Le persone sono romanzi

di liraTH12
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte 1 - Sir Daniel Hutterfield ***
Capitolo 2: *** Parte 2 ***
Capitolo 3: *** Parte 3 ***
Capitolo 4: *** Parte 4 ***
Capitolo 5: *** Parte 5 - Capitano Arthur Branx ***
Capitolo 6: *** Parte 6 ***
Capitolo 7: *** Parte 7 ***
Capitolo 8: *** Parte 8 - Henry Hutterfield ***
Capitolo 9: *** Parte 9 ***
Capitolo 10: *** Parte 10 - Daniel Hutterfield - 1892 ***
Capitolo 11: *** Epilogo - Legami ***



Capitolo 1
*** Parte 1 - Sir Daniel Hutterfield ***


Parte 1 - 1888

Ero una persona diversa, la prima volta che lo incontrai. Ricordo perfettamente quella mattina. Presi il treno per Londra sul presto, prima delle sette. Impiegai quasi due ore per attraversare la città e trovare l’indirizzo corretto. Nervoso, entrai nel palazzo e immediatamente un silenzio assordante mi inondò le orecchie. Nonostante la vita scorresse rumorosa solo a pochi metri di distanza, il mondo all’interno di quelle mura era avvolto da un silenzio innaturale, e da un apparente strato di polvere. Quel posto, devo essere onesto, non mi piacque all’ora e tutt’oggi il mio giudizio non ha subito variazioni. Il lungo viaggio, l’incertezza riguardo la mia missione e la strana inquietudine che mi suscitò resero i miei nervi tesi e i miei riflessi pronti a scattare. Mi avvicinai al bancone dove si trovava un uomo dai lunghi baffi bianchi vestito in livrea.

“Desidera, Milord?” 

“Mi è stato chiesto da una persona di fiducia di consegnare una lettera in questo luogo. Come può notare l’indirizzo corrisponde.” 

Gli porsi la lettera.

L’uomo sussultò leggermente quando vide il nome sulla busta. 

Alzò gli occhietti neri e mi squadrò, dubbioso. 

“Ho inoltre giurato di non perderla di vista e di consegnarla personalmente al signor Andersen.” 

“Credo che questo non sia possibile, le nostre politiche sono molto severe al riguardo. Inoltre, il Signor Andersen è un socio molto particolare di questo club e non desidera essere disturbato in nessun modo.” rispose con fermezza il maggiordomo.

Respirai, infastidito.

“Sono stato informato sulle vostre politiche ma sono costretto ad insistere. Avreste la cortesia di informare il signor Andersen, che deduco si trovi in questo edificio in questo momento, che a richiedere una così importuna visita è Sir Daniel Hutterfield dal Wiltshire, e futuro Conte Hutterfield?"

La frase suonò più arrogante di quanto avessi voluto ma la tensione che attraversava il mio corpo in quel momento era tale da far uscire la mia parte ruvida e nobiliare.

Il maggiordomo trasalì, non so se per il contenuto delle mie parole o per il tono che usai. Inclinò leggermente la testa, lasciò la busta sul tavolo e borbottò uno sbrigativo “attenda un attimo” sparendo in un corridoio laterale. Poco tempo dopo tornò con lo sguardo privo di qualsiasi turbamento.

“Chiedo perdono per l’attesa Sir Hutterfield, il signor Andersen la riceverà immediatamente.” Iniziò a camminare e io lo seguii, e subito i miei ben noti sensi di colpa si fecero sentire. Di questo parleremo poi. Ipotizzai che il tragitto dovesse essere piuttosto breve, quindi decisi di ridare una parvenza di nobiltà alle mie azioni. 

“Mi scusi, posso sapere il suo nome?” chiesi, cercando di essere il più gentile possibile.

L’uomo sussultò e si voltò, probabilmente non preparato a quella conversazione. I suoi occhi neri tornarono ad essere oscurati dalla sorpresa, accompagnata da un pizzico di paura. 

“Spencer, milord.”

“Mr. Spencer, volevo scusarmi per la scortesia che vi ho mostrato prima. Ovviamente lei stava facendo il suo lavoro e non volevo in alcun modo mancarle di rispetto.”

L’uomo rimase sorpreso tanto da interrompere la camminata.

“Milord, non c’è bisogno…".

“Insisto.”

“Grazie Milord.” disse dopo un attimo di esitazione. Fece gli ultimi passi verso una porta di quercia aprendola per me.

Entrai nella stanza. Era relativamente piccola, oserei dire intima. Un camino scoppiettava sul lato sinistro, circa a metà sala e poco distanti si trovavano due poltrone di velluto cremisi poste ai lati di un basso tavolino. In fondo alla stanza era disposta una scrivania  maniacalmente ordinata, e una poltrona più piccola. Sulla parete, due enormi librerie a vetro con esposti volumi di ogni sorta. Incorniciavano l'unica finestra della sala. Il colore delle pareti era caldo, sul marrone scuro anche se nel complesso leggermente opprimente. Pensai che quel luogo non era solitamente utilizzato per ricevere ospiti, ma per la più totale solitudine. 

La porta dietro di me venne richiusa da Spencer e io mi trovai da solo con l’unico inquilino di quel piccolo studio. Lo descriverò esattamente come lo vidi all’ora. Un uomo tarchiato anche se di alta statura, con elegante completo grigio decorato con una cravatta bordeaux. La catena dell'orologio, forse di metallo o di ferro, spuntava dalla tasca dove la sua mano destra aveva trovato posto, mentre la sinistra era dolcemente appoggiata sullo schienale della poltrona della scrivania. Le ombre contornano il suo viso, rendendolo difficile da leggere ma avrebbe dovuto avere sui 45 anni. I suoi occhi, illuminati dal riflesso delle fiamme del camino, stavano scrutando me. Non disse una parola e, prima che io potessi anche solo presentarmi, fece un gesto con la mano sinistra, indicando una delle poltrone al centro della stanza. Mi sedetti come mi era stato silenziosamente chiesto. L’uomo rimase in piedi, fermo, e io non dissi nulla per un tempo che mi sembrò sufficientemente lungo. 

Stavo per aprire bocca ma venni anticipato. Alzò la mano sinistra, e io ancora una volta fermai la mia lingua.

Infine, sospirò profondamente. 

“Vi porgo le mie condoglianze per la vostra perdita, milord.” 

“Come..” 

“Mostratemi la lettera”

D'improvviso mi sentì avvampare.

“Come posso essere sicuro che lei sia il destinatario? E come fa a sapere..”

“Vi prego Sir Daniel, non rendiamo le cose più difficili di quello che sono, e garantisco che già in questo modo le complicazioni non mancano.” estrasse un plico di lettere dal primo cassetto della scrivania. “Voi non potete sapere se io sto dicendo la verità, quindi vi dovrete fidare di me e di queste dieci lettere che presentano la stessa intestazione di quella che avete in mano. Certo, potrei averle rubate, quindi, come vedete, l’unica opzione rimasta è quella che voi vi fidiate di me. Ora, la lettera.” disse con un fremito nella voce. 

Rimasi in silenzio, troppo stupito. Mi alzai e confrontai l’intestazione della mia con una delle lettere sul tavolo. Infine la consegnai a Andersen. 

La aprì velocemente e iniziò a leggere le righe vergate con l’inchiostro nero.

“Lady Clara era una donna intelligente ma, purtroppo, di buon cuore.” disse mentre abbassava il foglio sulla scrivania. Un luccichio lontano sembrava illuminargli l’anima. “Questa lettera è per voi, Sir Daniel, ma prima che possiate comprenderla a pieno e accettarne il contenuto, dovrò raccontarvi tutto dal principio. Troverete il sostegno alle mie parole in quelle di vostra madre.”

“Come conoscete mia madre?”

“Vi prego, non interrompetemi, la mia storia non sarà lunga. Dopo risponderò ad ogni domanda." 

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Capitolo 2
*** Parte 2 ***


“Devo come prima cosa informarla del fatto che il mio vero nome non è Mr Anderson. Io e lady Clara concordammo all’inizio della nostra corrispondenza che fosse meglio essere prudenti, a causa della mia professione. Il mio lavoro è infatti quello di fornire della consulenza discreta su questioni delicate, senza ricorrere all'ingombrante presenza della forza pubblica. Sono rinomato per il mio lavoro e il mio nome ha per molte ragioni raggiunto una certa notorietà. Ora veniamo alla questione. Circa 20 anni fa, ero un giovane promettente, specializzato in questioni di.. diritto, per così dire. Fu vostro padre, Lord Henry Hutterfield, a contattarmi. Temeva per la sua vita e per quella di sua moglie Clara. Non vi dirò altro su questo, ma il pericolo era reale. L'ultima sera, quando ero ormai prossimo al ritorno a Londra e la situazione era sotto controllo, vostro padre si confidò con me. Mi disse di aver consultato uno stimato medico, noto per la sua discrezione, e la diagnosi era stata dura da accettare: non poteva avere figli.” 

Rimasi immobile, intontito dalla musicalità della sua voce per poter comprendere pienamente il significato di quella vaga affermazione. L’uomo aveva smesso di parlare, e mi osservava attentamente. Il suo volto sembrava ardere tra le fiamme del camino.

“Capirete quanto la situazione fosse delicata… si fece un accordo e ripartiti il giorno dopo.  Evidentemente vostra madre ha ritenuto opportuno sciogliere il silenzio.” 

Si alzò di scatto, mi porse la lettera, e poi tornò immediatamente a rifugiarsi dietro la scrivania, mettendosi nella stessa posizione in cui mi aveva accolto. “Lady Clara mi prega di dirvi tutta la verità, leggetela voi stesso senza ulteriori indugi.” Le mie mani avevano raccolto il foglio meccanicamente, ancora non ero sicuro di che cosa stesse succedendo. Mi immersi nella lettura, sempre più incredulo, ma il contenuto era chiaro.

I conti Hutterfield erano sposati da dieci anni e non avevano avuto eredi. Disperati, avevano chiesto un aiuto poco ortodosso all'uomo che ora mi stava davanti.

Appoggiai il foglio sulle mie ginocchia e rimasi a fissare il vuoto per non so quanto tempo.

Difficile descrivere il silenzio che in quel momento riempiva la mia mente, o la pesantezza che aveva trovato posto nel mio cuore.

“Lei è dunque mio padre.” dissi infine, trovando un briciolo di coraggio.

“Io non sono suo padre Sir Daniel, Lord Henry Hutterfield è suo padre. Io sono solo un mezzo che le ha permesso di venire al mondo, un uomo con cui condivide parte del DNA, ma non sono suo padre.” rispose l’uomo con voce assolutamente tranquilla.

Sorrisi.

“Lei la fa molto facile.”

Mi ricordai improvvisamente che durante la sua spiegazione aveva accennato al fatto che Andersen non fosse il suo vero nome. Raddrizzai la mia schiena sulla poltrona, mi sistemai la giacca e guardai negli occhi l’uomo davanti a me.

“Posso sapere il suo nome Sir?"

“Io non credo sia necessario, milord.”

Mi alzai in piedi, ormai avevo ripreso il completo controllo della mia mente.

“La sua identità rimarrà segreta se è ciò che preferisce, ma io vorrei sapere con chi sto parlando.” 

L’uomo sorrise divertito. Spostò distrattamente qualche foglio sulla sua scrivania, con apparente noncuranza.

“Il mio nome è Mycroft Holmes.”

“Molto bene Signor Holmes, credo che noi due abbiamo alcune questioni di cui parlare.” dissi e con fare disinvolto gli tesi la mano.

Lui mi guardò, sorpreso. Mi scrutò con i suoi occhi grigi, scandagliando la mia anima e poi ricambiò la mia stretta di mano.

“Clara ti aveva descritto molto bene.” disse mentre l’ombra di un sorriso si fece spazio sulle sue labbra. 

Probabilmente notò il mio turbamento quando sentii il nome di mia madre pronunciato in un modo così intimo. Ritrasse la mano, come se si fosse scottato.

“Signor Holmes, posso sapere il perchè della corrispondenza con mia madre?” 

“Non è come può sembrare Milord. Sua madre era la creatura più nobile che io avessi mai incontrato, la fedeltà a vostro padre non è da mettere in discussione. Fu lei a cercarmi qualche anno dopo il nostro unico incontro, mi disse che temeva per la vostra vita Sir Daniel, ma i suoi erano solo vaghi sospetti, privi di prove tangibili. Mi chiese di rimanere in contatto con me, per corrispondenza, in modo che potessi intervenire in caso di bisogno. In tutti questi anni non è mai stato necessario, ma lady Clara coglieva l’occasione per aggiornarmi sulla vostra crescita.”

Holmes aprì una vecchia lettera, estrasse un foglio e me lo porse. Era un mio ritratto, fatto con un inchiostro blu intenso. Mia madre aveva una spiccata dote per il disegno e nel corso degli anni aveva fatto spesso dei piccoli ritratti, ma quello lo ricordavo bene, quel blu così intenso mi aveva colpito profondamente. Il mio cuore tremò al dolce ricordo della sua mano bianca intenta nel disegno.

“Clara non avrebbe dovuto farlo, ma in tutte queste lettere mi parlava di voi, di quanto stesse crescendo in salute, delle prime parole. Immagino di doverla ringraziare in cuore mio, è lei che ti ha fatto venire qui.”  disse Holmes. Soppeso le parole successive, indeciso.

“Vuole pranzare con me Milord?” 

“Pranzerò con lei Signor Holmes, a patto che non mi chiami più Milord.”

“Non credo sia conveniente…”

“Questi muri non parleranno. La prego Signor Holmes, mi chiami Daniel.”

“Mi sta chiedendo qualcosa di molto difficile...” mormorò l'uomo.

“Insisto.” 

Mycroft Holmes sorrise.

“Va bene Daniel, faremo a modo tuo.”

 

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Capitolo 3
*** Parte 3 ***


Pranzammo, cercando di mantenere un’atmosfera piacevole e in qualche modo ci riuscimmo. Trovai la sua compagnia estremamente equilibrata. Il signor Holmes, così pretese di essere chiamato da me, non era un uomo dedito ai vizi o alle estreme passioni. Viveva ritirato, trovando conforto unicamente nel cibo al quale si dedicava con estrema cura. Aveva interessi molto disparati, parlammo di letteratura, di politica, perfino di biologia eppure ogni nozione non sembrava destare in lui grande stupore o meraviglia. La sua enorme conoscenza riduceva il sapere a semplici dati che in realtà lo annoiavano. Leggeva gli uomini come se fossero romanzi, ma questa straordinaria capacità sembrava ormai lasciarlo indifferente.

“Il suo grande potere è quindi la deduzione?” chiesi, dopo che mi ebbe accuratamente descritto il suo procedimento mentale. “Ho letto qualcosa, anche se lo trovo estremamente difficile da praticare.”

I suoi occhi grigi si illuminarono.

“Si è esercitato?”

“Qualcosa di simile, ma con scarsi risultati..”

“La prego, mi faccia vedere. Mi dica, Daniel, dove sono stato stamattina, prima del nostro incontro?” 

Mi feci convincere e guardai l’uomo davanti a me. Avevo passato le ultime ore con lui, avrei sicuramente notato qualche indizio, magari anche evidente. 

“Se vuole esaminare i miei oggetti faccia pure.” sembrò leggermi ancora nella mente con una punta di divertimento nella voce che mi fece sentire un principiante. Decisi di impegnarmi.

“Molto probabilmente sarà stato fuori dal Diogenes club, quindi esaminerò con il suo permesso il bastone da passeggio e la giacca.”

Mi alzai e mi avvicinai al portabiti mentre mio padre mi invitava con un gesto della mano. Non sprecava mai le sue parole, parlava solo quando era strettamente necessario. Esaminati gli indumenti e poi tornai a sedermi solo dopo aver lanciato una attenta occhiata alla scrivania. 

Mi preparai a portare le mie conclusioni ma il rumore della porta che veniva spalancata senza preavviso fece volare i nostri due sguardi. Due uomini si trovavano sulla soglia dello studio. Erano entrambi castani, uno era rimasto indietro, indeciso se entrare, l’altro aveva già tolto il berretto ma, stranamente era rimasto come pietrificato. Fissò prima me e poi spostò lo sguardo sul signor Holmes.

“Davvero impressionante.” mormorò l’uomo alto.

“Sherlock, non è il momento.”

“Lo vedo da me che non è il momento Mycroft, ma è assolutamente impressionante.” Si avvicinò e mi osservò come se fossi un animale ammaestrato che ha appena eseguito una giravolta.

“Un Lord… Questo è troppo, perfino per la tua acuta mente meccanica. Scozia o Wiltshire?"

"Wiltshire."

“Almeno non è scozzese.. Watson che fa sulla porta?” urlò Sherlock l'uomo che era rimasto indietro.

Decisi che era il momento di presentarci. Mi alzai e tesi la mano all’uomo senza berretto.

“Sono Sir Daniel Hutterfield dal Wiltshire, avete indovinato. Posso sapere chi siete.”

Eravamo alti uguali e potevamo guardarci negli occhi senza problemi. Vidi la stessa gradazione di grigio che ormai conoscevo.

“Il mio nome è Sherlock Holmes”

“Molto più chiaro ora.”

“Mycroft ho bisogno di parlarti di lavoro... Io e il Dottor Watson stiamo per assaltare i trafficanti cinesi. Entro stanotte riavrai i tuoi preziosi documenti. Devo ammettere che è stato un caso piuttosto stimolante, e con mio grande rammarico ho commesso più errori di quanto è mia abitudine….”

“Sherlock, forse dovremmo andare, credo che Mycroft sia occupato.” mormorò l’uomo che identificai come Dottor Watson.

“Sa maneggiare una spada, sir Daniel?” mi chiese invece a bruciapelo quello che capii essere mio zio.

“Sherlock. Ti voglio fuori di qui, ora.” disse lapidario Holmes alzandosi in piedi e raggiungendo il fratello. Si scambiarono uno sguardo duro, talmente freddo da credere che sarebbero arrivati alle mani.

"Naturalmente… faccia buon viaggio Sir Daniel.” Come una nuvola di passaggio, i due uomini sparirono dietro la porta. Quella breve apparizione ci riportò bruscamente alla realtà, spezzando l’incanto di quell'incontro. Guardai l'ora e mi resi conto che erano le quattro passate.

“Sì è fatto tardi. Devo assolutamente riprendere il treno per tornare a casa.”

Raccolsi le mie poche cose, indeciso su cosa fare. Avevo molte domande eppure non riuscivo a formularne nessuna, sentivo il legame profondo con l’uomo che mi stava davanti eppure lui rimaneva in silenzio, imperturbabile.

"Daniel, sai che quello che è successo oggi non potrà ripetersi. Meno sai, prima riuscirai a dimenticare."

"Potrei aver bisogno del tuo aiuto."

"Lo so."

"Mia madre pensava che fossi in pericolo, forse anche per questo mi ha fatto venire qui."

"Non posso dirti di più Daniel. So che al momento non corri pericolo, in tal caso lady Clara l’avrebbe scritto nella lettera. Ora però devi andare."

“Stamattina è stato in covent garden, davanti ad una bancarella che vende pollame.”

Sorrise Mycroft Holmes, i suoi occhi brillavano mentre chiudevo la porta dietro di me.

 

Uscì dal Diogenes club, diretto in stazione. Un fischio richiamò la mia attenzione. Sherlock Holmes mi stava fissando, divertito. Mi porse una spada da ufficiale.

"Ha voglia di una piccola avventura Sir?"

"Ho un treno da prendere e non posso trattenermi a Londra."

"Potrebbe prendere quello 22." rispose lui. Abbassò la voce. "Sono curioso. Quanto sangue Holmes c'è in lei?"

Presi la spada d'istinto, senza pensarci oltre.

"Spero vivamente che lei non mi faccia perdere il treno Mr. Holmes."

"Non succederà, Milord." 

"Può chiamarmi Daniel." 

 

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Capitolo 4
*** Parte 4 ***


Agii d’istinto, volevo dimostrare a quell’uomo di essere un Holmes, anche se in realtà non avevo idea di che cosa volesse dire. Ricordo di essermi ritrovato a incrociare la mia spada contro un tizio enorme mentre Holmes e Watson si accingevano a rubare quei benedetti documenti. Non mi è mai piaciuto combattere, ironico, visto che avevo appena terminato il collegio militare, ma devo ammettere che lo scontro con quella specie di montagna fu uno di quei casi in cui ringraziai il cielo di aver butatto così tante ore nella scherma. Correremmo fuori da quel covo malavitoso prima dell'arrivo dei rinforzi, i documenti della corruzione di qualche alto funzionario svolazzavano nella mano di Sherlock e le pallottole fischiavano intorno a noi. Ci dirigemmo in stazione dove presi l'ultimo treno, quello delle 22. Mentre la locomotiva prendeva velocità vidi Sherlock salutarmi con la mano, facendo un cenno di assenso con il capo. Promisi a me stesso che quello non sarebbe stato l’ultimo giorno in cui avrei visto i fratelli Holmes. Scesi alla stazione e recuperai il cavallo che avevo lasciato alla locanda sulla strada. Entrai alla residenza Hutterfield quando la mezzanotte era già scoccata. Avevo la testa piena di tutto quello che era successo in quella strana giornata, ma il morso della stanchezza cominciava a farsi sentire. Arrancai lungo le scale e mi diressi verso la mia camera ben intenzionato a non scambiare parola con nessuno. Sfortunatamente la mia speranza si infranse appena aprì la porta.

Lord Henry Hutterfield mi stava fissando, in piedi davanti al mio letto.

“Tua madre giace fredda da 24 ore e tu sparisci per un giorno intero, tornando a quest’ora della notte.” disse visibilmente arrabbiato.

“Sono andato a Londra, mamma mi ha dato dei fondi personali che voleva devolvere alle sorelle della carità. Era una questione urgente, sai quanto ci tenesse a fare del bene.”

Lui rise, con quella sua risata amara. 

“Certo, le sorelle della carità… dimmi, quanto hai bevuto?"

Solo allora scorsi il mio riflesso nello specchio. 

Ero impolverato, i miei calzoni erano sporchi di fango e un paio di tagli sul braccio sinistro avevano macchiato il mio completo nero. Lo zigomo era rosso e faceva male, il livido non sarebbe stato facile da nascondere l'indomani.

“Ti sei strappato il vestito per aiutare le sorelle? Sei veramente nobile…” 

“Padre, sono molto stanco, desidererei riposare.”

Henry sbatté il suo bastone per terra.

“Dimmi dove sei stato.”

“A Londra, te l’ho detto.”

“Voglio sapere perchè.”

Esitai. Perché continuare a nascondere la verità?

“Mamma mi ha dato una lettera da consegnare di persona. Mi disse che era urgente, così non ho perso tempo.”

“A chi era diretta?” 

Mi stava braccando senza lasciarmi un attimo di tregua. Infine decisi di dire la verità.

“Ho incontrato Mycroft Holmes. Mi ha detto tutto.” dissi, con una punta di sfida nella voce.

Lord Hutterfield subì il colpo, rimanendo imperturbabile. Stava curvo sul suo bastone, il tempo non era stato clemente con lui. Scosse la testa in silenzio, rassegnato.

“Così finalmente le menzogne sono finite, la libertà ci ha reso liberi. Tua madre aveva promesso di non fare colpi di testa ma niente, lei doveva sempre fare la cosa giusta, nonostante sapesse quanto fosse inutilmente pericoloso per tutti noi."

"Padre, spiegatemi, io devo sapere che cosa è successo."

Allargò le braccia, iniziando a ridere istericamente. 

"Vuoi sapere cosa è successo? Bene. Nel corso della mia vita ho commesso un solo grande errore: fidarmi delle parole di Mycroft Holmes. Mi disse che l’unica soluzione per vivere tranquilli era quella di avere un erede, con qualsiasi mezzo. Mi disse che era una cosa più comune di quanto pensassi, che molti nobili prima di me si erano ritrovati in situazioni simili e che l’unico accorgimento sarebbe stato quello di mantenere il più assoluto segreto e che tutto alla fine sarebbe andato bene. Gli volli credere, convinsi tua madre, nonostante lei mi supplicassse di cambiare idea. Cara Clara, disse che non le importava che fine avrebbero fatto le nostre terre dopo la nostra morte, a lei bastava che noi fossimo felici. Ma io insistetti e lei chinò il capo. Si sottomise alla mia decisione, fece l’amore con quell’uomo perché io glielo imposi e poi non parlammo mai più di quello che accadde quella notte. Fingemmo di dimenticare e quando tua madre seppe di essere incinta tutto sembrava sistemato. Pensai che la gelosia non avrebbe mai albergato nel mio cuore, che saremmo stati una famiglia felice e che avrei amato quel bambino come mio. Ma tu Daniel, sei stato il mio tormento, quando ti vidi in fasce tra le braccia di Clara, in quel momento, che avrebbe dovuto essere il più bello della mia vita… in quel momento capii di aver distrutto tutto.” Mi guardò con occhi vacui. “Tua madre non mi guardò più come prima e io capì di non riuscire a non pensare che la mia dolce Clara era stata con un altro uomo. Forse sono un uomo troppo semplice, troppo legato al passato e lontano da sotterfugi e strategie ma tu fosti come una pesante tenda nera che ci divideva. Capii di essere geloso di ogni attenzione di tua madre nei tuoi confronti, perché tu eri il segno di un legame con un altro uomo. E più sei cresciuto più quei tuoi maledetti occhi grigi mi ricordano quel ragazzo, più ti guardo e più mi rendo conto di vedere la mia amata Clara giacere con quell’uomo.” Mi disse, sputando tutta la rabbia che in tutti quegli anni aveva trattenuto. Tutt’ora rimango scioccato dalla crudeltà delle sue parole ma quel giorno fu come essere schiacciato da una montagna. Era stato un padre freddo, rigido ma io l’avevo amato come padre e per me lo era ancora. Ora quello stesso uomo mi stava mostrando quanto in realtà di odiasse.

“Mi dispiace averti creato così tanti problemi.” mormorai spaesato, stupendomi delle mie stesse parole.

Lord Hutterfiled ritrovò la sua fredda e proverbiale calma e iniziò a fissare un punto dietro la mia testa.

“Inutile ora pensare a ciò che è stato. Sono stati fatti dei sacrifici affinché tu sia qui ora e non intendo buttare via tutto. Tu sei l’erede di tua madre e come tale hai diritto allo stemma della sua famiglia.” appoggiò sulla scrivania l’anello. “Alla mia morte erediterai tutte le terre che ora posseggo. Fortunatamente sarò morto quando un figlio della borghesia sarà un conte Hutterfield e di questo me ne compiaccio. Domani mattina, dopo il funerale di tua madre, partirai per Newport per imbarcarti sulla fregata Victory dove presterai servizio come ufficiale.”

Rimasi a bocca aperta.

“Mi stai cacciando di casa?” 

“No, avrai questa casa quando sarò morto. Come sai è buona cosa che un nobile di sua maestà presti servizio nell’esercito ed è quello che tu farai.”

Si avvicinò alla porta con passo deciso.

“Questo è tutto quello che hai da dirmi? Voi siete malato, la vostra salute e debole partire in questo momento, lasciandovi da solo..”

“Voglio passare gli ultimi anni che mi restano libero dalla  mia colpa. Averti davanti agli occhi è per me un inferno prematuro.” mi interruppe deciso. Poi mi guardò mentre i suoi occhi si tingevano di lacrime, lasciando trasparire l’ombra della tristezza.

“Tu sei il mio erede Daniel, ma non sei mio figlio.” Senza aggiungere altro uscì dalla mia stanza e dalla mia vita. Mi spezzò il cuore, credetti di aver sentito il rumore dei pezzi cadere sul pavimento.

Quando lasciai la residenza, il giorno dopo, al termine del funerale di mia madre, mi sentivo un esule, privato della terra, del mio passato, diretto verso l’ignoto. Avevo l’anello di mia madre al dito, avevo mille volti nella mente e un nome che non sapevo più che cosa significasse. La carrozza correva verso l’orizzonte, diretta verso il mare, e io non sapevo più chi ero.

 

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Capitolo 5
*** Parte 5 - Capitano Arthur Branx ***


Ricordo perfettamente quella sera: io non volevo essere lì. Trovo molto curioso come l’impero abbia sempre bisogno di ufficiali per controllare gli avamposti più lontani e allo stesso tempo imponga ai suoi uomini di sposarsi al più presto e di mettere su famiglia. Mi sono sempre sembrate due realtà inconciliabili, la famiglia e le armi, e anche quella volta non mancai di farlo notare al mio diretto superiore, ma non ci fu nulla da fare. Fui obbligato a presentarmi in una bellissima villa di campagna immersa nel verde, vestito con la mia uniforme, con l’elsa della spada lucidata e con l’unico intento di scegliere a caso tra le tante ragazze di nobile famiglia una moglie che accudisse il mio tetto. Quanto odiavo la vita mondana, e quanto la odio tutt’ora…. Mi sentivo a disagio in quegli ambienti, come un pesce fuor d’acqua. Non possedevo la parlantina adatta per ammaliare una signora, il mio era un linguaggio povero, da guerra. Avevo trovato un angolino e me ne stavo lì, vicino alla porta di servizio dove i camerieri in livrea correvano affaccendati, quando udì una voce chiamarmi. Mi voltai e vidi una bellissima ragazza, in piedi davanti alle scale degli alloggi della servitù, intenta a sostenere, con scarsi risultati, l’ultima persona che avrei voluto incontrare in quel momento. 

“Branx, amico mio, che piacere vederti!” urlò l’uomo che ricadde pesantemente con il sedere sui gradini, trascinandosi dietro la ragazza la quale non tardò a lamentarsi.

“Richard, smettila di fare così, non riesci ad abbassare la voce?”

“Ma quello è Arthur Branx, un mio carissimo amico, abbiamo sedato insieme la rivolta ad Algeri, sai? E guarda come gli stanno bene i galloni da capitano!”

“Sir Richard, è un piacere vederti..” borbottai a denti stretti. L’uomo ricadde ancora una volta finendo a gambe all’aria in una marea di risate.

“Per l’amor del Signore, ma quanto hai bevuto questa volta? Capitano, potreste gentilmente aiutarmi?” 

“Io… certo sì.” risposi, colto alla sprovvista. Mi avvicinai e presi per un braccio l’ufficiale, liberando quasi completamente la ragazza dal quel peso morto.

“Arthur amico mio, ti ho presentato la mia sorellina Elizabeth? Sai, è qui anche lei in cerca di un bel marito, potrebbe essere il suo tipo? Cosa ne dici, Eli?” 

“Dico che questa è l’ultima volta in cui mi faccio vedere in giro con te Richard. Non hai il minimo ritegno.” disse lei con rabbia.

“Suggerisco di portarlo a prendere un po’ d’aria, vedrete che si riprenderà.” mi intromisi, cercando di stemperare la tensione.

Era un’ottima scusa per allontanarmi il più possibile dalla sala da ballo dove un fastidioso valzer viennese suonava ininterrottamente da almeno dieci minuti. 

La ragazza dai capelli castani scosse la testa.

“Vi ringrazio per il vostro ottimismo ma temo che il fresco della sera non sarà sufficiente. Mi dispiace per questo riprovevole spettacolo che mio fratello vi sta offrendo, non credo che l’abbiate mai visto in queste condizioni.”

Strinsi le labbra, non aggiunsi altro e aiutai la giovane a portarlo fuori. Non ebbi il coraggio di dirle che avevo già fatto ampia conoscenza dei vizi di Sir Richard Hutterfield. 

Le nostre strade si erano incrociate ad Algeri qualche mese prima. All’epoca ero ancora un tenente e lui era il mio capitano, per questo avevo potuto osservare molto da vicino la troppa confidenza che dava alla bottiglia e, purtroppo, avevo sperimentato i danni del suo pessimo comando. Diverse volte lo vidi dare ordini da ubriaco o non essere alla sua postazione nel momento del bisogno. La rivolta di Algeri fu solo il caso più grave, in cui persero la vita inutilmente più persone di quante la mia coscienza avrebbe potuto sopportare. Ma Richard non aveva il mio rigore morale, era privo di qualsiasi disciplina, uno di quei piccoli nobili che si arroga il diritto di comandare solo per il cognome che porta. Ora quel grande uomo si era buttato tra l’erba ben curata, addormentandosi all’istante. Evidentemente il sonno non era mai stato un problema per lui. Non ebbi il cuore di abbandonare Elisabeth in quel giardino, da sola, ad aspettare il risveglio di suo fratello. Decisi di rimanere con lei. La guardai bene per la prima volta. Aveva dei bellissimi capelli castani, il suo abito blu era semplice anche se non banale, una creatura graziosa e molto giovane. 

Avrei dovuto intavolare una conversazione ma non sapevo proprio da dove partire, fortunatamente fu lei a togliermi da ogni impiccio.

“Così voi siete capitano.” iniziò con aria interessata.

“Sì, sono appena stato promosso. Ho servito sotto Sir Richard come tenente ad Algeri, e prima ancora in Gambia. Mi hanno affidato una nuova missione, partirò tra pochi giorni per il Sudafrica, una terra che non ho mai avuto il piacere di conoscere.” 

Mi morsi la lingua osservando la ruga che attraversò il viso della mia interlocutrice. Ricordai a me stesso che non dovevo parlare troppo di lavoro in occasioni simili. 

“La mia storia non è molto interessante… ditemi Lady Elisabeth, è molto giovane, è il primo ballo a cui partecipa?”

“No, non è il primo. Mio padre pensa che io debba portarmi avanti nella ricerca di un marito, crede non abbia senso aspettare. Sa capitano, sono l’unica figlia femmina della famiglia e sfortunatamente mia madre è venuta a mancare tre anni fa. Una zia si è occupata di me, ma è tempo che io mi sitemi. ” 

Increspò brevemente il labbro, si guardò le mani e poi si voltò a guardare il fratello che dormiva nell'erba verde. Mi sembrò che volesse cambiare argomento.

“Richard è stato congedato, mi risulta." disse lentamente.

“E’ stato richiamato in patria, avrà un piccolo ruolo a Londra.”

La prassi era quella. Quando un comandante con amicizie troppo in alto o il cognome troppo lungo faceva dei danni veniva "richiamato in patria”. Definirlo “congedo forzato” non era molto onorevole. 

Osservai le mani di Elisabeth strofinarsi l’un l’altra. I suoi occhi saettavano dal fratello addormentato al padiglione illuminato poco distante da noi, dove file di ballerini danzavano e la musica non cessava mai. Ero stato stupido a non accorgermen prima, quella bella ragazza aveva la serata rovinata e io me ne stavo lì a parlare. Una forza proveniente dal mio stomaco mi spinse. Forse era solo il desiderio di vederla sorridere.

“Vuole ballare con me, Elizabeth?" chiesi con cortesia tenendole una mano. “Non credo che sir Richard avrebbe nulla da ridire. Dopotutto, lei è qui per divertirsi.” Finalmente un sorriso spuntò dalle sue labbra e annuì con la testa. La presi tra le mie braccia e iniziammo a ballare, seguendo l’eco della musica lontana.

Mi guardava sorpresa e forse un po’ spaventata. Ammetto che quella fosse una posizione piuttosto compromettente per una ragazza di buona famiglia, ma io non ero cresciuto in un palazzo, e le usanze della nobiltà non mi appartenevano. Per quanto mi riguardava, non stavamo facendo nulla di male a starcene abbracciati nell’oscurità senza l’occhio vigile di qualche dama impicciona. Le feci fare una giravolta e lei rise ancora.

“Capitano Branx, lei balla molto bene anche se in modo bizzarro.”

“Ho imparato in Brasile, molti anni fa.” 

“Lei è diverso da tutti gli ufficiali con cui ho parlato stasera.”

“Cosa significa?”

“Lei è autentico.” 

Non seppi cosa rispondere. Fermai la nostra danza.

"Elizabeth, immagino che stia cercando un marito….”

“E lei non sta cercando una moglie." disse con tono rassegnato. "Un capitano non si nasconde vicino alle cucine, sperando di passare inosservato, se ha intenzione di fare colpo nell'alta società.”

“Elizabeth, voi siete bellissima…”

Lei rise ancora iniziò a camminare sul vialetto.

“Capitano, non dica altro, non si comprometta oltre. Lei ama il suo lavoro, lo si intuisce dal modo in cui parla del suo futuro, e questo io lo rispetto. Credo che ci siano molte ragazze che accetterebbero all’istante di sposarla e di vederla andare via. Ma non io. Io non sto cercando solo un marito, io voglio un uomo che mi ami. Un uomo che stia con me, che viva con me. Non voglio dormire con un fantasma che in realtà si trova a migliaia di chilometri di distanza. Non voglio mettermi in fila e dividere un soldato con i suoi commilitoni. Può capirlo, capitano Branx?” mi chiese la ragazza guardandomi in volto.

“Sì milady, lo comprendo e avete ragione. Sono sicuro che riuscirete a trovare quello che state cercando.” le dissi con profonda ammirazione. La dolce Elisabeth mi prese le mani.

“Non vorrei che lei interpretasse il mio rifiuto come una mancanza di interesse. Lei mi è caro e non dimenticherò l'aiuto che mi ha dato questa sera. Capitano, siete un uomo buono.”

“Elisabeth, per voi posso essere Arthur.” 

"Bene Arthur, allora le auguro uno splendido futuro."

Quando me ne andai quella sera, sentivo come se avessi appena avuto un incontro il mio destino. 

 

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Capitolo 6
*** Parte 6 ***


Ero di nuovo davanti ad una casa nobiliare immersa nella verde campagna inglese,  appoggiato contro un albero secolare, attento nel guardarmi intorno. Indossavo degli abiti da contadino per passare inosservato e poter arrivare al punto dove ci eravamo dati appuntamento. Da dietro un albero lei apparve. Fu come rivedere il sole dopo una lunga notte scura, erano passati quattro anni dal nostro incontro. Mi buttò le braccia al collo e io la strinsi a me.

"Arthur, finalmente sei arrivato."

"Quanto mi sei mancata Elizabeth...”

“Caro, sei così pallido… non devi fare sforzi. Vieni, nascondiamoci tra questi alberi, per un po’ nessuno ci disturberà.”

Mi aiutò a sedere e mi strinse le mani.

“Arthur, ho avuto paura… quando il bastimento è arrivato senza la tua lettera mi sono preoccupata, pensavo di averti offeso in qualche modo, e poi ho saputo dell’incidente…” appoggiò il suo viso al mio petto e mi abbracciò.

“Non sapevo se fossi morto.”

“Non pensarci più, è tutto passato. Ora sono qui, e non ho intenzione di andarmene.” 

Cercai il suo viso con le mani. “Ho chiesto il congedo immediato. Non tornerò più in Sudafrica.”  dissi tutto d’un fiato.

“Arthur.. tu…”

Appoggiai la mia fronte contro le sue mani e feci un respiro profondo. 

“Mi sono reso conto di amarti nel momento stesso in cui ho visto la tua lettera appoggiata sulla mia scrivania a Città del Capo, ma sono stato stupido. Avrei dovuto prendere la prima nave e tornare indietro ma non l’ho fatto, ho aspettato quattro lunghi anni perché non volevo perdere ciò per cui avevo lavorato così duramente. Lo sai, io volevo quella vita, e avevi ragione, non avrei mai potuto amarti come sarebbe stato giusto, perché il mio cuore era perso nel deserto, le mie orecchie volevano ascoltare lingue nuove e camminare su una terra straniera. Ma quando mi sono risvegliato in ospedale, dopo l’incidente… L’idea di non poterti più vedere mi ha distrutto. Per questo ho lasciato tutto per venire da te. Oh Elizabeth, puoi perdonarmi?”

Lei, che era rimasta immobile per tutto il mio discorso, si lanciò sulle mie labbra, baciandomi come se ne dipendesse la sua vita. Era il nostro primo bacio ed era stata lei ad accorciare la distanza tra di noi. Elizabeth Hutterfield era immensa, la ragazza timida e composta che avevo abbandonato aveva lasciato il posto a quella donna forte e determinata. Fu lei a staccarsi per prima e a stringermi ancora una volta tra le sue braccia. 

“Non devi scusarti, l’importante è che tu sia qui ora.”

Rimanemmo immobili, ascoltando la natura intorno a noi vivere beata e inconsapevole.

“Elizabeth ascoltami, ti prego. Io ti amo ma devo essere onesto con te, prima che ti possa compromettere. Non sono nobile, non vengo da una famiglia rispettabile, ci sono altri uomini che potrebbero offrirti sicurezza e rispettabilità, più di quanto probabilmente io potrò mai fare. In questi lunghi anni ho messo da parte una piccola fortuna, ho comprato una casa nel Berkshire, ma tutto questo non basterà per assicurarmi una vita tranquilla. Il Royal Military College di Sandhurst ha accettato la mia candidatura come nuovo istruttore e tra qualche mese inizierò i miei compiti. Il mio futuro sarà lì ma io non voglio costringerti in una vita al di sotto del tuo rango. Non hai mai nascosto di provare dei sentimenti per me nelle tue lettere ma… Elizabeth… basta sola tua parola e io sparirò dalla tua vita.” La pena che mi feci nel pronunciare quelle parole è difficile da descrivere. L’amore non è abbastanza? Un uomo non può semplicemente sposare la donna che ama, senza pensare alla classe sociale e alla reputazione? Ma Elizabeth non ebbe dubbi, neanche un’esitazione.

“Io ti amo Arthur Branx. Se mi darai il tuo amore io ti seguirò. “

Quelle parole si stamparono nella mia coscienza, e ripeterle ora mi procura la stessa gioia che provai sentendole la prima volta.

“Stasera verrò a casa tua, parlerò con tuo padre.” mormorai, incredulo dalla felicità.

Un rumore richiamò la nostra attenzione, una voce lontana chiamava.

Elizabeth mi baciò un'ultima volta, con più trasporto di prima. 

“Vieni con la divisa, lo convincerai.” mi disse, mentre quel caro e amato sorriso si faceva strada sul suo viso.

Poi corse lontano da me, verso la voce. 

 

Sarei uscito da quella casa con l’annuncio del fidanzamento con Elizabeth, non ci sarebbe stato niente che mi avrebbe fermato. La gamba mi faceva male, la ferità riportata dopo l'esplosione di quel carico di dinamite era un fardello che avrei dovuto sopportare per il resto della mia vita. Nonostante questo ero in piedi, senza bastone, con la mia divisa in perfetto ordine, con le tre medaglie al valore appuntate al petto. Ero un fottuto eroe di guerra, mi avrebbero ascoltato. 

Eravamo in tre in quella stanza. Vi ho già parlato di Richard, lui non mi preoccupava, in fondo mi conosceva e gli ero stato leale in più di un’occasione. Il vero osso duro sarebbe stato Howard Hutterfield, un uomo meschino, notoriamente avaro, ripieno di grandi privilegi non meritati, esattamente la categoria di uomo che più odiavo. E il modo in cui aveva trattato Elizabeth, come un semplice pacco da consegnare al miglior offerente, una pedina da posizionare nella giusta casa...

Feci la mia offerta, avevo portato i miei conti, le mie referenze, la lettera di accettazione al Royal Military College. Io parlavo e lui mi guardava con i suoi occhi piccoli, densi di cattiveria e in parte velati dall’alcool, un tratto che lo accumunava al figlio. Non era convinto, e non lo era per il solo fatto che non ero un nobile. Lui, che infondo non era che un cadetto senza titolo, veniva a dire a me che non poteva dare sua figlia ad un uomo di “basso rango”. Come se lui incarnasse la migliore versione dell’umanità.

Lo ammetto senza molte remore, in quel momento li avrei uccisi entrambi, lui e Richard, il quale non alzò nemmeno un dito per sostenere la mia causa, impaurito di andare contro suo padre. Decisi di giocare d’azzardo. Mi morsi la lingua per tre secondi prima di parlare, cercando le parole giuste.

“Comprendo la vostra reticenza Milord, capisco che dare in sposa vostra figlia ad un semplice capitano sia sotto certi aspetti un atto indegno del vostro rango. Ebbene, consapevole del danno che vi arreco, vi propongo un accordo, chiamiamolo un risarcimento. Chiedo solo la metà della dote di vostra figlia.” dissi con tono sicuro. Qualsiasi altro nobile sarebbe rimasto oltraggiato da un simile gesto, mi avrebbe buttato fuori di casa dicendo che ne avevo infangato l’onore, ma avevo fatto i miei conti. Sir Howard amava il denaro più della sua reputazione e dei suoi figli, quella che io gli stavo dando era un’occasione che non gli sarebbe più capitata. La sua avarizia fu la mia salvezza. Sorrise e mi strinse le mani, convinto di aver fatto l'affare del secolo. 

Uscì da quella casa con il fidanzamento ufficializzato e la ferrea volontà di portare via al più presto Elizabeth da quella casa. 

 

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Capitolo 7
*** Parte 7 ***


Elizabeth diventò mia moglie il 3 gennaio 1883, mentre la neve cadeva sui campi che un tempo erano stati verdi. Non ricordavo quanto l’inverno potesse essere intenso in Inghilterra. 

La giornata non iniziò nel migliore dei modi, mi ritrovai a rendere il più presentabile possibile Richard, il mio testimone, già parzialmente brillo alle 10 del mattino. Celebrammo la funzione nella chiesetta del paese vicino, e subito ci spostammo alla Magione Hutterfield, il luogo dove mia moglie era nata e cresciuta. Io non avevo parenti in vita e solo tre commilitoni in congedo, i quali avevano servito con me sotto Richard, vennero alla funzione, ma non si trattennero oltre. Avevo molti amici nell’esercito ma erano sparsi per il mondo e non me la sentii di chiedere loro un rientro, ci sarebbero state altre occasioni in cui avrei potuto far conoscere mia moglie. Per questa serie di motivi la mia attenzione si concentrò quasi esclusivamente sulla famiglia Hutterfield, presente al completo. Elizabeth aveva perso sua madre e un fratello, George, a distanza di pochi mesi l’uno dall’altra. La morte improvvisa del bambino aveva causato la dipartita prematura della donna. Beth si era perciò ritrovata sola in una casa di uomini: il padre Howard, Richard, di cui ho ampiamente parlato, e un fratello minore, Henry, per cui Beth aveva sempre delle care parole. Era alto, più del normale, secco come un chiodo e portava un paio di occhiali dalla montatura tonda e nera appoggiati sul naso, come un vecchio signore. Doveva essere un tipo intelligente, si stava diplomando ad Eton con ottimi voti, ma l’impressione che ebbi di lui fu quella di un attaccapanni immerso nei libri e inesperto alla vita. Sarebbe diventato l’ennesimo burocrate senza spina dorsale, ma almeno non era arrogante come Richard, e questo bastava a farmelo andare un po’ più a genio. Poi c’erano loro, conti Hutterfield, i veri signori delle terre su cui stavamo camminando.

Il mio nuovo genero era stato un cadetto fortunato, il padre gli aveva ceduto una piccola porzione di terra su cui era stata costruita la Magione Hutterfield. Il fratello maggiore, Henry, omonimo del nipote, aveva ereditato il titolo e i possedimenti. Lord Hutterfield, lui sì che era un vero nobile. Nonostante fisicamente assomigliasse ad Howard, la sua sola camminata, seppur ingobbita e sostenuta da un bastone, emanava rispetto. I suoi capelli, un tempo neri, erano ormai striati di grigio ma i suoi occhi erano attenti, osservavano ogni piccola cosa ed erano specchio di una mente lucida e fredda. Non c’erano i segni dell’erosione dell’alcool su di lui, era un uomo guidato dalla testa e non dalle passioni del proprio corpo. Inoltre era un eroe di guerra, aveva servito valorosamente ed era cosa nota. Fui onorato di stringergli la mano e lui si comportò con la fredda cortesia che il suo rango richiede. Provai un grande rispetto per lui e per sua moglie Clara. Lei era stata l’unico sostegno di Beth dalla morte della madre, ed era probabilmente l’unica ad essere realmente felice per il nostro matrimonio. Aveva delle ascendenze scandinave, così mi fu riferito. Notai immediatamente la sua bellezza e le sue parole dolci per Beth mi scaldarono il cuore. I Conti Hutterfield avevano un solo figlio, Daniel, l’unico erede di tutte le terre. Doveva avere sui 15 anni quel giorno, ora così lontano. I suoi occhi grigi erano gentili come quelli di sua madre ma al contempo stranamente invadenti. Vestiva con l’uniforme della Royal Military Academy Woolwich e questo mi procurò un colpo al cuore che faticai a nascondere. Quel ragazzo sarebbe stato un tenente appena finita la scuola, nel giro di poco sarebbe stato fatto capitano, mentre io avevo dovuto faticare quel grado missione dopo missione, pericolo dopo pericolo. Non fu scortese con me, fui io a evitarlo il più possibile per tutto il giorno. Come erano lontani i giorni in cui mi nascondevo vicino alle cucine per non avere a che fare con dame e aristocratici, e ne avevo appena sposata una. Per tutto il giorno, la mia pelle bruciata dal sole e dalla salsedine spiccò tra quei visi e quelle mani color alabastro, come una macchia di fango in un lenzuolo bianco. Mi sforzavo di sorridere, ed ero felice, enormemente felice di avere Elizabeth al mio fianco, ma la sensazione che quegli occhi… mi stessero giudicando. Io, un uomo abituato alle raffiche del vento e dalla sabbia del deserto, io, che avevo servito la Regina e che per questo ero costretto a camminare incerto, sostenuto da un bastone, ebbene io, mi sentivo un indegno, insufficiente per il giudizio di quelle persone. Solo la mano ferma di Elizabeth che non si staccò mai dal mio braccio mi diede la forza di resistere fino al tramontare del sole. Quando quella stessa sera partimmo per il nostro viaggio di nozze, diretti verso la nostra nuova casa, una profonda scossa di sollievo mi pervase. Iniziammo a correvamo lontano, sulla carrozza trainata dai cavalli, verso la libertà e la nostra nuova vita insieme. 

 

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Capitolo 8
*** Parte 8 - Henry Hutterfield ***


Ci sono due suoni che sono rimasti impressi nella mia memoria, legati indissolubilmente alla mia infanzia. 

Il primo è il borbottio basso e continuo della voce di mio padre. Ho una chiara immagine di lui seduto al tavolo da pranzo, con la colazione davanti e la posta del giorno in mano, mentre borbotta senza sosta frasi al mio udito incomprensibili. Non ricordo un solo giorno trascorso a casa in cui non abbia visto mio padre piegato su sé stesso, intento a consumarsi di gelosia. Fino a quel giorno, il 5 giugno 1885. La milza di mio padre aveva ceduto alle 17.15, e per la prima volta da quando era stata costruita, la Magione Hutterfield restò immersa nel silenzio. Quel funerale è l’ultimo ricordo della mia famiglia, l’ultima volta in cui ci ritrovammo tutti insieme. Elizabeth aveva insistito per venire, nonostante fosse al sesto mese, e nonostante papà non le avesse mai mostrato particolari riguardi. Richard piangeva, ricordo che lo trovai strano, ma non persi molto tempo a consolarlo. Avrebbe ereditato la casa e tutti gli averi, sapevo che le sue lacrime si sarebbero asciugate presto. Salutai Daniel con un cenno distratto della testa, non parlammo nemmeno. A Zio Henry e Zia Clara diedi maggior riguardo. Se sono dove sono ora, se ho potuto studiare è stato merito loro. Lord Henry mi salutò freddamente, come era suo solito, Lady Clara mi abbracciò e mi tenne stretto per molto tempo. Forse sperava di veder correre sul mio volto delle lacrime. Non fu così. Dopo la cerimonia andai diretto in stazione, deciso a rientrare a Cambridge. Beth tentò di fermarmi, mi disse di rimanere ancora un po’ ma io rifiutai. Dissi che avevo degli esami da preparare, le chiesi di farmi sapere della gravidanza. Le promisi che sarei andato a trovarla durante l'estate. Mentii, e lei finse di credermi. Saltai sul treno e scappai via. Qualcuno potrebbe accusarmi di essere stato freddo e insensibile, ed effettivamente fu così, ma non lo feci per ripicca verso mio padre. Non lo amavo, ma non abbastanza da mancargli di rispetto. Erano quelle persone, era la circostanza. I funerali sembrano far uscire il peggio di me. Forse è perché i suoni della mia infanzia sono entrambi cessati con un funerale.

Il primo era il borbottio di mio padre. 

Il secondo era la risata di George. 

 

Zia Clara mi parlava spesso dei suoi genitori. Suo padre era un commerciante tedesco, sua madre invece la figlia di un nobile danese ormai decaduto. Si erano sposati in Francia, avevano girato l’Europa e quando i soldi non erano più stati un problema, Karl Tauern aveva deciso di trasferirsi in Inghilterra. Comprò diversi ettari di terreno, vi si stabilì con la moglie e l’unica figlia e terminò in serenità i suoi giorni. Zia Clara parlava correttamente sia il tedesco che il danese, si manteneva sempre in allenamento con amici di penna, e fu lei ad accorgersi della mia predisposizione per le lingue straniere. Facevamo lezione ogni giorno, soprattutto lunghe conversazioni. Ogni mattina lei percorreva il vialetto che collegava la Villa Hutterfiled, la residenza dove lei viveva con la sua famiglia, alla Magione, la mia casa.

Ricordo quei giorni con gioia. La casa traboccava di vita, e a quel tempo Daniel passava tutti i pomeriggi con noi, in giardino. Quando penso ai quei giorni ricordo sempre delle lunghe giornate di primavera, ricordo la risata di George in grado di squarciare blu del cielo privo di nuvole, ricordo il sole caldo sulla pelle. Ma anche i ricordi più dolci prima o poi si spengono, consumati dalla vita vera. Persi il mio paradiso quando la morte portò via mia madre e mio fratello, ma zia Clara volle continuare le lezioni. Forse non se ne rese conto, ma mi salvò la vita. Convinse Zio Henry a prendere le mie difese con mio padre, perché credeva che io dovessi studiare in una scuola importante. Mi fece entrare ad Eton, e Lord Hutterfield pagò tutta la mia retta, fino al diploma.  

 

Ero nel piccolo appartamento che avevo appena comprato con la paga del consolato, quando mi arrivò la notizia della morte di Lady Clara, era il 5 ottobre 1888. Fui meschino, ancora me ne pento, ma la forza di prendere il treno per tornare a casa mi mancò. Mandai un telegramma, dissi che non potevo venire, che ero già in viaggio per lavoro. Era una bugia ma andare a quel funerale avrebbe significato seppellire ancora una volta i ricordi del mio passato ed io sentii che il mio cuore non sarebbe stato in grado di sopportarlo. Partiì poco dopo per la Danimarca al seguito di Lord Hypnos. La mia vita fu frenetica in quel periodo, ogni scusa era buona per non pensare alla mia famiglia e decisi di buttarmi nel lavoro come un affamato divora il cibo che gli viene messo davanti.

Lord Hypnos apprezzò il mio operato e decise di tenermi con lui fino all’ultimo ricevimento danese. Rientrai in patria dopo più di un anno. Lo strato di polvere che ricopriva il mio appartamento era impressionante. Stavo sistemando le mie poche cose quando la mia attenzione fu richiamata da una lettera, vergata con l'inchiostro blu. Nel vederla mi sentii mancare. Avrei riconosciuto quella precisa tonalità di blu anche dopo 100 anni. Quello era l'inchiostro che Lady Clara usava per scrivere le sue lettere, ma come era possibile? Che fosse sua, arrivata dopo la mia partenza? O forse Lord Hutterfield aveva voluto sapere perché non fossi stato presente al funerale? La aprì e le cose si fecero più strane. Non era di mia zia o di Sir Henry. Era un invito, per il giorno seguente, al Diogenes Club di Londra.

 

Quella conversazione mi turbò profondamente, all’epoca non conoscevo tutti gli elementi che ora sono in mio possesso. Ora riesco a leggere tra le righe e vedo tutto più chiaramente, ma per molto tempo quell’incontro mi procurò non pochi pensieri.

Non sapevo nulla sull’uomo che mi stava davanti ma una cosa era certa: Mycroft Holmes era potente e pericoloso.

“Si accomodi Sir Hutterfiled.”

“Non sono un Sir,  Mr. Hutterfield andrà benissimo.”

“La sua famiglia è nobile.”

“Sono il figlio cadetto di un figlio cadetto. Non possiedo nessun titolo.”

Incrociò le braccia sul petto e mi guardò dritto negli occhi.

“La cosa la infastidisce?”

“Ovviamente no.”

“Lei è legato alla sua famiglia?”

“Non ho rapporti particolarmente stretti con loro.” risposi, sorpreso da quelle domande.

Holmes aprì un fascicolo. 

“Lei parla il danese meglio di un madrelingua, o almeno è quello che si dice di lei. Diplomato ad Eton a pieni voti… una borsa di studio per Cambridge. La sua famiglia non avrebbe pagato i suoi studi?”

“Siamo molti fratelli. La dote di mia sorella maggiore aveva la priorità.”

“Capisco… Una laurea in scienze politiche con tesi sulla questione del Nord. Un anno a Copenaghen con Lord Hypnos. Lei ha una promettente carriera come console, da qui a qualche anno potrebbe diventare ambasciatore.”

“Cosa vuole da me Signor Holmes?” dissi con un fremito nella voce. Il trucco era molto semplice, quell’uomo mi stava facendo capire che sapeva molte cose su di me, e raramente ciò è un buon segno.

“Lei ha rapporti con la sua famiglia?”

“Le ho già detto di no.” 

“Mi risulta che nel giugno 1888 lei abbia mandato dei soldi a sua sorella Elizabeth.”

Aggrottai la fronte. 

“Non credo sia un reato.”

“Certo che no ma vede, non le ha semplicemente mandato dei soldi. Le ha mandato tutto il ricavato dal suo impiego da traduttore per la biblioteca dell’università. Un uomo che non ha rapporti con la sua famiglia non si impegna una simile azione.”

“Ho mandato un aiuto economico a mia sorella, un sostegno per la nascita della sua secondogenita, ma non vedo come...”

“Sua sorella ha bisogno di soldi?”

"I soldi non sono mai di troppo. Per favore, può dirmi che cosa vuole da me?”

“Ucciderebbe per la sua famiglia?”

“No.”

“Nemmeno per Elizabeth?”

“Ho detto di no.”

“Nemmeno se potesse assicurarle una vita tranquilla, nemmeno se suo marito non fosse più costretto a lavorare?”

Scattai in piedi. 

“Non sono costretto ad ascoltarla.”

“Non vorrebbe un giorno diventare Lord?” 

Risi e raccolsi il mio ombrello dalla poltrona vicina.

“Lei è sulla strada sbagliata, mio padre aveva quel desiderio. Io sono un altro tipo d’uomo.” 

“Che tipo di uomo, Mr. Hutterfield?”

“Un uomo che non aspetta che i privilegi piovano dall’alto, specie quando sono destinati ad altri.” dissi con forza.

Mycroft Holmes rimase una statua di cera, nemmeno una ruga si dipinse sul suo volto. 

“Lei è un uomo interessante, Henry. Mi perdoni, non avevo intenzione di mancarle di rispetto. Il mio unico scopo era quello di vedere che tipo di uomo è lei, perchè le sto per chiedere un favore. Voglio che lei tenga le orecchie e gli occhi ben aperti, farebbe questo per me? Se lei è un uomo intelligente come credo, la prossima volta che ci incontreremo sarà perché lei ha volontariamente deciso di attraversare quella porta. Non la disturberò oltre.” disse chiudendosi nel silenzio. Uscì dallo studio con il cuore in gola, e una volta richiusa la porta camminai veloce fino all'uscita e poi in strada, senza fermarmi. Non avevo idea di cosa fosse appena successo. 

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Capitolo 9
*** Parte 9 ***


Passarono gli anni e io mi sforzai di dimenticare la strana conversazione che avevo avuto con il signor Holmes. La mia carriera procedeva spedita, tanto da poter avere un piccolo ufficio. Mettevo in ordine le carte che si erano accumulate durante il mio ultimo soggiorno a Copenaghen, tutte questioni di poco conto le quali avevano atteso placidamente sulla mia scrivania, quando una mano burbera spalancò la porta. Richard entrò prima che io potessi dire qualcosa, richiuse la porta con la stessa gentilezza che aveva già usato, e con un gran sorriso si sedette proprio davanti a me.

“Cosa ci fai qui?” dissi, celando a fatica il mio fastidio.  

“Sono venuto a trovarti fratello mio, ero a Londra per affari e pensavo che volessi venire con me, a casa, per una piccola vacanza.." disse con tono allegro accendendosi un sigaro. 

“Sono contento di vedere che stai bene ma devo lavorare, ho molti arretrati.”

Rise, ritirò l’accendino e prese dall’interno della giacca una fiaschetta da cui tirò un sorso generoso.

“Sempre il solito mulo, vero Henry? Ma non temere, tuo fratello sistemerà tutto. Ho intenzione di rimediare, di darti tutto quello che in tutti questi anni non hai avuto. Dobbiamo solo avere ancora un briciolo di pazienza.”

Alzai gli occhi dai miei fogli e lanciai una rapida occhiata. Le sue pupille erano dilatate oltre ogni misura, la sua pelle aveva un pallore cadaverico che non gli avevo mai visto.

“Richard, sei passato alla cocaina?” dissi con tono grave. 

Tirò una lunga boccata al sigaro che teneva in mano.

“Bourbon o Whisky, cubani o cocaina… per me è tutto uguale!” disse con enfasi. “Ma non capisci? Bisogna festeggiare! Ci siamo, dopo tutta la fatica che abbiamo fatto io e papà..” 

Improvvisamente si mise a fissare un punto sul pavimento, con lo sguardo perso, come se fosse stato trascinato in un mare in tempesta.

“Quanta fatica abbiamo fatto io e papà…. quanto abbiamo sacrificato per farcela… Henry…. è proprio un bel nome…. Henry, io ti voglio bene, lo sai?” mormorò, portandosi automaticamente alla bocca la fiaschetta.

Sospirai, misi giù i fogli e mi preparai a portarlo fuori di lì. L’unica cosa che volevo in quel momento era impedirgli di vomitare sulla mia scrivania. Mi alzai e gli arrivai di fianco ma con mia sorpresa, Richard si spaventò. Scattò in piedi, ma le gambe malferme non riuscirono a sostenerlo. Cadde a terra incapace di sollevarsi da solo e la fiaschetta si rovesciò completamente sul mio pavimento spandendo Whisky ovunque.

 “No… hai ragione, c’è tempo ancora tempo…. giochiamo ancora un po’ insieme…” disse mio fratello, immerso nella nebbia dell'alcool e della droga. Aveva ereditato tutto il peggio di nostro padre, forse per questo la sua compagnia mi provocava più fastidio che altro. Lo osservai strisciare nel whisky e non potei fare a meno di chiedermi come avesse fatto a ridursi in questo stato. Il giogo dell’alcool aveva sottomesso anche nostro padre, forse entrambi si erano ammalati di questa malattia durante gli anni da militari, in quel caso io avevo forse la speranza di non soccombere a quell’insidia. Ma il fumo, l’oppio ed ora la cocaina.. erano tutte cose che mio fratello aveva scoperto da solo e che ora sembravano governarlo, proprio lui, il conte mancato. Ad ogni nostro incontro mi ripromettevo di diventare un uomo migliore di lui.

“I biscotti.. non farà male… Non è sicuro.. o forse sì…”

“Su, adesso ti chiamo una carrozza.” dissi, sollevandolo di peso. Frugai nelle sue tasche e trovai un biglietto di ritorno per il treno delle 18.00. Fui sollevato, metterlo su un treno era la scelta migliore, non avevo nessuna intenzione di portarlo a casa mia. Stavo per toccare la maniglia della porta quando Richard si buttò nuovamente a terra, nascondendosi la faccia con le mani.

“Dovevamo stare più attenti…"  Scoppiò a piangere.  “I biscotti… ”  iniziò a ripetere, sbattendo i pugni a terra. 

“Devi calmarti.” mi intomisi, fermando le sue mani. 

Lui alzò gli occhi su di me, il suo sguardo era velato dalla droga.

“Allora perché George è morto?” sussurrò con un filo di voce.

Stava delirando, ma rimasi scosso, forse sbiancai.

“Cosa c’entra George?”

“Erano nella camera giusta… allora perché George è morto?” ripeté Richard mentre le lacrime gli scendevano silenziose sul volto.

Il mio cuore mi disse di ignorarlo, che tutto era solo il delirio di un uomo fuori di sé a cui era tornato in mente il fratello morto, ma il mio istinto non volle sentire ragioni. Sono un uomo abituato ad usare le parole, ma il mio più grande dono, quello che mi ha fatto ottenere i successi lavorativi che oggi posso vantare, è quello di intuire ciò che non viene detto. Sapevo che quelle parole nascondevano qualcosa.

"Richard, guardami. Qualcuno ha fatto del male a George?"

Lui continuò a guardarmi e non rispose.

“Richard.” insistetti io, scuotendolo leggermente. "Parlami dei biscotti." 

"A George piacevano i biscotti allo zenzero… come facevo a saperlo?" 

Un brivido mi passò lungo la schiena.

"La scatola era nella stanza giusta…” mormorò di nuovo lui.

Fu in quel momento che ricordai. Lasciai la presa delle sue spalle con le mani tremanti e non dissi altro. 

Gli attimi seguenti sono ricordi offuscati della mia memoria. Uscì dall’ufficio, chiamai il portiere e gli affidai il compito di rimettere Richard in condizioni accettabilii e di assicurarsi che prendesse il treno di ritorno per casa. Io invece mi lanciai in strada e saltai sulla prima carrozza. 

Il cocchiere mi chiese la destinazione.

Io risposi di portarmi al Diogenes club di Londra.

 

Entrai in quell'inquietante studio e fu come non esserne mai uscito. Mycroft Holmes era seduto alla scrivania e mi osservava nello stesso modo in cui mi aveva osservato tre anni prima, durante il mio interrogatorio. 

“Richard è venuto da me...” 

“Mi dica quello che sa Mr. Hutterfield.”

“I biscotti allo zenzero.” dissi di getto.

“Continui.” 

Esitai.

“Io ricordo una scatola di biscotti allo zenzero. Ne ho preso in mano uno, stavo per mangiarlo.... Poi mi sono ricordato della quaresima, e l’ho rimesso al suo posto.”

“Vada avanti.”

“Erano i preferiti di George…” Mi portai una mano alla testa, un cerchio mi stringeva le tempie in una morsa.

“Henry, vada avanti.”

“La scatola dei biscotti allo zenzero era nella camera di Daniel.” dissi infine, stremato.

Holmes annuì lentamente.

“La prego, mi racconti tutto quello che ricorda.”

Mi abbandonai sulla poltrona.

“Era domenica, avevamo pranzato alla Villa, faceva freddo. Io mi misi a leggere nello studiolo al primo piano, mi vennero a chiamare per il tè. Andai a cercare Daniel e George, la cameriera mi disse che stavano giocando ai soldatini. Entrai nella camera di Daniel ma loro dovevano essere già scesi. Ho visto la scatola aperta, sul tavolo, ricordo che il profumo dello zenzero era molto forte…. Era un dettaglio inutile, l’avevo dimenticato, non ho mai pensato che potesse essere importante...” mi portai una mano alla bocca. “George è morto due giorni dopo.”

Il silenzio cadde.

“Chi?” chiesi con forza. “Me lo dica.” 

Holmes non si mosse, forse indeciso sul da farsi. Le sue mani erano giunte davanti alle sue labbra, i suoi occhi erano fissi su di me. 

“Suo padre ha cercato di uccidere Daniel con quei biscotti avvelenati, con la complicità di Richard. Il loro scopo era quello di eliminare l’unico ostacolo al titolo e alle terre. George è morto per sbaglio.” dissi l’uomo mantenendo il suo tono freddo e distaccato.  

“Per sbaglio…” ripetei, distante. Non riuscivo a non pensare a quel biscotto che era stato nella mia mano, quell’oggetto aveva ucciso il mio fratellino.

“Suo padre è stato molto astuto, ha ingannato anche me. Una semplice scatola con dei biscotti avvelenati, molto facile da far sparire soprattutto per chi ha libero accesso alla casa. L’odore e il sapore dello zenzero sono ottimi per nascondere il veleno. Avevo dei sospetti ma non ho mai potuto verificare le mie teorie, non avevo nessuna prova, fino ad oggi. Howard sapeva aspettare, e purtroppo questa è una dote che ha trasmesso a Richard.”

“Cosa significa?” chiesi allarmato.

Il signor Holmes, per la prima volta da quando lo incontrai, contrasse le sopracciglia d’istinto. “Pensavo che voi sapeste… vi porgo le mie più sentite scuse, sono stato uno sciocco. Temo che quello che vi sto per dire vi procurerà ulteriore dolore. Lord Henry Hutterfield è morto stamattina.”

“Me ne dispiaccio, era malato da tempo… “ sussurrai, ma Holmes scosse la testa.

“Sul comodino c’era una scatola di biscotti allo zenzero.”

Tutto in quel momento acquistò un senso. La visita di Richard, il suo stato pietoso, la sua euforia e la sua disperazione...

Mi presi la testa tra le mani, appoggiai i miei gomiti sulle ginocchia. 

“Sono figlio e fratello di assassini.” mormorai, prendendo finalmente coscienza della verità. 

“Henry, non credo di poter dire qualcosa che possa rendere tutta questa storia sostenibile, ma lei non è come loro e l’ha dimostrato venendo qui. Richard non si fermerà, ormai si è spinto troppo oltre.”

“Daniel è l’unico ostacolo tra lui e quello che vuole.” dissi lentamente.

“Esatto. Lui sarà qui a momenti, vi prego di restare. Tutto deve finire.”

“In che modo volete mettervi fine?” chiesi, scuotendomi dal mio torpore.

“Lord Hutterfield sarà qui fra poco.” continuò lui, ignorando la mia domanda.

“Come volete risolvere questo problema?” chiesi tirando fuori l’autorità della mia voce.

Mycroft Holmes si alzò e raggiunse il camino. Vi appoggiò la mano sinistra e tenne la destra in tasca.

“Questa storia non può finire in molti modi Henry, e lei lo sa.”

“Non la seguo.”

“Suo fratello è un pluriomicida. Andrebbe consegnato alle autorità e dovrebbe pagare per i suoi crimini ma le prove sono circostanziali, verrebbe assolto da una qualsiasi giuria, e tutto finirebbe nel nulla, diventerebbe solo una chiacchierata storia in qualche salotto privato. Dall’altra parte non agire significherebbe condannare Sir Daniel ad una vita di continui e subdoli attentati alla sua vita, uno dei quali potrebbe prima o poi andare a segno e questa è una cosa che non permetterò.” disse deciso, serrando il pugno della mano sinistra con forza.

“Lei mi sta dicendo che l’unica alternativa è uccidere Richard….” esclamai sconcertato

Holmes distese la mano e riacquistò la sua calma.

“Come le ho già detto, questa storia deve finire.” 

“Vuole il mio aiuto per uccidere mio fratello!?” urlai invece io 

“Il suo aiuto non è necessario.” rispose con freddezza l’uomo. 

“Ma lei me lo sta dicendo, mi vuole suo complice. Cosa le fa pensare che io non corra ad avvisarlo del pericolo? Per Dio Signor Holmes, è mio fratello!”

“Se lei ci tradisse metterebbe in pericolo Daniel e anche lui è sangue del suo sangue.” disse l’uomo guardandomi negli occhi. Era tornato alla sua scrivania, seduto in modo composto. Dispensava morte come uno scacchista, senza sporcare il suo vestito. 

“Perchè vi interessa tanto la sua incolumità?" chiesi quasi ridendo, sull’orlo di una crisi di nervi.

“Lady Clara mi ha dato un compito, garantire la sua sicurezza e io ho intenzione di mantenere quella promessa. Nemmeno la riconoscenza verso di lei vi spinge a sostenere questa causa?” 

ll nome tanto amato mi cullò per qualche istante. Proteggere suo figlio e in questo modo uccidere mio fratello?

“Provo profondo disprezzo per quello che  Richard ha fatto, ma da qui a congiurare per la sua morte…” mormorai perso, guardandomi intorno in cerca di una soluzione. Fino a quella mattina avere un fratello era sembrata una formalità completamente irrilevante nella mia vita quotidiana, avevo vissuto senza la sua presenza per anni, ma ucciderlo… non riuscì a non sentire l’ombra del rimorso farsi spazio in me. 

"Forse Richard merita la morte, ma che ne è della mia anima, della mia coscienza? La mia coscienza non merita forse salvezza!? Comprendo le ragioni della vostra causa signore, ma io non posso aiutarvi. Perdonatemi.” dissi, e sconvolto corsi fuori dalla stanza. Mycroft Holmes non tentò di fermarmi.

 

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Capitolo 10
*** Parte 10 - Daniel Hutterfield - 1892 ***


Stoccate senza fine riempivano i miei occhi, ricordi di tempi lontani, in cui la mia spada si scontrava per gioco con quella di Richard. Giocavamo a fare la guerra e lui puntualmente vinceva. Avrebbe potuto uccidermi in ognuna di quelle occasioni, se solo la sua lama fosse stata affilata. Perché ha sempre fermato la sua mano? Perché non mi ha ucciso subito invece di costruire cattedrali di dolore nel petto di tutti noi? Ho visto gli occhi di Henry, fuori dallo studio del Diogenes. I nostri sguardi si sono incrociati in un modo che non succedeva da anni, ed è stato come guardarsi allo specchio: il suo dolore era il mio.  “Non so che cosa tu abbia a che fare con Mycroft Holmes, ma è un uomo pericoloso. Devi stare attento. Non fare cose di cui potresti pentirti.” mi disse lui. Poi, come se guardarmi gli provocasse un dolore ancora più profondo di quello che già albergava nel suo cuore, abbassò gli occhi e corse lontano senza guardarsi indietro. 

Sospirai, lasciando vagare il mio sguardo sul vialetto che si snodava tra gli alberi, inondato dalle erbacce, lo stesso che un tempo ero solito percorrere con mia madre. Tempi lontani e felici nei miei ricordi, eppure già allora saturi di macchinazioni e avidità. Non fare cose di cui potresti pentirti. Ma dopo tutto il male compiuto da Richard, ci sarebbe spazio per piangere la sua morte? Davvero il rimorso avrebbe potuto venire a tormentarmi ogni sera?

Quanto male..

Pensai a mio padre. Il nostro ultimo incontro aveva segnato la fine del suo amore per me, ma non il mio per lui. Non gli scrissi, temevo che le mie azioni potessero alimentare il suo dolore. Rimasi in attesa, in silenzio, aspettai una sua lettera. Speravo che mi chiedesse di tornare, o almeno che volesse vedermi dopo i primi mesi di lontananza, ma non arrivò nulla, non una parola di conforto. La morte l’ha portato via senza infrangere il suo voto di silenzio. Nonostante tutto, sul bordo di quel bastimento che attraversava la manica per riportarmi a casa, le mie lacrime scesero, incuranti degli sguardi dei passanti, incuranti del contegno che avrei dovuto mostrare con indosso la divisa da ufficiale. Piansi le mie lacrime e le regalai al mare, Sir Henry non le avrebbe accettate. 

 

Udii dei passi leggeri dietro di me e mi voltai di scatto, dando le spalle alla finestra.

Sorrisi senza accorgermene.

“Ma tu non dovresti essere morto?” dissi all’uomo con la pipa in bocca. 

Il berretto da caccia volò su una poltrona poco distante.

“Molto divertente... Davvero spiritoso. Quelle cascate non erano poi così alte.. Così ho pensato di prendermi una vacanza.” rispose Sherlock iniziando a passeggiare per la sala.

“Le tue vacanze consistono nel pedinarmi?” dissi alzando un sopracciglio.

Holmes sbuffò.

“Credevi veramente che Mycroft ti avrebbe fatto tornare qui da solo?”

“No, certo, ha preferito mandare te a farmi da cane da guardia.” risposi con nota di rancore nella voce.

“Lui non può rischiare di essere collegato a te apertamente, e non credo che in una situazione, diciamo così “movimentata”, mio fratello possa rivelarsi di una qualche utilità. Per questo ha mandato me.”

"Io invece credo che non abbia voglia di alzare il culo da quella maledetta sedia.” 

Mi maledissi da solo, i miei nervi cominciavano a cedere. Sherlock mi osservò, scandagliando la mia anima con i suoi occhi. Fece per dire qualcosa ma si fermò. Spostò il berretto dalla seduta della poltrona e si accomodò.

“Non essere così duro con Mycroft, questo è il suo modo di dimostrare affetto. Ha mandato me perché lui tiene molto a te. Non vuole che tu non faccia il martire.”

“Voglio solo parlare con mio cugino.”

Sherlock rise.

“Pensi davvero che lui voglia parlare con te? Puoi mentire a te stesso se preferisci, ma sai che questa sera le cose potrebbero andare molto male.”

“Avvelenarlo in silenzio non era un’alternativa.”

“Nel tuo caso, morire non è un’alternativa. Sarebbe uno spreco enorme. Ti rendi conto di quanto bene potresti fare alle persone, a questa nazione? Sei un Holmes, merce preziosa.”

“Voglio parlare con Richard e ho intenzione di dargli esattamente quello che vuole: gli lascerò il titolo e ogni cosa. Non scorrerà altro sangue per queste terre.”

"Lasceresti davvero libero l’uomo che ha ucciso tuo padre? Siederesti vicino a lui a tavola, lo chiameresti signore? Sei un buono Daniel, ma nemmeno tu avresti la forza di fare tanto, e se anche riuscissi a superare il disgusto per le azioni di Richard… forse sarà lui a non voler ascoltare." 

Mi lanciò un sacco scuro che cadde a pochi passi da me. L’elsa di una spada fece capolino tra le pieghe di velluto.

“Te ne ho portata un’altra, nel caso te la fossi dimenticata.”

“Sherlock, perchè sei qui?” 

Lui sorrise, in quel modo così tremendamente simile a suo fratello.

“Ma non riesci a capire? Sono qui per non lasciarti da solo.” 

Io scossi la testa.

“Io devo fare questa cosa da solo.”

“Lo so. Ma io sarò qui ad aspettarti.” 

 

Guardai il campo reso bruno dalle ombre della sera. Avevo la spada in mano e il mio avversario era a pochi metri da me. Che penosa fine fanno i ricordi. Quel giardino era sempre pieno di luce e di suoni, ma in quel momento la luce non c’era più e il silenzio regnava indisturbato.

Richard era in piedi puntellandosi con la spada. Quella vecchia camicia bianca che indossava aveva visto tempi migliori e anche il suo viso, un tempo incline al riso, ora aspettava provato gli eventi. 

“Richard parlami ti prego.”

“C’è qualcosa da dire?” rispose lui.

“Ti darò quello che vuoi, lasciamo da parte le spade. Parliamo, io e te.”

“Hanno ancora senso le parole? Non vedi che sono l’ombra di me stesso!? Riesci a vedere quello che hai davanti agli occhi? Sono stanco.. Sono solo… Sono cieco..” Si guardò intorno, come se cercasse qualcosa nel buio dell’oscurità. “Dio..come odio la notte… non riesco mai a dormire di notte, forse da anni… Non sai che pena è essere me.” continuò in un lamento soffiato. Poi sembrò tornare a guardare me, con i suoi occhi lucidi in quella notte scura. Tirò un lungo sospiro. “Se solo le cose…. fossero state diverse..." disse infine, muovendo i passi verso di me.

“Richard.. “ implorò la mia voce prima che l’acciaio delle nostre spade iniziasse a scontrarsi.

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Capitolo 11
*** Epilogo - Legami ***


Finisce così la storia? Con due uomini che non hanno più nulla da dirsi? 

Io e Richard giocammo a fare la guerra. Quel giorno vinsi io. Mi attaccò con una tale furia che mi fu impossibile non difendermi. Ricordo il buio, le nostre spade si muovevano senza direzioni precise, il suono delle lame che fendevano l'aria era il solo punto di riferimento a nostra disposizione. Inciampammo più volte nelle insidie del terreno, poi cademmo a terra e le nostre spade si persero.  Iniziammo a rotolare, i nostri pugni si muovevano alla cieca, ci picchiammo come nella più meschina rissa da bar. La mia unica guida era la volontà di rimanere vivo…. Ad un certo punto fui sopra a lui, misi le mani intorno al suo collo e strinsi con tutta la forza che mi rimaneva. Lo uccisi in questo modo, avvolto dalle tenebre della notte di campagna. Sentii la sua vita andarsene sotto le mie mani. Non era la prima volta e in seguito successe altre volte, ma l'aria che usciva con forza dai suoi polmoni… quel suono continua ad accompagnarmi ogni sera, prima di dormire. Caddi pesantemente sul suo corpo come un sacco vuoto, annaspando, in cerca di tutta l’aria possibile. Non avrei mai voluto ucciderlo, ma quali alternative avevo? La sua furia era cieca, non ascoltava ragioni, non ammetteva debolezze. Voi non sapete quante notti ho sperato di essere morto al suo posto, invece ho preso sulle mie spalle la colpa che era stata sua. Con che coraggio avrei guardato il sole la mattina? Pensai ad Henry, ad Elizabeth.. con quale cuore avrei potuto guardarli ancora negli occhi?

 

Sherlock mi aiutò con la polizia locale e il caso fu archiviato come overdose, a causa della grande quantità di oppiacei presente nel corpo di Richard. I segni sul suo collo passarono inspiegabilmente inosservati, nonostante il rigor mortis li avesse resi ben visibili. Solo tempo dopo avrei capito che a garantire la mia libertà non fu la lingua tagliente di Sherlock, o l’incapacità dei poliziotti, bensì un ordine impartito da uno studio spoglio da un uomo estremamente potente e pericoloso. 

Ma forse questa storia sarà raccontata un’altra volta. 

In questo momento le mie parole e la mia mente ritornano alla mattina del funerale. Henry piangeva in silenzio. Rimase in mobile per tutta la funzione, con una mano serrata in un pugno davanti alla bocca, lo sguardo fisso e gli occhi rossi velati dalle lacrime. 

Elizabeth stringeva la mano di suo marito ma era composta, fiera come sempre. Al suo fianco sedevano le due figlie, vestite di nero. Nonostante fossero ancora bambine il contegno della madre era stato trasmesso ad entrambe. Eravamo rimasti solo noi, più che una famiglia, dei superstiti, forse senza più legami a trattenerci. 

“La magione ora è di Henry.” dissi uscito dalla cappella di famiglia dove una lastra di marmo era appena stata posta sulla mia colpa. Il mio cuore era pesante, sprofondato nelle viscere della terra insieme a quella bara.  

“Radila al suolo, riprenditi quella terra. Ti spetta.” rispose mio cugino senza esitazioni. Iniziò a camminare verso il cancello in fondo ai campi.

“Non hai niente da dirmi?” chiesi di getto, rincorrendolo. “Te ne vai così, un’altra volta? Almeno urla, insultami e poi vattene se proprio devi!”

Henry si fermò in mezzo al vialetto ciottolato, alto, magro, stretto nel suo vestito scuro. Si voltò, gli occhiali piccoli tondi e neri facevano risaltare il pallore cadaverico della sua pelle. Sembrava un fantasma illuminato dalla luce del giorno. Mi guardò dritto negli occhi. Pensai che avrebbe estratto una pistola e che mi avrebbe sparato in pieno petto, e l’avrei accettato con gioia. 

“Hai dovuto farlo..” mormorò. C’era sofferenza nella sua voce, ma anche decisione. Elizabeth gli si avvicinò e lo prese per mano.

“Non andartene via, non ancora. Forse noi ora dovremmo parlare un po’.” disse lei, trovando la forza in qualche angolo del cuore. 

“Cosa c’è da dire?” chiese lui guardando la sorella.

“Vieni con me.” rispose lei, stringendogli la mano e senza aggiungere altro iniziò a camminare verso la Villa. Mi superarono e  continuarono ad avanzare verso le antiche mura. Li osservai e poi percorsi la distanza che mi separava da loro. Mi chiesi se questa volta il fato sarebbe stato clemente con tutti noi.

 

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