Occhi come carboni ardenti

di Ragazzamagica
(/viewuser.php?uid=500600)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sull’orlo del dirupo, sarò io stesso a darmi la spinta ***
Capitolo 2: *** Prima di auto-sabotarmi, vi chiederò il permesso ***
Capitolo 3: *** Farò mia l’unica certezza di questo mondo ***
Capitolo 4: *** Ringhiatemi contro, e io vi mostrerò la tenera carne ***



Capitolo 1
*** Sull’orlo del dirupo, sarò io stesso a darmi la spinta ***


» “Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it”
» Prompt: Occhi


 

 

OCCHI COME CARBONI ARDENTI

 

Capitolo 1: Sull’orlo del dirupo, sarò io stesso a darmi la spinta

 

“Samuel Filder?”
Samuel sorrise, dondolandosi con leggerezza da un piede all’altro. Era un sorriso goffo e impacciato, che indossò per fare bella figura. Ci teneva, a fare bella figura.
“E così vorresti proporti per servire nel nostro fast food, eh?”
L’omone seduto difronte a lui lo fissava negli occhi, l’aria annoiata.
Samuel non avrebbe potuto immaginare un uomo diverso a gestire un fast food: grassottello, tediato dagli sbarbatelli come lui, deciso a godersi la bella vita mentre gli altri lo portavano ancora più in alto. Quegli occhi porcini gli piacevano molto: proprio il taglio dello sguardo caratteristico di un individuo gretto e meschino.
Riusciva persino a intravedere qualche briciola di chissà quale cibo unto dispersa nei suoi folti baffi. In effetti, non si era nemmeno curato di comporre un’immagine distinta e professionale per lui, miserabile candidato, o di dargli una sedia per sedersi.
Gli aveva fatto davvero un’ottima impressione.
Per questo allungò il suo sorriso solerte, proprio come ci si aspettava da lui. Era perfettamente nel personaggio.
“Sì, signore. Non vedo l’ora di servire ai vostri tavoli, in tutta sincerità”.
Il folto e spettinato sopracciglio dell’Omone guizzò verso l’alto, rivelando una punta di interesse insolita.
“Ma non mi dire! E da quando in qua una persona dovrebbe avere tutta questa passione di servire ai tavoli? Non sarai mica come uno di quegli stramboidi che riesce ad individuare in questo lavoro un ideale più alto…” E le sue labbra untuose si mossero a proseguire quella che aveva tutta l’aria di essere una filippica verso giovani pieni di belle speranze.
“Assolutamente no, signore” lo interruppe Samuel. I suoi occhi color nocciola si schiarirono appena. “Penso che questo sia uno degli impieghi più noiosi e insopportabili che una persona possa fare nel nostro secolo. Ma è proprio per questo che mi ci sono proposto”.
L’Omone ebbe un’esitazione, poi scoppiò in una grassa risata, grassa almeno tanto quanto lui.
“Non ho mai sentito una presentazione peggiore di questa. Stai deridendo il mio locale e l’occupazione che andrai a rivestire. Perché dovrei assumerti?”
Samuel rispose con prontezza.
“Perché vi servono dei camerieri gentili, disponibili e veloci, e io lo sono. E magari delle persone che abbassino la testa ogniqualvolta voi lo desideriate. Ecco cosa potrei fare io per voi
.
L’Omone lo scrutò, scettico.
“Perché sono un buono a nulla”. Il sorriso di Samuel si estese, mostrando i suoi denti tinti appena dal giallo. “Non un giovane ambizioso, deciso a fare la differenza. Sono senza spina dorsale e non ho un soldo. E sono proprio ciò che serve al vostro locale. Carne fresca e molle, da modellare come più vi piace!”
Si ritrovò a fissare la bocca dell’Omone, spalancata a formare una “o” di genuino stupore.
“Giorno e notte, non farei altro che pensare alla giusta derisione dei clienti, che incasserei senza alcuna esitazione. Baderei senza un lamento alle macchie di coca-cola lasciate sui tavoli e luciderei tre volte all’ora il vostro pavimento a scacchiera. Non potrei riconoscermi di più nel ruolo che voi mi state offrendo!”
Samuel era consapevole di aver usato un tono pomposo ed enfatico, adatto a calcare il suo entusiasmo nelle faccende più umili.
Grazie al suo atteggiamento da vincente-perdente, l’Omone lo stava guardando con occhi diversi, perché lui aveva portato una ventata di docile sottomissione nel suo ufficio troppo abituato alle vuote pretese di diritti e alle lamentele.
Samuel era perfettamente consapevole di che genere di sottoposti avesse bisogno quel pover’uomo.
In barba a tutti quegli ingenuotti e al loro insulso ottimismo, lui non desiderava niente di più che chinare il capo e perdere, fallire, distruggersi!
E di questo era più che riconoscente al suo nuovo capo!
“E col vostro permesso, questo buono a nulla inizierebbe anche subito!”
Attese pazientemente che lo stupore nel volto porcino del capo si attenuasse, mentre suo malgrado si congratulava con se stesso per l’ottimo risultato raggiunto.
Quello era soltanto l’inizio della sua pregevole opera di auto-distruzione.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Prima di auto-sabotarmi, vi chiederò il permesso ***


» Prompt: Permesso
 

Capitolo 2: Prima di auto-sabotarmi, vi chiederò il permesso
 

Esattamente secondo le sue aspettative, Samuel Filder era stato ammesso e riconosciuto fra i camerieri senza valore di quel fast-food.
L’Omone, suo stimato capo, aveva capito subito chi fosse lui realmente: un giovinastro patetico e senza speranze.
E infatti eccolo lì, a ricoprire la mansione in quel locale decadente e pieno di gente decaduta, decisa a rimpinzarsi di cibo grasso e untuoso come se fosse l’unica cosa in grado di offrire un po’ di quiete nelle loro vite.
Se si fosse trattato di madri premurose e padri provvisti di senso della misura, non a uno solo di quei pargoli sarebbe stato concesso di inquinarsi tra quelle pareti odorose di cibo fritto, giorno dopo giorno.
Invece, i bambini ingerivano sale, olio e viscidume mentre i genitori si ricordavano l’un l’altro quanto facevano schifo a gestire le loro vite e a reggere le squilibrate fondamenta della loro unione familiare.
Samuel Filder non avrebbe potuto essere più felice.
E poi, l’atmosfera del colloquio gli era piaciuta moltissimo. Proprio ciò che cercava.
Gli dava un’idea di “sogni accantonati come vecchie patatine ammuffite”.
Onestamente, non vedeva l’ora di scrollarsi di dosso tutte le ambizioni che aveva avuto, dando loro la fine che meritavano: il water sudicio dell’angolo più trascurato del fast food “Crispy Delights”, dove l’odore di cibo fritto appestava l’aria e i pattini delle cameriere rigavano il pavimento a scacchiera.
Samuel riemerse dal suo confronto con la tazza del gabinetto sentendosi rinascere. Ogni giorno poteva essere un nuovo modo per fare a patti con le velleità da ragazzo e riconoscerne la vacuità.
La cosa importante, nella vita, era rendersi conto di aver fatto il passo più lungo della gamba e dichiararsi pronti ad indietreggiare, accontentandosi delle opportunità più infime che c’erano.
Samuel si ripulì la bocca dalle strisce di vomito con il polsino della sua nuova divisa.
Osservò con orgoglio il grumo acidulo, ora impresso sul candore della tenuta come un distintivo. Presto si sarebbe trasformato in un’ostinata incrostazione.
“Samuel! Puoi venire un momento?”
E Samuel accorse, solerte.
“Mi dica” cinguettò alla sua collega. Fece in tempo a distinguere un’elegante coda di cavallo bionda affiorare da sotto il cappello bianco, prima di fissare lo sguardo ai suoi piedi: pattini a rotelle fucsia. Poi si mise ad ammirare un punto lontano con aria stupida.
“Per favore, pulisci i tavoli di quella sezione, sta arrivando un’orda di clienti”.
Soltanto una manciata di secondi dopo, Samuel si rese conto che gli stava passando lo straccio e la soluzione detergente.
“Ai suoi ordini!” rispose Samuel, rivolgendosi al canovaccio.
Afferrò gli attrezzi del mestiere e si allontanò in direzione dei tavoli con passo spedito.
L’atteggiamento che aveva era talmente imbarazzante da farlo quasi commuovere.
Non si fermò a vedere, ma immaginò con precisione la reazione perplessa della donna. Si sarebbe certo chiesta cosa avesse nel cervello prima di affrettarsi a tornare ai propri compiti.
 
Il turno finì in fretta. Durava solamente otto ore, perciò Samuel a malincuore dimise la divisa che aveva portato con orgoglio per tutta la giornata e si fermò a contemplare il proprio operato. Era solo il primo giorno e già sembrava che i colleghi lo tenessero a distanza, rivolgendogli qualche cenno vacuo giusto per indagare i suoi movimenti e non incrociarlo lungo la loro strada.
A un paio di quelli aveva chiesto la possibilità di ripulire la loro uniforme, lasciando imbrattata la propria – e nel vedere lo scetticismo crucciarne i volti, il suo cuore aveva mancato un battito dalla gioia.
Compiaciuto, Samuel recuperò i suoi scarsi effetti personali dall’armadietto e si preparò a varcare la porta d’ingresso, rivolgendo un cenno d’intesa al suo vetro opaco e alla cornice di metallo compromessa da graziose chiazze di ruggine.
“Che posto fantastico” commentò Samuel, per poi rendersi conto che l’Omone lo stava fissando a breve distanza dalla porta.
“Signore! Siete sicuro di volermi mandare a casa? Davvero non volete che mi trattenga per fare, magari, qualche altra ora di straordinario?”
“Me lo hai già chiesto trecento volte oggi, Filder. No, non ho necessità che tu rimanga oltre oggi. Stiamo chiudendo! Fila a casa, oppure ti darò il permesso di andarci a pedate!”. Eloquentemente, indicò lo stivale destro, cosparso di piccole isole di unto indurito e macchie di grasso abbarbicate sulla tomaia.
“Siete un uomo fin troppo magnanimo!” sospirò Samuel estasiato, prima di lasciare quel meraviglioso ambiente cosparso di melma appiccicosa dietro di sé.
Essere così servizievole gli ricordava il filo conduttore che aveva legato gran parte degli episodi della sua vita: chiedere sempre il permesso. Per potersi riposare, per poter abbandonare i suoi compiti, per poter andare fuori a giocare quando era ancora un bambino… così come per ricevere un altro schiaffo da sua madre, per rimanere intrappolato nella sua stanza un giorno in più rispetto alla punizione prestabilita e per poter saltare la cena la terza sera di fila.
Innalzarsi sempre al di sopra delle aspettative degli altri aveva un che di esaltante. Era come una lotta di potere in cui lui aveva sempre il piacere di dare agli altri la vittoria.
Quella sensazione di totale abbandono gli ricordava che lui era lì per lucidare l’ego di chi gli stava accanto e per incassare colpi su colpi, mantenendo un sorriso spensierato.
E quando gli rispondevano che no, non c’era più bisogno del suo aiuto, Samuel insisteva finché la condiscendenza e l’ammirazione non si trasformavano in rabbia verso il suo insopportabile servilismo.
Consensi, licenze e congedi venivano dapprima elargiti con gioviale entusiasmo, per poi essere l’unica via di fuga per sbarazzarsi di lui.
Gli innumerevoli “Posso? Posso? Posso?” pronunciati da Samuel erano il ritornello intonato apposta per la sua esistenza. Nessuno aveva la pazienza e le energie mentali per dettare ogni sviluppo della sua vita.

Visto che non c’era più nulla da fare, Samuel aveva due ore di pausa prima di indossare i suoi panni da guardia di sicurezza notturna.
Dispiaciuto di avere persino del tempo libero, si accontentò di impiegarle nel modo meno costruttivo che gli venisse in mente: starsene su una panchina ad appena cinque metri dal Crispy Delights, e aspettare che il tempo passasse.
Pur essendo un tipo di contemplazione studiata per non avere nessun significato, Samuel non poté fare a meno di far vagare la mente. L’ostinazione del suo intelletto nell’inseguire pensieri con una vaga parvenza di senso avrebbe potuto essere ammirevole, se solo non fosse stata fastidiosa.
Tra le altre, inutili cose, rammentò il suono argentino dei pattini dei camerieri.
Pattini che, curiosamente, a lui non avevano consegnato… ma si sentiva anche più felice nel constatare che gli riservassero un trattamento diverso. E benedisse il suo capo per la lungimiranza con cui lo aveva onorato fin dal suo primo giorno di lavoro.
Era così che doveva essere trattato.
Chissà, forse per tutta quella gente al fast food c’era davvero una speranza. Non li avrebbe definiti tutti già morti dentro… gli sarebbe dispiaciuto essere così severo con loro. Perché essere così cattivi col prossimo?
Eppure, non c’era speranza per lui.
Accogliendo a sé quella piacevole scoperta che lo aveva accompagnato ogni giorno, da due anni a quella parte, Samuel sorrise e si godette il suo inutile rimanere seduto sulla panchina a fissare il vuoto.
Non c’era più spazio per le riflessioni sul futuro.
Una sola volta aveva provato a svincolarsi dalla regola del chiedere permesso.
Ed era stato il tonfo più grande della sua esistenza.
Gli piaceva quel presente grigio e informe.
Che senso aveva fare piani, progetti? Un giorno le fiamme avrebbero comunque spazzato via tutto quanto.
Aprì gli occhi e fissò la sagoma plastica del diner Crispy Delights.
Monotonia, ripetitività e pochezza: la ricetta perfetta per lasciarsi tutto alle spalle, ridotto con puntualità a cumuli di cenere.
“Niente che prometta di rimanere, nevvero?” trillò con allegria, rivolto a se stesso.
Lui avrebbe ballato su quelle ceneri, ringraziando qualsiasi entità ultraterrena avesse deciso di somministrargli una punizione così potente e giusta.
Alla fine, si permise di lasciare la panchina: l’unica cosa che poteva ancora scuoterlo era ricordare, e proprio per questo doveva impedirselo.
Per il resto, sopportava tutto quanto e amava tutto quel che doveva sopportare.
Si incamminò in direzione del caseggiato su cui doveva vigilare, fischiettando un motivetto allegro e impostando un’andatura persino più sgraziata del solito.
“Potrò avere il vostro permesso di boicottare la mia esistenza, invocando con umiltà la vostra clemenza?
Non potendo decidere alcunché, mi proclamerò, infine, il vostro lacchè”.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Farò mia l’unica certezza di questo mondo ***


 » Prompt: Cura
 

Capitolo 3: Farò mia l'unica certezza di questo mondo
 

I vicoli stretti e bui instillavano paure primordiali nei cuori degli uomini.
Uomini inclini a credere all’incubo, inscenato nel suo più fidato teatro: la notte inoltrata.
Samuel non sapeva se considerarsi fra questi.
Certo, lo scenario cupo in cui stava passeggiando, avviandosi lungo il solito sentiero che precedeva il caseggiato, non era dei migliori.
Curiosamente, deglutiva spesso. Come se strani timori si stessero sedimentando all’imbocco della sua gola, prima di esercitare tanta forza da richiedere di essere trascinati giù.
Aveva taciuto il motivetto che stava intonando, sentendo lo stomaco contorcersi alla vista delle innumerevoli ombre.
Altro che guardia di sicurezza notturna: la notte, con tutte le sue stranezze, era la vera guardiana. E Samuel sentiva i suoi occhi livorosi puntati su di lui. Cupi e beffardi, sembravano preannunciare la sua rovina.
Naturalmente non aveva paura.
Lui era lì per proteggere, per difendere… e se nel compito se la fosse vista brutta, tanto meglio.
“Il mio compito è incassare i danni al posto di altri. Gli altri non devono ferirsi. Io invece posso… devo” rimuginò fra sé, mentre la luna si affacciava sui suoi pensieri.
Dolorosamente chiaro.
Per questo Samuel, malgrado accusasse tremori lungo tutta la spina dorsale, si avviò verso la sede che gli era stata assegnata.
“Non fare così, non tremare. Ricorda che qualsiasi cosa orrenda ti capiti sarebbe più che gradita” si rimproverò Samuel, dandosi un colpetto di avvertimento sulla zucca. Il ritorno sordo del suo cranio gli segnalò di aver recepito il messaggio.
La luce del lampione era a singhiozzi. Samuel entrò nel suo cono di luce intermittente e ne uscì, di nuovo imbevuto di oscurità.
Il familiare gruppo di case – certo, familiare da solo una settimana – comparve nel suo campo visivo.
Con la schiena appoggiata ad un muretto, c’era il suo compagno.
Forse le loro chiacchiere avrebbero potuto accendere una tenera fiammella per tenere lontani i mostri mentali.
Samuel scosse inavvertitamente il capo pensando alla parola “fiammella”. No, piuttosto avrebbe preferito la più cupa delle notti.
“Samuel” lo salutò l’uomo, in perfetta tenuta da vigilante. Asciutta, pratica nei movimenti.
“Finnegan!” esclamò Samuel, con un sorriso spensierato. “Rieccoci qui, a presidiare con lealtà”.
“Non so come fai a tollerare questo lavoro, Samuel. Sto morendo dalla voglia di farmi una bella dormita”.
“Puoi, se vuoi. Posso occuparmi io…”
“No, no. Non voglio rischiare rimproveri o, peggio, il licenziamento. Piuttosto, vedo che fai sempre la strada peggiore per arrivare qui. Senza illuminazione, senza un segno di vita. Ti metti apposta nei guai? Il lavoro di guardia notturna ti ha fatto venire un delirio d’onnipotenza?”
Samuel lo guardò stupefatto, gli occhi castani che catturavano quel poco di luce che c’era.
Emise una risatina. Un’altra ancora.
Cercò di trattenersi.
Poi scoppiò a ridere di gusto.
“Delirio d’onnipotenza!” ripeté Samuel, che si piegò in due.
Il lungo silenzio che seguì, interrotto solo dalle sue risate sempre più deboli, gli procurò un piacevole imbarazzo.
“No, scusa, è che mi fa ridere l’espressione che hai usato. Io, col delirio d’onnipotenza…”
“Ho notato quanto ti ha divertito. Ma attento a non fare troppo rumore. Ci manca solo che mi rompano per queste cose” disse Finnegan, alzando gli occhi al cielo.
“Brutta giornata?” indagò Samuel, che era sempre pronto a farsi carico delle angosce altrui.
“Macché. Va come sempre” liquidò Finnegan con distacco. “Piuttosto, puzzi davvero tanto di cibo fritto”.
“Oh, diamine” commentò Samuel allegro. “Ho cercato di eliminarlo, ma non vuole proprio andarsene. Sto facendo pure il cameriere in un fast-food”.
“Così, anziché un solo modo per perdere tempo, adesso ne hai due” sospirò Finnegan. “È incredibile quanto il lavoro ci voglia morti, e tutto il resto. Mah… basta che non vengano qui a seccarmi. I clienti tuoi, non li sopporterei mai”.
“Non sono così male” tentò Samuel. “La cosa importante è portare loro le patatine fritte al giusto grado di cottura, e ricordarsi le salse”.
E sorridere quando eri insultato, ignorare gli isterismi dei bambini ed essere veloce a pulire la sozzura dei giovinastri anche quando lo facevano apposta, ridendo sguaiatamente. Annuire e sorridere in risposta a tutto questo, ricordandosi di essere inferiori.
“Sì, sì. Quella roba lì… lasciamo perdere, va’.” Un lungo sbadiglio fu la sentenza conclusiva.
La luna avanzava lentamente nel cielo. Finnegan, con un cenno del capo, invitò Samuel a seguirlo lungo il monotono giro di ronda.
Parlava poco, Finnegan. Perlopiù sbuffava e commentava con disprezzo qualsiasi cosa, carico di frustrazione.
Di rado, però, diceva cattiverie a Samuel. Qualsiasi cosa poca carina avesse da dirgli, era più sincera che cattiva.
Probabilmente, pensò Samuel, capiva l’importanza di non essere antipatici proprio con l’unica persona che avrebbe potuto difenderti, in caso di… imprevisti.
“Ti pare che devo sopportarti per tutto il tempo con quest’odore di fritto, adesso?” protestò Finnegan, un accenno di sorriso ad addolcirne le parole.
Stavano pattugliando il gruppo di case centrale del quartiere.
“Potrebbe essere la tua arma segreta per conquistare qualcuna. Tu non ce l’hai una donna, vero, Samuel?”
Samuel si irrigidì leggermente, distogliendo lo sguardo. Era raro che lo facesse perché era a disagio e non per sottomissione volontaria.
“Lo sapevo che non ce l’hai. Eppure, non sei così male. Il tuo problema sono questi lavoracci. Le donne non guardano chi cerca di sbarcare il lunario. Magari, quando avrai una buona posizione e una bella macchina sportiva, allora inizieranno a guardare te”. La sua risata si levò, rauca e sprezzante. “Forse c’avrai più fortuna di me”.
“Io non cerco una donna” precisò Samuel.
“Cosa? Non mi dirai che cerchi… un uomo?!”
Samuel tremò leggermente nel vedere una vampata di odio nel suo sguardo, normalmente opaco.
“No. Non mi interessano gli uomini. Quello che intendo dire è che… non voglio legarmi” disse, col capo rivolto alla luna.
“Ah, sei un tipo libertino?” domandò ancora Finnegan, il cui interesse per la conversazione ad un tratto sembrava essersi riacceso. Guardava Samuel cercando di capire la sua natura, ma Samuel sapeva che non avrebbe mai capito.
Visto che era un adoratore delle conversazioni che non portavano da nessuna parte, e in particolare di quelle che ti facevano sentire sofferente e incompreso, Samuel si deliziò a spiegargli una parte della sua condizione, con le parole più semplici che gli venissero in mente.
“Nemmeno. Non cerco le donne e basta. Una donna può migliorarti la vita, lo so, se trovi quella giusta. Ma… non voglio concedermi questa occasione. E non è perché sono uno di quegli uomini autonomi e indipendenti che amano vivere da soli. So che la dolcezza della donna giusta potrebbe essere un faro, per me. Ma non voglio questo faro. Voglio rimanere all’oscuro, all’oscuro di qualsiasi cosa bella la vita abbia da offrirti, Finnegan. Riesci a capire?” chiese infine, senza aspettarsi una risposta affermativa.
Finnegan non rispose, guardava dritto verso l’ultima sezione di case. Il suo passo era regolare mentre batteva sulle piastrelle levigate del sentiero.
Le parole sembravano inghiottite dalla notte.
“Si cerca una donna convinti di meritare il meglio” continuò ancora Samuel, trascinato dall’entusiasmo, “Convinti di avere il diritto di essere amati, convinti di poter amare. Pensando di meritare quella felicità. Ma io non voglio che la mia vita migliori e non voglio nemmeno essere amato”. Strinse il pugno, eccitato. “Continuerò a fare qualsiasi lavoro di bassa lega mi propongano, soltanto per poter gioire della mia solitudine. Sono un perdente, mio caro Finnegan, e sono dannatamente felice di esserlo”.
Vide le sopracciglia di Finnegan guizzare verso l’alto, folte e cespugliose.
Samuel sguazzò nel lungo silenzio che seguì. Sapeva di aver creato un’atmosfera di imbarazzo e tensione, ed era felice di essere stato, ancora una volta, il più inetto tra i socialmente inetti. L’atmosfera era stata piacevole anche troppo a lungo, e si augurava che Finnegan avrebbe imparato a disprezzarlo per poter sgretolare anche la vacua allegria delle loro chiacchiere.
“Non avevo mai incontrato un tipo come te” disse ad un tratto Finnegan, che si fermò a guardarlo. Samuel lo imitò, pietrificandosi. “Uno a cui sta bene di vivere male. Se avessi la tua rassegnazione, penso che mi sentirei molto meglio. Avrei le stesse cose, ma mi starebbe bene così”. I suoi occhi sembravano brillare un po’ di più. “Io non sono come te. Non voglio stare sempre da solo. Io voglio una donna che mi scaldi il letto, che mi saluti quando esco di casa e che mi voglia bene. So che sarebbe la mia cura. La mia inestimabile cura. Non voglio essere infelice tutta la vita. Come posso accettarlo?”
Samuel sentì gli angoli delle labbra irrigidirsi, fare pressione per scattare. Cercò con tutte le forze di dominarsi, di trattenere l’euforia che gli stava germogliando dentro, ma alla fine esplose.
Rise davvero, di gioia e di gusto, investendo la notte degli echi delle sue risa.
Finnegan lo fissò, senza parole.
“Ma Finnegan, perché? Lo capisci anche tu! Anche se la vogliamo, non avremo mai la nostra cura! Non c’è neanche bisogno di cercarla. La cura di che cosa? Questa è la vita, e l’unica cura è soffrire. Farsi schifo è la soluzione più divertente che abbiamo per tutte le cose che la vita ci propina, spacciandocele per opportunità. Io ho già trovato la mia cura, e so che non merito altro per aver osato credere che ci fosse qualcosa di diverso da questo”.
“Non sei mica Dio. Non puoi dirmi come andrà a finire” ribatté Finnegan, strizzando gli occhi nel guardarlo male. “Sono più vecchio di te di vent’anni, ma mi sento più giovane, Samuel… dannazione, guardati. Sei già stato sconfitto dalla vita? Sei depresso? Come cazzo fai a non volere una donna, o qualsiasi altra cosa?”
Samuel sorrise.
“Ho già la mia cura” annunciò. “Sono felice nei miei stenti e nel mio stare male. Visto che si può solo stare male, perché non imparare ad apprezzarlo? Finnegan, Finnegan, ci speravo anche io, nelle cose, una volta! Avevo delle aspirazioni, e mi sembrava che mi rendessero felice, ma il contraccolpo del mio fallimento mi ha quasi ucciso. Ora ho capito che sperare è una cosa da veri falliti. E tu, mio caro Finnegan, sei davvero ingenuo se credi che un giorno…”
“Ssst!” sibilò Finnegan, sollevando un dito davanti alle labbra. “Ho sentito qualcosa”.
I sensi di Samuel si tesero.
Schiamazzi che crescevano d’intensità. Urla confuse, una dispersiva cacofonia di rumori.
Si voltò indietro. Quattro uomini robusti, di cui uno armato di una mazza di ferro, stavano per raggiungerli. Indossavano cappucci neri che nascondevano i volti e giacche pesanti che aderivano perfettamente al loro corpo.
Samuel sgranò gli occhi.
Si voltò verso Finnegan, ma non trovò nessuno al suo fianco.
“Finnegan?” domandò alla notte, disorientato. Il tremolio della sua voce gli confermò una paura paralizzante, che lo teneva inchiodato al posto mentre i quattro individui si avvicinavano rapidamente.
Doveva assolvere al suo compito. Chiamare le autorità. Difendere le case. Non se stesso, si ricordò con fervore, ma almeno le case.
Invece rimase dov’era.
Ormai avrebbe dovuto farci l’abitudine, a quella sensazione desolante. Era come sentirsi abbandonati al proprio destino, fragili e indifesi.
Dopotutto, quello era il genere di sensazioni che cercava e bramava.
Ma questa volta era diverso. Questa volta, l’abbandono di Finnegan era penosamente inatteso.
E accusò dolore all’altezza del petto.
Aveva lavorato a lungo sull’elaborazione di quel dolore, sulla sua accettazione. Eppure, sembrava che a certe cose non riuscisse mai a farci l’abitudine.
Perché? Che cosa diavolo gli mancava per capire che doveva solo attendersi il peggio e anzi, sperare che accadesse?
Segretamente, aveva mica sperato in qualcosa di più?
Non doveva aspettarsi che Finnegan rimanesse. Non doveva aspettarsi che qualcuno rimanesse per lui.
Per questo doveva abituarsi a soffrire. L’unica certezza.
Sollevò il capo. Era circondato.
“Adesso mi ammazzeranno” riconobbe. Provò a sorridere, ma questa volta non ci riuscì. E le risate di puro, masochistico entusiasmo si rintanarono in fondo alla gola, impossibili da tirar fuori.
 



 
 
 
Il vento sibilava tra i rami del cespuglio. Una mano vi si aggrappava, malferma.
Gli occhi freddi di Finnegan scrutavano lontano, concentrandosi sul drappello di uomini che sollevava e abbassava calci, pugni, mazza di ferro verso l’unico disteso ai loro piedi.
“Un fallito, eh?”







Angolo autrice

Ciao a tutti e grazie di essere arrivati fin qui! È sempre un piacere pubblicare le mie storie in un sito che mi ha visto crescere sin da quando era una bambina e ogni capitolo pubblicato, mio e vostro, è un'occasione per ripopolarlo e animarlo. Forse pecco di ingenuità, ma conto ancora sul fatto che EFP possa tornare ad essere un punto di riferimento per lettori e scrittori di ogni genere!
Continuare questa storia di pari passo con il Writober si sta rivelando più difficile del previsto, ma nel complesso sono soddisfatta dei miei sforzi e della mia rinnovata costanza nello scrivere.
Cosa pensate di ciò che ne sta venendo fuori? Vi sta coinvolgendo? Apprezzerei molto se poteste darmi un parere, di qualsiasi tipo!
Un saluto da Valentina e buona scrittura/lettura di storie a tutti voi.



 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Ringhiatemi contro, e io vi mostrerò la tenera carne ***


» Prompt: Ancora

Capitolo 4: Ringhiatemi contro, e io vi mostrerò la tenera carne


Uno, due, tre.
Quattro, cinque, sei.
Non stava tenendo il conto dei colpi. Stava tenendo il conto delle coppie di colpi.
In particolare, la combinazione pugno e calcio era sorprendentemente efficace nel tirargli fuori le strilla più patetiche. I suoi assalitori erano così talentuosi!
Era strano a cosa si aggrappasse la sua mente, nel tentativo di sfuggire al dolore…
Sette, otto, nove…
In ogni caso, si era chinato a terra quasi subito e questo gli aveva permesso di prendersi quella dannata mazza solo alle spalle, prima di essere bombardato di calci una volta steso a terra. Grazie a Dio avevano evitato di colpirlo con la mazza sulla schiena, o avrebbe rischiato di rimanere paralizzato.
Sì, per una volta era riconoscente nei confronti della propria fortuna.
Strano a dirsi, ma il dolore fisico aveva sempre una valenza trasformativa.
Non è che si sentisse particolarmente cambiato, mentre i numeri perdevano i loro contorni nitidi nella sua mente…
Dieci, undici, dodici…
Però sentiva che dentro di lui stava accadendo qualcosa. Qualche incrinatura. E non erano solo le costole rotte.
Tredici, quattordici, quindici…
I colpi erano palle di fuoco e lui solo una massa di erba secca pronta a diventare cenere una volta consumata…
Sedici, diciassette, diciotto…
Tanto presto sarebbe diventato incosciente. E di nuovo, maledisse la sua mente, sempre tremendamente attiva, che avrebbe già dovuto tacergli il dolore da un pezzo e invece continuava ad elaborare tutte quelle sensazioni – maledizione, quel calcio sembrava quasi un colpo fatale e il sibilo strozzato che gli uscì dal petto, così simile al lamento di un cigno in agonia, non gli piacque per nulla.
Ehi, dico a voi, ma pensate forse che io meriti il vostro tempo?
Questo avrebbe voluto dirgli, per metterli in guardia – proprio come la brava guardia che era, no? – e invece lo pensò soltanto, perché parlare era fuori discussione.
Aveva smesso anche di contare.
A cosa si stava aggrappando? Qual era la parte di lui che continuava a rimanere sveglia, e perché?
Qualche flash, qualche pensiero vagante dalla dubbia utilità…
Gli ricordarono la miseria degli uomini soli…
E lui era solo…
“Mi hai abbandonato, amico mio” pensò, un unico pensiero distinto su una valanga di idee e immagini confuse.
Non era nemmeno rivolto a Finnegan. Non sapeva a chi fosse rivolto. Forse era una rappresentazione generale. Mi avete abbandonato, tutti. “Ma tutti chi? Chi è questa massa indistinta da cui mi sento giudicato? Forse sono solo io, che mi sono abbandonato molto tempo fa”.
Non era arrabbiato con gli assalitori.
Dopotutto loro facevano il loro mestiere di persone che picchiavano e ti facevano sputare anche l’anima.
Non ce l’aveva con Finnegan.
E nemmeno con il proprio lavoro.
Forse, per una volta, non era arrabbiato neanche con se stesso. Quel corpo ce la stava mettendo tutta pur di resistere… riusciva solo a fargli compassione, come se fosse stata un’entità separata da lui.
…Trenta.
Un numero a caso. Giusto? Erano coppie o numeri singoli?
Era quasi tentato di chiedere a loro l’ammontare esatto, ma poi, finalmente, la sua coscienza si spense.
 
A cosa aggrapparsi, allora, mentre la coscienza sprofonda nell’incoscienza?
Samuel, Samuel, Samuel… il suo nome era forse un appiglio a salvarlo dal nulla che lo circondava? Continuava a riecheggiare tutt’attorno…
No. Gli ricordava soltanto pressione, aspettativa, il peso del fallimento.
E poi c’erano l’Omone, la ragazza bionda, i suoi colleghi, Finnegan.
Non erano appigli.
Sua madre.
Sua madre era un appiglio?
L’aveva lasciata da sola a casa.
Il suo lenzuolo bianco così simile al sudario di un cadavere sulla pelle raggrinzita e tesa dalla sofferenza. Incartapecorita. E poi c’erano le ragnatele di vene su cui sembravano arrampicarsi, immaginari, gli insetti e i vermi della sua malattia che la succhiavano da dentro, con viscida e compiaciuta lentezza – gustandosela con cura, banchettando con i suoi lamenti sempre più inumani.
Gli faceva male guardarla – la morte incombente di lei gli ricordava ciò che avrebbero potuto fare e che invece non avrebbero mai fatto, come per esempio ricucire le fratture del loro legame madre-figlio, di gran lunga superiori a quelle inflitte da qualsiasi violenza.
Forse c’erano dolori che si potevano sopportare e dolori che, invece, erano intollerabili. Lei era uno di quelli, insieme alle botte.
Da lei non poteva avere nemmeno più il dolore.
No, sua madre non era l'appiglio.
Non c’era davvero niente, tranne lui se stesso.
Ma non gli servivano ancore o appigli. Né aveva mai avuto la presunzione di pensare al suicidio.
Somministrarsi il male per evitare altro male futuro… una scelta profondamente dissennata. Era meglio soffrire fino alla fine, senza cercare una via di fuga. Perché evitare la giustizia della vita?
E poi si rese conto di poter aprire gli occhi. Apparvero un letto bianco, tende bianche, tutto bianco.
“Oh, mi sono svegliato” realizzò, volgendo lo sguardo all’intorno.
Una stanza d’ospedale.
Ah, eccolo in un posto che disprezzava forsennatamente! Gli ospedali.
Chi poteva aver chiamato i soccorsi? E cosa ci faceva, lui, in una stanza d’ospedale? Non doveva essere curato.
Meglio tornarsene a casa…
Ma una sfilza di fitte glielo impedì, costringendolo a letto.
Osservò la stanza, cercando un modo per aiutarsi ad andarsene.
Non era tutto bianco come gli era sembrato all’inizio. In realtà le tende erano di un verde chiaro – e lui iniziava a riabituarsi alla realtà, focalizzando anche il dolore e la sua sconcertante, tormentosa pioggia di schegge.
C’era una leggera brezza profumata di fiori a soffiare dalla finestra aperta – riusciva quasi a coprire l’odore di disinfettante, un odore a cui non era abituato – e l’atmosfera era silenziosa, disturbata solo dal ronzio dei macchinari medici.
Si rese conto di essere parzialmente immobilizzato con steccature e fasce elastiche all’altezza del torace – erano i punti in cui gli faceva più male.
“Banale” commentò Samuel. Sarebbe stato più interessante svegliarsi a lavoro, oppure in una cantina di proprietà degli assalitori, mentre tiravano fuori degli strumenti di tortura.
Forse aveva troppa immaginazione.
Si sorprese ad emettere un profondo sospiro, riflettendo sul presente.
Il suo errore era stato cercare di avvertire Finnegan sull’inutilità di una vita spesa a sperare nelle cose.
Lui aveva messo in discussione il nuovo equilibrio della sua vita – quello che si era sforzato tanto di raggiungere, e che finalmente era tutto suo – cercando di inculcargli tutte quelle idee insulse. Finnegan era solo un miscredente, un fallito. L’errore era stato cercare di farlo ricredere, salvare il suo tempo.
Presto si sarebbe fatto molto più male di Samuel stesso.
“Peggio per lui”.
Lui invece era in quella stanza asettica, a godersi la sensazione delle pulsazioni viscerali, delle ferite aperte.
Aveva sofferto tanto, ultimamente.
Forse così tanto che, almeno per un po’ di tempo, avrebbe potuto riposarsi.
Appena prima che lui potesse rinnegare quest’ultimo pensiero, la porta si aprì.
“Oh, lei è Samuel Filder. Siamo felici che si sia ripreso” mormorò una delicata infermiera, entrando. Aveva un corpo sottile e il viso offuscato da una leggera apprensione. Gli occhioni blu.
Samuel puntò lo sguardo al soffitto, impostando il suo viso all’austerità. Sì, era una donna graziosa. Non doveva guardarla, per evitare a se stesso meschine tentazioni.
Non si poteva mai sapere. Non si fidava delle donne e delle loro macchinazioni. Il massimo che tollerava erano le sue colleghe, a cui cercava sempre di fare schifo, strategicamente.
“Buonasera”, salutò in tono neutro, rivolto ai quadrati regolari in alto.
“Signor Filder, è pieno giorno. Non vede la luce del sole?” Un velo di preoccupazione nella voce.
Samuel non rispose.
L’infermiera lo raggiunse. Samuel colse l’immagine vaga del suo camice bianco. Ridirezionò lo sguardo alla sua sinistra, in modo che rimanesse fuori dal suo campo visivo.
“Io sono Clary, l’infermiera di turno. Le porto subito dell’acqua, avrà molta sete! Come si sente? Sta bene?”
“Assolutamente sì” sentenziò Samuel, realizzando che se avesse mentito sulle sue condizioni, avrebbe potuto tornare prima alla vita di tutti i giorni. Con tutte quelle scariche tremende che il corpo gli stava inviando, sarebbe stato anche più angosciante lavorare. Una vera delizia!
“Eppure, non dovrebbe. In seguito all’incidente, ha subito una serie di ferite significative. Il nostro esame mostra che ha subito fratture ossee in diverse parti del corpo e contusioni estese. È anche svenuto, e ha continuato a dormire profondamente fino ad ora.
Fortunatamente, non ci sono danni permanenti agli organi vitali. Le stiamo fornendo il miglior trattamento possibile per garantire una pronta guarigione! Sarà necessario un periodo di degenza e riabilitazione per recuperare completamente.”
“Capisco” commentò Samuel, deluso.
Quella donna era così fastidiosa. Aveva una voce che cercava di trasmettere qualcosa come calore: un lodevole tentativo di finzione, ma lui aveva ben altri pensieri con cui tenersi impegnato.
Visto che non si affezionava a nessuno, nessuno poteva – purtroppo – fargli del male. Questo voleva dire che era pressoché alieno alle sofferenze delle relazioni umane e che, per rendere più complicata la propria esistenza, doveva cercare necessariamente fatiche e umiliazioni fisiche e pratiche.
Perciò quell’infermiera era solo un’inutile perdita di tempo. Piuttosto, sarebbe stato meglio concentrarsi sulla ricerca di un terzo lavoro.
“Comunque so che è pieno giorno” aggiunse ad un certo punto, fissando intensamente la porta della stanza. Comprese che, se non si fosse dimostrato perfettamente lucido, lo avrebbero trattenuto. Doveva convincerli della bontà delle sue condizioni, così avrebbe potuto tornare subito nella piena routine della sua vita quotidiana. “Ma ho pensato fosse passato mezzogiorno. In tal caso, è corretto anche dire buonasera”.
“Ma certo” rispose gentilmente l’infermiera. “Comunque, sono le dieci. Lei ovviamente si è svegliato da poco e non può ancora sapere che ora è…”
Quanta gentilezza rivolta verso una guardia notturna che non aveva adempiuto al suo dovere. E le case? C’erano state altre aggressioni? Tutto perché non era riuscito a muoversi.
Certo, soffrire era giusto. Ma questo non doveva comportare il mancato rispetto delle proprie responsabilità. Era già stato licenziato?
“Le ho messo una bottiglia d’acqua sul tavolino, per quando vorrà berla. Mi faccia guardare la pupilla, per favore”.
Samuel sgranò gli occhi, sentendo un’altra fitta al costato… e una fitta di amarezza. A malincuore, si costrinse a rivolgersi verso di lei.
L’infermiera si sporse su di lui, forse in cerca della lucidità rivelatrice impressa nello sguardo.
Samuel le fissò la punta del naso, dritto e piccolo… si distrasse – certamente un momento di confusione dovuto all'instabilità del fisico – e guardò un po’ più su. Gli occhi della donna erano luminosi e attenti.
Gli dicevano “si leghi a me. Si aggrappi a me. Potrei essere la sua ancora…”
“Non intendo farlo” pensò Samuel, e il suo volto si trasfigurò in un’espressione di sfida.
La donna si scostò.
“Ottimo, Filder! È a posto. Mi sono accertata anche dei suoi parametri vitali: anche dai monitor risulta che è in via di miglioramento. È fantastico che non le abbiano preso di mira il volto”.
Samuel riprese a fissare la porta.
Non condivideva l’ottimismo dell’infermiera. I quattro dovevano impegnarsi di più.
Ora che l’assalto era finito, aveva capito che poteva sopravvivere – più o meno – a qualsiasi dolore gli venisse inflitto. Era una sensazione fantastica, inebriante. Non doveva più avere la preoccupazione che il suo corpo, ad un certo punto, avrebbe ceduto.
Forse era questo che gli aveva fatto più paura, quando le aveva prese. La possibilità di non soffrire più.
“Continuate a farmi del male!”, mimò con le labbra, senza produrre suono, mentre l’infermiera era di spalle e armeggiava con la sua cartella clinica. “Tutti quanti!”
“Se sente dolore, posso somministrarle un antidolorifico” riprese la donna dai capelli castani, con un tempismo perfetto.
“No, grazie. Sto benissimo”.
Che scemenza, gli antidolorifici.
“Ne è sicuro? Le analisi delle fratture sono recenti e riportano che ha subito danni non indifferenti… non si preoccupi, se sta bene la faremo stare ancora meglio, d’accordo? Un breve periodo con noi e tornerà come nuovo”.
Samuel gemette mentalmente.
“Signor Filder, prima ho parlato di un incidente… Mi conferma che lo è stato? Sembra che lei sia stato coinvolto in una rissa. Ma ovviamente spetta a lei chiarirmi le dinamiche di quanto è accaduto. Cosa le è successo?”
Samuel ci pensò su solo un momento prima di rispondere.
“Solo una zuffa con persone che conoscevo”.
Non stava facendo un servizio alla comunità, scagionando all’istante quegli uomini. Eppure, in fondo voleva ringraziarli e quello era il suo modo per farlo. Gli avevano offerto la possibilità di passarsela ancora peggio… quanto ai membri della comunità, be', Finnegan era con lui, no? L’aveva mollato lì a vedersela con loro, ma sicuramente aveva compiuto il suo dovere difendendo il quartiere.
“Capisco” disse la donna dopo un momento. “Faccia più attenzione. Non è più un ragazzino, ormai è un adulto! Non dovrebbe più immischiarsi nelle risse, non crede?”
Samuel le concesse un sorriso grato e la osservò con più attenzione. Il suo tono di giudizio lo esaltava.
“Ha ragione, sono proprio un malandrino!” esclamò a cuor leggero. “Anzi, un caso perso. Ma è difficile rinunciare al piacere di una buona scazzottata”.
L’espressione di rimprovero della donna si approfondì. I suoi occhi si restrinsero e agli angoli delle sue labbra si aggrapparono delle rughe che rendevano il suo scetticismo evidente.
Quell’espressione era il ritratto della disapprovazione, del giudizio morale e sociale: era come una sfilettata al cuore. Un’espressione che gli ricordava molto sua madre.
“Questo purtroppo non lo posso capire. Ma si ricordi che per ogni posto occupato qui per le sue bravate, un altro paziente potrebbe attendere di più per avere il suo”.
Samuel gustò con gioia il contrasto tra quel disprezzo e il candore di poco prima.
Si sentiva così felice. Ora lo avrebbero anche creduto un teppistello e finalmente avrebbero smesso di trattarlo cordialmente, dando la priorità ad altri pazienti.
Ecco a cosa si ancorava lui: fare schifo era comunque un modo per fare ciò che si vuole e gli dava la rassicurante certezza che le cose potessero sempre andare peggio.
E in fin dei conti, questo lo metteva anche nelle condizioni di poterle controllare.
Tutto stava andando proprio come voleva lui.
Il suo corpo era logorato, ma lui era in pace con se stesso.
Tutti lo detestavano, ma lui si apprezzava per la sua fede strenua e per come, orgogliosamente, andava avanti.
Eppure, non poteva immaginare la crisi imminente che rischiava di vanificare tutti i suoi sforzi. Un test durissimo che avrebbe avuto luogo proprio in quell’ospedale.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4064276