenevano legato, senza riuscire a spezzarle.
«Avevo un amico», disse, con una voce durissima, «Che è stato assassinato e adesso, senza di lui, questo mondo non ha nessun significato per me».
«Capisco», rispose Gesù, conciliante, «Stai soffrendo. Io posso toglierti il dolore, liberarti di tutti i ricordi che ti fanno male».
«Non voglio!», gridò disperato Aziraphale, «Questo dolore è tutto ciò che mi resta di lui!».
Gesù parve colpito. Restò in contemplazione per qualche minuto. «Questo è ciò che vuol dire essere umani? Vivere ogni cosa e il suo rovescio?», chiese infine, «Chi ha ucciso il tuo amico, Aziraphale?».
Aziraphale si scosse ancora una volta nelle sue catene: «Voi!», accusò, «Inferno, Paradiso e i vostri giochi di potere! Metatron ha acceso la miccia e un demone ha fatto esplodere il petardo!».
Gesù, pur non comprendendo la metafora, afferrò il senso generale della frase.
Tra loro, seduto al terzo lato del tavolo, comparve Metatron, stupito e spaesato. Immediatamente Aziraphale cercò con rinnovata forza di ribellarsi per assalirlo.
«Vostra Grazia…», disse Metatron a Gesù, «Perché mi trovo qui?».
«Tu hai avuto un ruolo nella morte del suo amico?», gli chiese Gesù, indicando Aziraphale.
Metatron lo guardò con sprezzo, riconoscendo in lui i segni della sua natura demoniaca. Provava orrore al sol pensiero che quella creatura fosse stata ammessa alla presenza del Cristo, e delusione verso se stesso per non essere ancora riuscito a toglierlo di mezzo. Era stato un suo errore di calcolo pensare che Aziraphale potesse essere redento, era ora evidente che Crowley l’aveva corrotto oltre la soglia di qualsiasi possibile perdono.
«No», rispose, con amarezza. Aziraphale subito tuonò: «Bugiardo!».
«Non mi mentire», intervenne Gesù, ma senza alcuna inflessione particolare nella voce. Metatron si fece piccolo sotto al suo sguardo attento.
«Io ho dato un ordine, Vostra Grazia, ma non è stato eseguito», confessò, aggiungendo l’ultima parte in tono agitato. Si vergognava di ammettere l’ennesimo fallimento.
«E perché hai dato ordine di uccidere questo amico?», chiese Gesù.
«Perché interferiva con il Suo piano!», sputò Metatron, esasperato dal ricordo di Crowley.
«Il Suo piano è il mio», commentò duramente Gesù, «E non ti abbiamo chiesto di farlo». Era la prima volta che si riferiva a se stesso al plurale e il suo tono stava acquisendo una nota di maturità e consapevolezza che prima non c’era.
Metatron sussultò come colpito da uno schiaffo sul viso. Espirò e disse: «Non ce n’è stato bisogno, io ho capito». Sottolineò la parola capito con il tono di chi sta disperatamente cercando approvazione.
«Tu parli per noi, non al posto di noi», disse invece Gesù.
La sua freddezza colpì Metatron nel punto in cui era più debole. Si sentì attraversato da un brivido e attanagliato dall’angoscia. Possibile, pensò, che aveva sbagliato tutto di nuovo? Che aveva fallito? La realtà di ciò che gli era appena stato detto lo colpì all’improvviso. Non al posto di noi gli risuonò in testa.
Allora niente di ciò che aveva creduto era stato vero. Lei non gli aveva lasciato la mano perché guidasse da solo il creato, Lei non gli aveva donato la fiducia più incondizionata. Non era il figlio prediletto. Era stato solo, tutto quel tempo, e Lei non lo aveva guardato. Lei si era dimenticata, lo aveva gettato via come una vecchia cosa usata e non Le era importato. I suoi fallimenti erano stati sempre e solo suoi e Lei era rimasta indifferente.
Gli occhi gli si riempirono di lacrime che gli scivolarono sulle guance. «Non mi hai più parlato e io…», esalò tra i singhiozzi che ormai lo scuotevano rendendogli difficile respirare ed articolare le parole, «Sono così solo senza te! Perché mi hai abbandonato?».
«Non piangere, bastardo!», gli gridò Aziraphale, furioso, riprendendo a scuotere le catene. Non c’era in lui neanche un briciolo di compassione per colui che gli aveva portato via Crowley. Se fosse stato libero lo avrebbe incenerito come aveva fatto con Furfur senza un attimo di esitazione.
Gesù li guardo entrambi: disperati, sofferenti, arrabbiati, soli. Il suo sguardo si addolcì.
«Ora ho capito», disse, «La nostra inadempienza vi ha causato tanto dolore». Si alzò e camminò fino ad arrivare tra loro. Posò le mani sulle loro teste e disse: «Non temete, non accadrà più. Adesso vi porto nel rovescio».
 
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Crowley aprì gli occhi su un cielo terso, brunito attraverso le lenti nere dei suoi occhiali da sole. Una brezza fresca gli accarezzava i capelli e la pelle accaldata del viso, facendo frusciare le foglie degli alberi e l’erba. L’acqua scrosciava pacificamente sotto al moto delle papere nel lago e gli uccelli cinguettavano tutt’attorno a lui. Sotto di sé sentiva la durezza del metallo della panchina su cui era sdraiato. La prima cosa che pensò fu: ma che razza di sbronza mi sono preso? Si sentiva infatti un dolore pulsante nella testa e una sensazione sgradevole in bocca, come un retrogusto ferroso lasciatogli da qualcosa che aveva bevuto. Si tirò su a sedere, trovandosi abbagliato dal luccichio del sole specchiato dal lago, che gli diede fastidio anche se indossava gli occhiali. Provò con un piccolo miracolo a farsi passare il mal di testa ma l’effetto che ottenne fu solo di attutirlo un pochino. Guardò per terra per cercare la bottiglia, pensando che se non poteva farsi passare i postumi allora si sarebbe semplicemente ubriacato di nuovo, ma non trovò nulla. La cosa lo indispettì. Chi era il ladro che aveva rubato l’alcol di uno svenuto su una panchina in Saint James Park? Gli umani erano davvero le peggiori canaglie! Si massaggiò una tempia chiudendo gli occhi. Un’oca starnazzò e lui annuì: «La penso uguale, amica mia», le disse. Poi qualcosa lo travolse facendolo rotolare giù dalla panchina, direttamente con la schiena nella ghiaia.
Era qualcuno che gli si era lanciato contro e ora lo stringeva in un abbraccio soffocante. Quando tentò di protestare, Crowley si ritrovò la bocca piena di capelli sale e pepe e riconobbe il proprio assalitore.
«Gabriel», disse con una smorfia di disgusto, cercando di toglierselo di dosso, ma l’altro sembrava non voler mollare la presa a nessun costo.
«Sei vivo!», gli gridò in un orecchio, con sommo disappunto di Crowley e del suo mal di testa.
«Purtroppo», rispose.
«Oh, non lo dire neanche per scherzo!», lo rimbottò Gabriel.
«Lascialo respirare un po’, dolcezza», disse Belzebù. Crowley alzò gli occhi e se la trovò davanti. Non l’aveva notata prima.
Gabriel rispose: «Non ne ha mica più bisogno», ma ugualmente lo lasciò andare. Crowley si rialzò in piedi con un movimento non troppo elegante e si avvide del piccolo pubblico che si era formato attorno a loro.
Tutti lo guardavano come se fosse una specie di apparizione. Riconobbe Muriel, Uriel, Michael e Saraqael, poi c’erano due bambini, una biondina e l’altro vestito secondo la moda assurda del Paradiso, e infine… «Nunet?», strizzò gli occhi per assicurarsi che non fosse un’allucinazione.
«Ѐ un piacere rivederti in piedi», gli disse la strega, con quei suoi occhioni allucinati. Crowley non la vedeva da almeno due secoli, ed era la prima volta che un loro incontro avveniva alla luce del sole.
«Questa cos’è, una specie di festa? Se vi ho invitati io sappiate che non volevo: ero ubriaco», disse loro.
«Non si ricorda niente?», chiese Muriel, rivolgendosi al bambino.
«Per la maggior parte del tempo era morto», rispose invece la bambina.
«Metatron dov’è?», domandò serio Uriel.
Crowley, infastidito solo al sentirlo nominare, chiese con una smorfia: «Che c’entra Metatron?!».
«Ѐ con me», rispose semplicemente il bambino, «Non farà più male a nessuno», assicurò con un sorriso.
«A chi ha fatto male?», riprovò Crowley con un sopracciglio alzato, venendo prontamente ignorato da tutti.
«Quindi il Paradiso è di nuovo senza una guida?», intervenne Saraqael, suonando più contrariata che altro.
«Tutto questo è ridicolo», si lamentò Michael, «Aziraphale, esci da dietro quell’albero».
«Ѐ un tiglio», chiosò il bambino.
Crowley, udito quel nome, dimenticò il mal di testa, la confusione e l’alcol. Dimenticò tutti gli altri che ancora chiacchieravano attorno a lui, si dimenticò del vento, degli uccelli, delle papere, dei fiori… Guardò la corteccia di un albero dietro cui sporgevano una gamba fasciata di lana bianca, una spalla e una nuca di capelli candidi. Fu come se il centro dell’Universo si fosse improvvisamente spostato nel punto in cui quella figura era nascosta.
Volle scappare. Scomparire e lasciarsi alle spalle quel bisogno annichilente di rivederlo ancora. Se fosse stato un demone più forte l’avrebbe certamente fatto, sarebbe andato via per non tornare mai più, ma Crowley non poté impedirsi di chiamarlo. «Aziraphale!», disse, roco.
Aziraphale si voltò e Crowley vide i suoi occhi azzurri bagnati e il viso arrossato, rigato di lacrime. Con un pugno premuto sulle labbra cercava di trattenere i singhiozzi che gli scuotevano la linea tesa delle spalle. Era più o meno così che Crowley l’aveva lasciato l’ultima volta e già allora aveva faticato ad accettare di lasciarlo andar via. Non sarebbe mai riuscito farlo una seconda volta. Non ci provò nemmeno: a grandi passi gli si avvicinò.
«Stai… bene?», domandò incerto quando gli fu di fronte. Pensò che aveva provato nei suoi confronti una rabbia così cocente che avrebbe potuto incenerire il mondo, ma si era già sciolta nelle lacrime del suo angelo. Come sempre ad Aziraphale bastava uno sguardo soltanto per spogliarlo di tutto il suo potere.
Aziraphale si lasciò sfuggire un gemito. I suoi occhi si strinsero in una sottile fessura contratta, lasciando cadere due grosse lacrime e abbassò lo sguardo, scuotendo la testa in segno di diniego.
«Sei ferito?», era una domanda sciocca visto che Aziraphale era invulnerabile, ma ugualmente percorse il suo corpo con lo sguardo per accertarsi che non ci fossero danni.
Di nuovo Aziraphale fece segno di no. «Niente del genere, caro», la sua voce era roca e profonda per il pianto.
I loro occhi si incontrarono e Crowley fu felice che il suo sguardo fosse mascherato dagli occhiali: non sapeva cosa Aziraphale avrebbe potuto leggerci. Non che avesse più segreti con lui, ma non poteva prestargli il fianco, non un’altra volta. Non sarebbe sopravvissuto.
«Crowley… posso?», gli chiese l’angelo. Crowley non si preoccupò neanche di domandare per che cosa gli stesse chiedendo il permesso: annuì e basta. Allora Aziraphale, come se gli avesse letto nel pensiero, allungò le mani verso la sua faccia e fece per prendere tra pollici e indici le asticelle dei suoi occhiali.
Crowley indietreggiò d’un passo, allarmato. «Perché?», domandò con le sopracciglia aggrottate.
Aziraphale fece una smorfia, come se non gli riuscisse di spiegarsi a parole o avesse dolore da qualche parte. «Ti prego, caro», disse solo.
Crowley, seppur di malavoglia, si tolse gli occhiali mostrando all’altro i suoi occhi gialli.
Per qualche lunghissimo secondo non accadde nulla, poi Aziraphale singhiozzò e, con voce rotta dal pianto, esclamò: «Oh, Cielo!».
Con un passo lo raggiunse, gli prese il volto tra le mani e lo baciò. Crowley si sentì le lacrime dell’altro sulle guance, mentre le sue dita si intrecciavano ai suoi capelli rossi. Restò fermo con le mani in alto, incapace di processare cosa stesse accadendo, finché non sentì la lingua di Aziraphale sulle proprie labbra. Allora non ci capì più niente, e già prima stava capendo molto poco. Lasciò cadere gli occhiali sull’erba e poi semplicemente posò le mani sulla sua vita e se lo strinse contro, approfondendo il bacio.
Sarebbero potuti restare così per sempre, e non solo metaforicamente: era il privilegio di non dover respirare mai. Crowley certo avrebbe continuato ancora per un pezzo se non si fosse sentito un braccio attorno al corpo e una testa sulla spalla che non erano di Aziraphale. Si staccarono, lanciandosi un’occhiata perplessa.
Gabriel, commosso, aveva ben pensato di venirli ad abbracciare. Belzebù dietro di lui si strinse nelle spalle con una smorfia che voleva dire che volete farci?, mentre tutti gli altri li stavano guardando con in volto un assortimento di emozioni che andavano dalla gioia alla curiosità, fino al disgusto.
«Sono così felice che siamo di nuovo insieme», disse Gabriel stringendosi a loro. Aziraphale lanciò a Crowley uno sguardo vuoto e poi, come liberato da un peso, scoppiò a ridere. Una risata che contagiò lo stesso Crowley.
A pochi metri da quella scena, nascosta sotto ai rami di un salice, Nunet si voltò verso di Muriel. «Ѐ tempo che torni a casa, angioletto», le disse, «Ma vorrei riscattare uno dei debiti che hai con me».
Muriel, che si era dimenticata di quel particolare, si sentì montare dentro un po’ di tensione. «Non faccio cose brutte», l’avvisò, cercando di suonare decisa, «Neanche se me lo ordinano. Non più».
Nunet fece un sorriso enigmatico. I suoi occhi, nella macchia d’ombra in cui si trovavano, sembravano due pozzi profondissimi. «Niente di male, solo…», le si avvicinò e delicatamente le posò un bacio sull’angolo della bocca. «Nella mia lunga vita ho avuto molte mogli e un marito, che mi è bastato per sempre, ma un angelo non l’ho avuto mai», le sussurrò all’orecchio, «Pensaci».
Disparve esattamente come ci si potrebbe aspettare da una strega: in una nuvoletta di fumo verde. Muriel restò impalata a toccarsi il punto in cui era stata baciata, senza sapere bene cosa pensare.
Nel frattempo, Gesù aveva studiato la bambina bionda. Era la prima volta che vedeva un bambino come lui. Le si avvicinò. «Come ti chiami?», le chiese.
Olive, un po’ disgustata da tutti quei baci, si era accoccolata accanto a una macchia d’erba e stava osservando un ragnetto e una formica che sembravano impegnati in un combattimento. «Olive, e tu?», rispose.
«Gesù», disse l’altro, con un cipiglio molto compiaciuto.
Olive era cresciuta in una famiglia atea, anche se sua nonna teneva un crocifisso in camera da letto, e di Gesù sapeva solo il giusto. Cioè che era un uomo, capellone e barbuto, morto molto male per un motivo che nessuno aveva davvero capito. Facendo il paragone con quel bambino che doveva avere circa la sua età, le venne naturale scoppiare a ridere.
Gesù ci rimase male: si era aspettato che lei restasse ammirata. «Guarda che non è carino ridere del nome degli altri», le disse, punto sul vivo.
«Ma Gesù non è neanche un nome vero!», rise Olive.
«Ѐ un nome perfettamente normale!», si difese lui, anche se non sapeva se fosse vero.
«Certo se sei nato, tipo, duemila anni fa», continuò a prenderlo in giro lei.
Gesù si sentiva le guance bruciare per l’imbarazzo. «Allora qual è un nome vero, secondo te?», le chiese.
Olive ci pensò un po’ su. Disse: «Nomi normali. Tipo George, Harry… Adam», rispose stringendosi nelle spalle.
Gesù aggrottò le sopracciglia, ma prima che potesse ribattere la voce di Michael lo richiamò: «Vostra Grazia! Dobbiamo tornare Su», disse indicando verso il cielo e battendo ritmicamente a terra un piede per l’impazienza. Accanto a lei c’erano una Saraqael molto annoiata e uno stoico Uriel. Gesù con un cenno della mano salutò Olive e corse da loro: non vedeva l’ora che arrivasse il momento di tornare sulla Terra. Tutti insieme, sparirono.
Gabriel e Belzebù si erano congedati. Belzebù aveva dovuto fare una certa fatica per scollare il suo compagno da Aziraphale e Crowley, ma alla fine c’era riuscita. Certo, non prima che Gabriel avesse fatto promettere loro che si sarebbero rivisti presto e spesso.
Olive, stanca della formica e del ragno, raggiunse Muriel che se ne stava ancora imbambolata a pensare a ciò che le aveva detto e fatto Nunet, e la prese per mano. «Azi!», gridò.
Aziraphale, da dove si trovava, seduto su una panchina dirimpetto al lago assieme a Crowley, si voltò a guardarle. Fece loro un cenno con la mano e vide che lo ricambiavano, prima di incamminarsi insieme verso l’uscita del parco.
In un altro momento le avrebbe ringraziate per tutto ciò che avevano fatto per lui e per Crowley. Avrebbe ringraziato anche tutti gli altri, magari mandato un cesto di frutta a ciascuno di loro… ma adesso non voleva fare altro che stare lì con Crowley e guardarlo negli occhi da serpente, baciarlo a lungo e profondamente, fino a mettere in imbarazzo persino le papere. Con quell’intento si sporse ancora verso di lui, ma Crowley alzò una mano per fermarlo.
«Non fraintendere, angelo, non è che non voglio», puntualizzò, «Voglio eccome. Solo, non ti dispiacerebbe spiegarmi prima che cosa diavolo è successo?».
«Oh!», Aziraphale si portò una mano alla bocca, mortificato per quella disattenzione, «Certo, certo caro…», disse e, schiaritosi la voce, cominciò a raccontare.
 
 
UN PO’ DI TEMPO DOPO
 
Aziraphale e Crowley stavano sul davanzale della finestra, al primo piano del palazzo, spiando nello studio dell’assistente sociale dove il Cristo stava incontrando per la prima volta i suoi papà umani. Crowley era nella sua forma di serpente, mentre Aziraphale si era trasformato in un passerotto per l’occasione.
«Non ci credo ancora che adesso si fa chiamare Adam anche lui, chissà chi gli ha dato l’idea», sibilò il serpente.
«Ѐ un bambino molto creativo», cinguettò il passero, «Dice che vuole fare l’inventore, lo scienziato e il pompiere».
«Finché non porta l’Apocalisse, per me può fare qualsiasi cos
«Niente Apocalisse, caro, ama troppo la Terra».
Era una bella giornata. Il sole splendeva, gli usignoli cantavano sugli alberi, gli esseri umani sciamavano per le strade impegnati nelle loro faccende. Giù all’Inferno i demoni respiravano la puzza d’aglio mentre sistemavano infinite scartoffie burocratiche. Su in Paradiso gli Arcangeli perdevano tempo a chiacchierare tra loro; tranne Uriel, il nuovo Supremo Arcangelo e portavoce di Lei, che lavorava per davvero.
Niente Apocalisse, l’avevano sventata un’altra volta.

 

L'ex di Michael: quando Saraqael fa questa battuta a Michael dopo aver visto Aziraphale demone, si riferisce a Lucifero. Ho voluto inserire questo piccolo riferimento che non fa parte (per quel che sappiamo) della lore di Good Omens perché Michele e Lucifero sono da sempre la mia coppia preferita della Bibbia ;D
Lucifero Arcangelo: Belzebù allude al fatto che Lucifero fosse, come Aziraphale, un Arcangelo prima di diventare un demone perché, sebbene nella Bibbia non sia specificato che tipo di angelo Lucifero fosse (anche se generalmente è intepretato come Serafino), mi serviva per motivi di trama creare questo legame tra i due. Volevo che la potenza di Aziraphale da demone fosse superiore a quella di qualsiasi altro demone e paragonabile solo a quella di Satana. Perdonatemi quindi la licenza poetica ecco!

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