Golden

di Antonia_P
(/viewuser.php?uid=105894)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ACT I ***
Capitolo 2: *** CAP 1 ***
Capitolo 3: *** CAP 2 ***
Capitolo 4: *** CAP 3 ***
Capitolo 5: *** CAP 4 ***
Capitolo 6: *** CAP 5 ***



Capitolo 1
*** ACT I ***


Your face is like a melody. It won't leave my head. Your soul is haunting me and telling me that everything is fine but I wish I was dead. Il tuo viso è come una melodia. Che non lascia la mia testa. La tua anima mi perseguita dicendomi che va tutto bene, ma vorrei essere morta - Dark Paradise, Lana Del Rey.

*
*


Ero sicura al cento per cento di stare dormendo. Ero sicura al cento per cento di stare sognando. Era notte, ma dal punto in cui mi trovavo non riuscivo a vedere nulla a parte una colonna di fumo nera come la pece. Che cosa… Assottigliai lo sguardo come meglio potevo alla ricerca di qualche indizio su dove mi trovavo.
 
Sussultai nel vedere una marea di persone correre verso di me come se fossero inseguite dalle fiamme dell’inferno. Dannazione. Provai a fare lo stesso, a scappare, considerando che rischiavo di essere travolta dall’onda umana, ma con scarsi risultati. I piedi erano ben piantati nella sabbia dorata e non riuscivo a liberarli in alcun modo possibile.

Imprecai.
 
Chiusi gli occhi preparandomi al peggio, ma sorprendentemente non accadde proprio niente. Ritornai a guardarmi attorno, però subito notai che mi trovavo in un punto diverso rispetto a prima. Non c’era fumo, non c’erano migliaia di persone spaventate che correvano verso la salvezza.

C’era la luna. C’erano le stelle. C’erano le fiamme che bruciavano ogni cosa. C’erano le grida. E una ragazza. I capelli castani ricadevano fino a metà schiena, il corpo tremava seppur coperto da una tunica bianca con vari gioielli in oro mentre le dita affusolate stringevano qualcosa di prezioso.
 
«Lui non c’è più» bisbigliò.
 
Aggrottai la fronte, mi scostai una ciocca di capelli ribelle e mi piegai sulle ginocchia doloranti. Allungai una mano per toccarle la spalla, ma rimasi paralizzata alla vista del suo viso: era identico al mio. Spalancai la bocca carnosa, provai a dire qualcosa ma le corde vocali parevano paralizzate.
 
«Astrid?».
 
Improvvisamente tutto quello che mi circondava iniziò a frantumarsi fino a diventare polvere. Delle persone, delle grida, della puzza di fumo non rimase nulla, a parte e una massa informe. Cautamente alzai le palpebre pesantissime e mi guardai attorno seppur ancora assonnata. La primissima cosa che vidi fu un soffitto bianco sconosciuto colmo di luci a led abbaglianti. Mugugnai infastidita, distolsi lo sguardo e mi concentrai sulla persona che mi aveva chiamato: la mia migliore amica.
 
«Siamo arrivati?» borbottai.
«Sì, stiamo atterrando».
 
Deglutii un fiotto di saliva bollente, sospirai rumorosamente e chiusi in un angolo del mio cervello quegli stranissimi incubi. Mi massaggiai le tempie e battei le palpebre alla vista delle piccole cuffie di colore bianco latte. Erano attorcigliate attorno al mio polso ed erano collegate a quello che era il mio telefono personale.

Scossi la testa sconsolata, liberai il mio corpo da quei sottili fili e sbloccai l’oggettino tecnologico per controllare l’orario: erano le 18:30. Annuii tra me e me alla vista di quei numeri piuttosto preoccupanti e gettai tutto nello zainetto. Poi, mi feci forza sulle ginocchia addormentate a causa della posizione e… mi alzai in piedi.
 
«Preso tutto?» domandai.
«Sì» disse.

Sorrisi soddisfatta a colei che si trovava al mio fianco e iniziai a dirigermi verso l’uscita che non distava molto. Senza guardarmi indietro, varcai la soglia lasciata aperta e scesi le scale ricoperte da un tappeto verdognolo. Mi bloccai sull’ultimo gradino quando uno strano brivido mi percorse completamente la spina dorsale provocandomi una miriade di sensazioni contrastanti come attesa, curiosità ma anche ansia. Niente paura! Mi mordicchiai il labbro inferiore e passo dopo passo raggiunsi le porte automatiche dell’aeroporto. Appena le superai fui travolta da una serie di flash appartenenti a diverse macchine fotografiche.
 
«Dannazione» borbottai.
 
Strizzai le palpebre per allontanare tutti i piccoli puntini luminosi e mi voltai verso la mia sinistra. Emy si stava coprendo gli occhi con una mano e cercava di non rispondere alle domande che le venivano fatte. Giornalisti! Presi un respiro profondo, rinchiusi la mia ansia in un angolo del mio cuore e cercai di non mostrarmi nervosa. Per un momento, un solo, gli insegnamenti di mio padre presero possesso di me e del mio corpo.
 
«Buonasera» salutai.
«Bentornata a Domino, Miss Suzuki. E’ tornata per lavorare?» domandò una donna dagli occhi verdi, capelli rossi e grandi occhiali a cerchio «Collaborerà con la Kaiba Corporation?».
 
Schioccai la lingua rumorosamente al suono di quella domanda fin troppo precisa per i miei gusti. Io non sapevo proprio cosa pensare oppure cosa rispondere considerato che qualcuno all’interno della Kaiba Corporation avrebbe segnalato l’intervista: «E’ ancora da decidere» risposi.

Sospirai rumorosamente tra me e me e mi preparai all’ennesima domanda a cui non avrei risposto. Ma, quando mi girai verso destra, non mi ritrovai a fissare un guastafeste ma un volto a me familiare: un uomo di circa trentacinque anni si infilò tra me e gli altri reporter arrivati negli ultimi minuti. Circondò il mio corpo e quello della mia amica con le sue braccia ricoperte da un abito scuro e su misura.
 
«Ne usciremo vive?» borbottò Emy.
«Abbiate fiducia in me» affermò Paul.
 
Ridacchiai divertita da quelle parole così gentili e mi armai di tutto il coraggio che possedevo. Presi un respiro profondo e assottigliai lo sguardo alla ricerca di una piccola e valida via d’uscita. Ne trovai una. Era dietro ad una colonna in marmo ed era tenuta aperta da un bastone per pulire il pavimento. Attenta a non farmi vedere indicai quello che avevo scoperto alle due persone che erano con me.
 
«Quando vuoi» sussurrò Emy.
 
Annuii, mi portai una mano sul cuore e cominciai a farmi spazio nella folla che non voleva lasciarci passare. Appena fui vicino alla porta di colore verde, allungai una mano e strinsi il bastone che mi era di impiccio. Deglutii un fiotto di saliva bollente, varcai la soglia seguita dalle persone che mi accompagnavano e chiusi l’ingresso con l’oggetto in legno. Dall’altra parte udii diversi rumori come scatti fotografici ma anche diverse imprecazioni contro di noi.
 
«Andiamo?» chiesi.
 
Tutti assieme percorremmo l’ala sotterranea dell’aeroporto che ci portò direttamente nel parcheggio. Proprio vicino l’uscita principale c’era una macchina ad attenderci: grande, alta, nera e lucida. Paul aprì il veicolo con il telecomando, spalancò gli sportelli e ci fece segno di salire a bordo.
 
«Grazie» dissi.
«Grazie» ripeté Emy.
 
Paul sorrise intenerito, si assicurò che fosse tutto a posto e chiuse gli sportelli con una spinta. Dopo di che si mise alla guida del mezzo che iniziò a guidare per le strade della bella città. Sospirai sollevata all’idea di non dover affrontare più nessuno almeno per quella mezza giornata.
 
Abbassai il finestrino così da far passare un po’ d’aria calda, ma proprio alla prima svolta dell’auto notai un mezzo di trasporto simile, ma non identico al mio. Al suo interno, c’era qualcuno a me familiare: un ragazzo dai capelli castani e gli occhi azzurri.
                 
«Astrid, tutto bene?» chiese Emy.
«Sì» risposi «Tutto bene».

*
*


Buonasera a tutte e tutti coloro che leggeranno questo mio primo capitolo. In questo momento provo un misto di sentimenti. Un po' di ansia, ma anche un po' di emozione poiché non pubblico da ben tre anni una storia qui su EFP o WATTPAD- altro sito in cui la inserirò a breve.

Questa storia in particolare è stata pubblicata in passato e ha subito abbastanza, per non dire molte revisioni a causa della perenna insicurezza che mi attanaglia l'anima. Adesso è tornata e questa versione dovrebbe essere al 99% quella definitiva poiché mi sono resa conto che la confusione e la difficoltà erano dovute al fatto che avevo diviso quelle che in realtà erano due parti della stessa mela poiché in contemporanea a questa storia ne stavo pubblicando un'altra. 

Long story.

Il punto è che questa storia avrà una sua aggiunta, avrà qualcosa del passato e seguirà la linea originale del manga/anime con i dovuti risvolti. Infatti si scoprianno molte cose e anche abbastanza presto se vogliamo prendere in considerazione l'opera precedente! L'unica cosa di cui non sono certa è il titolo. Ma sono dettagli! Detto ciò ringrazio infinitamente chi ha commentato la precedente versione, chi ha aspettato che pubblicassi questa nuova, chi commenterà nuovamente facendomi sentire il suo calore, chi leggerà facendomi sentire la sua presenza. Al prossimo aggiornamento!

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** CAP 1 ***


Your face is like a melody. It won't leave my head. Your soul is haunting me and telling me that everything is fine but I wish I was dead. Il tuo viso è come una melodia. Che non lascia la mia testa. La tua anima mi perseguita dicendomi che va tutto bene, ma vorrei essere morta - Dark Paradise, Lana Del Rey.

*
*


Mi sistemai una ciocca di capelli castana che mi era caduta davanti al viso, quasi a tradimento. Lanciai un’ultima occhiata alla macchina parcheggiata e mi concentrai su qualcosa di più importante: il cielo sopra di me. Era nuvoloso, talmente nuvoloso che non si intravedeva nemmeno un piccolo raggio di sole. I lampi, i tuoni e il vento sferzavano la città mettendo in difficoltà tutte le persone che erano per strada.
 
«Che succede?» mormorai.
«Sta arrivando una tempesta» spiegò Paul.
 
Aggrottai la fronte stranita da quella spiegazione e tornai a guardare quello che stava accadendo. Le persone correvano in cerca di riparo, le foglie rotolavano sui marciapiedi e qualche albero tremava infreddolito. Improvvisamente accadde qualcosa. Le nuvole smisero di rincorrersi, la macchina di muoversi e la mia migliore amica di russare. L’orologio che avevo al polso segnava le 18:30 e la lancetta più grande sembrava intenzionata a non muoversi.
 
«Padrona, tutto bene?» mormorò una voce.
 
Distolsi lo sguardo pensieroso dal polso e lo puntai sul ragazzo seduto a pochi centimetri di distanza. I capelli parevano neri, ma sotto la luce a led dell’auto acquisivano una colorazione rossastra. Gli occhi scarlatti mi fissavano preoccupati mentre le labbra erano piegate in un piccolo broncio.
 
«Non mi piace essere chiamata così» affermai, riferendomi al titolo che aveva usato per attirare la mia attenzione «Usa il mio nome come fanno tutti quelli che mi conoscono».
 
Il giovane storse il naso, abbozzò un sorriso sghembo e incrociò le gambe con una certa nonchalance.La giacca di pelle nera ricoperta di borchie argentee tintinnò ravvivando l’auto…immobile: «Ci proverò» borbottò il ragazzo che si chiamava Slyfer «Ma non è nervosa perché l’ho chiamata padrona. Questo tempo non è di suo gradimento?» piegò il capo verso il finestrino abbassato.
 
«Mi piace la pioggia» cercai di stare attenta a quello che dicevo, per non offenderlo «Ma, mi dispiace per le persone in difficoltà».
«Che cosa vuole che faccia?» chiese Slyfer.
«Eliminala» ordinai.
 
Slyfer annuì al suono del mio ordine, batté le lunghe ciglia nere e allungò la mano sinistra. Inizialmente il palmo era completamente vuoto, ma ben presto la situazione cambiò come per magia. Una strana luce apparve e il vento iniziò a vorticare tra le sue dita e ad accarezzare i miei capelli facendomi un lieve solletico.
 
«E’ sempre un piacere servirla».
 
Slyfer sorrise con dolcezza, fece un lieve inchino e scomparve così come era apparso: dal nulla. Improvvisamente il tempo tornò a camminare, quasi a correre per recuperare ciò che aveva perso. Le nuvole tornarono a rincorrersi, ma il loro colore prima nero era tramutato in un bianco innocente. Il vento pericoloso, quasi mortale, aveva perso la sua potenza e si era trasformato in una brezza.
 
«La tempesta è passata» disse Paul.
«A quando pare» mormorai.
 
La mia migliore amica mugolò scocciata, strusciò il viso sulla mia spalla e lanciò un’occhiata fuori dal finestrino ben chiuso. Dopo di che osservò me, ma soprattutto il bracciale dorato che mi adornava il polso destro con regalità: «Intervento divino?» bisbigliò con voce roca.

«Se te lo dicessi, non sarebbe più divino» scherzai.
 
La mia migliore amica roteò gli occhi azzurri come il cielo estivo, si sedette meglio al mio fianco e posò la testa pesante sulla mia spalla destra. Tra le mani stringeva il piccolo cellulare che le si era scaricato durante il lungo viaggio in aereo New York-Domino.
 
«Miss Kleox, siamo arrivati!».
 
Io e la mia mia migliore amica sussultammo contemporaneamente al suono di quella affermazione. Ci sistemammo i vestiti, prendemmo un respiro profondo e uscimmo dal mezzo di trasporto. Fortunatamente la pioggia era scomparsa ed era stata sostituita da un meraviglioso cielo colorato.
 
«Contenta?» chiesi alla mia amica.
«Decisamente» ridacchiò lei.
 
Il nostro accompagnatore piegò le labbra in una smorfia carica di divertimento e ci fece segno di seguirlo fino all’entrata. Facemmo come ci era stato richiesto e ci incamminammo verso il cancelletto in ferro battuto della villetta. Mi bloccai quando uno strano tintinnio si fece spazio nella mia testa facendomi venire le vertigini. Mi massaggiai entrambe le tempie e mi guardai attorno alla ricerca della fonte di quel suono così fastidioso. Aggrottai la fronte quando mi ritrovai ad osservare un edificio a due piani composto da un piccolo negozio e un appartamento. La porta in legno non era completamente visibile poiché era coperta da qualcuno: un ragazzo.
 
«Nonno, sono tornato!» lo sentii dire.
 
Indossava una divisa scolastica di colore blu piuttosto semplice e una piccola cartella marrone. Si pulì le scarpe da ginnastica sul tappetino su cui era scritto un semplice benvenuti e varcò la soglia. Dopo di che si voltò per chiuderla. Piegai il capo di lato quando intravidi un sorriso infantile, ma anche qualcosa di piuttosto grande e brillante. Una collana completamente d’oro simile ad un puzzle dall’aspetto di una piramide rovesciata.
 
«Lui. Lui è andato via».
 
Mi si bloccò l’aria nei polmoni quando una voce femminile riecheggiò nella mia mente per alcuni istanti. Riportandomi… Riportandomi all’incubo avuto durante il volo New York – Domino, di poche ore fa. Spalancai la bocca e sussultai appena percepii una mano calda e sicura sulla spalla sinistra. Deglutii un fiotto di saliva quando annegai negli occhi semi preoccupati della mia migliore amica: «Tutto bene?» mi chiese.

«Un po’ di stanchezza» balbettai.
 
Mi mordicchiai il labbro inferiore e tornai a fissare il piccolo negozio di giochi dall’altra parte della strada. Questa volta, però, la porta principale con su scritto aperto era ben chiusa e la voce… non tornò. Scossi lievemente la testa per dimenticare ciò che era appena accaduto e mi diressi verso il cancelletto. Questo era stato aperto con una chiave magnetica simile ad una carta di credito dalle sfumature argentee.
 
«Niente serratura?» chiese Emy.
«Niente serratura» chiarì Paul.
 
Abbozzai un sorriso un po' stanco, avrei risparmiato qualche secondo e un po’ di forza, e feci il mio ingresso nel giardino che presentava cespugli verdissimi e ricoperti da more selvatiche, ma anche alcune rose profumate di diverso colore. Mi resi conto che era stato curato nei minimi dettagli, mentre ero stata oltreoceano.
 
«Le valigie?» domandai.
«Sono già arrivate» disse Paul.
«Fantastico!» esclamò Emy.
 
Il mio cuore fece una capriola quando ci ritrovammo sotto al portico composto da tegole di legno e… un’altalena cigolante. Paul inserì la chiave all’interno della serratura, questa era la classica, e la girò più volte. Alla fine, sentii un click e la porta si aprì. Wow! La casa, all’interno, era davvero enorme e molto occidentale considerando dove ci trovavamo. La prima stanza a sinistra era la cucina, quella a destra ospitava il salotto mentre al piano di sopra c’erano tre bagni, tre camere da letto tra cui uno studio dall’ampio balcone.
 
«Quanto tempo» mormorai.
 
La prima cosa che feci fu percorrere il corridoio dalle alte pareti e dirigermi verso la cucina che si trovava in fondo a tutto e affacciava, seppur solo in parte, sul giardino appena percorso. Quest’ultima era lucidissima e piena di utensili utili come padelle, ma anche servizi di piatti in bella vista.
 
«Vi serve qualcosa?» domandò Paul.
«No. Non penso» dissi.
 
Emy si avvicinò ai fornelli che accese girando una delle tante manopole, recuperò un bollilatte dal mobiletto sopra la sua testa e vi versò all’interno dell’acqua. Quando iniziò a bollire versò al suo interno una bustina di camomilla che sparse il profumo per tutta la casa vuota.
 
«Ottima idea» ammisi.
«Non ho voglia di mangiare» ridacchiò Emy.
 
Mi sentivo allo stesso modo della mia amica. Da quando ero scesa dall'aereo non avevo avuto voglia di mettere qualcosa nella pancia, non mi sentivo molto bene e non mi sentivo molto a mio agio a causa del lavoro che avrei iniziato a breve, a causa de paparazzi a causa degli strani sogni che mi avevano tenuta agitata.
 
«Va bene» sospirò Paul «Serve dell’altro?».
«No. Stiamo bene così» affermai.
 
«Allora, a domani!».
«Buona notte, Paul» dicemmo in coro io e Emy.
 
L’uomo si grattò la nuca con un certo imbarazzo, sorrise timidamente e si diresse verso l’uscita chhe si trovava dall'altra parte della casa. Quando sentii la porta chiudersi con un semplice tonfo, mi rilassai come non avevo mai fatto da quando ero arrivata in città.
 
«E’ pronta!» esclamò Emy.


*
*


Buonasera a tutte e tutti coloro che leggeranno questo mio secondo capitolo. Chi ha conosciuto questa storia in precedenza, avrà già notato una differenza che non dico per sicurezza. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto.  Detto ciò ringrazio infinitamente chi ha letto questa nuova version e chi la commenterà facendomi sentire la sua presenza. Se tutto va bene, salvo imprevisti o impegni improvvisi, ci sarà un aggiornamento a breve!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** CAP 2 ***


Your face is like a melody. It won't leave my head. Your soul is haunting me and telling me that everything is fine but I wish I was dead. Il tuo viso è come una melodia. Che non lascia la mia testa. La tua anima mi perseguita dicendomi che va tutto bene, ma vorrei essere morta - Dark Paradise, Lana Del Rey.

*
*


La mia migliore amica spense il fuoco sotto il bollitore, recuperò due tazze di ceramica e versò la camomilla. Dopo di che si avvicinò al tavolo rettangolare circondato da diverse sedie e attese che io facessi altrettanto. Presi un respiro profondo, attraversai la cucina immacolata, scostai una sedia e mi sedetti vicino a lei. Afferrai la tazza di colore rosa e iniziai a bere il liquido giallastro che mi scaldò le corde vocali.
 
«Non male» mormorai.
 
Emy sorrise soddisfatta al suono del mio complimento, dondolò su se stessa e bevve la bibita. Schioccai la lingua divertita da quell’atteggiamento così infantile e assaporai la camomilla bollente. In quel momento non provavo agitazione, non provavo ansia ma una leggera pace simile ad un raggio di sole.
 
«Domani inizio la scuola» borbottò Emy.
«Ti tocca se vuoi restare qui» le ricordai.
 
Io ero in città per lavoro, per poter completare alcune transazioni con la Kaiba Corporation. Oltretutto avevo terminato gli studi prima grazie alla mia intelligenza, ma soprattutto grazie agli insegnanti privati.
 
Per Emy era diverso.
 
Ufficialmente avrebbe dovuto frequentare la scuola, visto che aveva solo quattordici anni come me. Ma aveva fatto richiesta di frequentare un anno scolastico all’estero tramite borsa di studio e… era riuscita ad ottenerla.
 
«Mi accompagni?».
«Ovvio» feci spallucce.
 
«Mi sento più tranquilla».
«Te la caverai» sorrisi.
 
«Andiamo a dormire?» sbadigliò.
«Decisamente».
 
Io ed Emy terminammo la nostra bibita calda, ci alzammo in piedi e ci spostammo verso il piano superiore. Il corridoio era lungo, bianco e poco illuminato non essendoci alcuna finestra al suo interno però era decorato con quadri e fotografie scolorite
 
«Quella è la tua stanza» dissi indicando la seconda stanza sulla sinistra seguita da un primo bagno dalla porta ancora chiusa «Spero che ti piaccia. L’ho fatta pulire e dovresti trovare la tua valigia».
 
La mia migliore amica abbassò la maniglia della porta, entrò nella sua camera personale ed esultò contentissima. Gli occhi azzurri si muovevano da una parete all’altra mentre le mani non smettevano di toccare i mobili puliti.
 
«Grazie mille» disse Emy.
«Prego» dissi.
 
Baciai la mia migliore amica sulla guancia, diedi la buonanotte e mi diressi verso la mia stanza. Questa si trovava sulla destra e come quella della mia coinquilina si trovava vicino ad un bagno. Entrai al suo interno e notai due cose: la luce del tramonto e una fotografia scolorita sul pavimento.
 
«Bei tempi» sussurrai.
 
Chiusi tutto nel cassetto di un mobile vicino a letto, attraversai la stanza e spalancai la finestra che affacciava sul giardino. Ispirai profondamente la luce del sole che stava tramontando sulla città che non sembrava aver voglia di dormire.
 
Non male.
 
Sospirai rigenerata dal calore del sole ed entrai nel piccolo bagno collegato grazie ad una porta interna. Aprii il primo armadietto che trovai e arrossii alla vista di un pigiama a mezze maniche nuovo di zecca.
 
«Dorotha» borbottai.
 
Dorotha era sposata con la mia guardia del corpo da due anni a questa parte, o almeno così ricordavo. Era molto gentile, disponibile e soprattutto attenta ai dettagli e soprattutto per questo l’avevo assunta.
 
Lavorando soprattutto in ufficio per me era impossibile dedicarmi alla pulizia della casa oppure la cucina. Già è qui… Mi diedi un pizzicotto sulla guancia per cancellare l’imbarazzo provocato da tutte quelle attenzioni.
 
Aprii l’acqua calda all’interno della vasca, riempii fino a bordi e poi chiusi tutto per sicurezza. Mi spogliai completamente, mi infilai nel liquido bollente e lasciai che catturasse tutto lo stress della giornata.
 
Quando terminai, uscii e afferrai il primo asciugamano in spugna che intravidi appeso alla parete. Lo avvolsi attorno al mio corpo che ben presto coprii con un semplice pigiama che lasciava le braccia scoperte.
 
Mi passai una mano nei lunghi capelli castani e piuttosto stanca mi diressi verso la porta di legno. Attraversai la stanza ormai in semi ombra e mi gettai a peso morto sul letto che profumava di pulito. Mugugnai tra me e me.
 
Quando la testa sprofondò nei cuscini dalla fodera bianca, sospirai per un motivo ben preciso: ero distrutta. Mi piegai su me stessa, assumendo una posizione quasi fetale, e chiusi gli occhi lasciandomi trasportare dall’oscurità delle mie stesse palpebre.
 
La mia mente, però, più sprofondava nel momento dei sogni, più pensava a ben altro. Tipo: che cos’era il tintinnio che avevo sentito? Nel momento mi feci quella domanda, mi resi conto di una cosa piuttosto sconvolgente: non ero più sveglia.
 
Oh no! 
 
Mi guardai più volte attorno quando mi resi conto di star sognando qualcosa di ben diverso dal solito. Attorno a me non c’era il deserto ma, le mura di un palazzo dall’aspetto maestoso e un giardino ricco di piante alimentate da fontane piene d’acqua dolce.
 
«Però…» mormorai.
 
Feci qualche passo avanti, sorpresa da tanta bellezza, ma mi bloccai alla vista di un’ombra non troppo alta poco distante da me. Immediatamente, mi nascosi dietro un albero e attesi che la persona in questione uscisse allo scoperto.
 
Sussultai qualcuno dal lungo corridoio emerse un ragazzo di circa diciassette anni dagli occhi violacei. Indossava abiti per niente moderni, parevano provenire da chissà quale epoca, e le muscolose spalle erano coperte da un mantello blu.
 
«Ti stavo aspettando!» esclamò.
 
Un brivido mi percorse tutta la spina dorsale quando mi ritrovai ad essere sotto scacco di quelle iridi così penetranti. Mi indicai con un dito, ma ben presto aggrottai la fronte nel vederlo sorpassarmi senza problemi.
 
«Lo so» ammise una voce.
 
Quando quelle parole giunsero fino alle mie orecchie, mi irrigidii per un motivo ben preciso: la persona che aveva parlato mi era familiare. Mi voltai di scatto e cercai con lo sguardo la proprietaria di quella voce. Imprecai alla vista di una ragazza identica a me.
 
«Pensavo non venissi più» disse il ragazzo.
«Sono stata tentata dal farlo».
 
Mi mordicchiai il labbro inferiore quando il giovane dalla pelle ambrata si avvicino al mio doppione. Allungò una mano ambrata, ricoperta da un bracciale dorato, e la posò sulla delicata guancia destra di lei.
 
«E cosa ti ha fatto cambiare idea?».
«Tu» ammise lei.
 
Nel preciso istante in cui la fanciulla dall’aspetto per niente diverso dal mio pronunciò quella sillaba, gemetti. Uno strano dolore mi partì dal cuore e si spanse fino a raggiungere alcuni angoli del mio cervello.
 
Che cosa…
 
Mi piegai sulle ginocchia e mugugnai quando fui costretta ad appoggiarmi al suolo sabbioso. Provai ad afferrare alcuni granelli dorati, ma non ci riuscii poiché questi scomparvero nel nulla. Eh? Battei numerose volte le palpebre quando una strana luce mi abbracciò facendomi sentire meglio. Mi mossi e non mi stupii quando capii il motivo di tanto benessere: il sogno era finito ed io ero tornata alla realtà.
 
«Mio Dio…» borbottai. 
 
Girai la testa verso il piccolo comodino semi vuoto e controllai la sveglia dalle lancette fosforescenti. Mi stupii quando lessi l’orario: erano le sette e mezza del mattino ed io ero ancora sotto le coperte. Dovrei alzarmi…quel pensiero così semplice ma altrettanto importante mi riecheggiò con violenza nella testa. Mi passai una mano nei capelli e cercai in tutti i modi di farmi forza, anche se non ne avevo la ben che minima voglia.
 
«Forza e coraggio, As!».


*
*


Buonasera a tutte e tutti coloro che leggeranno questo mio terzo capitolo. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Detto ciò ringrazio infinitamente chi ha letto questa nuova version e chi la commenterà facendomi sentire la sua presenza. Se tutto va bene, salvo imprevisti o impegni improvvisi, ci sarà un aggiornamento a breve!

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** CAP 3 ***


Your face is like a melody. It won't leave my head. Your soul is haunting me and telling me that everything is fine but I wish I was dead. Il tuo viso è come una melodia. Che non lascia la mia testa. La tua anima mi perseguita dicendomi che va tutto bene, ma vorrei essere morta - Dark Paradise, Lana Del Rey.

*
*

 
Mi alzai in piedi senza perder ulteriore tempo, indossai le ciabatte trovate la sera prima vicino al letto e mi avviai in bagno. Feci una doccia calda, indossai un accappatoio pulito e cercai nella valigia qualcosa di presentabile. Quel giorno avrei incontrato un delegato della Kaiba Corporation e non volevo sfigurare in alcun modo.
 
Sorrisi alla vista di un completo elegante che intonava piuttosto bene con il colore della mia pelle. Lo indossai. Dopo di che presi il telefono caduto a terra, uscii dalla mia camera personale e scesi le scale che portavano al piano inferiore. Sorrisi alla vista della mia migliore amica seduta a tavola con indosso la sua divisa scolastica rosa. Vicino ai fornelli c’era una donna di circa trentacinque anni che stava mettendo in ordine il piano cottura.
 
«Buongiorno!» salutai.
 
La mia migliore amica distolse lo sguardo dalla scatola dei cereali che si trovava davanti a lei e lo puntò su di me. Gli occhi azzurri scintillarono e la bocca si piegò in un sorriso soddisfatto alla vista del mio abito elegante: «Bel vestito!» esclamò allegra.

«Bella divisa» dissi.
 
Emy storse il naso, sbuffò sonoramente e mangiò un cucchiaio di cereale molto zuccherati. Masticò rumorosamente come a voler rafforzare il pensiero silenzioso che stava avendo in quel momento: «Rosa» disse improvvisamente, bevendo anche un po’ di acqua naturale «Una divisa rosa. A chi è venuto in mente un colore del genere? Avrei preferito un colore decisamente più neutro come un beige, marroncino, ma non rosa» piagnucolò.
 
Sorrisi, mi avvicinai a lei e le diedi qualche pacca sulla spalla per distrarla da quello che la spaventava. Sì perché, per quanto non amasse il fatto che la divisa che indossava fosse rosa, in realtà il problema era un altro: il suo primo giorno di scuola. Era lontana da casa, era lontana dalla sua famiglia, in un paese che aveva conosciuto a distanza.
 
«Andrà benissimo» mormorai sedendomi di fronte a lei e mangiucchiando qualche fetta biscottata arricchita da una marmellata alle amarene «Tu non sei me. Ti farai un sacco di amici. Vedrai!».
 
Io ed Emy eravamo abbastanza opposte sotto il punto di vista relazionale: lei era allegra, caotica e amava condividere quello che le accadeva con le persone che amava. Io ero tranquilla, scontrosa e alquanto diffidente con chi non conoscevo a causa del mio passato.
 
«Mi passi anche a prendere?» chiese Emy.
«Ovvio. Voglio sapere tutto» dissi.
 
Terminammo la colazione un po’ all’occidentale qualche tempo successivo tra una risata e l’altra. Ci alzammo assieme, salutammo quella che era la mia governante e uscimmo dall’appartamento alla ricerca della mia guardia del corpo nonché autista.
 
«Dov’è Paul?» chiese Emy
 
Assottigliai lo sguardo e mi guardai attorno alla ricerca della macchina usata il pomeriggio precedente. Sorrisi quando la intravidi parcheggiata dall’altra parte della strada a pochi passi dall’abitazione: «Lì» esclamai, allungando la mano destra e indicando l'uomo che ci stava chiamando a grande voce per farsi notare.

Io ed Emy sorridemmo, attraversammo con un certa fretta la strada e ci avvicinammo alla macchina. Tirai la maniglia verso di me, ma la lasciai andare subito a causa di uno strana scossa elettrica che mi attraversò il corpo. La mia mente, invece, fu nuovamente distratta dal suono di un tintinnio simile a quello del giorno prima.
 
Che cosa…
 
Mi voltai, cercai in tutti i modi di capire che cosa stesse accadendo nei paraggi, ma non vidi nulla di strano a parte un ragazzino che salutava il nonno che spazzava a terra. Aggrottai la fronte stranita, però non gli diedi particolare importanza ed entrai nell’automobile.
 
«Tutto bene?» chiese Emy.
«Sì. Mi ero distratta» spiegai.
 
Lanciai un’ultima occhiata al ragazzo che si allontanava ed entrai nell’automobile parcheggiata. Sorrisi ad Emy come meglio potevo e feci segno al mio autista di partire verso la scuola vicina. Il viaggio durò poco. Paul parcheggiò sulla destra, uscì dal mezzo e aprì lo sportello della mia amica che ringraziò. Dopo di che si girò verso di me, mi diede un bacio veloce sulla guancia e corse verso il cancello dell’istituto che si stava riempendo di studenti.
 
Andrà tutto bene pensai.
 
Mi rilassai sul sedile, mi strinsi nelle spalle e mi concentrai sul paesaggio che si trovava all’esterno. C’erano grattacieli, c’erano persone e studenti che correvano a perdifiato verso l’edificio da cui ero andata via. Un duo in particolare mi fece ridere: un ragazzo biondo e un ragazzo dalla capigliatura particolare che avevano perso il controllo della loro bicicletta ed erano caduti a terra. Scossi la testa, ma mi bloccai alla vista di un palazzo enorme composto da acciaio e vetro.
 
«Siamo arrivati!» esclamò Paul.
 
Mi portai una mano sul petto, recuperai il controllo del mio cuore tremolante e uscii dall’auto. Salutai Paul con la mano e a testa alta mi diressi verso le porte dell’ascensore che erano ancora aperte. Quando si chiusero, digitai il piano in cui si trovava il mio ufficio e attesi di arrivare a destinazione. Accade in due minuti. L’ascensore tintinnò, chiamò il piano in cui ero arrivata e aprì le porte con uno strano cigolio. Sospirai, mi sistemai i capelli tagliati solo la settimana scorsa e uscii dall’abitacolo senza finestre.
 
«Buongiorno, Miss Suzuki!».
 
Battei le palpebre al suono di quella esclamazione così improvvisa e… mi voltai alla mia sinistra. Mi mordicchiai il labbro inferiore alla vista di una donna di circa trenta anni dai capelli rosso fuoco e gli occhi verdi: «Buongiorno» salutai in risposta.
 
La sconosciuta sorrise educatamente, si allontanò dalla scrivania dietro cui era nascosta e si avvicinò con passo deciso alla mia figura. In mano stringeva diverse cartelline colorate piene di numerosi fogli scritti e appena stampati a computer: «Io sono la vostra segretaria. Nancy» si presentò.

«Piacere di conoscerla» mormorai «Io vado nel mio ufficio. Se c’è bisogno di me per qualcosa, mi trovi lì»
 
Al suono delle mie parole, Nancy splancò gli occhi chiari e iniziò a cercare qualcosa tra i numerosi documenti che stringeva. Prese uno in particolare che si rivelò essere la mia agenda stampata con un ordine ben preciso:«Nel vostro ufficio vi aspetta Mr. Kaiba» mi annunciò.
 
Schioccai la lingua nervosamente, mi passai una mano nei capelli castani e iniziai a muovermi a passo svelto. Una piccola parte di me desiderò spaccare ogni cosa nell’udire quel cognome ad alta voce. Io sapevo che sarebbe venuto un delegato della sua azienda a parlare con me, non lui in persona.
 
Sbuffai, presi un respiro davvero profondo per calmare la rabbia che attanagliava il mio cuore. Quando fui sicura di essere pronta, mi incamminai verso quello che era e sarebbe stato per un bel po’ il mio ufficio. Senza guardarmi indietro, abbassai la maniglia di colore nero ed entrai all’interno della stanza.
 
Quest’ultima era spaziosa e illuminato da diversi raggi solari che arrivavano a toccare persino le pareti. I pavimenti erano in marmo e riempiti da mobiletti eleganti come scrivanie, divanetti e sedie. Oh. Mi bloccai in mezzo alla stanza quando mi ritrovai a fissare la figura a dir poco perfetta di Seto Kaiba. Era vicino alla vetrata e osservava il mondo dall’alto, come se ne fosse il padrone assoluto. I capelli lunghi e di colore castano gli circondavano il viso dai tratti fintamente delicati, come lui.
 
«Ti ricordavo più bassa» disse, girandosi.
 
Spalancai la bocca al suono di quell’affermazione imprevista e feci qualche passo in avanti. Mi avevano sorpreso le sue parole, ma soprattutto il tono utilizzato: rabbia, veleno, presunzione: «Ti ricordavo più intelligente…» risposi avvicinandomi alla scrivania ordinata «Ma, immagino che il tempo passi per tutti».
 
Mi sedetti sulla sedia in attesa di una risposta che però non arrivò, con mio grande stupore. Anzi, nei suoi occhi azzurri freddi come il ghiaccio notai qualcosa di diverso rispetto all’offesa. Ammirazione? All’improvviso, un dubbio mi percorse la mente annebbiandola: possibile che non fosse un’offesa, ma una provocazione?
 
«Non sei il tipo che si tiene un insulto» dissi.
«Infatti sono furioso» mormorò.
«Ah, sì?».
 
Seto lanciò un’ultima occhiata al paesaggio esterno, si girò e mi osservò per alcuni secondi. La giacca di colore bianco che indossava accarezzò dolcemente il pavimento, spazzandolo quasi: «Mi aspettavo una stupida ragazzina viziata, oggi» ammise.

«Dispiaciuto di non averla trovata?».
 
Mi alzai in piedi con scatto felino, girai attorno alla scrivania e mi avvicinai alla sua figura alta, troppo alta. Seto non si mosse di un millimetro dal punto in cui si trovava e piegò la testa di lato per osservarmi meglio. Mi resi conto che i suoi occhi azzurri non erano solo ghiacciati, ma in loro c’era qualcosa in più. Un fuoco leggero che se alimentato come si deve era capace di causare un incendio devastante.
 
«No» rispose pensandoci sopra «Mi divertirò di più».
 
Provai a trovare una risposta decente a quella sua affermazione, ma non ebbi tempo per farlo. Seto sorrise divertito, afferrò una valigetta da terra che non avevo notato e andò via senza aggiungere altro Spalancai la bocca per riprenderlo, ma rinunciai nel rendermi conto che tutto quello che aveva fatto era mettermi alla prova per vedere se poteva considerarmi al suo stesso livello.

«La prossima volta lo uccido» ringhiai.


*
*


Buonasera a tutte e tutti coloro che leggeranno questo mio quarto capitolo. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Detto ciò ringrazio infinitamente chi ha letto questa nuova versione e chi la commenterà facendomi sentire la sua presenza. Se tutto va bene, salvo imprevisti o impegni improvvisi, ci sarà un aggiornamento a breve! Grazie ancora per le vostre meravigliose parole.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** CAP 4 ***


Your face is like a melody. It won't leave my head. Your soul is haunting me and telling me that everything is fine but I wish I was dead. Il tuo viso è come una melodia. Che non lascia la mia testa. La tua anima mi perseguita dicendomi che va tutto bene, ma vorrei essere morta - Dark Paradise, Lana Del Rey.

*
*

 
Sospirai, mi sedetti alla scrivania a e iniziai a lavorare su alcuni documenti inviatomi da Nancy. Lavorai fino a che l’orologio non segnò l’ora in cui la mia migliore amica sarebbe uscita da scuola. Mi alzai in piedi, mi sistemai gli abiti e me ne andai dall’ufficio che iniziava a starmi stretto. Salutai la mia segretaria con una mano, entrai nell’ascensore e cliccai sul pulsante che segnava l’ultimo piano. Quando giunsi nel parcheggio sotterraneo, uscii dall’abitacolo e mi avvicinai alla macchina che mi aveva portato fino a lì.
 
«Miss Suzuki» disse Paul uscendo dalla macchina immediatamente «Dove vuole che la porti?».
 
Paul aprì lo sportello dell’auto ancora spenta e, quando vi entrai, lo chiuse con un tonfo rumoroso. Mi strinsi nelle spalle coperte dalla giacca scelta quella mattina, abbassai il finestrino e lasciai che l’aria mi accarezzasse il visto stanco: «A scuola» dissi soltanto.
 
Paul annuì, mise in moto l’auto di servizio e iniziò a guidare per le strade trafficate della città. Passammo davanti a vari negozi, ma anche vari appartamenti finché non intravidi qualcosa: del fumo. Abbassai ancor di più il finestrino, allungai il collo e cercai di capire meglio cosa stesse succedendo. Un edificio stava andando a fuoco e le forze dell’ordine stavo provando a contenere l’incendio. E se ci fossero delle persone all’interno? mi domandai mentre facevo segno al mio autista di accostare.
 
«Vuole che intervenga, Padrona?» mormorò una voce maschile che non apparteneva all’uomo seduto al volante.
 
Distolsi lo sguardo dal luogo affollato e lo puntai sulla persona, sullo spirito di fronte a me. Un ragazzo bellissimo dal capo piegato di lato, capelli dorati, gli occhi del medesimo colore ma molto espresivi e le labbra sottili: «Ra» bisbigliai soltanto.
 
Mi passai una mano nei capelli e scesi dal mezzo di trasporto prima che arrivasse la mia guardia del corpo. Feci segno di aspettarmi all’interno dell’abitacolo, attraversai la strada e cercai di farmi spazio: «Desidera che lo spegna, Padrona?» ripeté Ra.
 
Schioccai la lingua rumorosamente indecisa sul da farsi e attenta a non farmi notare feci il giro per poter entrare all’interno. Mi accorsi che per mia fortuna i vigili del fuoco stavano ancora organizzando una modalità di attacco: «Forse sì» risposi.
 
Diedi un calcio abbastanza potente ad una porta chiusa da lucchetto completamente rovinato. Quest’ultimo cadde e io potei entrare nel cuore dell’incendio senza destare troppo sospetti. Lo spirito che mi stava seguendo in silenzio con un movimento della mano lanciò un incantesimo, un vero incantesimo, per proteggermi dalle fiamme sempre più insistenti.
 
«C’è qualcuno?» gridai.
 
Inizialmente non rispose nessuno alla mia richiesta: ero circondata da fuoco, cenere e fumo asfissiante. Quando fui sul punto di andarmene, lo sentii: lo stesso tintinnio che mi aveva distratto quella mattina. C’è qualcosa! Presi coraggio, mi strinsi nelle spalle e continuai a muovermi in mezzo alle fiamme sempre più alte finché non intravidi un campo utilizzato per duellare. Attaccato ad esso un oggetto in oro che sembrava emettere una luce alquanto misteriosa, magica. Ra, al mio fianco, impallidì per qualche secondo e aggrottò la fronte segno che qualcosa non quadrava.
 
«Sai che cos’è?» domandai.
«No» mentii spudoratamente.
 
Storsi il naso davanti a quell’atteggiamento un po’ restio, ma decisi di non soffermarmi al momento. Ero in un edificio sul punto di crollarmi addosso quindi non mi sembrava il caso di litigare con lui. Sospirai, presi un respiro profondo e mi avvicinai all’oggetto sconosciuto che smise di brillare. Lo recuperai a fatica essendo bollente e raccolsi a terra quelli che sembravano pezzi di un puzzle antico. Ra non fiatò. Io passai davanti a lui, evitai alcune fiamme e tornai alla porta che avevo utilizzato per entrare. Una volta accertata che non ci fosse nessuno, diedi le spalle all’edificio e mi diressi verso l’auto.
 
«Ora puoi spegnere l’incendio, Ra» mormorai.
 
Attraversai la strada, aprii la portiera dell’automobile e mi infilai al suo interno silenziosamente. Paul si girò verso di me con uno sguardo che sembrava gridare: che cosa è successo lì dentro? Ma non disse nulla. Mise in moto e lasciò indietro le case, la folla e lo spirito antico che con un movimento della mano spense tutto. Aggrottai la fronte nel vedere un ragazzo dai capelli bianchi, dalla maglia a righe e da un collana dorata dallo stranissimo aspetto.
 
Chi…
 
Strinsi l’oggetto tra le mie mani in segno di protezione, lo infilai in un sacchetto nero trovato in un angolo del sedile e attesi di raggiungere la scuola di Emy. Io e Paul la raggiungemmo in meno di dieci minuti e aspettammo in silenzio finché la mia amica non sbucò dal nulla. Gli occhi sembravano molto più sereni e la mano destra alzata indicava che aveva fatto amicizia con qualcuno. Quando si accorse della mia presenza saltò sul posto, attraversò la strada e raggiunse l’auto.
 
«Sei qui!» esclamò contenta.
«Sono qui» mormorai.
 
In realtà ero arrivata appena in tempo. Se fossi stata qualche minuto in più nell’edificio in fiamme, sarei arrivata in ritardo. Tirai un sospiro di sollievo nella mia mente, aprii lo sportello e lasciai entrare la mia migliore amica. Quest’ultima buttò la cartellina di pelle a terra, si sedette al mio fianco e poggiò la testa sulla mia spalla.
 
«E’ stato faticoso?» indagai.
 
«Abbastanza» fece spallucce «Ma i miei compagni di classe sono stati gentili. Si sono presentati tutti. Tea, una delle ragazze, mi ha prestato persino i suoi appunti per mettermi in pari. Non me lo aspettavo considerato che mi ha conosciuto solo oggi».
 
Sorrisi: «Tutto bene quel che finisce bene».
 
Emy ridacchiò giocherellando con una ciocca di capelli bionda «E tu? Come è andato con quel delegato della Kaiba Corporation?».

Schioccai la lingua mentre mi rendevo conto che non avevo pensato fino a quel momento al mio incontro con Seto Kaiba. Ero stata talmente presa dall’incendio, dallo strano oggetto dorato e dal ragazzo dai capelli bianchi che… non avevo pensato a nient’altro.
 
«Non è venuto nessun delegato» borbottai, passandomi una mano nei capelli castani «In compenso è passato Seto. Seto Kaiba. In persona. Non è cambiato molto, a parte per l’altezza».
 
Emy non proferì parola, poi scoppiò a ridere come se avesse percepito qualcosa a me invisibile: «Prevedo fulmini e saette». Aggrottai la fronte insicura su cosa dire, ma alla fine optai per accarezzarle i capelli biondi. Lanciai un’occhiata al paesaggio esterno che aveva iniziato a cambiare: il sole stava tramontando e i raggi arancioni illuminavano la strada. Tutto sommato il primo giorno in città non era andato male come avevamo immaginato. Emy aveva fatto amicizia ed io ero riuscita a tenere testa a Seto Kaiba.
 
«Siamo arrivati!» esclamò Paul.
 
Svegliai Emy che si era appisolata durante il tragitto sulla mia spalla e assieme a lei uscii. Attraversammo il cancello, il cortile fiorito ed entrai con la mia amica nella casa immersa nell’oscurità. Paul lasciò la borsa in pelle della mia amica a terra e il sacchetto nero sul mobiletto del corridoio e scomparve alla stessa velocità di un fantasma.
 
Accesi la luce, mi trascinai con la mia amica in cucina e mangiai con lei ciò che aveva preparato la governante. Dopo di che parlammo del più e del meno davanti una vasca di gelato al cioccolato e stracciatella. Alla fine del nostro piccolo incontro, ci salutammo per andare a dormire ognuna con i propri pensieri. Prima di salire al piano superiore recuperai il sacchetto nero che sembrava avermi chiamato per tutto il tempo. Quando entrai in camera da letto, mi avvicinai alla scrivania e rovesciai il contenuto del sacchetto.
 
«E ora?» mormorai.


*
*


Buonasera a tutte e tutti coloro che leggeranno questo mio quinto capitolo. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Detto ciò ringrazio infinitamente chi ha letto questa nuova versione e chi la commenterà facendomi sentire la sua presenza. Ringrazio chi ha inserito la mia storia nelle preferite, nelle seguite e nelle ricordate.Se tutto va bene, salvo imprevisti o impegni improvvisi, ci sarà un aggiornamento a breve! Grazie ancora per le vostre meravigliose parole.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** CAP 5 ***


Your face is like a melody. It won't leave my head. Your soul is haunting me and telling me that everything is fine but I wish I was dead. Il tuo viso è come una melodia. Che non lascia la mia testa. La tua anima mi perseguita dicendomi che va tutto bene, ma vorrei essere morta - Dark Paradise, Lana Del Rey.

*
*

 
Fissai attentamente quelli che sembravano i pezzi di un puzzle antico e soprattutto intricato. Sospirai tra me e me, allungai una mano e ne afferrai uno per vederlo più da vicino: era piccolo, appuntito e liscio. Aggrottai la fronte nel sentirne il calore, nel sentirne il potere, sulla pelle.
 
«Magia, eh» bisbigliai.
 
Mi fece uno strano effetto sentirla considerato che era da tempo che non mi accadeva una cosa del genere. Roteai gli occhi dorati, aumentai la luce della lampada e iniziai a unire le piccole parti di quella che a mano a mano prendeva la forma di una collana a forma di piramide rovesciata.
 
Quando infilai l’ultimo pezzo, quello centrale, quello con un occhio dai tratti egiziani, un fascio di luce illuminò la stanza. Sussultai, attesi ma non accadde nulla poiché l’unico rumore udibile era quello dell’orologio che mi ricordava quanto fosse tardi.
 
«Meglio così» mi dissi.
 
Mi stiracchiai i muscoli indolenziti, mi alzai in piedi, lasciai la strana collana sulla scrivania ed entrai nel piccolo bagno comunicante. Qui mi sciacquai il viso, mi feci un bagno rilassante e indossai un pigiama comodo e pulito. Quando terminai la mia routine serale tornai in camera da letto pronta a riposare tra le coperte. Mi bloccai nel percepire qualcosa di strano nell’aria: una sorta di elettricità, ma anche di freddezza che mi provocò diversi brividi. Immediatamente mi misi in allerta, pronta ad invocare una delle creature mie guardiane e amiche.
 
«C’è qualcuno?».
 
Inizialmente non vidi niente, non vidi nessuno, solo una splendida luna che illuminava la mia stanza. Qualcosa cambiò nel momento in cui intravidi un’ombra, una persona seduta sul mio letto. I capelli erano piegati in una strana acconciatura a forma di stella mentre gli occhi erano di un colore fuori dal normale: viola.
 
«Dove mi trovo?» domandò, dubbioso.
 
Deglutii un fiotto di saliva bollente, mi sistemai una ciocca di capelli ribelle dietro l’orecchio e avanzai all’interno della stanza con cautela fino ad arrivare alla scrivania su cui era poggiata la strana collana dorata. Nel corso della mia vita ero stata a contatto con la magia per molti motivi, ma non mi era mai capitato di vedere quello che sembrava uno spirito.
 
«A casa mia» spiegai.
 
Lo sconosciuto aggrottò la fronte spaziosa, assottigliò lo sguardo affilato come coltelli e rimase in silenzio per alcuni istanti. Quasi riuscivo a vedere i suoi pensieri rimbalzare da un angolo all’altro del cervello confuso: «Perché? Io non dovrei essere qui».
 
«Ho trovato quello…» indicai l’oggetto ricostruito in quelle ore, nella mia camera da letto «In un palazzo che stava andando a fuoco, in città».
 
Il ragazzo che poteva avere sì e no la mia età, mi fissò e parve credere a quello che avevo raccontato seppur con qualche riserva: «C'era qualcuno. L'altro me stesso. Yugi. Lui era lì. Con me. Ma adesso sono con te quindi deve essergli successo qualcosa».

Sorrisi dispiaciuta nell’udire la sofferenza, la preoccupazione nella sua voce che era stata seria fino a quel momento. Mi rialzai, afferrai la collana decisamente troppo pesante per me e mi avvicinai al letto che cigolò a causa del mio peso.
 
«Forse no. Forse sì» cercai di rassicurarlo, pensando a come mi sarei sentita se fosse successo qualcosa alla ragazza che dormiva nella stanza opposta alla mia «Domani mattina indagherò sull’incendio e cercherò di capire che fine ha fatto Yugi. Nel frattempo, mi dici come ti chiami?».
 
Lo spirito batté le palpebre, lanciò un’occhiata all’oggetto che avevo poggiato sul materasso e tornò a guardarmi con aria sospetta: «Non so chi sono. Non so come mi chiamo. Non ricordo come mi chiamo. Solitamente io e Yugi usiamo il termine Yami».
 
Annuii.
 
«Allora, Yami…» iniziai sistemandomi sotto le coperte che avevo desiderato fin da quando ero tornata a casa, nel frattempo Yami piegò il capo in attesa che continuassi a parlare «Ci facciamo una bella dormita. Domani mattina troveremo il tuo amico. Te lo prometto».
 
Mugolai qualche altra parola senza senso, strusciai il viso su cuscino che profumava di pulito e mi addormentai. Al mio risveglio, gemetti nel sentire diversi dolori di carattere muscolare in tutto il mio corpo. Aggrottai la fronte con una certa confusione e cercai di fare mente locale il più rapidamente possibile. All’inizio non ci riuscii poiché ero ancora mezza intontita dal sonno, ma le cose cambiarono alla vista di un oggetto dorato simile ad una piramide capovolta che pareva brillare sotto le mie dita incerte.
 
Oh…
 
Improvvisamente, tutto quello che era avvenuto il pomeriggio precedente mi investì con la stessa forza di un fulmine. L’incendio scoppiato vicino casa, l’oggetto trovato tra le fiamme e lo spirito che vi abitava al suo interno. Yami. Lasciai perdere tutti quei pensieri contorti e inutili e mi concentrai sullo spirito dallo sguardo assorto che fissava fuori dalla finestra ancora chiusa da cui non filtrava nemmeno un raggio di sole mattutino: «A che cosa stai pensando?» chiesi con voce roca.
 
Al suono di quella domanda, Yami sussultò sul posto e batté le lunghe ciglia di colore nero. Dopo di che voltò il capo, composto da una frangia dorata e strane punte viola, che la sera prima non ero riuscita a vedere a causa della poca luce: «Ti sei svegliata» affermò.
 
«Come tutte le persone vive» scherzai.
 
Gli sorrisi timidamente, mi scostai le coperte dal corpo e mi misi seduta sul bordo del materasso per permettere alle mie ossa di risvegliarsi. Dopo di che indossai le ciabatte, mi alzai in piedi, alzai la tapparella ancora chiusa e feci entrare la luce mattutina in camera.
 
«Devo trovare Yugi» disse Yami.
 
Quella notte avevo dormito abbastanza bene, ma una piccola parte di me aveva continuato a pensare a quello che era successo. Ricordavo chiaramente l’edificio in fiamme, il fumo nero che riempiva le stanze ed i diversi corridoi. Se c’era stato davvero qualcuno lì assieme alla strana collana dorata, poteva essere finito tutto solo in un luogo.
 
«Forse si trova in ospedale» ipotizzai.
«Tu dici?».
 
Assottigliai entrambi i miei occhi color nocciola, piegai la testa di lato e fissai lo spirito a pochi centrimetri da me: era apparentemente tranquillo negli abiti scuri che indossava dal giorno prima, ma potevo intravedere la preoccupazione nelle sue iridi violacee.

«Vale la pena tentare» dissi.
 «Vale la pena tentare» ripeté.
 
Sorrisi soddisfatta allo spirito, mi avvicinai all’armadio, presi alcuni vestiti puliti e chiusi la porta del bagno alle mie spalle. Strinsi i denti, aprii l’acqua, mi feci una doccia veloce e poi indossai gli abiti puliti scelti nella camera da letto. Appena fui certa di esser presentabile, uscii. Yami distolse lo sguardo dalla collana in cui abitava, quella che era la sua casa da diversi anni, e lo puntò su di me. Allargò i begli occhi violacei, boccheggiò e in fine abbassò la testa con mia grande sorpresa.
 
«Tutto bene?» indagai, stranita.
«Sì, certo».
 
Sorrisi divertita da quello che sembrava puro imbarazzo maschile e recuperai la collana dorata: «Ora… ti chiedo solo un po’ di tranquillità. Non abito sola, ma con la mia migliore amica. Accompagno lei a scuola e poi ci dedichiamo a Yugi. Prima la mia amica, poi il tuo. Che ne dici?».
 
«Va bene» affermò Yami.
 
Yami scomparve come un fantasma, rintanandosi in quella che era la sua casa mentre io uscivo dalla stanza e iniziavo a scendere le scale. Percorsi il corridoio poco illuminato ed entrai nella cucina immersa nella luce mattutina. Emy era in piedi, vicino al muro e tra le mani stringeva la cornetta del telefono fisso che avevamo in casa.
 
«Buongiorno» dissi dubbiosa.
«Buongiorno» si girò verso di me, Emy.
 
Sorrisi, mi avvicinai alla tavola imbandita di cibo e iniziai a sistemare la colazione per me e la mia migliore amica. Emy nel frattempo abbassò la cornetta, si avvicinò a me e si sedette allo stesso posto del giorno prima. I suoi occhi azzurri si allargarono alla vista dell’oggetto che avevo portato dal piano di sopra.
 
«E quello?» chiese.
«L’ho trovato ieri sera» raccontai.
 
Emy storsi il naso, allungò la mano destra e prese tra le mani lo strano oggetto come per osservarlo meglio. Fortunatamente Yami non reagì al suo tocco, non apparve in nessun angolo vuoto della cucina in cui ci trovavamo, anche se rimasi in allterta per tutto il tempo.
 
«E’ di Yugi» disse Emy.


*
*


Buonasera a tutte e tutti coloro che leggeranno questo mio nuovo capitolo. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Detto ciò ringrazio infinitamente chi ha letto questa nuova versione e chi la commenterà facendomi sentire la sua presenza. Ringrazio chi ha inserito la mia storia nelle preferite, nelle seguite e nelle ricordate. Grazie ancora per le vostre meravigliose parole.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4068992