Il momento più opportuno

di Giandra
(/viewuser.php?uid=480566)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La giacca verde ***
Capitolo 2: *** L'orologio dorato ***
Capitolo 3: *** Il cielo stellato ***



Capitolo 1
*** La giacca verde ***


1. La giacca verde

 

Those days with you, those moments are now in memories/I said, grasping my crushed shoulder/I really can’t do any more/Every time I wanted to give up/By my side you said/Bastard you can really do it/Yeah, yeah I remember back then/When I was fed up and lost/Back then when I fell into a pit of despair/Even when I pushed you away/Even when I resented meeting you/You were firmly by my side/You didn’t have to say anything

 

     Leggere una pagina del diario di Wave fu un incidente. A dirla tutta, Pang neanche aveva capito che appartenesse al suo diario: non lo aveva esattamente ricondotto a quello, un foglio strappato e spiegazzato sulla sua scrivania. In seguito avrebbe imparato che Wave non aveva la pazienza, o forse l’indole, di portarsi appresso un singolo taccuino ovunque andasse, per cui, di tanto in tanto, quando ne aveva voglia e se c’erano eventi o pensieri sparsi da annotare, strappava una spilletta o qualcosa del genere da un quaderno, ci scriveva la data e poi la aggiungeva a un raccoglitore che teneva riposto nel cassetto più in basso della sua scrivania. Quando però Pang vide quel singolo foglio immaginò si trattasse di altro e, pure in modo non intenzionale, con la coda dell’occhio, si mise a leggerlo. Attraverso le linee ondulate della bella grafia di Wave, scoprì che a quanto pareva l'amico si era scocciato della sua felpa nera con zip e cappuccio e che presto o tardi avrebbe voluto comprarsi qualcosa di diverso, qualcosa di distintivo, ma non troppo appariscente, che poteva indossare al di sopra dell’anonima uniforme scolastica, qualcosa di simbolico per iniziare il nuovo anno con una marcia in più.
     Fu quella nozione appena acquisita che portò Pang a farsi un giro per tutti i negozi di abbigliamento della zona per cercargli una giacca o un’altra felpa che facesse al caso suo. Sapeva che il colore preferito di Wave fosse il verde e conosceva la sua taglia, quindi fece del suo meglio per trovare qualcosa che unisse entrambi quegli elementi e che riusciva nella sua mente a vedere bene addosso a Wave. Quando una delle tante commesse con cui dovette interagire quel giorno gli propose di provare addosso la giacchetta verde smeraldo che gli stava mostrando, per assicurarsi che calzasse, Pang le disse: “Uhm, non è per me”.
     Lei gli rispose solo un “Oh, okay. La tua ragazza porta una S?”
     Pang si disse di aver sbagliato a frugare nella sezione unisex del negozio non appena udì quelle parole. “Uhm, non è per una ragazza.” La commessa si limitò ad annuire e a portargli altri capi della taglia che Pang richiese. La sua domanda era, in realtà, stata fuori luogo e Pang avrebbe anche potuto farglielo notare: cos’era, un ragazzo non poteva comprare una giacca per un fratello, per un cugino, per un collega, per un compagno di classe o per un’amica? Dare per scontato che fosse lì per una fidanzata era stato un errore suo, non certo di Pang non averne una per cui fare acquisti. Specificare che il regalo fosse per un maschio non significava implicitare che suddetto maschio fosse il suo ragazzo. Senz’altro un’altra persona avrebbe glissato sulla questione e si sarebbe fatta una grassa risata di fronte alla domanda della commessa, rispondendole che il capo d’abbigliamento era destinato a un amico, e basta, ma lui non se l’era sentita di aggiungere alcunché.
     Alla fine, Pang arrivò a fine serata senza la benché minima idea del perché le ragazze amassero tanto fare shopping. Non era ancora riuscito a trovare nulla che si figurava bene attorno al corpo di Wave e ogni delusione lo aveva reso solo più frustrato e stanco.
     Sulla strada del ritorno, tuttavia, a meno di duecento metri dal loro dormitorio, l’universo gli spedì una fortuna condita di cappuccio e tasche laterali, proprio quella che aveva cercato per l’intero pomeriggio. Un venditore ambulante di vestiti e accessori fatti a mano — come annunciava il cartello che portava con sé sotto al suo braccio — se ne stava con ogni probabilità tornando a casa dopo un’intensa giornata di lavoro, trascinandosi dietro uno stender di alluminio con magliette, giubbotti e felpe appesi a delle grucce nere.
     “Mi scusi!” Pang lo richiamò.
     Quello si girò di soprassalto, colto alla sprovvista, e poi indirizzò a Pang un sorriso gentile, il primo sincero e spontaneo che gli era stato rivolto quel giorno. Aveva la carnagione molto scura, forse anche per le tante ore passate sotto al sole cocente, ed era vestito di bianco, con abiti di lino e un cappello più che singolare sul capo, di forma triangolare; Pang suppose che anche quello fosse stato fatto a mano da lui. “Che c’è, ragazzo?”
     “Khun, posso chiederle- Posso vedere questa giacca?” gli domandò, puntando con l’indice il capo che aveva fin da subito catturato la sua attenzione.
     L’uomo annuì, poggiò per terra il cartello e il borsone che aveva sulle spalle, poi afferrò la stampella della giacca verde che Pang aveva adocchiato e gliela porse. Era stupenda. Morbida al tatto, ma chiaramente resistente agli urti, forse impermeabile; Pang non conosceva il nome di quella tonalità precisa di verde, ma ricordava di aver scorto una maglietta a collo alto nell’armadio di Wave dello stesso esatto colore, e se la sua memoria non lo stava tradendo era possibile che gliel’avesse anche vista addosso, quindi era certo che dovesse piacergli; il cappuccio, come meglio notò una volta che la ebbe tra le mani, non era un cappuccio vero e proprio, ma un cappello, legato ai lati della giacca con dei cordini dorati attaccati a delle asole verde militare a malapena visibili, che poteva insomma tanto essere portato assieme alla giacca, quanto essere scartato. Pang se lo rappresentò mentalmente in testa a Wave e, non seppe perché, l’immagine lo fece ridere: gli avrebbe conferito un’aria buffa, o forse solo insolita, diversa, senz’altro lo avrebbe reso più facilmente approcciabile, cancellando una parte dell’aura tenebrosa che ormai lo circondava anche solo per fama.
     “La prendo” proclamò. Gli sarebbe stata un po’ larga addosso, ma essendo un pezzo unico sapeva che fosse inutile chiedere se ce ne fosse una taglia più piccola. Ormai aveva deciso che lo avrebbe comprato e di rado Pang non dava ascolto a quella voce nella sua testa che lo spingeva a fare le cose senza rifletterci troppo sopra.
     Porse all’uomo i 1500 bath che gli doveva. Il suo portafogli inveì contro di lui, ma Pang non gli diede retta. Il commerciante impacchettò la giacca piegandola su se stessa con meticolosità fino a farla diventare un terzo delle sue dimensioni originali, la avvolse in carta velina e poi in carta da regalo e per finire le strinse attorno un filo d’oro che increspò ai lati con delle forbici per farlo venire ondulato; terminò il lavoro aggiungendo una coccarda verde al centro del pacchetto.
     Pang lo ringraziò, quello gli rispose con un altro sorriso genuino e poi si incamminò di nuovo per la sua strada. Pang fece altrettanto.
     Se Wave gli avesse domandato come mai aveva deciso di prendergli un regalo, Pang non avrebbe saputo cosa rispondergli. “Perché per me ci sei sempre stato, e non so come avrei fatto senza di te nell’ultimo anno e mezzo, e perché anche quando non ci credo io, in me stesso, tu non smetti mai” non gli sembrava un’affermazione che potesse realisticamente rivolgergli — non perché non fosse vera, ma solo perché tra loro due non funzionava così, non aveva mai funzionato così e con ogni probabilità non lo avrebbe mai fatto.
     E poi, non era per la gratitudine che provava nei suoi confronti che aveva scelto di comprargli quella giacca. Era uscito dalla stanza di Wave e si era precipitato di corsa in città con il solo intento di fare qualcosa per lui, che potesse renderlo felice, che potesse farlo sorridere, per donargli qualcosa che era sicuro Wave desiderasse: nient’altro; e rispondergli con questa verità sarebbe stato ancora più imbarazzante che farlo con quell’altra.

):)


 
     “Cos’è?” fu la prima cosa che Wave gli disse dopo averlo salutato, quando Pang appoggiò il regalo sul suo letto. Avevano l’abitudine di vedersi ogni sera prima di andare a dormire, per fare un riepilogo generale della giornata o, se non era successo nulla che valesse la pena ricapitolare, semplicemente per stare assieme prima di tornare ognuno nella sua stanza. Quel giorno, fu Pang ad andare nella sua, anche perché era consapevole di essersi trattenuto più del dovuto fuori e che a Wave dava molto fastidio quando non rispettava gli orari stabiliti.
     “Il motivo dei miei venti minuti di ritardo.”
     Wave abbassò gli occhi sul pacchetto e poi di nuovo su Pang — e così fece come un disco rotto per almeno dieci volte. “È per me?” gli chiese a un certo punto.
     Pang ridacchiò. “No, per carità. L’ho messo sul tuo letto per fartelo vedere, ma in realtà è un regalo per qualcun altro” ironizzò.
     Wave rispose con una smorfia infastidita, alzò gli occhi al cielo e gli diede un leggerissimo calcio sulla caviglia per buona misura. Pang allargò il suo sorriso. “Lo apro, allora” annunciò. Lui annuì, improvvisamente teso. Sperava sul serio che gli sarebbe piaciuto. Wave era una persona abbastanza schietta e, quando non diceva una parola, era sempre e comunque la sua faccia a parlare per lui: lo avrebbe capito subito se non era di suo gusto.
     Quello che successe, però, fu qualcosa di molto diverso: non appena Wave ebbe strappato con poca grazia la carta che avvolgeva l’indumento, i suoi occhi si spalancarono, le palpebre raggiunsero quasi l’altezza della fronte, e le labbra si schiusero a formare una buffa ‘o’. Non stava sorridendo, ma Pang riuscì comunque a percepire la commozione che la vista del suo regalo gli aveva appena causato. Avvertì subito un senso di orgoglio invadergli il petto e un’ubriaca felicità esplodergli nel cuore.
     Quando Wave alzò lo sguardo su di lui, la sua faccia era un turbine di emozioni, prime fra tutte sorpresa e incertezza. Pensò di dirgli: “Per sbaglio ho letto quella tua pagina di diario”, poi, di fronte al lampo di paura che vide nei suoi occhi, si affrettò ad aggiungere: “per sbaglio e solo quella. Non- Non avevo capito fosse un diario, all’inizio.”
     Wave non disse nulla per qualche secondo e lo guardò con aria impassibile, dopodiché annuì. “Okay” gli disse soltanto.
     “Allora, sono perdonato?”
     “Uhm?”
     “Per il ritardo. Sono perdonato?”
     Wave dovette sopprimere un sorriso a trentadue denti, a giudicare dal modo in cui si morse l’interno delle guance per non permettere alle sue labbra di andare troppo all’insù. Sbuffò, ma il divertimento nel suo tono era troppo evidente per essere celato. “Ci devo pensare” gli rispose.
     Pang scosse il capo su e giù. “Provatelo” gli propose.
     Wave parve titubante, ma bastò una manciata di secondi a convincerlo. A volte Pang desiderava poter entrare nella sua testa e seguire il modo in cui la sua mente ragionava, per capirlo meglio e imparare a decifrare ogni suo silenzio. Lo osservò mentre si sfilava di dosso la felpa color porpora che era solito indossare e che, in realtà, sebbene lui se ne fosse stancato, Pang reputava gli donasse parecchio; quando afferrò la giacca verde, la prima cosa che fece fu stendersela addosso, per farsi un’idea delle misure. “Forse è un po’ larga” disse.
     Pang affondò i denti nel labbro inferiore per un singolo istante, nervoso. “Mh. Lo immaginavo. Ma è fatta a mano, quindi non ce n’erano di taglie diverse” gli spiegò. Uno strano senso di disagio si stabilì in corrispondenza del suo petto e lo portò ad aggiungere: “Se non ti piace, se è troppo grande, non devi metterla per forza.”
     Wave si limitò a scuotere la testa a destra e a sinistra un paio di volte. Indossò il giubotto e, per quanto secondo Pang gli stesse abbastanza bene, si notava parecchio che fosse almeno una taglia più grande della sua. Il suo cervello gli spedì un’immagine: se stesso con la giacca che aveva appena comprato addosso, che gli calzava alla perfezione, e le sue braccia attorno alle spalle di Wave. Pang serrò gli occhi e li riaprì bruscamente per farla sparire.
     “Mh” mugugnò Wave, con il tono che assumeva sempre quando riparava un aggeggio elettronico più complesso degli altri. “Beh, potrei...” Quasi come se gli avesse letto nel pensiero, piuttosto che mettersela addosso, appoggiò la giacca sulle spalle. Definiva alla perfezione il suo contorno e, essendo lunga e grossa, nonché calda, doveva essere piuttosto confortevole anche portata in quel modo.
     Pang gli sorrise. Non poté fare a meno di credere che, forse, se si fosse trattato di un capo acquistato online, o che Wave aveva preso per se stesso, non si sarebbe ingegnato più di tanto a trovare un modo per poterlo indossare comunque; forse si stava illudendo, ma una parte di sé volle crogiolarsi nell’illusione che Wave ci tenesse a poter usare a tutti i costi quella giacca perché gliel’aveva regalata lui. “Ti sta bene” commentò; ed era un commento, niente di più, quasi oggettivo, a suo modestissimo parere; ma l’aria tra di loro si fece comunque strana, diversa, incandescente, tesa.
     Wave lo stava guardando come se fosse un quadro da restaurare, o un problema di matematica difficile da risolvere. “Grazie” gli rispose. “Del regalo, in generale. Non ce n’era bisogno.”
     Pang fece spallucce.
     Quando si comportava così, quand’era gentile, e un po’ in imbarazzo, gli veniva davvero voglia di baciarlo; a volte era un pensiero fugace, un’immagine visiva che la sua mente gli inviava, e per un po’ Pang non era neanche stato in grado di capire se corrispondesse a un effettivo desiderio o se si limitava a essere uno scenario che, a volte, il suo cervello metteva in piedi; poi, però, aveva iniziato a figurarselo apposta, nel bel mezzo della giornata, magari mentre Wave era impegnato a fare qualcos’altro e non gli stava prestando attenzione: immaginava come sarebbe stato camminare nella sua direzione, afferrare il colletto della sua camicia e attirarlo a sé in un bacio che non aveva niente di casto; altre volte, invece, pensava a che effetto gli avrebbe fatto sporgersi lentamente verso di lui mentre erano seduti vicini, revisionando un piano o guardando una mappa, centimetro dopo centimetro, si chiedeva come avrebbe reagito Wave, se sarebbe rimasto lì impalato aspettando che Pang lo baciasse o se avrebbe annullato lui la distanza tra le loro bocche. Più le svariate possibilità navigavano nel suo cervello, più Pang era portato ad ammettere che, sì: si trattava di qualcosa che voleva davvero, che desiderava accadesse.
     Non ancora, però. Avrebbe aspettato il momento più opportuno. L’anno era quasi finito, Namtaarn era da poco tornata in salute, e le scartoffie per farle cambiare scuola erano ormai state compilate, il Direttore era ancora a comando dell'istituto e il Programma Gifted era stato chiuso a causa dell’attacco del gruppo Anti-Gifted. Era tutto un casino e Pang non aveva ancora idea di come avrebbero fatto a risolvere le cose nel solo corso dell'ultimo anno che restava loro da spendere in quella scuola.
     Perciò, avrebbe aspettato. Il momento più opportuno sarebbe prima o poi arrivato.



Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** L'orologio dorato ***


2. L’orologio
 

I'm sorry for blaming you
for everything I just couldn't do
and I've hurt myself by hurting you
 
 

            «Cosa vuoi fare riguardo a quel ragazzino?»
            Prendere tempo. Tergiversare. Procrastinare. In quel momento, il suo cervello lo stava spronando a fare qualsiasi cosa che non fosse ciò che effettivamente desiderava: dare a Pang l'orologio che aveva assemblato apposta per lui.
            La giacca verde che gli aveva regalato gli pesava addosso in un modo che non aveva niente a che fare con il tessuto dell’indumento. Per lui aveva la forma di una promessa o di un tacito accordo. Era stata il mezzo di cui Pang si era servito per solcare quel confine invisibile che Wave aveva creduto fosse tra di loro implicito e sacro – ma, del resto, non si sarebbe trattato di Pang se non avesse infranto anche quell’ennesima regola senza troppe cerimonie. Quella giacca era la prova tangibile che tra di loro c’era qualcosa che andava ben oltre la complicità affabile di due compagni di classe, o la cooperazione necessaria tra alleati con un obiettivo in comune. Regalargliela era stato un gesto di affetto spontaneo e disinteressato.

            Wave adorava il concetto di regalo: qualcosa che scaturiva dalla semplice volontà di compiere un'azione premurosa per qualcuno, attraverso qualcosa che la persona che faceva il regalo sapeva lo avrebbe reso felice. Aveva visto i suoi compagni di classe scambiarsi doni a vicenda un'infinità di volte, organizzare ogni anno con grande enfasi dei Secret Santa – dei quali lui non era mai stato messo a parte –, sfoggiare i nuovi videogiochi o vestiti che avevano ricevuto durante le feste natalizie – e in tutte quelle occasioni gli erano sembrati così entusiasti e contenti. Wave aveva smesso di ricevere regali, a prescindere dall'occasione, quando i suoi genitori erano morti. L’ultimo lo portava sempre con sé, nella tasca laterale del pantalone della divisa scolastica, e di tanto in tanto lo sfiorava con le dita per accertarsi che fosse ancora lì, o anche solo per tenere a mente che qualcuno che lo aveva amato con tutto il cuore gli aveva lasciato una prova fisica di quell’amore. Per quanto Wave non avesse idea di cosa davvero Pang provasse per lui – a stento riusciva a decifrare i suoi, di sentimenti –, riconosceva comunque nel suo regalo unintenzione positiva – e tanto gli bastava per portarselo sempre appresso. Non lo aveva detto a nessuno, che la giacca fosse un regalo di Pang; a volte, aveva come l’impressione che alcuni membri del loro gruppo ci fossero arrivati da soli, specie Claire – a giudicare dalle occhiate maliziose e irritanti che di tanto in tanto gli mandava quando lo beccava a sistemarsela meglio sulle spalle. Una parte di lui aveva tanta voglia di vantarsene, di urlare in giro che era stato proprio Pang a dargliela in dono, nella convinzione delirante che tutto il resto del mondo per qualche motivo ne sarebbe stato invidioso; a volte, qualcosa e di presuntuoso e di possessivo al centro del suo petto lo implorava sul serio di osare.
            Wave aveva desiderato fare un regalo a Pang da molto prima che l’altro avesse deciso di comprargli quella giacca. Aver ricevuto lui per primo qualcosa gli dava la scusa perfetta per poter concretizzare il suo proposito, porgendogli un pegno della propria affezione nei suoi confronti, senza per questo sentirsi frenato dall’orgoglio e dalle paranoie, che gli sussurravano quanto un gesto del genere avrebbe inciso in modo indelebile sulla sua fronte, e mettendolo in bella vista, quello che sentiva per Pang. La parte razionale di sé gli aveva ricordato che, per essere scritta, qualsiasi cosa aveva innanzitutto prima bisogno di un nome – e ciò che provava verso il suo "prima nemico-poi compagno-dopo ancora amico-attualmente qualcosa di indefinito" non ne aveva certo uno.
            «È stata una cosa positiva averlo incontrato prima che la scuola abbia dato inizio ai test ufficiali.» La voce di Pang lo distolse dai suoi pensieri e lo riportò con i piedi per terra. «Potremo aiutarlo e spiegargli il nostro punto di vista prima che il Direttore avrà il tempo di indottrinarlo.»
            Wave annuì. «Okay.»
            Gli altri se n’erano già andati, ognuno tornato alle proprie faccende ora che il piano finale aveva una forma concreta. Erano rimasti solo lui e Pang in quell’aula abbandonata che era finita per diventare il ritrovo dei ragazzi Gifted. Wave avvertiva quasi l’eco del proprio battito cardiaco, rumoroso e scalpitante com’era. Doveva darglielo in quel momento, o non lo avrebbe fatto più. «Pang» lo chiamò.
            «Uhm?» Il monosillabo interrogativo che gli rivolse non fu seguito dal suo sguardo, che era ancora intento a ispezionare la mappa della scuola come se da un momento all’altro sarebbe venuto fuori uno sgabuzzino della cui posizione erano tutti all’oscuro.
            «Tieni» disse soltanto – e allungò il braccio nella sua direzione, l'orologio che aveva messo a punto per lui posato al centro del palmo della sua mano. Un paio di settimane prima, Pang stesso gli aveva rivelato che quello che indossava si era ormai rovinato a tal punto che a stento ci riusciva ancora a leggere l’orario, ma purtroppo non aveva i soldi per comprarsene uno nuovo – e se già la possibilità economica era scarsa, ancora di più lo era la voglia di chiedere un centinaio di bath in più alla madre, con la quale da un pezzo a stento parlava, se non per scambiarsi con lei saluti randomici o auguri per le festività, che Pang passava sempre e rigorosamente nei dormitori scolastici, o per avvisarla che il bonifico mensile era arrivato; non gli aveva ancora rivelato cosa fosse successo tra di loro e Wave non glielo aveva chiesto, accettando che si aprisse con lui con i suoi tempi, conscio di avere lui stesso la bocca cucita su certi argomenti più spinosi di altri. Regalargli quell'orologio era anche un modo per lui di sdebitarsi, del resto: non gli era solo grato per essergli amico, e per avergli così dato la possibilità di diventare parte integrante di un gruppo di persone che si volevano bene, ma anche per averlo perdonato, senza mai nemmeno pretendere delle scuse, per l'odio incondizionato che Wave gli aveva buttato addosso durante più della metà dell'anno precedente; Pang non aveva avuto bisogno che Wave gli desse spiegazioni, non gli aveva chiesto di giustificare i suoi comportamenti – e, cosa davvero insolita per la sua esperienza, non lo aveva neanche giudicato per essi. Aveva compreso senza che fosse necessaria una singola parola da parte sua quanto tutta la rabbia che Wave gli aveva rivolto avesse in realtà fatto molto più male lui stesso che a chiunque altro – e lo aveva salvato da essa, pur non avendone l'intento, gli aveva teso inconsciamente la mano prima che Wave sprofondasse in quell'abisso di frustrazione e collera che era stato sul punto di inghiottirlo. Sentiva di essere in debito con Pang per tutto ciò che aveva fatto nel suo interesse, per aver risposto ai suoi attacchi feroci porgendo l'altra guancia e proponendogli di lavorare assieme, dandogli al contempo una speranza e uno scopo in un momento in cui Wave non aveva creduto di meritare nessuno dei due.
            Pang si girò verso di lui, sopracciglia arcuate e lingua che premeva contro l’interno della guancia, incuriosito, ma non appena i suoi occhi caddero sull’orologio la sua espressione mutò: sgranò gli occhi, molto lentamente, le palpebre gli tremarono, le sbatté un paio di volte come per accertarsi che ciò che stava guardando fosse reale, e separò le labbra, umettandosele giusto una manciata di secondi dopo. Alzò lo sguardo su di lui – e Wave si sentì esposto, vulnerabile, nudo, come se quel bacio delle sue iridi avesse in sé il potere di scannerizzarlo e guardargli dentro, sotto la copertura di vestiti, pelle, ossa e muscoli. Puntò gli occhi sul pavimento quasi in un automatismo e sbatté il pugno chiuso attorno all’orologio in aria, per ribadirgli silenziosamente di prenderlo. Pang lo fece.
            Wave tornò a rivolgergli la sua attenzione con inesorabile lentezza, spinto da una voce nella sua testa che gli ripeteva di non perdersi il momento in cui Pang se lo sarebbe infilato al polso per la prima volta – e dovette darle ragione. Pang adesso stava sorridendo – un sorrisetto dei suoi, per metà contento, per metà strafottente – e stava infilando l’ardiglione nel terzo foro del cinturino. Wave si era messo d’impegno nello scegliere il giusto fondello sul quale il quadrante dorato che aveva pescato a una fiera di roba usata sarebbe calzato alla perfezione; lo aveva scelto nero perché nero era l’orologio che adesso Pang avrebbe dovuto sostituire – e che, Wave notò solo in quel momento, aveva già appoggiato sul tavolo accanto alla mappa.
            «Ti piace?» ebbe il coraggio di chiedergli.
            Pang non alzò il capo, ma spostò la direzione del suo sguardo verso Wave, spedendogli un’occhiata che gli fece venire la pelle d’oca, un’occhiata di chi ha tra le mani pieno potere, di chi è perfettamente consapevole di quello che sta succedendo e della situazione in cui si trova, ma sceglie comunque di non perdere a quel gioco del silenzio a cui dopotutto è stato finora un attivo partecipante. Accompagnata dalle sue labbra incurvate all’insù, e da due splendide fossette che gli comparvero ai lati delle guance, diede a Wave l’impressione di trovarsi in una dimensione parallela dove il tempo scorreva con una velocità ben diversa. «Moltissimo» rispose. «Grazie.»
            Wave gli sorrise – fu un sorriso timido, ma che sperava gli comunicasse la felicità che quella singola parola gli aveva infuso. Pang lo ricambiò. Non gli sembrava il momento più opportuno per aggiungere altro, per rivelargli qualcosa di cui nemmeno lui era del tutto sicuro. L'anno era appena iniziato: avevano ancora tempo.
            Non parlarono più dell’orologio per tutta la serata, in effetti non ne parlarono più per il resto dell’anno scolastico. A Wave, però, non poté passare inosservata una cosa: Pang non se lo levò mai di dosso, neanche una volta.

 



Buonsalve, gente! A questo capitolo aggiungo un paio di specifiche, perché mi sembra giusto così:
- è più breve del secondo e del terzo, ma è ciò che mi è venuto spontaneo scrivere, è così che mi sono immaginata il momento (breve, ma intenso, senza troppi fronzoli in qualche modo) e quindi non è che avessi molto altro da aggiungere;
- come tutta la storia, è dedicato a Martina, ma qui ci vuole una menzione speciale perché è lei che mi ha fatto notare che il fatto che questo regalo sia avvenuto è canonico: Pang indossa sempre lo stesso orologio per tutta la prima stagione e glielo vediamo al polso anche in poche, brevi scene del secondo episodio della seconda stagione; a partire dal primo frame in cui Pang compare, successivo al primo momento utile nel quale lui e Wave si sono incontrati dopo che lo abbiamo visto aggiustare un quadrante dorato, c'è chiaramente un altro orologio al suo polso, guarda caso proprio con un quadrante dorato; è palesemente un dettaglio di quelli da blink and miss it, ma c'è, è intenzionale e quindi, per quanto mi riguarda, è canonico.



 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il cielo stellato ***


3. Il cielo stellato
 
 
And we were just kids in love
The summer was full of mistakes we wouldn't learn from
The first kiss stole the breath from my lips
 
 
            A distanza di due anni, Pang poteva affermare con assoluta certezza che a Wave la giacca che gli aveva regalato stava davvero d’incanto. Il mese scorso, aveva deciso di comprargli anche una catenina dorata, per sostituire quella argentata alla quale Wave legava sempre il ciondolo d’oro bianco che gli aveva donato la madre, una settimana prima della sua morte, per tenerlo sempre con sé; la collana era perfettamente in pendant con il quadrante del suo orologio — e per tale motivo lui gliel’aveva presa, ma questo Wave non aveva bisogno di saperlo.
            In quel momento, se ne stavano stesi sulla sabbia, in riva al mare, a guardare le stelle cullati dal rumore delle onde. Wave stava usando il cappello verde abbinato alla giacca come cuscino, per — Pang presumeva — non farsi finire la sabbia tra i capelli. Si perse a guardarlo per qualche secondo, conscio che l’altro si sentisse i suoi occhi addosso. Alla fine, si morse il labbro per frenare il sorriso birichino che stava già nascendo sulla sua faccia e chiuse la mano a pugno nella sabbia per afferrarne un mucchietto; prima che potesse lanciarla sulla testa di Wave, con il solo scopo di dargli fastidio, quello parlò: “Non lo farei, se fossi in te.”
            “Ohw” Pang si lamentò. “Mi hai beccato” affermò, in un sussurro, per poi tirargli comunque contro i granelli finissimi che aveva sotto mano.
            Wave subito si passò le mani sulla testa per toglierli, mentre con i piedi calciò nella sua direzione colpendogli ripetutamente le gambe, cosa che portò Pang a sghignazzare nonostante il dolore. Una volta che ebbe finito di pulirsi, si girò verso di lui con un’espressione oltraggiata, infilò la lingua fra i denti per poi farla schioccare emettendo un suono di pura disapprovazione, poi gli ricambiò il favore lanciandogli addosso due, tre, cinque manciate di sabbia. Pang non riusciva a smettere di ridere.
            Gli venne in mente un’idea. I suoi vestiti erano sporchi adesso, ed era probabile che qualche granello gli fosse finito anche sulla pelle sottostante; pensò di testare la reazione di Wave: si sfilò di dosso la felpa gialla che aveva — regalo di compleanno di Wave stesso, che l’aveva reso felice come non mai, così come il fatto che si ricordasse quale fosse il suo colore preferito — e si ridistese sulla sabbia nudo come mamma l’aveva fatto dalla cintura in su. Un fremito di soddisfazione lo percorse non appena avvertì gli occhi di Wave sul suo profilo.
            Era ormai un paio di mesi che si sfidavano tacitamente in quel modo. Non sembrava mai il momento opportuno di mettere fine ai giochi e di affrontare sul serio la questione. Una piccola parte di lui non credeva neanche che ne avessero bisogno: Pang era innamorato di Wave, a questa consapevolezza non c’era scampo, e sapeva che Wave fosse innamorato di lui. La loro relazione gli andava bene così com’era: non desiderava molto altro dal rapporto che avevano e non avvertiva la necessità di piazzarci sopra un’etichetta. Esisteva, però, un’altra parte di lui che pensava alle labbra di Wave tutto il dannato tempo: si immaginava come sarebbe stato sfiorarle con le proprie, o i brividi che gli avrebbe provocato avvertirle percorrere il proprio corpo, tracciarne ogni linea, ogni conca, ogni vena, o sentirle attorno al suo cazzo, mentre la lingua e la bocca di Wave si adoperavano per fargli raggiungere il Paradiso senza passare a miglior vita. In altre parole, all’adolescente con gli ormoni a palla che era in lui iniziavano a stare stretti i confini della loro relazione, specie perché credeva che anche Wave volesse quelle cose; o meglio: non poteva dire con esattezza fino a che punto Wave avrebbe desiderato spingersi, ma era certo che fosse attratto da lui e ormai erano stati sul punto di baciarsi almeno cinque volte da quando avevano finito l’ultimo anno di Mattayom.
            Solo che, in ognuna di esse, non gli era sembrato mai il momento più opportuno. Per quel motivo Pang aveva deciso di crearlo lui stesso, piuttosto che attendere che si presentasse: tanto valeva provare. Quella notte sarebbe potuta essere quella giusta.
            “Ti prenderai un raffreddore così” gli disse Wave, dopo essersi schiarito la voce con qualche colpo di tosse, di nuovo con lo sguardo fisso sulla volta celeste.
            “Tu sei sicuro di stare bene? Ultimamente tossisci spesso.”
            Wave gli indirizzò un’occhiataccia. “Sono serio, cretino. Finirai per ammalarti.”
            Pang gli sorrise. “Ma no, dai. Anzi: perché non ci facciamo un bel bagno?”
            Il compagno lo guardò come se fosse impazzito. “Un bagno?”. La spiaggia cittadina di Pattaya non era certo rinomata per le sue acque pulite: era una spiaggia libera e niente affatto famosa per l’attenzione con la quale veniva curata. Erano soliti recarsi lì per trarre riparo dal caldo umido di Bangkok, essendo invece quella zona sempre ben ventilata; ma da quando era subentrato l’elemento dei potenziali, anche l’unico aspetto negativo della spiaggia era stato sanato: una ragazza, che lavorava da anni per un’associazione internazionale dedita alla pulizia delle acque, aveva scoperto di avere la capacità di purificare qualsiasi cosa toccasse; pertanto, era riuscita a estrarre in ormai quasi ciascun mare che bagnava la Thailandia tutte le impurità depositatevisi, dopo aver usato il suo potenziale con una certa costanza ed essendo quindi diventata in grado di padroneggiarlo. Pertanto adesso Pang e Wave, se avessero voluto, si sarebbero potuti fare un bel bagno a notte fonda senza rischiare di assorbire nel loro corpo svariati tipi di tossine radioattive. Ciononostante, Pang sapeva che Wave diffidasse ancora di quelle acque, essendo per natura portato a cambiare difficilmente opinione una volta che si convinceva di qualcosa.
            “Sì, un bagno. Lo sai che ormai è sicuro farlo.”
            Wave per tutta risposta increspò le labbra verso l’alto e alzò le sopracciglia per manifestare il suo scetticismo. Pang ridacchiò.
            “Rimettiti la maglietta” gli ripeté.
            Pang girò il capo nella sua direzione, inclinando il collo verso l’alto per mettere in mostra la clavicola sporgente che ormai aveva intuito Wave apprezzasse particolarmente. “Perché? Ti disturba?”
            L’altro non si sprecò neanche a voltare la testa verso di lui. “Mi disturberà dovermi occupare di te come se fossi un neonato quando ti salirà la febbre.”
            Si avvicinò a lui centimetro dopo centimetro, portando il proprio corpo rasente al suo, il proprio viso praticamente a un bacio di distanza da quello di Wave. “Ma a te piace prenderti cura di me” sussurrò contro il suo orecchio. Poche cose nella sua vita gli avevano procurato più soddisfazione del brivido che percorse l’intero corpo di Wave, portandolo a tremare per una frazione di secondo. La pelle d’oca sul suo volto era evidente, così come il rossore sulle sue guance. Non gli rispose nulla, però.
            Pang non sapeva che fare. Non gli sembrava di star superando un confine trasparente ma implicito tra loro due, non gli pareva che Wave fosse a disagio; forse su di giri, quello sì, ma del resto anche lui si sentiva in quel modo: era territorio inesplorato quello che stava accadendo, non era sicuro di come comportarsi per evitare di rovinare tutto. Forse, in fondo, non era ancora arrivato il momento più opportuno.
            “Perché hai voluto portarmi qui?” A tagliare il silenzio che si era instaurato dopo la sua frase, Wave gli pose questa domanda. La forma stessa che aveva dato a quell’interrogativa era curiosa: avrebbe potuto chiedergli come mai avesse proposto proprio quel luogo dove spendere la serata, avrebbe potuto presentare la situazione come una scelta biunivoca. ‘Portarmi qui’ si lasciava dietro una serie di non detti, gli suonava come una fraseologia più o meno quotidiana all’interno di una coppia; in più, era come una tacita ammissione da parte di Wave che era venuto lì con lui perché Pang aveva voluto che ci andassero, che la scelta era stata consensuale ma nondimeno scandita dall’iniziativa di Pang, che Wave si era limitato ad accogliere e a fare sua, come sempre.
            Si girò su di un fianco, affondò il gomito nella sabbia finché non sentì la conca abbastanza salda da potersi lasciar andare, e alzò l’avambraccio verso la sua faccia, per poi poggiare la testa contro il palmo della sua mano. Stette lì a guardarlo per un po’, senza fretta di rispondere. La brezza marina era piacevole tanto al tatto quanto all’olfatto e la vista di Wave steso lì accanto a lui, che osservava gli astri con occhi sognanti e un po’ lucidi, era il regalo più bello che avesse mai ricevuto. “Perché so che ti piacciono le stelle” spiegò, “e mi andava di festeggiare la nostra vittoria.”
            “Solo io e te?” gli chiese, mentre guardava con un’intensità incredibile il cielo, che in quella nottata di primavera era un vero spettacolo.
            “Solo io e te.” In un primo momento, non gli venne in mente di aggiungere altro, specie mentre era impegnato a fissare imbambolato il sorriso tenue che comparve sul volto di Wave; dopo, pensò di dire: “Ti fa piacere?”
            Wave annuì. Incrociò le braccia e accavallò le gambe, spie dell’imbarazzo che quella situazione improvvisamente intima gli stava causando. “Perché?” gli domandò a un certo punto.
            Pang aggrottò le sopracciglia. “Cosa perché?”
            “Perché solo io e te?”
            Era difficile comprendere cosa Wave stesse cercando di ottenere da quella conversazione. Pang decise di reagire semplicemente con onestà: “Perché non mi va di baciarti per la prima volta davanti agli altri.”
            Wave sgranò gli occhi e schiuse le labbra, per poi umettarle e morderle con palese nervosismo. Gli ci volle una manciata di secondi per voltarsi verso di lui e per Pang fu un colpo al cuore incontrare il suo sguardo, a metà incredulo, a metà emozionato, pieno di aspettativa. Che fosse un tacito modo per invitarlo a dargli sul serio un bacio? Decise di tentare la sorte e si mosse ancora di qualche centimetro più vicino a lui, portando i loro nasi a toccarsi appena. L’istinto gli diceva di abbassare le palpebre, ma quelle di Wave lasciavano ancora scoperte le sue belle iridi nocciola e lui non aveva idea di cosa gli fosse concesso fare arrivati a quel punto. Poté smettere di domandarselo quando Wave gli lambì una guancia con le dita, carezzandola con estrema delicatezza, addolcì la sua espressione e annullò lui stesso l’esigua distanza che li separava.
            Le sue labbra erano morbidissime, proprio come se le era immaginate, e fredde, quasi gelide, mentre le proprie, lo avvertiva, erano calde nonostante lui fosse rimasto a petto nudo. A ricordarglielo fu anche l’altra mano di Wave, che si poggiò sulla sua spalla, e i cui polpastrelli premettero sulla pelle della sua nuca e sotto la sua clavicola, spedendogli una scarica di adrenalina che per poco non lo fulminò. Pang si servì della mano che non reggeva il proprio peso per carezzargli il fianco; lasciò che il pollice scivolasse sotto la maglietta di Wave, a sfiorargli la pelle liscia e soffice del bacino. Quel gesto portò l’altro a emettere un gemito spezzato, che Pang accolse con piacere nella propria bocca prima di fiondarsi di nuovo sulla sua; stavolta, abbassò le palpebre e si concentrò solo sulla sensazione di sottovuoto che gli assalì lo stomaco, sulle dita di Wave che si erano strette attorno al suo collo, sulla sua bocca che sapeva di limone per il tè che avevano bevuto assieme poco prima di uscire di casa, sulla sua lingua che si scontrava contro la propria, umida, bagnata, liscia, e Pang desiderava impararla a memoria, avrebbe accettato di restare lì a baciarlo per ore, o finanche al giorno della loro morte — sarebbe stata una dipartita dolce e priva di rimpianti.
            A separarli fu la mancanza di ossigeno. Stettero lì, stretti l’uno all’altro, fronte contro fronte, a sospirare pesantemente per riprendere fiato.
            “Wow” esalò, forse il monosillabo più spontaneo di tutta la sua vita.
            Wave emise una risata silenziosa e breve, il sorriso rimase sul suo volto anche quando terminò. Spese almeno un minuto senza dire nulla e Pang gli diede il tempo di cui forse necessitava per metabolizzare quanto era appena accaduto; dal suo canto aveva appena vissuto uno dei momenti più soddisfacenti della sua intera vita, anche più di aver sconfitto il Direttore, e solo grazie al fatto che Wave era stato così caritatevole da benedirlo facendo toccare le loro labbra; aveva bramato che accadesse per così tanto tempo che a tratti Pang temeva di stare per svegliarsi da quello che gli pareva a tutti gli effetti un vero e proprio sogno. Non aveva la minima idea di come la stesse invece vivendo Wave, di come quell’evento potesse averlo segnato. Non voleva andare troppo veloce, o mettergli pressione in alcun modo, anche se Wave era sempre stato bravissimo a camminare accanto a lui e mai a stargli dietro, a restituirgli con la stessa intensità tutto quello che gli indirizzava. Considerando la posta in gioco, però, voleva assicurarsi che anche lui fosse felice di come le cose stessero per cambiare tra di loro.
            “Pang...” Wave mormorò, a malapena un sussurro.
            Pang avvolse i palmi delle mani a coppa attorno alle sue guance e premette più forte la fronte contro la sua. “Dimmi.”
            “Quando... Da quanto...?”
            “Da due anni, due anni e mezzo, più o meno” gli rispose subito, senza indugiare oltre, perché Wave meritava di sapere. “Non mi sembrava mai il momento più opportuno, più adatto. C’era sempre qualcosa da fare. Non...” si allontanò momentaneamente dal calore del suo corpo, per chiudere la mano a pugno e tossirci contro, al fine di schiarirsi la voce. “Non credevo di meritarmi una cosa tanto bella mentre attorno a noi c’era il caos” gli rivelò, “e non sapevo neanche tu cosa provassi per me, non nello specifico almeno.”
              Wave reagì a quella frase con una smorfia a metà tra l’infastidito e il bonario. Gli arruffò i capelli con i polpastrelli, premendo così forte da fargli male, e rise di fronte al suo lamento. “Sei proprio un idiota” commentò, come se fosse un dato di fatto — e forse lo era. “È diventato palese a tutti quello che provassi io. Solo tu sei rimasto più o meno ignaro fino alla fine.”
            Oh. Quella era una sorpresa. Doveva ammettere di non aver realizzato la portata di ciò che stava nascendo tra di loro fino a che non era diventata così maestosa da non poter essere ignorata; pertanto, non aveva neanche ipotizzato che una persona esterna potesse accorgersi di qualcosa che neanche aveva propriamente un nome. “Sul serio?”
            Lui annuì. “Sul serio.”
            Pang sbuffò. “Se era così ovvio, perché non hai fatto tu la prima mossa, allora?”
            La spavalderia di Wave vacillò. Abbassò il capo e Pang notò il suo sguardo spostarsi a destra e a sinistra ripetutamente, senza che riuscisse a fissarlo su un punto specifico. Quando forse riuscì a raccogliere il coraggio per tornare a guardarlo, le sue labbra andavano a formare una linea retta, le sue palpebre tremavano e i suoi occhi trasmisero a Pang tanta paura. Una voce nella sua testa lo stava spronando a stringerlo forte a sé, ad abbracciarlo e a dirgli che andava tutto bene, che non doveva più temere nulla, che nessuno dei due aveva più bisogno di sentirsi solo, mai e poi mai; un’altra, però, gli suggerì di aspettare che fosse Wave a fare o a dire qualcosa. Nell’arco di trenta secondi, che gli parvero estremamente lunghi, lui infatti parlò: “Io non credevo che... non pensavo che tu volessi... non pensavo che tu mi volessi... non così...”
            Che stupido che era stato. Wave aveva ragione: un idiota colossale, tanto intento ad attendere quel fantomatico momento più opportuno da non accorgersi che qualsiasi avrebbe potuto esserlo, finché si trattava di loro due. Aveva creduto che tutto ciò che aleggiava implicito nell’aria che li circondava fosse comunque in qualche modo al posto giusto, che in fondo non c’era nessuna fretta, che le cose andavano grossomodo bene com’erano, che fintanto che Wave sarebbe rimasto nella sua vita non c’era motivo per forzare un cambiamento. Si era sbagliato di grosso. La sua incoscienza doveva averlo ferito, doveva averlo inchiodato in un limbo di contraddizioni e ambiguità, portandolo addirittura a pensare che forse Pang non lo desiderava nello stesso modo in cui Wave desiderava lui. Che completo imbecille.
            “Mi dispiace tanto, Wave” gli disse.
            Quello fece spallucce. “Di che ti scusi? Non serve mica che provi compassione per me.”
            Pang incurvò le labbra all’insù, intenerito dal suo orgoglio sempre pronto ad avere l’ultima parola, e gli carezzò la guancia sinistra, mentre con il pollice andò a vezzeggiargli lo zigomo opposto. “Non si tratta di provare compassione. Sono stato un cretino.”
            Wave portò di nuovo all’insù le spalle, prime di lasciarle tornare giusto al di sotto del collo. “Sai che novità.”
            Pang rise. Chiuse gli occhi, si sporse verso di lui e gli diede un bacio sulla fronte. Sentì Wave irrigidirsi, ma per fortuna bastò una manciata di secondi per farlo rilassare di nuovo; lo strinse forse a sé, portò il capo accanto al suo, sfiorandogli quella zona soffice e morbida – che moriva dalla voglia di baciare e mordicchiare – tra la sua fronte e la sua guancia con la propria. Wave ricambiò l’abbraccio e appoggiò il mento sulla sua spalla nuda.
            Pang doveva ammettere che in tutti i suoi diciotto anni di vita non aveva mai ricevuto un regalo più bello di quell’esatto istante: la brezza primaverile gli scarmigliava i capelli, le onde del mare cantavano per lui intonando una melodia stabile e rilassante, le stelle nel cielo illuminavano la figura esile e meravigliosa tra le sue braccia, che non accennava a staccarsi da lui. Era felice, veramente felice, forse per la prima volta da tanto tempo. Si trattava di molto più che di un semplice momento opportuno: quello era un momento perfetto.


 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4065560