L'altra storia

di Vallentyne
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il salto ***
Capitolo 2: *** Punto di origine ***
Capitolo 3: *** L'incontro ***
Capitolo 4: *** Il livello successivo ***
Capitolo 5: *** Sfiorarsi ***
Capitolo 6: *** Terzo principio della dinamica ***
Capitolo 7: *** Il muro ***
Capitolo 8: *** La spada nel cuore ***
Capitolo 9: *** Ambivalenza ***
Capitolo 10: *** Un'altra estate ***



Capitolo 1
*** Il salto ***


      Il salto

 

Febbraio, otto mesi dopo Miami

 

È una pazzia, e ne è consapevole. Un colpo di testa, la decisione improvvisa di seguire un impulso irrazionale e farsi guidare dall’istinto. Un salto nel vuoto senza paracadute.

Lo sa che potrebbe sfracellarsi al suolo. Tutti i rischi a cui va incontro gli si sono affacciati alla mente non appena era sceso in garage e aveva messo in moto l’auto ma ha deciso di ignorarli.

Non vuole restare fermo. Non vuole ripetere gli stessi errori di una vita. Basta paranoie, ripensamenti, analisi di comportamenti e di frasi pronunciate per caso.

Ha deciso di passare all’azione, di vivere fino in fondo accettando i rischi che questo comporta.

Afferra il volante con entrambe le mani, sospira. Inserisce la retro, fa manovra, e poi si dirige verso l’uscita.

È l’una del pomeriggio, Monaco brulica di vita e risplende sotto il sole. In cielo non c’è nemmeno una nuvola. Allunga la mano a prendere gli occhiali da sole, se li infila sul naso.

Guida con prudenza, senza fretta. Non serve correre. Si allontana dal centro, e intanto cerca una stazione radio che gli possa fare compagnia. Supera l’Allianz Arena mentre punta verso nord sulla A9, il traffico è scorrevole.

Mentre viaggia cerca di non indugiare su certi pensieri, non vuole che le sue ossessioni prendano il sopravvento. Prova a distrarsi osservando il paesaggio al di là del parabrezza ma quella zona della Baviera è piuttosto noiosa, pianure con campi coltivati a perdita d’occhio e qualche zona industriale. Tamburella con le dita della mano destra sulla leva del cambio, supera alcune auto più lente. All’altezza di Ingolstadt attraversa il Danubio, i prati lasciano il posto a zone più boschive. L’autostrada continua il suo percorso, si ritrova a canticchiare il ritornello della canzone che sta passando alla radio ‘All the other kids with the pumped up kicks You better run, better run outrun my gun All the other kids with the pumped up kicks You better run, better run faster than my bullet’ e intanto scuote la testa. Si ricorda di come il ritmo lo avesse stregato al primo ascolto e poi la lettura del testo gli avesse fatto venire il mal di pancia.

Continua a guidare.

Rallenta quando ormai ha quasi raggiunto Norimberga, ha lasciato la A9 e si è spostato sulla A3, direzione ovest. Un cantiere stradale ha causato un po’ di coda, per percorrere quel tratto gli ci vogliono quindici minuti in più rispetto a quanto previsto. Alla sua destra e alla sua sinistra ci sono alberi e boschi, di fronte a sé vede solo l’asfalto che corre verso la meta.

Decide di fermarsi per una sosta dopo quasi tre ore di viaggio, ormai manca poco. Fa rifornimento all’auto, poi si sgranchisce le gambe entrando nella stazione di servizio. Ordina un caffè, dà una rapida occhiata ai titoli dei giornali. Quando si rimette in marcia non sono ancora le quattro, supera il Meno. Non ci sono altri intoppi, meno di un’ora dopo arriva a destinazione.

È il crepuscolo, il cielo si è tinto di blu cobalto.

Trova parcheggio lungo la via, quando spegne il motore viene investito da un turbine di emozioni.

Sono arrivato fin qui e non torno indietro. Posso solo andare avanti.

Chiude per un istante gli occhi, appoggia la fronte sul volante, sbuffa.

E poi si fa coraggio, ancora una volta zittisce quella voce che vorrebbe redarguirlo e metterlo in guardia, trattenerlo, elencargli le mille ragioni – tutte valide - che rendono quell’idea una pessima idea.

Ha deciso, il momento è arrivato.

Espira, si limita ad afferrare il cellulare, il portafoglio e le chiavi della macchina, esce e si incammina sul marciapiede. Casa sua dista poche centinaia di metri, sono una manciata di minuti a piedi. Quando ci arriva davanti stringe i pugni, nervoso.

Le luci sono accese, c’è qualcuno.

È una buona notizia, non ho fatto un viaggio a vuoto.

Ma non posso nemmeno aggrapparmi a questa scusa per fare dietrofront.

Vado avanti.

Deglutisce.

I citofoni non riportano i nomi, ci sono dei numeri, ma questo non è un problema perché lui è già stato qui. Una volta sola, ma ricorda tutto.

Digita 387, e poi aspetta.

Cinque secondi.

E poi sente la sua voce.

«Chi è?»

«Genzo.»

C’è un momento di silenzio, nessuno parla.

«Genzo? E cosa ci fai qui?»

Genzo sorride appena, si passa rapido la lingua sul labbro inferiore, si sente quasi sollevato adesso che ha rotto il ghiaccio.

«Sono venuto qui per parlare con te.»

«E di cosa vorresti parlare per essere venuto fin qui senza preavviso? Sei per caso impazzito?»

Fa per rispondere, adesso sorride davvero, si sente finalmente a suo agio. Fa per rispondere e chiedere di farlo salire, vuole parlare faccia a faccia, senza filtri.

Ma poi sente un’altra voce.

C’è qualcun altro in casa.

Qualcuno che sopraggiunge, che forse prima era in un’altra stanza e adesso domanda chi ci sia al citofono.

Sente rispondere.

«È solo un mio amico, passava di qui.»

Rimane interdetto.

Poi si riscuote.

«Hai compagnia?»

«Sì.»

Genzo sente una sgradevole sensazione soffocante che lo strizza proprio in mezzo alla pancia.

«Vuoi entrare comunque? Se ti va ti puoi fermare a bere qualcosa. Però non ti invito a cena. Ho un impegno, ehm, romantico.»

Annaspa.

«Ah, ok. No. No, meglio di no. Non voglio disturbare.»

«Ma dai, ti sei fatto quasi quattrocento chilometri…»

«Non importa.»

«Sicuro?»

«Certo.»

«E le cose di cui volevi parlarmi?»

Gli trema la voce.

«Lascia perdere. Sono stato un idiota a presentarmi così senza avvisare prima, io non… Non pensavo avessi compagnia. Io ho fatto uno sbaglio. Ho sbagliato, scusami.»

Sente un sospiro.

«Mi dispiace. Forse c’è stato un fraintendimento.»

«Non importa. Buona serata.»

Stringe i denti, strizza gli occhi. Si gira, volta le spalle a quel maledettissimo citofono, alla casa, a quella via. Cammina in fretta, raggiunge l’auto, si mette a sedere. Quando è lì, celato agli occhi del resto del mondo, impreca e dà un pugno al sedile del passeggero.

«Dannazione!»

Si sente un idiota. Un emerito idiota. Un ingenuo, un visionario, un pazzo.

Ha fatto una stronzata.

Non avrebbe dovuto agire d’impulso, ha rimediato solo un’umiliazione.

Mette in moto, mentre si allontana imposta il navigatore.

Arrivo previsto a Monaco di Baviera alle ore nove e quarantanove minuti.

Esce dal centro, imbocca la strada che lo porta di nuovo sulla A3.

Sente il cuore battere furioso nel petto, adesso guida in modo nervoso. Pigia il piede sull’acceleratore, vuole mettere più distanza possibile tra sé e quello che è appena accaduto. Come se allontanarsi possa servire a far sbiadire il ricordo di quello spiacevole scambio.

Si domanda per un attimo se esista la possibilità di salvare la faccia, se magari un domani potrebbe negare di essere andato fin lì per dichiararsi ricevendo in cambio un due di picche.

Ma poi si ripete che in fondo non è successo niente di irreparabile, non si è esposto più di quel tanto, non ha fatto in tempo a dire niente di compromettente. Non in modo esplicito.

Fa una smorfia e digrigna i denti.

Non sono un codardo. Non mi serve nascondermi dietro l’ambiguità.

Prova a rilassare le spalle, a respirare con più calma.

Va tutto bene. Non è successo niente.

Imbocca di nuovo l’autostrada, torna a cercare una stazione radio che possa fargli compagnia e comincia a macinare chilometri.

Per tutto il viaggio le luci delle auto che marciano in senso contrario gli sembreranno violente come schiaffi, la strada scorre nera e indifferente verso sud, non vedrà altro.

 

 

 

 

Note:

Questa è la storia che riprende le fila dei discorsi lasciati in sospeso un po’ in tutta la serie Lonely Hearts e Winners & Loser e chiude quel cerchio nato da un incontro casuale in aeroporto a Francoforte qualche anno prima.

Genzo e Kojiro in questa storia hanno delle caratteristiche diverse dal canon, ma hanno dieci anni in più del canon, e sono il frutto dei percorsi di vita che avevo tratteggiato per loro.

Pubblicherò un capitolo a settimana, di lunedì.

Ringrazio fin da subito chi dedicherà del tempo alla lettura.

P.S. Auguri di buon Natale!

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Capitolo 2
*** Punto di origine ***


    Punto di origine

 

Estate, due mesi dopo Miami

 

Era stata tutta colpa di Miami. Di quella vacanza vissuta l’estate prima, lui, Karl e Kojiro, quella che avevano poi soprannominato “la becera”.

Tre calciatori di trentun anni, single da poco. Sole, spiagge, donne e locali alla moda.

A Genzo capitava spesso di ripensarci. Alle risate e alle serate sopra le righe, ma soprattutto a quella notte nella villa del rapper che avevano conosciuto a South Beach. A quella festa a cui lui nemmeno voleva andare, erano stati gli altri due a insistere e a convincerlo per sfinimento. La situazione si era presentata da subito parecchio ambigua, c’erano alcol e droga a fiumi, prostitute e spogliarelliste, gente che faceva sesso in ogni angolo. Karl li aveva mollati in fretta e senza tante cerimonie per andare a imboscarsi con una delle ragazze, e lui e Kojiro erano rimasti in quel salone, sballati dal fumo, disinibiti dallo champagne, a gustarsi lo spettacolo messo in scena davanti ai loro occhi. Donne nude, ansiti e gemiti, a un certo punto il calore si era fatto insopportabile. E poi era successo. Era stata un’idea sua, aveva approcciato la ragazza bionda, Sylvia, e le aveva proposto di fare sesso in tre. Kojiro non aveva battuto ciglio, erano saliti al piano superiore.

E le cose non erano andate esattamente come si era immaginato.

Gli ci erano voluti alcuni giorni per riprendere una parvenza di normalità e per addomesticare certe idee, era stato uno sforzo immane perché in quei giorni stavano sempre insieme. Fianco a fianco. In alcuni momenti da soli. Ma era stato bravo, aveva indossato la sua solita maschera, in qualche modo ci era riuscito.

E adesso gli capitava di domandarsi se certi pensieri sfiorassero anche l’altro, se qualche volta ci pensasse anche lui. A Miami Kojiro non gli era parso per niente turbato, superato quello stato di comprensibile shock della notte stessa la mattina dopo era tornato il solito Hyuga. Come se quella camera da letto non fosse stata testimone di certe cose, come se non gli avessero lasciato un segno. Ma Genzo quel segno lo sentiva bruciare sulla pelle.

E così si ritrovava a pensarci, gli capitava mentre era da solo. Al volante della sua auto, sotto la doccia, sdraiato a letto in attesa di prendere sonno. Pensava a Miami, e poi chissà perché pensava agli allenamenti della Nazionale, alle loro sfide, sul campo e fuori. Ci rimuginava e provava a cercare un significato che non riusciva ad afferrare.

 

Si sarebbero incrociati in campionato all’inizio di settembre. La partita era stata preceduta da varie frecciatine arrivate sottoforma di messaggi Whatsapp in orari improponibili, con Kojiro che lo stuzzicava per il gol preso in trasferta a Friburgo ‘Sì, bravi, tre successi su tre ma hai preso un gol, Adamu te l’ha infilata!’, Genzo che ribatteva con risposte piccate ‘Ma che carino che controlli le mie performance… Aspetto di vedere la tua la prossima settimana!’.

Karl era stato per lo più testimone silenzioso dei loro scambi, ma una sera, mentre cenava con il suo migliore amico dopo l’allenamento, aveva deciso di affrontare la questione.

Di sbieco.

«Venerdì prossimo incontriamo l’Eintracht di Hyuga.»

Genzo aveva annuito tamponandosi le labbra con il tovagliolo e poi allungando le gambe sotto il tavolo.

«Già. Lo so bene. Mi sta martellando quotidianamente.»

L’altro aveva sollevato un sopracciglio, incuriosito.

«Ma dai…»

«Hai voglia. È carico a molla. Continua a blaterare dell’intenzione di farmi goal da fuori area, ma ti pare?! È da quasi diciannove anni che va avanti con questa storia.»

Karl a quel punto aveva sorriso ironico, Genzo non sembrava averci fatto caso.

«È la sua ossessione da quando andavamo alle elementari, è pazzesco...» aveva continuato scuotendo la testa.

«C’è quasi qualcosa di romantico in questa vostra sfida, sai? Un’ossessione che dura da diciannove anni… Non è da tutti.» aveva commentato sardonico il tedesco.

L’altro non aveva ribattuto subito, era rimasto interdetto. Aveva sbattuto le palpebre e poi si era riscosso, contrariato.

«Ma fottiti.»

«Come siamo suscettibili! Che ho fatto, ho accidentalmente sfiorato un nervo scoperto?»  

Genzo aveva posato la forchetta, l’aria scocciata.

«Senti, piuttosto. Dovremo organizzare una cena o un’uscita noi tre qualche volta, non credi? Anche solo per ricordare le imprese di Miami.»

«Lo faremo. Sicuro. Voglio farmi raccontare com’è andata con sua madre, chissà se si è accorta della faccenda del naso rotto.» Karl lo aveva fissato negli occhi, improvvisamente serio «Comunque… Cerca di non farlo segnare, ok?»

E Genzo era scoppiato a ridere.

«Ma figurati. Non ha speranze. Hyuga non ha speranze con me.»

 

Lo scontro con l’Eintracht era andato in scena un venerdì sera all’Allianz Arena. Nonostante gli sforzi profusi da ambo le parti il risultato si era fermato su un deludente zero a zero, nessuna delle due squadre era riuscita a fare goal. Gli attacchi del Bayern non erano andati a segno; Kojiro da parte sua ci aveva provato sia da dentro che da fuori area ma non c’era stato nulla da fare: la solidità del reparto difensivo non aveva permesso la creazione di occasioni realmente pericolose, e Genzo in porta era stato una saracinesca.

Si erano salutati a bordo campo prima di rientrare negli spogliatoi, Kojiro gli si era avvicinato, quando era lì a due passi l’altro gli aveva dato una pacca sulla spalla.

«Non ci sei riuscito neanche stavolta.»

Aveva sbuffato e poi gli era scappato un ghigno.

«Stasera eri in uno stato di grazia.»

Un sorriso serafico.

«Già. Chissà, magari prima o poi arriverà anche il tuo momento.»

«Ma vaffanculo.»

«Ehi! Dai, non fare il permaloso. Permettimi di sfotterti, mi hai stressato per quindici giorni…»

Kojiro aveva scosso la testa.

«Arriverà il mio momento, e ci rimarrai di merda. Te lo posso assicurare.»

«Ok… Senti…» aveva provato a proporglielo mentre intanto si incamminavano «Momento o non momento, io stavo pensando che dovremmo rivederci, una sera. Io, te e Karl. Che ne dici?»

«Sì. Certo, volentieri.» aveva sospirato e distolto lo sguardo «Non è semplicissimo da organizzare ma ci possiamo provare.»

«Ok.» aveva annuito «Magari un pomeriggio, la prossima settimana? Domenica?»

«Questa domenica sono già impegnato. Quella dopo?»

«No. Quella dopo giochiamo. Tra tre domeniche.»

Kojiro si era fermato, si era toccato il mento, pensieroso.

«Sì. Sì, magari tra tre domeniche può andare.»

Genzo aveva sorriso.

«Bene. Allora… ci sentiamo.»

«Sì, Wakabayashi. Ci sentiamo.»

Gli aveva strizzato appena un braccio e poi si era allontanato a passo svelto.

Genzo era rimasto per alcuni istanti a guardarlo entrare nel tunnel.

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Capitolo 3
*** L'incontro ***


L’incontro

 

Ottobre

 

Erano trascorse tre settimane senza intoppi né colpi di scena, a Berlino il Bayern aveva conquistato un’altra vittoria. Poi avevano incontrato lo Stoccarda e l’Augsburg in Campionato e il Preußen Münster al primo turno della DFB-Pokal, inanellando un successo dietro l’altro. Gli animi erano caldi, caldissimi, a Sӓbener Straße si respirava un’avvolgente atmosfera di ottimismo che galvanizzava giocatori e staff.

Kojiro non si era fatto sentire per organizzare quella rimpatriata, Genzo, da parte sua, si era limitato a rimanere in attesa di un cenno che non arrivava. L’Eintracht aveva subito una sconfitta contro il Wolfsburg e portato a casa soltanto due punti nelle ultime tre giornate. Si era detto che forse Kojiro non era dell’umore giusto, forse sarebbe stato meglio lasciar passare un po’ di tempo.

 

Il messaggio era infine arrivato inaspettato un martedì pomeriggio.

K. ‘Ciao, scusa se poi non mi sono fatto sentire ma è stato un mese impegnativo. Ho controllato il calendario, che ne dici di domenica 14?’

Non era riuscito a trattenere un sorriso.

G. ‘Andata. Scendi tu? Saliamo noi?’

K. ‘Stavolta vi aspetto qui. Vediamoci per pranzo.’

G. ‘Ok!’

Aveva messo via il telefono prima che lo raggiungesse Karl, l’amico si stava asciugando i capelli con una salvietta. Si era fermato proprio di fronte a lui.

«Gen, a che ora stasera?»

«Sette e mezza. Passo io a prenderle tutte e due, ci vediamo direttamente là.»

Karl aveva annuito pensieroso. Avevano in ballo un’uscita a quattro con due amiche. Una pessima idea, a dirla tutta, nessuno dei due ne era entusiasta, la faccenda puzzava troppo di appuntamento combinato ma ormai erano in ballo e avrebbero ballato.

Genzo si era allacciato con tutta calma le scarpe, poi si era infilato il giaccone. Aveva fatto per dirgli della proposta di Kojiro, per tre volte, ma si era morsicato la lingua. Aveva deciso di aspettare, in fondo non c’era nessuna fretta. Per cui si era limitato a salutarlo.

«A dopo, allora.»

«Sì. A dopo.»

 

La cena con Dagmar e Uta si era rivelata un flop, come da pronostico. Erano entrambi distratti, la bellezza appariscente delle due donne e l’ottimo menù non erano stati sufficienti per salvare la serata. Mentre erano rimasti soli per alcuni minuti Karl gli aveva confessato di essere ancora preso dalla sua ex, Genzo lo aveva ascoltato e si era limitato a metterlo in guardia. Non aveva raccontato niente di sé, aveva preferito glissare e restare sul vago. La realtà era che non gli importava niente di Dagmar né di come avrebbe concluso quell’appuntamento, soltanto non riusciva a smettere di pensare a quando sarebbe andato a Francoforte. Aveva avuto qualche piccolo tentennamento, una parte di lui si sentiva quasi in colpa a fare tutto di nascosto. Ma poi si era detto che in fondo non avrebbe fatto proprio niente di male, di certo a Karl non interessava fare una rimpatriata, in quel periodo sembrava stare bene con le sue ossessioni.

 

E così domenica 14 ottobre, alle otto di mattina, dopo aver avvisato Kojiro che si sarebbe presentato da solo, aveva preso l’auto e si era messo in marcia verso Francoforte. L’altro gli aveva scritto l’indirizzo via messaggio.

K. ‘Fai uno squillo quando sei in zona, scendo e ti faccio parcheggiare nel box.’

Quattro ore e mezza di viaggio, era arrivato puntuale – come suo solito – per il pranzo.

E puntuale era stato Kojiro, lì sul marciapiedi, che gli faceva dei gesti affinché accostasse. Gli aveva aperto la portiera.

«Ehi, ciao!»

«Vai avanti per cinquanta metri, poi metti la freccia a sinistra. Ti apro io con il telecomando.»

Aveva parcheggiato in silenzio, spento l’auto, poi era rimasto in attesa di istruzioni.

«Saliamo dalle scale, tanto abito al piano terra.»

Genzo lo aveva guardato con aria interrogativa.

«Vivo in un loft che mi ha messo a disposizione la società. Una roba piuttosto fighetta, potrebbe piacerti.»

Lo aveva seguito, e mentre camminava alle sue spalle non era riuscito a trattenersi dal dare una breve sbirciatina a quei glutei che vedeva muoversi sotto il tessuto della tuta. Ma si era riscosso subito, consapevole che lasciare liberi certi pensieri era una cosa inappropriata. Nel modo più assoluto.

 

Il loft era effettivamente piuttosto fighetto. Un trilocale di circa centottanta metri quadri, molto luminoso, arredato in uno stile contemporaneo dalle linee pulite ed essenziali. Non c’erano piante, né fotografie alle pareti, soltanto un paio di poster.

Kojiro si era accorto che Genzo si era soffermato a guardarli.

«Me li sono fatti regalare dal proprietario della libreria che c’è in fondo alla via. È materiale pubblicitario che aveva in negozio per l’uscita di due volumi in edizione speciale.»

«GOAT. Greatest of all time… A tribute to Muhammad Ali.» aveva fatto una smorfia incredula «Non posso negare che sei una continua scoperta.»

Kojiro aveva fatto un mezzo sorriso.

«Mi piace la lotta. Il senso di lotta che esprimono queste fotografie. Trovo che mi diano la carica, non so se capisci.»

«Penso di capire.»

Si erano guardati, poi aveva distolto lo sguardo.

Si erano accomodati a mangiare sul robusto tavolo in ferro e legno massiccio posizionato al centro della zona giorno.

«Hai cucinato tu?»

«Qualcosa. Qualcos’altro è stato comprato. Se vuoi puoi divertirti a indovinare…»

Genzo aveva scosso la testa. Non voleva giocare. Non a quel gioco.

Voleva solo godersi la compagnia dell’altro.

«È molto bello. Il loft, dico.»

«Sì, immaginavo che sarebbe stato nelle tue corde.»

«Ed è anche nelle tue?»

«Forse. Non ci ho mai pensato seriamente.»

Aveva sollevato un sopracciglio invitandolo a proseguire, Kojiro si era stretto nelle spalle.

«Non mi sono mai lasciato andare fino a sentire questo posto casa mia. Sono di passaggio, e lo sapevo dal primo momento. Ma vivo qui ormai da un anno e mezzo, ci sto abbastanza bene.» si era interrotto solo per un paio di secondi «Ma non è casa mia.»

«Fino a quando ti fermerai?»

«Ho firmato un triennale. Salvo sorprese sarò qui fino alla fine del prossimo anno. Ma poi chissà.»

Aveva annuito. Lui viveva a Monaco da una vita, e probabilmente avrebbe concluso lì la sua carriera. In realtà non ci aveva mai pensato sul serio, non ancora.

«Il contratto scadrà quando avrò trentatré anni. Spero di poter giocare ancora e ancora, ma non dipende solo da me, lo sai bene anche tu.»

«Già.» si era toccato il mento, pensieroso «Siamo ormai nella fase finale delle nostre carriere, ma credo che possiamo ancora toglierci qualche soddisfazione, non credi?»

«Certo.»

«Ma la verità è che quel giro di boa l’abbiamo compiuto qualche anno fa.»

Kojiro non aveva ribattuto subito. Era rimasto fermo, la forchetta tra le dita, lo sguardo per un attimo perso nel vuoto. Poi aveva parlato, ma si era limitato a dire tre parole.

«Sì, è così.»

 

Dopo pranzo avevano preso posto sul divano. Kojiro gli aveva domandato se avesse voglia di fare due passi ma Genzo aveva risposto di preferire restare a casa.

«Non ho molta voglia di venire fermato per strada, ti scoccia se restiamo qui?»

«Ok, come preferisci tu.»

In realtà non gli importava di eventuali tifosi che avrebbero potuto importunarlo, di solito era piuttosto disponibile a firmare qualche autografo. Ma voleva rimanere in quel loft, assorbire l’aria di quella stanza e sentire quegli ambienti, conscio del fatto che non gli sarebbe ricapitata un’altra occasione tanto presto. E così avevano trascorso un altro paio d’ore, chiacchierando degli impegni della Nazionale, dei futuri incontri in Bundesliga e qualche altro argomento neutrale come i progetti per le vacanze di Capodanno.

Ad un certo punto Kojiro aveva fatto una strana smorfia, le braccia conserte, e aveva piegato la testa all’indietro fino ad appoggiarsi al cuscino del divano, con il collo teso. Genzo osservava il suo profilo.

«Ma lo sai che con te parlo tantissimo?»

«Dici?»

«Sì! Accidenti, quanto parlo quando sono te!»

«È una buona cosa. No?»

«Sì… No. Boh, non lo so. È una cosa strana. Ma è vera, è così, da quando abbiamo cominciato a vederci qualche anno fa. Sei l’unico con cui parlo così tanto.»

«Forse è perché ti ascolto. Io ti ascolto sul serio e a te viene voglia di parlare.»

«Anch’io ti ascolto.»

«Davvero?» gli aveva domandato Genzo.

«Davvero.»

In quel momento allora avrebbe voluto parlare e dire tutte quelle cose che gli frullavano in testa da Miami. Dei sogni, dei pensieri che lo assalivano in ogni momento. Dei ricordi di quelle emozioni che si affacciavano senza preavviso in ogni ora del giorno.

Aveva deglutito, si era fissato per un po’ le mani.

Ci aveva provato.

«Ogni tanto mi capita di ripensare a Miami…»

«Anche a me.»

Aveva spalancato gli occhi, un brivido leggero era corso giù per la sua schiena per fermarsi all’altezza dei lombi e dilatarsi in una specie di bolla. Aveva trattenuto il fiato.

Poi Kojiro aveva ripreso.

«Che vacanza allucinante… Mia madre grazie al cielo non ha fatto troppo caso alla mia faccia, non ho dovuto raccontarle niente. È passato tutto sotto silenzio. Anche il finto flirt con Stella Seymour!»

Ed era scoppiato a ridere.

«Solo mia sorella è arrivata a chiedermi delucidazioni, e io le ho risposto: ma ti pare? Lo sai che scrivono sempre un mucchio di fesserie…»

La bolla era scoppiata.

Genzo aveva fatto un sorriso stiracchiato e aveva annuito.

 

Alle quattro del pomeriggio si era congedato.

«È meglio che vada, se parto adesso dovrei essere di ritorno a casa prima delle nove anche fermandomi a mangiare per strada.»

«Ok… È stato bello rivederti.»

«Sì. Anche per me.»

Si erano alzati, guardandosi negli occhi, una volta ancora.

«Ricambierò la visita. Quando mi inviti scendo da te a Monaco. Così saluto anche il biondo.»

«Già.» Genzo aveva annuito «Naturalmente. Ci conto.»

Gli aveva stretto la spalla, un contatto breve ma che gli era quasi sembrato disperato. Stava morendo dalla voglia di toccarlo.

E poi era rimasto lì, quasi interdetto, con altre parole che gli si erano incastrate in gola. Era stato impossibile farle uscire, aveva dovuto ingoiarle.

Un sorrisetto.

Si era infilato le scarpe, ma prima di andarsene davvero si era voltato per un’ultima domanda.

«Qual è il tuo citofono?»

«Il mio citofono? Cos’è, ti vuoi presentare qui a sorpresa?»

«Se capita…»

Aveva scosso la testa, sembrava divertito.

«387.»

Soltanto allora Genzo aveva fatto un cenno di saluto e aveva richiuso la porta.

 

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Capitolo 4
*** Il livello successivo ***


Il livello successivo

 

Autunno

 

Era stata una rivelazione improvvisa, collocabile nello spazio e nel tempo, in un luogo e una data precisi.

Quella notte di giugno a Miami. Quando l’aveva visto nudo, eccitato, fare sesso davanti a lui con una donna. Insieme a lui, perché erano lì vicini, tanto vicini da sfiorarsi, più e più volte. Erano insieme, ma insieme in un modo diverso. Genzo aveva pregustato per anni quei momenti, sollazzandosi in più occasioni sotto la doccia, ma niente si era rivelato come aveva immaginato. Quella dannata notte si era ritrovato a fissare Kojiro rimanendo senza fiato, i suoi muscoli tesi e le sue smorfie, non era riuscito a distogliere lo sguardo. E l’altro non se ne era nemmeno accorto, concentrato sulle sue sensazioni, forse perso nei fumi dell’alcol che aveva bevuto.

Per Genzo era stata una rivelazione improvvisa.

L’ammissione a sé stesso e l’accettazione invece erano state un percorso lento, e che non si era ancora del tutto compiuto.

Come un velo che viene sollevato poco per volta e mette finalmente in mostra ciò che per quasi una vita intera aveva solo lasciato intuire in qualche rara occasione.

Ci rimuginava in quelle settimane d’autunno, quando cercava di trascorrere il suo tempo libero da solo con i suoi pensieri. Non aveva più cercato compagnie e distrazioni femminili, le uniche persone che riusciva a frequentare con continuità erano Karl e Katrin. La bimba rappresentava una ventata di spensieratezza, padre e figlia lo costringevano inconsapevolmente a fare i conti con il mondo reale e a fargli tenere i piedi ben saldati a terra.

Ma in quelle settimane d’autunno il velo era stato infine strappato, impigliatosi in quei pensieri ormai diventati ossessione, e aveva esposto, inesorabile, una realtà negata da troppo tempo. Un intrico di menzogne a cui si era aggrappato per anni, che gli era stato necessario come l’aria che respirava. Aveva guardato con sgomento l’ipocrita impalcatura morale che si era costruito per proteggersi, l’aveva vista davvero per la prima volta. Quell’impalcatura che l’aveva condannato a vivere con un senso di appiccicosa indolenza e di angoscia atavica. Che gli aveva garantito una costante insoddisfazione e un’inquietudine di fondo, spingendolo a scappare di letto in letto, un lungo elenco di conquiste vuote e insapori.

Aveva pianto.

Il suo cuore gli apparteneva da tempo? Quanto tempo? Non aveva una risposta. Forse pochi mesi, oppure pochi anni, da quando avevano preso a frequentarsi dopo quell’incontro in aeroporto. O forse addirittura dal primo istante in cui si erano incrociati i loro sguardi, poco più che bambini, su quel campetto? Non lo sapeva, non era più sicuro di niente.

 

 

 

I giorni quell’autunno si susseguivano tutti uguali, uno dopo l’altro. Si immergeva negli impegni quotidiani cercando di mettere a tacere i suoi desideri, troppo spaventato all’idea di affrontare quella nuova realtà, finché una mattina la voglia di rivederlo si era fatta insopprimibile.

 

Il ventisette novembre Genzo si era deciso, aveva scritto un messaggio a Kojiro per invitarlo a Monaco in occasione del suo compleanno la settimana seguente.

G. ‘Ciao! Abbiamo un invito a Monaco in sospeso… Che ne dici di approfittare del compleanno del sottoscritto? Settimana prossima, domenica sera.’

Gli aveva risposto dopo pochi istanti.

K. ‘Volentieri! Cosa mi devo aspettare?’

Un ghigno.

G. ‘Non lo so. Sono anni che lascio tutto in mano a Karl, ci pensa lui. Sicuro si finisce la serata in un locale, ma quello che succede prima è sempre una sorpresa.’

K. ‘Ok. Corro il rischio.’

E dopo cinque secondi.

K. ‘Pensa cosa sono disposto a rischiare pur di stare in tua compagnia’

Tutto si era fermato.

Genzo era rimasto senza fiato, il telefono in mano.

Non era nemmeno sicuro di aver letto bene, stava per controllare quando Kojiro aveva subito ripreso a scrivere.

K. ‘Mi fermo a dormire da te o mi devo prendere una camera?’

Le dita erano corse veloci.

G. ‘Stai da me.’

L’altro gli aveva risposto con l’emoji del pollice alzato e poi si era disconnesso da Whatsapp.

E lui all’improvviso si era accorto di avere il battito accelerato e le mani sudate e si era sentito un cretino.

 

A Francoforte, Kojiro aveva mollato in fretta e furia il telefono sul tavolo da pranzo come se scottasse e si era spostato in cucina per versarsi un bicchiere d’acqua. Aveva indugiato davanti al lavandino, i gomiti sul ripiano, la testa china. Non sapeva che cosa gli fosse preso ma tutto ad un tratto si era reso conto di stare flirtando con Genzo. Flirtando con dei messaggi, come avrebbe fatto con una ragazza.

Aveva sbuffato, e poi si era stiracchiato le braccia dietro la schiena.

Non sono impazzito. Stavo solo scherzando. Era solo una battuta.

Santiddio.

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Capitolo 5
*** Sfiorarsi ***


Sfiorarsi


Dicembre

 

G. ‘Sono felice che quest’anno ci sia anche tu’

K. ‘Quest’anno il calendario ci aiuta! Sarò a Monaco per le sei e mezza’

 

Erano usciti a cena, un gruppo di nove, aveva organizzato tutto Karl come da copione. Mentre erano seduti a tavola, vicini, i tre si erano divertiti a ricordare alcuni aneddoti della loro vacanza insieme.

Kojiro non aveva perso tempo e aveva apostrofato il tedesco «Chissà come se la starà passando Stella… Stiamo tutti aspettando la canzone che ti dedicherà!»

Aveva fatto una smorfia allusiva a sottolineare la presa in giro.

«Ragazzi, arriverà. Io ne sono sicuro.»

Kojiro era scoppiato a ridere e poi si era scambiato uno sguardo complice con Genzo.

«Certo, certo... Lo pensiamo anche noi! Vero, Genzo?»

«Certo, come no. Possibilmente una canzone ispirata alle tue doti da seduttore, e non alle sue da disturbatore!» e così dicendo gli aveva tirato una pacca sulla schiena.

«Ehi, tieni le mani a posto!»

«Ma invece, tua madre?» gli aveva domandato Karl interrompendoli.

«Mia madre cosa?»

«Davvero non si è accorta del naso?»

«Macché. Ormai i segni sotto gli occhi non si vedevano praticamente più, le ho detto che erano occhiaie da jet lag e che avrei dovuto recuperare un po’ di riposo perché era stata una vacanza sfiancante. Mi ha creduto. Forse mi voleva credere.»

«Ma sei un figlio terribile!»

«Al contrario.» aveva fatto spallucce «Le risparmio di agitarsi per niente. È un atto di gentilezza.»

A quel punto era intervenuto Genzo.

«Mi dispiace per il tuo naso… È stata colpa mia.»

Karl lo aveva guardato con un’espressione stupita, Kojiro dopo un attimo di incertezza aveva sbuffato.

«Ti sei già scusato a sufficienza a suo tempo, non serve che tu lo ripeta. Mi ricordo come era andata, ed è stata anche colpa mia.»

E così dicendo aveva voluto chiudere la questione, scoraggiando eventuali altri tentativi di tornare sull’argomento.

Erano rimasti in silenzio per alcuni secondi, poi Karl aveva controllato l’orologio.

Genzo aveva fatto un sorriso stiracchiato per poi cambiare discorso.

«Che cosa hai pianificato quest’anno? Abbiamo il tavolo al P1?»

«Non subito. Quest’anno ho voluto cambiare un po’. Ormai stavo diventando ripetitivo, ho pensato che fosse l’ora di introdurre qualche elemento di novità.»

«Ah. Ho quasi paura.»

«Ma no!»

«Almeno non lasciarmi sulle spine!»

L’amico aveva allargato lo sguardo alla tavolata.

«Siamo in pochi rispetto al solito. Mi sembrava carino cambiare un po’ registro.»

«Che hai fatto?»

«Ci aspetta un’Escape room. Tra venti minuti.»

Kojiro aveva spalancato gli occhi.

«Un’Escape room?»

«Esatto.»

Anche Genzo era sbalordito.

«Questa volta sei riuscito a lasciarmi senza parole.»

 

Mezz’ora dopo erano sul posto per partecipare a quella simulazione di fuga da un ospedale psichiatrico rivisitato in tema horror. Era stato tutto sommato divertente, anche perché l’alcol che avevano ingerito aveva sciolto le inibizioni che rischiavano di rendere difficoltoso il successo di quell’esperienza alternativa. C’erano state tensione e adrenalina, l’intervento degli attori aveva creato la giusta dose di panico. A Dejan, un compagno di squadra, uno dei più giovani, all’improvviso era sfuggito un grido spaventato che aveva causato l’ilarità generale. Kojiro se l’era cavata egregiamente mantenendo il sangue freddo necessario, Genzo ne era rimasto piacevolmente sorpreso. Aveva dato il suo contributo nella risoluzione degli enigmi, in meno di un’ora la squadra era riuscita a compiere la missione. Ma soprattutto i due erano restati vicini per diverso tempo in un corridoio al buio, e il calore del corpo dell’altro lo aveva quasi ipnotizzato.

Alle undici avevano lasciato qualche autografo, poi si erano recati tutti al P1 dove sarebbero rimasti a festeggiare fino a tardi.

 

Avevano fatto ritorno a casa alle tre del mattino, piuttosto stravolti.

«Ma lo sai che a Francoforte io non faccio questa vita? Mi ritrovo nei club soltanto quando sono in giro con te e Karl…» aveva borbottato Kojiro mentre si toglieva le scarpe all’ingresso e si grattava un orecchio «E mi sento tutto rincoglionito, la musica così ad alto volume – quella musica – mi sembra che mi renda sordo. Ma non ho sonno, anche se sono stanco. Sarà colpa dell’agitazione che mi ha messo addosso l’Escape room…»

«Io penso di farmi una doccia.»

«Eh? Ma mi ascolti quando parlo?»

«Sì. Ti ascolto. Ti senti rincoglionito. Sei stanco ma non hai sonno. Anch’io. Proprio per questo motivo vado a farmi una doccia. Forse dovresti anche tu.»

Kojiro aveva incrociato le braccia al petto e gli aveva lanciato un’occhiataccia. Genzo non aveva battuto ciglio, sembrava quasi impermeabile alle reazioni dell’altro.

«Nel caso, trovi tutto quello che ti serve nel bagno del piano terra, quello di fronte alla tua camera… Io… Io penso di salire.»

«Ma che ti prende? Non mi offri almeno un bicchiere d’acqua?»

Aveva fatto per ribattere ma non era uscito nessun suono, aveva annaspato.

«Ok, chiaro. Allora se non ti disturba faccio da solo.»

«No. Ok. Andiamo in cucina.»

Aveva preso la bottiglia di Evian dal frigorifero, l’aveva versata in due bicchieri. Avevano bevuto in silenzio, Kojiro lo guardava di sottecchi. Era il più sobrio dei due, si era limitato a un calice di vino a cena e a una sola flûte in discoteca. Ma Genzo no, in quanto festeggiato i suoi amici si erano premuniti di fargli avere sempre in mano qualcosa da bere. E aveva bevuto.

«Sei sicuro di star bene, Wakabayashi?»

«Perché adesso mi chiami per cognome? Hai cancellato i ricordi degli ultimi mesi?»

«No. Mi è… mi è uscito così.»

«Ok, Hyuga.»

Kojiro aveva scosso la testa ma non aveva fatto in tempo a dire la sua.

«E comunque sì, sono sicuro di stare benissimo. Ho solo caldo, dormirò con la maglietta a maniche corte. E soprattutto ho voglia di lavarmi, mi sento il sudore addosso e non sono nemmeno sicuro sia il mio.»

«Ok.»

«Bene.»

«Allora grazie per l’acqua. Vado a lavarmi anch’io.»

«Bene.»

«Buonanotte, Genzo.»

Gli aveva dato le spalle ed era uscito dalla stanza.

Genzo era rimasto lì, appoggiato al ripiano della cucina, gli occhi chiusi. A sentirsi un deficiente.

Muoversi gli era costato parecchia fatica ma finalmente ad un certo punto era riuscito a spostarsi ed era salito al piano superiore dove si trovava la camera padronale.

Si era spogliato per poi rinchiudersi in bagno e si era infilato sotto la doccia, godendosi il getto d’acqua e il profumo del docciaschiuma.

E poi, dopo essersi asciugato, aveva indossato una t-shirt e i boxer e si era sdraiato sul suo letto.

Ma, come aveva temuto fin dal primo momento in cui Kojiro aveva messo piede nel suo attico, non era riuscito a prendere sonno. E non a causa dell’agitazione che gli aveva trasmesso l’Escape room.

Aveva atteso, immobile e supino. Le dita delle mani incrociate sul ventre. Gli sembrava di sentire il suo cuore battere, gli dava quasi fastidio, come il suono del suo stesso respiro. Fissava la parete di fronte dove era posizionato l’armadio. Cercava di distrarsi osservando i dettagli.

Non funzionava.

Aveva provato a fantasticare su qualcosa di rilassante, come i progetti per un prossimo viaggio, oppure di noioso, come il menù della settimana seguente. E non funzionava. Era solo frustrante.

Allora aveva fatto l’unica cosa che aveva davvero voglia di fare, era sceso al piano inferiore. Scalzo, senza far rumore. Senza nemmeno accendere la luce, non ce n’era bisogno, sapeva come muoversi in casa sua.

Era sceso e si era lentamente avvicinato all’altra camera.

Non aveva avuto subito il coraggio di entrare, per un po’ si era fermato sulla soglia.

Lo intravedeva appena, sembrava abbandonato al sonno. Aveva avvertito una fitta di invidia subito sostituita dal sollievo, in fondo se fosse riuscito ad addormentarsi anche lui non si sarebbe trovato lì. Poteva essere un bene, poteva essere un male. Dipendeva da parecchie cose. Tanto per cominciare da quello che avrebbe deciso di fare. Era rimasto lì ancora per qualche minuto, incerto, quasi fosse stato in attesa di un segnale che non arrivava. E poi, senza preavviso, le sue gambe avevano cominciato a muoversi e l’avevano portato dentro la stanza.

Lo aveva raggiunto, con lentezza. Aveva indugiato per alcuni istanti in piedi accanto al letto, trattenendo il fiato, emozionato, ma poi si era seduto. Accanto a lui. E si era sdraiato, lo sfiorava appena con il braccio. Nonostante il tocco appena accennato gli sembrava che avrebbe potuto prendere fuoco. Aveva assaporato quel momento come meritava, cercando di imprimere nella memoria ogni brivido. E infine non era più riuscito a soffocare quella voglia, si era sdraiato su un fianco, aveva sollevato una mano e lo aveva accarezzato. Dapprima i capelli, ma poi era sceso più in basso, sfiorando il collo, e poi la spalla. Quel contatto era elettrico, sentiva qualcosa che partiva dalla punta delle sue dita e risaliva correndo dentro di lui, lungo i nervi o forse le vene, e arrivava al cuore. Il suo cuore che adesso batteva all’impazzata, ma non lo infastidiva più.

Genzo aveva allora preso coraggio e gli si era avvicinato, ancora di più. Aveva annusato la pelle di Kojiro, il suo odore gli sembrava così dolcemente familiare ed estraneo allo stesso tempo. E aveva chiuso gli occhi, estasiato.

L’eccitazione che si sentiva addosso era quasi dolorosa, aveva soffocato un gemito.

Poi, spaventato dalla sua stessa reazione, si era rialzato e, silenzioso, era risalito al piano superiore e si era rinchiuso nella sua stanza.

Si era lasciato cadere sul letto, esterrefatto.

Non era riuscito ad addormentarsi per molto, molto tempo.

Al piano inferiore, anche Kojiro era sveglio. Era sempre stato sveglio, aveva solo finto di dormire.

 

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Capitolo 6
*** Terzo principio della dinamica ***


Terzo principio della dinamica

 

Inverno

 

La mattina seguente non era stato semplice alzarsi, e nemmeno compiere quelle azioni che in un giorno qualunque sarebbero state banali. Genzo, ancora turbato da quanto successo poche ore prima, si era chiuso in un mutismo refrattario a qualsiasi tentativo di intrusione, Kojiro pareva forzatamente allegro.

Si erano trovati in cucina alle undici, il padrone di casa era intento a preparare il caffè.

«Buongiorno! Sei poi riuscito a dormire? La doccia ha funzionato?»

«Sì. Tutto bene.»

«Anch’io sai? Ho fatto una doccia, ieri. Ho seguito il tuo consiglio, e in effetti avevi proprio ragione. Mi sono sentito subito meglio.»

Kojiro si era stiracchiato allungando le braccia davanti al petto, poi si era messo a tamburellare con le dita sul ripiano in legno massiccio e a lanciare occhiate nella direzione di Genzo, che però continuava a dargli le spalle, indaffarato.

«Faresti un caffè anche per me, per favore? Ho bisogno di una bella svegliata.»

«Sì.»

Lo aveva osservato in silenzio, aveva intuito il suo imbarazzo che tuttavia gli pareva poca cosa rispetto a quella spiacevole sensazione che gli si era appiccicata addosso poche ore prima e che non riusciva a ignorare.

Era a disagio, Kojiro, e parlava a macchinetta cercando di ostracizzare il rischio di un silenzio carico di tensione che non sarebbe stato in grado di gestire.

«Il tuo letto per gli ospiti è molto comodo, te l’hanno mai detto?»

«Sì. Lo dice anche Karl.»

«Davvero molto comodo, ho dormito bene. Anche se per poche ore.» aveva afferrato la tazza che l’altro gli porgeva «Grazie.»

«Prego.»

Aveva allargato lo sguardo a tutta la stanza, si era soffermato sul paesaggio al di là della vetrata.

«Oggi c’è un bel sole, chi l’avrebbe mai detto? Soprattutto dopo la pioggia di ieri…»

Genzo non aveva ribattuto, si era limitato a imburrarsi una fetta di pane tostato.

Kojiro a quel punto aveva sbuffato.

«Non sembri aver molta voglia di parlare, o sbaglio?»

«Non ti sbagli. Ho un po’ di mal di testa.»

Allora aveva annuito, e all’improvviso aveva smesso di sorridere.

«Ok. Allora io tra mezz’ora me ne vado.»

Solo a quel punto Genzo lo aveva guardato negli occhi.

«Di già?»

La sua voce era risuonata quasi innaturale. Incredula e delusa.

L’altro si era messo a giocherellare con il cucchiaino.

«Sì. Prendo il treno dell’una. Preferisco non fare tardi, ho un po’ di cose da fare.»

Genzo aveva sentito qualcosa incrinarsi nel petto, ma aveva preferito soprassedere e simulare indifferenza.

«Ok.»

«Grazie per l’ospitalità.»

«Non… Non c’è di che.»

«E di nuovo auguri di buon compleanno.»

«Sì. Grazie.»

E così dicendo, dopo aver raccolto la sua roba, Kojiro se ne era andato, senza fare alcun accenno alla possibilità di vedersi ancora.

Genzo lo aveva guardato uscire senza proferire parola.

 

 

Erano trascorsi alcuni giorni.

Non si erano più sentiti nemmeno via messaggio, anche se entrambi continuavano a scrivere con una certa regolarità sulla chat della Nazionale.

Kojiro aveva cercato con tutte le sue forze di mettere quanta più distanza possibile tra sé e il ricordo di quanto era successo quel sette dicembre, di archiviare quell’episodio in un angolino del cervello e possibilmente di dimenticarselo in fretta. Non voleva tornare a pensarci, richiamare alla memoria le emozioni che aveva provato gli procurava delle strane palpitazioni.

Genzo da parte sua si sentiva quasi offeso, percepiva un’inspiegabile freddezza nei suoi confronti che non riusciva a capire e che lo riempiva di risentimento. Aveva pensato di chiamarlo, di fare per primo quel passo verso un’ipotetica riappacificazione, ma poi aveva desistito, perché si diceva che in fondo non avevano litigato e quindi non erano necessarie spiegazioni o altro. Ma ci soffriva, e ci rimuginava spesso. Gli mancava quella complicità che sentiva di aver avuto con lui, quando si divertivano a stuzzicarsi a qualsiasi ora del giorno, soltanto poche settimane prima. Kojiro sembrava avergli voltato le spalle, dal nulla, senza un motivo apparente. E Genzo, giorno dopo giorno, cominciava a credere che quel primo passo spettasse all’altro, e giorno dopo giorno, cominciò a sua volta a imporsi di guardare avanti e di non indugiare più in certi pensieri. Spaventato dalle sue stesse emozioni, cercava di metterle a tacere. In fondo, aveva vissuto per oltre trent’anni in un certo modo, e sapeva benissimo come comportarsi. Era un esperto a negare l’evidenza a sé stesso, poteva farlo ancora e ancora.

E così ci aveva provato, per quasi tutto l’inverno.

Si imponeva di censurare certe idee e certi impulsi - che una parte di sé continuava a trovare sconvenienti -, aveva archiviato la loro vecchia chat di Whatsapp per evitare di trovarsela davanti agli occhi. Non poteva bloccare il suo numero perché avevano troppo in comune, poteva però limitare tante altre cose. Si concentrava sulle partite e sugli allenamenti, frequentava la casa di Karl, si divertiva con Katrin. Aveva ricominciato a giocare a scacchi nel tempo libero, si era creato un profilo fittizio su una community online di appassionati. Ogni tanto gli capitava di uscire per locali, ma sempre più raramente. Quando trovava compagnia erano solo incontri di sesso senza altri strascichi con donne molto disponibili.

 

 

Dicembre se ne stava andando lasciando definitivamente il posto al lungo e freddo inverno bavarese.

Genzo aveva festeggiato il Capodanno a Londra, lo aveva invitato suo fratello Shuici.

Una serata formale in black tie, aveva cenato in un ristorante stellato di Mayfair con altre quaranta persone, in gran parte sconosciute. Sua cognata gli aveva presentato Emma, una sua cara amica londinese, pensando di fare cosa gradita. Genzo l’aveva subito classificata come una noiosa quasi trentenne in carriera, egocentrica e dal tono di voce sgradevole. Erano seduti uno accanto all’altra, lei lo aveva stordito di chiacchiere banali sbattendo le lunghe ciglia finte. A fine serata gli aveva lasciato il suo numero di telefono, scritto in bella grafia su un pezzo di carta con la stilografica di lusso che teneva nella borsetta. Non aveva mai pensato di cercarla.

Tornato a Monaco si era rituffato nelle sue abitudini: allenamenti e impegni agonistici con la squadra, partite di scacchi online e soprattutto Karl. L’amico aveva appena ricevuto una tremenda batosta dopo aver saputo dell’esistenza di un rivale in amore, ormai appariva sempre più convinto di essere ancora innamorato di Lena. Genzo lo ascoltava, sapeva di essere la sua valvola di sfogo. E gli piaceva ricoprire quel ruolo, perché gli permetteva di nascondersi senza far notare il suo silenzio.

 

Ma il suo cuore continuava a sanguinare, e lui continuava a soffrire, con discrezione, senza disturbare. Nascondendosi.

 

 

 

 

 

 

 

Nota:

Il terzo principio della dinamica è conosciuto anche, semplificando, come principio di azione e reazione. L'enunciato del terzo principio della dinamica è: Per ogni forza che un corpo A esercita su un altro corpo B, ne esiste un'altra uguale, in modulo e direzione, e contraria in verso, che B esercita su A.

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Capitolo 7
*** Il muro ***


Il muro

 

Kojiro quell’inverno comincia a uscire con due ragazze contemporaneamente, Diete e Martha - che non sanno l’una dell’esistenza dell’altra - con la precisa e ambiziosa volontà di non ritrovarsi da solo con i suoi pensieri per troppo tempo.

Eppure, continua a rimuginare su quanto è successo a Monaco, non riesce a farne a meno, per quanto si sforzi con tutto sé stesso.

Gli capita di pensarci mentre si pettina osservando il suo riflesso allo specchio, o quando il tessuto delle maniche gli accarezza l’avambraccio mentre si veste. La sensazione delle dita di Genzo sui suoi capelli e sulla sua pelle torna a farsi sentire dirompente, e lo lascia sempre scombussolato. I ricordi di quei momenti sono vivi e pulsanti, e sembrano volerlo costringere a fare i conti con sé stesso, contro la sua volontà.

Quella notte del sette dicembre, a casa di Genzo, si era ritrovato insonne e inquieto. Non riusciva a prendere sonno nonostante avesse provato a seguire il consiglio di farsi una doccia per lasciar scivolare via il rumore che sentiva ancora assordante nelle orecchie e quello strano senso di irrequietezza che lo pervadeva da quando avevano messo piede nell’attico. Era rimasto per una buona mezz’ora sdraiato supino sopra le lenzuola, al buio con gli occhi aperti, finché non si era accorto che l’altro era lì sulla soglia.

In quell’istante il suo cuore aveva mancato un battito.

E quando lo aveva visto entrare nella stanza camminando lentamente per poi fermarsi accanto al suo letto aveva trattenuto il fiato e la voce perché, se da una parte avrebbe voluto farsi sentire per domandare che cazzo avesse intenzione di fare quel cretino, c’era stato qualcosa di più forte che l’aveva trattenuto. Come se fosse stato vittima di un incantesimo che pareva averlo incatenato. Forse era ammaliato da una situazione così ambigua, forse ne era semplicemente incuriosito oppure spaventato. E quei secondi di esitazione l’avevano in un certo senso costretto al silenzio, perché, quando aveva compreso davvero cosa stava per succedere, si era subito trovato la mano di Genzo addosso. Aveva trattenuto un grido, si era imposto di non muovere neanche un muscolo. Si era concentrato per mantenere il respiro il più regolare possibile, pensando - in un modo tanto ingenuo da sembrargli idiota soltanto pochi minuti dopo - che se avesse fatto finta di niente avrebbe potuto comportarsi come non fosse successo niente.

Come se il metodo di ignorare i problemi per farli scomparire abbia mai funzionato per qualcuno.

E no, non sta funzionando nemmeno per lui, in quel lungo e freddo inverno.

 

 

 

Alla fine di febbraio

 

E poi accade. Succede all’improvviso, non c’è una causa scatenante.

Genzo si accorge che l’amarezza e i rimpianti si sono accumulati, ignorarli non è stato sufficiente. Sono diventati così pesanti da rischiare di soffocarlo.

Una fredda notte di febbraio si sveglia di soprassalto, il respiro affannoso, il cuore in gola.

Si mette a sedere, infila le ciabatte e raggiunge il bagno, il suo riflesso nello specchio gli mostra un viso pallido e stravolto. Si lava la faccia, mette i polsi sotto l’acqua corrente cercando di calmarsi.

Si sposta in cucina, si prepara una tisana.

Mentre la sorseggia seduto su uno degli sgabelli decide che non può continuare a fingere che vada tutto bene.

Ammette a sé stesso di stare male, molto male, di non riuscire a smettere di provare questo senso di struggimento che lo sta consumando da dentro. È innamorato, perdutamente innamorato come un ragazzino, e una parte di sé se ne vergogna e si sente in colpa per questi sentimenti così conturbanti.

Ma esiste anche una voce che gli sussurra di osare, e che lo rassicura, perché la felicità premia solo gli arditi.

Si stropiccia il viso con le mani, poi appoggia la nuca contro la parete.

Sospira.

Rimugina su quanto sia accaduto fino a quel momento. Si ripete che tutto sommato è riuscito a tenere a bada i suoi pensieri e le sue azioni, ma percepisce ormai in modo chiaro e inequivocabile di essere molto vicino a un punto di rottura.

Qualcosa rischia di sfuggirgli di mano, e, se non correrà ai ripari, sa che ci potrebbero essere delle ripercussioni anche su altri aspetti della sua vita. In campo e fuori.

Posa la tazza nel lavandino, controlla l’orologio. Sono le quattro del mattino.

Non può chiedere consiglio a nessuno perché nessuno conosce il suo inconfessabile segreto, può contare solo ed esclusivamente su sé stesso.

È così che decide di passare all’azione. Il giorno dopo è sabato, non ha impegni. Hanno giocato la sera prima in casa, l’Eintracht scenderà in campo domenica a Francoforte.

Quel sabato, all’una del pomeriggio, Genzo prenderà la sua auto e guiderà fino a casa di lui. Suonerà quel citofono digitando 387, presentandosi senza preavviso, determinato a parlargli di sé e a confessare i suoi sentimenti. Costi quel che costi, giocandosi anche la reputazione.

Come sappiamo, le cose non andranno come aveva sperato.

Quella sera, Genzo tornerà a casa con il cuore spezzato.

Quella sera, Kojiro chiederà a Diete di lasciarlo solo, troppo confuso e turbato per poter anche soltanto sopportare la sua compagnia.

 

 

 

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Capitolo 8
*** La spada nel cuore ***


La spada nel cuore

 

 

Marzo

 

E poi c’è il silenzio.

Kojiro non lo chiama, non gli scrive nessun messaggio.

Sa che cosa sarebbe potuto accadere quella sera, se fosse stato solo; sa che cosa sarebbe successo se lo avesse fatto entrare in casa sua. Genzo sarebbe stato tremendamente reale, fatto di carne e di ossa, e lui lo avrebbe guardato accomodarsi sul suo divano e avrebbe ascoltato certe parole.

Quelle parole che a volte cambiano il corso della vita, o quantomeno mettono in discussione i rapporti e gli equilibri. Le parole che Kojiro non ha ancora il coraggio di sentire.

 

********

 

Non era solo, aveva compagnia. Un “impegno romantico”, così aveva detto. Aveva sentito il bisogno di specificarlo, come se avesse voluto assicurarsi che il messaggio arrivasse a destinazione in modo inconfondibile.

Genzo si ritrova a rifletterci per ore e ore nelle settimane successive a quel colpo di testa.

Gli sembra che Kojiro fosse rimasto inizialmente stupito a saperlo lì, ma poi il suo stupore si fosse come trasformato in fastidio. Era diventato tutto ad un tratto freddo, come se avesse intuito quello che avrebbe potuto accadere e la cosa lo avesse oltremodo irritato. Come se sospettasse tutto, senza che ci fosse bisogno di dire alcunché.

Genzo si domanda se siano solo sue paranoie, se davvero la cosa sia possibile. Forse il suo comportamento in alcune occasioni avrebbe potuto suggerire certi suoi pensieri? Lo esclude, ha sempre avuto il controllo di tutto. Delle parole che ha pronunciato, delle espressioni sul suo viso. Dei suoi gesti.

Deglutisce a vuoto, ha quasi un mancamento.

Quasi sempre.

Una sola volta aveva ceduto ai suoi impulsi, quando la notte dopo la festa del suo compleanno si era intrufolato nella camera degli ospiti dove Kojiro stava dormendo. Lo aveva guardato, per minuti che parevano ore, e poi gli si era sdraiato accanto. Lo aveva accarezzato, sfiorandolo con la punta delle dita. Ma Kojiro stava dormendo, giusto? Se si fosse svegliato avrebbe reagito, avrebbe fatto qualcosa, avrebbe detto qualcosa. Non avrebbe mai fatto finta di niente. Giusto?

Il dubbio comincia a farsi strada nella sua mente, e lo paralizza. L’idea che Kojiro fosse stato sveglio, e disgustato dal suo tocco, ma troppo a disagio per reagire, gli va venire il voltastomaco. Eppure, questo spiegherebbe la sua decisione di andarsene subito, e i suoi silenzi. Il suo allontanamento, che adesso gli sembra irreversibile, è stato motivato dall’imbarazzo.

Genzo si porta mani al viso, gli sfugge un gemito.

 

L’inverno sta per finire. Le giornate si sono allungate, il sole si fa via via più caldo. Marzo non è ancora sinonimo di primavera lì a Monaco, ma racchiude in sé la voglia di tepore e di un nuovo inizio.   

Genzo continua a dare il massimo in campo, in partita e in allenamento; la compagnia di Karl è un sollievo perché gli permette di mettere il cervello in pausa. Non si è ancora confidato con l’amico però, ha deciso di aspettare di capire quello che sta vivendo. Chi lo vede dall’esterno potrebbe pensare che vada tutto bene, come sempre, che sia solo più solitario e silenzioso del solito. In realtà, Genzo si sente bruciare dentro. E quando questa sensazione di bruciore si fa insopportabile decide di contattarlo. Deve parlargli, ha un bisogno assoluto di avere un confronto con Kojiro. Di spiegarsi, e di sapere quali siano i pensieri dell’altro.

Lo chiama una sera, mentre è a casa da solo. Seduto sul divano, la televisione accesa con il volume azzerato. Fa partire la chiamata. Uno, due, tre squilli. Diventano nove, non risponde.

Genzo sbuffa. Prova a scrivergli un messaggio, gli ci vogliono cinque minuti. Digita il testo, ci ripensa, lo cancella. Prova a riformulare le frasi, non è soddisfatto del risultato. Ritenta, più e più volte. Alla fine, lo invia.

G. ‘Ciao. C’è uno strano imbarazzo tra noi due e questa cosa non mi dà pace. Vorrei fare il possibile per risolvere questa situazione che si è creata, vorrei avere l’occasione di dirti tante cose. Ho capito di averti messo in imbarazzo quando mi sono presentato a casa tua, vorrei non averlo fatto, non così. Mi dispiace.’

La risposta arriva mezz’ora dopo – una mezz’ora eterna, che Genzo ha trascorso tormentandosi le mani e lanciando occhiate ossessive al telefono -.

K. ‘Non c’è niente per cui tu ti debba scusare. Tutto ok.’

Quelle parole hanno lo stesso suono del citofono a Francoforte, quando Kojiro aveva chiuso la comunicazione. Le legge e gli sembra che gli trapanino il cervello. Gli fanno male come un cappio attorno al collo, non è un dolore fisico e immediato, è il dolore causato dalla paura di quello che sta per accadere. Non lo accetta, non lo può accettare.

G. ‘E allora perché è dal giorno dopo il mio compleanno che ti comporti in modo strano con me?’

Sente il cuore battere furioso nel petto, aspetta, e questa volta la risposta arriva subito.

K. ‘Stai facendo tutto da solo. Ti ho già scritto che è tutto ok.’

Genzo non può far altro che strizzare gli occhi, si pinza il naso tra pollice e indice.

Vaffanculo.

Vaffanculo e vaffanculo.

Prende a pugni il cuscino, dalla sua bocca fuoriesce una specie di suono gutturale che pare un grido strozzato in gola.

Non funziona, sembra che niente possa funzionare e che ogni passo sia un passo nella direzione sbagliata.

Si alza, cammina avanti e indietro, i pensieri si rincorrono angosciosi e non riesce a venirne a capo. È in collera, ma anche dispiaciuto, imbarazzato e preoccupato. Si scontreranno a Francoforte dopo qualche giorno, si sente un idiota per non aver aspettato almeno fino a dopo la partita. Magari se fosse riuscito a scambiare con lui qualche parola di persona sarebbe stato diverso, magari guardandosi in faccia. E allora si domanda come sarà scendere in campo sabato, dopo quei messaggi a senso unico.

 

La partita si gioca sotto la pioggia. Genzo sembra il fantasma di sé stesso. I padroni di casa vanno subito in vantaggio grazie a un colpo di testa di Hyuga, un bel goal su calcio d’angolo, la palla va insaccarsi in alto a destra. Genzo si muove appena in ritardo e non riesce a pararlo. Kojiro lo guarda, vede la smorfia di rabbia sul volto del portiere. Resta immobile a fissarlo per qualche secondo, poi gli volta le spalle e corre via, esulta con i compagni e fa qualche gesto alla curva che risponde con un boato.

Il Bayern deve ringraziare una prova superlativa della difesa che riesce a contenere egregiamente gli assalti delle aquile e il solito Schneider che realizza una doppietta, e porta a casa il risultato vincente.

 

Il viaggio di ritorno a Monaco gli sembra eterno. Se ne sta seduto da solo, la fronte appoggiata al finestrino. Nessuno osa disturbarlo, solamente Karl non si fa scrupoli e gli si siede di fronte. Gli tocca la gamba con il ginocchio, Genzo si toglie gli auricolari e risponde allo sguardo.

«Non hai giocato una buona partita ma abbiamo vinto lo stesso. Non serve che tu stia qui in un angolo ad autoflagellarti.»

«Non mi sto autoflagellando.»

L’altro incrocia le braccia al petto mostrando chiaramente quello che pensa.

«Solo che ho bisogno di stare da solo.»

Fa per rimettersi gli auricolari ma Karl lo blocca. Gli poggia la mano sulla coscia e lo guarda dritto negli occhi.

«È da parecchio tempo che sembri aver bisogno di stare da solo.»

Si stringe nelle spalle.

«Va così.»

«Allora è per Hyuga?»

Rimane congelato, non ribatte.

«Intendo perché oggi ti ha fatto goal proprio Hyuga. Sai… la faccenda della sfida.»

Genzo deglutisce sollevato, Karl continua.

«Ma ha segnato da dentro l’area.»

Gli fa l’occhiolino e sorride.

E allora anche Genzo sorride.

«Non importa. È tutto ok.»

 

Non è davvero tutto ok.

Le giornate si inseguono, una dopo l’altra. Un allenamento dopo l’altro, una partita dopo l’altra.

Genzo spera sempre di trovare un messaggio o una chiamata, ma tutto tace. Kojiro non si è nemmeno fatto vivo per vantarsi o per sfotterlo.

Il telefono squilla un tardo pomeriggio di fine marzo, sta guidando verso casa dopo essersi attardato con il massaggiatore a Sӓbenerstrasse a causa di un fastidio muscolare. Ha un tuffo al cuore, subito spera sia lui. E invece il nome che compare sul display dell’auto è quello di Karl.

Risponde, un po’ stupito.

La voce del suo migliore amico è quasi metallica, gli racconta che Katrin ha avuto un incidente.

“In questo momento è in sala operatoria, la stanno operando alla testa… È successo all’improvviso, è stata questione di un attimo…”

Quando Genzo chiude la conversazione si sente attraversare da brividi che lo scuotono da capo a piedi. Sembrano brividi di freddo, ma sono di paura. Ha paura per la bambina, e ha paura per Karl. Prega tra sé che vada tutto per il meglio, non è mai stato credente ma in quel momento affidare le proprie speranze a qualcosa di altro da sé è la cosa più naturale del mondo.

Raggiunge casa sua, si siede su una delle poltrone e si mette le mani nei capelli.

Chiude gli occhi, si sforza di silenziare i pensieri.

Sente un disperato bisogno di fare pulizia. E così decide che è arrivato il momento di una svolta.

Basta piangersi addosso e perdere tempo a struggersi, sta vivendo quella che ormai è diventata un’impasse mentale che lo sta mettendo in gabbia e gli sta creando un mucchio di problemi.

Vuole metterci una pietra sopra e guardare altrove, perché si rende conto di essere circondato da persone a cui vuole bene e che gli vogliono bene, e l’unica cosa saggia da fare è dare l’anima per loro, e per loro soltanto.

Racconta a sé stesso qualche menzogna, si dice che forse essere spettatori della felicità degli altri può essere abbastanza appagante, forse il segreto della felicità sta proprio nel sapersi accontentare e accettare i momenti di amarezza.

 

Per i successivi due mesi Genzo si sforzerà di non pensare più a Kojiro e ai loro scambi. Non guarderà più il telefono sperando di trovare traccia di qualche contatto.

Tornerà a essere il portiere numero uno della Bundesliga e uno dei migliori al mondo. Sarà al fianco di Karl e giocherà di nuovo con Katrin, che farà ritorno a casa qualche settimana dopo. Si toglierà parecchie soddisfazioni a scacchi, e soprattutto chiuderà il suo cuore a qualunque tentativo di avvicinamento, da parte di chiunque.

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Capitolo 9
*** Ambivalenza ***


Ambivalenza

 

Francoforte, inizio di maggio. Notte.

 

Cammina lungo il marciapiede dell’isolato, le mani in tasca, il cappuccio della felpa gli nasconde il viso. Non che ci sia bisogno di nascondersi, il quartiere sta dormendo e lungo la sua passeggiata notturna non incontra nessuno. Non è la prima volta che si ritrova a girovagare insonne, negli ultimi mesi gli è già capitato di avere problemi ad addormentarsi. È nervoso, Kojiro, anche perché sa che dovrebbe dormire, l’indomani l’Eintracht giocherà in casa nel primo pomeriggio e verrà schierato titolare.

Si ferma dopo aver oltrepassato l’angolo vicino a casa, si mette a sedere su una panchina. Le mani intrecciate dietro la nuca, si appoggia allo schienale e ammira il cielo, dove tra le nuvole fa capolino la luna ormai quasi piena. Resta lì, a contemplare l’immensità sopra la sua testa e il vuoto che sente nel suo cuore finché il bisogno di parlare con una voce amica non si fa insopprimibile. Afferra il cellulare, lo chiama e lui risponde al secondo squillo.

 

K.W. “Capitano?! Ma che ore sono a Francoforte?”

K.H. “È quasi l’una…”

Ken sorride tra sé scuotendo appena la testa.

K.W. “Posso chiederti perché tu non stia dormendo?”

K.H. “Non riesco a dormire. Faccio una fatica tremenda ad addormentarmi, e allora ho pensato che potesse essere un buon orario per chiamarti. Come te la passi?”

K.W. “Non c’è male. Sto facendo colazione, tra un’ora devo essere agli allenamenti.”

K.H. “Ho visto che siete primi in campionato, complimenti.”

K.W. “Sì, grazie… Siamo un bel gruppo.”

K.H. “E il dojo?”

K.W. “Va benone. Tre volte la settimana sono là. Mio padre si è finalmente rasserenato.”

K.H. “Sono contento per tutti e due…”

K.W. “Grazie.”

K.H. “Lo sapevo che sarebbe stato solo questione di tempo, a volte poi le soluzioni arrivano da sole.”

K.W. “A volte sì. E lì da te che aria tira?”

K.H. “Mah, direi tutto bene. Siamo matematicamente qualificati alla Champions che era il vero obiettivo stagionale, io ho disputato una buona stagione.”

K.W. “Lo so. Seguo le tue statistiche da qui.”

È il turno di Kojiro di sorridere mentre percepisce quella sensazione familiare di calore che lo avvolge ogni volta che chiacchiera con Ken. Sempre, nonostante il tempo che passa e nonostante le migliaia di chilometri che li separano.

K.H. “Sì, sono soddisfatto.”

K.W. “Ma non riesci a dormire.”

K.H. “Già. In questo momento sono seduto su una delle panchine della via sotto casa, non riuscivo a prendere sonno.”

Ken aggrotta le sopracciglia, perplesso.

K.W. “Ma scusa, non hai nessuna che ti faccia compagnia?”

K.H. “No. Non più. In questo periodo avevo bisogno di stare da solo.”

K.W. “Capisco… Beh, ti conviene comunque almeno provarci, giocate tra qualche ora…”

Kojiro fa un sorriso amaro, torna a guardare il cielo. La luna non si vede più, le nuvole sembrano averla inghiottita.

Sospira, sente uno strano ronzio nelle orecchie.

Sbatte le palpebre e si ricompone, riprende a parlare con una voce all’improvviso più profonda.

K.H. “Il fatto è che ultimamente sto vivendo una situazione un po’ strana, Ken. Non so neanch’io come dirlo, mi sento diviso in due. È per questo che non dormo, ho come un senso di inquietudine che mi tormenta.”

Ken fa una smorfia, si era appena alzato per riporre il piatto nella lavastoviglie ma torna a sedersi.

K.W. “Prova a spiegarti meglio.”

Kojiro sbuffa.

K.H. “Beh, c’è una piccolissima parte di me che vorrebbe una cosa, ma è una cosa che fa anche paura, per cui l’altra parte di me sta cercando di negarlo a tutti i costi. E finora c’è riuscita. Ma non sono felice, non è quello che voglio.”

Ken fissa un punto di fronte a sé, accavalla la gamba e un sorriso appena accennato gli increspa le labbra.

K.W. “Forse se non sei felice stai sbagliando qualcosa.”

K.H. “È facile a dirsi…”

K.W. “Beh, sì. Quella cosa è così terrificante?”

Kojiro risponde con quello che sembra un sibilo.

K.H. “Non ne hai idea…”

K.W. “Ok. Non ti chiedo che cosa sia. Però se ti dà un tormento così grande e da così tanto tempo è perché quella cosa forse ha acceso un fuoco che sta bruciando dentro di te… E sai, io credo che, quando si ha il fuoco dentro, di solito valga la pena correre il rischio.”

K.H. “E se mi brucio?”

Ken sorride divertito.

K.W. “Ma se fai le passeggiate notturne perché non riesci a dormire stai già bruciando, capitano!”

 

 

Monaco di Baviera, la stessa notte

 

Il bilancio a fine stagione del Bayern quell’anno è ambivalente: si conclude con la gioia per la conquista della Bundesliga ma porta con sé anche la cocente delusione per l’eliminazione in semifinale di Champions League.

La vittoria contro il Colonia regala il titolo con una giornata di anticipo, quella sera tutta la squadra festeggia cenando con i piatti fatti consegnare dal servizio catering direttamente nello spogliatoio e poi si trasferisce a far baldoria in un locale notturno.

Genzo ha giocato un’altra partita perfetta, la rete dei bavaresi è rimasta inviolata ancora una volta. È il portiere che ha subito meno reti di tutto il campionato tedesco, manca ancora l’ultimo incontro per decretarlo ufficialmente ma tutti sanno già che verrà nuovamente premiato come il migliore della Bundesliga.

Si sente abbastanza soddisfatto, l’annata è stata tutto sommato positiva.

Ci riflette mentre è seduto sui divanetti di fronte a Karl e a Stefan, sente la musica rimbombare direttamente dalle casse al suo diaframma. Guarda il suo migliore amico, lo osserva portarsi alle labbra una flûte di champagne e lanciare in giro occhiate pigre alla sala con aria annoiata. Sa perfettamente che entrambi in quel preciso istante preferirebbero essere altrove e avere qualcuno di speciale al proprio fianco.

Le luci laser e i led disegnano coreografie allineate al ritmo dei bassi, compaiono i ballerini e le ballerine arrampicate sui tacchi a spillo. Si sente all’improvviso piuttosto stanco.

Prova a riscuotersi, si ripete che ha di che essere fiero ma non può ignorare una vocina fastidiosa che invece sembra voler puntare i piedi e urlare a gran voce che no, non si può accontentare così.

Che deve ambire a molto, molto di più.

Che non è sufficiente, non per uno come lui.

L’anno prossimo. L’anno prossimo vinciamo tutto.

Ma io non parlavo solo della squadra.

Genzo strizza gli occhi, sbuffa.

Il loro tavolo è accerchiato da gruppi di ragazze che sembrano molto determinate a cogliere la più piccola occasione di un contatto con uno dei giocatori, vengono palesemente ignorate da tutti e tre. Nessuna di loro ha la benché minima speranza.

Con noncuranza afferra il telefono, vuole controllare che ore siano per capire se potrebbe già congedarsi senza fare la figura del misantropo.

È soltanto l’una e mezza.

Ma vede alcune notifiche su Whatsapp.

Scorre le anteprime, uno dei messaggi è di Kojiro.

È una capriola del cuore, lo legge trattenendo il respiro.

‘Ciao, complimenti per la vittoria. Sia per il Bayern, avete fatto un ottimo campionato, ma soprattutto per te. Miglior portiere per, boh, quanti anni di fila? Comunque sia, congratulazioni. Sei sempre il numero uno.’

Resta a fissare lo schermo per quella che sembra un’eternità.

Sei sempre il numero uno.

Sempre il numero uno.

Il numero uno.

Il pollice scorre veloce e digita la risposta, non gli serve pensare. Invia.

‘Grazie. Tu sei uno dei pochi che ha sporcato il mio record. E sei l’unico’

Non aggiunge altro. Avrebbe potuto scrivere tante cose, oppure metterci dei puntini di sospensione. Avrebbe potuto essere chiaro o allusivo, decide di esprimersi per come si sente. Mozzato.

Kojiro legge subito il messaggio di Genzo.

Lo legge, e poi lo rilegge ad alta voce.

Lo sa quali sono le parole mancanti.

Si stropiccia la faccia, e torna a sentire quelle palpitazioni.

 

 

È con queste premesse che i due si ritrovano fianco a fianco a Nishinomiya, al ritiro della Nazionale organizzato alla fine di maggio.

Si incontrano nella hall dell’albergo, Kojiro era già lì, Genzo appena arrivato dall’aeroporto. Si salutano con un cenno, non c’è tempo per altro e non è nemmeno il momento giusto.

Durante il briefing sono seduti lontani, lo stesso a tavola, hanno i posti assegnati.

Ma durante gli allenamenti si trovano spesso vicini, mai da soli. Rimangono di frequente a parlare in gruppo con altri compagni di squadra, tra loro due non ci sono scambi di occhiate né messaggi di intesa. Come se fosse un rapporto sempre cordiale ma diventato freddo e distante.

Genzo vorrebbe fare il primo passo, ancora una volta.

Ma questa volta non sa davvero come approcciarlo, e sentirsi evitati e respinti è frustrante.

Non sa della tempesta che da mesi infuria nella testa di Kojiro, non lo può sapere. Anche quello è un segreto che non conosce nessuno.

Gli impegni della Nazionale si snodano per sette giorni tra amichevoli, allenamenti e qualche cena ufficiale in attesa della convocazione successiva che li vedrà scendere in campo per l’ultima fase delle qualificazioni della Coppa d’Asia, e sono giorni che passano in fretta. Troppo in fretta.

Ma poi succede.

L’occasione si presenta dopo l’ultima partita giocata contro il Vissel Kobe, Genzo si è attardato sotto la doccia. Fa tutto con calma, perso nei suoi pensieri, quando esce con l’asciugamano annodato sui fianchi è convinto di essere solo nello spogliatoio, e quasi si spaventa quando lo vede seduto lì, su una delle poltroncine.

Kojiro è già vestito, il trolley pronto ai suoi piedi. Lo ha atteso in silenzio.

Si guardano negli occhi, l’aria diventa all’improvviso tesa.

Genzo sbatte le palpebre, nervoso, e con pochi passi rapidi raggiunge la sua postazione e gli dà le spalle. Vorrebbe parlare, dire tante cose, e dirle bene. Non trova le parole, e si arrabbia con sé stesso.

L’altro non si è nemmeno mosso.

Passano i secondi, inesorabili, uno dopo l’altro.

E allora Genzo si decide, si toglie l’asciugamano e resta nudo, ma sempre voltato verso il muro. Kojiro non lo sta nemmeno guardando ma lui non lo può sapere.

«Quindi? Che cosa stai facendo qui?»

La voce risulta molto meno fredda, e soprattutto molto più titubante di quanto avrebbe voluto.

«Non lo so bene nemmeno io…»

Scuote la testa, cerca di respirare normalmente e comincia a vestirsi. Per prima cosa si infila i boxer, poi i pantaloni della tuta.

Finalmente Kojiro sembra ridestarsi e solleva lo sguardo.

«Non lo so bene ma so che ci sono delle cose che potrei dirti. Che vorrei dirti.» prende fiato «Tanto per cominciare sono dispiaciuto. Per tutto. Lo so di non essermi comportato tanto bene.»

Genzo si blocca, le braccia a mezz’aria con la maglia in mano. Alza gli occhi al cielo.

«Hyuga. Non è che abbiamo litigato o che tu mi hai fatto un torto.»

«No, ma…»

«Niente ma.» indossa la maglia e si gira, pianta gli occhi in quelli dell’altro «Io ho il dispiacere di non essere stato abbastanza chiaro e di essermi cacciato da solo in un ginepraio.»

Kojiro deglutisce, non ribatte.

Genzo riprende.

«Per cui ok, visto che hai fatto questo bel gesto di farmi un agguato nello spogliatoio – che peraltro è una mossa piuttosto audace visto il contesto, non credi? -, comunque sia, visto che me ne stai dando l’occasione, io adesso sarò molto chiaro. Con te e con me stesso.»

L’altro stringe i pugni, a disagio.

«Io sono innamorato. Di te. Da Miami.»

Le parole si fanno trovare e fluiscono, incredibilmente leggere.

«Magari anche da prima, non ne sono sicuro. Ma di sicuro Miami mi ha aperto gli occhi e ho capito.» prende fiato «Ho provato a negarlo a me stesso, non ci riesco. Non pensare che sia stato semplice. È stato uno shock. Ma è la verità. E ho provato a dirtelo, ma ho capito che tu avevi intuito e ne eri tremendamente turbato. Se non disgustato. E questa cosa mi ha fatto male.»

Adesso crede di non potersi più fermare.

«Ci sono stato male per mesi, Hyuga! Ed è stato peggio di quello che mi sarei potuto aspettare, perché oltre al dolore che ho già conosciuto per un amore non corrisposto c’era la vergogna, e la consapevolezza di doverti vedere più spesso di quanto avrei voluto tra Bundesliga e Nazionale.»

Sorride sarcastico.

«Eccomi qui. Adesso lo sai, in modo chiaro e inequivocabile. E puoi fare quello che vuoi, puoi dire quello che vuoi. E così anch’io lo saprò in modo chiaro e potrò davvero guardare oltre.»

Kojiro si mette le mani nei capelli, la fronte è corrucciata.

«Io… Io non sono gay. Mi piacciono le ragazze, addirittura ho sempre preferito quelle con le tette grandi.»

Genzo scoppia a ridere, ma è una risata cattiva.

«Ma dai? Nemmeno io sono gay. Non mi alletta l’idea di fare sesso con un altro uomo, te lo assicuro.»

Chiude il suo trolley, lo fissa negli occhi con una spavalderia che aveva dimenticato.

«Sei tu, Kojiro. Solo tu.»

Non sta ad ascoltare la risposta, vede che l’altro sta provando a farfugliare qualcosa e quasi annaspa, non vuole sentire parole di compatimento.

Afferra la maniglia ed esce dalla stanza.

 

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Capitolo 10
*** Un'altra estate ***


Un’altra estate

 

 

Le parole di Genzo non lo abbandonano più.

Gli sembra di sentire la sua voce quando l’altro se ne è andato ormai da un pezzo, e lui, Kojiro, è rimasto seduto in quello spogliatoio a fissare il vuoto, le dita delle mani intrecciate, il respiro corto.

Non lo lasciano nemmeno mentre attende il treno per Osaka qualche ora dopo.

Percepisce la sua voce, è come se fosse ancora lì vicino a lui.

Si sente all’improvviso stanco, anzi sfinito, e si addormenta poco dopo la partenza dello Shinkansen per Tokyo.

E sogna.

Sogna la malinconia di un pomeriggio parigino, e poi il mare di Cap Ferrat con le sue acque turchesi, le viuzze acciottolate di Antibes di una sera di inizio estate. La piscina a sfioro di una villa con vista sulla costa.

Avverte un brivido, sorride mentre è ancora abbandonato al sonno.

 

 

Giugno

 

Torna a Monaco più leggero.

Ci sono voluti mesi ma alla fine è riuscito a dire tutto quello che pensa ad alta voce, e a farsi ascoltare. Non ha idea di quali saranno le reazioni di Kojiro, ma in quel momento è convinto di aver fatto la cosa giusta. È stato trasparente, e coraggioso, e qualunque cosa accadrà non vivrà con il rimpianto di essersi nascosto facendosi scudo con le menzogne.

Ha davanti a sé tre settimane di vacanza, e per la prima volta nella sua vita non ha pianificato niente, ma va bene così. Ha appuntamento con Karl e Katrin, poi l’amico partirà per una decina di giorni per la Sardegna. Pensa che deciderà all’ultimo, per una volta potrebbe fare una pazzia, presentarsi in aeroporto con la valigia e comprare un biglietto per una destinazione a caso.

Si ritrova a sogghignare, si ripete che va bene così, può permettersi di fare quello che gli pare. È libero, non porta zavorre sulle sue spalle.

È libero, ma soprattutto è solo.

 

Glielo ricordano bene le parole di Lena due giorni dopo, lei le pronuncia senza darci troppo peso mentre la sta riaccompagnando a casa dopo quel pranzo da Fausto. Gli chiede se stia uscendo con qualcuna perché non sente parlare da tempo delle sue avventure, e aggiunge che le sembra piuttosto strano.

Genzo in quel momento glissa, risponde che si tratta di un’altra storia, e che magari un giorno gliela racconterà.

Si domanda se ci potrebbe mai riuscire, non ne è sicuro.

Forse è semplicemente ancora troppo presto.

 

È ormai giugno inoltrato. Le giornate sono luminose, e promettono un’altra estate calda e soleggiata.

Gli Schneider si sono riappacificati e saranno lontani ancora per una settimana, Genzo decide che è arrivato anche per lui il momento di partire.

Quella sera prepara la valigia, ci mette dentro solo il minimo necessario. Comprerà sul posto ciò che gli serve.

Si siede sulla chaise longue in terrazzo, guarda il profilo della città che si scorge dal suo attico.

È quasi ora del tramonto, la luce è cambiata.

Si sente in pace con sé stesso, si sente quasi felice.

E poi qualcuno suona il citofono.

È perplesso, non aspetta nessuno.

Risponde.

Il portiere lo avvisa che c’è Kojiro Hyuga, che si è presentato come suo amico, e che vorrebbe salire.

Può farlo salire?

Non ci deve pensare neanche per un secondo.

«Sì. Lo faccia salire, grazie.»

Lo aspetta sulla porta.

 

Kojiro esce dall’ascensore, gli occhiali da sole appesi al collo della t-shirt e uno zaino sulla spalla.

Genzo inclina la testa, incuriosito e timoroso, l’espressione dell’altro non lo aiuta a decifrare le sue intenzioni.

Si fronteggiano lì all’ingresso, poi il padrone di casa si sposta e lo fa entrare.

Kojiro prende un bel respiro prima di parlare.

«Ho copiato la tua idea di presentarti senza preavviso e senza invito.»

Lo osserva in silenzio.

«Spero solo che non finirà allo stesso modo, perché io non ce l’ho la compostezza che hai dimostrato di avere tu.»

Genzo scuote appena la testa, l’altro continua.

«Quindi, eccomi qui.» deglutisce e si guarda attorno, nota la valigia in un angolo «Ma sei in partenza?»

«Già. Domani.»

«Ah.»

«Ma non ho prenotato niente. Domani vado in aeroporto e decido una volta lì. Ho voglia di improvvisare.»

Kojiro sospira annuendo e si umetta le labbra, nervoso.

«Ok. Però io adesso devo parlarti. Voglio dirti che non è andata esattamente come hai detto tu. Non sono mai stato disgustato. Turbato sì, all’inverosimile. Cazzo, non è facile, questa cosa mette addosso paura…»

«Senti, Hyuga, io…»

Ma Kojiro non ascolta, non vuole interrompersi perché teme di non riuscire più a dire tutto quello che vorrebbe dirgli.

«No, non ho finito. Non chiamarmi Hyuga, chiamami con il mio nome.» gli sorride «Miami ha sconvolto anche me, non ti credere.»

Sbatte le palpebre, poi torna a guardarlo negli occhi. Li punta dritti in quelli di Genzo.

«Mi ha sconvolto perché avevi già toccato qualcosa quando siamo stati a Parigi, tre anni fa, e in Costa Azzurra. Te lo ricordi, vero?»

Genzo annuisce.

«Ma allora mi ero girato dall’altra parte, erano pensieri che trovavo sbagliati. Perché io avevo una ragazza, tu mille, e mi avevi appena raccontato di Sanae, e tutto sembrava tranne questo...» prende fiato «Poi Miami. Non solo per la storia della festa, ma tutto il contorno. È… è stato bello stare insieme per tanti giorni. Bello in modo strano. Totale.»

Sospira.

«Genzo, io non lo so bene cosa sto per dirti, non mi sono preparato un discorso. Ma so che non voglio perderti. Mi terrorizza l’idea di perderti, e l’ho capito davvero dopo che mi hai parlato a Nishimoniya. Io vorrei averti sempre nella mia vita, quando sono insieme a te mi sento bene come non mi è mai successo. Mai. Con nessuna.»

Si stropiccia il viso con la mano, torna a fissarlo.

«Però io non lo so di cosa sarei capace. Non mi è mai successo niente di simile...»

«Nemmeno a me.» la voce di Genzo esce come un bisbiglio.

«Hai ragione tu. Hai avuto sempre ragione. Non sono gay, a questo punto sono certo di non essere nemmeno solo etero, ma non serve mettersi addosso una definizione, no?»

Fa un cenno di diniego con la testa.

«Ecco. Non serve. Ma ho capito, e sono sicuro di questa cosa, che vorrei starti vicino. Voglio starti vicino. E non come un amico. Voglio molto di più. Voglio tutto di te. E voglio darti tutto di me.»

Genzo lo guarda. Percepisce le emozioni di Kojiro come se fossero le sue. Quel disagio che lascia il posto al sollievo, quella punta di turbamento che diventa eccitazione. La gioia che se ne sta lì, pronta ad esplodere.

Annuisce lentamente.

«Sarà complicato…»

«Lo so.»

«Sarà complicato tra noi e lo sarà certamente fuori. Ci hai pensato?»

«Lo so. Sarà complicatissimo, sì. Ma in questo momento non mi importa. Lo terremo nascosto o magari un giorno lo diremo al mondo, ma lo affronteremo insieme, un pezzo per volta. Se siamo insieme ci possiamo riuscire.»

Tornano a guardarsi negli occhi.

Tutto ad un tratto il mondo sembra fermarsi.

Genzo alza la mano destra, fa per toccarlo ma poi non osa.

È tanto bello da sembrare irreale.

Kojiro afferra quella mano e se la porta sul petto.

Sente il cuore battere all’impazzata, sente il tepore del suo corpo.

Torna a fissarlo, il viso e poi la bocca, quel sorriso.

Vorrebbe baciarlo ma non sa come fare.

E allora è Kojiro a fare quel passo, gli si avvicina e posa le labbra sulle sue.

E glielo dice, lo sussurra nella sua bocca.

«Ci vengo anch’io con te in aeroporto domani.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa è la fine, voglio chiudere così quel percorso iniziato un po’ per caso con quella mini oneshot scritta quasi due anni fa. Li ho fatti incontrare in aeroporto, li lascio pronti a volare via, insieme.

Non è stato facile per me scrivere questa storia, ma è stato uno stimolo continuo e sono contenta di averla compiuta e condivisa. Spero, come in altre occasioni, di essere riuscita a strapparvi qualche emozione e di avervi fatto sorridere sul finale.

Genzo&Kojiro torneranno probabilmente con qualche comparsata in The cuddle collection, ma non ci saranno altri sviluppi nella loro storia all’interno di questo filone e questa serie.

Li saluto qui e li guardo andare via, e mando loro un bacio soffiandolo dal palmo della mano.

Ringrazio tutte voi che avete letto, recensito, e che mi avete scritto in mp. Ho cercato di cogliere ogni spunto e di riflettere su ciò che mi avete fatto notare e vi sono grata per la possibilità di un confronto.

Grazie, davvero.

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