Che la sabbia beva l'ultimo sorso di rosso

di Mirella__
(/viewuser.php?uid=162565)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Che la sabbia beva l'ultimo sorso di rosso ***
Capitolo 2: *** Sei Nato Per... ***
Capitolo 3: *** Che immagine ha il tradimento? ***



Capitolo 1
*** Che la sabbia beva l'ultimo sorso di rosso ***


N.D.A.:
 

La storia ha come protagonisti principali Marco Antonio e Cleopatra ed è ambientata a poche settimane prima dell’ultima battaglia che decreterà Ottaviano vittorioso dopo le guerre civili che hanno investito Roma dalla morte di Cesare.
Ho ritagliato questa finestra temporale senza attenermi a qualcosa di effettivamente accaduto e documentato, ma piuttosto concentrandomi a mantenere la cornice storica e limitandomi a inventare un aneddoto durante un periodo di pausa. Non ho la pretesa di riportare fatti o avvenimenti storici nella loro precisione, ma piuttosto di riprenderli per darvi una visione prettamente artistica e fantasiosa, quindi vi prego di perdonare le mie licenze poetiche.
Il perdono, però, non implica l’assenza di critica, tutt’altro! Correggete ogni errore che trovate, storico e non, così che io possa imparare e migliorare. Questa storia è candidata agli Oscar della Penna 2024 sul forum "Ferisce la penna".

 

“Questo testo partecipa al ContestLe quattro stagioni si raccontano” indetto da elli2998 e Inchiostro_nel_Sangue sul forum di EFP”.

 

Contenuto del pacchetto Estate:
- Genere: storico.
- Condizione meteorologica: cielo notturno limpido e stellato.
- Oggetto: sabbia.
- Frase: C'è qualcosa di magico nell'incrociare i nostri sguardi sotto il cielo stellato.

 

 

Che la sabbia beva l'ultimo sorso di rosso


 

Quali sono i colori di Cleopatra?

Potrebbe essere l’oro più caldo, torrido, nel quale è nata. L’Egitto è la patria della ricchezza, del grano e delle messi, delle spezie, del commercio. È la patria del mistero, delle civiltà sparite tra le sue stesse dune. È la patria dei Deserti, è la patria degli Dèi.

Quali Dèi? Quelli Greci o quegli Egiziani? Lei che è discendente di Tolomeo, ma legata alle sabbie del suo mondo, ha scelto entrambi. Prega Iside grazie ai fiori di loto per soggiogare gli uomini con il destino, ma si veste di Afrodite per irretirli.

E poi il blu del mare. Ha una flotta pachidermica, le sue navi sono ricamate d’oro da prua a poppa, lungo la chiglia, le vele sono tinte di porpora. Ha i migliori carpentieri, i marinai più esperti; il Faro, il più grande del suo Tempo, grazie al quale da Alessandria il mondo parte e ad Alessandria il mondo torna. Alessandria fa battere il cuore molto più di Roma e degli uomini di Roma cattura l’interesse e le smanie.

Oppure è il nero? Il kajal che le copre gli occhi per proteggerli dal sole e che dona loro quella forma ferina che tanto l’aiuta nel gioco della seduzione di cui la fanno portavoce?
 

C’è qualcosa di magico nell’incrociare i nostri sguardi sotto il cielo stellato

Ah.

Ci sarebbe anche un’altra domanda da farle. Se magari non sia il verde dei colli di Roma, il suo colore. Una città che incombe su di lei, nei suoi sogni e incubi, sui suoi figli. Un mostro più grande persino del suo Regno. Intanto ne ha uno, dei figli di Roma, al fianco, che guarda all’orizzonte con un assai dolce rammarico. Smielato, indubbiamente smielato, sino all’eccesso. Eppure è l’eccesso che Cleopatra ama, nel quale è cresciuta, col quale ha conquistato e col quale, suo malgrado, è stata conquistata. Quindi si lascia scappare un sorriso sardonico che fa intendere il suo sottostare a uno dei capricci di Marco Antonio, ora che sono tanto rari.

È affascinante il modo in cui attorno alle sue labbra si formino pieghe di una donna che sta raggiungendo il culmine della sua bellezza, l’ultimo fascino prima di divenire qualcos’altro. Non un’anziana signora, questo lei lo sa. Non è nata per vedere i suoi nipoti e nelle viscere della sua anima ne è sempre stata certa a tal punto da averlo cullato quel dolore e inglobato fino a farlo sparire. Non è nata nemmeno per vedere i suoi figli sposarsi, con questo invece ci ha dovuto scendere a patti. Lotta per mandare Cesarione in India, lontano da Roma, lontano dal nemico. Lotta per tenere gli altri tre figli sul trono d’Alessandria, ma sente che Ottaviano, dall’altra parte delle sponde mediterranee, è lì per romperle le mani e impedirle di chiudere i pugni ancora.

È l’ultimo mese, quella che si sta godendo con Marco Antonio, e ne è tragicamente consapevole. Amano gli ultimi debolissimi stralci di una pace che non vedranno più. Cleopatra combatte nella disperazione, come sta facendo anche il generale al suo fianco, che è giunto alla vecchiaia; sono fiaccole che lentamente si spengono, rese vigorose solo dai loro stoppini fin troppo vicini.

E sono passati i minuti dalla domanda di Antonio, ma Cleopatra non è mai stata avvezza a rispondere immediatamente, quando non è necessario. Perciò si prende il suo tempo, lasciandolo appeso in un gioco al quale entrambi sono abituati. Poi si volta e il suo viso riverbera in modo perlaceo il bagliore delle stelle: sembra benedetta da Helios in persona, o da Serapide? Ed è musica, il modo in cui parla. La sua voce è dolce, incantevole, un’arma.

“Tu sei il mio Dioniso e io sono la tua Afrodite. Non sono le costellazioni che brillano luminose a rendere magico l’incontro dei nostri sguardi, siamo noi”

Marco Antonio si lascia cadere all’indietro ed è con un tonfo che la sua schiena si poggia alla duna di sabbia. È vestito di una sottile ed elegante tunica di un bianco opaco, intervallato negli orli da sottili filamenti d’oro che ben si sposano con la carnagione ambrata. E pensare che ha sempre preferito l’armatura per camminare tra le strade di Roma, adesso la sente come un’onta, non riesce più ad indossarla da quando ha battuto in ritirata con la Regina ad Azio. Non ha più i riccioli virili con cui Cleopatra lo ha conosciuto, si stanno spogliando d’ogni traccia di castano, cedendo il posto al grigio. È un uomo maturo, sul suo volto i segni delle battaglie hanno inciso, scavando i bei lineamenti, erodendoli con cattiveria. Marco Antonio è stato un bell’uomo, sì, ma la vita gli ha dato troppe sconfitte e, piegato, ne sta pagando ogni conseguenza.

L’ultima battaglia che ha combattuto è diventata il suo incubo. Però l’ombra del politico che è stato, del grand’uomo che ha dominato Roma e il suo Oriente non lo ha abbandonato del tutto, né la verve in grado di renderlo acuto abbastanza da rispondere al Serpente del Nilo, come amano chiamarla nella Repubblica ormai destinata alla distruzione. Adesso è il suo turno di rispondere al sorriso, sostenendo lo sguardo della Regina in un gioco che tra loro non ha mai smesso di venire meno e che forse, a quel punto, è divenuta l’unica cosa che li tiene in vita, l’ultima ricchezza, della quale - hanno la certezza - non saranno mai derubati.

Fugge dagli occhi della sposa, li volge al cielo limpido, sgombro di ogni nuvola come solo lì può essere e si sente un punto così piccolo e insignificante quando si perde tra il bagliore ora di una stella, ora di un’altra... Della sabbia che si incunea tra i boccoli non ne fa peso, così come non fa peso di quella che si mette sotto le unghie. È molto più sottile la sabbia del deserto rispetto a quella dei campi di battaglia in cui è stato, più insidiosa.

“Mio Faraone,” calca le parole di proposito, il Generale, suscitando in Cleopatra dolcezza in petto. “Riuscite a essere romantica, una buona volta? Senza creare un battibecco. Vi prego di afferrare le parole d’amore, che vanno prese e lasciate per quello che sono”

Cleopatra si è mano mano incupita, non per ciò che Marco Antonio ha detto, ma perché nell’osservarlo si è resa conto di quanto quell’uomo appartenga all’Oriente, di quanto Roma in lui abbia vividamente attecchito per poi appassire inesorabilmente, di come le scelte che ha fatto lo abbiano portato da lei. Il Faraone gioca con la sabbia, la fa scorrere tra le dita, adagiandosi anche lei sulla duna e disegnando ghirigori attorno alla sua figura. Quante volte lo ha fatto da bambina? Il tappeto su cui stendersi è adagiato in un angolo, inutile.

Un vento caldo viene da sud, ma è dolce, carezzevole e lenisce il gelo notturno dai quali gli amanti sono riparati grazie a un fuocherello innocuo, che scricchiola e scoppietta, rassicurante. Si sono allontanati da Alessandria alla ricerca di un’oasi di pace, ma non possono stare via a lungo, devono rientrare, riorganizzare i soldati e le legioni, occuparsi dell’ultima resistenza. Marco Antonio è fuggito con lei nel buio, di nascosto per non farsi vedere dalla gente, entrambi troppo importanti per mostrarsi in pubblico.

“Se mai una volta in vita mia io ti ho fatto l’onore di lasciarti proferire parole, è stato per darti l’illusione di avere la forza di dire cose in grado di adularmi”

E con queste ultime parole, Cleopatra è fiera, convinta di aver vinto. Marco Antonio, nell’impeto del desiderio, la afferra per la vita e la sormonta senza il minimo sforzo, al che, Cleopatra, guardandolo dal basso, si scioglie in una risata genuina che lo contagia. Ridono entrambi, ridono tanto, ridono fin troppo, tanto che le costole iniziano a dolere. L’ultima scintilla.

E poi qualcosa cambia nell’aria, il sussurro degli dèi. Un gruppo di uomini si sta avvicinando loro, i volti incappucciati, armi alla mano. Nel temere un attacco nemico, Cleopatra e Marco Antonio si alzano e vengono da subito circondati dalle loro guardie, efficienti come sempre nella loro protezione. Sono sette uomini, quelli venuti all’attacco, contro quattro. Una delle guardie reali passa un gladio a Marco Antonio che lo prende e si fa avanti, come il generale che è.

“Rivelatevi”

E quegli uomini, venuti da chissà dove, guardano ai loro avversari, nei loro occhi scintilla la follia che Ottaviano ha incuneato nelle loro menti con pazienza e astuzia. Gli Alessandrini sanno che stanno per essere rasi al suolo e non vogliono vedere i loro campi ancora invasi, la loro situazione peggiorare ancora e ancora. I sicari attendono nell’ombra e pensano che portare la testa della regina al romano sia un modo per rabbonire Ottaviano. E si sbagliano. Perché nessuno sa come funziona Roma, se non i romani stessi e da folli senza speranza quali sono, questi uomini alzano i pugnali arrugginiti, le spade dal filo eroso, e battono su scudi che sembrano del cuoio più debole.

Il ferro affonda, la lama si bagna di rosso, urla di terrore, preghiere a dèi antichi, e alla fine le dune che si impregnano di vita, una vita che ha lasciato i corpi degli assalitori, tranne che per una. Marco Antonio arretra, la tunica tagliata, ora il carminio gli copre il bianco di cui è vestito. Uno dei disperati, l’ultimo in vita, si alza, ancora claudicante, leva la lama verso di lui che non si fa atterrire o difendere dal resto delle guardie. Affronta l’uomo come avrebbe fatto un qualsiasi gladiatore in arena, uno schiavo venuto dai borghi più bassi di Roma, armato di nient’altro che del pilum più danneggiato. Lo esalta il fatto che un solo errore possa farlo precipitare verso il nero assoluto.

La lama dell’avversario fischia a un centimetro della sua gola, ma lo manca e lo fa di molto, tanto che Marco Antonio si infervora nel constatare la differenza d’età col suo assalitore; è giovane e questo significa che è davvero cieco alla ragione: non ha tecnica, dell’arte della spada non sa nulla. Marco Antonio invece è nato col gladio in mano, non ha perso lo smalto, ritrova l’animo del condottiero, si fa avanti e per un attimo sul volto del suo assalitore vede tratti molto più familiari, tanto da farlo diventare nero d’ira.

Sul viso del ragazzo si sovrappone quello di un Ottaviano appena diciottenne, capace di strappargli via le terre, la gloria, il nome, le legioni, tutto! Ogni fottuta singola ricchezza, maledetto figlio di una cagna! Un ragazzino col volto delicato di una donna al quale deve inchinarsi. No, no, no. No! E nell’impeto della furia Marco Antonio lo disarma, quel ragazzo, con un montante che gli fa volare la daga sopra la quale il Generale sputa: l’elsa è istoriata di metalli preziosi, qualcosa di così costoso che nessun uomo del ceto più basso avrebbe potuto avere, l’unica di valore tra tutte le altre armi.

“Non ucciderlo!”

Ordina una voce, ma Marco Antonio non capisce più niente. Guarda solo al nemico giurato, inconsapevole che la follia dell’altro sia entrata anche dentro di lui, il tocco di Bacco che fa ballare due cadaveri per lui, illudendoli di vita eterna. Non c’è un interrogatorio, non c’è niente, soltanto il rumore sordo di un filo che affonda lungo la gola e l’ultimo fiato di chi abbandona la vita. Cleopatra non è irritata dall’ordine inascoltato, ha visto abbastanza battaglie da sapere com’è quando si innesca l’istinto di vita e di morte. E sa quello che ha visto Marco Antonio.

“Seppellite tutti” dice lei, negli occhi scuri il dolore più puro, che parte dal petto e arriva sino alla gola: perché ha riconosciuto quel ragazzo, figlio di Alessandria, figlio di una delle levatrici che ha messo al mondo i suoi, di figli. Nasconde il proprio volto al mondo con una mano, le scende una lacrima. Ha perso, nonostante gli eserciti non si siano ancora incontrati. Il popolo che tanto l’ha amata perché è stata la prima, tra i Tolomei, a parlare la loro lingua, la prima a conoscere perfettamente i loro dèi, a vestirsi alla loro maniera, a celebrare i loro liti… ora la odia e la vuole morta. Tornano ad Alessandria, lasciano il deserto, questo è stato l’ultimo loro giorno di libertà.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Sei Nato Per... ***


Sei Nato Per...

 

Marco Antonio, sei asserragliato da Ottaviano e il suo esercito, ti hanno circondato da Occidente e da Oriente. La tempesta di sabbia sollevata dai piedi dei soldati incombe, adesso è visibile perfino da dove sei tu.

Sai che non c'è più tempo.

Devi uscire, non attendere quel minuto.

Devi lasciare uno dei punti più alti del palazzo reale, in una stanza che ha echi di baccanali, consapevole che non appena impugnerai la tua unica ragione di vita, la spada, la vita ti lascerà.

Hai passato l'ultimo anno ad allontanare l'avvenimento; hai giocato, festeggiato, ti sei ubriacato, hai amato.

Ora si combatte e si combatte per morire, perché nella terra di Roma non ci possono essere altre persone oltre Ottaviano. Lo hai capito, in fondo, anche quando Lepido è stato destituito e te ne è arrivata notizia.

E hai le truppe dimezzate e hai le navi distrutte, e hai la flotta militare che farebbe ridere il nemico quasi quanto adesso lo fa ridere il tuo nome.

Non c'è una vittoria perché quelle da prendere sono terminate, rimane solo l'amarezza. Disertano gli eserciti, gli amici non possono più definirsi tali, ma non hanno nemmeno torto, perché sai, Marco Antonio, che hanno ragione ad averti abbandonato; sai che li hai delusi troppe volte, l’emblema di questo tradimento sono i trionfi celebrati ad Alessandria, privati a Roma.

La sconfitta subita a causa dei Parti, la disfatta ad Azio, i soldati abbandonati, l'ennesimo tranello al porto nel quale sei caduto.

Lo mormoravano i Cesariani alle tue spalle, e quelle parole strappate al vento ti sono giunte sino all'orecchio. Dicevano che non eri grande, non abbastanza, il carisma per la singola battaglia è insufficiente per guidare una guerra intera. E ora quelle voci hanno ragione, lo senti forte lo spettro della mano di Cesare sulla spalla.

Per seguire la tua regina, sei passato sopra alla morale. Irretito dallo splendente raggio, sei finito col morire carbonizzato dal sole dorato di Roma.

L'hai ancora, non è vero?

Lo senti nelle narici: la puzza del catrame infuocato, delle assi incenerite, delle vele che da bianche sono diventate nere.

Non ti abbandonerà mai l’odore dell’orgoglio in fiamme.

Non lo farà alla notte, non lo farà al giorno: ci conviverai fino a che l'ultimo granello di sabbia della tua clessidra non avrà toccato il fondo.

Lo sogni, quel fallimento, e lo sognerai, e continuerai a farlo fino alla fine dei tuoi giorni.

Sei nato per inseguire il calore. Il calore della tua Roma, il calore delle cosce di una donna, il calore dell'Oriente, il calore dell'Egitto, del deserto, del tuo ultimo faraone, della tua flotta che va a fuoco.

Fino a quando non è stato il calore col frutto delle sue fatiche a seguire te: i lapilli che ti sono caduti sul mantello trasportati dal vento beffardo. Lo hai ancora quel mantello che per giorni è stato infangato sulla prua della tua nave, tra vomito, sangue, cenere e mare.

Non lo indossi più, non puoi farlo. È destinato a essere gettato via, perché non c'è più onore in quel tessuto sul quale i soldati sputerebbero volentieri.

Sei finito. E qualcuno ti chiama per invitarti ad andare.

Stringi l'elsa della spada e ti incammini verso una battaglia che non è da vincere, ma solo da fare.

Sei morto una volta attraversata quella soglia.

 

 

Note dell’Autrice

 

Questa storia è stata pubblicata da me prima su un’altra piattaforma, adesso qui su EFP.

Ho scritto di Marco Antonio perché la sua storia mi ha dato emozioni che sto cercando di buttare fuori.

È complicato, ma è un uomo che ha toccato l'apice e che sta vedendo quello stesso apice ridursi in niente. Da uomo più potente di Roma a soldato che cade.

Nel leggere di lui tramite il libro “Cleopatra” di Alberto Angela, ho sentito cose che ho bisogno di espellere e allontanare da me, per restituirle al personaggio.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Che immagine ha il tradimento? ***


   Che immagine ha il tradimento?

           Quello di mille remi alzati in segno di saluto.

 

Hai deciso di morire bruciando nelle fiamme della gloria, facendo cadere con te migliaia e migliaia di soldati.

In passato avevi scelto un percorso che ti avrebbe portato a essere un condottiero persino superiore a Giulio Cesare. Bene, questo è ciò che ti ha distrutto. Ti affanni a essere migliore di qualcuno che semplicemente nemmeno ti somiglia, solo per dimostrare di potercela fare, solo per zittire le voci.

E quanto sono importanti le voci del senato per te? Te che hai figli bastardi sparsi da ogni parte dell’Impero, che te la sei fatta con regine, oh, sì, ma anche prostitute, una delle quali, Locride, te la sei portata appresso fino a quando non ti hanno costretto a toglierla dal tuo fianco.

Alzi la testa sopra il pelo dell’acqua, ma quando ti costringono a tornare giù sei il primo che si mette i pesi alle caviglie e alla gola nel rispetto e nel rigore del romano che sei.

È un peccato tu non voglia demordere, davvero, magari rivedresti casa, se lo facessi.

Ma qual è casa tua? Sei ancora Romano?

A Roma dicono che sei diventato un Alessandrino, che ti sei unito a quello stile di vita così raffinato, pomposo, elegante, pieno di fronzoli.

Tu… proprio tu! La stessa persona che fino a qualche anno fa accostavano a Ercole, quelli lì, con tanto di prese in giro per il tuo essere muscoloso, forte, sì, ma anche un ubriacone della peggior specie.

Adesso ti dicono di avere la grazia di un dio che in oriente ha fatto la sua patria.

Carino, novello Dioniso.

Te ne serve un altro, di percorso, che forse era imprevisto o che magari avevi già iniziato a intravedere quando il tuo avversario ha iniziato a dimostrarsi un abile tiratore di dati. Solo che non ti piaceva poi tanto questo secondo percorso, tanto da non considerarlo più di tanto: perché il terreno di cui è formato trema e si spacca a ridosso di un precipizio con un incantevole paesaggio nel suo fondo.

E ti sembra una pigliata per il culo, cazzo, il fatto che quella montagna appaia così bella ma che non appena tu ti unirai alle sue pendici, tanto chiare, verdi, confortevoli e invitanti, ne vedrai solo la tua fine.

Non ci sono montagne dove stai adesso, in realtà.

C’è solo una pianura e tu sei su una delle sue alture, una di quelle che ti permettono di vedere l’esercito avversario.

E Ottaviano può fare lo stesso con il tuo.

Affrontarvi sul campo di battaglia è come vedere uno stesso esercito che si scontra da solo. Fratelli messi l’uno con l’altro, fratricidi. E su quest’altura, dalla quale hai deciso di controllare il mondo, c’è la vista della baia, la vista delle navi.

Hai deciso di combattere in due posti allo stesso momento e quello a cui stai per assistere è una delusione così cocente…

 

Che immagine ha il tradimento?

Quello di mille remi alzati in segno di saluto.

 

Dall’altura, infatti, puoi osservare le tue navi. Sono state mandate da te ad attaccare, ad avvicinarsi al campo nemico in tutta fretta, solo che quando giungono nel punto più pericoloso -lì dove dovrebbero sprigionarsi collisioni e affondamenti- vedi che non speronano le avversarie, ma che, al contrario, si accostano a loro per fare manovra, virare, e finire col puntare contro di te, contro la tua città.

Eccola l’immagine del tradimento.

Un esercito è come un mostro: se vuoi ucciderlo devi tagliargli la testa, oppure… smembrarlo. Nel vedere la flotta abbandonarti senti lo stesso dolore che sentiresti in caso ti amputassero una gamba.

Il tuo esercito è il mostro di Roma da combattere. Per loro non sei più Ercole, ma rappresenti l’Idra che lui ha ucciso.

E magari fosse finita lì, no. L’incubo è al suo inizio. Anche la fanteria ti abbandona. Gli stessi che ti hanno fatto vincere il giorno prima, hanno deciso di passare dalla parte del nemico.

Il mostro ha perso anche un braccio.

E dai l’ultimo ordine con ciò che ti è rimasto da poter usare: la voce, il carisma. E forse sotto sotto non hai mai avuto altro che quello. Il carisma.

Mandi gli ultimi soldati a morire nella battaglia per cui ti si ricorderà in futuro: quella della tua disfatta. Avresti potuto salvarli, avresti potuto arrenderti. Non lo hai fatto. E quando vedi che tutto è finito, che stai per perdere, rientri in città.

Si dice che ti abbiano sentito urlare che Cleopatra ti ha venduto al nemico, nella tua ritirata.

Se ne diranno altre, di storie.

Nella tua stanza ti arriva un messaggio.

 

“La regina è morta”

 

Hai perso la flotta, hai perso la fanteria, hai perso la tua regina. Hai perso. Ora sei solo al mondo, non c’è un singolo soldato che per te alzerebbe la lancia, non c’è una singola donna che ascolterebbe la tua voce, non c’è, nel mondo intero, una scintilla di speranza.

Il tuo cerino ti si è consumato di fronte e puoi costatarne solo quello: che la cera si è consumata, che quel che è rimasto dopo il fuoco acceso è tutta roba da buttare, tu sei da buttare.

Gli oggetti perdono definizione, si confondono, il tuo corpo ritira le sue attenzioni da quello che non è necessario e le butta su se stesso, perché il fatto che tu respiri, il fatto che tu veda, il fatto che tu senta, il fatto che tu possa percepirti non dipende più da te.

Dipende da quelli che ci sono fuori. E se non hai possibilità di scelta fuori, a che cazzo serve prestare attenzione lì? Meglio guardare quello che t’è rimasto da osservare: te stesso.

Ma come sei fastidioso! È fastidioso il suono del tuo respiro, ti ottura l’udito. Anche il battito del cuore è fastidioso da morire, ti sta sfondando il petto, la faccia è completamente sommersa nel tuo stesso sudore e pulsano da morire le ferite della battaglia; basta!

Vuoi che tutto smetta.

Rientri in te. Sai cosa ti manca per recuperare l’onore e su quello puoi ancora fare qualcosa. Guardi Eros e glielo chiedi. È il tuo servo personale e vuoi che lui affondi la lama. Solo che... piuttosto che ferire te, è lui a togliersi la vita.

Se solo tu avessi avuto altri come lui al fianco, forse non avresti… una risata amara. È per amore che lo ha fatto? O perché sa che anche lui sarebbe finito in catene e torturato dai giochi di Ottaviano? Prendi la lama e il lavoro lo finisci tu.                    

                  

         La vita è ironica.

         Hai ucciso tanto, Marco Antonio.

           Hai tenuto a bada l’Oriente. Hai condotto così tanti uomini alla vittoria. Hai vinto così tante volte privando della vita gli avversari.

 

E quando si parla di te stesso, quando è su di te che devi compiere l’azione, sbagli come un novellino alle prime armi. Hai scelto un punto insanabile, sì, dopo una ferita, ma che ti porterà a soffrire per ore e ore, attendendo di non avere più sangue in corpo per spirare.

Non come Eros, che è già passato dall’altro lato dello Stige da un pezzo.

Sospiri e senti lentamente che le forze ti vengono meno. Il ferro ti cade e non ce la fai a provare un’altra via. Attendi e tutto diventa buio. Non sai quanto tempo passa precisamente, potrebbero essere ore… no, no. Forse minuti, sì, più probabile. Ma qualcuno viene a chiamarti, a prenderti, un servo che ti dice che la tua amata è ancora in vita.

E noti, a quel punto, che il cerino che credevi consumato ha una piccolissima, fievolissima, scintilla, così bassa da non illuminare altro che lo stoppino.

Non vedi bene quello che ti capita attorno, è tutto troppo confuso. Qualcuno ti avvolge attorno a qualcosa, mani invadono il tuo spazio vitale, ma non hai nemmeno la forza di opporti. Se questo serve a rincontrare la tua regina, è sopportabile, dopotutto, in passato, hai smosso eserciti interi per incontrarla, cosa sarà mai lasciarsi manovrare in questo modo? È chiusa da qualche parte, a quanto hai capito.

Il mausoleo, sì, quello che stavate costruendo per voi due, deve essere quello. Ma non è ancora finito. Ti faranno entrare dall’unica via disponibile, una parte della facciata che non è completata e ti isseranno fin lassù con un sistema di carrucole.

È terribile il viaggio: ogni volta che il lettino improvvisato in cui ti hanno messo ha degli scossoni ti sale la nausea, la ferita si infiamma e non puoi piegarti perché sei legato, quindi non c’è pausa alla sofferenza.

Quel viaggio di pochi minuti ti sembra duri di più di molte campagne militari. Alla fine ti posano su un pavimento. Lo capisci perché tutto è finalmente fermo, immobile. Il luogo è silenzioso, dai suoni che rimbombano fastidiosamente, anche il più piccolo rumore si disperde, dopo aver rimbalzato in giro, senza meta.

Ti senti un po’ come quel suono. E poi lei entra nel tuo campo visivo. Il tuo cuore ha un palpito in eccesso, uno schizzo di felicità che ti inonda per intero e sorridi come sorridevi negli incontri preceduti da distanze durate mesi, a volte anni.

 

Piange, lei.

Urla, lei.

Si arpiona il petto, lei.

Si graffia il viso, lei.

Si stralcia le vesti, lei.

 

Se le strappa di dosso. E le mette su di te, sulla ferita che continua a perdere e perdere e perdere. Non senti nemmeno l’effetto di questo trattamento, non senti più dolore. Solo sete, tanta sete. Il vino che ti portano è comunque insufficiente a placarla e capisci che niente di questo mondo è più utile.

Niente che riguardi te. Le dai consigli, nel tuo ultimo attimo di vita, le dici cosa fare, a chi rivolgersi, per tenersi il trono, per tenersi ancora salda a questo mondo un po’ più di te. E dopo averla salvata un’ultima volta, chiudi gli occhi e le labbra si aprono, lasciando andare l’ultimo respiro.

Quelli che verranno dopo di te diranno tante cose.

Diranno che sei morto felice della tua morte, perché sei stato battuto in modo valoroso da un romano da romano.

Diranno… fino a quando non saranno costretti a tacere. Sarai sottoposto alla damnatio memoriae, tutto di te verrà disintegrato, dato alle fiamme, distrutto. E tutto ciò che arriverà al futuro è la versione del vincitore.

Buffo come la tua vita sembri una tragedia, non trovi? Sei divenuto non come Giulio Cesare, ma un mito, una leggenda, qualcosa di cui non si sa niente se non la versione raccontata da altri.

Sarai ricordato senza essere davvero ricordato.

Sei felice di questo risultato?     

     

 

Note dell’Autrice     

       Il mese di Agosto nasce da Ottaviano Augusto, che è l’imperatore con cui si scontra Marco Antonio in questa battaglia.

      Sarà infatti Ottaviano a dare all’Impero Romano la sua struttura, dopo aver sciolto il triumvirato (costituito da Ottaviano, Marco Antonio e Lepido).

      Decide di nominare il mese di Agosto… Agosto proprio per la sconfitta di Marco Antonio, avvenuta, a quanto ho capito, il primo di Agosto.

      Ho ripetuto un sacco di volte Agosto.

      A essere Honesti non ricordo quale mese sostituisce perché non conosco i mesi romani.

      Altra chicca, stavolta personale. Non mi piace come Plutarco racconta tutto l’insieme degli avvenimenti. Non so una cifola di storia, la mia fonte è il libro di Alberto Angela e un altro, ma la vicenda, per come è ricostruita, sembra davvero eccessiva. Cioè, sti tizi hanno issato questo corpo morente in alto, sul muro di un mausoleo e io la trovo… boh. Eccessiva, appunto, questa versione. Poi tante frasi messe in bocca ad Antonio sembrano più appartenere a un drama da teatro che a qualcuno che sta effettivamente per morire. Da qui il mio metaplay (se si può definire così) nel corso del testo. Ho cercato di mettere il dubbio sul fatto che questi siano i reali avvenimenti e ho puntato molto sulla “verità del vincitore”.
      Il libro che ho usato per scrivere è “Cleopatra, la regina che sfidò Roma e conquistò l’eternità” di, ripetiamolo assieme, Albertino.

                  Detto questo, ho finito, addio!

 

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4063733