E quel tempo si congedò da lei

di Glance
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


“ Respira … è tutto quello che devi fare. Respirare profondamente.”
Ripeterlo la fa sentire al sicuro, protetta dai ricordi.
Deve solo respirare e non cedere alle lacrime, perché se mai dovesse permettersi di piangere potrebbe andare in mille pezzi, frantumarsi.
La stazione è vuota.
Quando arriva, l’ultimo treno è in attesa e gli invisibili che la popolano compiono gesti lenti di un rituale che li tiene ai margini.
Guarda il treno con le porte aperte e ha l’impressione che voglia ingoiarla.
Per un attimo sente un brivido attraversarle il corpo.
Quello che vede non è più una fantasia, non sta accadendo nei suoi sogni, è reale. Forse decidendo di salire si perderà, oppure sarà il primo passo che le permetterà di raggiungere se stessa.
Pensa alle conseguenze, agli equilibri che andranno in frantumi, ma non le importa, vuole solo allontanarsi, andare via da tutto quello che conosce, che l’ha tenuta prigioniera in una gabbia dorata di ipocrisia.
Sa che però i ricordi la seguiranno e non le daranno tregua, forse ogni tanto si prenderanno una pausa, ma solo quello.
Mentre sale si aggrappa alla maniglia: sente la testa svuotarsi e una vertigine rendere precario l’equilibrio.
Percorre il corridoio, le luci che lo illuminano emettono uno strano ronzio e hanno un tremolio intermittente. Sembra un alfabeto Morse: forse in quel tremolio si nasconde un messaggio lasciato dal caso.
Sa che non funziona in questo modo, ma pensarlo la distoglie per qualche istante.
Ha paura, sente tutte le sue insicurezze avvinghiarla e costringerla, dandole la sensazione che l’aria intorno a lei diventi liquida.
Ha bisogno di trovare un posto che la tenga al riparo dalla possibilità di avere qualcuno seduto accanto, vuole essere sicura che non accada. Avere qualcuno seduto al suo fianco le direbbe che tutto quello è reale, e credere che sia un sogno lo fa sembrare più facile.
L’altoparlante gracida qualcosa di incomprensibile e a cui non presta ascolto mentre si siede in un posto in fondo allo scompartimento.
Sente chiudersi le porte; l’aria che entra ha l’odore ferroso del metallo mescolato al grasso di parti meccaniche, pezzi surriscaldati e polvere.
Il treno si muove con uno strappo, come qualcosa di vivo che si ribella ad un comando che interrompe l’ozio di un riposo meritato. All’inizio sembra muoversi controvoglia, cigolando la sua disapprovazione con un rumore di articolazioni irrigidite dall’età, come un vecchio che ascolta le sue ossa raccontargli del tempo che è passato.
Cerca di affondare nel sedile e tentare di sfuggire ad uno spiffero d’aria gelida che si insinua tra il colletto del cappotto e il maglione di lana.
In maniera graduale ascolta aumentare la velocità, e si rende conto che sta succedendo davvero.
Uno alla volta i vagoni si spostano trascinandosi gli uni con gli altri e ne percepisce lo sforzo.
Il mondo è fuori, dietro lo spessore sottilissimo del vetro freddo, appannato dalla condensa che scivola via come lacrime incapaci di essere trattenute.
Il mondo, pensa, nonostante tutto continua a girare, incurante, diventando notti stellate o cieli carichi di nuvole di piombo, capaci di rendere l’aria densa di elettricità dall’odore pungente che annuncia temporali. Continua distratto la sua corsa, perpetuo, indifferente ad ogni singola vita.
La traccia delle vite che sono scivolate via non sono nient’altro che condensa sull’enorme vetro dell’universo.
In cielo una stella cadente si perde dietro l’orizzonte e gli occhi la seguono, istintivamente curiosi: scompare dove la luce del giorno appena trascorso si può solo percepire. Dalla prigione dorata da cui è uscita senza voltarsi indietro, ha portato con sé solo la foto di una bambina seduta con le mani in grembo e lo sguardo già velato di tristezza che guarda lontano. Una bambina che, se la si guarda bene, ancora le somiglia, in quel suo modo di stare seduta e tenere le mani in grembo, come un dipinto di quelli che si vedono nei musei, o in quelle vecchie fotografie color seppia dove le bambine hanno i vestiti candidi adornati di pizzi e nastri.
Non ricorda a cosa pensasse o cosa  stesse immaginando.
A cosa può pensare una bambina di tre anni con lo sguardo triste affamata d’amore?
Non lo sa, non lo ricorda; forse le stesse cose semplici che vorrebbe per sé oggi che cammina verso un treno per andare in un posto lontano disposto ad accoglierla, mentre si sente come il gemello sopravvissuto. Somiglia in tutto e per tutto a qualcuno con cui ha avuto per anni un legame profondo e conflittuale che non esiste più.
Non ha pianificato, e non riesce a vedere nulla oltre ciò che ha davanti; forse è un bene, l’unico modo di non rimanere delusi è non aspettarsi niente. Fatica a rendere il suo respiro regolare, stringe i pugni fino a sentire le unghie premere nei palmi.
Piano piano, un respiro per volta, l’aria torna ad entrare nei polmoni con un ritmo normale, i muscoli perdono la loro posizione d’allerta e le pupille non rimangono fisse, in attesa di vedere una minaccia che non c’è.
Il treno fa muovere il paesaggio circostante facendolo scorrere dietro i finestrini, è come osservare delle diapositive, tutto cambia così rapidamente come un nastro che si avvolge su se stesso.
Si allontana, lo sente scivolare lungo i binari, inciampare ad ogni congiunzione del ferro, strattonarla ad ogni inclinazione data dalle curve, sente ogni salita e ogni discesa, quando entra in galleria è come venire risucchiati nell’oscurità della terra, quella che ne cela i segreti, dove le tracce di ciò che è stato si sono stratificate.
Tutto viene nascosto per un tempo più o meno lungo, chi cerca magari non sarà in grado di trovare e chi non cerca un giorno senza volerlo s’imbatterà in quello che è stato perduto.
Il treno continua la sua corsa e, anche se non c’è nessuno, si ferma ad ogni stazione. Vede scendere qualcuno, reduce forse dall’ultimo turno di lavoro, ma non vede salire nessuno, neanche il controllore è passato; ne è sollevata, quasi temeva il momento in cui avrebbe dovuto rispondere al suo saluto e porgergli il biglietto.
Non ha contato le fermate, a tratti il tempo si è sospeso strappando immagini al passato, immagini frammentate, fatte di buchi in cui i ricordi sono stati risucchiati. Ci sono episodi della sua vita che non ricorda.
L’unica cosa che le è rimasta di tutto è una sensazione di vuoto e di rimpianto, qualcosa nel profondo si è spezzato e quel dolore l’ha svegliata, costringendola a vedere, guardare con altri occhi la sua vita.
Anche per lei il tempo, come per tutti, era passato, non sarebbe tornato indietro, e ciò che si era rotto non poteva essere riparato; aveva capito che le cose perdute sono perdute per sempre, non tornano, e i ricordi possono riuscire a tenerti aggrappata al passato facendoti credere di avere vissuto quello che non è mai accaduto.
Nella sua bolla aveva visto dilatarsi il tempo fino quasi a rallentare e farle credere che in effetti non fosse poi andato così distante da lei, ma inevitabilmente come per tutti era passato.
Alle volte sentiva il bisogno di urlare, disperarsi e poi non lo faceva per un pudore che affondava le radici in quel suo non voler essere irriconoscente.
Aveva scavato intorno a se un fossato e si era rifugiata nel silenzio e nella solitudine, come in una torre, rimanendo in allerta, in ascolto in una maniera del tutto differente da come era abituata, da come sapeva, in un modo che scopriva per la prima volta. Questa solitudine, era qualcosa di se che ricercava e in cui si era immersa e non lo aveva mai fatto prima, ne aveva sempre avuto paura.
Il treno rallenta,  non sa quantificare il tempo, ma si appresta ad entrare nell’ultima stazione, l’altoparlante annuncia il capolinea.
Prendere con se la valigia, è stato un gesto fatto con un cenno impercettibile d’esitazione, come se la nebbia che vede salire e infittirsi fuori, sia l’anticamera di un monito. Si stringe nel cappotto, dal finestrino appannato si accorge della pioggia, il cappuccio la ingoia al suo interno quando lo alza sulla testa facendola scomparire e mettendola al sicuro.
Riuscire a sentirsi invisibile, un’ombra che si muove scivolando silenziosa senza lasciare nessuna traccia.
Scende dal treno sentendo il tonfo sordo delle suole sul marciapiede, l’aria compressa delle porte fuoriuscire con uno sbuffo insofferente come a volersi liberare dal peso dell’ultimo passeggero.
Si guarda intorno, non vede nessuno ed ha la sensazione di essere l’ultima anima di quel Caronte metallico verso la riva sconosciuta della sua destinazione.
Le ruote della valigia sul marciapiede procurarono un rumore amplificato dal silenzio, come un fantasma che trascina le proprie  catene.
E’ sola in un posto che non conosce e ha paura; per la prima volta nella sua vita è veramente sola e non sa cosa fare, la sensazione di fiato corto però stranamente non la paralizza.
Uscendo fuori nella luce del piazzale si accorge di non sapere dove andare.
Non vuole restare lì, ma considera l’ipotesi di aspettare che arrivi un mezzo per raggiungere un posto qualunque dove passare la notte.
Sente a quel punto lo stomaco contrarsi per il freddo e la fame, ma è determinata a non cedere alla moltitudine di sensazioni che la stanno invadendo.
Spaventata, sospesa senza tempo e senza spazio nel silenzio accogliente di quella notte che l’avvolge, nella quale si è immersa, decisa a non cedere, cerca in quel silenzio di ascoltare gli anni vuoti e perduti che la sua mente a tratti trova e riconosce, che continuano a scivolare in un mare scuro, che a momenti le era sembrato calmo e invitante.
Riuscire a trovare ciò che si è perduto dentro di noi non è facile, alle volte non lascia scampo.
Il ticchettio delle unghie di un randagio sul selciato la distoglie dai suoi pensieri.
Il cane le passa accanto, con il muso basso: mentre annusa il terreno sente il suo odore, lo riconosce come qualcosa di diverso e rallenta appena l’andatura, la guarda senza alzare il muso, drizzando le orecchie corruga la fronte, solleva lo sguardo, come a voler cercare l’origine di quella traccia, dargli una forma.
Si sfiorano appena e per un attimo finiscono occhi dentro  gli occhi, e in lei tornano prepotenti gli anni di sguardi che non avevano tempo di guardarla, di capire chi fosse o cosa era diventata.
Lo sguardo di un cane le ha riportato alla mente quei ricordi, il dolore che le ha impedito di respirare.
Il dolore è parte di lei, lo sente  attraversarla sotto la pelle, da sempre impigliata in quella  sofferenza.
Perché è sempre stato come se il mondo non la comprendesse e lei non fosse in grado di comprenderlo
Perché se si fosse concessa di ascoltare avrebbe lasciato andare, avrebbe capito che il dolore non ha una ragione.
Aveva guardato andare in frantumi ognuno dei sogni sognati, tutto era andato oltre il suo corpo, la sua vita, le sue speranze, otre quei ricordi che alle volte si perdevano e cercava di raggiungere, che scorrevano come acqua dentro acqua, mischiandosi e annullandosi nella sua mente.
Un giorno, tutto aveva preso impercettibilmente a mutare.
Sente ad un tratto il bisogno di muoversi:  come ubbidendo ad un richiamo che viene dalla parte più profonda della sua anima, un passo dietro l’atro s’incammina dietro il cane.
Il rumore delle ruote della valigia sull’asfalto palesa la sua presenza.
L’animale si ferma, si gira e la guarda più curioso che minaccioso.
Sotto la luce del lampione, si accorge del pelo lucido e fulvo. Non sembra un randagio, sembra avere una casa a cui tornare, il calore di carezze.
Le da l’impressione che sia abituato ad avere a che fare con le persone. La guarda più volte, fermandosi come per aspettarla, piegando la testa prima da un lato e poi dall’altro. La scruta con lo sguardo dolce scodinzolando, quasi contento di avere compagnia, per poi continuare a sfiorare il suolo tenendo il muso basso.
Sembra come se avesse rallentato l’andatura per aspettarla.
Continuando a camminare la strada li porta lontano dalla città: immergendosi nella campagna il paesaggio si trasforma.
Il cane fulvo prende un sentiero sterrato che si inerpica sulle pendici di una collina.
Le luci dei lampioni non si scorgono più, hanno lasciato il posto al chiarore della luna.
La notte si immerge sempre più nel suoi buio, come a voler consumare ogni traccia del giorno trascorso,
dandole l’impressione che quella oscurità l’accompagni da sempre. La faccia pallida della luna in cielo è come se li osservi sorridente e bonaria dal suo posto privilegiato. Sembra conoscere, sapere le sorti di ogni creatura della terra.
Il sentiero si restringe sempre più, i rovi lo invadono ostacolandone il cammino.
Il cane fulvo continua a camminare, si infila tra un groviglio di rami e scompare al suo interno.
E’ a quel punto, quando il cane scompare dalla sua vista che il freddo e la stanchezza la investono come uno schiaffo in pieno viso. La solitudine le piomba addosso, la sente nuovamente compagna tangibile, le lacrime prendono allora a scivolare copiose, rendendosi conto di essere incapace di trattenerle.
La vista è appannata  e non le permette di scorgere  tra i rami nessun movimento, ma dopo poco il muso fulvo del cane appare tra il groviglio di rami e l’animale le si fa incontro.
La sfiora annusandola, poggiandole il naso umido  sul dorso della mano.
Il cane fulvo è tornato indietro, e prende a scodinzolarle intorno, uggiolando per attirare la sua attenzione.
Sembra avere capito il suo dolore e volerla consolare rassicurandola della sua presenza.
Capisce che sta cercando una carezza. Poggia la mano sul pelo morbido e lucido e ne sente il calore sotto le dita. Lui le lecca la mano.
Nessuno  ha mai riservato tante attenzioni alle sue lacrime.
Le poggia il muso sulle gambe e rimane a guardarla con  gli occhi grandi ed espressivi , sembra aspettare che smetta di piangere, poi si volta e si dirige nuovamente verso il groviglio di rami, esitando e tornando a guardarla prima di attraversare la fitta cortina di rovi.
E’ chiaramente un invito a seguirlo, e si accorge guardando meglio che spostando uno dei rami può riuscire a passare.
Oltre, il sentiero continua delimitato da una staccionata di legno che in alcuni punti ha ceduto piegandosi di lato su se stessa in una sorta d’inchino.
Il cane continua a camminare, sincerandosi di tanto in tanto che lo stia seguendo; dopo una deviazione  la conduce all’inizio di un piccolo viale di ghiaia, dove sotto una grande quercia, c’è un sedile di marmo poggiato sulla schiena di due leoni.
Il cane si sistema sotto il sedile posando la testa sulle zampe e rimane a guardarla, placido, come se per lui quel posto fosse una consuetudine.
Guardare quella tranquillità le fa sciogliere la tensione, la rincuora. Si muove piano, un passo per volta nel timore che stia solo vivendo un sogno. Raggiunge il sedile, lo pulisce dalle foglie secche che vi si sono accumulate, ne stringe alcune nella mano, le danno la sensazione di essere senza peso, fragili, aumentando la stretta le sente sbriciolarsi, con un crepitio che si dissolve nel silenzio che la circonda.
Il cane istintivamente muove le orecchie,spostandole nella direzione da  cui proviene il rumore e aggrotta la fronte.
Nel profondo un sospiro di sollievo si fa strada, assapora quella sensazione data dall’aria che penetra nel petto senza fatica, dolcemente, come a colmare quella fame che ha da sempre.
Ha vissuto costantemente in apnea, con la sensazione incessante di non riuscire a respirare.
Avvicina le mani alla bocca per scaldarle.
Il suono del silenzio ha la voce del vento tra i rami e le foglie della grande quercia.
Istintivamente apre la mano per sentire scivolare l’aria tra le dita, liberando  i residui di foglie che cadono al suolo.
Le osserva ondeggiare in quel loro breve viaggio.
L’aria profuma d’inverno, di nevicate copiose e silenziose.
Vorrebbe che il tempo si fermasse, che tutto smettesse di muoversi, vorrebbe che quel momento rimanesse sospeso in quella bolla sicura, in quell’angolo di mondo sconosciuto, incontrato per caso.
Sente di non avere bisogno di niente lì. In quel luogo, non ci sono ne ricordi, ne rimpianti.
Si sente per la prima volta intera, completa.
Rimane seduta, guarda verso un punto nel cielo, le nuvole ora hanno coperto la luna, il suo bagliore colpendole rilascia una luce lattiginosa che avvolge il paesaggio circostante. Il cane fulvo accanto a lei si è addormentato.
Non vuole andare da nessuna parte, ha solo voglia di dormire.
Il cane fulvo all’improvviso si desta, la notte continua ad avvolgere ogni cosa e il freddo l’ha quasi intorpidita. Guardandola si avvicina,  vuole che lo segua.
Facendo forza su se stessa, si alza per seguirlo. Decide di assecondare quella strana conversazione fatta di sguardi tra di loro.
Lui la conduce su un sentiero che porta ad un viale di ghiaia, lo capisce perché i raggi della luna lo fanno risplendere, ne sente il rumore sotto i passi che muove incerta, è costeggiato da alti cipressi. Mettendo un piede dietro l’altro procede senza sapere dove. Alla fine del viale si trova davanti ad un cancello imponente, chiuso da una catena arrugginita, sembra proteggere una grande casa che appare come preda di un incantesimo.
Davanti ai suoi occhi tutto sembra addormentato.
Poggia le mani sulle sbarre, mentre il viso le si inonda di lacrime e la malinconia le procura un dolore profondo nel petto.
C’è qualcosa lì, che riconosce e le appartiene. Lo sguardo scivola sulla desolazione di alberi spogli e su di una panchina divorata dalla ruggine; tutto intorno, quello che una volta è stato fiorente ora è solo silenzio e abbandono soffocante, come la morsa delle piante infestanti che s'insinuano ovunque, invadenti e oltraggiose.
Il sapore del tempo trascorso le arriva come un’onda.
Vuole entrare, per assecondare il bisogno di raggiungere quell’edificio, di toccarlo, per avere la conferma che sia proprio lì davanti a lei.
Sente le gambe venirle meno, il corpo accasciarsi senza forze: come se il vuoto le si fosse insinuato ovunque.
Il cane fulvo si muove curioso, le avvicina il naso umido alla guancia, la lecca, il calore del respiro sembra rinfrancarla.
Il chiarore dell’alba comincia ad accarezzare l’orizzonte: ancora le ombre della notte faticano a cedere il posto alla luce del mattino. I raggi del sole timidamente si aprono un varco tra le nuvole, portandole la sorpresa dei primi fiocchi di neve: freddi sul viso, è come se le bruciassero la pelle.
Ancora una volta il cane si allontana, lo cerca voltando lo sguardo in ogni direzione, ma non riesce a vederlo.
Nella luce del mattino tutto sembra diverso.
La neve comincia a cadere più copiosa, il respiro si trasforma in nuvole di vapore. Decide di volersi muovere senza però che le riesca di farlo, continua a sperare di vedere tornare il cane. Ha bisogno di stare al caldo, la notte passata fuori le ha tolto le forze;  la neve comincia ad aderire al suolo.
Non vuole però allontanarsi .
All’improvviso il muso del cane fulvo è nuovamente accanto a lei che l’annusa, lo sente uggiolare, sembra capire il pericolo, la lascia per un momento, nuovamente corre via, ma ritorna indietro, lo ascolta abbaiare verso la fitta vegetazione della sera prima, corre di nuovo via, continua ad abbaiare ed a uggiolare.
Il rumore delle zampe sul terreno le dicono che non si allontana mai troppo, rimane comunque nelle vicinanze, anche se si muove, accenna una corsa che interrompe come combattuto.
E’ come se volesse attirare l’attenzione di qualcuno.
Nuovamente sente le forze abbandonarla.
Il cane fulvo abbaia, come per chiamare qualcuno  che dopo risponde con un fischio.
“ Ares…qui bello!”
La voce la raggiunge strappandola per un momento  a quel torpore.
Rimanendo aggrappata al cancello cerca di scorgere una sagoma, ma non riesce a vedere nessuno.
Tenta di alzarsi in piedi, ma le gambe cedono, si sente esausta, senza forze, come svuotata, preda della debolezza, come se avesse ingaggiato una lotta.
Sente il cane allontanarsi, e la voce continuare a chiamarlo.
Ha un tono morbido, rotondo, ma ne avverte la fermezza, l’autorevole indulgenza.
“ Qui bello, ma dove sei stato?”
Non è pronta per rivelare la sua presenza, per incontrare qualcuno, non vuole domande banali,  frasi fatte di circostanza. E’ quasi risentita con il cane fulvo: vorrebbe scomparire, diventare invisibile. Non riesce però a sollevarsi da terra, per quanto faccia sembra che il terreno la trattenga.
Si guarda intorno, e ha l’impressione che qualcosa sia cambiato, tutto sembra uguale, ma non lo è.
Tutto è allo stesso posto, ma ha un’aria più ordinata, più curata, non si avverte più quella sensazione di abbandono.
Non vede più la ruggine ricoprire il cancello, guarda attraverso le sbarre, le aiuole sono curate, le piante infestanti sono svanite, la casa sembra immersa in una tranquilla serenità: è come se da un momento all’altro qualcuno potesse uscire dal portone libero dall’edera.
Magari la stanchezza ,le ha giocato un brutto scherzo, oppure è stata la luce ovattata della luna o semplicemente la sua voglia di trovarsi in un luogo deserto, ma la notte appena trascorsa le ha raccontato di un luogo abbandonato da decenni, e non è così.
Si sente una stupida per averlo creduto.
Sente abbaiare il cane, dalla fitta vegetazione alle sue spalle.
La testa le gira, ha sete ed è come se avesse la febbre.
Si sente scivolare in un oblio, la vista le si appanna, per un istante vede nero, quando riapre gli occhi qualcuno la sta sorreggendo, l’ha solleva tra le braccia e la sta portando oltre il cancello aperto.
Il rumore della neve che si compatta sotto le suole le arriva attutito.
Stenta a tenere gli occhi aperti, riesce a vedere a tratti, e intravede il portone della casa, mentre le narici le si impregnano di un profumo che la tranquillizza, la scalda, sa di panni stesi al sole e sapone in un misto di colonia, cuoio e tabacco che non le è mai capitato di sentire prima d’ora.
Sente le braccia che la sorreggono sicure, il passo fermo, il respiro regolare, come se portarla non gli costasse alcuno sforzo.
E’ tranquilla, non sente timore, ansia, avverte un senso di protezione e accudimento che non conosce, che la rinfranca e cede a quelle sensazioni poggiando il capo sulla spalla di quell’uomo sconosciuto, di cui non riesce a vedere il volto. Al loro fianco il cane fulvo cammina, salta e abbaia nel tentativo di attirare l’attenzione. Non le riesce però di muovere neanche un muscolo  e pronunciare un qualsiasi suono anche se cerca di farlo. E’ come se avesse viaggiato attraverso il tempo, si fosse smaterializzata e ricomposta tra quelle braccia.
La neve copiosa continua ad adagiarsi senza fare rumore, la sente sul viso, impigliarsi nei capelli con la sua carezza fredda, mentre il cuore cerca di scoppiarle nel petto.
Un dormiveglia pesante, invadente, la costringe a chiudere gli occhi, sente perdere di nuovo il contatto con la realtà, cerca di resistere, ma è come se un sortilegio la costringa a dormire contro la sua volontà: l’ultima cosa che ascolta sono le parole che l’uomo che la sorregge rivolge verso il cane fulvo:  “Qui bello, entriamo in casa e capiamo cosa le è capitato. Dio com’è pallida!”
Lo sente esclamare e si convince di stare sognando.
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***



Immersa nel silenzio, la casa veglia il suo strano sonno. E’ il freddo e l’odore stantio di tempo immobile a svegliarla:  una sensazione di gelo, che le penetra sin dentro le ossa, l’attraversa facendola tremare.
Cerca di aprire gli occhi, ma non le riesce di farlo al primo tentativo, capisce però che all’interno tutto è immerso nella semi oscurità; prova a parlare ma non emette che un lungo sospiro che vede condensarsi  in vapore uscendo dalla bocca.
Attingendo alle poche forze e alla sua volontà a fatica riemerge da quello stordimento.    
Quando finalmente riaffiora da quella nebbia, realizza di essere adagiata su di un vecchio divano; la tappezzeria è logora, ricoperta di polvere e odora di muffa, riesce  a percepirne appena il colore sbiadito dal tempo che doveva essere stato di una qualche tonalità di turchese.
Il pavimento in parte, è ricoperto da foglie secche e detriti, pezzi d’intonaco che hanno ceduto all’umidità.
Non comprende subito dove si trova, come abbia fatto ad arrivare sin la.
Poi la mente le riporta un sentore di cuoio e tabacco, e allora  la sensazione di due braccia forti che la sorreggono ritorna. Realizza di trovarsi all’interno della grande casa, ma tutto quello che la circonda è in un decadente abbandono, eppure poteva giurare che non fosse così, che durante il tragitto sorretta, al sicuro di quelle braccia, tutto le era sembrato vitale e fiorente . L’incuria del tempo le trasmette disagio, quel senso di separazione e perdita che riconosce, perché da sempre la tiene per mano e l’accompagna, paziente, aspettando.
Dalle fessure delle imposte sconnesse guarda il lento discendere della neve.
Si alza dal divano, ancora intorpidita e confusa. Non sa cosa sia successo, ma avverte una sensazione di vuoto farsi strada nel profondo, fino quasi a farla sentire rarefatta. E’ come se quel tempo immobile sapesse di lei.
Si guarda intorno, ripercorre mentalmente ogni passo. Forse, tutto quello non è altro che il frutto di una suggestione, forse ha solo immaginato.
Ma lui era reale, lo ricorda, lo ha sentito. Ha respirato il suo odore: Cuoio e tabacco.
Ha sentito il suo respiro caldo sfiorarle il viso, ha toccato il manto morbido e caldo del cane fulvo.
Si aggira in quel luogo abbandonato sentendosi un fantasma.
Di fronte a lei, dal soffitto pende un lampadario maestoso, alle cui braccia sono appese gocce di cristallo.
La polvere ne ha spento lo scintillio e le ragnatele lo hanno avvolto come in un bozzolo, quasi a volerlo proteggere.
Alle pareti consolle sormontate da specchi, talmente rovinati da non riuscire a riflettere nessuna immagine, alle finestre pesanti tendaggi di velluto scolorito. Tutto sembra essersi addormentato. Fatica ad ogni passo, ha come l’impressione che il pavimento fluttui, si ferma per ritrovare l’equilibrio poggiandosi allo stipite di una porta che delimita la stanza. Riesce ad attraversarne la soglia, distingue un grande ingresso, le è chiaro che da tempo nessuno v i ha più abitato, quando prova ad aprire il pesante uscio lo ascolta cigolare sui cardini arrugginiti.
La vita di qualcuno è stata custodita tra quelle stanze, e ormai altro non è che oblio.  Fuori l’aria gelida le sferza il viso facendola rabbrividire, cammina accompagnata dal rumore dei suoi passi sulla neve. Non c’è nessuno.
Cerca con lo sguardo, ma in vano. Il senso di vuoto sembra amplificarsi ad ogni passo verso l’esterno.
Rimane a guardare il sedile, la neve che lo ha ricoperto è immacolata.
Non ha idea di che ora sia e non saprebbe dire neanche di quale giorno.
Ogni cosa è immersa in un silenzio irreale, i contorni sono ammorbiditi dalla neve.
Si volta per guardare la grande casa: qualcuno l’ha portata sino la.
Ha udito la sua voce, respirato il suo profumo, non sa darsi una spiegazione per tutto quello, ma sa che non è frutto della sua fantasia. Non sa però, se può fidarsi di quello che crede di avere visto e ascoltato.
Forse voleva solamente che fosse così.
Le sue impronte affondano nella neve, sono l’unico segno che indica la presenza di qualcuno in quel luogo.
Ritorna verso la casa, entra e nel chiudere la porta i cardini le rimandano la voce arrugginita del tempo.
Si guarda intorno e cerca di adattare lo sguardo al buio che regna.
Sente entrare il vento da ogni fessura,  rimane immobile, in ascolto di ogni suono, di ogni scricchiolio, immersa nell’oscurità di un posto sconosciuto e abbandonato, senza nessun punto di riferimento, in balia di qualunque cosa: aspetta, considerando che quel luogo è stato di qualcuno, lo ha raccontato, ha custodito la sua essenza vera e profonda. E tutto quello è ancora lì, lo respira in quell’odore stantio, come un monito.
Lo avverte chiaro, tangibile, ma non riesce a darsi una spiegazione.
La sua mente inciampa in quel groviglio di emozioni, tra la polvere di quel tempo immobile.
Anche lei, come ogni cosa in quel luogo, cerca di resistere, a fatica, ancorata ad ogni più piccola certezza.
Trema, di un tremore che la scuote e le fa battere i denti, che provoca un rumore secco, ritmato, accompagnato quasi da una cantilena che viene dal suo torace, che contraendosi sotto gli spasmi incontrollati genera un suono monotono e penoso.
Ha bisogno di sedersi, stringe il cappotto al corpo, sino quasi  a volervi scomparire.
E’ li che trema, quando qualcosa di caldo e umido le sfiora la mano, sente guaire e riconosce sotto le dita il pelo morbido del cane fulvo.
Ricorda che lui lo ha chiamato “ Ares” .
Il suono di quel nome le sfiora le labbra, è appena un sospiro, che il cane avverte. Sente l’animale mugolare.
Lo accarezza. Lui poggia le zampe sulle sue gambe e sembra volerla rassicurare.
Ad un tratto, vede un bagliore tremolante che le ricorda la luce del fuoco di un camino, provenire dalla stanza del divano e di nuovo la sua voce.
“ Ares, cosa c’è? Qui bello.”
E’ ancora lì in mezzo, in piedi, quando la casa sembra ad un tratto svegliarsi dal suo sonno e riprendere vita e i suoi colori. La luce fioca delle lampade torna ad illuminare l’ingresso. Sente dei passi e vede l’ombra proiettarsi sopra i muri incastonati dalle boiserie.
Lo sente arrivare, ne scorge la figura slanciata.
Cammina verso di lei con passo sicuro e cadenzato.
Quando la vede si ferma, rimanendo nel cono d’ombra che impedisce di scorgerne il viso.
“ Siete… qui?”
Lo sente pronunciare quelle parole appena la vede, con quel tono di voce che ha l’impressione di avere sempre udito. Ne coglie l’incertezza mista ad un vago senso di stupore.
“Come vi sentite? Vi abbiamo cercata ...Ma… dove …?”
Non le riesce di emettere nessun suono. All’improvviso,  sente  la gola e la bocca secca. Lui comprende.
“ Non importa. Venite a scaldarvi.”
Mentre lo dice, lo vede muoversi verso di lei. Non le riesce di tenere gli occhi aperti, come quando si cerca di ripararli dalla luce intensa del sole. Mano a mano che sente i passi farsi vicini, il cuore accelera nuovamente i battiti.
E’ un frammisto tra timore e incredulità.
“ Venite, non abbiate paura: vi aiuto. Poggiatevi al mio braccio.” Le tende la mano lentamente, per raggiungerla; ne sente il tocco. Avverte la lana del pullover, morbida e ruvida allo stesso tempo, quando le porge il braccio.  Il profumo di colonia, quella nota intensa e particolare, le ritorna nelle narici.
“ Vieni Ares, su, da bravo. Starà bene, tranquillo .”
Lo dice in modo rassicurante, ne avverte il sorriso accompagnare quelle parole. “ Venite vi prego, sedetevi accanto al fuoco, avete le mani gelide.”
Lei accenna un sorriso.
“ Il mio cane vi ha presa a ben volere. Non è qualcosa che gli ho visto fare spesso.” Continua a parlare in un modo così quieto e gentile che la distrae e la fa inciampare nei suoi passi. Lui la sorregge, con un gesto pronto. Stringe la presa sulla sua mano, tenendola in maniera più salda. “ Venite, ancora pochi passi e potrete sedere e scaldarvi.”  La voce ha un tono basso, come un vago senso di rassegnazione. In quelle poche parole  coglie qualcosa che riconosce: il ricordo di qualcosa di antico e bello, l’eco di una felicità mai raggiunta, il dolore di una memoria languida e sfuggente.
Lui cammina al suo fianco adeguando il passo, con gentilezza la sorregge.
“Ecco, venite: sedete. Vi scalderete in un attimo.”
Gli occhi  piano piano le restituiscono una vista chiara e può osservare la stanza: è accogliente, la luce soffusa data dalle lampade e dal fuoco che arde nel camino,  i mobili sono eleganti; il divano è lì, con il suo colore  di un turchese acceso.
Non c’è traccia delle foglie sul pavimento, dei pezzi d’intonaco, non c’è odore di muffa, ma un profumo aromatico e dolciastro di brandy e tabacco.
Alza gli occhi a cercare il lampadario e lo osserva: i suoi cristalli riflettono i bagliori del camino, scomponendoli in riflessi colorati.
Lui la osserva, composto, quasi solenne, perplesso, ma troppo discreto per rivolgerle domande. E’ alto, la barba curata, lo sguardo grigio, profondo, che la scruta un po’ perplesso. Forse come lei non riesce a spiegare cosa stia succedendo.
L’unica cosa che sa è che ora è lì, reale quanto lui.
L’aveva portata in casa, infreddolita  e quasi priva di sensi, si era allontanato e non l’aveva più trovata.
Adesso la guarda, senza sapere bene come comportarsi, capisce che non vuole farla preoccupare, desidera che  si fidi di lui.
Il cane fulvo gli è accanto, lui lo accarezza e l’animale poggia il capo sulle gambe del suo padrone, in quel gesto che esprime complicità, fiducia e gratitudine.  
“ Siete ancora  tanto pallida” Gli sente pronunciare quelle parole sottovoce, come se lo stesse dicendo a se stesso. Poi lo vede  accovacciarsi accanto al cane, pensieroso intrecciare le dita, poggiarvi le labbra, come a voler valutare il da farsi.  E’ come se cercasse di venire a capo di un mistero: “ E adesso, cosa dovrei fare. Che ne faccio di voi?”, sembra pensare. Ha intuito però che non lo dirà. Rimangono così in silenzio, osservandosi, per un lungo attimo.
I suoi occhi la scrutano cercando di comprendere.
Lei lo guarda, lì in quella stessa stanza che poco prima, era immersa nella desolazione dell’abbandono,  e adesso invece è calda, accogliente, fiocamente illuminata dalle fiamme della legna che arde nel camino  crepitando. Rabbrividisce assecondando la sensazione di freddo che le percorre la schiena.
Lentamente, ancora perplesso, lo vede camminare verso una poltrona accanto al camino, e prenderle un plaid che le porge, poi attizza il fuoco, porta le mani al viso e si accarezza la barba curata, con  gesti che è abituato a fare in maniera inconsapevole.
E’ come se volesse dire qualcosa, ma non lo fa. Il silenzio nella stanza è rotto dallo scoppiettare della legna e dal ticchettio dei passi del cane che si muove in torno e poi sceglie un angolo in cui accucciarsi.
Attraverso i vetri appannati si riesce a vedere il giardino, la neve è ritornata a cadere silenziosa.
“ Nevica ancora.”
Lei continua a non parlare, ancora preda del timore che tutto possa svanire di nuovo. Si concede solo di annuire con un gesto appena percettibile.
“ Sentite ancora freddo?”
Il silenzio si strappa su quella domanda piena di esitazione, si sospende nell’attesa di una risposta che non arriva.
“ Volete mangiare qualcosa, avete fame?” lo dice rimproverandosi di averlo fatto.  “Perdonatemi, non voglio mettervi in imbarazzo, ma se avete fame potete dirlo. Non dovete vergognarvi.” C’è qualcosa in lui e in quel luogo che la rasserena, la fa sentire stranamente bene, a suo agio.
Continua ad avere timore che tutto possa svanire, ma vuole dare una risposta a quella domanda in un “si” appena sussurrato.
 “ Bene...” Un sorriso gli increspa le labbra.  “Dunque… voi pensate solo a riposare, mentre io vi porto qualcosa di caldo. ”
Lo vede scomparire dietro una porta accanto al grande camino. Rimane sola e per un momento il timore che ogni cosa possa dissolversi torna ad insinuarsi sotto la pelle, la posa si irrigidisce, le mani si poggiano sul tessuto del divano e le dita arpionano il cuscino come a volersi ancorare a quel luogo, come se da un momento all’altro quel presentimento che sente albergare in lei potesse diventare reale: non vuole che tutto scompaia, non vuole riprovare la sensazione avuta al risveglio, di gelo e desolazione.
La neve fuori continua a cadere silenziosa e il fuoco a crepitare nel camino, ma ha paura che muovendosi tutto scompaia; nella stanza ogni cosa emana tranquillità, mentre un orologio scandisce il tempo con il suo ticchettio monotono e rassicurante.
Si immerge in quel suono, lo asseconda chiudendo gli occhi, ha come un potere ipnotico che l’allontana svuotandole la mente da ogni pensiero. Ne segue il ritmo, cerca di adeguarvi il respiro e il battito del cuore. Il suono del tempo che passa, che si scompone in momenti che si depositano gli uni su gli altri e sanno diventare passato nello  stesso istante in cui accadono.
Negli  occhi quell’ombra di smarrimento le ha dilatato lo sguardo, mentre la sorpresa di ritrovarsi immersa in quella stanza la fa sentire come un’ubriaca.
Senza quasi volerlo sussurra: “Ares.” Mormora con la voce che le vibra di timore, con la mano tamburella sul cuscino del divano per invitarlo a raggiungerla
Il cane apre gli occhi, scodinzolando la raggiunge. Poggia il muso accanto a lei e la guarda.
La mano si muove piano, è lo stesso cane che ha incontrato alla stazione, ma già una volta come il resto, era scomparso e il vuoto l’aveva avvolta.
Le dita si poggiano sul pelo morbido e il calore torna a diffondersi sotto i polpastrelli.
Ad un tratto lui compare sulla porta, si ferma a contemplare quella complicità tra il suo cane e quella sconosciuta, piacevolmente colpito da quell’intesa. Porta con se un vassoio.
“Spero questo possa andare bene.” Sorride e poggia il vassoio sul piccolo tavolino intarsiato e immediatamente si spande nell’aria un profumo invitante. “ Su, mangiate prima che si raffreddi”. La esorta, e lo fa con un sorriso, poi fa un cenno per richiamare il cane che lo segue riluttante.
Lei guarda il vassoio, il tovagliolo ricamato, il cucchiaio d’argento, la porcellana. “ Vi assicuro, che è buono. Fidatevi” La incoraggia e lei ancora una volta si muove con gesti lenti e pieni di timore. “ Grazie.” Sussurra a fior di labbra, così fievolmente che è sicura che non può averla sentita, aspettandosi che tutto da un momento all’altro si dissolva strappandola da quel luogo sicuro, facendola ripiombare nell’abbandono di una casa deserta.
“ Non dovete ringraziarmi.  Mi auguro vi sentiate meglio.” Lei fa un cenno di assenso con il capo. Il suono del cucchiaio  sulla porcellana le ricorda quello di una piccola campanella. Porta il liquido caldo alle labbra: è piacevole e confortante.
Poi prende il tovagliolo candito e ricamato tra le mani, ne avverte il delicato profumo di pulito così piacevole.  Indugia come a volersi assicurare che non nasconda in se un sentore di muffa.
Tiene gli occhi bassi, ma lo vede voltarsi, avvicinarsi ad un mobile e versare da una bottiglia in un bicchiere lavorato  finemente, un liquido ambrato il cui avverte l’aroma aroma spandersi nel tepore della stanza.
Lo osserva, è sicuro ed elegante. Tiene il bicchiere tra le mani e si siede sulla poltrona di cuoio dall’aspetto vissuto proprio accanto al camino, accavalla le gambe e rimane a fissare il fuoco. Oscilla leggermente il bicchiere, facendo roteare il contenuto che continua a sprigionare il suo aroma. Gesti disinvolti, che lo fanno sembrare uscito dalle pagine di un libro. Come tutto quello che lo.
Immerso nei suoi pensieri, lo sguardo distante sembra perdersi in un luogo lontano. La mano continua a far roteare lievemente il contenuto del bicchiere. Ogni tanto lo porta alle labbra, senza cambiare posa. Il cane fulvo gli si è accovacciato affianco, la stanza è immersa in una quiete senza tempo. Tutto è così separato da quel luogo, la sua vita, quello che era, sembrano momenti di qualcuno che fatica a ricordare, una lei che per tanto tempo è stata prigioniera di emozioni e di un tempo non suo.
Continua ad assaporare il piacere di quel cibo caldo, e quel calore le penetra dentro, la culla e la fa sentire al sicuro. Ogni volta che sbatte le palpebre ha paura che quello che tornerà a guardare non le restituisca quelle immagini. Quando posa il cucchiaio il tintinnio lo fa voltare. “ Si, state decisamente meglio. Avete ripreso colore. Eravate pallidissima.” Le dice sorridendo, mentre non può fare a meno di notare che quel sorriso appena accennato gli ha illuminato lo sguardo, che la luce del camino rende ancora più trasparente, accendendogli i capelli di riflessi.
“ Grazie.” Continua a sentire quella parola sulle labbra e si sente una sciocca.
“Non dovete, davvero, non ringraziatemi…” Torna ad indirizzare  lo sguardo verso il camino, forse perché ha capito il suo imbarazzo e non vuole metterla a disagio.
“ Adesso è meglio che vada. Ho approfittato anche troppo…”  Di nuovo quella vertigine che l’aveva costretta ad accasciarsi al suolo torna a farla vacillare. La luce l’abbaglia e le rimanda contorni sfocati e figure indistinte. Nuovamente il freddo la stringe nel suo abbraccio, sente la nausea chiuderle lo stomaco e montarle la salivazione. Non sa se riuscirà a trattenere quello che ha mangiato e non vuole dare di lei quello spettacolo. Ha paura, non comprende cosa le stia capitando, sa solo di non sentirsi bene. E’ come se fosse  febbricitante. Quando riemerge da quel malessere le sembra passato il tempo di un battito di ciglia, ma quello che la circonda le rimanda l’immagine di anni di desolante abbandono.
La stanza è silenziosa, il camino è spento, non c’è la luce delle lampade, l’aroma del brandy è scomparso, ed è tornato quello pungente di muffa: non c’è più lui, né il cane fulvo.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


“ Ares!”  Sussurra impietrita. “ Ares!” Chiama con più enfasi. “Ares!” E sente quel nome arrivarle in gola e uscirle dalla bocca come un grido disperato. Nello stesso istante in cui sente l’angoscia arpionarla facendole credere di essere senza scampo, due braccia l’afferrano e tutto torna a diventare luce; sente il calore ritornare a scorrerle nel corpo, l’aroma del brandy, la mano che le tiene il viso cercando di scuoterla. Lo fa con delicatezza e decisione. E’ il profumo impregnato negli abiti di lui che la riporta in se.
“ Avete perduto i sensi...direi che dobbiate riposare. Avete bisogno di stendervi … di un medico”
“No, per favore…”
“ Come volete per adesso, ma dovete riposare. Domani decideremo.” La solleva come se fosse priva di peso con il cane fulvo al suo fianco, la porta su per una scala di marmo elegante. Cammina piano, tenendola saldamente, lei avverte il tepore del suo corpo mentre si fermano davanti ad una porta; la apre continuando a tenerla tra le braccia, e l’adagia poi su di un letto.
Fissa i suoi occhi senza riuscire a celare la preoccupazione:“ Riposate adesso.” Le dice con una dolcezza che le toglie il respiro. E’ come se un ricordo, tornasse a scaldarle il cuore da un posto lontano dentro di lei. “Ares rimarrà con voi. Lascio la porta aperta, io sono in fondo al corridoio.” Non ha contezza del trascorrere del tempo in quel luogo. Riesce a rendersi conto solo che fuori la neve continuava a scendere lieve.
Il letto l’accoglie come in un abbraccio morbido, il cane fulvo è sdraiato sul tappeto ai piedi del letto, la guarda, è come se non volesse perderla di vista.
Non vuole chiudere gli occhi, cedere al sonno. Non vuole svegliarsi e non trovarli più lì.
Ma il sonno l’attrae a se, invitante come una lusinga, delicatamente l’avvolge con il suo torpore, facendola scivolare nell’incoscienza senza sogni, in una deriva silenziosa che l’accoglie bonaria e ingannevole.
Resiste, o crede di farlo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La sveglia un frusciare leggero, la sensazione che qualcosa o qualcuno si muova. Riconosce il naso freddo e
umido sulla guancia che la costringe a voltare il capo per sottrarsi, ma il tocco deciso delle zampe le dice che deve svegliarsi.  Non vuole però rinunciare a quel posto caldo e morbido: le lenzuola ricamate profumano di sole e vento. Cerca di sfuggire alle attenzioni del cane fulvo che tenta di leccarle il viso.
“ Ares…non infastidire la nostra ospite.” Non lo vede; mentre parla rimane sulla soglia, non entra. “ Come vi sentite?” Pronuncia inciampando nelle parole e ne avverte l’imbarazzo. “ La colazione … ma se siete stanca potete...” Continua a rimanere fuori la porta in attesa di una risposta, discreto e sinceramente interessato.
“ Se non … ecco … vorrei alzarmi…” Il cane fulvo, segue quella conversazione.
“ Come desiderate. Sentitevi libera di fare tutto quello che volete. Qualsiasi cosa. Questa è casa vostra.” Sente adagiare quelle parole tra lo spazio che li separa. In quella loro conversazione, un’altra pausa come per raccogliere le idee.
Il silenzio scende nuovamente e quell’attesa la fa sentire obbligata a dare una risposta. Si guarda intorno, spaesata, incredula e in imbarazzo. “Grazie.” Ripete ancora con un filo di voce.
“ Vi aspetto allora. Fate con calma.  Ares vi mostrerà la strada.” Sente nella voce l’accenno di un sorriso, ne ascolta i passi mentre si allontana. Rimane da sola seduta sul letto, con una sensazione di vuoto, mentre lo sguardo curioso ed attento del cane fulvo la osserva. Sembra impaziente di raggiungere il suo padrone e, lei, non vuole farlo aspettare. La notte non ha portato vie niente e nessuno. E’ tutto lì. Questo, la incoraggia a muoversi.
Avvicinandosi all’armadio, lo apre lentamente, con stupore: dentro, appesi ordinatamente e, con cura, gli abiti più belli che abbia mai visto. Allunga una mano per toccarli. Le stoffe sono pregiate, preziose, alcune quasi impalpabili. Abiti che, sembrano usciti da un baule, dimenticato. I colori sono tenui; li osserva, e non ha il coraggio di toccarli. Continua ancora a fissarli, quando sente abbaiare il cane che la ridesta da quella sua contemplazione. “ Non posso. Potrei rovinarli.” Dice sottovoce. Su di una mensola accanto ai vestiti, vi sono dei candidi asciugamani di lino, ne prende uno: ha bisogno di lavarsi.
I passi sono esitanti quando scende i gradini di marmo bianco. Ancora una volta segue il cane fulvo. Dall’armadio ha scelto un abito color lavanda, dal colletto di pizzo impalpabile come l’aria. Ha una lavorazione di fiori e volute di rami. Sembra fatto su misura per lei.  Ai piedi ha delle scarpe con le quali fatica a trovare un andatura stabile, si sente barcollare, ma forse le scarpe non c’entrano nulla. E’ quella sottile emozione che le si insinua sotto la pelle quando lui è nelle vicinanze. La stessa che prova anche adesso che sa che lo vedrà.
Quando entra nella sala, lui è girato di spalle e guarda fuori, verso il giardino.
Nevica ancora. Il cielo è plumbeo e irradia una luce grigia che accentua il bianco della neve.
Si ferma sulla soglia, mentre il cane raggiunge il suo padrone.
Lui lo accarezza senza guardarlo.
“ Lei dov’è?” Chiede sottovoce. Il cane abbaia facendolo voltare. “ Eccovi, siete qui.” Quasi sussurra, per poi aggiungere: “ State decisamente meglio. Vi prego, sedete e mangiate qualcosa.” Indugia con lo sguardo su di lei solo un momento, e in quell’istante, l’ombra di un pensiero lo incupisce. E’ solo un attimo che, però, lo porta altrove, lontano da lì;  poi, rivolge l’attenzione verso la tavola apparecchiata per la colazione. L’aria, è impregnata dei profumi del cibo, e di  tepore.
La invita a sedersi e, si siede di fronte a lei: la osserva. Sul viso un sorriso appena accennato; gli occhi però, sono velati di tristezza che, sembra, occupargli la mente in maniera invadente.
Davanti ha una tazza di fine porcellana, da cui si alza un filo di fumo, segno che il contenuto caldo, è stato appena versato.
La casa è silenziosa, oltre loro sembra non esserci nessuno.
Un lieve senso di disagio la pervade, rimane con il busto eretto e le mani in grembo intrecciate; aspetta qualcosa, un cenno che le faccia capire come potersi comportare.
Sente il suo sguardo, ma tiene gli occhi bassi, continua a farlo anche quando lui si muove sulla sedia.
“ Cosa gradite, del latte o del the?” Si è alzato e attende che lei risponda. Non lo guarda dice solo: “ Del the, grazie.” Ascolta il liquido cadere nella tazza, e osserva la sua mano porgerla.
Le sue tremano quando la prende e spera che lui non se ne accorga, ma il tintinnio prodotto è inequivocabile e la tradisce.  Lui fa finta di nulla e torna a sedersi e il silenzio sembra riempire tutta la stanza.
Il cane fulvo sbadiglia, sdraiato accanto alla sedia del suo padrone.
Le sembra di stare sognando uno di quei sogni talmente vividi da sembrare reali, ma il dolore datole dal the caldo sulla mano la fa trasalire, dandole la conferma che non sta sognando.
“ E’ caldo, mi dispiace. Vi siete bruciata.” Lo vede protendersi verso di lei nel gesto istintivo di volerla aiutare, la guarda negli occhi e aspetta di leggervi un accenno di consenso; quando lo scorge le prende la mano tra le sue. Lo fa in un modo così gentile, che quasi non ne sente il tocco delle dita.
Le osserva la mano, trattenendola tra le sue e assicurandosi che il liquido caldo non le abbia procurato danno.
Immerge allora un tovagliolo candido in un bicchiere e lo avvolge intorno alla mano arrossata. “Così andrà meglio.”
L’acqua le dà immediatamente sollievo, e in quel momento alza il viso e lo guarda, i loro occhi si incontrano, si sfiorano, leggono parole sospese, vite altrove. E’ un attimo, e frammenti delle loro esistenze sembrano combaciare, incastrarsi, incatenarsi: riconoscersi.
Si osservano, curiosi, stupiti, indugiano sguardo dentro sguardo.
Ha gli occhi di un grigio piombo, lo stesso colore del cielo carico di pioggia. Sono leggermente cerchiati, il viso segnato da un velo di preoccupazione; osservandolo così da vicino comprende che qualcosa lo affligge.
Mentre continua a guardarlo riconosce in lui quel dolore che le appartiene; vorrebbe sapere, domandare, essergli di conforto in qualche modo, ma sente morire le parole sulle labbra, mentre tutto torna ad essere distante, intriso di nebbia densa e fumosa. Vede distorcersi le immagini di ciò che la circonda ed è come se venisse risucchiata all’indietro, al centro di un vortice. La testa le gira e rimonta la nausea.
Tutto, quando riapre gli occhi, è scomparso ed è nuovamente in una stanza vuota, silenziosa, immersa in tutto l’abbandono del tempo che è trascorso, tra la polvere e le rovine di ciò che è stato, tra l’odore di muffa.
Non ci sono più né lui, né il cane fulvo, ma continua a sentirli, a percepirli in quella rovina.
Si guarda intorno è ha l’impressione di avere sognato ad occhi aperti, o forse il sogno è quello, quel suo trovarsi in una casa abbandonata, dove a guardare bene le tracce di lui sono visibili ovunque. Quella è la sua casa, il suo mondo, ma ora è lì, preda dell’incuria del tempo che è trascorso inesorabile su tutto.
Si domanda quale sia la realtà, perché si trova in quel luogo disabitato e decadente, che un attimo prima era caldo, accogliente e la teneva al sicuro.
Il suo profumo è qualcosa che le evoca la dolcezza di ricordi che non le appartengono, le sue braccia l’hanno accolta e lei le ha riconosciute come il luogo a cui fare ritorno.
Quelle immagini sono di un tempo che non conosce, ma che le appartiene in un modo di cui non ha memoria, ne fa parte e non riesce a capire, ma è qualcosa che è certa è sempre stato in lei: In quei suoi momenti intrisi di solitudine e di malinconia.
Il vuoto, l’assenza, hanno sempre dimorato in un male sottile che spegneva sorrisi, creava nodi che si scioglievano in pianti che non avevano ragione.
La comprensione del suo dolore è in quel luogo e in quel tempo che sembra giocare con lei ad un gioco perverso e crudele.
Ci sono destini che non sempre si compiono, rimangono sospesi, in attesa, ma il tempo non dimentica ciò che si perde nelle sue pieghe. Le tracce di promesse disattese tornano tra le crepe di pensieri che non smettono di sembrare ricordi, tra quel dolore che sentiamo per qualcosa che non conosciamo.
Si sente come se avesse sognato, preda di allucinazioni e istintivamente cerca di proteggersi stringendo le braccia intorno al corpo e il vestito lilla impalpabile è ancora su di lei e la sua mano è avvolta dal tovagliolo: sotto, la pelle arrossata brucia ancora. La conferma che non ha sognato, ma non riesce a capire cosa stia succedendo.
Si guarda intorno e tutto è silenzio e abbandono, esce dalla stanza dove appena un attimo prima la  tavola era apparecchiata, il profumo di pane e burro impregnava l’aria e la luce del giorno entrando dalla finestra illuminava ogni cosa.
Al posto di quel calore accogliente ora c’è una stanza vuota e si trova immersa nel buio della notte. L’assenza, il vuoto, tiene in ostaggio ogni angolo della casa. I gradini dell’elegante scala sono sconnessi e il marmo rimasto macchiato.
Istintivamente li sale piano, cercando di tenersi alla ringhiera priva di corrimano. Aveva sceso quelle stesse scale per raggiungerlo seguendo il cane fulvo e aveva lasciato scorrere la mano sul legno lucido. Ne aveva apprezzato la superficie liscia. La sensazione sotto le dimora ancora sotto le dita.
Sale a fatica, con il cuore in gola e gli occhi gonfi di lacrime. Non comprende cosa le stia accadendo e come sia possibile, che si ritrovi nuovamente in una casa abbandonata.
Sale per cercare la camera che l’ha accolta, dal cui armadio ha preso quel vestito che le è rimasto indosso.
Quando arriva davanti alla porta, la trova chiusa, l’umidità ha gonfiato il legno e non riesce ad aprirla.
Prova ripetute volte a vincerne la resistenza.
Alla fine riesce e quando entra il cuore le si stringe dandole una fitta di dolore. La muffa ha annerito e consumato. Le lenzuola che lei ricorda candide sembrano il sudario di una tomba, i tarli hanno eroso il legno dei mobili. Nell’armadio non ci sono che brandelli degli abiti eleganti che aveva visto, da cui ha scelto quello che ancora indossa.
Ha un conato, ha bisogno d’aria, di poter respirare. A  fatica esce, ma qualcosa la ferma: il ricordo delle sue parole: “ La mia stanza è in fondo al corridoio …”
La sua stanza è lì ed è determinata a trovarla.
Deglutisce, ricaccia in gola nausea e lacrime e avanza incerta, cercando di orientarsi tra quello che vede.
In fondo al corridoio, un’altra stanza. La porta è caduta dai cardini, dentro, contro la parete di fronte a lei, c’è un comò a cui manca un piede e sopra, un dipinto che ritrae un giovane in posa con indosso un’uniforme elegante. In alcuni punti è macchiato dall’umidità; il viso conserva ancora tratti da fanciullo, segno della giovane età, ma ne riconosce lo sguardo grigio e trasparente.
E’ lui. Più giovane, ma lui.
Si avvicina piano, con timore. Le lacrime le rigano il viso.
Lo osserva e non può credere a ciò che vede.
Perché quello che vede raffigurato nel ritratto non può essere lui.
Nel quadro c’è l’immagine di qualcuno che è poco più di un ragazzo, fiero nella sua uniforme, con i suoi stessi occhi; ma non può essere lui.
Quella ritratta è una vecchia uniforme. Tutto, di quel quadro, rimanda ad un’altra epoca.
Forse qualcuno che gli somiglia, da cui ha ereditato i tratti. Ma non riesce a spiegare l’aggressione del tempo che è trascorso su ogni cosa quando, poco prima, tutto in quella casa era vivo.
 
 
 
 
 
Le mani tremano e sente mugolare il cane fulvo, la fronte è imperlata di sudore, il respiro a fatica torna regolare.
Il profumo di colonia le impregna le narici,
E’ tra le sue braccia, ne avverte la stretta e il calore, il respiro caldo sul viso.
Ha freddo, la neve si posa con i suoi fiocchi sulle gambe e parte delle braccia.
Capisce di essere avvolta in una coperta.
Lui la sta portando in braccio, posa il suo sguardo su di lei, ne avverte l’ansia della preoccupazione.
E’ fuori, nel parco della casa, lui l’ha raccolta addormentata sulla panchina sorretta dai due leoni di marmo.
Il sole e’ sbiadito dietro l’orizzonte.
Non ha la forza di parlare, la testa le gira e le ronzano le orecchie, sente la sua voce e il tono rassicurante, ma non ne comprende le parole.
Il braccio scivola dal suo collo, lasciandone la presa, lo sente fermarsi, la voce concitata, accelera il passo, quasi corre.
Quando entrano in casa, ne percepisce il calore e il profumo.
Lui l’adagia sul piccolo divano di broccato turchese, le scansa i capelli madidi di sudore dalla fronte e la copre con un’altra coperta: “Resta con lei Ares.” Lo sente dire in maniera perentoria al cane fulvo, mentre si allontana.
La bottiglia del brandy tintinna sul bordo del bicchiere, ne sente versare il liquido ambrato e l’aroma la raggiunge quando lo avvicina al suo viso invitandola a bere: “ Bevete, vi farà stare meglio.” Lei ubbidisce a fatica, obbligandosi ad aprire la bocca. “ Da brava, così; bevete. Bene.” Lo ascolta sussurrare.
Il calore si insinua nuovamente nel suo corpo e riprende a circolare nelle vene, colorandole il viso, cancellando il pallore cereo. “ Mi avete spaventato, sapete? Sembravate morta.” Le dice mentre la voce cede incrinandosi per l’angoscia su quelle parole.
Un sospiro profondo riporta il piacere dell’aria nei polmoni, la vista si fa più nitida, gli occhi grigi di lui non smettono di scrutarla.
“ Cosa…?” Articolare quell’unica parola le costa una fatica che non credeva di provare.
“ Non parlate. Riposate. Parleremo dopo.” Sente la sua mano poggiarsi delicatamente sulla fronte. Continua a guardarla preoccupato, negli occhi domande a cui non trova risposte, le stesse che legge sul suo viso pallido e segnato.
E’ esausta, gli occhi cerchiati, le mani ancora sono percorse da un tremore lieve. Lui non la lascia un momento, le si è seduto accanto.
“ Vi va qualcosa di caldo?” Le domanda quasi timoroso che la sua voce possa ferirla.
Lei fa cenno di si. “ Mangerei volentieri la minestra.” Dice piano arrossendo.
Lui sorride, sollevato. Le prende la mano tra le sue e la sfiora con le labbra in un bacio discreto.
“ E minestra sia.” Il sorriso gli illumina il viso, e gli occhi si accendono. Lo vede scomparire oltre la porta.
Nel camino il fuoco danza al suono dello scoppiettare della legna.
Il tepore l’aiuta a fare riaffiorare i ricordi: l’assenza, il silenzio, l’odore pungente di muffa.
Le mani stringono le coperte nel tentativo istintivo di rimanere ancorata a quel luogo il più a lungo possibile.
Non sa quanto tempo sia passato, non lo sa mai ogni volta che tutto ritorna.
Tra la nebbia della mente le si insinua la sensazione di una mattina  calma e tranquilla,  di una tavola su cui è stata adagiata una tovaglia bianca finemente ricamata, una tazza fumante, la sottile emozione che il suo cuore le palesa ogni volta che lui le è accanto. La mano che le trema e rivela ancora il tovagliolo avvolto a mo di fasciatura.
Lo vede tornare e quando la guarda lo sguardo gli si dilata di sollievo: entrambi sono ancora li, uno di fronte all’altra.
“ Siete … qui. Temevo … di non trovarvi.” Lo guarda, è come se avesse fretta di tornare a sederle accanto.
Sul vassoio le stoviglie tintinnano urtando tra di loro, mentre le poggia. Il profumo le solletica le narici, le fa gorgogliare lo stomaco. Istintivamente la mano si poggia a cercare di placare quel languore e si sente arrossire.
Lui la guarda e cerca di mitigare l’imbarazzo che le ha colorito il volto, adagiandole  la propria mano sulla sua.
Un gesto audace, che richiederebbe una conoscenza maggiore ne è consapevole, ma in quel loro incontro nulla segue la logica di ciò che può essere compreso.“ Dove … andate … ogni volta?” Le domanda tenendo gli occhi nei suoi. La voce è bassa, ma tradisce l’ansia di un’emozione.
“ Continuo a restare qui, ma … tutto … è, diverso.”
“… Diverso?”
“ Si…” La sente esitare, rimane a guardarla cercare parole e respiri. Nella voce la traccia di un affanno, come se avesse corso. “ … E’ come se tutto fosse abbandonato, come se non ci abitasse nessuno da tanto tempo.”
“ Vi spaventa. Avete paura?” Lo sguardo si vela di tristezza.
“ Si. La desolazione è ovunque …  la tristezza … sembra che ogni cosa sia …” Non riesce a finire la frase, il pianto le serra la gola, gli occhi si riempiono di lacrime. Lo sente stringerle ancora di più la mano.
“Non vi dovete sentire obbligata a parlare se non volete.”
“ E’ lacerante. Una sensazione di vuoto e perdita che non riesco a sopportare.”
“ E’ lo stesso per me, ogni volta che andate via.” Le parole escono inaspettate, ma non si pente di averle dette, si rende conto mentre le pronuncia di quella nuova realtà. Lei lo guarda, lo sguardo incredulo, le mani che tornano a tremare. Lui le prende tra le sue. Vi poggia sopra le labbra calde e morbide, ne percepisce il ruvido della barba. Quando si avvicina il suo profumo le dà una vertigine, la rassicura e nello stesso tempo è come se qualcosa le dilaniasse il cuore. Un dolore, quel dolore che porta in se da sempre, è di nuovo lì con lei, ma mille volte più forte e potente.
“ Ti perdo … ogni volta.” Sussurra quasi a se stessa, come una rivelazione. “Ti perderò … sempre e per sempre.” La voce rotta dal pianto.
Lui la guarda e le si fa ancora più vicino. “ Sono qui, adesso. Siamo qui insieme.”
“ Perché?” Chiede a fior di labbra. Fissandolo negli occhi.
“ Io non lo so. So solo che sei sempre stata in ogni mio pensiero, in ogni attesa; inconsapevole , desiderata amata.”
“ Ma come è possibile, non mi conosci … non ti conosco.” Lo vede sollevare le spalle e dilatare lo sguardo.
“ Io, davvero, non lo so.”
“ Cosa pensi che accadrà. Cosa succederà … credi?” la sua mano ha dita lunghe e affusolate che le si poggiano sulle labbra, per cercare di spegnere quel timore che le sente nella voce, nell’ansia che le allarga lo sguardo. Come se non pronunciate le parole non si possano compiere.
“ Siamo qui adesso, insieme.”
“ Si ma … dopo, cosa accadrà? Per quanto ancora io, noi…”
“ Non importa, davvero. Non importa adesso. Sei qui, ti vedo, mi vedi, le nostre mani si toccano … io ….” Lo vede muoversi impercettibilmente verso di lei, esitare come a valutare a fondo il gesto successivo. Lo percepisce parte di se, in ogni fibra del suo essere. Lo vede distogliere lo sguardo dal suo, abbassare gli occhi e sospirare profondamente. Si trattiene e il gesto di assottigliare le labbra le dà la misura di quanto sia combattuto. Non vuole ferirla, offenderla. Non vuole che tutto diventi più difficile, ma non riesce a rinunciare a quei momenti tra di loro. Desidera afferrarli, assaporarli, non vuole rimpianti, ma solo ricordi. Dolci, teneri, malinconici, ma è risoluto a costruirli, anela che rimangano memoria almeno in uno di loro due. Sa che non potrà fare promesse e non ne vuole. Per loro non c’è che quello, non ci sarà altro, lo sa, ma non gli importa. Qualunque cosa sia, gli va bene così. Non è il tempo delle domande e delle parole. Quello è semplicemente il loro tempo, quello che gli è stato concesso e non ha importanza il perché non segua la logica e le regole comuni. Lei è lì davanti a lui, tremante, stanca ma lo ama e la ama.
Le poggia le mani sui fianchi, sotto le dita la seta del vestito impalpabile come le ali di una farfalla, la tira a se dolcemente mentre le si avvicina; i capelli le profumano di vento e neve. La respira come a volerla nascondere nel profondo della sua anima. Quando apre gli occhi si ritrova riflesso infondo a quelli di lei e capisce che è sempre stato lì. Nascosto tra le pieghe di quell’anima tristemente inquieta come la sua. La guarda incredulo e riconoscente.
E lei è lì nei suoi occhi, adagiata da sempre nel suo sguardo grigio, che non ha mai guardato veramente nessuna, mai amato veramente nessun’altra che lei. Lo sa. Ora tutto ha un senso. Quella perenne attesa, il vuoto che non riusciva a colmare, quella ricerca di silenzio in cerca di risposte.
Il  respiro si mischia a quello caldo di lei. Ma ancora esita in quel gesto voluto, cercato e desiderato, comprende ora da tutta la vita.
Continua a guardarla invaso da una timidezza che non conosce, che non immaginava di poter provare. Il calore di lei sotto le dita lo raggiunge oltre la stoffa impalpabile del vestito. Incerto, prolunga quel momento tra di loro in una sofferenza sottile che attraversa tutto il corpo.
La decisione, dolce e sofferta, desiderata e attesa, è presa e lo spinge ad azzerare la distanza tra di loro.
Le labbra si sfiorano, i battiti del cuore sembrano fermarsi per poi riprendere impazziti.
A lei è come se mancasse l’aria, le mani si sollevano come a cercare un appiglio, lui si allontana quel tanto per permetterle di guardarlo negli occhi.
Le mani allora trovano approdo sul suo viso, le dita scorrono sulla barba, seguono la linea del naso, accarezzano la fronte ed i capelli morbidi. E’ come se volesse imprimere il suo viso sotto le dita. Ma si rende conto che la memoria di quei tratti è già in loro.
Le sue mani lo conoscono, ne conservano un ricordo, celato tra le pieghe della sua anima.
Lei appartiene a quel posto, a quel tempo, in un modo che non sa spiegare, appartiene a lui.
Lui le sorride e torna a poggiare le labbra sulle sue.
Questa volta in un bacio che è inizio e fine, attesa e arrivo, promessa e addio.
Assaporarsi, riconoscersi, sentire di tornare a casa respirandosi,  fondendosi l’una nell’altro, diventando una sola persona, un unico sentire.
Le distanze, tutte le distanze si annullano e il tempo tra di loro fluttua e poi si ferma sino a diventare immobile, per un breve infinito istante, rallenta fino quasi a fermare il suo moto perpetuo in quel luogo, racchiudendo tutto l’universo nello spazio condiviso dai loro corpi; testimone muto della promessa che si compie.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La neve non cade più si è trasformata in pioggia che, osserva scivolare sopra i vetri;
Scivola lentamente verso il basso.
Questo risveglio ha un sapore diverso, qui l’incuria del trascorrere del tempo ancora non ha preso il sopravvento
Ma lui non c’è, neanche il cane fulvo appare per rassicurarla. Tutto è immerso nel silenzio.
Lenzuoli bianchi coprono il mobilio.
“Lui non c’è”, si ripete mentre si guarda intorno, con il cuore in tumulto.
Non sa come il tempo si muova in quel loro mondo tanto strano.
Non riesce a capirlo.
Comprende solo che, in quella casa, la sua assenza è come una cicatrice. Si guarda intorno: è già qualche giorno che si sveglia e aspetta di vederlo comparire da un momento all’altro. Il suo profumo è ancora nell’aria, lo percepisce in quella nota così particolare. Non ha ancora accusato lo strano malessere che l’ha condotta lontano, in quel luogo d’abbandono e desolazione, ma sa che esiste, che rimane in agguato e può da un momento all’altro tornare ad essere la sua realtà, differente e brutale, così diversa da quella che l’accoglie in quel momento.
Lui non c’è, ma non sembra che manchi da troppo tempo, è solo che non hanno avuto modo di sapere molto l’una dell’altro e lei non sa.
Non sa se tornerà o se in serbo per lui c’era altro.
Torna ad avere paura, ad abbracciare lo smarrimento e l’inquietudine. Quel loro destino, tanto strano e irreale si è dipanato dal dolore che sente avvolgerla e stringerla in qualsiasi movimento, ad ogni respiro.  Sa che da sempre è ostaggio di attimi che fatica a trattenere.
Il sapore dei suoi baci è ancora sulle sue labbra, il tocco delle mani, il profumo che ancora l’avvolge,
sublimato in quella lunga attesa. I suoi occhi grigi le mancano da sempre.
Tutto questo è reale? Guardandosi intorno, cerca conferme e spera di poterlo vedere comparire.
Il silenzio che ha dimorato in lei, in modo doloroso è ovunque,  le si insinua sotto la pelle sin dentro le ossa.
Di lui non riesce a percepire più la  presenza.
Sapeva, aveva sempre saputo, lo aveva aspettato e rimpianto ogni giorno, lo aveva cercato negli occhi di chi la guardava, senza mai trovarlo.
Lui era sempre stato lì e, come lei, aspettava separato da quel mondo che si ostinava a scandire il movimento monotono delle stagioni, senza di loro.
Divisi, lontani, ma uniti dallo stesso sentire, dalla stessa consapevolezza di vivere incompleti.
Non è mai rimasta così a lungo.
La casa è vuota, desolatamente, irrimediabilmente .
Lo sconforto misto a rimpianto lo conosce, mentre la preoccupazione di sapere e capire, si insinua  tra i pensieri.
Lo scialle l’avvolge, lo stringe accostandolo maggiormente e dietro i vetri osserva la pioggia cadere, in quella sospensione, che è speranza e condanna.
Aspettare; aspettarlo. Perché ora sa che da sempre infondo a quell’attesa c’era lui, la sua voce calma e vellutata come una carezza, il suo profumo, il colore grigio dei suoi occhi trasparenti.
Ma l’attesa è sempre stata intrisa di quell’ansia sottile, un timore che le toglieva il respiro, che avvolte diventava paura angosciante: terrore.
Adesso sa che infondo a tutto c’è il suo viso; era sempre stato lì, ma non poteva vederlo, ricordarlo.
Il ricordo era sepolto dentro quella promessa che aveva intersecato rette, ricongiunto punti, per arrivare fin lì, dove erano diventati un solo respiro, un solo ricordo.
Appartenere a quella realtà, la medesima per entrambi: non pensava di poter essere riconoscente a quello strano destino, eppure se ne sente beffata. Ancora una volta, l’ennesima.
L’orologio rintocca sulla mensola tutto il vuoto che la circonda.
Lo sa, nel suo cuore lo ha sempre saputo: lui non verrà, non verrà più, e il dolore che ascolta, lo conosce, perché le parla da sempre di quella mancanza, nel rimpianto e nella rassegnazione.
Lui non c’è e non ci sarà, non sarà più per lei, per quel tempo e per nessun altro tempo.                                                                                      
Semplicemente, non sarà; forse di loro non rimarrà che l’eco di quel riflesso, comparso come pioggia su di un vetro destinato a frantumarsi, disperdendo frammenti che continueranno a riflettere tracce di loro.
 
 
Pensa a questo quando la vertigine torna a strapparla a quella malinconia.
Lo fa con spietatezza, senza fare sconti, portandola via definitivamente da quel mondo fatto di tutto quello che lui rappresenta, dove resterà per sempre l’assenza e l’impronta delle loro vite che sono riuscite appena a sfiorarsi.
La vertigine le riporta l’incapacità di muoversi, annebbiandole la mente, togliendole le parole.
La nausea torna e con lei l’odore pungente di muffa.
Quando riemerge dal buio tutto intorno a lei è segnato dall’ineluttabilità di ciò che è stato, che non può più tornare ne essere.
Trovare la forza di camminare e respirare è qualcosa di doloroso e vorrebbe non farlo, ma è come se una forza che non riesce a contrastare decidesse per lei, costringendola a gesti che sente slegati da ogni volontà.
Torna a salire le scale e come seguendo un filo invisibile si ritrova in una stanza dove tutto le parla di lui, vecchie immagini incorniciate in riflessi anneriti d’argento lo ritraggono in posa.
I sorrisi sono appena accennati, macchiati dall’umidità e la tristezza negli occhi. Con gesti lenti, come se le mani sapessero cosa fare cerca sotto il bordo della scrivania, facendovi scivolare sopra i polpastrelli che si fermano solo quando incontrano il freddo di una chiave.
Quando la sente scattare dentro la serratura, le lacrime le pungono gli occhi e un nodo le stringe la gola.
Il cassetto si apre piano, la busta ingiallita, è sistemata con cura e reca la scritta: “ Per Te”.
Le mani tremano e lo sguardo le si dilata, esita  a prenderla; quando lo fa è come se una scarica elettrica l’attraversasse.
E’ sul sedile di marmo sotto la grande quercia che decide di leggerla.
Le parole scritte la raggiungono trafiggendole il cuore.
 
Non posso fare a meno di essere riconoscente.
Essere grato a tutto questo, a quello che abbiamo e avremo per sempre.
Per quanto faccia non riesco a spiegare questo fato benevolo, ma non importa capire il perché di un  regalo inaspettato e desiderato.
Quando leggerai, se mai lo farai, sappi che ti scrivo con l’anima dilaniata dal terrore di non rivederti, di non trovarti la prossima volta che aprirò gli occhi.
Forse non sarò che assenza, vuoto e desolazione in questa casa, quando tu tornerai.
Devo, ho bisogno di dirti, che voglio che tu sappia quello che non sono riuscito a pronunciare.
Spero, con ogni parte del mio essere che sarai qui, a cerare risposte, e comprendere.
Mi ritroverai, ne sono sicuro, ho bisogno di credere che sia così.
Forse non sarò accanto a te, ma poter solo sfiorare questo tempo tra di noi, mi da  la certezza di riuscire a  tornare da te, raggiungerti, anche se sarà solo per un attimo; è questo l’unico desiderio.
Non potrò proteggerti, prendermi cura di te, e questo pensiero è insopportabile.
Saperti da sola, e senza speranza, mi tormenta e lacera.
Tornerai, perché la promessa dovrà essere mantenuta, qui dove noi siamo e saremo per sempre.
Mi hai chiesto: “perché. Perché a noi?”
Non ho risposte, solo che dovevamo essere l’uno il destino dell’altra nella promessa disattesa di un tempo che non dimentica.
Perché il tempo non può dimenticare.
Se non torneremo, porto in me la felicità di questi attimi, ricordi custoditi gelosamente nel cuore.
Le parole che vorrei dirti, tutto quello che sento, sono racchiuse in questo mio addio.
Affido, questi pochi pensieri a quel destino che ti ha condotto fino qui, sperando te le consegni.
Sappi che ti ho amata, anche quando eri in me solo come una promessa.
Se questo tempo, se tutto il tempo non tornerà più, se le sue porte non si apriranno ancora, allora sappi che le ombre nei miei occhi erano il timore di vedere le tue lacrime.
Non ho avuto il coraggio di dirti che, il mio destino, è in un campo di battaglia.
Non ho voluto e non ho potuto, oscurare questi nostri momenti così fragili, brevi, pronunciando un addio.
Se tornando non mi troverai, è perché  forse non sono più.
Una guerra mi stava reclamando a gran voce, mentre arrivavi da me.  
Ti amo adesso, che sei qui accanto a me e ti guardo dormire, ascoltando il tuo respiro.
Ti amerò sempre e per sempre, ovunque, comunque; sei la sorpresa, la promessa, il riscatto a tutto quello che è stato e sarà.
Perché non posso dimenticare, non potrò e, mai, vorrò farlo. Perché siamo sempre stati in un altrove, lontano, ma solo nostro, imperscrutabile e inaccessibile.
So che il vuoto che portavo in me come un male fisico era la tua assenza. Sentivo la tua mancanza; so, adesso, che a mancarmi, era il tuo viso, il profumo dei tuoi capelli, la tua pelle, il sapore delle tue labbra.
Non dimenticheremo,
Saprò trovarti sempre.
 
 
 
Tra le mani, il foglio leggero pesa come se fosse di piombo. Non riesce quasi a distinguerlo, tra le lacrime.
La sofferenza aggrappata al cuore come.
Infondo alla busta, una delicata catenina d’oro, trattiene un cammeo, la piccola chiusura scatta e all’interno è custodita una minuscola ciocca di capelli.
Le dita esitano tremando prima di sfiorarli.
Stringe l’oggetto delicato tra le mani e poi lo aggancia intorno al collo.
Non ha più niente che la trattenga lì, ha solo il bisogno di trovare una conclusione a quel racconto.
Il piccolo cimitero ha lapidi annerite che un tempo erano state di candido marmo.
Nomi, date, e vecchie fotografie.
I nomi sono ricorrenti, i cognomi uguali accostati alle volte con alcuni differenti.
Riposano tutti lì, erano stati una famiglia.
Cammina tra quelle tombe cercando quel volto a lei caro, quei tratti familiari.
Lo trova poco distante dal resto delle lapidi, sulla sua campeggia la figura di un soldato con la camicia aperta sul petto e uno sguardo greve di dolore per la ferita e la consapevolezza di stare dicendo addio alla propria vita.
Sotto una citazione che riporta a gesti eroici, un nome la sua fotografia e due date “1881-1918”.
Le dita accarezzano l’immagine così cara, raccolgono un bacio che viene depositato sull’immagine di quel volto amato.
 

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