Once Upon A Time... in Paris

di awhmoony
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo I. Vicino ***
Capitolo 3: *** Capitolo II. Crudele ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Che tu sia di passaggio o voglia restare un pochino di più, spero che in questo libro tu possa trovare un po’ di pace e di riposo da un mondo che va sempre di fretta.

Avvertimenti: la coppia principale della storia sarà Femslash, perciò se a qualcuno dà fastidio l’idea di una Oscar omosessuale, non disturbatevi nemmeno a proseguire la lettura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PROLOGO.

 

 

A mia mamma,
che mi ha insegnato
ad amare l’arte, il teatro,
la danza e i libri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Francia, primavera 1772. I soffici e verdissimi ciuffi d’erba si incastravano l’un l’altro in una danza disconnessa, seguendo in tenera eufonia il piacevole battito del vento primaverile che si era alzato quella mattina. Sembrava una frenetica corsa quella messa in scena dalle poche nuvole dipinte sulla tela azzurra del cielo, che si muovevano lente e rilassate, e del sole che repentinamente le raggiungeva sorpassandole una ad una; riversando sul paesaggio di infinite pianure in fiore un piacevole scenario di luci e ombre, dedicando all’ambiente un’illustrazione come fosse un dipinto realizzato con acquerelli. D’improvviso, come se al pittore di quella stramba rappresentazione fosse giunto un bagliore di creatività, ad aggiungere un tocco di incanto in più al dipinto, apparvero da dietro una spessa porta di legno massiccio, le figure scatenate di due bambini che con agitato entusiasmo correvano su quei prati freschi, calpestando con indifferenza le infauste margherite che sventurate si trovavano sotto il loro passaggio. Più distintamente osservati, i due bambini all’apparenza sembravano identici – un distratto errore di pennello, avrebbe assodato il pittore –; lo stile a specchio usato per tracciare i lineamenti fanciulleschi, la forma dolce degli occhi e il color carbone per le iridi, il tratto delicato esercitato per disegnare le forme acerbe dei corpi apparentemente uguali, pareva presentare un difetto: uno dei due bambini indossava un vestito con le maniche a sbuffo, la gonna ampia e agghindato con pizzo e merletti.

La verità era che quelli erano due gemelli, un maschio e una femmina – qualcuno avrebbe potuto comunque definirli un errore – e non v’era alcun pittore ma soltanto la quieta figura di un uomo che dipingeva esclusivamente con l’utilizzo degli occhi. Nessun artista sarebbe stato in grado di replicare fedelmente l’immagine che lui stesso stava tratteggiando nella sua mente. Incastrandola saldamente alle radici più solide della sua memoria.

Se ne stava indulgentemente in disparte, il buon Gérard Moreau, con la schiena dritta e la mano destra saldamente intrecciata al polso sinistro in una posizione perfettamente impettita. Mantenne una solenne espressione di inflessibilità mentre osservava i suoi figli rincorrersi e sfidarsi in duello con due spade di legno in principio utilizzate dai padri al fine di addestrare i figli maschi al combattimento. In circostanze dissimili, che non vedevano Gérard angosciato da insidiosi e abominevoli pensieri, non avrebbe indugiato sull’atteggiamento disdicevole della figlia femmina che, con indiscrezione e prepotenza, persisteva a sbarazzarsi di attività orientate alle altre bambine del villaggio; prepararle correttamente ai fondamentali doveri domestici. Tuttavia, in cuor suo, Gérard era consapevole che opprimere la personalità ribelle della fanciulla sarebbe stato altresì inconcludente. L’anziana e accigliata Madame Boucher la quale si dedicava a ospitare le bambine con l’unico scopo istruirle a svolgere correttamente i lavori casalinghi che una futura moglie doveva essere esperta ad assolvere, aveva sempre riservato un’occhiata arcigna in direzione di sua figlia; giudicandola con un profondo sentimento di indignazione e interpellando Gérard con una annotazione di rimprovero: «Sua figlia, Signor Moreau, assomiglia più a un ragazzaccio che a una fanciulla. Ha modi rozzi, rudi, non certamente adatti a una bambina. In più, preferisce dilettarsi a intagliare il legno con un coltellino piuttosto che nel lavoro a maglia. Le consiglio sinceramente di prendere provvedimenti più severi nei suoi confronti. Di questo passo, temo orribilmente che non troverà mai marito.»

Gérard Moreau che era per natura un uomo dedito a seguire rigidi archetipi – i quali si premurava di tramandare ai suoi figli –  si era trovato in difficoltà quando a mettersi in mezzo alle sue inflessibili illazioni e alle indiscutibili dottrine che seguivano un ideale preciso, era apparsa una bambina che riusciva a guizzare via da tutto quello che era giusto, naturale, normale. Quella fanciulla dagli occhi grandi e scuri era riuscita a mandare tutto in confusione.

Eppure, osservare i suoi figli giocare era un’immagine che non avrebbe mai voluto togliersi dalla memoria e prima che potesse accorgersi della comparsa improvvisa di un uomo che si era sistemato nella sua medesima posizione alla sua sinistra, quest’ultimo parlò: «Però! la piccola Joëlle è una vera forza della natura, Gérard.» Non mancò di osservare il Dottor Masson, che era da pochissimo riemerso dalla penombra della porta d’ingresso di casa Moreau. Entrambi gli uomini avevano assistito alla visione della piccola Joëlle – anche se tanto piccola oramai non lo era più - mettere al tappeto il fratello; gli stava puntando il suo bastone davanti al viso mentre lo teneva bloccato a terra con un piede poggiato sul petto, e un sorriso trionfante aveva preso possesso del suo volto. Gérard dedicò un attimo di attenzione nell'esaminare minuziosamente l’espressione dell’amico, poco più alto di lui, nell’inutile tentativo di intercettare qualsiasi tipo di atteggiamento sospetto, ciò nonostante quello che riuscì a decifrare furono soltanto un leggero sorriso tirato all’insù e rughe d’espressione. Demoralizzato, Gérard voltò lo sguardo nuovamente sulla vista dei suoi figli che in lontananza avevano ripreso a giocare, e sentendosi adirato, proruppe con arroganza

«Già, anche troppo. Credo che sia arrivato il momento di essere più severo con lei, deve capire che è una ragazza e come tale non può più permettersi tali comportamenti.»

La sua affermazione tanto concitata strappò una risata divertita all’amico, il quale di rimando gli appoggiò gentilmente una mano sulla spalla: «Suvvia, è ancora una bambina. Può ancora concedersi la libertà di far ciò che vuole. Vedrai che tra qualche anno ti porterà a casa un bel giovanotto e ti darà la notizia di volersi sposare! A quel punto, amico mio, vorrai di nuovo riavere davanti la piccola e ingenua bambina che gioca con il fratello e i cui occhi s’illuminano per nessun’altra persona che te.»

Joëlle Moreau aveva dieci anni ed era l’unica figlia femmina della famiglia. César era suo fratello gemello e aveva raggiunto la sorella solo dopo dieci minuti dalla sua nascita, il tempo sufficiente a raffigurarla a tutti gli effetti come la sorella maggiore e senza tenere in considerazione le differenze di genere era la riproduzione fedele della sorellina. Stessi capelli, stessa forma degli occhi e perfino stessa altezza. Se osservati senza sapere chi fossero non si sarebbe potuto nemmeno distinguere chi dei due fosse Joëlle e chi invece César. Malgrado ciò avevano due caratteri totalmente differenti: César era un bambino con un temperamento gentile e tipicamente mite, possedeva un’indole più mansueta e diligente. Estremamente affettuoso, era colui che si concedeva più facilmente alle coccole della madre e che reagiva con più sensibilità all’austerità del padre. Joëlle, al contrario, presentava una personalità più ribelle. Avventurosa e dal carattere esuberante, a tratti irrequieta e attaccabrighe soprattutto nei confronti degli altri bambini del villaggio quando essi sembrava si divertissero a infastidire lei e il fratello. Apparentemente più distaccata alle premure della madre e più intrattabile nei confronti dell’autorità del padre.

Sembrava, in effetti, che le personalità dei due bambini si fossero intrecciate, disconnesse e le chiacchiere sempre più esasperate di esagerate presupposizioni – ché la madre avesse avuto delle complicazioni durante la gravidanza, la troppa sensibilità e l’eccessiva fragilità di quest’ultima avevano portato a ostacolare il normale svolgimento di una gravidanza, che l’estremo stato di povertà in cui vigeva ormai da tempo la popolazione francese aveva avuto delle ripercussioni su uno dei due feti, rendendolo dunque debole anche di mente – e di gonfiate fantasie, che in un paese di campagna come quello erano come il pane fresco la mattina. Gérard coraggiosamente non aveva mai dedicato la benché minima attenzione ai tali pettegolezzi, aveva sempre distolto lo sguardo con noncuranza alle occhiatacce che riservavano le donne del paese a lui e ai suoi figli quando li vedevano camminare per strada o entrare nei negozi e aveva sempre fatto finta di non udire i chiacchiericci. Gérard Moreau non credeva a quel che si diceva in giro, si fidava ciecamente esclusivamente dell’opinione scientifica e medica del Dottore del paese, Gilbert Masson, per altro un vecchio amico; e se il buon vecchio Gilbert confermava l’assenza di qualsiasi tipo di complicazione avvenuta durante la gravidanza, allora così doveva essere. Dopotutto, non c’era niente che alludeva che ci fosse qualcosa di sbagliato nei suoi figli. Il fatto che fossero gemelli aveva creato quella catena infinita di polemiche e dicerie, Gérard lo sapeva bene eppure non poteva che essere più orgoglioso della sua famiglia.

 

 

«Hai preso i fiori per la mamma?» Chiese Joëlle lasciando andare un pizzico di supponenza, in attesa con i pugni appoggiati sui fianchi e un’espressione severa a sorreggere le intenzioni autoritarie. Attendeva che il fratello tornasse con i fiori che avevano raccolto qualche minuto prima. L’obiettivo dei due fratelli era inizialmente quello di cercare la posizione più strategica nei prati in cui v’erano più fiori per costruire delle collane e corone da poter regalare alla mamma. Tuttavia, poco dopo aver trovato l’angolo perfetto occupato prevalentemente da margherite, i due fratelli si ritrovarono a duellare e rincorrersi. César annuii entusiasta porgendo alla sorella il bellissimo mazzo di fiori con margherite, narcisi, iris e altri fiori di campo.

Varcarono la soglia di casa: la modesta abitazione dei Moreau possedeva solo due stanze. I fratelli erano costretti a dormire tutti insieme in un unico letto posizionato in un angolo della stanza, che fungeva contemporaneamente da cucina e sala da pranzo, mentre i genitori possedevano una piccola camera adiacente. Non erano economicamente messi meglio rispetto ad altre famiglie del villaggio, ma quantomeno avevano un saldo tetto sopra alla testa e il cibo in tavola ogni sera. I due bambini socchiusero la porta della camera matrimoniale individuando la figura debilitata, ma pur sempre raffinata e bellissima, della madre stesa sotto le coperte. Teneva la schiena appoggiata al bordo del letto e si trovava impegnata a leggere un libro con le figure al più piccolo dei fratelli: Hugo. L’ultimo arrivato della famiglia, che aveva ormai quattro anni, non aveva niente in comune con i fratelli maggiori: era biondissimo, gli occhi erano verdi come quelli della mamma e il viso paffuto e la carnagione chiarissima gli davano tutta l’aria di derivare da antiche civiltà nordiche. Camille Moreau era la mamma di Joëlle e César, di Hugo e moglie di Gérard. Giovane donna dall’incantevole bellezza, sempre con un sorriso che le illuminava il viso pallido e dai lineamenti delicati, la voce che risuonava così soave da sembrare quella di un angelo e non era mai di brutto carattere; ma sfortunatamente estremamente cagionevole di salute. Era sempre stata incline a prendersi qualsiasi tipo di malanno: influenze e allergie erano all’ordine del giorno e per questa ragione quasi sempre si trovava obbligata a letto a riposare.

Appena gli occhi verdi della donna si posarono sulle figure dei suoi bambini, il viso s’illuminò di emozione: pare che si riaccendesse in lei la vitalità che negli ultimi tempi andava via via esaurendosi. I gemelli si affiancarono al letto e Camille si prese qualche istante per osservarli meglio: Joëlle aveva un sorriso a trentadue denti e come al solito, dei due, era quella che rientrava a casa sempre con qualche livido o graffio da qualche parte, sporca di terra e di erba. Al contrario, César le rivolgeva un timido sorriso e non riportava né graffi, né lividi, rimanendo sempre leggermente indietro rispetto alla sorella.

«Allora, cosa avete fatto oggi di bello?» Domandò invitandoli a sistemarsi sul letto assieme al fratellino più piccolo. Appena si furono messi comodi iniziò il racconto della giornata appena trascorsa.

«… E poi ho messo al tappeto César! Ancora non riesce a batter–» Joëlle non riuscì a terminare il racconto che venne improvvisamente interrotta da un violento attacco di tosse della Signora Moreau. Joëlle era solo una bambina, sapeva ancora poche cose del mondo e a scuola della morte non se ne parlava mai, ma non era stupida: era un’abile osservatrice, dotata di ottima intuizione e intelligenza e si era accorta da tempo che la mamma non s’era presa una semplice influenza come al suo solito. L’assiduità con cui il Dottor Masson frequentava casa sua era aumentata considerevolmente nelle ultime settimane: si tratteneva in camera della mamma di Joëlle con maggiore persistenza e sempre frettolosamente si sottraeva a una rigenerante tazza di caffè che, in precedenza, non avrebbe mai neanche lontanamente rifiutato. In equivalenza con gli atteggiamenti sempre più sospetti del Dottor Masson, che rivolgeva sempre più spesso sguardi fugaci ai bambini e l’atteggiamento fortemente addolorato ogni qualvolta che faceva la sua comparsa dalla camera matrimoniale, la tosse della mamma era peggiorata; si era trasformata in qualcosa di più violento e feroce. Così tanto da toglierle il respiro. Joëlle aveva dieci anni e già portava sulle spalle il peso della consapevolezza di non avere molto tempo prima che la sua mamma se ne andasse per sempre.

 

Accadde in una pallida giornata d’autunno. Ai bambini era stato proibito da tempo di entrare in camera della mamma, dunque erano settimane che non riuscivano a vederla più; a esclusione di qualche brevissima sbirciata dalla finestra. Era stata un’idea di Joëlle, quella di percorrere tutto il perimetro della casa e una volta aver trovata la finestra che dava sulla stanza da letto, arrampicarsi e poter così dare un’occhiata alla mamma era una cosa da niente. Camille, che poteva udire i rumori e le chiacchiere dei suoi bambini, tentava sempre di sembrare il più serena possibile. Salutava e sorrideva ai suoi figli che preoccupati la guardavano dalla finestra. Ma poi successe che le condizioni fisiche di Camille peggiorarono ulteriormente e Gérard, che era al corrente delle visite clandestine dei tre bambini, coprì le finestre con una grossa tenda. Da quel momento i fratelli Moreau non videro più la mamma.

Solo Joëlle, testarda e preoccupata, colse l’occasione in cui suo padre e César erano fuori per intrufolarsi in camera da letto. Si alzò sulle punte, afferrò la maniglia della porta e l’abbassò lentamente. Quando la porta fu aperta, la bambina venne accolta dall’immagine di sua mamma come l’aveva sempre vista: appoggiata con la schiena alla testata del letto, i capelli biondi le arrivavano sotto le spalle, la pelle era estremamente pallida, sudata e le mani tenute in grembo erano secche e martoriate. Gli occhi chiusi, le occhiaie evidenti e le labbra screpolate poiché costretta a respirare dalla bocca. Ma agli occhi di Joëlle, sua mamma era bellissima.

«Mamma?» Chiamò la ragazzina, tenendosi discretamente nascosta dietro la porta socchiusa. Aveva paura, era terrorizzata a dire il vero e lo spavento si manifestò anche nella voce. Tuttavia, appena sua mamma aprì gli occhi e la vide, si sforzò di far apparire un discreto sorriso e aprì le braccia verso di lei.

«Joëlle… che cosa ci fa qui la mia bambina?»  La voce era debole, le corde vocali sembravano come consumate.

«Volevo vedere come stai.» Rispose rapidamente Joëlle, che piano piano avanzò, ritrovandosi dopo poco accanto alla donna malata. Quest’ultima le rivolse un sorriso gentile, spostando una mano per accarezzarle dolcemente la testa. «Sei diventata davvero bellissima. La mia bellissima bambina.»

Joëlle si precipitò repentinamente fra le braccia della mamma, circondandole il petto con le piccole braccia e nascondendo il viso contro suo petto. Poteva udire il debole battito del suo cuore e percepire le affaticate braccia stringerla forte a sé. Restarono immobili in quella posizione per dei minuti interi, finché la bimba non si sentì afferrare gentilmente per le spalle e sollevare, cosicché gli occhi color smeraldo della sua mamma potessero incontrare quelli color carbone dei suoi. Camille allungò una mano scheletrica e tremante ad accarezzare i capelli della bambina arruffati, districandole in quelle ciocche scure perennemente annodate trattenendo il palmo facendolo scivolare dolcemente sulla guancia morbida; indugiò sulla delicatezza di quel tocco, fissando sulla pelle ogni ricordo di quell’affettuosità. La reminiscenza raccapricciante che trapassò davanti alle pupille di Camille manifestandosi in un’immagine dissonante della figlia più che adolescente, riuscì a rassicurarla ma pure riuscì a farle nascere una malinconica sensazione che le soppesò sul cuore. Cullò a sé la bambina finché ella non s’addormentò tra le sue braccia, inconsapevole che quella sarebbe stata l’ultima volta che Joëlle avrebbe avuto la sua mamma così vicina.

 

 

 

 

Sembrava una mattina come le altre. Fuori, i grandi prati e i tetti delle case erano sotterrati dalla neve, con l’arrivo dell’inverno gelido fu sempre più difficile mantenere calde le abitazioni. I Moreau tuttavia potevano ritenersi fortunati: il capofamiglia discendeva da una umile ma diligente famiglia di panettieri, il pane in casa era l’unico cibo che non mancava mai nonostante il costo elevato delle materie prime. Essendo dunque Gérard Moreau un panettiere e svolgendo prevalentemente il suo lavoro in casa, il calore che fuoriusciva dal forno sembrava sufficiente a tenere tutti al caldo, anche se per poco. Joëlle si svegliò subito dopo che udì il rumore di una porta chiudersi. Immaginava che il padre e il fratello fossero usciti di casa per fare spesa, perciò si tolse le coperte di dosso e corse il più velocemente possibile in camera della mamma. Quando spalancò la porta, però, la scena che le si presentò davanti fu terrificante: suo padre era inginocchiato accanto alla donna, nel frattempo che tentava di soffocare il pianto nascondendo la faccia sul materasso. Il Dottor Masson era invece in piedi davanti al letto, immobile, con un’espressione addolorata e gli occhi abbassati sugli stivali. E poi c’era la mamma, Camille Moreau era distesa, inerme, il braccio sinistro abbandonato al lato del corpo e la testa piegata. Gli occhi aperti, inespressivi, spenti. «La mamma se n’è andata, Joëlle.»

 

 

 

La morte, raffinata e tanto elegante sfiora con la punta delle dita le corde più delicate dell’anima di chiunque, passa spesso inosservata e difficilmente ci si accorge della sua tacita presenza. Ma è lì, in attesa; la si può intravedere nei volti pallidi e smunti, riflessa negli occhi vitrei e velati di stanchezza, che si nutre, insaziabile e con estrema lentezza, di quei rimasugli di vitalità dalla pelle. Questa è la morte, brutale e violenta, non guarda in faccia a nessuno e assume i più svariati aspetti modellandosi agli occhi degli Umani come la rabbia più accecante e il dolore più straziante. Per i bambini la Morte è come un grosso animale le cui fauci restano aggrappate alla gola sanguinante della povera vittima: prosciugandola. Così aveva visto la Morte Joëlle; una bestia che agguantata ferocemente alla gola della sua mamma, la osservava fissa con i suoi occhi rossi e insaziabili. Quell’immagine le sarebbe apparsa in sogno tutte le notti, sottraendole lentamente, goccia dopo goccia, quel nettare prezioso della sua sensibilità.

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Capitolo 2
*** Capitolo I. Vicino ***


CAPITOLO I.

VICINO




I primi e audaci raggi del sole s’introdussero esitanti attraverso i vetri graffiati delle finestre, illuminando parzialmente il parquet all’evidenza danneggiato e consumato. Sempre con indulgenza, la luce andò a depositarsi sul letto singolo allocato al centro della claustrofobica stanzetta. Tuttavia l’ingresso del tenue bagliore non si rivelò indesiderato poiché la proprietaria di quella piccola camera era già totalmente sveglia e vestita e stava in piedi davanti allo specchio contemplando con una smorfia infastidita il suo riflesso: l’abito era di un’indubitabile mediocrità, visibilmente di seconda mano. Arrivava lungo fino ai polpacci, ma era strappato in alcuni punti e qua e là erano chiaramente visibili delle rappezzature, sopra di esso era stato legato attorno alla vita un grembiule bianco che in parte nascondeva il colore blu spento del vestito. Malgrado l’apparenza disordinata e sciatta che quell’indumento le attribuiva, Joëlle era di una bellezza impossibile da discutere: i capelli corvini le ricadevano riccioluti oltre le spalle e quando non erano tenuti legati in una coda alta fungevano da cornice per un viso dalla carnagione chiara e leggermente lentigginosa. A rendere ancora più grazioso quel volto erano i grandi occhi che portavano lo stesso colore della notte: troppo espressivi e stanchi, contornati da delle evidenti occhiaie. I delicati lineamenti del viso, le forme morbide del corpo e l’apparenza attraente erano in netta contrapposizione al carattere libertino, a tratti indisponente e sbarazzino della giovane fanciulla: la quale non si risparmiava a tenere incastrati i pensieri nella testa, ma li esponeva con estrema padronanza di sé accompagnata da un’eccessiva impetuosità negli atteggiamenti e nelle movenze. Che fossero i ragazzi che poggiavano brevemente gli occhi sul suo aspetto, i quali poi si prendevano la libertà di avvicinarsi con la convinzione che le loro provocazioni fossero sufficienti a far cascare una giovane ragazza nelle loro grazie, o nei confronti dei rimproveri, delle discipline imposte dal padre a cui lei puntualmente si rifiutava, con orgoglio e arroganza, di sottostare. Le regole, a Joëlle, erano davvero difficili da far seguire. 

Se soltanto fosse stata una ragazza dall’atteggiamento più sdolcinato e raffinato, probabilmente sarebbe risultata agli occhi estranei più gradevole da guardare e anche i ragazzi si sarebbero fermati a osservarla meglio – questo, almeno, era ciò che si ostinava a ripeterle insistentemente Babette; la moglie del panettiere che lavorava in società con suo padre. Ella non rinunciava quasi mai a reiterare i medesimi concetti rivolti principalmente alla giovane Moreau: soprattutto quando l’anziana donna aveva modo di osservare la ragazzina svolgere i lavori tipicamente adatti a un uomo: tagliare e portare la legna, imbracciare un fucile, collocare le trappole al limite del bosco, vangare l’orto e occuparsi dei lavori di manutenzione della casa. E quando il padre non era nei dintorni, Joëlle si assumeva responsabilmente quei doveri assegnati al fratello gemello. César, sotto rigide disposizioni da parte della sorella, si dedicava invece ai lavori domestici: pulire il pavimento, occuparsi del bucato, cucinare, lavare i piatti, mungere la mucca e aiutare Hugo con i compiti. E nei primi periodi, quando Babette ancora non conosceva bene i caratteri dei fratelli e chiedeva a César il motivo per il quale non prendesse in mano la situazione – «dopo tutto, sei tu, dopo tuo padre, l’uomo di casa. Dovresti comportarti come tale, figliolo.» Così, aveva detto –, il timido e incerto Moreau si grattava sempre nervosamente la nuca e rispondeva: «Mia sorella è fatta così. Di già è costretta a far lavori da domestica in casa d’altri, se deve farlo anche qui, esce di testa zia.»

Zia, era così che i tre fratelli avevano preso a chiamare Babette con il passare del tempo. Poiché quando la donna poteva concedersi una giornata di riposo, non perdeva mai occasione per abbandonarsi a una gradevole tazza di tè a casa dei Moreau. Era una donna senza figli e l’istinto materno si era dunque riflesso su quei tre giovanissimi ragazzi lasciati un po’ allo sbando, senza più una mamma e costretti a lavorare.

Tuttavia il duro lavoro dai massacranti turni sfiancanti gravava sulle spalle di tutti, anche su quelle della giovanissima Joëlle che di anni ne aveva appena venti ma che da tempo aveva compreso il vero significato della parola sacrificio. 

Terminò di legarsi i capelli in una coda di cavallo disordinata, si infilò velocemente le scarpe e coprì le spalle con un vecchio foulard dal colore purpureo. Uscì di casa ancor prima che i suoi fratelli si svegliassero; non aveva il tempo di preparare la colazione per loro, o semplicemente avere qualche minuto a disposizione per salutarli prima di rivederli nuovamente alla sera. Spesso e volentieri, sebbene vivessero nella stessa abitazione e facessero parte della stessa famiglia, Joëlle aveva modo di vedere i suoi fratelli e il suo adorato padre solo durante la cena. Quest’ultimo lavorava in una piccola panetteria nel villaggio; un’attività che aveva messo in piedi assieme a un vecchio amico d’infanzia, in seguito alla prematura morte della povera moglie, e i suoi turni erano stremanti: si svegliava ancor prima del sorgere del sole e rientrava a casa a tramonto inoltrato e quando poteva concedersi alcuni pomeriggi di riposo li trascorreva a dormire. Joëlle, benché non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, era segretamente preoccupata; l’instancabile Gérard Moreau iniziava ad avanzare con l’età e per lui quei turni lavorativi così eccessivi davano il principio di pesare troppo sulla sua condizione fisica. Ad aiutare con le spese ci pensavano i figli maggiori: lei, Joëlle, che con il suo lavoro da cameriera aggiungeva mensilmente qualche spiccio in più e suo fratello, César, il quale lavorava solo occasionalmente come stalliere. Erano lavori umili, faticosi e la paga era minima, eppure i soldi sembravano non bastare mai. Hugo, invece, che di anni ne aveva appena quattordici aveva iniziato la scuola nella chiesa del paese, a cui ragazzi e bambini veniva impartita una severa conoscenza generale delle scienze e della teologia, e malgrado avesse più volte espresso la volontà di abbandonare gli studi per lavorare, gli era stato categoricamente proibito dal padre. Il piccolo era il suo riscatto, una scusante per rimediare agli errori commessi con i figli più grandi i quali avevano dovuto crescere troppo in fretta, apprendere precocemente il reale meccanismo tortuoso e insipido del mondo, abbandonare drasticamente i sogni e distruggere l’incanto delle fiabe raccontate in tenera età. Hugo era diverso: ambizioso, intelligente e ancora saturo di emozioni fanciullesche che non aveva perduto.

 

La maestosa villa dei Bourdon, un’aristocratica famiglia che possedeva alcuni terreni adiacenti, ergeva isolata: era circondata e protetta da un’impenetrabile inferriata ricoperta completamente da verdi cespugli che ne ostacolavano la visuale interna. Era in perfetto stile rococò: l’esterno era dipinto di un delicatissimo color avorio tenue e le due grosse colonne poste all’ingresso offrivano all’abitazione un aspetto ancora più maestoso, più imponente. Gli interni erano dominati da due principali colori: l’azzurro chiaro e l’oro, fatta eccezione per alcuni mobili d’arredamento che si presentavano costruiti con levigato e lucidato legno pregiato. Ogni stanza aveva le sue distinte peculiarità che catturavano subito l’attenzione e ognuna di esse ostentava ricchezza.

Joëlle lavorava al servizio della famiglia Bourdon da ormai due anni e attraverso la sua capacità d’osservazione e la sua massima discrezione, aveva potuto distinguere il modo di vivere degli aristocratici, in particolare le figure sfarzose e sempre eleganti delle figlie femmine di questi ultimi. Adrianne, la maggiore, aveva la stessa età di Joëlle e crescendo il suo comportamento s’era adirato ancora di più, covando una profonda avversione nei confronti di tutto e di tutti. Aveva i capelli biondi, sempre acconciati in ordinati boccoli e intoccabili erano i suoi guanti di vari e costosi tessuti che non si azzardava a togliere mai. Erano l’unico strumento che potevano aiutare la giovane contessina a non detonare in furiosi attacchi d’ira causati dalla sua maniacale ossessione per i germi e i batteri. Dopodiché era il turno di Amélie, la sorella di mezzo; aveva quindici anni e un carattere più mite, educato e introverso. La sua voce si udiva raramente e nonostante la sorella maggiore rimproverasse spesso i suoi atteggiamenti e i suoi sbagli, ella non smetteva mai di ringraziare timidamente i camerieri ogni qualvolta loro svolgevano qualche cosa per lei. Aveva i capelli mori e dritti, gli occhi azzurri nascosti dietro degli spesse lenti rotonde ed era di corporatura estremamente minuta, probabilmente a rendere la sua figura così esile era anche l’atteggiamento taciturno e schivo. E infine la sorellina minore, Victoria. Aveva circa sette anni e mezzo e il suo era il carattere più bisbetico e lamentoso che Joëlle avesse mai avuto la sfortuna di vedere in una bambina. Era una creaturina incredibilmente viziata, le veniva concesso e perdonato di tutto e per questo motivo gettava contro le domestiche ordini dalla mattina alla sera. Capelli castani, occhi azzurri e immersa sempre nei suoi piccoli abiti cuciti su misura, se ne stava sempre attaccata al quel suo ventaglio; con il quale spesso osava picchiare la sua istitutrice quando era di umore particolarmente alterato. Joëlle lavorava principalmente occupandosi delle tre contessine, seguendo diligentemente una attenta routine che si ripeteva meccanicamente ogni giorno. 

Passò dal cancello posteriore, quello riservato esclusivamente alla servitù, entrò dalla piccola porta che conduceva alla cucina. Lì, già impegnate a sistemare ordinatamente la colazione su cinque vassoi differenti, trovò le altre sue colleghe. Joëlle era la più giovane e per quanto tutte sembrassero riservare per lei una timida simpatia, non si erano mai rivolte più di qualche parola, inclusi i saluti. In totale erano in quattro e ognuna di loro aveva il compito di occuparsi distintamente dei membri della famiglia e si erano implicitamente suddivise i compiti: dunque, per la maggior parte del tempo all’interno di quella dispersiva e solitaria villa regnava il silenzio. Joëlle si affrettò a sistemare la colazione sul suo vassoio: riempì una tazza con del tè caldo, sistemò una brioche su un piattino e posizionò della frutta fresca. 

Le cameriere giunsero tutte e tre contemporaneamente davanti alle porte delle tre sorelle, bussarono e entrarono in sincronia. Joëlle venne immediatamente pervasa dall’odore pungente dell’aria fresca che le pizzicava il naso; Amélie, come ogni mattina, aveva aperto le finestre che davano sul balconcino e stava pettinandosi distrattamente i capelli seduta sullo sgabello di velluto davanti al grande specchio. La cameriera si richiuse la porta alle spalle e si avviò verso il tavolo rotondo da colazione. Vi posò sopra il vassoio con gentilezza, dopodiché si rivolse con il massimo rispetto: «Buongiorno Signorina, la colazione è pronta.» Successivamente assunse una posizione rigida sul posto: le mani unite dietro la schiena e le spalle aperte. 

La ragazzina le indirizzò uno sguardo solenne, le sue iridi in assenza degli occhiali apparivano ancora più piccoli e severi. Appoggiò la spazzola con un tonfo pesante e si alzò dallo sgabello andandosi a sistemare diligentemente a una delle due sedie del suo tavolo da colazione. Osservò per qualche istante il cibo di massima qualità presente sul suo vassoio, poi fece un leggero segno d’assenso a cui Joëlle rispose con un piccolo inchino. Fece per voltarsi e uscire, – voleva sempre sottrarsi il più rapidamente possibile a quell’eccessiva e insopportabile scena, che la vedeva costretta a innalzare davanti alla sua vera personalità un atteggiamento di massimi riguardi. Si sentiva sempre terribilmente a disagio – quando la soave e appena udibile vocina di Amélie glielo impedì.

«Joëlle?» Appena la chiamò, la diretta interessata si voltò, sicura che la contessina avesse trovato qualche difetto nel suo piatto. Era giù pronta a riversare le migliori scuse, quando venne sorpresa da una domanda inaspettata: «Non è che potresti… farmi compagnia?» 

Amélie lo ammise distogliendo lo sguardo in direzione del balconcino per mascherare un principio di imbarazzo e probabilmente fu un bene che non osservò negli occhi la domestica, perché avrebbe visto l’espressione di puro sbigottimento che quest’ultima non aveva avuto modo di nascondere.

«Uhm…» non sapeva cosa dire e soprattutto come fosse opportuno agire. Il suo programma prevedeva degli impegni da svolgere entro la fine del suo turno, tuttavia uno dei suoi incarichi principali era quello di obbedire e occuparsi delle figlie del suo padrone. Avrebbe sicuramente dovuto svolgere tutti i suoi doveri di fretta, probabilmente non sarebbe nemmeno riuscita a terminarli, ma accettò quello che sembrava essere un cordiale invito a sedersi.

Nei primi momenti all’interno della stanza regnò il silenzio più assordante. Amélie era indubbiamente la persona più silenziosa che Joëlle avesse mai incontrato; non emetteva alcun suono sgradevole neppure quando consumava la sua colazione. E non era nemmeno una persona spiacevole da osservare, anche se era evidente che non fosse sveglia da molto. Era ordinata, pulita e precisa. 

«Se ti sto rallentando il lavoro sei libera di andare.» Disse a un certo punto la ragazzina mantenendo lo sguardo inflessibile sulla colazione e un tono di voce piatto che fece accapponare la pelle alla cameriera.

«N-non si preoccupi, posso restare fin quando lo desiderate.» Joëlle detestava esprimersi in questo modo. Eccessivamente forbita, sempre attenta a manifestare il più assoluto rispetto. Notò come Amélie aveva iniziato a torturarsi le dita delle mani nervosamente e come il viso iniziava a corrucciarsi sempre di più. 

«Non ho amici,» disse all’improvviso, con la stessa rapidità con cui si strappa un cerotto. «Frequento le lezioni a casa e per la maggior parte resto chiusa qui da sola. Per una volta, volevo soltanto qualcuno che mi facesse compagnia» 

Finalmente, Joëlle realizzò: Amélie si sentiva sola e aveva un disperato bisogno di un’amica. La sorella maggiore non doveva essere di ottima compagnia considerando il suo brutto carattere e i suoi terribili atteggiamenti. In più, trascorreva la maggior parte del suo tempo a tentare di farsi notare dallo stalliere; gli girava sempre attorno e quando le sue amiche da Parigi la raggiungevano per dei salotti, le chiacchiere si tramutavano quasi sempre in aspri pettegolezzi. E nemmeno la sorellina minore era di buona compagnia: frequentava le lezioni affiancata dell’insegnante per bambini e assistita continuamente alla governante più anziana. Perciò Amélie era sempre da sola. Soprattutto con il padre nascosto sempre nel suo ufficio e la madre fissa a Parigi. Joëlle si accorse di sentirsi profondamente triste per la ragazzina, tuttavia la persona che avrebbe scacciato via quell’immensa solitudine dagli occhi mesti della giovane Bourdon non poteva essere lei. Per quanto immaginava che le sarebbe piaciuto, perché la contessina sembrava davvero diversa dalle sue sorelle, doveva mantenersi distaccata. Lei era lì per lavorare e l’unico rapporto che doveva mantenere con Amélie sarebbe dovuto restare formale. Avrebbe voluto esprimersi in un comprensivo: «Nemmeno io ho amici.», tuttavia si trattenne continuando a sorreggere un silenzio convenzionale. 

Non ebbe il tempo di aggiungere qualcosa, che Amélie proseguì: «E mi dispiace davvero tanto per quello che ha fatto mia sorella l’altro giorno…» 

La cameriera sapeva benissimo a cosa la contessina stava alludendo: qualche giorno prima Joëlle era stata sorpresa nelle stanze di Amélie a rovistare nei cassetti e immediatamente Adrianne, che aveva sempre espresso nei suoi confronti un’antipatia inspiegabile, l’accusò di essere una ladra e di star cercando oggetti di valore da rubare. In realtà, quello che Joëlle stava facendo era semplicemente cercare disperatamente il Carillon che la piccola Victoria le aveva rubato soltanto qualche minuto prima infilando con arroganza una manina nella tasca laterale del suo grembiule. Senza nemmeno avere avuto il tempo di difendersi, si era ritrovata con le spalle al muro e le mani di Adrianne che la colpivano violentemente; mentre Joëlle doveva rimanere in uno stato di sottomissione, anche se l’istinto di ribellarsi si andava a depositare sulle dita delle mani tremanti. Alla fine, quando la più grande delle figlie del Conte Bourdon si stufò di quel giochetto, tirò fuori dalla tasca il suo Carillon lanciandolo rovinosamente contro il muro rompendolo in mille pezzi. Adesso, l’unico oggetto che legava Joëlle a sua mamma era andato distrutto e impossibile da riparare. Il tutto era accaduto sotto gli occhi lugubri e addolorati di Amélie che era rimasta a guardare immobile all’ingresso.

«Non si deve scusare, Signorina. Non è stata colpa sua. Ormai è successo, la pregherei gentilmente di non fare mai più accenno a questo accaduto. Adesso avrei urgentemente delle faccende da sbrigare, con permesso.» Si congedò il più velocemente che poté impegnandosi per non risultare irrispettosa. Si alzò dalla sedia, rivolse un timido inchino alla ragazzina e rapidamente uscì dalla stanza. Appena rinchiuse la maniglia lasciò sfuggire dalle labbra un sospiro di sollievo - no, di angoscia, o forse di imbarazzo -, appoggiandosi lievemente alla porta e lasciando per un momento cadere le spalle verso il basso rilassandosi dalla scomoda posizione rigidamente composta. Successivamente a quel breve momento di riflessione, alzò il mento con sicurezza e proseguì in direzione dei prossimi lavori da sbrigare.




 
•••

 

 

Versailles. Metà mattinata, la luminosità dei raggi del sole ora si espandeva per tutta Parigi, toccando anche gli splendidi giardini di Versailles e cadendo precipitosamente sulla piazza della Caserma della Guardia Reale, sulla quale sfilava un corteo di soldati impegnati a mettere in scena una commovente parata di commiato: gli zoccoli dei cavalli che scalpitavano all’unisono producevano un fortissimo frastuono che si espandeva per tutto l’ambiente, il sole alto nel cielo che osservava cheto le teste dei soldati coperte dai cappelli e infilati nelle ordinate divise militari. Immobile di lato a osservare la manifestazione che i suoi uomini avevano organizzato per lei, il Capitano delle Guardie Reali Oscar François de Jarjayes sembrava disattenta, assorta in agitati pensieri. I precedenti episodi che avevano stravolto drasticamente la sua vita e che avevano inevitabilmente turbato tutte le sue più fiduciose certezze, non smettevano imperterrite di palesarsi davanti ai suoi occhi; il dolore incommensurabile, quasi estraneo a qualsiasi tentativo di parafrasi sensata, di un amore non ricambiato, impossibile. Il suo, nei confronti di Fersen, il quale aveva inconsapevolmente respinto il suo amore proferendo poche e ingenue parole, e l’amore confessato in un istante al limite del terrore da parte di André, il suo carissimo amico d’infanzia André che giusto qualche ora prima aveva manifestato nei suoi confronti un’aggressività che non era sicura di riuscire a comprendere, realizzare, perdonare. Due amori destinati a rimanere sospesi a mezz’aria, incompleti, difettosi.

 

Successivamente aveva definito le linee tratteggiate dei pensieri e aveva preso la sua irremovibile decisione: abbandonare la Corte Reale e il suo ruolo di Colonnello. Versailles era, nel più sincero utilizzo del termine, la tana dei serpenti. I nobili, gli aristocratici che mettevano su una maschera di falsa autenticità e marcia gentilezza con l’unico scopo di presentarsi a Corte e mordere, infettare i propri simili che al tempo stesso tentavano di entrare nelle grazie dei Sovrani. Versailles era una gabbia d’oro, con i nobili che strisciavano storditi dallo champagne che non riuscivano a reggere e dal desiderio rivolto unicamente nei confronti del gioco d’azzardo, e con le dame, le nobildonne che nascondevano la faccia dietro quei ventagli sfarzosi e si lanciavano l’un l’altra spietate occhiate; partecipare ai salotti esclusivi nelle stanze della Regina era il loro unico obiettivo. Ostentare ricchezza, superiorità, comandati da quelle manie di potere, di grandezza. A lungo andare, toglieva il respiro. Oscar non si era mai sentita a suo agio in quegli ambienti, non si rivedeva negli atteggiamenti pavoneggianti e nella monotonia che aleggiava su tutti quelle altolocate figure infastidite che frequentavano Versailles: questo, il suo amore non corrisposto e l’allontanamento da André erano motivi sufficienti per voltare pagina. 

 

Era perfettamente consapevole, d’altra parte, che la sua decisione avrebbe creato enorme dispiacere alla Sua Regina – la quale, difatti, aveva tentato inutilmente di dissuaderla –, e malgrado il profondo disappunto manifestato da Maria Antonietta, appena a Oscar venne annunciato il titolo del suo nuovo incarico, che non poté certamente rifiutare, ella aveva ampiamente dimostrato di non aver sottovalutato la richiesta, la supplica, di quell’unica persona che poteva considerare davvero amica. Adesso sarebbe diventata Comandante di un reggimento della Guardia Metropolitana di Parigi: innumerevoli erano i pettegolezzi che guizzavano da una parte all’altra, che si erano diffusi a macchia d’olio anche tra le bocche zozze dei Nobili a Versailles. Quelle stesse bocche sudicie raffiguravano i Soldati della Guardia Francese come brutali animali dagli atteggiamenti quasi selvaggi, poiché nient’altro erano che poveracci che non avevano di che mangiare. Si diceva disprezzassero profondamente la Nobiltà e che non risparmiassero aggressività nei confronti di nessuno. Oscar ne aveva compreso la difficoltà e si prendeva coscienziosamente la piena responsabilità.

Era entusiasta e a stento tratteneva un’impazienza febbrile all’idea di dare finalmente una svolta alla sua vita. Sentiva di essersi tolta un enorme peso. Eppure… c’era qualcosa che gravava in maniera inappropriata e insostenibile sul quel suo cuore un po’ spezzato, confuso e soprattutto terrorizzato. Dall’idea dell’amore? Sì, così violento e inebriante fino a stordire i sensi. Era vero amore quello che aveva provato in maniera così struggente per Fersen? Cosa ne sapeva lei di quell’amore di cui tutti parlano, di quella timida sensualità che si nasconde in esso, di quella contentezza che ubriaca la ragione. Di quell’amore lei era degna? Era destinata? E assieme al desiderio dell’amore, si contraddistingueva anche quello di sotterrare nelle profondità del suo essere quella femminilità che l’aveva resa fragile, vulnerabile, che l’aveva fatta soffrire. 

Lasciatasi finalmente alle spalle Versailles, si concesse del tempo in completa solitudine stabilendosi fino a nuovo ordine nella villa di famiglia in Normandia. Reclusa, finalmente sola con i suoi pensieri, le sue emozioni e le sue paure. 

 

 

•••

 

 

Il pomeriggio, per Joëlle, trascorse come da programma, senza interruzioni o discontinuità di alcun genere. La giovane ragazza riuscì a portare a termine i propri impegni: si occupò di sistemare le stanze delle tre sorelle nel frattempo che erano impegnate con le lezioni private nella grande sala. Si premurò di stendere con cura e precisione il bucato appena lavato e sistemare la biancheria. Terminò il suo turno a tarda sera; stanca e affamata, ma soprattutto sconvolta dalla situazione che si era creata quella mattina con Amélie, di cui non riusciva a smettere di pensare e darsi tregua.

Era anche purtroppo consapevole che una volta tornata a casa non avrebbe potuto trovare il tanto bramato e meritato riposo: ultimamente lei e suo padre non sembravano andare d’accordo su niente; qualunque irrilevante situazione sembrava la più adatta per scontrarsi in un’accesa discussione che finiva quasi sempre con i due interessati che non si rivolgevano la parola per i giorni seguenti. Quella sera invece si prospettava essere diversa; Joëlle avvertì una inusuale sensazione di rilassatezza e appena varcò la soglia di casa venne immediatamente accolta da alcune piacevoli risate che si liberavano nell’aria. La scena che le si presentò davanti la colse si sorpresa: suo padre, i suoi fratelli e una graziosa fanciulla dai luminosi capelli castani erano seduti al grosso tavolo in cucina e chiacchierando animatamente gustavano profumate tazze di tè. Appena la giovane si chiuse la porta alle spalle, le quattro figure divertite si voltarono in sua direzione.

«Ah, Joëlle, sei tornata finalmente! Questa è Odette, un’amica di tuo fratello. Odette, lei è Joëlle, la gemella di César.» Annunciò prorompente di felicità suo padre alzandosi dalla sedia e allacciando un braccio attorno alla sua vita guidandola più vicino. Joëlle lasciò cadere un veloce sguardo di confusione sul padre, che per la prima volta dopo anni la ragazza mora vedeva con un’espressione lieta e contenta e sul fratello che invece era contenuto in un timido sorriso. E infine posò definitivamente l’attenzione sulla presunta Odette: un’aggraziata ragazza che non doveva avere ancora vent’anni, dai capelli color cioccolato raccolti sopra la testa, gli occhi castani che esprimevano curiosità e dagli atteggiamenti raffinati. Ella si avvicinò repentinamente rivelando a Joëlle una voce delicata: «È un piacere fare la tua conoscenza. César mi ha parlato molto di te. Siete realmente identici!» 

Joëlle era come pietrificata. Non sapeva cosa dire. Nei mesi precedenti il suo nome era scappato occasionalmente dalla bocca di César, il quale l’aveva descritta, timoroso, come un’amica: anche lei era una cameriera e lavorava al servizio di una delle tante famiglie aristocratiche di Parigi. La giovane Moreau non aveva mai dato troppa importanza a quel nome ma adesso, esaminando attentamente il fratello come soltanto lei era in grado di fare, capì d’aver commesso un errore a sottovalutarla. Fu a quel punto che César prese coraggio e si alzò in piedi, affiancando Odette passandole amorevolmente un braccio attorno alle spalle.

«Adesso che siamo al completo, posso finalmente annunciarlo.» 

Un attimo di spavento pervase Joëlle con un indesiderato brivido lungo la schiena. Sapeva cosa stava per dire César: lei glielo leggeva in faccia. Poteva percepire i sentimenti di lui tremargli nel petto e i pensieri avvolgersi nella testa, Joëlle sapeva tutto di suo fratello gemello; provare l’una le emozioni dell’altro era una delle tante particolarità che li contraddistingueva. César avrebbe potuto sapere cosa lei provava anche se si fosse trovata dall’altra parte della Francia, e viceversa. Dunque la gemella poté facilmente intuire l’ansia che si posava come un macigno sullo stomaco del fratello. Non poteva essere felice, anche se lo desiderava.

«Io e Odette siamo fidanzati. E desideriamo sposarci al più presto.» 

Sentire quelle parole uscire direttamente dalle timide labbra di César, provocarono in Joëlle un effetto totalmente imprecisato. Ancora pietrificata dallo sbalordimento iniziale, si mosse in avanti con un’espressione di stupore dipinta in faccia; gli occhi spalancati e la bocca leggermente aperta. Accolse il fratello in un abbraccio senza dire un parola. Dopotutto, loro non avevano mai avuto bisogno di tante parole. Joëlle sapeva che nascosto in quell’abbraccio c’era tutta la sua commozione, la sua felicità e il suo appoggio. 

D’altro canto però, non si poteva certo dire che il padre fosse altrettanto entusiasta. Gérard Moreau, infatti, non manifestava alcuna emozione positiva anzi, al contrario, sul suo viso era dipinta un’immagine sincera di disapprovazione. C’era qualcosa di storto, di sbagliato e tutti percepirono lo stesso retrogusto amaro che si era depositato sulle loro lingue. C’era qualcosa che suo padre aveva trattenuto per troppo tempo, Joëlle lo sentiva. Gérard si alzò lentamente, poggiando una mano sul grosso tavolo si tirò sù e volse al figlio uno sguardo addolorato.

«Vieni, figlio mio, devo discutere con te in privato.» Il suo tono di voce era drasticamente cambiato: più lento, grave e appesantito da quel dolore indefinibile per Joëlle. Il vecchio Moreau posò delicatamente una mano sulla schiena del figlio e sottraendolo alla fidanzata, lo condusse su per le scale all’interno di una delle stanze da letto, chiudendo la porta. 

Le due giovani donne lasciate all’oscuro della misteriosa conversazione, attesero con i visi aggravati da un’espressione turbata e perplessa da parte di Odette e gravemente preoccupata di Joëlle; in brevissimo tempo la sala da pranzo che fino a pochi istanti prima era immersa nell’allegria, illuminata di spensieratezza e beatitudine, adesso iniziava a immergersi in un clima lugubre e tetro, complice anche la candela posizionata al centro del tavolo che stava lentamente morendo. Joëlle era nervosa, il petto schiacciato dall’ansia di non essere stata messa al corrente di dettagli rilevanti che vedevano protagonista proprio la sua famiglia e in modo particolare suo fratello, il suo César, la sua unica altra metà. Era visibilmente preoccupata, la bocca contratta in una smorfia nauseata; batteva insistentemente il tallone contro il pavimento incapace di starsene ferma. Il silenzio aveva assalito entrambe le donne che sembravano patire sempre di più l’assenza prolungata dei due uomini che già da mezz’ora si erano chiusi nella camera da letto matrimoniale. 

«Non– non c’è modo di capire di cosa stanno parlando?» Proruppe Odette mantenendo timidamente la testa abbassata sulle mani congiunte sul tavolo, ritta in una posizione elegante. Era evidentemente in imbarazzo, le sue gote si macchiarono di un delicatissimo color porpora. «V–voglio dire, so che è irrispettoso, ma ormai sono lì dentro da un’ora! Sarà successo qualcosa?»

Era esattamente lo stesso pensiero che ronzava per la testa di Joëlle come una fastidiosa mosca. Temeva che in qualche modo César fosse nei guai, c’entrava il fidanzamento? Sicuramente. Il matrimonio era messo in discussione? Palese. Sarebbe stato annullato? Temeva di sì. Perché, poi? Joëlle non si raccapezzava facendosi spazio in mezzo a tutte le supposizioni più disparate che il suo cervello, in preda a deliri agitati, continuava a proporle. Alla fine, non resistette più.

«D’accordo, adesso basta. Vieni con me.» Apostrofò la giovane Moreau alzandosi rapida dalla sedia. Sicura di sé afferrò il polso della delicata Odette e la condusse su per le scale senza però arrivare a poggiare i piedi sul piano superiore; si fermarono a metà scalinata, da lì sarebbe stato più semplice udire la conversazione anche se i due interessati erano al di là di una spessa porta di legno. Tuttavia, ciò che sentirono le due donne fu il silenzio più totale. Joëlle azzardò a spostarsi leggermente per finire proprio accanto alla porta chiusa.

 

«…perché? Perché adesso? Perché proprio quando avevo trovato la mia dolce metà, la felicità… perché?» 

Era una cantilena estenuante da sentire, la voce di César era rotta dal pianto. Lo immaginava seduto al bordo del letto, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani a coprire la faccia, faceva sempre così quando era triste. 

«Perché non abbiamo più soldi, lo capisci? Il denaro non è sufficiente, il commercio sta crollando e quei nobili, i Sovrani, stanno là rinchiusi a Versailles senza interessarsi di nulla…» Sembrava disperato anche suo padre, che al contrario, Joëlle immaginava camminare irrequieto per la stanza, sopraggiunse poi un altro minuto di silenzio.

«Credi di essere l’unico? Di questo passo dovrò togliere tuo fratello dalla scuola e metterlo a lavorare, ha solo quattordici anni!» la disperazione, a quel punto, lo colse completamente. Joëlle non avrebbe mai creduto di assistere a una scena del genere; l’unica volta in cui aveva visto suo padre piangere in preda a sospiri convulsi, era stato al capezzale della moglie defunta. Tirò un rumoroso sospiro, poi continuò: «Per il bene di questa famiglia, César e per il vostro, quello di tutti. Ti arruolerai al reggimento delle guardie francesi e in quanto a tua sorella-» 

Suo padre non ebbe il tempo di concludere la frase che intervenne brusca la voce di César: «Cosa c’entra Joëlle, padre?» 

«Ho stretto accordi con un Conte proveniente da Nîmes,» pronunciò in tono aspramente aulico, tossicchiò leggermente: «l’ho conosciuto personalmente, è una persona rispettabile e soprattutto si è dimostrato interessato.» 

«Tu hai…» Era la voce di César quella che si introdusse nelle orecchie di Joëlle, calda e sconvolta: «Hai venduto tua figlia per soldi, padre! E hai condannato me a morte certa.» Scattò in un’affermazione irruente, si era evidentemente alzato in piedi perché si udì lo strepitio di passi pesanti che avanzavano rapidi. Probabilmente, pensò la giovane Moreau, suo fratello si era messo faccia a faccia con il padre.

«César, non ti permetto di parlarmi così! Non l’ho venduta, le ho garantito un futuro migliore. Come ho fatto per tutti noi.» Erano aspre le parole del padre, ma non quanto avrebbe voluto. Erano traballanti, incerte. E assieme alle sue, si aggiunsero anche quelle del fratello: «Toglietemi la libertà, il matrimonio, una moglie, una famiglia, ma non toccate Joëlle! Non toccate mia sorella, padre. Ve ne prego!» Era una supplica? No. Una minaccia, una preghiera, un invito a sacrificarsi per lei. Ciò nonostante, il padre non sembrava minimamente commosso dalla sensibilità del figlio.

«Io sono suo padre! E decido io cosa è giusto per lei e per la nostra famiglia!» Divampò in un urlo disperato.

«Credi che Joëlle accetterà? Conosci davvero così poco tua figlia da non sapere che non è ancora pronta a sposarsi e probabilmente non lo sarà mai?» La rabbia di César arrivò dritta al petto di Joëlle come una pugnalata. 

«Credi che mi interessi? Tutte le donne si sposano, prima o poi, e non tutte lo fanno per amore. Joëlle dovrà abituarsi, sarà l’occasione per lei di cambiare atteggiamento, una buona volta. Tu, figlio, ti arruoli e tua sorella si sposa. Fine della conversazione!»

 

Joëlle si era pietrificata sul posto. Per la quarta volta, in quella giornata terribile, si era ritrovata impallidita e incapace a muovere un muscolo, con la vista offuscata e gli occhi colmi di lacrime. Avrebbe voluto entrare, sfondare la porta con un calcio e precipitarsi addosso a suo padre, inveire contro quel padre egoista che pur di avere qualche soldo in più stava sacrificando i suoi figli a un futuro incerto, infelice. A scuoterla da quell’intenzione fu il movimento appena accennato nell’aria di un vestito; all’improvviso, alle sue orecchie arrivò debolmente il pianto di una donna. 

«Odette» sussurrò voltandosi velocemente ricordandosi della presenza della fidanzata di suo fratello che aveva anche lei udito tutto. Vide la giovane ragazza correre via disperata e Joëlle avrebbe voluto urlare il suo nome a grande voce per fermarla, ma si trattenne: attirare l’attenzione di suo fratello e di suo padre era l’ultima cosa che voleva. In silenzio, dunque, si allontanò dalla porta e iniziò a correre giù per le scale. Corse più velocemente che poté, per aggiungere la povera Odette che disperata chissà dov’era andata a cacciarsi – in un paesino sperduto come quello, poi –, per scrollarsi di dosso la tensione, la rabbia, l’ingiustizia che provava. 

Quando trovò Odette, era seduta sul bordo della fontana del paese: la schiena ricurva, mossa visibilmente da spasmi incontrollati a causa del pianto incessabile. Joëlle si fermò proprio davanti alla figura distrutta della ragazza, con il fiato mozzato e la fronte imperlata di sudore. Nel modo più discreto possibile si sedette al suo fianco. Sembrava inconsolabile, Joëlle tirò un profondo sospiro trattenendolo in gola per poi cacciarlo fuori prepotentemente, chiudendo gli occhi. Rimase per qualche istante senza dire niente, lasciando che Odette potesse sfogarsi di tutti i dispiaceri che all’improvviso avevano avvolto il suo puro cuore. Terminò le lacrime, le energie e si tolse finalmente le mani da davanti gli occhi rivolgendo a Joëlle uno sguardo disperato. La mora si avvicinò con prudenza, con una punta di imbarazzo che le dipinse le guance, dopodiché le circondò le spalle con un braccio nel tentativo di consolarla. 

Concesse alla fidanzata di suo fratello, che aveva conosciuto soltanto pochi minuti prima, di abbandonarsi completamente sulla sua spalla, riprendere a piangere; afferrare con angheria la manica del vestito e stringerla fra le dita.

 

Quell’estenuante avvenire di spiacevoli vicende giunse finalmente al termine, eppure Joëlle non percepì la tipica sensazione di stanchezza che pervade il corpo inducendolo a rilassarsi; era sì, stanca, ma talmente tanto tesa e preoccupata che le riuscì difficile soffiare via l’ennesimo sbuffo d’aria che decretava la fine della giornata appena trascorsa. 

Odette, con gli occhi rossi di lacrime e il viso sconvolto, ritornò a Parigi soltanto dopo aver confessato di aver ascoltato la conversazione – omettendo d’averlo fatto assieme a Joëlle, ma non servì certamente specificarlo – e César non tentò neppure di regalare un minimo di conforto alla tormentata amata; non era il tipo di carattere per certe cose, Joëlle lo sapeva bene. Crescendo, quel frammento della personalità che aveva rappresentato César come il più fragile e sensibile dei due gemelli non aveva accennato a sfumare, perciò il giovane era cresciuto con la timidezza e l’eccessiva emotività a renderlo semplicemente adorabile – anche agli occhi delle fanciulle, a quanto pare –. 

Ci aveva pensato Joëlle, invece, a dar un leggero sollievo all’infelicità di Odette. Lei, al contrario del fratello, non si lasciava trascinare facilmente dalle emozioni altrui; più insensibile alle sofferenze, aveva asciugato le lacrime dalle guance della fidanzata di suo fratello senza batter ciglio e con un tono di voce mellifluo e incredibilmente dolce le aveva sussurrato parole ricche di rassicurazione. Aveva svolto lei la parte più seccante e non c’era niente di sorprendente in questo. Joëlle lo sapeva e, in cuor suo, lo sapeva anche César. 

 

Quella sera, sotto le coperte, la giovane Moreau non riusciva a chiudere occhio. Tormentata dai mille pensieri che assalivano con violenza la sua testa, fissava con sguardo corrucciato il soffitto di camera sua. Soltanto dopo essersi rigirata a destra e a sinistra, soffiando sonoramente spazientita, si tolse le coperte da dosso con un unico e indelicato gesto delle gambe, poggiò i piedi nudi sul parquet e avanzò in direzione della finestra. Guardò fuori per un momento, contemplando l’oscurità che inghiottiva le infinite distese di campi: era una serata piacevole, il frinire costante dei grilli mimetizzati in mezzo ai ciuffi d’erba regalava una strana sensazione di quiete e serenità e se avesse osservato meglio avrebbe sicuramente intravisto le lucciole sorvolare dove il buio avvolgeva ogni cosa. “Sembra di stare in una favola.” Pensò distrattamente concedendosi per un brevissimo istante a quella pigra aria fanciullesca che in seguito agli eventi che avevano sconvolto la sua famiglia, aveva dovuto scrollarsi di dosso e chiudere a chiave nel cassetto più remoto della sua anima. Quando era piccola e osservava lo stesso paesaggio, non mancava di poggiarsi placidamente davanti alla finestra e con aria trasognante creare scenari che facevano concorrenza solo alle fiabe illustrate che sua mamma leggeva sempre a lei e a César prima di dormire. 

Mossa da quel pensiero di pace e nostalgia afferrò il vecchio scialle e uscì dalla sua camera. Da quando avevano cambiato casa, stabilendosi in un’abitazione molto più grande – ma estremamente più costosa – ogni componente della famiglia aveva a disposizione una stanza da letto tutta propria. Fortunatamente la stanza di Joëlle era quella più vicina alle scale, sicché non le costò molta fatica arrivarci in punta di piedi: si impegnò per non emettere alcun suono molesto che attirasse l’attenzione, anche se quelle terribili scale facevano un chiasso al minimo spostamento di peso. Con fatica riuscì ad arrivare al piano terra, si diresse nel sottoscala da dove aprì una piccola porta che affacciava sul retro. Da lì, una scala appoggiata di fianco conduceva sul tetto della casa. 

Era l’unico posto riservato che i gemelli Joëlle e César utilizzavano per riflettere, stare in pace quando le discontinuità della famiglia non lo permettevano. Lei sapeva che suo fratello era lassù e infatti, appena sbucò dalle tegole rosse del tetto, intravide la figura curvata su sé stessa di César. Si arrampicò con sorprendente facilità fino a raggiungere la cima e prendere posto accanto a lui. Tra le due figure tacite e apparentemente serene aleggiava uno sconfortato silenzio che pesava sulle spalle di entrambi. Un silenzio che rifletteva le medesime emozioni: paura, incertezza e una voglia matta di piangere. Istintivamente Joëlle avvicinò le ginocchia al petto nel tentativo di nascondersi da quelle sgradevoli sensazioni e ricacciare indietro le lacrime sembrava sempre più difficile.

«Hai sentito tutto, quindi.» Ruppe il silenzio César con un’affermazione tagliente, rapida, che voleva essere indolore.

«Già…» sussurrò distratta Joëlle, lasciando lo sguardo svagarsi sul cielo macchiato di stelle. «Mi dispiace, non avrei dovuto portare Odette con me.»

Attese alcuni attimi prima di ricevere una risposta che tuttavia si disperse nel cielo stellato o in giù in mezzo ai grilli e alle lucciole. Non osò voltarsi; vedere il viso annientato dalla disperazione di suo fratello, e quegli occhi così simili ai suoi, sarebbe stato troppo da sopportare. «Non è stata colpa tua. Prima o poi sarebbe dovuta venire a saperlo… tu piuttosto, come stai?»

Nell’udire quella domanda pronunciata con apprensione, Joëlle si voltò definitivamente verso il fratello posando su di lui uno sguardo incredulo. Non si aspettava che anche in una situazione simile César trovasse le forze per preoccuparsi anche per lei. Era ingiusto e disgustosamente altruista. Alzò le spalle appoggiando il mento sulle ginocchia evitando che l’imbarazzo fosse distinguibile. 

«Io sto bene, non preoccuparti! Sono sicura che lo sfortunato che ha accettato di prendermi in sposa scapperà come un disperato appena mi conoscerà.» Scoppiò in una risata nervosa che tradì le sue intenzioni di camuffare le sue più recondite fragilità. 

I due fratelli caddero nuovamente in un piacevole silenzio, gli occhi rivolti verso le stelle; entrambi imploravano che il destino riservasse un po’ meno dispiaceri nei confronti delle sfortunate esistenze l’uno dell’altra. Silenziosamente, speravano che qualcuno li ascoltasse. Che la mamma li ascoltasse.

«Hey, senti un po’ César» mormorò imbarazzata Joëlle, facendo ricadere in basso lo sguardo sui piedi nudi e sulle dita delle mani che a causa del nervosismo non riuscivano a stare ferme, prese un profondo respiro e poi disse: «Facciamo che al mio tre diciamo qualcosa di cui abbiamo paura? Qualcosa che proprio ti fa venire da vomitare, capisci. Una cosa così.» Sapeva che suo fratello avrebbe capito, dopotutto lui riusciva sempre a seguire il filo disconnesso dei suoi discorsi, spesso senza senso, che ogni tanto Joëlle tirava fuori. Intravide con la coda dell’occhio César annuire assecondando la sua idea, probabilmente anche lui aveva bisogno di sfogarsi, pensò Joëlle mentre contava: uno, due, tre

«Non voglio sposarmi.»
«Non voglio arruolarmi.»

Si guardarono entrambi con un’espressione inebetita per alcuni attimi, dopodiché cedettero a una risata liberatoria. Joëlle appoggiò la testa sulla spalla del fratello, il quale prese ad accarezzarle dolcemente i capelli: la ragazza non si lasciava spesso andare a tali effusioni sentimentali che la vedevano così fragile; di solito era sempre lei a consolare il gemello nei momenti di sconforto poiché era sempre lui quello terribilmente emotivo e bisognoso di abbracci, carezze e sostegno emotivo. Quella, tuttavia, era un’occasione isolata: César l’indomani sarebbe partito per Parigi. Avrebbe raggiunto Odette per dare atto a un’immensa dimostrazione di amore, aveva ammesso lui con franchezza. Avrebbe atteso assieme alla sua fidanzata la lettera di accettazione che gli avrebbe permesso poi di diventare a tutti gli effetti un Soldato della Guardia Metropolitana di Parigi – così aveva detto suo padre, almeno, il quale qualche mese prima aveva agito nell’inconsapevolezza dei due gemelli e aveva fatto personalmente la richiesta per César (altra confessione che mandò fuori di testa Joëlle) –. Mentre lei sarebbe rimasta lì, a casa: continuando a lavorare, sopportando la tensione che si era aggravata tra lei e suo padre, che in assenza però della figura contenuta e calma del fratello, sarebbe stato oltremodo difficile per lei tenere a freno la lingua. Inoltre, a dare maggiore preoccupazione a Joëlle era un altro fatto: lei e il gemello non erano mai stati separati. Distanti? Sì. Ma mai divisi in maniera così drastica e il vuoto al petto che la giovane Moreau continuava a percepire era persino più doloroso del matrimonio. Aveva bisogno di sapere se anche per César era lo stesso.

«Ti ricordi cosa ci diceva sempre la mamma?» Era una domanda specifica a cui soltanto César poteva rispondere. Non quel cocciuto di suo padre e nemmeno l’ingenuo di Hugo. Era qualcosa che apparteneva soltanto a lei, César e alla mamma. Joëlle intravide l’ombra di un sorriso depositarsi sugli angoli della bocca del fratello.

«Certo che mi ricordo: siete l’uno la forza dell’altra, l’unico amore puro è il vostro. César è la gentilezza e Joëlle la forza. Nessuno vi dividerà.» A quelle parole il corpo irrigidito di Joëlle si rilassò contro la spalla di César, il quale si mosse per infilare la mano destra nella tasca dei pantaloni e tirarne fuori un foglietto che incastrò nella mano della sorella: «Aveva ragione. Hai capito, sorella? Niente e nessuno ci dividerà. Se mai dovessi sentirne il bisogno, oppure no, vuoi venire a farmi visita, mi troverai a quest’indirizzo. Per qualsiasi cosa, hai capito?»

In quel preciso momento, l’inflessibilità di Joëlle vacillò pericolosamente; perdendo l’equilibrio cadde rovinosamente sul suo cuore. Le lacrime che non aveva fatto altro che ricacciare indietro fino a quel momento, spuntarono fuori e scivolarono giù, lungo le sue guance. Joëlle stava piangendo e come di riflesso, come se anche César stesse provando le sue stesse emozioni l’attirò a sé in un abbraccio. 

«Adesso che te ne vai, chi farà le faccende di casa al posto mio?!» Piagnucolò la ragazza mettendo in scena un atteggiamento teatralmente disperato. Questo suo capriccio fece sfuggire a César una risata divertita, per poi aggiungere: «Cosa devo fare con te…» pensieroso e con un sorriso ludico stampato in faccia.

Successivamente, Joëlle rivolse un’occhiata nostalgica in direzione di una delle stelle più luminose convinta anche grazie ai racconti del passato, secondo i quali le stelle più grandi e splendenti rappresentassero i parenti ormai defunti, che quella stella luminosa che brillava dritta nei suoi occhi fosse sua mamma che dall’alto le mandava una carezza di conforto. Poi un pensiero illogico le attraversò la mente per un momento: chissà se qualcuno, dall’altra parte della Francia, guardava lo stesso cielo.

E in effetti, dall’altra parte della Francia qualcuno che osservava il suo stesso cielo c’era davvero. 

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Capitolo 3
*** Capitolo II. Crudele ***


CAPITOLO II.
CRUDELE.

  

 

 

 

 

Avvertenza: avviso la presenza di una scena che riporta la descrizione più o meno esplicita di una violenza sessuale.

 


 

 






 

 

Sognare era sempre stato semplice. Affievolirsi con soffice apatia in un luogo incolume e quieto. Fin dagli albori della sua fanciullezza, le fantasie di Joëlle erano sempre state tele inzuppate di colori tenui e capovolte: in quelle visioni eteree era ancora bambina, mai cresciuta e senza l’ombra di sofferenza a macchiarle gli occhi — forse perché da piccini il mondo viene percepito affusolato; sopra il quale la purezza di quelle innocenti creature talmente sensibili fluttua incontaminata, così distante dall’essere insozzato dalle brutalità degli adulti. Il mondo, attraverso gli occhi di un bambino, è uno spazio ricco d’incanto e di meraviglie, che nasconde in sé posti da scoprire e avventure da raccontare, con la stessa ingenuità con cui la realtà viene osservata: sottosopra, vellutata, inarrivabile. L’infanzia è vivere in un sogno ad occhi aperti e sperare di non svegliarsi mai.

Eppure, appena nata nessuno aveva azzardato a riporre molte aspettative in merito alla sua sopravvivenza. Venuta alla luce in una gelida notte di metà marzo, non aveva emesso nemmeno il principio di un lamento, né il presupposto di un vagito. Se Gilbert Masson non si fosse precipitato con impaziente frenesia, spalancando la porta della camera da letto dando l’impressione di preannunciare cattive notizie, Gérard non si sarebbe accorto della nascita della figlia e dato l’inquietante silenzio che giungeva dalla stanza dove sua moglie pochi istanti prima stava squarciando l’aria di grida che invocavano l’Altissimo – e avevano provocato nel disgraziato Moreau incontrollabili brividi di terrore che avevano pervaso tutto il corpo –, aveva seriamente temuto l’inconfessabile. Ma appena l’amico, con le lacrime pregne di felicità e l’ampio sorriso volutamente non trattenuto gli aveva pronunciato le parole «È nata», Gérard Moreau si era abbandonato completamente svigorito sulla sedia.

Pochi minuti più tardi si era trascinato all’interno della camera dove alla vista di Camille sudata, con i capelli biondi appiccicati al viso e il fiato mancante a causa delle urla e degli sforzi, che reggeva delicatamente la sua creatura fra le braccia avvolta dalle morbide lenzuola bianche, aveva avuto il preludio di un mancamento. Era padre, quel pensiero fino a quel momento gli era sembrato così lontano, irreale, inafferrabile. Si era avvicinato incerto, Gérard, prendendo posto rigidamente sul lato destro del letto sopra il quale era distesa sua moglie con ancora le gambe divaricate e gli stracci posizionati in mezzo a esse, macchiati di sangue e liquidi corporei – a cui l’uomo dedicò una distratta occhiata e non volle indugiare oltre: svenire non era contemplato in un momento come quello –. Ebbe a malapena il tempo per riservare uno sguardo lieto a Camille, la quale, stremata, gli rispose con un sorriso stanco ma soddisfatto e posare delicatamente e con cautela gli occhi sulla figlia che, silenziosa e estremamente calma, emetteva solo piccoli versi da neonata e teneva gli occhi chiusi. La donna distesa sul materasso venne improvvisamente contratta da ulteriori doglie che di riflesso mandarono impulsi repentini: afferrò saldamente le lenzuola, stringendole fra le dita, gettò la testa all’indietro e inarcò la schiena. Le corde vocali emisero altre grida di dolore. In profondo stato di allarme, le infermiere si precipitarono sulla donna e obbligarono il Dottor Masson a intervenire. Nemmeno quando venne strappata via dalle braccia della mamma, Joëlle pianse. Venne accuratamente affidata al sostegno esperto della nonna, la quale si premurò tenere saldamente l’infante e senza batter ciglio uscì dalla stanza da letto seguita dal figlio, il quale, disperato ribatteva insistentemente di voler rimanere al fianco della moglie. Nello spazio esiguo e tra le figure addolorate di Gérard e di sua madre, la fiera e severa Louise, aleggiava un imbarazzato e riservato silenzio. Gérard perché gravemente preoccupato; i gomiti poggiati sulle ginocchia e i palmi delle mani a coprirgli il volto, e l’anziana donna perché impegnata a cullare la neonata che malgrado le grida della madre sembrava essersi abbandonata a un sonno profondo.

«Pensi che stia bene?» Postulò con la voce incrinata dalla tensione più estrema Gérard. Non udendo alcuna risposta, l’uomo scostò lievemente le mani da davanti gli occhi per osservare la madre che con neutralità cullava dolcemente sua figlia. Lo sguardo che gli lanciò suggeriva distacco, indifferenza.

«Non sarebbe una grande sorpresa,» parlò fredda Louise, facendo intendere che provava apatia nei confronti dello stato di Camille – com’era sempre stato d’altronde, non era una novità – «la poveretta è sempre stata cagionevole di salute, dare alla luce due figli è impegnativo di per sé.» Per le donne forti, avrebbe voluto aggiungere, ma si azzittì sebbene con difficoltà. Louise non era mai stato il tipo di donna capace a tenere a freno la lingua, sia con disprezzo o autorità doveva dire ciò che pensava; era più forte di lei, le parole mal trattenute le scivolavano via dalla punta della lingua senza che lei potesse effettivamente far niente. Con l’avanzare dell’età, poi, questo aspetto sgradevole era andato peggiorando. Era una donna impettita, con lo sguardo affilato e il viso allungato, gli occhi vitrei e la corporatura gradevolmente slanciata.

«E comunque, nel caso non riuscisse a sopravvivere, questi poveri bambini avranno sicuramente bisogno di una figura materna, di riferimento se non altro.»

Quella frase rimase sospesa, oscillante tra l’inquietudine e l’affanno, mal sentita e che non voleva essere compresa.

Fu soltanto quando venne posizionata con estrema cura sul braccio libero di Camille, faccia a faccia con il fratello gemello poggiato sull’altro braccio, che Joëlle, finalmente, pianse.

 

 

Il tintinnare di piccolissimi bulloni, viti, ingranaggi rotondi e di appena percettibili oggetti metallizzati soffocati gli uni negli altri, che venivano ripetutamente mescolati, agitati e scossi nel palmo chiuso di una mano, innervosivano in maniera a dir poco evidente i delicati timpani delle cameriere che spazientite rivolgevano occhiate accigliate in piena direzione di quell’impertinente ragazzina che sembrava proprio lo facesse apposta a dar fastidio. In realtà Joëlle sembrava non essersi accorta dell’irritazione che scuoteva i nervi delle colleghe, impegnata a star scomodamente seduta sul bordo del davanzale della vetrata nella grande sala della villa del Conte Bourdon, attendendo spazientita il ritorno della famiglia da Parigi. Osservava distrattamente in basso, gli occhi placidamente puntati sulla lontana figura dello stalliere che sotto i raggi del sole a giudicarlo faceva avanti e indietro dalle stalle al fienile trasportando su una carriola arrugginita il fieno dall’accecante colore dorato; non che, malgrado tutto, le interessasse cosa facesse il garzone, bensì pensieri paranoici si erano rannicchiati in un angolo nella sua testa e dall’insistente irrequietezza portata proprio da suddetti grattacapi aveva preso a giocherellare freneticamente con i resti del carillon distrutto che portava sempre con sé nella tasca anteriore del grembiule. Perciò non avvertì nemmeno i chiacchiericci sussurrati che le colleghe infastidite si scambiavano, appollaiate a pochi metri di distanza sui divani da salotto della stanza giacché troppo impegnata a rintracciare quel minimo di tregua dalle brutte sensazioni: César era definitivamente partito per Parigi, raggiungendo Odette e determinato a far cambiare idea al padre in merito alla decisione di quest’ultimo di far arruolare il figlio maggiore nell’esercito della Guardia Metropolitana – o più semplicemente conosciuta come un’accozzaglia di bestie della peggior specie raggruppate tutte insieme a proteggere le pericolose vie di Parigi e a metter quiete nel tumulto che di notte sconquassava l’animo dei francesi, ma che in realtà erano solo buoni a infestare come ratti le bettole della città –, era diventato l’apprendista di un falegname.

Erano trascorse tre settimane e complessivamente il fratello aveva spedito a Joëlle solo tre lettere che componevano la totalità di informazioni equivalenti alla lista della spesa; Joëlle si sentiva profondamente trascurata, abbandonata e soprattutto annoiata, contrariata, quasi astiosa. E si biasimava aspramente per questo. Si dava della stupida quando al mattino si svegliava e desiderava essere da tutt’altra parte, magari al posto di Odette, esclusivamente per essere accanto al fratello a vivere una vita insieme a Parigi. Invece Joëlle era rimasta a casa, come era giusto, impegnata ad aspettare il giorno in cui il suo futuro coniuge si sarebbe presentato alla sua porta e l’avrebbe portata via. Sopportava a stento le discussioni che avvenivano quasi quotidianamente con il padre; in assenza di César, la tensione tra i due si era fatta notevolmente più compatta e senza nessuno che riuscisse a far calmare il fuoco che Joëlle aveva dentro, i litigi proseguivano fino a quando uno dei due non decideva di porre fine a quel supplizio uscendo di casa, mettendo una distanza fisica tra loro. Adesso Joëlle e suo padre a malapena si scambiavano brevi occhiate, riducendosi sempre di più a un mutismo selettivo che aveva creato un alone di tensione ogni volta che i due si trovavano nella stessa stanza. Suo padre era dominato dall’insistenza, da un inalterato patriottismo e da quel macabro, urgente sentimento di maschilismo radicato che non lasciava sfuggire quando si trattava di discutere con la figlia dei doveri di una donna, perseverando sulla questione del matrimonio; tanto da arrecare in Joëlle una profonda repulsione. Non l’aveva ancora conosciuto, ma già detestava suo marito.

 

In aggiunta a questo profondo sentimento di solitudine, a turbare il delicatissimo equilibrio del sonno della giovane Joëlle era comparso l’ennesimo elemento di disturbo che però portava con sé un nome: Louise Archambeau, o conosciuta dalla famiglia Moreau semplicemente come Nonna Louise. La bisbetica, lunatica e isterica nonna paterna che Joëlle e suo fratello César ricordavano imprecisamente quando di tanto in tanto il suo nome sbucava fuori dalle distratte conversazioni di Gérard, il quale le riservava sempre parole succinte e lievemente intimidite; per i due fratelli la figura della nonna era sempre stata un’ombra indefinita. Ciononostante adesso la ragazza sarebbe stata perfettamente capace di descrivere per filo e per segno ogni minima caratteristica che contraddistingueva quell’anziana signora che di punto in bianco, una mattina di inizio primavera, si era acquattata in un angolo di casa e da lì non s’era più mossa. Tra le altre cose, poi, ella aveva anche resa propria la stanza di Joëlle.

Come detto, la saggia donna era dapprima capitata con l’intenzione di concedere una fugace visita: si era comodamente seduta su una sedia attendendo nervosamente che le venisse servito un tè e del pane con della marmellata; aveva indirizzato l’ordine al figlio che disciplinatamente si era messo all’opera. Joëlle si era svegliata con il profumo del pane fresco che le arrivava alle narici e scendendo le scale con la prospettiva di una colazione abbondante, aveva scoperto lo sguardo burbero e corrucciato della vecchia che masticava aggraziatamente un boccone, offuscata nell’oscurità della casa; la figura infilata in un abito dal colore fuligginoso era esile e longilineo, l’aspetto spigoloso. Sembrava uno spettro.

«Oh Santo Cielo,» mormorò assumendo un’espressione al limite del disgusto mentre il suo sguardo vagava sulla giovane appena sveglia: in vestaglia da notte, con i capelli arruffati e la faccia assonnata. La sagoma si mosse spostando il braccio appoggiato sul tavolo; posò la tazzina del tè sul piattino e poi si alzò affiorando lentamente dalla penombra. Adesso che era illuminata dal fievole sprazzo di luce che si insinuava dalle finestre, Joëlle assodò mostruosamente che l'aspetto dell’ospite non era troppo dissimile dal suo. Allungò una mano ossuta e rugosa in sua direzione, la ragazza osservava ammutolita le dita scheletriche avvicinarsi sempre di più finché non afferrarono con forza le guance, spostarono il capo da una parte all’altra e dalle labbra serrate e inesistenti uscirono gutturali versi di disappunto. «Questa ragazza è un disastro, Gérard. sembra appena uscita da una maison de prostitution¹.» Dichiarò con una compostezza tale da far rabbrividire di terrore Joëlle che non era certamente qualcuno che si lasciava svalutare così facilmente. Presagì, infatti, un terrificante sentimento di angoscia all’altezza dello stomaco, come se qualcuno l’avesse appena accoltellata nell’orgoglio e senza preoccuparsi di mettere a freno i pensieri, diede libero sfogo all’immediata concezione che aveva avuto di quella presunta parente: «Ha parlato la vecchia uscita dall’ospizio!»

Nonna Louise esalò un respiro così profondo che sembrava preannunciare un trapasso immediato, invece per disgrazia di Joëlle, l’anziana assunse solo un’espressione talmente tanto sconcertata da essere al limite del ridicolo, tanto da far sogghignare leggermente la nipote; la donna doveva essere stata abituata troppo alla nobiltà e si era dimenticata delle sventurate origini della sua famiglia. Poiché tempo addietro, prima di portare altezzosamente il cognome del marchese Archambeau – un vecchio più vecchio persino di Nonna Louise –, lei era figlia di nessuno, una contadina anonima che poteva far altro che sognare. Da quando era convolata a nozze all’onorabile età di sessantasette anni, però, non aveva esitato a traslocare istantaneamente nella sfarzosa villa degli Archambeau, localizzata a pochi chilometri da Versailles. E quando il povero margravio aveva espirato l’ultimo respiro successivamente a settimane di lenta agonia, tutto il patrimonio passò automaticamente nelle mani di Louise: ora una marchesa vedova che viveva da sola nell’antica residenza degli Archambeau e che frequentava assiduamente la Reggia di Versailles nel tentativo di esorcizzare il dolore che il peso della morte del marito le pesava sul quel povero, stropicciato cuore. Questa era la storia, spesso condita con frivoli pettegolezzi, alcuni dei quali accusavano Louise di aver avvelenato il marito per accaparrarsi il patrimonio.

In quel momento però, nella stanza immersa nel silenzio, l’unico suono che si percepì fu quello di uno schiaffo. Joëlle si toccò la guancia dolorante: sua nonna, la donna che aveva visto solo una volta in vita sua, l’aveva appena picchiata così forte da farle voltare il capo dall’altra parte e suo padre non aveva mosso un dito per difenderla. Infatti, il buon vecchio Gérard aveva silenziosamente indugiato, restando acquattato accanto al fuoco svolgendo un ruolo da osservatore non avendo in sé la spudoratezza necessaria per azzardare a mettere in pericolo la propria incolumità intromettendosi nella discussione tra due donne; soprattutto se queste erano sua figlia ribelle e sua madre.

«Se ti comporterai ancora in questo modo, di schiaffi così ne riceverai parecchi da tuo marito.» Disse con inflessibile austerità, voltandosi poi verso il tavolo da cucina e afferrando il manico della tazzina da tè diede un sorso alla bevanda ancora calda, come se quel gesto fosse il risultato di un gesto raffigurato come normalità. «Non mi sorprende che quell’incapace di mio figlio non abbia saputo dare a te e ai tuoi fratelli le conoscenze fondamentali, ma vedo che nemmeno tua madre è stata in grado di far niente.»

Il sentimento di indifferenza che Joëlle nutriva nei confronti della vecchia, adesso stava velocemente trasformandosi in qualcosa di più cattivo; un impulso nefando che le contorceva lo stomaco, bloccandole il respiro in gola e provocandole un profondo ardore brutale. Era comune a molti che Joëlle non permettesse a nessuno di rivolgersi alla sua defunta madre in qualunque circostanza; il nome di Camille non veniva mai pronunciato, era una presa di consapevolezza collettiva che tutti, tacitamente, avevano deciso di seguire. Adesso, a Joëlle ribolliva il sangue nelle vene e avrebbe tanto voluto rispondere a quella provocazione con la medesima violenza che le era stata appena rivolta. Tuttavia, sua madre qualcosa di buono le aveva insegnato: l’educazione e il rispetto.

«Io non sarò certo ammaestrata come quegli aristocratici che siete così tanto abituata ad avere attorno,» sibilò Joëlle con la mascella contratta, si mosse a grandi falcate pesanti raggiungendo la figura longilinea della nonna «ma quantomeno possiedo quel minimo di delicatezza da riconoscere il momento in cui è necessario smettere di parlare.» Pronunciò Joëlle corrucciando le sopracciglia, assumendo un’espressione imbronciata che tuttavia non suscitò alcuna reazione alla donna a pochi passi da lei.

«Ci sarà molto lavoro da fare.» Concluse Nonna Louise, allontanando la nipote usufruendo della punta del suo bastone da passeggio, pressandolo leggermente sul suo petto facendole fare qualche passo indietro.

 

Étiquette, élégance, féminité. Etichetta, eleganza, femminilità. Joëlle stremava le più irrigidite membra del suo cervello con l’unico scopo di fissare le dottrine che Louise le affidava; quelle tre voci reiteriate senza affanno orientate in direzione di qualunque esercizio di preparazione che scandiva ritmicamente la quotidianità della giovane Moreau, erano alla base del successo. Proclamate ad alta voce durante lo studio dei poemi destinati alle giovani menti nobiliari giacché recitati in modo sbagliato, oppure intanto che venivano indottrinati passi di danza complessi che si differivano spaventevolmente da quelli che Joëlle ricordava da bambina, o ancora, laddove la tazzina da tè rovesciata sul tavolo emetteva lamenti strozzati. Erano un rimprovero a cui Joëlle, quando i muscoli delle gambe o della schiena bruciavano sotto il tocco scottante del bastone da passeggio di Nonna Louise, nell’insistente tentativo di farle mantenere la posizione rigidamente corretta, riusciva a sottrarsi sovvertendo a insubordinazioni che provocavano litigi interminabili. Anche adesso, accompagnata dall’amata raccolta di poesie di Saffo – ché andava volontariamente in opposizione alle ambizioni letterarie di Louise –  adocchiata in mezzo a tutti i libri che sua nonna aveva portato con sé, sottratta furtivamente e letta privatamente quando la donna non era nei paraggi, con il viso parzialmente illuminato dalla fiamma di una candela che ondeggiava sinuosamente e la guancia poggiata sulle sottili pagine, dedicava un po’ di solidarietà a quell’anima oppressa e perseguitata da avviliti sentimenti.

«Cosa leggi?»

Joëlle sollevò la testa e diresse uno sguardo addormentato sul ritratto in penombra di un uomo robusto. Alzò le spalle dando vita a un movimento distratto facendosi da parte per permettere a Gérard di prender posto accanto a lei. Chiuse il libro concedendo al padre di leggere il nome stampato sulla copertina. Assunse un’espressione esitante per poi ammettere di non sapere chi fosse questa Saffo.

Un leggero sbuffo d’aria scappò dalle labbra di Joëlle che poggiò una mano sulla spalla dell’uomo: «Subito a me il cuore si agita nel petto solo che appena ti veda, e la voce non esce, e la lingua si spezza. Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle, e gli occhi più non vedono e rombano le orecchie.»

Sulle figure sedute vicine gravò un silenzio paralizzato dall’imbarazzo.

«È questo che voglio provare per qualcuno. Amare qualcuno che riesca a farmi dimenticare come si respira. Ecco, cosa significa.» Joëlle riuscì a pronunciare quelle parole tra un sospiro tremolante d’insicurezza e l’altro.

«Sarà così. Imparerai ad amare tuo marito.»

«Ma io non voglio imparare! Voglio solo…» Si zittì scettica, ultimare quella confessione avrebbe potuto sgretolare definitivamente un rapporto già spaccato. «Voglio vivere un amore come quello tuo e della mamma.»

Gérard si ammutolì, lasciandosi cadere sulla sedia svigorito abbandonato dagli ultimi frammenti di energie. Joëlle seguì il suo movimento, tuttavia assumendo un atteggiamento di arroganza obbligandosi a non proseguire con ciò che aveva da dire.

«Ho dovuto togliere Hugo dalla scuola,» ruppe il silenzio l’uomo, senza tentare neanche di nascondere l’ombra di disperazione che inglobava sempre di più il suo cuore. «Tua nonna pagherà un collegio nei pressi di Lyon. Ti imploro, figlia, ubbidisci a Louise. Sposa il conte che ti presenterà senza reagire d’impulso. Andrai lontano da Parigi, almeno tu. Quella è diventata una città sofferente; si è arresa a un male incurabile. Le strade della città sono mosse da un’agitazione esausta anche di giorno, e quei vigliacchi dei nobili sorpassano con le carrozze corpi dei bambini agonizzanti in mezzo alla strada senza nemmeno fermarsi,» L’oggettiva sincerità di quelle parole obbligò Joëlle a restare in un rispettabile silenzio «Sono sicuro che in questa battaglia ci perderò il mio figlio maggiore, non voglio veder morti anche gli altri due. Perciò vi prego, restate al sicuro.» Joëlle non fu capace a trattenere le lacrime le quali tracciavano un passaggio ardente lungo le sue guance. L’idea di perdere César si palesò talmente tanto nitidamente nella sua testa prendendo la forma di una tragica immagine che non poté fare a meno di toccarsi il petto all'altezza del cuore, asfissiato da una straziante malinconia.

«Se César dovesse venire a mancare in battaglia, morirei di dolore anch’io.» Confessò Joëlle, la voce spezzata dai singhiozzi che assalivano la gola. Si apprestò ad asciugarsi rapidamente gli occhi arrossati e stremati con il dorso della mano «E se in questo modo dobbiamo giungere alla nostra fine, allora lasciatemi morire con lui.»

 

Quella conversazione patita venne soppressa dall’ultima dichiarazione di Joëlle, lasciando sapori amari dalle lacrime mute e occhiate imploranti ché nient’altro fecero se non esortare la giovane Moreau a proseguire ancora più meticolosamente verso una decisione sempre più concreta e decisiva, mentre suo padre abbassava il capo rassegnandosi faticosamente e dolorosamente al desiderio della sua unica figlia. Non aggiunse altro, il Signor Moreau, edotto del fatto che qualunque tentativo di preghiera sarebbe risultata ormai inconcludente. Cedette, dunque, lasciando andare quella figlia sempre stata così indomabile che alla fine indomata rimase. «Pregherò ogni giorni supplicando di rivedere entrambi tornare a casa.» Decretò per poi infilare una mano nella tasca dei pantaloni, ne estrae una lettera allungandola a Joëlle che l’afferro con mani tremolanti; osservò la busta ricamata che riportava una calligrafia ordinata e elegante. «Quando lo vedrai, dì a César che ha ancora una settimana per arruolarsi.» Concluse poggiando affettuosamente una mano sulla testa della figlia muovendo lentamente la mano accarezzandole i capelli, dedicandole poi un sorriso terrorizzato ma amorevole.

Joëlle interpretò quel gesto come una concessione a lasciare quel villaggio di campagna che, in fin dei conti, non le era mai piaciuto.

 

 

 

 

 

«Hey, tu, dài muoviti. Sono tornati.»

Il gutturale richiamo che una delle cameriere più anziane rivolse a Joëlle fu abbastanza dissonante da far sfumare rapidamente i pensieri riflessivi dalla testa della ventenne, la quale balzò immediatamente in piedi raggiungendo velocemente il gruppo di domestiche che scagliarono in sua direzione occhiatacce insofferenti, dopodiché si affrettarono a raggiungere il più velocemente possibile l’ingresso della villa. In lontananza si udì il lento aprirsi del cancello principale e di seguito i cavalli che trasportavano la carrozza battendo freneticamente gli zoccoli sul selciato bagnato; erano ufficialmente tornati. La porta principale si spalancò con un boato agghiacciante rivelando la terrificante figura tarchiata e bassa del padrone di casa il quale non si disturbò neanche a rivolgere uno sguardo alla servitù camminando, o meglio zoppicando trascinandosi dietro quel suo bastone da passeggio sopra il quale poggiava tutto il peso, in direzione del suo ufficio finendo per barricarsi all’interno senza pronunciar neanche un saluto. Joëlle non conosceva abbastanza il Conte Bourdon per poter stabilire un pensiero nei suoi riguardi, si limitava semplicemente a tenere la testa bassa e svolgere il suo lavoro: camminava sempre in punta di piedi tentando di non intralciare il cammino di nessuno. Successivamente apparvero loro, le reali padrone di casa; le donne della famiglia erano coloro che in definitiva comandavano e esercitavano il potere assoluto sulle povere domestiche che quotidianamente dovevano mantenere un autocontrollo inflessibile per poter sopportare il carattere maleducato della Contessa madre che, inevitabilmente, aveva trasmesso, forse geneticamente, alle figlie. Joëlle, dal canto suo, metteva in pratica tutti i sotterfugi che aveva selezionato in modo da non avere direttamente a che fare con la Contessa; non poteva evitare le contessine, ma raggirava il confronto con la madre che, a quel che sentiva dire, era come dover combattere a mani nude con un orso. Anche in quell’occasione, soltanto dopo essersi assicurata che le ragazze fossero scomparse nelle rispettive stanze, Joëlle fuggì ai ripari nelle cucine, dove era assolutamente certa che Mamma Orsa non avrebbe fatto entrare nemmeno la punta delle scarpe.

«Oi, mocciosa» Gli appellativi con cui le colleghe più anziane si ostinavano a chiamarla anziché utilizzare il suo nome erano sempre in grado di far sollevare impercettibilmente gli angoli della bocca di Joëlle, che mentalmente appuntava ogni singolo soprannome che le domestiche potevano utilizzare esclusivamente con persone della loro stessa specie, chissà magari lo facevano per liberarsi dalle frustrazioni del lavoro «dovrai occuparti tu del padrone, oggi. La contessa e le figlie vogliono uscire per un picnic e noi andiamo con loro. Tu rimani qui.» Fece una delle donne mentre preparava tutto l’occorrente per l’uscita. Joëlle si limitò semplicemente ad annuire tentando di mantenere un’espressione solenne, anche se in realtà dentro di sé stava saltellando dalla felicità. Sarebbe rimasta da sola per tutto il pomeriggio, avendo la villa completamente a sua disposizione poiché il Conte non metteva mai il naso fuori dal suo ufficio e la casa era così grande che prima che lui potesse raggiungerla con il suo passo strascicato, Joëlle avrebbe avuto il tempo di farsi un bagno e tornare alla sua postazione.

La corvina approfittò immediatamente dell’occasione; assicurandosi di essere realmente da sola, s’intrufolò di soppiatto c nell’area riservata alla Contessa Madre, si tolse addirittura le scarpe lasciando sfuggire un sospiro di sollievo in merito al benessere che le attraversò tutto il corpo: la sensazione di freschezza sotto i piedi le fece venir voglia di correre. Raggiunse la camera da letto privata della Signora e senza attender indugi s’introdusse all’interno di soppiatto, chiudendosi immediatamente la porta alle spalle. La stanza era immensa, a Joëlle sembrava di essere stata catapultata all’interno di quelle fiabe che era abituata a sentir da bambina: questa volta, però, la principessa era lei. L’ambiente era illuminato da una luce naturale grazie alle vetrate che occupavano l’intera parete, un divano azzurro dall’apparenza confortevole e morbida occupava il centro della stanza; la mora la attraversò giungendo alla portafinestra che spalancò di colpo: l’aria primaverile le accarezzò le guance, scompigliandole leggermente i capelli si introdusse all’interno della stanza districandosi dalle leggere tende che presero a svolazzare al suo passaggio. Il vento che le carezzò dolcemente le labbra riuscì a farle distendere in un sorriso cheto come se qualcuno avesse appena depositato un paio di labbra fresche e morbide sulle sue. Una sensazione che la fece rabbrividire leggermente. Dopodiché non perse tempo, si insinuò nella camera da letto; sfarzosa, pacchiana e decisamente fuori dal gusto della ragazzina benché la sua attenzione venne immediatamente catturata da un piccolo e quasi impercettibile oggetto posato sulle bianche lenzuola del grosso letto a baldacchino: un ventaglio. Uno di quelli grandi, utilizzati dalle nobildonne francesi che usualmente frequentavano la Reggia di Versailles, somigliava a quello che spesso le aveva mostrato Nonna Louise in quei vaghi momenti di tenerezza in cui anziché massacrare Joëlle di lavoro intenso preferiva raccontare vecchie storie e curiosità. La giovane ragazza lo afferrò; lo aprì rivelando un ampio pavese spolverato di colori, la tela raffigurava le figure di tre bambine vestite con adorabili vestiti di tulle impegnate a danzare sulle punte. Sembrava uno scherzo del destino, rifletté Joëlle intanto che invece di rimettere l’oggetto dove l’aveva trovato, se lo portò con sé.

Si era addormentata. Distesa sul divano bianco che si era dimostrato essere comodo proprio come sembrava, talmente tanto che non dovette aspettare molto prima di cadere fra le braccia di Morfeo grazie alla lieve brezza gentile che si spostava appena sul suo corpo e il silenzio che avvolgeva la stanza; in quel tranquillo pomeriggio di primavera soltanto il cinguettio degli uccellini era udibile da quella casa.

«Perdonate» piano piano la voce di qualcuno, di un ragazzo, le arrivò alle orecchie facendole lentamente socchiudere gli occhi. Venne poi delicatamente toccata dalle dita gentili nel tentativo di svegliarla definitivamente e quando finalmente Joëlle aprì gli occhi, mise a fuoco la figura di un giovane dall’aria trasandata e sudicia, con i capelli mori disordinati e i vestiti da lavoro completamente sporchi. La ragazza si alzò immediatamente mettendosi seduta sul divano, scostando la mano gentile del ragazzo dalla sua spalla. «Perdonate, mademoiselle» Ripeté con estrema cortesia. Era evidente come quel giovane avesse una scarsa proprietà di linguaggio e a giudicare dal modo in cui pronunciava lentamente le parole Joëlle dedusse che potesse anche essere uno straniero, arrivato da chissà quale paese. Nessuno l’aveva mai chiamata a quel modo prima d’ora e soprattutto era la prima volta che veniva usato un tono di rispetto come se ci si stesse rivolgendo a qualche nobile. «Non volevo disturbare, ma il Padrone vorrebbe il suo tè.» Concluse piegando la schiena in un leggero inchino e abbassando il capo fino a guardarsi i piedi. Joëlle era confusa, turbata e talmente in imbarazzo che poté avvertire la punta delle orecchie bruciare leggermente. Si alzò in piedi il più rapidamente possibile imprecando sottovoce: aveva perso la nozione del tempo. Ringraziò brevemente il giovane stalliere e si precipitò correndo fuori dalla camera della Contessa. Il giovane nel frattempo, ch’era rimasto immobile guardando andar via veloce una fanciulla senza le scarpe e con la treccia sciolta, si era incantato dalla visione; mai avrebbe immaginato di trovare una semplice cameriera celestiale come una principessa, addormentata su un sofà e vederla correre via con il vento che le galoppava dietro alzandole il vestito e muovendole i capelli.

Joëlle arrivò in cucina e rapidamente afferrò uno dei vassoi posandoci sopra qualche biscotto e mise a riscaldare l’acqua per il tè. Febbricitante non riusciva a stare ferma, continuava con frenesia a strofinare i palmi delle mani sudate sul grembiule. Quando finalmente l’acqua fu abbastanza calda la versò nella teiera e assieme alla tazzina la depositò accuratamente sul vassoio. Solo quando aveva già bussato alla porta dell’ufficio del Conte, Joëlle s’accorse di non avere le scarpe. Iniziò a inveire contro tutti i Santi che conosceva.

Quando ottenne il permesso, abbassò con difficoltà la maniglia della porta con il gomito e poi la schiuse lentamente facendo capolino nella stanza. Pulito, a differenza con la luminosità che contraddistingueva la totalità della casa, l’ufficio del Conte era velato da una semioscurità olimpica. La luce del sole faticava a introdursi nello studio a causa delle tende chiuse, riuscendo solo a creare un riflesso di fioca luminosità che si depositava sulle assi del pavimento in mogano, a lumeggiare l’ambiente di calde luci soffuse v’erano delle candele appese ai muri che regalavano alla stanza un’atmosfera rilassante. Avanti a sé, Joëlle individuò la grossa scrivania dello stesso materiale e colore del pavimento dove seduto dall’altra parte con la schiena ricurva impegnato a scrivere, c’era il Conte Bourdon. Come la giovane domestica aveva predetto, il Conte non aveva alzato la testa, e dunque incerta se avanzare o meno, restò immobile.

 

«Avanti.» Ordinò l’uomo, la sua voce anche a causa della posizione, risultò terribilmente profonda e rauca; doveva essere una persona che di per sé fumava molto, pensò Joëlle, eppure sembrava per lo più innocuo. Intimidita si fece lentamente avanti fino a raggiungere il tavolo; per la prima volta in due anni che lavorava al servizio per la sua famiglia, Joëlle ebbe l’occasione di osservare più da vicino il padrone di casa che aveva sempre intravisto di sfuggita. Appoggiò il vassoio sull’estremità della scrivania, fece un piccolo passo indietro e attese.
Quando l’uomo attempato alzò il capo indirizzandole un’occhiata mascherata da insoddisfazione, Joëlle provò un’orrenda sensazione di affanno che le fece accapponare la pelle. Lui la osservò per qualche brevissimo istante per poi rivolgerle una smorfia curiosa. «E tu chi sei?» La sua voce, questa volta, gli uscì decisamente più duttile e acuta, lasciando anche spazio a un leggerissimo sorriso storto che precludeva un interesse emerso d’acchito.
«Una cameriera, Signore.» Replicò confusa Joëlle. Lui rise leggermente, di gusto.
«Questo l’avevo notato, intendo: perché una così giovane e graziosa cameriera come te non è mai venuta a portarmi il tè.»

Alla mora non sfuggì la modulazione in cui il Conte aveva forzatamente sottolineato quei due appellativi disgustosi facendo indugiare un po’ troppo lo sguardo sulla sua figura. Era in imbarazzo e voleva andarsene. All’improvviso l’uomo si alzò facendo urtare pesantemente le zampe della sedia sul legno del pavimento, afferrò il suo bastone poggiato di fianco e claudicante fece il giro della scrivania arrivando a presenziare a pochissimi passi dalla cameriera. La differenza di altezza non era esagerata, ma sufficiente per far sfuggire a Joëlle uno sogghigno divertito: quell’ometto era più basso di lei. Tuttavia lui continuò ad avanzare con sguardo languido e terribilmente affascinato e la giovane, presa ormai dallo spavento, incominciò a indietreggiare fino a toccare con il fondoschiena il bordo della scrivania. Sussultò.

«Vedo che lo trovi divertente. Mi trovi divertente?»

«Nient’affatto Signore.»
Un altro passo avanti e a Joëlle iniziarono a sudare le mani.

«Mi sembrava che stessi beffeggiando di me.»
Una mano callosa e ruvida si posò sul suo fianco magro. Joëlle non poteva più svincolarsi, era bloccata, intrappolata; come il respiro che si era incastrato in gola e aveva iniziato a far bruciare il petto, gli angoli degli occhi e le guance.

«Non mi permetterei mai, Signore.»

«Credi di essere più forte di me?» Serrò la presa sui suoi fianchi con entrambe le mani iniziando a opprimerle ancora di più il respiro. Adesso il corpo grassoccio e possente dell’uomo era completamente a contatto con il suo e il viso sudaticcio a pochi centimetri da quello di Joëlle la quale, quasi inutilmente, provava a voltarsi nell’inconcludente tentativo di non sentire l’alito del Conte che aveva un nauseabondo sapore di tabacco amaro. L’uomo emanava il tipico fetore delle persone anziane che preferiscono tenersi addosso gli stessi vestiti per più di una settimana. Lui non concesse a Joëlle di rispondere alla sua domanda e ferocemente la sollevò facendola sedere sulla scrivania. Appena avvertì le viscide, piccole e umide labbra del padrone di casa sul suo collo, Joëlle tremò, il suo corpo venne pervaso da un orrore talmente tanto ripugnante che d’istinto si mosse all’indietro proibendo così all’uomo, che non godeva di troppa agilità e non era in grado di raggiungerla così lontana, di continuare. Si osservarono negli occhi per qualche istante, poi Joëlle riuscì a intravedere un’agghiacciante lampeggiamento sorpassare gli occhi del Conte che si spalancarono assumendo una figura quasi bestiale. Era arrabbiato e in preda al furore più cieco si accanì violentemente su di lei. Le afferrò le cosce, che fino a quel momento aveva tenuto serrate, cercando forzatamente di aprirle. Nonostante Joëlle fosse fisicamente forte, l’uomo sembrò esserlo molto di più — o forse, molto più semplicemente, lo stomaco di Joëlle era talmente tanto ribaltato da nausea e emozioni riprovevoli aggrovigliate che non aveva le forze necessarie per combattere, — e riuscì a farsi strada tra le sue gambe e avvinghiandola nuovamente per i fianchi con una mano riportandola più vicina mentre con l’altra le artigliò la gola stringendo le sue dita grassocce attorno al collo bloccandole il respiro. Erano insufficienti le urla, i tentativi di contorcersi, divincolarsi e affannarsi a colpirlo. Nessuno poteva sentirla, nessuno poteva aiutarla. E se anche qualcuno l’avesse sentita, non avrebbe avuto il coraggio di intervenire.

Il Conte Bourdon tornò nuovamente a baciarle il collo scendendo giù fino alla spalla scoperta, all’improvviso la mano che prima si trova sul fianco cadde sulla coscia; sollevò il vestito e appena avvertì la mano sudaticcia e tremante dell’uomo su di sé che saliva sempre di più, Joëlle trovò finalmente la forza per scrollarselo di dosso. Gli piantò il piede sinistro sul petto e riuscì a spingerlo lontano; abbastanza per scendere dalla scrivania con un balzo e correre raggiungendo la porta dell’ufficio: si voltò esclusivamente per assicurarsi che l’uomo non potesse raggiungerla. Era pietosamente piegato su sé stesso, incapace di muoversi. Joëlle scappò, con le lacrime che finalmente riuscirono a scorrere copiosamente sulle guance, uscì dalla villa dei Bourdon con la premessa di non metterci più piede. Non si fermò nemmeno quando oltrepassò il cancello, continuò a correre; senza le scarpe sul terreno acciottolato e umido di pioggia. Il cielo iniziava a dipingersi di arancione e il sole unico testimone di quanto era accaduto, scompariva lentamente dietro le montagne.

Non tornò a casa, bensì i piedi sanguinanti, sporchi e pieni di tanti piccoli tagli la condussero stremata fino all’abitazione di Zia Babette. Era tardi, ormai il cielo si era oscurato di blu, le strade erano scarsamente illuminate ma Joëlle riuscì comunque ad attraversare la piazza di corsa e trovare la casa di Babette. Diede una rapida occhiata all’interno della casa attraverso la finestra: era buio, probabilmente lei e il marito stavano dormento già da un pezzo. Tuttavia la ragazza era mossa da così tanta disperazione da bussare incessantemente alla porta. Batté complessivamente quattro colpi prima che i passi pesanti e i borbottii di Babette riuscirono a farla smettere. Quando la donna aprì la porta, quasi non le venne una colpo: Joëlle era piegata, con le mani appoggiate alle ginocchia tremanti. La schiena si alzava e abbassava affannosamente mentre tutto il corpo era scosso da spasmi incontrollati.

«Joëlle…» riuscì a malapena a sussurrare la donna. Quando Joëlle sollevò il viso era contratto in un’espressione sofferente; le lacrime non smettevano di scendere abbondanti, le guance erano arrossate e la voce spezzata dal pianto. «Oh per bontà del Signore. Entra, presto.» Sussurrò la donna aiutando la ragazza a sollevarsi e entrare in casa, chiudendo la porta dopo essersi assicurata che nessuno avesse assistito alla scena.

Babette aveva acceso il fuoco del salotto, aveva fatto sistemare Joëlle sulla sedia più vicina al camino e le aveva appoggiato i piedi sullo spazio in mattoni; su di essi le aveva messo dei panni caldi nel tentativo di sopprimere il dolore. Le ferite, malgrado tutto, non sarebbero guarite tanto facilmente. La ragazza si era lasciata completamente cadere sulla sedia, appoggiando la testa allo schienale e chiudendo gli occhi. Come avrebbe fatto a dimenticare una cosa del genere? Come si sarebbe tolta di dosso il disgustoso odore di quell’uomo, la sensazione delle sue mani e delle sue labbra sulla sua pelle, l’alito ripugnante che si era mescolato con il suo. Solo a ripensarci, a Joëlle venne un conato di vomito e spalancò furtivamente gli occhi. Babette era voltata di spalle, stava preparando un tè caldo con uno scialle poggiato sulle spalle a coprire la vestaglia da notte e, vedendola così, un senso di colpa prese il sopravvento dallo stomaco; le calde lacrime tornarono a pizzicarle gli occhi.

«Allora,» fece Babette mettendole davanti la tazza di tè bollente nel frattempo che prendeva posto accanto a lei «Che cos’è successo tesoro?» Glielo chiese con tale gentilezza, poggiandole delicatamente una mano sul braccio, che il cuore di Joëlle sprofondò. Le raccontò tutto tenendo costantemente lo sguardo fisso sulle fiamme del fuoco che incantarono i suoi occhi, persi nei ricordi travolgenti e troppo vividi dell’esperienza traumatica che aveva vissuto poche ore prima. E quando poi, a racconto concluso, Joëlle spostò lo sguardo su quello di Babette e riuscì a scorgere il terrore e il dispiacere unite in un’unica espressione di sgomento, la ragazza, appena ventenne, scoppiò in un pianto disperato. Il minimo che la donna anziana poté fare fu stringere quella ragazzina che aveva visto crescere in un abbraccio stretto, allacciando le possenti braccia attorno al corpo esile di Joëlle così forte che sperò bastasse quello a far guarire la ragazza dalla profonda ferita che, sapeva, non si sarebbe mai cicatrizzata del tutto. Dopotutto, come si può guarire da una ferita come questa? Pensò, con orrore, mentre afflitte lacrime iniziarono a scendere anche sulle guance della povera donna. «Non posso dire a mio padre una cosa del genere. Non posso.» Joëlle aveva smesso di piangere, tuttavia aveva fatto raffreddare la bevanda aromatizzata che era rimasta intatta nella tazza. Il suo stomaco, ormai rivoltato, era chiuso. «E non posso nemmeno tornare a casa.» A quell’ultima dichiarazione, Babette si alzò in piedi quasi come fosse stata scottata. Posò le tazze nel lavabo, dopodiché si voltò in direzione di quella ragazzina ribelle, con lo sguardo più severo che potesse mostrare.

«Puoi dormire qui, per stanotte. Te lo concedo,» puntò un dito in direzione di Joëlle per metterla in guardia «Ma ti conosco troppo bene, so quello che hai in mente di fare. Non ti servirai della bruttissima esperienza che hai vissuto come una scusa per scappare, ragazzina. È troppo perfino per te.»

«No! Zia, ti prego, ascoltami» proclamò disperata Joëlle, alzandosi dalla sua postazione e camminando un po’ a fatica in direzione di Babette. Le prese le mani nelle sue e la guardò con struggente emozione «Domani, colui che diventerà mio marito, verrà a prendermi. Non posso restare. Non voglio partire con un uomo che non ho mai visto prima per poi, chissà, scoprire che sarà come quello per cui ho lavorato per due anni e che in tutto questo tempo neanche s’è accorto della mia presenza per poi all’improvviso…» si interruppe, non riusciva a proseguire senza essere invasa dall’ennesima rivoltante sensazione di nausea. Babette lo notò, comprese e abbassò il capo. Comprensiva, ma apparentemente irremovibile. Calò il silenzio nella stanza, l’unico rumore udibile era lo scoppiettio del fuoco che stava lentamente spegnendosi, lasciato trascurato. «César mi ha dato il suo indirizzo di Parigi. Prima di partire mi disse che, semmai ne avessi avuto bisogno, non avrei dovuto esitare a bussare alla sua porta. Ora ho bisogno di lui. Adesso più che mai.»  La conversazione si concluse con un «Ci rifletterò» da parte di Babette che fece sperare, anche se di poco, Joëlle. L’anziana signora l’accompagnò nella stanza degli ospiti sistemandola sotto le coperte e prima di andarsene le lasciò un dolce bacio sulla fronte: una dimostrazione di affetto che Joëlle non provava da troppo tempo. Si abbandonò a quel bacio che sapeva di intimità e conforto, una preghiera silenziosa rivolta ai sogni più felici che abbattessero quelli brutti.

 

 

 

 

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