The Blue Side of The Story

di Non Molto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** Blue Rebirth ***
Capitolo 3: *** Blue Confrontation ***
Capitolo 4: *** Blue Dealings ***
Capitolo 5: *** Blue Pursuit ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


Premessa: Anni fa ho pubblicato una storia simile a questa su questo sito con il nome di "Alumina", il titolo era: "Ma in blu". All'epoca ho dovuto eliminare la storia per alcune problematiche che ho avuto con il profilo ma ora, poiché alcuni lettori erano affezionati al mio racconto, ho deciso di rivisitarla e ripubblicarla. Dunque, se questa trama vi suona familiare è per questa ragione, non si tratta di un plagio. Buona lettura!   

 

 

 

 

 

 

 

The Blue Side of The Story


 

Prologue

 

Southampton, 1988. 

Una donna sui trent’anni sedeva rigidamente su un vecchio letto, tenendo un logoro cuscino frapposto tra la propria schiena e la testiera in ferro battuto.

Era una ragazza oggettivamente bella, di una bellezza notevole ma ordinaria. E di bellezze notevoli ma ordinarie ne è pieno il mondo, un po’ come di musei d’arte ne è piena Parigi: ciascun museo straripa di meraviglia e cultura, ma si perde in mezzo ad altre centinaia di musei che straripano di meraviglia e cultura e dunque, in fin dei conti, non ha chissà che di speciale.

Ella, questo era il nome della giovane donna, si sentiva a suo agio anche nella propria bellezza oggettiva e ordinaria. Sapeva di non avere quei dettagli particolari che rendono la bellezza di una persona indimenticabile come, per esempio, l’aria androgina, bambinesca e sbarazzina di Lady D, ch’era tipicamente sua, e che dunque la rendeva una bellezza soggettiva. Ella, però, era serena così.

Era alta più o meno un metro e settanta, e portava i capelli color nocciola lunghi fino a metà schiena, impeccabilmente lisci grazie alla stiratura chimica effettuata appena cinque giorni prima. Aveva la carnagione chiara, la fronte leggermente spaziosa e folte sopracciglia scure, che conferivano un po’ di ferocia al taglio affilato e sensuale dei suoi occhi, color del cioccolato. Infine, le labbra di Ella erano carnose e lattee, il naso sottile e all’insù, e i lineamenti del volto delicatamente squadrati.

«Cazzo, Nordahl, tua moglie potrebbe davvero sfilare per Vogue» se n’era uscita una volta Jenna Gillberg, durante una serata di beneficienza a cui Ella aveva accompagnato Heath, suo marito.

«Già» le aveva risposto lui «però, evidentemente, risolvere i casini degli altri le piace di più», e così era: Ella Nordahl infatti non era una modella, ma una psicologa. Una psicologa che, in quel momento, se ne stava tesa come una corda di violino su quel letto dalle lenzuola sgualcite, con una sottoveste in raso color bianco perla che le ornava i seni piccoli con del pizzo, e ben due coperte di lana ad avvolgerle le gambe longilinee.

«Via, signorina, ne prenda un’altra! Viene dall’Australia, laggiù è mica estate ora? Abituata al caldo com’è morirà di freddo, se non si copre bene. Anzi, sa che Le dico? Lei è proprio una bambolina graziosa. Le alzo il riscaldamento stanotte, tòh! Così dormirà bella tranquilla, al calduccio. Le sembrerà di essere a Sydney, parola mia!» le aveva detto la signora Mary, l’affittacamere da cui aveva ricevuto asilo. In tutta risposta, Ella aveva soffocato l’impulso di dirle: “non sa quanto vorrei tornarci, a Sydney” e di piangere, e le aveva risposto con un sorriso esitante e tremulo, frutto dei suoi maggiori sforzi.

Ella soffriva molto il freddo. In altre circostanze, l’offerta di Mary l’avrebbe resa felice come una bambina nel giorno di Natale, ma non quella sera. Non quella notte, non quel mattino. Il mattino del 9 novembre 1988.

Ella sapeva già che avrebbe trascorso una notte insonne, e non per la temperatura o per il fuso orario.

Aveva fatto qualunque cosa per provare a calmarsi: era sfuggita il prima possibile alle curiose domande della signora Mary sull’Australia e sul suo viaggio nel Regno Unito; sotto la doccia, bollente come piaceva a lei, aveva provato a portare l’attenzione su ogni gesto, lento e meticoloso, che compiva per lavarsi e poi per asciugarsi; e sempre così aveva fatto una volta coricata, concentrandosi prima sulla propria respirazione e poi sul proprio battito cardiaco, e infine su ogni singolo arto del proprio corpo, focalizzandone bene la posizione e ciò con cui era a contatto, così come suggeriva di fare ai suoi pazienti che soffrivano d’ansia. 

Si era illusa più volte di stare per addormentarsi ma, così come aveva previsto, ciò non accadde. In quel momento era seduta sul letto, e teneva i muscoli delle gambe, ch’erano accavallate, così in tensione che temeva non sarebbe più stata in grado di rilasciarli.

Le sue dita, sottili e affusolate, erano arpionate alla copia curata de “Brain Surgeon, The Autobiography of William Sharpe”, libro che apparteneva a Heath, che però lei aveva portato con sé. 

Aveva riletto cinque o sei volte la storia in cui il dottor Sharpe, alticcio, lasciava morire sul tavolo operatorio un operaio haitiano perché, quando il sangue del paziente si era fatto nero, al chirurgo era parso ovvio che lo fosse, in quanto l’operaio in primis aveva la pelle nera. L’aveva riletta cinque o sei volte, ma senza capirci un’acca. Eppure, a Ella piaceva la medicina, soprattutto quand’era Heath a spiegargliela e raccontargliela.

Credeva che leggere l’avrebbe aiutata a distrarsi, perciò aveva tenuto l’abat-jour accesa per tutta la notte. Però, dopo aver letto qualche riga, le giungevano al naso i profumi di cui erano impregnate quelle pagine: il profumo di bucato, ch’era quello di Heath, e quello dei golden wattles, che entrava dalle finestre aperte e si diffondeva per le stanze di casa loro, a Elizabeth Bay… e a Ella veniva da piangere. Così chiudeva in fretta il libro e lo allontanava, perché quel libro era parte di Heath, e piangerci sopra avrebbe voluto dire scaricare l’intera mole di dolore e paura che provava in quel momento sul povero ignaro, che probabilmente a quell’ora si stava recando alla spiaggia di Double Bay con Maggie e Sarah, le loro nipotine che ogni domenica portavano al mare.

A un tratto, dei prepotenti colpi s’infransero contro la porta della stanza di Ella. La ragazza sobbalzò, e il suo cervello mandò in circolo talmente tanta adrenalina da offuscarle la vista per una frazione di secondo.

«Bella signorina, buongiorno! È sveglia? Forza, si alzi e si vesta, ché L’aspetta una bella colazione!».

Ella ricordò di aver domandato la sera prima alla signora Mary di chiamarla alle 6:00. «Sì, grazie signora Mary, scendo subito!», la voce le uscì gracchiante e roca, a causa delle ore passate senza usare le corde vocali e in preda al pianto.

La ragazza balzò agilmente fuori dal letto, determinata a ignorare quell’emicrania che le reclamava almeno dieci ore di sonno, e s’infilò in bagno, prendendo a lavarsi con cura ma in modo estremamente veloce.

Quel mattino non tentò di calmarsi: voleva crogiolarsi nell’illusione che, facendo le cose più in fretta, il tempo sarebbe trascorso più velocemente e che, dunque, la sua visita a Winchester sarebbe stata istantanea e indolore.

Si lavò i denti con energia e si spalmò sul viso un velo di crema solare, così com’era abituata a fare durante le mattine estive. Certo, era pressoché inutile, dato che in Inghilterra il tempo era perennemente uggioso ed era pure autunno, per di più. Ma in Australia no. In Australia, a Sydney, a casa, era estate. Faceva caldo, c’era il sole, si andava al mare e si faceva surf. E proprio per questo Ella se l’era messa ugualmente, la crema solare. Per avere un po’ di estate, un po’ del calore di casa a sostenerla in quella giornata orribile, in cui si sentiva spaventata poiché si trovava da sola in un paese straniero, ch’era dall’altra parte del mondo, per motivi che, al solo pensarci, le facevano contorcere le viscere per il terrore.

Si truccò appena le ciglia con del mascara e si passò sulle labbra un rossetto color mattone, per poi precipitarsi in camera da letto ed estrarre dalla valigia di cuoio gli abiti che aveva intenzione di mettersi. Esitò un istante, indecisa se optare per la gonna o per un pantalone. Poi, le sfuggì un ghigno amaro: sì, pantalone, figurarsi. La sua meta erano le sperdute campagne inglesi, non Regent Street: se si fosse presentata in pantaloni, non avrebbero esitato a scambiarla per una prostituta. S’infilò pazientemente i collant color carne, si abbottonò con le dita tremanti la camicetta di cotone, s’infilò la gonna del tailleur color blu notte e poi la giacca abbinata.

Infine, calzò gli stivaletti di vernice dal tacco non troppo alto, raccattò i propri effetti personali e li scagliò in valigia.

Quando fu pronta si avviò energicamente verso la porta, trattenendo il respiro fino al momento in cui non fu fuori dalla camera.

«Eccola qui, la nostra giovane australiana! Sydney!» la investì la signora Mary, non appena la vide. «Sarà abituata alla vita di città, altro che la vita spenta che facciamo qui in periferia, eh? Ma venga, su! Deve mangiare, è talmente magra! Poi, col vento che c’è oggi, una folata un po’ più forte e La porta via. Bacon e uova strapazzate, che ne dice? Oppure una bella tazza di porridge! Anche tutt’e due, se vuole. E tè nero a volontà, naturalmente!».

«Mi dispiace tanto, signora Mary, ma devo proprio andare» si scusò Ella, scendendo cautamente con la valigia in mano la stretta e pericolante scala a chiocciola in ferro battuto che portava al pian terreno. Ella amava fare colazione, al mattino si svegliava sempre con una gran fame. Mangiava più o meno quello che le aveva proposto la signora Mary, a parte il porridge. Il porridge sarebbe sempre rimasto un mistero per lei: gli inglesi lo amavano, eppure a Ella non sembrava chissà quale delizia. Comunque, la ragazza già sapeva che avrebbe saltato la colazione: l’ansia le stava rosicchiando le viscere, e i suoi organi digestivi si sarebbero rifiutati di smaltire anche la più piccola porzione di uova strapazzate.

Tra le proteste e i tentativi di convincimento dell’affittacamere, Ella riuscì a prendere la propria pelliccia color caramello dal guardaroba e a infilarsela. Indossò poi un paio di guanti neri in velluto, lasciò alla signora Mary una banconota da cinquanta sterline e se ne andò con un: «che Dio La benedica!», mentre la donna cercava di fermarla, gridandole che le aveva dato più soldi di quanto le spettassero.

Una volta fuori, Ella fu investita in pieno dall’aria pungente dell’autunno inglese, e cominciò a camminare speditamente verso la stazione dell’aeroporto di Southampton.

Il treno di Ella sarebbe partito alle 07:03, e arrivato alla stazione di Winchester trenta minuti dopo.

Forse sarebbe stato meglio prendere una camera direttamente a Winchester, ma Ella non voleva avere niente a che fare con quel buco di mondo dimenticato da Dio, e ci sarebbe rimasta lontana il più possibile.

Certo, anche dormire a Southampton aveva avuto i suoi lati negativi: il rumore degli aerei in decollo l’aveva fatta piangere dal desiderio di trovarsi su uno di quei Boeing.

Una volta giunta alla stazione, diede un’occhiata ai tabelloni. Il treno che doveva prendere aveva come capolinea Southall. Tramite il grande orologio lì accanto, Ella scoprì che mancavano ancora venti minuti alla partenza, venti minuti che la giovane psicologa trascorse dapprima andando alla biglietteria per ottenere il proprio titolo di viaggio, e poi piazzandosi davanti ai tabelloni, a cui continuava a lanciare occhiate mentre aspettava la comunicazione del binario.

Il numero 7 apparve proprio cinque minuti prima della partenza. Ella si recò spedita al binario indicato e montò sulla carrozza, sedendosi accanto al finestrino. 

Quando il treno partì, lo stomaco di Ella si strinse in una morsa. La giovane tentò di concentrarsi sul paesaggio che scorreva fuori dal finestrino, reso abbastanza visibile da un accenno d’albeggio.

La ragazza osservò le case di periferia in stile inglese: le mura di mattoni, le finestre prive di persiane o tapparelle e i giardini stretti. Ella era stata una volta sola nel Regno Unito: era andata a Londra, con Heath, ed erano partiti verso giugno per sfuggire all’inverno australiano e godersi qualche altra giornata di caldo. 

Londra le era piaciuta molto, ma il Regno Unito le riempiva l’anima di malinconia. Forse per il cielo lugubre, oppure per quei piccoli cortili spogli, oppure ancora per l’asfalto perennemente bagnato.

07:36, fermata di Winchester.

Ella scese dal treno e si avviò verso l’uscita della stazione. L’e-mail che aveva ricevuto, oltre che a contenere istruzioni precise su quale treno prendere e a che ora prenderlo, le comunicava che, una volta uscita dalla stazione di Winchester, avrebbe trovato un’auto ad attenderla.

La ragazza si guardò intorno per qualche secondo, prima di scorgere nel piazzale un uomo di mezz’età con in mano un cartello su cui c’era scritto “Sig.ra Nordahl”. La giovane si avviò verso di lui: era piccolo di statura, aveva folti capelli bianchi e portava un completo elegante coperto da un lungo cappotto nero, con in testa un fedora del medesimo colore. A Ella ricordò una versione più vecchia e minuta di Humphrey Bogart in Casablanca. Infine, l’uomo stava vicino a un’automobile che fece sgranare gli occhi a Ella: sembrava proprio una Bentley, e anche dal design abbastanza moderno. Non fu tanto il fatto che si trattasse di un’auto di ultimo modello a sorprendere Ella, quanto più il marchio: la Bentley era probabilmente l’azienda automobilistica di fiducia della Casa Reale britannica, e chi si poteva permettere una macchina del genere faceva chiaramente intendere di avere un bel gruzzolo in banca.

«Buongiorno!» lo salutò sventolando una mano, mentre gli si avvicinava.

«Buongiorno, signora! È Lei che va al The Wammy’s House?» le domandò l’autista, cordiale.

«Proprio io» confermò Ella, mentre l’uomo apriva il baule della Bentley per caricarvi la valigia della giovane. Dopodiché, aprì con galanteria la portiera posteriore alla ragazza, e lei montò sul sedile. Quando anche l’autista fu salito, partirono. C’impiegarono pochi minuti a uscire dalla città, e s’inoltrarono poi nelle campagne inglesi.

The Wammy’s House. Era un orfanotrofio di proprietà di tale signor Wammy, un nome che era completamente nuovo a Ella. Dopo aver ricevuto quella maledetta e-mail una settimana prima, la ragazza aveva cercato informazioni sul conto del signor Wammy, e aveva scoperto che si trattava di un personaggio di estremo rilievo: era un inventore e benefattore di fama mondiale. Col denaro ricavato dai suoi innumerevoli brevetti aveva fondato orfanotrofi, scuole e ospedali pediatrici in tutto il mondo. Una sorta di Babbo Natale. Azioni splendide e degne di nota, che a Ella facevano sperare che quell’uomo, all’apparenza così caritatevole, non le avrebbe inferto la peggiore delle cattiverie, come invece temeva.

Dopo una decina di minuti, l’automobile imboccò un viale alberato che conduceva a quella che aveva l’aria di essere la sola costruzione lì attorno: si trattava di un edificio imponente, di chiaro stampo vittoriano. Forse un ex convento o un ex ospedale militare, o magari anche un ex grand hotel: l’intonaco era color crema, ed era circondato da un ampio giardino e delimitato da un’alta cancellata nera. 

«Eccoci qui, dottoressa» annunciò l’autista, appena dopo aver fermato il veicolo.

«La ringrazio» fece Ella, allungandosi verso la borsetta. «Le devo?».

«Niente, dottoressa. Questo non è un taxi, ma una delle auto private del signor Wammy» spiegò l’uomo.

«Ah, oh. Mi scusi».

«Si figuri, ci mancherebbe» rispose lui, scendendo dalla vettura per andare a scaricare il bagagliaio.

Dopo averle riconsegnato la valigia, l’autista si congedò educatamente e risalì in macchina. Mentre percepiva il rumore del veicolo che si allontanava solleticarle le orecchie, Ella si voltò a osservare meglio l’orfanotrofio. La giovane si avvicinò lentamente all’inferriata, sentendo la ghiaia, di cui l’intero viale era ricoperto, scricchiolare sotto ai suoi stivaletti.

La ghiaia lasciava poi posto a un vialetto in pietra, che passava sotto al cancello e conduceva a quella che, Ella intuì, doveva essere l’entrata principale dell’istituto.

Il cancello era isolato dal resto dell’inferriata da due colonne in pietra, una delle quali portava una targa su cui era inciso il nome dell’orfanotrofio, The Wammy’s House. Al di sotto vi era un solo e singolo pulsante, che Ella ipotizzò fosse il campanello. Così, dopo aver raccolto il coraggio, lo premette.

Dopo qualche minuto, che a Ella parve un’eternità, il volto arcigno di una donna anziana fece capolino dalla porta principale. «È la dottoressa dall’Australia?!» le gridò poi.

«Sì, buongiorno!» rispose Ella, agitando una mano.

La donna annuì con un gesto brusco del capo, e poi s’incamminò speditamente lungo il vialetto per andare ad aprirle. Era alta e snella, e doveva avere sui settanta, settantacinque anni. Portava una lunga gonna color borgogna coperta da un grembiule bianco, e aveva lunghi e lisci capelli grigi, che teneva legati in una coda bassa. Il suo volto, solcato dalle rughe, era contratto in un’espressione abbastanza seccata, come se l’arrivo di Ella l’avesse interrotta dal fare qualcosa di importante. 

Quando arrivò davanti a Ella, l’anziana signora non la degnò neanche di uno sguardo. Con movimenti vigorosi infilò la chiave nella toppa e la girò, aprendo poi l’inferriata. «Prego, entri» borbottò la donna, ma le sue parole furono coperte dallo stridio dei cardini.

«Da questa parte», la istruì poi la vecchia, ripartendo a passo spedito in direzione della porta principale. Di sfuggita, Ella era riuscita a notare che la signora aveva dei meravigliosi occhi azzurri.

Quando entrò per la prima volta al The Wammy’s House, la psicologa percepì all’istante l’atmosfera lugubre di quel luogo. Certo, era sì inondato dalla luce solare, ma Ella non si fece ingannare: quei muri, scrostati qua e là, trasudavano freddezza e solitudine.

L’atrio era una stanza ampia, e sia a sinistra che a destra si diramavano due lunghi corridoi. Il pavimento era di lisce e lucide piastrelle chiare, che lì nell’atrio erano state quasi interamente coperte da un maestoso tappeto persiano, su cui si intrecciavano principalmente i colori avorio, vermiglio e blu notte. Sulla parete opposta alla porta d’entrata si trovavano quattro imponenti finestre che davano sul giardino, e altre due erano invece alle spalle di Ella, accanto all’uscio. Anche gli stretti corridoi che si diradavano sulla destra e sulla sinistra ne avevano, e parecchie.

«Se vuole darmi il bagaglio e il soprabito» borbottò la vecchia, ed Ella si sfilò in fretta la pelliccia, mentre ancora si guardava intorno, con un fare ch’era un misto tra il sospettoso e il meravigliato. 

«Grazie mille» mormorò, mentre la signora si recava verso un armadio in legno scuro e intarsiato, che si trovava sul lato sinistro della stanza ed era l’unico mobile lì presente.

«Prego, da questa parte» mormorò poi la donna. «L’ufficio del signor Wammy è di qua», e imboccò il corridoio di sinistra, sempre con passo celere. Sul lato sinistro del corridoio Ella contò sei finestre, e sul destro tre porte, che probabilmente conducevano alle aule. 

La stanza in cui sbucarono era un ampio e arioso salone, che Ella riuscì a malapena a scorgere perché l’anziana signora aveva preso a salire le scale, che si trovavano lungo la parete destra di quel soggiorno. Era un locale estremamente accogliente, doveva trattarsi di una sorta di area ricreativa: il pavimento era, anche in questo caso, ricoperto da tappeti persiani, e c’erano diversi divani, ampi tavoli e sedie, librerie colme di libri e un imponente camino. E giocattoli, tanti.

Alla vista dei giochi Ella si rese conto che, nonostante si trovasse in un orfanotrofio, non aveva ancora visto neanche un bambino. Certo, probabilmente erano tutti a lezione, ma l’ambiente era completamente silenzioso. Non si sentiva neanche uno schiamazzo, una voce, nemmeno quella di un adulto. 

Quando giunsero in cima alle scale Ella si ritrovò in un altro corridoio, illuminato da una finestra sul fondo, su cui si affacciavano cinque porte. La vecchia si diresse verso quella centrale, che portava una targhetta metallica su cui vi era inciso direttore Wammy, e bussò con colpi piccoli e veloci. «Signor Wammy?» gracchiò. «È arrivata la dottoressa dall’Australia».

«Prego, entrate», Ella sentì una voce profonda rispondere dall’interno.

L’anziana signora fece scattare la maniglia, e fece cenno a Ella di entrare mentre mormorava un: «prego». 

L’ufficio del signor Wammy era incredibilmente luminoso, inondato dai raggi del mattino: Ella c’impiegò qualche secondo per mettere a fuoco la figura in controluce che le si stava avvicinando garbatamente, tenendo le mani dietro la schiena.

Il signor Wammy era un uomo di mezz’età, e portava i capelli sale e pepe accuratamente pettinati all’indietro. Il suo volto, distinto dai baffi meticolosamente circoscritti al labbro superiore, cominciava a mostrare i primi segni della vecchiaia, e dietro a un paio di occhiali dalla montatura ovale c’erano gli occhi, il cui taglio era talmente stretto da dare l’impressione che fossero chiusi. Infine, indossava un elegante completo nero.

«Grazie mille, signora Sybil», l’uomo si rivolse alla vecchia signora, che rispose a quel ringraziamento con un brusco cenno del capo e poi si dileguò, chiudendo la porta dietro di lei. «Buongiorno» si voltò poi verso Ella, porgendole la mano. «Quillsh Wammy, direttore dell’istituto» si presentò infine, formale ma cordiale.

La ragazza, sebbene si sentisse ansiosa, non si fece intimidire e ricambiò la stretta di mano con vigore. «Dottoressa Ella Nordahl».

«Prego, si accomodi», Wammy le indicò con un gesto morbido le due poltroncine color porpora che si trovavano davanti a un’ampia scrivania in legno di mogano, mentre lui andava a prendere posto dietro a quest’ultima. Ella si accomodò sulla poltroncina di destra, senza dire una parola.

L’uomo si schiarì la voce. «Dunque, dottoressa Nordhal» cominciò, con fare cordiale «le do il benvenuto al The Wammy’s House, orfanotrofio da me fondato quattro anni or sono, nel ’84. Qui ci occupiamo di bambini particolarmente dotati a livello intellettivo, fornendo loro una formazione che possa permettere loro di sviluppare a pieno le loro facoltà. In poche parole, offriamo un livello d’istruzione più alto, e dunque adeguato a dei bambini e adolescenti il cui QI oscilla tra il 120 e il 130. Come le ho già spiegato nell’e-mail, l’ho convocata qui oggi perché vorrei affidarle un incarico: un anno fa è stato trasferito qui un bambino da uno dei miei orfanotrofi su, al Nord, che presenta un QI di 130, il più alto tra tutti gli studenti di quest’accademia. Mostra una particolare attitudine per il campo investigativo, e io ho intenzione di far sì che lui ottenga la formazione adatta per diventare il migliore in circolazione. Il problema però, è che il bambino ha bisogno di assistenza. Non è come tutti gli altri: da quando è arrivato non ha proferito parola, se non in casi eccezionali; non interagisce né con i compagni né con gli insegnanti, gioca sempre da solo e predilige attività ripetitive e non creative. A volte ha degli scatti incontrollati di rabbia, che sfoga o sui compagni che vanno a stuzzicarlo o sugli oggetti che lo circondano. Non è raro infatti che si ritrovi coinvolto in una rissa o che abbia le mani rovinate da qualche taglio che si è inferto distruggendo qualcosa, e la notte dorme poco o niente. L’ho fatto vedere a diversi psichiatri a Londra, e la maggior parte di loro ha ipotizzato un disturbo autistico ad alto funzionamento, dato che il bambino non presenta alcun deficit cognitivo, anzi. Comunque, non essendo un vero e proprio normodotato avrà bisogno di assistenza continua, soprattutto in un percorso arduo come quello in cui ho intenzione d’instradarlo. Ed ecco qui il compito che Le affiderò: lo seguirà, aiutandolo laddove i suoi deficit sociali lo ostacoleranno: un buon investigatore dev’essere in grado di mettersi nei panni degli altri, e penso che il bambino avrà parecchia difficoltà a sviluppare quest’abilità, dato che pare non intenzionato a uscire dalla sua bolla. E poi, più generalmente, sarà per lui un pilastro. Una confidente, un’amica. Insomma, la sua figura di riferimento».

Quando il signor Wammy terminò di parlare, Ella rimase a fissarlo con espressione neutra per qualche secondo. Si sentiva sì spaventata, ma perlopiù confusa e irritata. “Un percorso arduo come quello in cui ho intenzione d’instradarlo”, aveva detto quell’uomo. Instradarlo?! Ma chi pensava di essere, un burattinaio?! O una divinità, forse. “Sarà per lui un pilastro”, “la sua figura di riferimento”… erano forse ordini?! Non c’era stato neanche l’accenno di una richiesta nel discorso di quell’uomo. No, Ella si era sentita come un soldato convocato a colloquio dal proprio superiore per ricevere nuovi comandi. Ma come si permetteva?!

La psicologa si schiarì appena la voce. «Mi perdoni, signor Wammy, dunque: se ho capito bene, lei mi sta chiedendo di prendere in cura questo bambino?».

«Sì, per dirla in maniera educata. Tuttavia, non ho bisogno di fare richieste: so già che accetterà la mia proposta».

Ella aggrottò le sopracciglia e scosse appena il capo, guardando il signor Wammy. Era ingenuamente sbalordita dalla sfacciataggine con cui quell’uomo le si stava rivolgendo, ma s’impegnò comunque per mantenere la conversazione su un piano civile. «Se so che posso aiutare un bambino in difficoltà lo faccio più che volentieri, signor Wammy. Tuttavia, come Lei sa, io risiedo a Sydney. Potrò certamente assistere il bambino, ma da lontano. E questa lontananza non mi permetterà di diventare la sua “figura di riferimento”» disse Ella, riportando le esatte parole del signor Wammy con fare discretamente canzonatorio. «Ma se troverà un tutore o una tutrice disposti a fornirgli l’assistenza di cui necessita, mi metterò più che volentieri a disposizione per qualsivoglia consulto».

«La ringrazio per il suggerimento, dottoressa. Come Le ho già detto però, sarà Lei a prendersi cura del bambino in prima persona. E, certo, questo comporterà il Suo trasferimento permanente qui, a Winchester, o in qualsiasi posto il bambino deciderà di stabilirsi una volta adulto. E se dovrà viaggiare per lavoro lo seguirà, naturalmente».

A Ella quasi scappò una piccola risata, per via dell’assurdità della situazione che stava vivendo. «Mi scusi, signor Wammy, sono abbastanza confusa e avrei diverse domande da porle».

«Prego» rispose lui, garbato.

«Lei ha intenzione di far sì che questo bambino diventi un investigatore di fama mondiale, ho capito bene?».

«Sì, dottoressa, il mio progetto è più o meno quello».

«E se lui non vorrà diventare un investigatore?» domandò la psicologa.

«Come potrebbe non volerlo direi piuttosto, dottoressa. Gli autistici non hanno chissà quale prospettiva di vita, e io sto offrendo a questo bambino la possibilità di crearsi una carriera che gli permetterà di condurre una vita ben più che agiata. Le potenzialità le ha tutte, perciò a me il suo destino sembra più che segnato» spiegò il signor Wammy.

Ella piegò gli angoli della bocca all’ingiù. «Le persone con un disturbo autistico» proferì poi, glaciale.

«Come dice?».

«Non si dice “gli autistici”, si dice “le persone con un disturbo autistico”» puntualizzò la donna. «È sbagliato identificare una persona con il proprio disturbo o la propria sindrome, perciò cerchiamo di usare la terminologia corretta, per favore».

«Oh, sì, mi perdoni» si scusò il signor Wammy. «Comunque, dottoressa-».

«Mi scusi, signor Wammy» lo interruppe Ella, mentre faceva appello a tutte le proprie forze per mantenersi garbata. «Ma non credo che il suo ragionamento sia corretto. Avere le capacità per fare qualcosa non significa doverla o volerla fare per forza. Il bambino avrà anche attitudine per il campo investigativo, ma magari un domani vorrà fare il commediografo, lo stilista o l’astrofisico. Non crede che instradarlo sia sbagliato?».

Il signor Wammy guardò Ella per qualche istante, per poi liberare un sospiro spazientito. «Dottoressa, la prego, mi risparmi. Queste puntualizzazioni sono del tutto inutili: non L’ho chiamata qui per questionare le mie decisioni, bensì per affidarLe un semplice incarico».

«Un incarico che, come Le ho già detto, non posso accettare. La mia vita è a Sydney, e non ho alcuna intenzione di trasferirmi a Winchester» ribatté la psicologa.

«E invece lo accetterà» obbiettò il signor Wammy, con naturalezza. «Lo accetterà per lo stesso identico motivo per cui si è messa in viaggio dall’Australia e si è recata fin qui. L’allegato dell’e-mail che Le ho mandato parlava abbastanza chiaro, mi sembra. Dopotutto, non si sarebbe fatta una trentina di ore lungo la Kangaroo Route se non avesse inteso la, mi passi il termine, pericolosità della situazione in cui si trova».

«La pericolosità della situazione in cui Lei, signor Wammy, mi ha messa» puntualizzò Ella, velenosa.

«Il fine giustifica i mezzi, dottoressa» citò lui, liberando poi un sospiro. «Ha mai letto Il Principe di Machiavelli?».

«No, ma conosco la frase» tergiversò Ella. «Comunque, tornando all’allegato della sua e-mail, mio marito ha una laurea in medicina».

«Indubbiamente» ribatté Wammy. «Ma si tratta di una laurea angolana, non riconosciuta in Australia. Ergo, suo marito esercita la professione di medico chirurgo illegalmente. E, se Lei non accetta l’incarico che Le ho proposto, non mi rimarrà che denunciare Suo marito all’albo dei medici di Sydney, facendolo finire dietro le sbarre per chissà quanto tempo e, dunque, troncando irrevocabilmente la sua carriera».

A quelle parole, lo sguardo di Ella s’impregnò di rabbia e disgusto. Nei tre anni trascorsi con Heath, di cui due di matrimonio, la ragazza l’aveva sentito molto raramente parlare dei suoi genitori. Si ricordava di due volte, in particolare: la prima, stavano cenando all’Eden, che in seguito sarebbe diventato il loro ristorante di pesce preferito. Era il loro primo appuntamento, ed Ella per rompere il ghiaccio se n’era uscita con un: «raccontami la storia della tua vita», a metà tra la richiesta e il tentativo di prendere in giro le commedie romantiche americane. Fortunatamente per lei Heath aveva afferrato il riferimento, e dopo aver ridacchiato aveva iniziato a raccontarle un po’ della sua infanzia e adolescenza, vissute in Angola. Era nato là, in Africa, poiché i suoi genitori, i dottori Emily e Nathan Nordahl, vi si erano trasferiti per lavorare come medici missionari. Intenzionato a seguire le loro orme Heath li aveva assistiti sin da bambino, e una volta raggiunta l’età adatta si era iscritto all’Università di Luanda, laureandosi in medicina nel 1974, a 24 anni. L’anno dopo però, nel 1975, in Angola era scoppiata la guerra civile, e i suoi genitori l’avevano rispedito a Sydney con la scusa di fargli sostenere un tirocinio adeguato in un ospedale australiano, sotto la guida del dottor Ruch, luminare nonché primario del St Vincent’s Hospital di Sydney. I suoi genitori avevano lavorato per molti anni con Alan Ruch, si conoscevano sin dai tempi dell’università e si poteva dire che fossero amici di lunga data. Perciò, Emily e Nathan erano abbastanza sicuri che Alan non si sarebbe rifiutato di accogliere il figlio dei Nordahl nel suo ospedale, mascherando il fatto che il suo titolo di studio non fosse propriamente riconosciuto in Australia. Di quest’ultima parte però, del favore che Ruch aveva fatto ai suoi genitori e della laurea “illegale”, Heath ne aveva parlato tempo dopo a Ella, ovviamente, e non al primo appuntamento. Quella sera aveva concluso il racconto dicendo che i suoi genitori erano morti appena due anni dopo la sua partenza dall’Angola, poiché si trovavano nei pressi di una base militare cubana che un plotone di soldati sudafricani aveva fatto saltare in aria, ed erano rimasti coinvolti nell’esplosione. La seconda volta in cui Heath le aveva parlato dei suoi genitori, erano sposati da poco. Stavano facendo una delle loro lunghe passeggiate sul bagnasciuga, quelle in cui parlavano di tutto. «Io li ho sempre visti come degli eroi» le aveva detto. «Però, al contempo, credo di non essere mai riuscito a perdonarli per avermi abbandonato. Voglio dire, perché sono rimasti in Angola? Certo, comprendo il loro sentimento di devozione nei confronti della nobile causa a cui avevano deciso di dedicare la loro intera esistenza, ma… valeva davvero così tanto, quella causa? Insomma, più di quanto valessi io?». All’epoca Ella non aveva saputo cosa rispondere, e neanche tutt’oggi lo sapeva. Quel giorno, sul bagnasciuga, si era limitata a intrecciare le dita con quelle di Heath, a portarsi la mano di lui alle labbra e a lasciarvi un bacio sulle nocche.

Comunque, a prescindere da come si sentiva Heath nei confronti del gesto compiuto dai suoi genitori, Ella era sempre stata “egoisticamente” grata ai dottori Nordahl per aver fatto sì che il loro unico figlio si salvasse, rispedendolo in Australia: Heath era l’amore della sua vita e, se Emily e Nathan non avessero agito come invece avevano fatto, lei non l’avrebbe mai incontrato. Perciò, Ella si sentiva in qualche modo in debito con loro: ecco perché non avrebbe permesso al signor Wammy di far finire suo marito dietro le sbarre e di troncare completamente la sua carriera, rendendo così vani i piani dei dottori Nordahl. 

Inoltre, Heath era un ottimo medico: era diventato un chirurgo d’urgenza parecchio rinomato, ed Ella non aveva dubbi che a breve sarebbe diventato primario. Tra tutti i medici del St Vincent’s, Heath aveva il più basso tasso di decessi: aveva strappato innumerevoli pazienti alle grinfie della morte, tra cui genitori di bambini, operai ingiuriati sul lavoro e adolescenti gravemente feriti in brutali incidenti stradali, e altrettanti ne avrebbe salvati in futuro. Heath non poteva finire dietro le sbarre, troncargli la carriera avrebbe voluto dire commettere un torto nei confronti dell’umanità intera.

Ella alzò lo sguardo sul signor Wammy. Aveva l’espressione di qualcuno che sa già di aver vinto, e che sta solo aspettando che l’avversario dichiari la propria resa.

La psicologa sospirò. «E va bene, signor Wammy. Scacco matto, la partita è Sua. Accetto l’incarico».

Wammy stava per replicare, ma Ella lo interruppe. «Mi tolga almeno una curiosità: perché proprio io? E poi, soprattutto, come mi ha trovata?».

L’uomo si schiarì la voce. «Lei ha studiato alla Columbia, dico bene?».

«Come se Lei non lo sapesse» replicò Ella, acida.

Wammy ignorò il suo commento, e proseguì. «La professoressa Andrea Kowalski è una mia amica di vecchia data. E mi ha descritto la dottoressa Ella Nordahl, Ella Korslund ai tempi della Columbia, come la sua più promettente alunna». 

«E quando ha scoperto tutta la questione della laurea di mio marito, e cioè un pretesto perfetto per ricattarmi, ha capito di aver vinto un terno al lotto» completò Ella.

«Si può dire che ho fatto jackpot, dottoressa. Comunque, tornando a noi, come già ha capito, Lei dovrà stabilirsi qui, al The Wammy’s House. Come potrà intuire da sé, i Suoi amici e familiari pretenderanno una spiegazione per questa Sua assenza. Ora, mi corregga se sbaglio, ma mi risulta che tra i Suoi affetti stabili rientrino: Suo marito, il dottor Heathcliff Alexander Nordahl; Sua sorella maggiore, Charlotte “Lottie” Liana Korslund, e le sue due figlie, Margaret “Maggie” Eileen e Sarah Elizabeth Huber; i Suoi genitori, John Michael ed Eleanor Maeve Korslund, residenti a Perth; e poi qualche amico stretto, quali Jenna Marie Gillberg e Peter Fedina, colleghi di Suo marito, le dottoresse Julia Carter e Mikaela Kirsten Little, sue colleghe, e la dottoressa Kayla Van Roekel, un’amicizia conservata dalla Columbia. Li ho elencati tutti?».

Ella schioccò le labbra. «Senza dimenticarne neppure uno».

«Bene, procediamo. Il dottor Nordahl, Suo marito, sarà il solo a sapere la verità: Lei si è trasferita qui, a Winchester, per seguire un paziente che Le è stato affidato ad vitam perché, se Lei si fosse rifiutata, io avrei consegnato Suo marito alle autorità, ed egli sarebbe finito in prigione perdendo credibilità, e dunque la possibilità di fare carriera, se non addirittura di esercitare come medico in futuro. I motivi per cui il dottor Nordahl sarà il solo a sapere la verità sono molto semplici: il primo, anche lui deve avere ben in chiaro la situazione di pericolo in cui entrambi vi trovate e, il secondo, informare anche il resto dei Suoi affetti sarebbe svantaggioso sia per Lei e per Suo marito, in quanto porterebbe a galla anche la storia della laurea illegale, sia per me, che preferisco sbrigare le mie faccende nell’anonimato».

Ella deglutì. L’aria di sfida, lievemente strafottente, con cui era riuscita a proteggersi fino a poco prima si stava pian piano sfaldando, lasciando posto a confusione, ansia e panico. Ella sentiva quegli stati mentali prendere poco a poco possesso dei propri occhi, che iniziavano a inumidirsi, e del proprio respiro, che andava sempre più velocizzandosi. «M-mio marito vi denuncerà» balbettò, ma non era una minaccia. Era una seria preoccupazione. «Così come io voglio il suo bene, lui vuole il mio. Cercherà di aiutarmi, di riportarmi a casa e se ne infischierà della carriera, dell’ospedale e del carcere. Come lo fermerà, in quel caso?».

Wammy sospirò, col fare di un padre che, seppur paziente, si sta stancando di dover spiegare per l’ennesima volta un concetto che il figlio si ostina a non capire. «Non si preoccupi, dottoressa. I sentimentalismi di Suo marito non mi preoccupano. Se scoprissi che sta tramando qualcosa, perché lo scoprirei se così fosse, non esiterei a liberarmi di lui. A ucciderlo, intendo» spiegò, con una naturalezza disarmante. «E, naturalmente, lui verrà informato anche di questo. Così come verrà informato del fatto che, per accertarmi che egli continui a comportarsi secondo le mie condizioni, la vostra abitazione, in cui lui risiede e risiederà, sarà sorvegliata da telecamere e microfoni, strettamente controllati dai servizi segreti britannici».

Sul volto di Ella comparve un’espressione arrendevolmente incredula. I servizi segreti britannici?! Quindi, quel sociopatico aveva agganci perfino nel governo. Perciò, Ella non solo non poteva sperare di riavere indietro la propria vita perché quel signore di mezz’età sembrava incredibilmente bravo a svolgere i propri affari loschi senza farsi scoprire dalle autorità, ma non poteva sperarlo perché erano le autorità stesse, a essere dalla sua parte. 

Quell’uomo aveva il potere di ucciderla lì, seduta stante, e di uccidere anche suo marito, sua sorella, i suoi genitori, la sua famiglia e i suoi amici, e nessuno avrebbe mai indagato. Non se lui avesse usato i suoi agganci e il suo potere per impedire alle forze dell’ordine d’indagare. Non c’era alcuna via d’uscita.

«All’esterno il dottor Nordahl sarà scortato, e sorvegliato quando scortarlo non sarà possibile. Anche in ospedale, è chiaro. Comunque, per me è molto importante che il legame tra Lei e Suo marito rimanga ben saldo: avrete a disposizione trenta minuti di telefonata a giorni alterni, e lui potrà venire qui, a trovarLa, una volta all’anno. Invece, per il resto dei Suoi affetti, Lei sarà morta» concluse, lapidario.

A quel punto, dalle labbra di Ella sfuggì un risolino isterico. «Come, scusi?» domandò. Doveva star avendo un incubo, per forza. Non c’era altra spiegazione. Non era concepibile che fino a una settimana prima lei era una persona ordinaria, come tante altre, con una casa, un marito, un lavoro e dei progetti per il futuro, che viveva spensieratamente le proprie giornate, e nel giro di letteralmente cinque minuti quell’uomo, che aveva incontrato un quarto d’ora prima, la stava facendo prigioniera, proprio come in un romanzo giallo o in un film d’azione. Non era concepibile che la sua esistenza potesse essere soggiogata in maniera così totalizzante — e semplice, per di più — da un momento all’altro.

«Be’, dottoressa, mi pare ovvio» fece Wammy, poggiando i gomiti sulla scrivania e unendo le mani. Aveva il fare di un dottore che comunica al paziente che, purtroppo, non c’è più niente da fare. Ed Ella era davvero incredula: il dottore non aveva colpa della malattia del paziente, ma il signor Wammy era pienamente colpevole della tragedia che le stava capitando. «È il modo più veloce e meno sospetto in cui Lei potrà distaccarsi dalla Sua vita a Sydney. Come spiegherebbe, altrimenti, ai Suoi cari il motivo per cui non tornerà più a casa? O per cui non telefonerà più?».

«M-ma potrei tornare» obiettò Ella. «Se accetto di mia spontanea volontà di rimanere qui, non ci sarà bisogno di sequestrarmi e di far credere ai miei cari che io sia morta!» latrò.

«No, no, si sbaglia» la contraddì Wammy. «Va bene, supponiamo che Lei decida da un giorno all’altro di trasferirsi dall’altra parte del mondo per seguire un paziente. E a Suo marito quale spiegazione darebbe, per averlo abbandonato di punto in bianco dopo due sereni anni di matrimonio? Non potrebbe. E, se lo facesse ugualmente, Suo marito s’insospettirebbe. Cercherebbe d’indagare un po’ più a fondo, e non sarebbe l’unico: Sua sorella si chiederebbe il perché di questa partenza improvvisa, i Suoi genitori ed i Suoi amici se lo chiederebbero. E parlerebbero tra loro, si confronterebbero, e la notizia si diffonderebbe. E, come Lei può ben capire, io preferisco che i miei affari rimangano privati». 

A quel punto, Ella non riuscì più a trattenersi dal piangere. «M-ma Lei è pazzo» biascicò tra i singhiozzi, mentre le lacrime avevano cominciato a scenderle copiosamente lungo le guance arrossate. «L-lei non può demolire in questo modo la vita di una persona, lo capisce?!».

«E invece posso, dottoressa» obiettò Wammy, calmo. «E, come già le accennavo prima, se c’è qualcosa che posso prendere, perché non allungare semplicemente la mano e afferrarlo?

«Comunque, il bambino di cui Le ho parlato finisce lezione verso mezzogiorno, ma riprende subito dopo la pausa pranzo e, in ogni caso, ora Lei mi sembra fin troppo provata per incontrarlo, dunque potrete conoscervi stasera. Nel frattempo la signora Sybil, la nostra governante, Le mostrerà i Suoi alloggi, in cui troverà un’agente che perquisirà sia Lei che il Suo bagaglio. Ah, e non disfi completamente la valigia: domani sera ripartirà per Sydney e vi rimarrà per circa un mese e mezzo. Naturalmente potrà continuare a vedere i Suoi cari e i Suoi pazienti, seppur sorvegliata, come Le ho già spiegato. Per l’appunto, al Suo rientro in Australia il dottor Nordahl sarà già informato e la sorveglianza sarà già attiva per Lei e per Suo marito, sia dentro casa che fuori. Dopodiché lascerà permanentemente l’Australia e farà ritorno in Inghilterra, e dunque renderemo pubblica la Sua morte, sui cui dettagli La informerò in un secondo momento. Da lì in poi, Lei sarà sotto completa sorveglianza e a completa disposizione del bambino, il piccolo L».

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Capitolo 2
*** Blue Rebirth ***


I

Blue Rebirth

 

 

Praga, 2003. 

Dal dodicesimo piano del Four Seasons, una donna sui quarantacinque anni osservava l’andirivieni di persone sul Ponte Carlo e quello di traghetti sul Moldava. 

Non somigliava affatto a quand’era giovane, Ella. Il suo fisico snello e slanciato si era fatto più gracile, e quei capelli che un tempo erano lunghi, morbidi e lucenti le arrivavano ora appena sotto le spalle, ed erano sfibrati e spettinati.

Quelli però non erano gli unici cambiamenti che Ella aveva notato: lo specchio le restituiva l’immagine di una donna con le labbra più sottili e i capelli più scuri di quelli della ragazza che era, e si vedeva perfino più piccola di statura. Ella si diceva di star vaneggiando: le labbra non si rimpiccioliscono, i capelli non cambiano il loro pigmento e le ossa non si accorciano. Si diceva che quella era solo un’immagine distorta che i suoi occhi percepivano, un’immagine torturata e denutrita da quei più o meno quindici anni di prigionia tra le sbarre di quella gabbia dorata in cui il vecchio Wammy, che era ormai sulla settantina, aveva rinchiuso non solo lei, ma anche un altro uccellino, minuto e dal piumaggio nero, che Ella aveva sempre gelosamente tenuto sotto la propria ala protettiva: L.

L aveva circa nove anni quando Ella l’aveva incontrato per la prima volta, e ora stava per farne ventiquattro. La psicologa l’aveva seguito sin dal primo giorno, cercando di infiltrarsi nel suo strano mondo tramite il gioco quand’era più piccolo, e tramite il dialogo quando aveva raggiunto l’età della preadolescenza. L le aveva sbattuto la porta in faccia parecchie volte, ma Ella non si era data mai per vinta. Ora che anche lui era adulto, tra i due si era instaurato un rapporto di reciproci fiducia e, avrebbe azzardato Ella, affetto. Il ragazzo non si chiudeva più in se stesso ma anzi, quando si agitava perché temeva di non saper gestire determinati stati emotivi o pensieri, chiedere aiuto a Ella era la prima cosa che faceva.

Dal canto suo, per Ella il ragazzo era diventato fondamentale. C’erano tre cose che facevano sì che la psicologa non si buttasse dall’ottavo, decimo o dodicesimo piano di uno di quegli hotel di lusso in cui aveva cominciato a soggiornare da quando L aveva iniziato a lavorare, e dunque a viaggiare per il mondo, ed erano: la salute mentale di L, le telefonate con Heath, e la speranza che un giorno avrebbe potuto avere indietro la sua vita.

Ah, e sì, il vecchio Wammy alla fine l’aveva avuta vinta: L, di un’intelligenza spiccata e fuori dal comune sin dalla prima infanzia, era diventato un detective di fama mondiale. Ad appena sedici anni era partito per gli Stati Uniti per frequentare Yale, ed Ella con lui. La donna aveva dovuto rimanere in quella villetta unifamiliare di New Haven (sempre sotto scorta e sotto sorveglianza, naturalmente) solo per un anno e mezzo: quello era stato l’arco di tempo che era servito a L per ottenere una laurea in Legge.

Dopodiché erano tornati a Winchester, e L aveva cominciato a collaborare anonimamente con Scotland Yard, con l’FBI e perfino con l’Interpol. 

Infine, prima di dedicarsi interamente alla propria carriera da investigatore, L era volato di nuovo negli Stati Uniti (ed Ella con lui, ovviamente). Quella seconda volta si trovavano però nel Massachusetts, ad Harvard, dove L aveva poi conseguito il dottorato in Criminologia.

Ella aveva notato che la fiducia da parte di L nei suoi confronti incrementava anche perché, man mano che il ragazzo avanzava negli studi, le chiedeva sempre più frequentemente dei consigli o dei pareri riguardo gli argomenti che trattava durante alcuni corsi di psicologia. Durante i primi mesi a Yale, per esempio, si limitava a qualche domanda a fior di labbra, mentre durante il dottorato ad Harvard i due si trovavano quasi ogni sera nell’appartamento a Somerville di Ella, a parlare di criminologia clinica davanti a una fumante tazza di tè. 

In quei momenti, in cui L era tranquillo e a proprio agio, tendeva a parlare con una lieve cadenza australiana, in particolare quella tipica dell’area di Perth, di cui Ella era originaria. La psicologa aveva dedotto che quello era ormai diventato il modo naturale di parlare di L, dato che era con lei che il giovane detective comunicava di più. Certo, quando lavorava (e anche durante la maggior parte dei loro colloqui) il ragazzo manteneva la parlata che aveva imparato al The Wammy’s House per preservare l’anonimato, ovvero una pronuncia “neutra”, a metà tra quella britannica e quella americana. Però, in quei rari attimi in cui L metteva da parte il detective e lasciava spazio al giovane adulto che era, la sua cadenza si faceva parola dopo parola sempre più somigliante a quella di Ella. E quello era un particolare che scaldava enormemente il cuore della donna.

Comunque, tra i diciannove e i vent’anni L aveva iniziato a lavorare regolarmente come investigatore privato, e nel giro di sei mesi i giornali di tutto il mondo l’avevano già innalzato a “detective migliore del mondo”, un appellativo che L non aveva mai avuto difficoltà a mantenere. Il giovane era infatti un portento: ad appena ventun anni aveva già risolto la maggior parte dei casi ch’erano stati archiviati in ogni parte del globo. 

C’era solo un particolare della vita lavorativa di L che faceva sorridere Ella: il ragazzo si era guadagnato in poco tempo una fama tale da permettergli di lavorare unicamente ai casi che voleva risolvere, e non era dunque costretto a occuparsi di qualsivoglia garbuglio gli venisse sottoposto. La donna vedeva questa “libertà” che il detective aveva ottenuto come una sorta di rivincita nei confronti del vecchio Wammy, che l’avrebbe voluto meno ragazzo ventiquattrenne e più robot-risolvi-crimini. Infine, un altro fatto che scatenava l’ilarità di Ella era la trasformazione che lo scaltro e machiavellico direttore del The Wammy’s House aveva subito: il vecchio Wammy era infatti ora diventato una sorta di maggiordomo per L. Certo, era un supporto fondamentale per l’attività investigativa del giovane, ma al contempo lo riforniva di cibo e acqua, gli faceva da autista privato e obbediva a qualsivoglia suo ordine.

A riscuoterla dai suoi pensieri fu qualcuno che bussò alla porta. Ella s’irrigidì d’istinto, ma si tranquillizzò subito dopo: quello era un bussare inconfondibile. Tre colpi, perché i numeri pari lo innervosivano, lievi e delicati come una carezza ma al contempo secchi e veloci quanto il morso di un serpente: quelli erano gli unici colpi a cui rispondeva «avanti!» senza alcuna esitazione.

«Tòh, ma tu guarda. Chi non muore si rivede» ghignò Ella, quando il giovane L si materializzò sulla soglia della sua camera d’albergo e si richiuse poi la porta alle spalle.

«Già. Nonostante la sindrome di Marfan e una piramide alimentare basata principalmente su caffeina e zuccheri raffinati sono ancora vivo. Ciao, Ella» la salutò lui, avviandosi con le mani sprofondate in quei jeans di due o tre taglie in più che si ostinava a portare verso il salottino della suite.

L era alto dieci centimetri buoni in più di Ella, e dati i suoi cinquanta chili non era difficile intuire il fatto che il ragazzo fosse in sottopeso. Il giovane era sempre stato di corporatura esile, e ai pasti tendeva più a spiluccare come fa un bambino di sei/sette anni che a nutrirsi in maniera adeguata. Nonostante ciò, era sempre stato in buona salute.

Era arrivato a perdere ben dieci chili una volta iniziato a lavorare, e negli ultimi tempi aveva anche adottato un modo di mangiare ch’era una vera e propria trappola mortale: dolci e caffè erano all’ordine del giorno, costituendo le fondamenta della piramide alimentare del ragazzo. Lui sembrava determinato a non voler abbandonare tale stile d’alimentazione, ignorando gli innumerevoli rimproveri da parte di Ella a riguardo.

Il giovane, così come Ella e il signor Wammy, aveva i tipici tratti europei: pelle chiara (lattea da quando L aveva iniziato a lavorare, poiché da allora stava molto raramente all’aperto), forma dell’occhio arrotondata e leptorrinia. I capelli di L erano lunghi e corvini, gli occhi grigio-azzurri e le labbra sottili. Il ragazzo aveva infine l’abitudine di portare sempre indumenti larghi (probabilmente per comodità, oppure per mettere in atto l’infantile tentativo di celare il proprio corpo scheletrico agli occhi di Ella, di modo da evitare di sorbirsi i suoi rimproveri), e di girare a piedi scalzi.

Nella suite c’erano un divano e due poltrone color amaranto attorno a un tavolino in vetro, su cui Ella aveva appoggiato il telefono e Il Ritratto di Dorian Gray, libro che stava leggendo. Di fronte al divano e al tavolino c’era un’ampia finestra che dava sull’intera città di Praga.

La psicologa si chinò per afferrare il tavolino in vetro da un lato. «Mi aiuti a spostarlo?» domandò a L. «Così ci guardiamo in faccia».

«Certo» mormorò il giovane. Per sollevare il tavolino, L lo alzò con la punta dei polpastrelli, così com’era abituato a maneggiare qualunque oggetto.

Il giovane si appollaiò poi su una delle due poltrone (quello era il suo abituale modo di sedersi), ed Ella si accomodò di fronte a lui, sul divano. 

«Allora» cominciò la donna «come stai? Non ti vedo da cinque giorni».

«Ho avuto da fare» si giustificò L, sebbene gli fosse chiaro che la psicologa non lo stava rimproverando. «Ricarda Doppel è morta».

«Oh», il volto di Ella si rattristò. «Che le è capitato? Si è suicidata?».

L fece segno di diniego col capo, facendo ondeggiare i lunghi ciuffi corvini. «Pare che sia morta d’arresto cardiaco».

«Ma come?!» esclamò Ella, incredula. «Era giovane, avrà avuto sì e no vent’anni! E il fratello?».

«Ricarda ne aveva ventidue» specificò L. «E no, di Lucius non si sa ancora niente, e neanche del bambino. Ma ho ragione di credere che siano ancora vivi e vegeti, tutti e due».

A portare L, Ella e il signor Wammy nell’Europa dell’Est era stato quello che inizialmente era sembrato un ordinario, seppur terribile, incidente stradale: Ricarda Doppel, ventidue anni e originaria di Amburgo, era sotto l’effetto di sostanze stupefacenti quando aveva perso il controllo della propria Volkswagen Polo ed era andata fuori strada, coinvolgendo due ragazzini: uno di sedici anni, ch’era in coma da allora, e una di quattordici, ch’era morta sul colpo. 

L si era imbattuto in quella notizia durante un periodo di magra: era da tempo che non trovava un enigma sufficientemente intrigante da stuzzicarlo. Certo, neanche quello era un granché, ma il giovane ci si era focalizzato perché era rimasto affascinato dal breve tempo in cui vi aveva trovato un punto di svolta.

Gli unici articoli a riguardo che L aveva trovato in rete erano in lingua ceca e tedesca, dato che l’incidente aveva fatto notizia solo in Repubblica Ceca e in Germania. Lì veniva spiegato che Ricarda Doppel, ragazza madre, era giunta a Praga tre giorni prima in compagnia del figlio Michael, di cinque anni. Erano andati a trovare il fratello minore di Ricarda, Lucius Doppel, diciotto anni e studente del primo anno all’Università Carolina, facoltà di Legge.

Poi c’era stato l’incidente: i fratelli Doppel avevano affidato Michael a Felicia, la ragazza di Lucius, ed erano andati a fare un giro per Praga con la Polo di Ricarda, con quest’ultima alla guida. Si trovavano in periferia quando avevano investito quei due ragazzini, e la polizia aveva trovato entrambi i fratelli Doppel positivi all’esame tossicologico.

Infine, il giorno dell’incidente Michael era sparito. Secondo quanto sostenuto da Felicia, la ragazza lo stava riaccompagnando all’appartamento di Lucius quando il bambino le era sfuggito scappando via di corsa, e lei l’aveva perso di vista.

L, parecchio annoiato, aveva analizzato le due o tre interviste fatte a Ricarda che erano state pubblicate in rete, e studiando le parole e il linguaggio del corpo della ragazza aveva capito che quest’ultima stava mentendo: non era stata lei a uccidere quei due ragazzini, ma il fratello. Era lui, quella sera, alla guida della Polo. 

L aveva dunque contattato il Capo della Polizia di Praga, Patrik Hruška, spiegandogli che era Lucius il vero colpevole dell’incidente, e non Ricarda. Il motivo per cui Ricarda si trovava ora dietro le sbarre al posto del fratello era chiaro: lui la stava ricattando con la vita di suo figlio. Il bambino infatti non era semplicemente sparito nel nulla, ma era stato rapito dallo zio, probabilmente anche con l’aiuto di Felicia.

Per fortuna, Hruška aveva dato retta a L: dopo appena tre giorni dalla loro prima telefonata infatti, era venuto fuori che l’investigatore aveva fatto centro. Dopo aver intuito le intenzioni della polizia Lucius era fuggito e, credeva L, si era portato suo nipote con sé. Infine, Felicia giurava di non sapere nulla dell’improvvisa partenza del ragazzo.

«Sei certo che Ricarda sia morta per cause naturali?» domandò Ella. «Voglio dire, non capita tutti i giorni che una ragazza di ventidue anni muoia d’arresto cardiaco. Forse si tratta di omicidio, magari Lucius è riuscito a ingaggiare qualcuno per farla fuori».

«Sono ormai praticamente certo che si tratti di omicidio» ribatté L. «Solo che il mandante non è Lucius Doppel».

«Che vuoi dire?», Ella sgranò gli occhi. «Ah, oh. Pensi che abbia a che vedere con ciò che si è verificato nei giorni precedenti, vero? Ho sentito qualcosa al telegiornale…».

L annuì. «Negli ultimi cinque giorni sono morti 574 criminali in ogni parte del globo. Queste morti hanno due punti in comune: il primo, sono avvenute tutte per arresto cardiaco, e il secondo, le vittime erano state tutte incriminate per qualcosa, e la loro condanna era stata resa pubblica dalla stampa».

«Mh. Direi che è abbastanza inquietante come faccenda».

«Inquietante?» domandò L. «E perché?».

«Be’, perché sembra quasi una sorta di giudizio divino» si spiegò Ella. «Tu non la trovi inquietante?».

«No, non direi» fece L. «Più che inquietante direi adrenalinica. Anche perché sono praticamente certo che non si tratti dell’opera di una divinità».

Ovviamente, pensò Ella. «Mh. E come mai?».

Gli occhi di L baluginarono appena, al che Ella lo fermò subito: «ricordati di parlare con calma e di non essere prolisso». 

L annuì. «Io credo» cominciò, portandosi un indice al labbro, «che si tratti di un pluriomicidio su larga scala, che non implica né il fato né l’operato di una divinità. Cominciamo dal fato: in cinque giorni sono morti 574 criminali, e tutti per arresto cardiaco. Davvero il fato è in grado di operare con tale precisione? È decisamente improbabile. Per quanto riguarda l’opzione della divinità, invece… be’, una divinità in grado di uccidere 574 criminali dovrebbe sapere che ad investire quei due ragazzini mentre era sotto sostanze stupefacenti (e senza aver mai neanche preso la patente, tra l’altro) è stato Lucius Doppel, e non Ricarda. Eppure è stata la ragazza, che ha dovuto dichiararsi colpevole davanti alle telecamere per salvaguardare la vita del figlio, a morire».

«Come fai a essere così certo che Lucius non sia morto?» domandò Ella.

«Infatti non lo sono» ribatté il giovane. «In Germania ci sono però stati alcuni avvistamenti di un ragazzo e di un bambino che corrispondono alle descrizioni di Lucius e Michael Doppel, il primo vicino a Ratisbona e il secondo, che risale ad appena due giorni fa, in un qualche villaggio di montagna del Baden-Württemberg. Abbiamo ragione di credere che si stiano nascondendo da qualche parte sulle Alpi sveve. E poi, se lo zio fosse morto, il bambino sarebbe sicuramente uscito allo scoperto per andare a cercare aiuto».

«Quindi credi che questo pluriomicidio di massa sia opera di un individuo?».

«Sì, di uno o più individui» disse L. «E penso che si trovi, o si trovino in Giappone. I crimini di tutti coloro che sono morti erano stati riportati da enti televisive e radiofoniche mondiali (l’incidente dei fratelli Doppel ha fatto il giro del mondo quando si è scoperto che L stava lavorando al caso, sebbene non sia mai trapelata l’informazione dell’eventuale colpevolezza di Lucius Doppel), tranne uno: cinque giorni fa, il primo criminale a morire d’infarto è stato un sequestratore, i cui crimini erano stati documentati unicamente da TBS e TV Tokyo, due emittenti televisive giapponesi. E poi, d’un tratto, sono morti quasi seicento tra i criminali più pericolosi al mondo. Inoltre, c’è un’ultima differenza: la colpa del sequestratore non è minimamente paragonabile alle atrocità compiute dai restanti criminali uccisi. Per concludere, credo che il colpevole (o i colpevoli) sia (o siano) in Giappone e che quell’uomo, la prima vittima, non sia stato altro che una cavia».

«Molto bravo, L» lo lodò Ella. «Hai spiegato il tutto in maniera sintetica ma perfettamente comprensibile. Comunque, da come ne parli pare che tu sia intenzionato a stanare il colpevole molto presto».

L annuì e balzò in piedi, facendo sussultare Ella e cominciando a camminare in giro per la suite. «Qualcuno si sta già mobilitando. Il G8 ha già indetto una seconda riunione annuale, e a breve si riunirà anche l’Interpol. Sarà lì che mi presenterò e prenderò in mano il caso».

«Ah» commentò Ella. «Hai davvero le idee chiare, vedo. E quando ci sarà questa riunione dell’Interpol?».

«Tra più o meno due settimane» disse il detective, fermandosi per qualche secondo a osservare la città al di fuori della finestra.

«Cavolo. Non ti rimane molto tempo per stanare Lucius Doppel, allora. Devi darti da fare» notò Ella.

«Già. Ieri ho contemplato per qualche minuto l’opzione di partire per il Giappone senza aver risolto il caso dei fratelli Doppel e mi è venuto un attacco di panico» disse lui, con estrema naturalezza.

Ella tentò di celare lo stupore. «E l’hai gestito da solo?».

«Sì» fece il ragazzo. «Mi sono seduto a terra con la schiena contro il muro e ho semplicemente aspettato che il panico passasse, cercando di liberare la mente per non alimentarlo. L’unica cosa su cui tentavo di concentrarmi era la frase che mi dicesti quando avevo quindici anni, dopo il mio primo attacco di panico, e cioè che “di panico non è mai morto nessuno”».

«È la verità», sorrise Ella. «Quindi cos’hai intenzione di fare col caso dei fratelli Doppel?».

L si abbandonò sulla poltrona, questa volta senza portare le ginocchia al petto.«Cercherò di risolverlo in queste due settimane, e se non ci riuscirò continuerò a lavorarci anche mentre sarò in Giappone».

Ella arricciò le labbra. «Non pensi che questo t’impedirebbe di concentrarti al meglio sul nuovo caso che ti aspetta in Giappone?».

«Indubbiamente» mormorò L, portando la mano sinistra a grattarsi il capo. «Ma cosa potrei fare, scusa? Non posso di certo lasciarlo irrisolto».

«Ma non lo stai lasciando irrisolto» obiettò la psicologa. «Lo stai semplicemente lasciando nelle mani del Capo Hruška».

«No, no», L scrollò la testa nel modo in cui lo faceva da bambino. «Sono io, che devo rimanere fino alla risoluzione del caso. Che devo risolvere il caso».

«E chi t’impone questo dovere?» domandò allora Ella.

Il ragazzo parve spiazzato per qualche attimo. Teneva lo sguardo sul pavimento. «I-io» mormorò poi.

«E lo fai per qualche motivo in particolare?» domandò Ella. «Cosa ci sarebbe di male nel lasciare questo caso nelle mani del Capo Hruška per andare a occuparti di una grana ben più importante?».

«V-vorrebbe dire che… che non sono infallibile» ammise il giovane, con una punta di vergogna.

Ella alzò le sopracciglia. «Be’, ma essere infallibile è una caratteristica che decisamente non si confa all’essere umano. E tu sei un essere umano, mi sembra di ricordare» sogghignò poi.

«Già, pare che sia così» mormorò L arrossendo appena, e rannicchiandosi nuovamente sulla poltrona con le ginocchia tirate al petto. 

«E se aspettassi di chiudere il caso dei fratelli Doppel prima di partire per il Giappone?» suggerì Ella.

«Oh, no» ribatté subito lui. «Devo stanare quel criminale, o quei criminali, quanto prima».

«E come mai hai tutta questa fretta?» domandò la psicologa.

L liberò un ringhio di frustrazione. «Mettiamo che il killer sia un singolo. Quel tizio, o quella tizia, ha ammazzato Ricarda Doppel. Se lei fosse stata la vera colpevole, lui o lei avrebbe risolto il caso dei fratelli Doppel. Ma era roba mia, il caso dei fratelli Doppel».

«Ah» fece Ella. «Be’, direi che ora mi è tutto più chiaro. A me sembra evidente che tu abbia una scelta da fare, L: o deleghi il caso dei fratelli Doppel al Capo Hruška e cominci a lavorare al nuovo caso in tranquillità, o lavori contemporaneamente a entrambi i casi, rischiando di non dare del tuo meglio e dunque di non progredire granché in nessuna delle due indagini».

L sbuffò, sciogliendo nuovamente la posizione rannicchiata e allungando le gambe sul pavimento. «Hai ragione» si limitò a mormorare.

Il ragazzo rimase con lo sguardo perso a terra per qualche minuto. Poi, si schiarì la voce, e si alzò leggero dalla poltrona. «Vado a comunicare al Capo Hruška che abbandono le indagini sul caso dei fratelli Doppel» mormorò mogio.

Ella alzò lo sguardo su di lui, sorridendo. «Mi sembra un’ottima scelta».

L sospirò, andando verso la porta. «Ti suggerirei di cominciare a preparare le valigie, Ella. A breve partiremo per il Giappone».

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Capitolo 3
*** Blue Confrontation ***


II

Blue Confrontation

 

«Buongiorno» Ella salutò giovialmente il suo paziente, entrando nella stanza buia da cui il ragazzo non usciva ormai da giorni. «O… buonanotte, visto che sembra già notte qui dentro» mormorò poi, camminando a tentoni sul parquet.

Si trovavano in Giappone, a Tokyo. Erano partiti da Praga il mattino seguente alla riunione dell’Interpol, quella a cui L aveva partecipato annunciando di star lavorando al caso dell’anonimo pluriomicida. Dopo più o meno dieci ore di volo a bordo di un jet dell’MI-6 il detective, Ella e il vecchio Wammy si erano ritirati ognuno nella propria suite, all’ultimo piano dello Tsugumi Hotel di Tokyo.

«Anche se è notte, “buonanotte” si dice solo quando si va via» puntualizzò L. «Quando si arriva si dice “buonasera”». Sul pavimento, il ragazzo sedeva sui talloni davanti all’unica fonte di luce del locale, il monitor di un PC. Ella era arrivata, ma lui ancora non si era voltato a guardarla.

«Anche se sono le tre di notte?» domandò la psicologa.

«Anche se sono le tre di notte» confermò il giovane, concentrato a scandagliare con lo sguardo l’enorme quantità di dati che appariva sullo schermo del computer. «I saluti non hanno molta logica» commentò infine.

«Perdona il buio» fece poi, alzandosi in piedi e girandosi verso Ella, rivelando con grazia il proprio metro e ottanta d’altezza. I piedi scalzi spuntavano dal jeans lungo che gli ricadeva lungo le gambe magre, così come la maglietta bianca di cotone, drappeggiata attorno alle spalle esili. «E anche il computer a terra. Vizi di un malato d’Asperger», e con un paio di falcate si avvicinò a due poltrone che Ella per via del buio neanche aveva notato, ma che erano lievemente illuminate dalla luce del calcolatore elettronico, e balzò agilmente su di una.

«Malato?» domandò Ella, accomodandosi a tentoni di fronte al detective. «Per quale motivo ti definisci così?».

«Sei una psicologa Ella, dovresti saperlo meglio di me» ribatté lui. «La sindrome di Asperger è un disturbo del neurosviluppo riportato sia dal DSM-IV che dall’ICD-10».

«Sì, ma questo non significa che tu sia “malato d’Asperger”. Hai semplicemente delle caratteristiche differenti rispetto alla popolazione generale» spiegò Ella.

«Ho dei deficit» puntualizzò L. «Dei deficit che non mi permettono di destreggiarmi liberamente nelle situazioni sociali, di capire i segnali non verbali delle persone e gran parte delle figure retoriche, come l’ironia o il sarcasmo. Sono abilità che gli altri sviluppano in autonomia, mentre a me ha dovuto insegnarle qualcuno».

«E fin qui siamo d’accordo, ma tutti hanno dei deficit. Chi più marcati, chi meno. Ti ricordo che all’età di dieci anni risolvevi le equazioni con le derivate e gli integrali quando ti annoiavi, e l’hai imparato in autonomia. E parli fluentemente lo spagnolo da quando hai cinque anni, e il mandarino da quando ne hai quattordici, che non sono neanche lingue germaniche. Io prima dei quattordici anni ci mettevo un pomeriggio solo per memorizzare cinque pagine di storia per il giorno dopo». 

L alzò un sopracciglio. «Vuoi dire che non ho l’Asperger ma sono semplicemente diverso dagli altri?».

«No, certo che hai l’Asperger. Non formulo le mie diagnosi a caso, io» ghignò la terapeuta. «Però non parlerei di “malattia”. Sei semplicemente nato con delle caratteristiche differenti rispetto alla popolazione generale, e queste tue particolarità sono raggruppate all’interno di un’etichetta diagnostica perché i deficit che comportano deviano un po’ dalla norma».

«Quindi tu credi che io non sia malato» sintetizzò L.

«Non è che lo credo io, è che non lo sei» puntualizzò Ella. «Comunque, rimanendo in tema “stranezze”, che ne dici di accendere la luce?».

Il giovane si strinse nelle spalle, facendo strusciare un alluce nudo contro al gemello. «Preferirei di no» mormorò, con lo sguardo rivolto a terra.

«Io invece preferirei di sì» ribatté la donna.

Il ragazzo alzò gli occhi su di lei. «E quindi? Che si fa?».

«Dimmelo tu».

Il detective sospirò. «Si sceglie una soluzione che vada bene per entrambi» borbottò poi. «Potremmo accendere un abat-jour, che non fa troppa luce».

«Mi sembra un’ottima idea» approvò Ella.

L allora si alzò dalla poltrona e si allungò leggiadro sulle lunghe gambe, naturalmente sepolte dai pantaloni larghi, per pigiare l’interruttore di un abat-jour che poggiava su un tavolino alto lì vicino. La luce artificiale rivelò alcuni particolari dell’ampia stanza d’albergo in cui i due si trovavano: c’era un altro salottino vicino alle due poltrone, formato da due divani color grigio chiaro l’uno di fronte all’altro, con in mezzo un tavolino da caffè di forma rettangolare. La parete che fronteggiava l’entrata era tutta a vetrate, ma L le aveva naturalmente fatte coprire tramite particolari tende oscuranti.

«Dunque, come stai?» gli domandò Ella, dopo che il ragazzo si fu rannicchiato nuovamente sulla poltrona.

Lui si abbracciò le ginocchia. «Bene. La gente ha cominciato a chiamarlo “Kira”».

«Chi?».

«Il responsabile del caso a cui sto lavorando, Ella. Non guardi la TV?» la rimproverò lui.

«Direi di no» ribatté prontamente lei, evidenziando l’ovvietà della propria affermazione. «Siamo in Giappone, ricordi? Non ci capirei nulla».

Lui, determinato a non arrendersi, sollevò un sopracciglio. «Watari ti porta una copia del Times ogni mattina».

«E io non sempre ho voglia di leggerla» si giustificò lei, ed era vero: gli articoli di giornale l’annoiavano molto, e a volte le era difficile perfino arrivare al termine di un articolo accademico. «Comunque» riprovò poi «prima di sapere di Kira, mi piacerebbe sapere di te. Come stai?».

«Be’, dovrei dormire di più, fare sport, avere un’alimentazione più sana, stare all’aperto, bere più acqua e stare meno tempo davanti al computer. Quindi non tanto bene, credo».

«E fin qui c’ero arrivata anch’io» commentò Ella. «Quello che ti sto chiedendo è: come ti senti? A livello emotivo».

«Bene, bene» tagliò corto lui. «Sono adrenalinico, pieno di energia. E ciò è dovuto a Kira, di cui vorrei davvero molto parlarti. Perciò smettila di chiedermi come sto e fammi parlare». 

La donna sgranò gli occhi, incredula. «Sii più educato!» lo ammonì.

«Hai ragione, perdonami» ribatté lui «ma tra l’Asperger che mi spinge a non farmi scrupoli nel dire quello che ho in mente e la società patriarcale che mi impone, in quanto uomo, a sviare quando mi viene fatta la domanda: “come stai?” ogni tanto la storia dell’educazione mi sfugge di mano. Però, comunque, perdonami».

«Perdonato» borbottò Ella. La terapeuta naturalmente sapeva che L non era né stronzo né sgarbato; semplicemente, la sindrome di Asperger gli rendeva molto difficile distinguere tra ciò che era socialmente appropriato dire da ciò che, al contrario, non lo era. Inoltre, sempre per via dell’Asperger, il ragazzo tendeva a esprimere la propria opinione con franchezza, risultando molte volte irriverente agli occhi di terzi. Dal canto suo L, soprattutto da bambino, non si rendeva conto dei propri comportamenti sfrontati: lui credeva di star soltanto esprimendo la propria opinione.

Al contempo però, ciò che non era in grado di capire a livello di dinamiche sociali gli era stato insegnato negli anni, e con un cervello come il suo al detective non era risultato difficile diventare abbastanza efferato in materia. Dunque, Ella sapeva che quando L si comportava in modo sgarbato, a differenza di quando era più giovane, sapeva di star adottando un comportamento che avrebbe ferito un’altra persona, ma sceglieva ugualmente di metterlo in atto. Perciò la donna non esitava a rimproverarlo quando lo faceva. «Come vanno le indagini?» gli domandò poi.

«Sono intervenuto alla riunione dell’Interpol», il ragazzo tamburellò le dita nivee e affusolate sulle gambe, che teneva tirate al petto. «Ho affermato che si tratta di omicidi e che credo che il colpevole si trovi in Giappone. Poi ho domandato l’appoggio dei colleghi dell’Interpol, in particolare quello dell’NPA, ovvero l’Agenzia Nazionale di Polizia del Giappone. Questi giustamente mi hanno domandato come potevo affermare quanto ho affermato, e io ho detto loro che a breve potrò dimostrarglielo», un luccichio di bramosia gli attraversò lo sguardo. «Ho un piano, Ella».

«E puoi raccontarmelo o è roba top-secret?» provò a scherzare la donna.

«Hai completo accesso al mio cervello, Ella. Non c’è nulla di top-secret per te» replicò lui, serio.

Sempre per via dell’Asperger, L faticava anche a comprendere l’umorismo. Le metafore, il sarcasmo, l’ironia e le figure retoriche in generale erano molto difficili da intendere per lui, poiché tendeva a interpretare in modo letterale tutto ciò che gli veniva detto. Sin da bambino infatti, replicava alle battute di Ella con la logica. A lei piaceva comunque scherzare con lui, le piaceva vedere in quale modo serio e razionale avrebbe reagito ai suoi tentativi di farlo ridere.

«Io ho accesso solamente a ciò a cui tu mi permetti di accedere» puntualizzò la psicologa. «Non è che ti leggo nella mente. Perciò, se posso sapere quest’informazione e a te va di condividerla con me, io sono qui per ascoltarti».

A Ella parve di vedere il giovane sorridere appena. «Farò mandare in onda un annuncio, circoscrivendolo però unicamente all’area del Kantō. Il Kantō è la regione del Giappone in cui c’è Tokyo, nonché la più popolata del paese» specificò L, dopo aver visto comparire sul volto della donna una smorfia interrogativa. «In questo annuncio un condannato a morte — in Giappone vige la pena di morte — si presenterà come “L”. Il vero nome del condannato comparirà nel video, e lui lo ripeterà ad alta voce. Dopodiché dichiarerà che gli atti compiuti da Kira sono sbagliati e deplorevoli, e giurerà di catturarlo. Il video sarà mandato in onda durante i telegiornali serali, in tal modo avremo più probabilità che Kira lo guardi. Se il piano si svolge come da copione, e Kira sarà davanti alla TV in quel momento, il condannato dovrebbe morire d’infarto pochi minuti dopo aver terminato la propria arringa» spiegò L. 

«No, aspetta, c’è qualcosa che non mi torna» obiettò Ella. «Perché mai Kira dovrebbe ucciderlo? Voglio dire, Kira non può sapere che si tratta di un criminale. E, da quanto mi ricordo io, le sue vittime sono solo criminali, no?».

«Sì ma l’altra volta, quando abbiamo parlato, tu hai accennato all’opera divina. Io ti ho detto che era improbabile, perché un dio non ucciderebbe solo i criminali le cui colpe sono state pubblicate dai media. Un dio avrebbe saputo che a uccidere quei due ragazzini era stato Lucius Doppel e non Ricarda. Però, questi omicidi su larga scala sembrano davvero un’opera divina. Perciò ho ipotizzato che si tratti di un comune individuo umano, che non ha affatto i poteri di un dio, ma che vuole mostrarsi al mondo come tale. E qual è la reazione di un dio quando viene sfidato?».

Ella ridacchiò. «Be’, se prendiamo a esempio i miti greci che leggevamo quand’eri piccolo, direi che un dio che viene sfidato cerca di umiliare, torturare o addirittura uccidere il proprio rivale nel peggiore dei modi».

«Esatto!» esclamò il ragazzo, elettrizzato. «Quindi, se ho ragione, Kira farà fuori il condannato a morte in diretta. E ciò mi permetterà di provare, per l’appunto, che le morti verificatesi non sono semplici casualità ma veri e propri omicidi, che l’esistenza di Kira non è una leggenda, e che Kira si trova in Giappone. Nel Kantō, per l’esattezza».

Ella aggrottò le sopracciglia, arricciò appena le labbra e trattenne il fiato per qualche attimo. «Mh» fece, dopo un po’. «E… il condannato a morte che t’impersonerà? L’hai già scelto?».

«Sì. Si tratta di Lind L. Tailor, un americano che si trovava a Yokohama per i mondiali di calcio. Durante la finale del 30 giugno alla vincita del Brasile si è scatenato l’inferno, e un trentenne di Tokyo ci ha rimesso la vita. L’NPA ha indetto parecchie indagini a riguardo, ma il colpevole non è mai saltato fuori. Perciò mi ci sono concentrato un po’, e ho trovato diverse prove che evidenziavano la colpevolezza di tale Lind L. Tailor e le ho fornite all’NPA, indicando loro anche dove avrebbero potuto trovarlo. In cambio, l’NPA mi ha garantito che la stampa non sarebbe stata informata della sua cattura, e così è stato».

Ella annuì lentamente per qualche istante, tenendo lo sguardo inchiodato nel vuoto. Reagiva così ogni volta in cui L dava prova di avere dei marcati tratti antisociali. Non capitava di frequente, ma era innegabile che questa fosse una di quelle volte: considerare Lind L. Tailor come una mera pedina utile unicamente al raggiungimento dei propri scopi e non come un individuo avente delle proprie emozioni, una propria storia e dei propri affetti aveva palesemente un che di antisociale.

Alle manifestazioni di tali tratti, seppur rare, Ella aveva sempre percepito forte e chiaro l’impulso di voltare la testa dall’altra parte, di fare finta di niente: era molto difficile per lei accettare che quello che una volta era il suo “piccolo paziente” e che lei aveva letteralmente visto diventare grande di giorno in giorno potesse rivelarsi un potenziale sociopatico.

Però, la psicologa aveva anche ben in chiaro che voltare la testa dall’altra parte è uno degli errori che un terapeuta non dovrebbe mai commettere: ignorare i tratti problematici di L avrebbe voluto dire danneggiare sia il ragazzo che il loro percorso terapeutico. Perciò, anche stavolta si sforzò di fronteggiare quella situazione spiacevole afferrando quei tratti con le pinze per indagarli più a fondo, anche se ciò significava andare a scavare in quella che era in fin dei conti la propria ferita.

«Tu l’hai mai visto?» domandò dunque. «Tailor, dico».

«Sì, certo che l’ho visto».

«Mh. E com’è fatto fisicamente?».

«Trent’anni, bianco, un metro e ottantacinque per settantadue chili. Capelli corvini e lunghi fino alla base del collo, fronte non ampia, volto di forma ovale e occhi, naso e labbra sottili. Iridi grigio-azzurre, collo massiccio e fisico asciutto. Perché questa domanda?».

Ella sollevò le spalle. «Così, tanto per parlare» rispose, anche se sapeva che il detective avrebbe scoperto le sue vere intenzioni di lì a breve. «Dimmi un po’ della vita di Tailor. Quali informazioni hai su di lui?».

Il ragazzo si grattò delicatamente il capo, richiamando alla memoria quanto sapeva riguardo al condannato. «È nato il 24 luglio a Bay City, nel Michigan, ma la sua famiglia era di Pontiac. È il terzo di cinque fratelli, e ha origini britanniche da parte di padre ed italiane da parte di madre. La madre è morta a trent’anni di cancro al seno, quando Tailor aveva cinque anni, e tre anni dopo il padre è convolato a nozze con un’altra donna, da cui ha avuto altri due figli. Tailor si è laureato in ingegneria chimica all’Università del Michigan, per poi specializzarsi in ingegneria biomedica all’NYU. Infine è volato in Europa, dove ha preso il dottorato in ingegneria biomedica al Politecnico federale di Zurigo, in Svizzera, dove ha lavorato come ricercatore fino al 27 giugno del 2002. Poi, dopo la finale dei mondiali di Yokohama è sparito».

«Ed era bravo come ricercatore?» domandò Ella.

«Incredibilmente» confermò L. «È stato lui a porre le basi per la teorizzazione del progetto KZZ: ci ha incentrato la sua tesi di dottorato».

«Mh. E puoi spiegarmi che cos’è, questo progetto KZZ?».

«Lo sai, Ella» mormorò il ragazzo, balzando agilmente in piedi per recarsi a prendere una tazza che aveva abbandonato a terra, di fianco al PC. «Non farmi domande stupide» borbottò poi.

«E tu cerca di comportarti in maniera più educata» lo rimproverò di nuovo. «Spiegami che cos’è il progetto KZZ, per favore» insisté infine.

Lui sbuffò, mentre si acciambellava nuovamente sulla poltrona. «Il progetto KZZ, abbreviazione di “Krebszellen Zerstörer” che significa “distruttore di cellule cancerogene”, ha avuto l’obiettivo di creare il dispositivo KZZ, e cioè un congegno microscopico che si utilizza per i pazienti affetti da cancro inoperabile. Lo si mette chirurgicamente vicino al tumore, e questo elimina le cellule cancerogene che si formano, impedendo così al tumore di espandersi».

Ella lo guardò per qualche attimo, seria. «Ti ringrazio» gli restituì poi.

Il ragazzo le aveva fornito quella spiegazione con fare seccato, ma Ella non credeva proprio che ciò avesse a che fare con l’ossessione di L di ottimizzare i tempi. Il punto era che Ella era ben informata riguardo al progetto KZZ: circa cinque anni prima, a sua sorella Lottie era stato trovato un cancro al seno al quarto stadio; il congegno KZZ era l’unica ragione per cui Lottie, tutt’oggi, era in vita.

L lo sapeva bene. Il giovane non aveva mai rinunciato a informarsi sugli aspetti di quella che era stata e che tuttora era, seppur in parte, la vita privata di Ella. Dal canto suo, la donna si era sempre dichiarata contraria a riguardo, poiché si sentiva “spodestata” dal proprio ruolo di terapeuta. Ciò però non tangeva L: il ragazzo si manteneva perfettamente informato sugli sviluppi delle vite di Heath, di Lottie, di Peter, di Mikaela e via dicendo.

Lui non gliel’aveva mai detto, ma Ella aveva intuito che L si sentiva in qualche modo in colpa per ciò che le era capitato: dopotutto, lei aveva dovuto rinunciare alla propria famiglia e alla propria vita per occuparsi di lui. Naturalmente Ella non lo incolpava in alcun modo, anzi, vedeva anche lui come una vittima della crudeltà del vecchio Wammy. Però, per andare ad analizzare i tratti antisociali di L, il senso di colpa le era fondamentale. Perciò, in via del tutto eccezionale, si permise d’infilare il dito nella piaga e di giocare su quell’emozione, in quanto il rammarico era l’acerrimo nemico della psicopatia.

«Quindi» andò avanti Ella «Tailor ha salvato miliardi di vite». La donna sapeva che quell’affermazione avrebbe fatto capire a L le sue vere intenzioni, ma era proprio per quello che aveva voluto utilizzare tali parole. 

Difatti, le iridi di L baluginarono allarmate. «Senti, Ella» cominciò, scattando in piedi «non metterti in mente di farmi la predica per farmi cambiare idea riguardo a Tailor, perché non se ne parla. Non sono io a ucciderlo, va bene? È un condannato a morte, quindi morirebbe comunque».

La terapeuta indurì lo sguardo e incrociò le braccia al petto. «Stai buono e rimettiti seduto» gl’intimò con tono fermo. «Ho forse detto che voglio farti cambiare idea?».

Il ragazzo si abbandonò nuovamente sulla poltrona. «No» borbottò. «Ma io so già dove vuoi arrivare!».

«Oh, ma dài» ribatté Ella. «Non sapevo della tua abilità di leggere nella mente. Kira ha i giorni contati, eh?» lo canzonò poi. «Ti ho mai raccontato la storia della bicicletta?».

L fece cenno di diniego col capo.

«Bene» continuò la donna «mio padre ha un fratello maggiore, Noah. A quindici anni, mio papà aveva trovato un lavoretto in un negozio di ferramenta. Per andarci aveva bisogno però di una bicicletta, e l’unico ad averne uno era mio zio Noah. Dunque, mio padre si alza dal suo letto per andare in giardino e chiedere a Noah la bicicletta, ma durante tutto il tragitto rimugina su ciò che il fratello potrebbe rispondergli. “Mi dirà di arrangiarmi perché non si fida a lasciarmi la sua bicicletta”, “mi dirà che serve a lui e io rimarrò a piedi”, “vedrai che dovrò rinunciare al lavoro perché Noah non vuole aiutarmi”. E quindi, quando è arrivato davanti a mio zio, anziché chiedergli: “ehi Noah, mi servirebbe la tua bicicletta per andare al lavoro, puoi prestarmela?”, gli ha urlato contro: “vaffanculo Noah, tu e la tua bicicletta!”».

L assottigliò lo sguardo. «Dunque la morale sarebbe che non devo comportarmi come se fossi in grado di prevedere con assoluta certezza le intenzioni degli altri?».

«Proprio così, detective».

Il giovane si rabbuiò appena. «E va bene. Ma quindi, perché hai tirato fuori il fatto che Tailor ha salvato miliardi di vite?».

«Ed ecco qui un altro modo più che funzionale per scoprire le intenzioni altrui: chiederle» disse Ella. «Comunque, il motivo per cui l’ho detto lo saprai dopo. Per ora, concentrati sul portare avanti la conversazione. Ho affermato che Tailor ha salvato miliardi di vite. Come ribatti?».

«Dico che è vero» rispose L «ma che ne ha anche tolta una, di vita. E ciò fa di lui un target perfetto per Kira».

Ella annuiva lentamente. «E… oltre ai familiari nel Michigan, Tailor ha altri affetti?».

«So che ha un’amica ma non so se sia anche qualcosa di più, non c’è mai stato nulla di ufficiale. Si chiama Nicole, ha trentun anni, è un ingegnere chimico e lavora con lui al Politecnico. Vive a Zurigo con sua figlia di cinque anni, Sylvia. Da quanto ho intuito, Tailor nutre molto affetto per Nicole e per la bambina. Credo proprio che siano loro i suoi punti deboli, e io le sfrutterò».

La psicologa s’incupì: ed eccoli di nuovo lì, i tratti antisociali della personalità. Era come vedere delle ombre tetre e terrificanti strisciare fuori dalle labbra delicate del ragazzo. «E come?» gli domandò.

«Lo minaccerò. Se non farà come dico io, metterò Nicole e Sylvia in pericolo di vita» affermò, con una naturalezza disarmante. 

L’istinto di Ella fu quello di serrare i pugni in preparazione alla domanda che si era autoimposta di fargli, ma si sforzò di rimanere in una posizione rilassata per non dare a L eventuali segnali riguardo la propria agitazione. «E lo faresti davvero?» gli domandò tutto d’un fiato, e fu come strappare un cerotto.

«Sì, certo» continuò lui, e per la donna fu come ricevere una coltellata in mezzo al ventre.

«M-ma sono due innocenti. Così facendo, coinvolgeresti due innocenti».

«È meglio coinvolgerne solo due che miliardi» proferì lui, bevendo dalla tazza che aveva raccolto poco prima da terra, il cui contenuto doveva ormai essersi freddato.

“Non è normale, lo capisci?!” avrebbe voluto urlargli contro Ella. “Il tuo obiettivo non è quello di far sì che la giustizia trionfi, ma quello di battere Kira! Il punto però è che qui non si tratta solamente di un enigmatico gioco tra voi due, ma di una tragedia che coinvolge l’intera popolazione mondiale! E mi starebbe anche bene, finché non ti sentissi ragionare in questo modo. Trattare le persone come se fossero delle mere pedine senz’anima, ma ti senti?! Come diavolo ragioni?! Torna in te, L!”, ma stette zitta perché, in quanto terapeuta del detective, non poteva vomitargli contro tutto ciò che le bazzicava in mente. Perciò si fece forza, e continuò dritta verso l’obiettivo che si era posta inizialmente. «Hai detto che la madre è morta giovane. Che lavoro faceva? E il padre?».

«Il padre lavorava come sommelier, e ora ha un’azienda vinicola. La madre credo non abbia mai lavorato».

«Ok. E perché hanno chiamato Tailor “Lind”?».

«Non saprei» mormorò L. «Non c’è scritto nei rapporti, e non è un’informazione rilevante».

«Inventatelo. Cerca di sfruttare l’immaginazione più che puoi».

L si rabbuiò e guardò la donna di sottecchi. «Tanto non cambio idea su di lui» borbottò.

«Ti ripeto che non ti ho domandato di farlo» replicò lei. «Dài, fa’ uno sforzo» lo incoraggiò poi.

Il detective le lanciò un’altra occhiataccia. Poi, cominciò a ragionarci su. Perlopiù si fidava di Ella, e tendeva a fare come lei gli diceva anche se, in principio, non capiva l’utilità di una determinata richiesta. «Lo hanno… magari l’hanno chiamato così perché… Credo che c’entri la morte di qualcuno».

«Non dire “magari” e “credo”» lo istruì Ella. «Afferma e basta».

«D’accordo» mormorò lui. «”Lind” è un nome alquanto insolito. È più un cognome che un nome, di origine scandinava per di più. La mamma era italiana… ok, ho trovato: il nome della nonna materna era “Linda”, e il capo del padre, a cui quest’ultimo era molto affezionato, era il signor Lind, un uomo di origini scandinave. La nonna materna e il signor Lind sono morti più o meno in concomitanza, e prima della venuta al mondo di Tailor. Lui si chiama così in loro onore».

Ella sorrise, soddisfatta. «Sei stato molto bravo. Qual era la materia in cui era meno bravo alle elementari?».

«Be’, di sicuro non le discipline scientifiche, dato che è diventato ingegnere» andò a colpo sicuro lui.

«Non basarti su fatti accaduti, prova a non utilizzare la logica. Fatti guidare solo dalla tua immaginazione».

«Ma… perché devo farlo?» obiettò lui. «Se il riscontro empirico può fornirmi risposte certe, perché devo affidarmi all’immaginazione?».

Ella alzò le spalle. «Be’, io concordo con te riguardo al fatto che la logica e il riscontro empirico siano due elementi fondamentali da seguire se ci si vuole fondare su basi solide, ma ora stiamo solo parlando. Perciò possiamo anche permetterci di giocare con le inferenze e l’immaginazione. E poi, io da bambina facevo schifo in scienze, ma ho preso il massimo dei voti all’esame di biologia e genetica all’università. La logica non spiega tutto».

«Avrai avuto cattivi insegnanti».

«Magari anche lui. Allora?».

«Allora… geografia. Andava davvero male, in geografia. È ignorante tutt’oggi, proprio non gli rimanevano in mente i nomi delle catene montuose, dei fiumi, dei capoluoghi… Sylvia invece è molto brava. Di solito gli fa delle domande e Lind non sa rispondere, e lei lo prende in giro. Ah, e anche in geometria andava male. Ma solo perché, per via del nome simile, credeva che la geometria fosse una branca della geografia, e dunque si rifiutava di studiarla».

Ella sorrise. «Molto bene. E… riguardo alla prima volta in cui è andato a letto con qualcuno? Come si sentiva, secondo te?».

«Mh», il giovane si portò un dito al labbro inferiore. «Lui stava sopra ed era impacciato, ma tentava di non darlo a vedere. Si reggeva sugli avambracci per non gravare sul suo partner, ma al contempo i bicipiti gli gridavano vendetta. È stato molto dolce, molto controllato, ha temuto in ogni momento di poter spaventare in qualche modo il suo partner. Si è lasciato completamente andare solo nel momento dell’orgasmo».

Ella annuì, soddisfatta. «E lei chi era?».

Il ragazzo si rabbuiò. «Non ho mai parlato di una lei, Ella, non fare l’eteronormativa. Lind non è etero, ma bisessuale. Ha sempre avuto una propensione per le donne, ma la sua prima volta è andato con un ragazzo».

«Hai ragione, scusami. Chi era lui?».

«Ethan, facoltà di matematica. Amico di amici».

«Mh. Si sono rivisti dopo? È nato qualcosa?».

«Lind ci sperava, ma Ethan è sparito subito dopo».

«Perché? Lind era stato terribile a letto?».

L si grattò il capo. «Mi verrebbe da dirti che la loro storia non si è sviluppata per colpa della famiglia omofoba di Ethan, ma mi infastidisce il fatto che le persone gay debbano essere sempre rilegate al combattimento incessante per l’accettazione. Vorrei dare un po’ di pace alla comunità LGBT, della serie, una vita normale e felice è anche possibile. Non è che se sei gay allora è ovvio che qualcuno di odierà. Non voglio che sia così. Perciò dirò che, semplicemente, Ethan aveva paura dell’amore» affermò L con lo sguardo un po’ perso, come se non si fosse accorto di star parlando ad alta voce. Ella sgranò gli occhi, piacevolmente colpita da tali parole.

Poi, il detective piantò nuovamente i suoi occhi grigi in quelli della donna. «O forse il suo cervello non ha rilasciato sufficienti quantità di dopamina e di ossitocina durante l’amplesso».

Ella sorrise. «Bene, L, direi che per oggi abbiamo finito. Hai usato egregiamente la tua immaginazione, e ti ringrazio per gli sforzi che hai compiuto nell’utilizzarla».

Il giovane sollevò appena all’insù gli angoli della bocca, come a dire “non c’è di che”. «Ora puoi spiegarmi quali erano le tue vere intenzioni facendomi fare tutta questa cosa dell’immaginazione?».

La donna sospirò. «Avevo ben in chiaro che non avresti rinunciato a servirti di Lind per il tuo piano. E va bene, in parte sono d’accordo con te: è un condannato a morte, se non sarà Kira a ucciderlo lo farà lo Stato giapponese. Però… il mio obiettivo era quello di farti realizzare che Lind non è solo un fantoccio che si presenterà in televisione come L, una marionetta che ti servirà unicamente ad adempiere ai tuoi scopi. È un individuo come me e come te. Ha una storia, delle emozioni, ed è una cosa che voglio che ti sforzi di tenere a mente quando stasera morirà in diretta».

Il ragazzo annuì, alzandosi lentamente dalla poltrona. «Grazie per avermelo spiegato».

«Non c’è di che» rispose Ella, alzandosi e avviandosi verso l’uscita della stanza. «Sei stato molto bravo oggi, L. Ci vediamo la prossima volta, buon lavoro».

«Alla prossima, Ella» la salutò lui, mentre la donna usciva.

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Capitolo 4
*** Blue Dealings ***


III

Blue Dealings

 

L non aveva mai visto Ella come una figura da cui doversi difendere, neanche da bambino.

Da piccolo, soprattutto durante i primi mesi di contatto, si limitava a ignorare la psicologa. Lei gli faceva compagnia durante i momenti di svago nel salone della Wammy’s House o in giardino, e mentre lui giocava lei leggeva articoli accademici o analizzava i risultati dei test psicodiagnostici che gli somministrava. La donna provava a rivolgergli qualche domanda di tanto in tanto, ma il piccolo non rispondeva quasi mai; fargli compilare le sottoscale della WISC-R o le Matrici di Raven sembrava l’unico modo che Ella avesse per stabilire un contatto col bambino: L, infatti, adorava compilare.

Poi, col passare del tempo, L era divenuto sempre più consapevole del peso delle proprie abilità intellettive.

Sapeva di essere un “bambino prodigio”, un “genio”, «così vengono chiamati quelli come me nei film» era stato uno dei primi mormorii che aveva rivolto a Ella. Era inoltre consapevole del fatto che da questo suo “talento” avrebbe potuto ricavare qualcosa di positivo, ma anche ch’era un’abilità da tenere sotto controllo.

Sin da bambino L aveva temuto che il proprio cervello, poiché dotato di una così grande intelligenza, si rivelasse un’entità a sé in grado di prendere il controllo su di lui da un momento all’altro. Dunque, aveva accettato la psicoterapia per “imparare a governare il proprio cervello prima che quest’ultimo governasse lui”. Ovviamente si trattava di una credenza infondata su cui Ella avrebbe dovuto lavorare parecchio in futuro, ma all’epoca la psicologa l’aveva quasi sfruttata, dato che sembrava l’unico pretesto che le avrebbe consentito di entrare in contatto col suo giovane paziente.

Perciò, specialmente agli inizi, L aveva preso i colloqui con Ella come una specie di obbligo personale. Lei non gli aveva mai imposto una seduta, ma lui le aveva sempre richieste regolarmente. Stranamente non c’era un giorno della settimana che L prediligeva per i loro incontri; aveva solo una preferenza per l’orario, le 16:00, ed era sempre lui a recarsi da Ella. 

Tali abitudini erano però mutate da quando il detective aveva cominciato a lavorare al caso Kira: non era più lui a raggiungere la psicologa ma richiedeva che fosse lei ad andare da lui, nella tetra stanza in cui trascorreva le giornate, e a qualsivoglia orario.

Quel giorno fu uno dei tanti. Per l’ennesima volta, Ella si ritrovava a bussare alla porta dell’oscuro antro che il ragazzo pareva intenzionato a non lasciare.

«Vieni pure, Ella» proferì da dentro L, col suo tipico tono monocorde.

La donna aprì delicatamente la porta, e scivolò nel buio della stanza. Il suo paziente si trovava, come d’abitudine, accovacciato a terra davanti allo schermo del PC, anch’esso posto sul pavimento, ch’era l’unica fonte di luce della camera. «Buongiorno, L» lo salutò.

Lui si voltò verso di lei, affabile, e scattò in piedi. «Buongiorno, Ella».

«Ci accomodiamo?» gli domandò, indicando le due poltrone. «E gradirei anche un po’ di luce, se non ti dispiace».

L le rivolse uno sguardo genuinamente interdetto. «Sì, lo sai che mi disp-» ma s’interruppe subito dopo, non appena vide Ella sollevare entrambe le sopracciglia. «Oh, ok, domanda retorica. Domanda retorica perché… oh, ci sono! “Si trova una soluzione che vada bene a entrambi”. E quindi si accende l’abat-jour, che fa poca luce» concluse, andando a pigiare l’interruttore.

La psicologa sorrise, soddisfatta. «Ti ringrazio molto» gli disse, mentre una tenue luce giallastra si spandeva per la stanza. La donna si accomodò lentamente su una delle due poltrone, mentre il giovane balzò agilmente sull’altra.

«Allora, come stai?» domandò Ella.

«Come sempre», L si mise meglio a sedere. «Salvo il mondo e non esco mai da qui».

«Ti piacerebbe uscire da qui?», Ella sollevò un sopracciglio.

L la guardò di sottecchi per una frazione di secondo. «Le indagini vanno sempre bene, sono successe un po’ di cose. Devo aggiornarti», cambiò poi discorso.

La psicologa annuì, con una lieve stretta allo stomaco per aver posto al proprio paziente la domanda sbagliata. «Certo, dimmi pure».

L si schiarì la voce. «Dai rapporti del quartier generale è stato verificato che il 68% delle morti è avvenuto tra le quattro del pomeriggio e le due di notte, con una più alta concentrazione tra le otto di sera e la mezzanotte. Nel weekend invece tra le undici di mattina e la sera tardi, con andamento regolare. Ho dunque ipotizzato che possa trattarsi di uno studente. Ci ho pensato perché il tempo libero di uno studente giapponese va in media da metà pomeriggio a sera inoltrata, quindi sarebbe plausibile».

«Sì? Mica facevano degli orari da suicidio qui? Con i club pomeridiani e le lezioni supplementari alla sera?».

«Ottima osservazione», L sollevò un indice. «Ma la terrò in considerazione se e solo se l’ipotesi dello studente si rafforzerà. Per ora, mi limiterò a tenerla a mente».

«E ne hai parlato anche con gli altri agenti?» domandò Ella.

«Sì. Ho fatto notare loro che se Kira fa fuori solo criminali è probabile che stia seguendo un proprio ideale di giustizia, e che dunque voglia affermarsi come una specie di divinità. Quello che ci siamo detti io e te la prima volta che ne abbiamo parlato, in poche parole. E poi ho aggiunto che credo che si tratti di una persona estremamente infantile, sottolineando che di ciò abbiamo avuto la conferma il giorno in cui Lind L. Tailor è stato giustiziato da Kira in diretta regionale».

«Mh. E qual è stata la loro reazione?».

«Sono rimasti in silenzio. Non hanno avuto il coraggio di obiettare perché sono il miglior detective al mondo, ma al contempo non mi hanno nemmeno dato man forte poiché la mia teoria poggia su ipotesi perlopiù infondate». 

«Mh, capito» annuì Ella. «E com’è finita poi?».

«È finita che già il giorno dopo e nei giorni a seguire Kira ha fatto fuori ventitré criminali, l’uno a distanza di un’ora dall’altro. Naturalmente, la prima reazione degli agenti è stata confutare la pista dello studente. Il che non è sbagliato, ma il punto è che le intenzioni di Kira convergono da tutt’altra parte. Tramite i suoi ultimi omicidi, programmati e cadenzati, Kira non stava cercando di convincerci che non è uno studente. Ci stava invece comunicando che può decidere l’orario della morte a suo piacimento».

Ella sollevò un sopracciglio. «Non ti sembra un po’ forzata come deduzione?».

Il detective si stiracchiò sulla poltrona, e roteò lo sguardo. «No, Ella. Ho una laurea in Legge e un dottorato in Criminologia, quindi no. Kira si è limitato a uccidere criminali dietro le sbarre, e dunque morti di cui la polizia sarebbe stata informata tempestivamente. E poi c’è dell’altro: io ipotizzo che il colpevole sia uno studente, e già il giorno dopo la mia ipotesi viene smentita. Potrebbe trattarsi del fato, certo. Però il tempismo con cui tutti questi avvenimenti sono capitati è troppo perfetto. E dunque, arriviamo alla mia ultima ipotesi: Kira ha un modo per sottrarre informazioni alla polizia. Credo che si tratti di un membro della polizia stessa, o di qualcuno in relazione con loro. Così, ho contattato l’FBI. Il presidente Robert Mueller ha accettato di collaborare, e ha già inviato dodici agenti in Giappone. Sono arrivati qui cinque giorni fa, e il loro compito sarà quello d’indagare sugli agenti dell’NPA e sulle loro rispettive famiglie.

«Nulla di ciò che ti ho detto è importante, vero?» domandò infine a Ella.

La donna si strinse nelle spalle. «Se per te è importante, allora lo è anche per me. Siamo qui per parlare di te, giusto?».

Il detective si portò l’unghia del pollice al labbro e guardò Ella per qualche secondo, incantato. «Mh, ok. Sì, giusto» esalò infine.

La psicologa rivolse un sorriso al suo paziente. «Prova ora a ricordare se, durante lo svolgimento degli avvenimenti che mi hai appena raccontato, ti sei accorto di star provando qualche emozione».

L puntò istantaneamente lo sguardo al pavimento, senza togliersi il pollice dalle labbra. Stava “calcolando”.

«Un’emozione insolita o un’emozione in generale?» domandò.

«Un’emozione in generale».

D’improvviso, il giovane ridacchiò tra sé. Fu qualcosa di sicuramente inusuale per lui, uno di quei piccoli sorrisi che si fanno quando si pensa a un comportamento tipico di una persona a cui si vuole bene, e si scuote la testa pensando: “non cambierà mai”. Ella rimase di stucco. «Il mio arousal emotivo era decisamente elevato» mormorò poi il ragazzo. «Adrenalina… e anche un po’ di appagamento».

La terapeuta avrebbe di gran lunga preferito una definizione più chiara. Gioia, paura, rabbia. Però, evidentemente, dovette accontentarsi. «Mh» annuì. «Va bene».

«A dir la verità» continuò L, grattandosi la nuca «c’è stata una volta in cui non ho capito a pieno il mio stato d’animo, ora che me lo fai notare. Due settimane fa ero in teleconferenza con gli agenti dell’NPA, stavamo leggendo i vari aggiornamenti sull’indagine. Uno di loro ha detto che ci sono stati ben ventuno individui che hanno rivendicato l’identità di Kira. E io, quando ho sentito quella notizia, mi sono come… diviso a metà. Il 98% del mio cervello mi forniva spiegazioni razionali e oggettive, come probabili sintomi di disturbi mentali. Ma quel 2%… continuava a chiedersi perché qualcuno dovrebbe volersi identificare in un pluriomicida. E allora mi ribadivo le risposte che già avevo elaborato, eppure… rimanevo intrappolato in quel circolo vizioso. Mi sentivo inceppato. Un software che non risponde più ai comandi. C-che cosa mi è capitato, Ella?».

La donna rimase interdetta per qualche attimo. «Non ho capito qual è il problema».

Il giovane sospirò, frustrato. «Per quale motivo non ero in grado di farmi andare bene delle spiegazioni razionali e oggettive, come ho sempre fatto?».

«Ehm… non ne ho idea, a dire il vero» ribatté Ella. «Perché per te è così importante farti andare bene delle spiegazioni razionali e oggettive?».

«Be’, perché sono le uniche che sono in grado di darmi».

«Mh. Quindi il problema è che non riesci a darti una spiegazione non razionale in quanto sei in grado di dartene solo di razionali. E se non riesci a darti una spiegazione non razionale, qual è il problema?».

«Il problema è che lascio una domanda senza risposta».

«E cosa c’è di male, di brutto o di sbagliato nel lasciare una domanda senza risposta?» continuò a incalzarlo la terapeuta.

«È sbagliato perché io devo essere in grado di rispondere a qualsiasi domanda, Ella».

«Ah, sì? E dove sta scritto?».

«D-da nessuna parte, però… diciamo che trovare una risposta è fondamentale nel mio lavoro».

«E su questo siamo d’accordo» fece Ella. «Ma se tu pretendi di ottenere una risposta a cui con le tue facoltà di individuo fallibile non sei in grado di arrivare, non è come chiedere a una tartaruga di volare? Anche la tartaruga, se volasse, potrebbe saltare fuori dall’acqua e salvarsi dallo squalo, ma visto che non ne è in grado deve arrangiarsi come può, e quindi “limitarsi” a nuotare il più velocemente possibile».

Il giovane guardò a terra, e ricominciò a torturarsi tra i denti l’unghia del pollice. «Sì» esalò infine. «Non è sbagliato come ragionamento». 

Dopo qualche attimo di silenzio, L alzò di scatto gli occhi grigi su quelli di Ella. «So che è un’idea infondata, ma a volte temo ancora di scoprirmi un cyborg progettato da Watari che tu hai acquistato solo per scoprire se la mente umana funziona effettivamente come i circuiti elettrici di un computer».

Ella sorrise. «L’importante è che tu sia consapevole che si tratta solo di un’idea, e non di un fatto».

L si sistemò meglio sulla poltrona. «Sì, ne sono abbastanza certo. In Australia avevi una vita quasi perfetta: una bella casa, un marito che amavi e che ti amava, eri agli inizi di quella che si prospettava una grande carriera… In due o tre anni magari vi sarebbero arrivati anche dei figli… Non avresti avuto motivo di rinunciare a tutto ciò solo per testare un’ipotesi».

«Hai detto bene. E poi, dove cavolo avrei trovato i soldi per acquistare un cyborg prodotto da Watari?!» scherzò infine la psicologa, e riuscì a strappare una risata anche al suo paziente.

Dopo che i due si furono scambiati le ultime frasi conclusive, il colloquio terminò.

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Capitolo 5
*** Blue Pursuit ***


IV

Blue Pursuit

 

Quando L aveva stabilito che per proseguire al meglio le indagini sarebbe stato opportuno trasferirsi in Giappone, Wammy aveva acquistato, nel giro di ore, un loft in uno dei più moderni grattacieli dell’intero quartiere di Shinjuku.

Il superattico era diviso in tre appartamenti: uno era riservato al giovane detective, e L l’aveva tramutato in un antro privo di luce da cui pareva fermamente intenzionato a non uscire. Ella non era mai entrata nell’appartamento di Watari, ma poteva facilmente immaginarlo: straripante di monitor ordinati, che gli permettevano di avere infinite finestre su qualsivoglia parte di mondo.

Infine, l’ultimo appartamento era quello in cui viveva lei. Naturalmente, Ella non si era trattenuta dal personalizzarlo: teneva le foto di famiglia sul comodino in camera da letto — nonostante Wammy gliel’avesse “proibito” per proteggere l’anonimato, ma ad Ella non importava nulla dell’opinione del vecchio — le candele profumate alla vaniglia in bagno, le coperte che aveva fatto all’uncinetto — come le aveva insegnato a fare suo padre da ragazza — sui divani, le piante sui davanzali — le stesse che aveva Heath, e i due coniugi si sfidavano per vedere chi sarebbe riuscito a mantenerle in vita più a lungo… Insomma, Ella aveva fatto di tutto pur di rendere quel loft — che sicuramente era costato più di quanto lei avrebbe potuto guadagnare in cinque vite — un’abitazione normale. Normale, così come Ella era una persona normale. O almeno, come aveva sempre tentato di affermarsi in quel mondo totalmente fuori dal comune.

La straordinarietà era diventata per lei ordinarietà: L era straordinario, le avventure che da sempre viveva da dietro il monitor di un PC erano incredibili, e lo stile di vita che conducevano era completamente fuori dal comune. 

Ribadire la propria ordinarietà in mezzo a tanta singolarità era sempre stato per Ella uno sguardo di sfida nei confronti di Watari, che la teneva in ostaggio dall’età di ventotto anni. Era l’unica arma che aveva, quella ribellione silenziosa. Talmente silenziosa però che, probabilmente, in quindici anni di sequestro il vecchio non aveva mai neanche lontanamente notato.

Era quasi ora di cena, quella sera. Erano le sei e mezza, fuori era già buio. Ella, in vestaglia, stava sprofondata su una sontuosa poltrona color amaranto, che dava le spalle a una meravigliosa vista sulla Tokyo notturna. Sulle gambe teneva aperto un album di fotografie.

«Mh, ok, vediamo… Oh, sì! Questa è bella» sogghignò. «Pagina quindici, sì, vai decisamente a pagina quindici». Era al telefono con Heath.

«Ah, sì! Mi ricordo. Eravamo alla presentazione del libro di Peter, giusto? Ehi, ma… aspetta… era quella, di presentazione?!».

«Mh, “Ricordi D’Africa”» confermò Ella, sghignazzando. «Ci puoi giurare».

Heath scoppiò in una risata fragorosa. «Oh, mio Dio! Ma ti ricordi? Peter che decanta le lodi di Carl Sagan davanti alla stampa e agli intellettuali di turno, e Pauline dall’ultima fila che gli corregge la pronuncia del nome! Quando tutti si sono girati a guardarla avrei voluto sotterrarmi, te lo giuro».

Ella ridacchiò. «È sangue tuo, Heath» lo prese in giro, rinfacciandogli la sua parentela con la petulante Pauline Nordahl. «Come sta Peter?» azzardò poi.

«Bene, è partito qualche settimana fa per l’Etiopia. È riuscito a trascinarci anche qualche suo specializzando».

La donna sorrise, e poi arpionò il filo della cornetta con le dita. «Ti chiede ancora di accompagnarlo?».

«Sì, ma non mi ha ancora convinto», Ella lo sentì ridere. «Proprio non ho voglia di prendermi la leishmaniosi o la malaria».

Ella stirò le labbra, con amarezza. Heath stava mentendo. Gli sarebbe piaciuto eccome, andare con Peter in Etiopia.

All’epoca, quando Quillsh Wammy non si era ancora appropriato della libertà dei coniugi Nordahl, Heath aveva tanti progetti. Uno dei tanti era l’Africa, come i suoi genitori prima di lui: lui, Peter e Jenna, suoi colleghi e amici, sarebbero partiti per il Ghana a breve. Giovani chirurghi, smaniavano di poter salire su un aereo per andare a cambiare la vita di coloro che parevano ormai senza speranza.

Quel sogno era stato però infranto, e la vita serena dei due giovani sposi completamente sconvolta. Ella era diventata ostaggio di Watari e del suo lugubre orfanotrofio, e Heath si era ritrovato cimici e telecamere perfino in bagno.

Da quindici anni, Heath non usciva più di casa da solo. Oltre alle cimici cucite all’interno dei suoi vestiti, c’erano i servizi segreti britannici a pedinarlo, anche quando Heath non li vedeva. Ogni sua telefonata era controllata, ogni suo spostamento concordato e programmato. Le poche volte in cui era uscito di casa di sua iniziativa, si era ritrovato almeno due agenti ad attenderlo davanti al cancello. Watari temeva che l’uomo avrebbe potuto denunciare il rapimento della moglie; non era la polizia a spaventarlo, dato che quella poteva gestirla come meglio credeva, ma parenti e amici: quella era l’unica area in cui il vecchio non aveva il controllo sul serpeggiare delle informazioni. E Wammy non poteva assolutamente rischiare che in giro per il mondo iniziassero a circolare storie sui suoi affari. Proteggere l’anonimato, quello era sempre stato l’obiettivo fondamentale.

Il vecchio non aveva mai dato troppa importanza ai legami. Dato che riguardavano la sfera emotiva e sentimentale erano superflui, per lui. Quando però si era trattato di sfruttarli per raggiungere i propri scopi, quest’aspetto l’aveva tenuto bene in considerazione: si era curato d’impedire al legame tra Ella ed Heath di affievolirsi, perché altrimenti il ricatto con cui teneva in pugno i coniugi Nordahl avrebbe perduto il suo potere.

Prima che L abbandonasse definitivamente l’orfanotrofio, Heath era potuto andare a trovare Ella a Winchester una volta all’anno. Inoltre, il vecchio permetteva loro trenta minuti di telefonata ogni tre giorni, telefonata che veniva repentinamente chiusa dall’agente di turno quando qualcuno andava a trovare Heath senza preavviso.

Questo perché solo Heath sapeva che Ella era ancora viva. Per il resto della sua famiglia e dei suoi amici, Ella era morta il 21 dicembre 1988, sul volo Pan Am 103 delle 18 in punto, in partenza da Londra Heathrow e diretto al J. F. Kennedy di New York. Dopo un ora di decollo, l’aeroplano si era schiantato sul villaggio scozzese di Lockerbie: un attentato terroristico a opera dei servizi segreti libici. Comunque, per Heath non era stato difficile scoppiare in lacrime il giorno del funerale di Ella, anche se sapeva che sua moglie era ancora viva e vegeta.

Quando la donna avvertì tre colpi alla porta sobbalzò, mentre ancora stava ridendo.

«Scusa Heath, devo andare» fece, alzandosi dalla poltrona. 

«È venuto a chiamarti?» domandò lui.

Heath sapeva di L, ma non l’aveva mai incontrato. Né Ella né Watari avevano mai voluto.

«Sì» mormorò Ella, mentre apriva la porta.

«Ok, allora di lascio. Salutamelo» fece Heath, come diceva di solito.

Ella sospirò, guardando i grandi occhi grigiastri del detective che aveva di fronte a sé. «Sì, certo. Buonanotte, Heath».

«Buonanotte, amore», ed Ella mise giù.

«Ciao, che ci fai qui?» domandò poi al giovane. Era da un po’ che L non si presentava alla sua porta, e al contrario era lei a doverlo raggiungere nella sua stanza.

Il ragazzo ignorò completamente la domanda, scivolando delicatamente nell’appartamento della psicologa. «Heathcliff ti dice frequentemente di salutarmi?» domandò.

«Sì, direi ogni volta» rispose lei guardandolo di sottecchi, mentre chiudeva la porta.

«E perché non mi riporti mai i suoi saluti?».

«Non saprei» borbottò Ella. «Non l’hai mai visto, dopotutto» sviò.

«Sì, che l’ho visto».

«Ah, sì?».

«Sì, qualche volta vi ho visti passeggiare nel giardino del The Wammy’s House. Avevi l’identica faccia inebetita che hai quando parli al telefono con lui».

«Ah, grazie».

«È la verità. Comunque, è questione di cortesia. Ricambia i saluti a Heathcliff, Ella».

«Senz’altro» borbottò lei e, senza farsi vedere da L, alzò gli occhi al cielo.

Senza aggiungere altro, il detective andò a prendere posto su una delle due poltrone al centro dell’appartamento, assumendovi la sua tipica posizione accovacciata. 

Ella spostò quella su cui era rannicchiata poco prima per posizionarla di fronte a quella di L, e prese la copia dell’album di fotografie che stava sfogliando insieme a Heath, e lo appoggiò sul tavolino in legno scuro.

«Dunque, immagino che—».

«Tu ami Heathcliff così come lo amavi quindici anni fa. Com’è possibile?» la interruppe L.

«Come fai a dire che lo amo come lo amavo quindici anni fa?».

«Per la faccia inebetita che ancora fai. La facevi anche quand’ero bambino».

«E per te l’amore è questo? Fare la faccia inebetita?».

«Sì, praticamente sì».

«Ah, buono a sapersi» ridacchiò la donna. «Comunque, non saprei. Perché dovrei non amarlo più, dopotutto?».

«Non ne ho idea. Tutto tende a sgualcirsi, col tempo. Gli oggetti, gli alberi, i cadaveri, gli uomini. Tutto muore, tutto si degrada. Per l’amore però questo principio sembra non valere. Rimane vivo e baluginante, sempre. È singolare, non trovi?».

«Be’, non sempre. Anche l’amore va a scemare, in certi casi» obiettò la psicologa.

«Non l’amore vero» ribatté il detective. «Se va a scemare è perché non era amore, ma semplice infatuazione».

Ella sogghignò. «E da quando gli uomini di scienza sono così sicuri nel fare affermazioni riguardo a costrutti non operazionalizzabili?» lo provocò.

Il giovane però sembrò non cogliere la presa in giro. «Hai ragione» sospirò, stiracchiando appena le lunghe braccia sottili. «Cominciamo questo colloquio?».

«Colloquio!?» fece Ella, teatralmente incredula. «Sei piombato nella mia stanza mentre ero al telefono con mio marito, porto vestaglia e pantofole e stavo per andare a prepararmi la cena. Questo non è il setting di un colloquio psicologico, ma di una chiacchierata di piacere. Perciò ti concedo quindici minuti, poi fila nel tuo appartamento ché è ora di mangiare».

L non ribatté ma gonfiò le guance, contrariato. Era un gesto infantile, e difatti il ragazzo lo faceva di frequente quand’era bambino. Vedendolo, Ella avvertì una punta di nostalgia. «Allora? Come stai?» gli domandò.

«Bene» sviò subito lui, come faceva sempre. «Si sono verificati tre casi di detenuti che hanno compiuto azioni mai riscontrate prima, e poi sono morti d’infarto».

«Del tipo?».

«Uno di loro si è tagliato un dito, e col sangue ha disegnato sulla parete della cella una stella a cinque punte contornata da un cerchio. È comune la credenza che rappresenti un emblema satanista; in realtà, simboleggia gli elementi di terra, acqua, fuoco, aria e spirito. Poi, un altro ha lasciato un messaggio contenente parole di terrore nei confronti di Kira. E l’ultimo è evaso dal carcere per poi morire nei bagni del personale».

«Mh. E dunque?».

«Come “e dunque”?».

«Non capisco cosa ci sia di strano. Tanta gente fa cose strane prima di morire».

«Del tipo?».

Ella sbuffò. «Che ne so. Léon consegna l’anellino di una granata a Stansfield, prima di morire. Stansfield non capisce perché, ma Léon sa che lo sta facendo per vendicare Mathilda. Léon aveva una motivazione ben precisa. Magari anche questi criminali le avevano».

«Per crepare in un gabinetto?» domandò L, alzando un sopracciglio.

«Sì, va be’, era per dire» borbottò Ella. «Tu cos’hai pensato, invece?».

«Ho pensato che se nessun criminale morto per arresto cardiaco finora ha compiuto azioni inusuali prima di morire, e stavolta invece addirittura in tre l’hanno fatto, non è da escludere che sia opera di Kira».

«Be’, ma ormai abbiamo appurato che è opera di Kira, no?».

«Sì, che a farli fuori sia stato lui ne sono certo» chiarì il detective. «Io mi riferivo alla manipolazione delle azioni precedenti la morte: magari Kira ha, oltre al potere di decidere quando avverrà l’infarto, anche quello di stabilire quali saranno le azioni che la vittima compirà prima di spirare».

«Il “potere”?» gli fece eco Ella, rabbrividendo. «Cavolo, sembra di avere a che fare con uno stregone».

L ignorò il suo commento e andò avanti. «Ho ordinato all’NPA di comunicare ai media che le morti sono avvenute per infarto, senza specificare nulla riguardo alle azioni a esse precedenti. Probabilmente la manipolazione delle azioni precedenti la morte è un’abilità che Kira ha ottenuto di recente, ed è probabile che ora stia effettuando dei test per capire fin dove può arrivare. Il punto ora è capire perché Kira ha svolto dei test servendosi dei criminali. Vuole forse fare qualche mossa? L’FBI però si accorgerebbe di un individuo che si comporta in maniera sospetta…», L stava ragionando ad alta voce.

«Be’, l’hai appena detto tu, no? Magari sta testando questa sua eventuale nuova capacità per comprenderne i limiti» suggerì Ella, sebbene il suo intento non fosse quello di consigliare il giovane, bensì quello di riportarne l’attenzione al momento presente. «Ci sono novità dagli agenti dell’FBI?».

«Nulla di rilevante. E se l’obiettivo di Kira fosse un altro?», L tornò ai propri ragionamenti. «Non so se la stella a cinque punte significhi qualcosa in particolare, ma ho analizzato il messaggio che conteneva parole di terrore nei confronti di Kira. Leggendo la prima lettera di ogni riga in sequenza, viene fuori l’inizio di una frase: “L, lo sai che”. Credo che stia tentando di comunicare con me».

La terapeuta stava per ribattere, ma le parole le morirono in gola: in quel momento Wammy aprì la porta dell’appartamento tramite il passepartout ed entrò, reggendo un ampio piatto in ceramica finemente decorata, che offriva un vasto assortimento di dolci.

«Le ho detto almeno un centinaio di volte che è irrispettoso e controproducente interrompere un colloquio terapeutico, signor Watari» gli ringhiò contro Ella. «E, visto che questo è il mio appartamento, preferirei che bussasse prima di entrare».

Il vecchio, che portava un completo elegante color grigio antracite, avanzò lentamente e poggiò il piatto davanti a L, sul tavolino.

«Non è un colloquio terapeutico ma una chiacchierata di piacere, dottoressa Nordahl» ribatté poi, con tono calmo ed educato. «Inoltre ero convinto che questi anni di sequestro Le fossero stati sufficienti per capire che di quello che Lei preferisce o non preferisce a me non importa minimamente».

«Grazie, Watari» mormorò L, mentre Ella guardava incredula il vecchio rivolgere un cenno del capo al ragazzo e poi andarsene, chiudendo la porta dietro di sé.

Dopodiché, L guardò la terapeuta. Aveva negli occhi una nota di rimprovero. «Non devi attaccare Watari. Anche se ci litighi, la tua situazione non cambia. L’unico risultato che ottieni è che ti arrabbi ancora di più, proprio perché non ottieni alcun risultato. Sei come un leone che tenta di sfondare una gabbia d’acciaio col proprio corpo: non ce la farai mai. L’unica cosa che ottieni sono delle membra doloranti».

L non sbagliava. Ella odiava Wammy, e ogni scusa era buona per ringhiargli contro. Era anche vero che manifestare al vecchio le proprie emozioni non aveva mai alcun vantaggio: Wammy continuava a fare come gli pareva, sempre. E sì, il più delle volte ciò non faceva altro che far arrabbiare Ella ancora di più.

«È vero» ribatté la donna «ma al contempo è deolontogicamente corretto che io protegga la privacy del mio paziente e il setting terapeutico, ed è quello che ho tentato di fare. Perciò astieniti dal fare questi commenti, se mi comporto in un determinato modo è perché ho in mente un obiettivo che è funzionale per il mio lavoro» lo ammonì poi. «E da qui mi collego: non devo ricordarti io che hai la sindrome di Marfan, vero?» domandò infine, riferendosi al piatto in ceramica ricolmo di dolci.

«No, non devi» rispose L, tranquillamente.

Ella non ribatté nulla, e restò impotente a guardare il suo paziente mentre ingurgitava un bignè strabordante di crema al cioccolato.

«A proposito», L parlò con la bocca piena, «Watari vuole che io decida chi erediterà l’identità di L dopo di me. Potrei andarmene da un momento all’altro, dopotutto. La mia aorta potrebbe lacerarsi per via della sindrome di Marfan, oppure potrei morire per mano di Kira».

Ella annuì lentamente, con occhi vuoti. «Devi scegliere uno tra i bambini dell’orfanotrofio?» gli domandò poi.

«Sì, del The Wammy’s House. Non che io abbia vasta scelta, in realtà. Il primo e il secondo della graduatoria sono due ragazzini di dodici e quattordici anni. Te lo immagini? Un altro preadolescente in gabbia, obbligato a fare questa vita».

Le labbra di Ella si curvarono in un ghigno amaro. «Quindi è una vita a cui si è obbligati, la tua? Non è una vita che ci si sceglie?», il suo tono aveva una punta d’ironia ch’era certa L non avrebbe afferrato.

«No, non ce la si sceglie» fece L. «Solo un folle la sceglierebbe».

«Ciò equivarrebbe a dire che anche tu sei un folle» lo sfidò Ella.

Il giovane alzò le iridi grigie, e la pugnalò con un’occhiata gelida e affilata. «Ho detto che solo un folle “sceglierebbe” questa vita. Io non l’ho mai scelta, così come non l’hai mai scelta tu».

La terapeuta annuì. «Mai parole furono più vere» commentò. 

«È come se mi avessero drogato» proseguì il ragazzo. «Mi hanno instradato in questa vita, dicendomi che non avrei potuto fare altro. Senza permettermi d’imparare a fare altro. E ora fare questa vita è l’unica strada che conosco per tirare avanti. È una gabbia, ma è la mia unica fonte di salvezza. Mi protegge dal mondo esterno, con cui non ho mai imparato a interagire veramente. Senza contare che l’adrenalina che avverto quando risolvo un caso ha su di me l’effetto di una sostanza psicoattiva. Mi permette di non fermarmi a riflettere, perché ho la certezza che fermarmi a riflettere equivarrebbe a realizzare quanto mi sento perduto».  

Senza ribattere Ella, sotto allo sguardo curiosamente vigile del detective, andò ad afferrare il blocco da disegno che teneva sul tavolo della cucina — nel tentativo di coltivare un nuovo hobby — e vi appuntò a grandi linee quanto L aveva appena detto. «Il quarto d’ora è scaduto, ma quella che hai appena fatto è una riflessione estremamente interessante. La prossima volta riprendiamo da qui. Ora fila nel tuo appartamento, ché ho fame».

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