L'altra storia di Vallentyne (/viewuser.php?uid=1206207)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il salto ***
Capitolo 2: *** Punto di origine ***
Capitolo 3: *** L'incontro ***
Capitolo 4: *** Il livello successivo ***
Capitolo 5: *** Sfiorarsi ***
Capitolo 6: *** Terzo principio della dinamica ***
Capitolo 7: *** Il muro ***
Capitolo 8: *** La spada nel cuore ***
Capitolo 9: *** Ambivalenza ***
Capitolo 10: *** Un'altra estate ***
Capitolo 1 *** Il salto ***
Il salto
Febbraio,
otto mesi dopo Miami
È
una pazzia, e ne è consapevole. Un colpo di testa, la
decisione improvvisa di
seguire un impulso irrazionale e farsi guidare dall’istinto.
Un salto nel vuoto
senza paracadute.
Lo
sa che potrebbe sfracellarsi al suolo. Tutti i rischi a cui va incontro
gli si
sono affacciati alla mente non appena era sceso in garage e aveva messo
in moto
l’auto ma ha deciso di ignorarli.
Non
vuole restare fermo. Non vuole ripetere gli stessi errori di una vita.
Basta
paranoie, ripensamenti, analisi di comportamenti e di frasi pronunciate
per
caso.
Ha
deciso di passare all’azione, di vivere fino in fondo
accettando i rischi che
questo comporta.
Afferra
il volante con entrambe le mani, sospira. Inserisce la retro, fa
manovra, e poi
si dirige verso l’uscita.
È
l’una del pomeriggio, Monaco brulica di vita e risplende
sotto il sole. In
cielo non c’è nemmeno una nuvola. Allunga la mano
a prendere gli occhiali da
sole, se li infila sul naso.
Guida
con prudenza, senza fretta. Non serve correre. Si allontana dal centro,
e
intanto cerca una stazione radio che gli possa fare compagnia. Supera
l’Allianz
Arena mentre punta verso nord sulla A9, il traffico è
scorrevole.
Mentre
viaggia cerca di non indugiare su certi pensieri, non vuole che le sue
ossessioni prendano il sopravvento. Prova a distrarsi osservando il
paesaggio
al di là del parabrezza ma quella zona della Baviera
è piuttosto noiosa,
pianure con campi coltivati a perdita d’occhio e qualche zona
industriale.
Tamburella con le dita della mano destra sulla leva del cambio, supera
alcune
auto più lente. All’altezza di Ingolstadt
attraversa il Danubio, i prati
lasciano il posto a zone più boschive.
L’autostrada continua il suo percorso,
si ritrova a canticchiare il ritornello della canzone che sta passando
alla
radio ‘All the other kids with the pumped up kicks
You better run, better
run outrun my gun All the other kids with the pumped up kicks You
better run,
better run faster than my bullet’ e intanto scuote
la testa. Si ricorda di
come il ritmo lo avesse stregato al primo ascolto e poi la lettura del
testo
gli avesse fatto venire il mal di pancia.
Continua
a guidare.
Rallenta
quando ormai ha quasi raggiunto Norimberga, ha lasciato la A9 e si
è spostato
sulla A3, direzione ovest. Un cantiere stradale ha causato un
po’ di coda, per
percorrere quel tratto gli ci vogliono quindici minuti in
più rispetto a quanto
previsto. Alla sua destra e alla sua sinistra ci sono alberi e boschi,
di
fronte a sé vede solo l’asfalto che corre verso la
meta.
Decide
di fermarsi per una sosta dopo quasi tre ore di viaggio, ormai manca
poco. Fa
rifornimento all’auto, poi si sgranchisce le gambe entrando
nella stazione di
servizio. Ordina un caffè, dà una rapida occhiata
ai titoli dei giornali.
Quando si rimette in marcia non sono ancora le quattro, supera il Meno.
Non ci
sono altri intoppi, meno di un’ora dopo arriva a destinazione.
È
il crepuscolo, il cielo si è tinto di blu cobalto.
Trova
parcheggio lungo la via, quando spegne il motore viene investito da un
turbine
di emozioni.
Sono
arrivato fin qui e non torno indietro. Posso solo andare avanti.
Chiude
per un istante gli occhi, appoggia la fronte sul volante, sbuffa.
E
poi si fa coraggio, ancora una volta zittisce quella voce che vorrebbe
redarguirlo e metterlo in guardia, trattenerlo, elencargli le mille
ragioni –
tutte valide - che rendono quell’idea una pessima idea.
Ha
deciso, il momento è arrivato.
Espira,
si limita ad afferrare il cellulare, il portafoglio e le chiavi della
macchina,
esce e si incammina sul marciapiede. Casa sua dista poche centinaia di
metri,
sono una manciata di minuti a piedi. Quando ci arriva davanti stringe i
pugni,
nervoso.
Le
luci sono accese, c’è qualcuno.
È
una buona notizia, non ho fatto un viaggio a vuoto.
Ma
non posso nemmeno aggrapparmi a questa scusa per fare dietrofront.
Vado
avanti.
Deglutisce.
I
citofoni non riportano i nomi, ci sono dei numeri, ma questo non
è un problema
perché lui è già stato qui. Una volta
sola, ma ricorda tutto.
Digita
387, e poi aspetta.
Cinque
secondi.
E
poi sente la sua voce.
«Chi
è?»
«Genzo.»
C’è
un momento di silenzio, nessuno parla.
«Genzo?
E cosa ci fai qui?»
Genzo
sorride appena, si passa rapido la lingua sul labbro inferiore, si
sente quasi
sollevato adesso che ha rotto il ghiaccio.
«Sono
venuto qui per parlare con te.»
«E
di cosa vorresti parlare per essere venuto fin qui senza preavviso? Sei
per
caso impazzito?»
Fa
per rispondere, adesso sorride davvero, si sente finalmente a suo agio.
Fa per
rispondere e chiedere di farlo salire, vuole parlare faccia a faccia,
senza
filtri.
Ma
poi sente un’altra voce.
C’è
qualcun altro in casa.
Qualcuno
che sopraggiunge, che forse prima era in un’altra stanza e
adesso domanda chi
ci sia al citofono.
Sente
rispondere.
«È
solo un mio amico, passava di qui.»
Rimane
interdetto.
Poi
si riscuote.
«Hai
compagnia?»
«Sì.»
Genzo
sente una sgradevole sensazione soffocante che lo strizza proprio in
mezzo alla
pancia.
«Vuoi
entrare comunque? Se ti va ti puoi fermare a bere qualcosa.
Però non ti invito
a cena. Ho un impegno, ehm, romantico.»
Annaspa.
«Ah,
ok. No. No, meglio di no. Non voglio disturbare.»
«Ma
dai, ti sei fatto quasi quattrocento chilometri…»
«Non
importa.»
«Sicuro?»
«Certo.»
«E
le cose di cui volevi parlarmi?»
Gli
trema la voce.
«Lascia
perdere. Sono stato un idiota a presentarmi così senza
avvisare prima, io non…
Non pensavo avessi compagnia. Io ho fatto uno sbaglio. Ho sbagliato,
scusami.»
Sente
un sospiro.
«Mi
dispiace. Forse c’è stato un
fraintendimento.»
«Non
importa. Buona serata.»
Stringe
i denti, strizza gli occhi. Si gira, volta le spalle a quel
maledettissimo
citofono, alla casa, a quella via. Cammina in fretta, raggiunge
l’auto, si
mette a sedere. Quando è lì, celato agli occhi
del resto del mondo, impreca e
dà un pugno al sedile del passeggero.
«Dannazione!»
Si
sente un idiota. Un emerito idiota. Un ingenuo, un visionario, un pazzo.
Ha
fatto una stronzata.
Non
avrebbe dovuto agire d’impulso, ha rimediato solo
un’umiliazione.
Mette
in moto, mentre si allontana imposta il navigatore.
Arrivo
previsto a Monaco di Baviera alle ore nove e quarantanove minuti.
Esce
dal centro, imbocca la strada che lo porta di nuovo sulla A3.
Sente
il cuore battere furioso nel petto, adesso guida in modo nervoso. Pigia
il
piede sull’acceleratore, vuole mettere più
distanza possibile tra sé e quello
che è appena accaduto. Come se allontanarsi possa servire
a far sbiadire il
ricordo di quello spiacevole scambio.
Si
domanda per un attimo se esista la possibilità di salvare la
faccia, se magari
un domani potrebbe negare di essere andato fin lì per
dichiararsi ricevendo in
cambio un due di picche.
Ma
poi si ripete che in fondo non è successo niente di
irreparabile, non si è
esposto più di quel tanto, non ha fatto in tempo a dire
niente di
compromettente. Non in modo esplicito.
Fa
una smorfia e digrigna i denti.
Non
sono un codardo. Non mi serve nascondermi dietro
l’ambiguità.
Prova
a rilassare le spalle, a respirare con più calma.
Va
tutto bene. Non è successo niente.
Imbocca
di nuovo l’autostrada, torna a cercare una stazione radio che
possa fargli
compagnia e comincia a macinare chilometri.
Per
tutto il viaggio le luci delle auto che marciano in senso contrario gli
sembreranno violente come schiaffi, la strada scorre nera e
indifferente verso
sud, non vedrà altro.
Note:
Questa
è la storia che
riprende le fila dei discorsi lasciati in sospeso un po’ in
tutta la serie
Lonely Hearts e Winners & Loser e chiude quel cerchio nato da
un incontro
casuale in aeroporto a Francoforte qualche anno prima.
Genzo
e Kojiro in questa
storia hanno delle caratteristiche diverse dal canon, ma hanno dieci
anni in
più del canon, e sono il frutto dei percorsi di vita che
avevo tratteggiato per
loro.
Pubblicherò
un capitolo a
settimana, di lunedì.
Ringrazio
fin da subito chi
dedicherà del tempo alla lettura.
P.S. Auguri di buon Natale!
|
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Capitolo 2 *** Punto di origine ***
Punto di origine
Estate,
due mesi dopo Miami
Era
stata tutta colpa di Miami. Di quella vacanza vissuta
l’estate prima, lui, Karl
e Kojiro, quella che avevano poi soprannominato “la
becera”.
Tre
calciatori di trentun anni, single da poco. Sole, spiagge, donne e
locali alla
moda.
A
Genzo capitava spesso di ripensarci. Alle risate e alle serate sopra le
righe,
ma soprattutto a quella notte nella villa del rapper che avevano
conosciuto a
South Beach. A quella festa a cui lui nemmeno voleva andare, erano
stati gli
altri due a insistere e a convincerlo per sfinimento. La situazione si
era
presentata da subito parecchio ambigua, c’erano alcol e droga
a fiumi,
prostitute e spogliarelliste, gente che faceva sesso in ogni angolo.
Karl li
aveva mollati in fretta e senza tante cerimonie per andare a imboscarsi
con una
delle ragazze, e lui e Kojiro erano rimasti in quel salone, sballati
dal fumo,
disinibiti dallo champagne, a gustarsi lo spettacolo messo in scena
davanti ai
loro occhi. Donne nude, ansiti e gemiti, a un certo punto il calore si
era
fatto insopportabile. E poi era successo. Era stata un’idea
sua, aveva
approcciato la ragazza bionda, Sylvia, e le aveva proposto di fare
sesso in
tre. Kojiro non aveva battuto ciglio, erano saliti al piano superiore.
E
le cose non erano andate esattamente come si era immaginato.
Gli
ci erano voluti alcuni giorni per riprendere una parvenza di
normalità e per
addomesticare certe idee, era stato uno sforzo immane perché
in quei giorni
stavano sempre insieme. Fianco a fianco. In alcuni momenti da soli. Ma
era
stato bravo, aveva indossato la sua solita maschera, in qualche modo ci
era
riuscito.
E
adesso gli capitava di domandarsi se certi pensieri sfiorassero anche
l’altro,
se qualche volta ci pensasse anche lui. A Miami Kojiro non gli era
parso per
niente turbato, superato quello stato di comprensibile shock della
notte stessa
la mattina dopo era tornato il solito Hyuga. Come se quella camera da
letto non
fosse stata testimone di certe cose, come se non gli avessero lasciato
un
segno. Ma Genzo quel segno lo sentiva bruciare sulla pelle.
E
così si ritrovava a pensarci, gli capitava mentre era da
solo. Al volante della
sua auto, sotto la doccia, sdraiato a letto in attesa di prendere
sonno.
Pensava a Miami, e poi chissà perché pensava agli
allenamenti della Nazionale,
alle loro sfide, sul campo e fuori. Ci rimuginava e provava a cercare
un
significato che non riusciva ad afferrare.
Si
sarebbero incrociati in campionato all’inizio di settembre.
La partita era
stata preceduta da varie frecciatine arrivate sottoforma di messaggi
Whatsapp
in orari improponibili, con Kojiro che lo stuzzicava per il gol preso
in
trasferta a Friburgo ‘Sì, bravi, tre
successi su tre ma hai preso un gol,
Adamu te l’ha infilata!’, Genzo che
ribatteva con risposte piccate ‘Ma
che carino che controlli le mie performance… Aspetto di
vedere la tua la
prossima settimana!’.
Karl
era stato per lo più testimone silenzioso dei loro scambi,
ma una sera, mentre
cenava con il suo migliore amico dopo l’allenamento, aveva
deciso di affrontare
la questione.
Di
sbieco.
«Venerdì
prossimo incontriamo l’Eintracht di Hyuga.»
Genzo
aveva annuito tamponandosi le labbra con il tovagliolo e poi allungando
le
gambe sotto il tavolo.
«Già.
Lo so bene. Mi sta martellando quotidianamente.»
L’altro
aveva sollevato un sopracciglio, incuriosito.
«Ma
dai…»
«Hai
voglia. È carico a molla. Continua a blaterare
dell’intenzione di farmi goal da
fuori area, ma ti pare?! È da quasi diciannove anni che va
avanti con questa
storia.»
Karl
a quel punto aveva sorriso ironico, Genzo non sembrava averci fatto
caso.
«È
la sua ossessione da quando andavamo alle elementari, è
pazzesco...» aveva
continuato scuotendo la testa.
«C’è
quasi qualcosa di romantico in questa vostra sfida, sai?
Un’ossessione che dura
da diciannove anni… Non è da tutti.»
aveva commentato sardonico il tedesco.
L’altro
non aveva ribattuto subito, era rimasto interdetto. Aveva sbattuto le
palpebre
e poi si era riscosso, contrariato.
«Ma
fottiti.»
«Come
siamo suscettibili! Che ho fatto, ho accidentalmente sfiorato un nervo
scoperto?»
Genzo
aveva posato la forchetta, l’aria scocciata.
«Senti,
piuttosto. Dovremo organizzare una cena o un’uscita noi tre
qualche volta, non
credi? Anche solo per ricordare le imprese di Miami.»
«Lo
faremo. Sicuro. Voglio farmi raccontare com’è
andata con sua madre, chissà se
si è accorta della faccenda del naso rotto.» Karl
lo aveva fissato negli occhi,
improvvisamente serio «Comunque… Cerca di non
farlo segnare, ok?»
E
Genzo era scoppiato a ridere.
«Ma
figurati. Non ha speranze. Hyuga non ha speranze con me.»
Lo
scontro con l’Eintracht era andato in scena un
venerdì sera all’Allianz Arena.
Nonostante gli sforzi profusi da ambo le parti il risultato si era
fermato su
un deludente zero a zero, nessuna delle due squadre era riuscita a fare
goal.
Gli attacchi del Bayern non erano andati a segno; Kojiro da parte sua
ci aveva
provato sia da dentro che da fuori area ma non c’era stato
nulla da fare: la
solidità del reparto difensivo non aveva permesso la
creazione di occasioni realmente
pericolose, e Genzo in porta era stato una saracinesca.
Si
erano salutati a bordo campo prima di rientrare negli spogliatoi,
Kojiro gli si
era avvicinato, quando era lì a due passi l’altro
gli aveva dato una pacca
sulla spalla.
«Non
ci sei riuscito neanche stavolta.»
Aveva
sbuffato e poi gli era scappato un ghigno.
«Stasera
eri in uno stato di grazia.»
Un
sorriso serafico.
«Già.
Chissà, magari prima o poi arriverà anche il tuo
momento.»
«Ma
vaffanculo.»
«Ehi!
Dai, non fare il permaloso. Permettimi di sfotterti, mi hai stressato
per
quindici giorni…»
Kojiro
aveva scosso la testa.
«Arriverà
il mio momento, e ci rimarrai di merda. Te lo posso
assicurare.»
«Ok…
Senti…» aveva provato a proporglielo mentre
intanto si incamminavano «Momento o
non momento, io stavo pensando che dovremmo rivederci, una sera. Io, te
e Karl.
Che ne dici?»
«Sì.
Certo, volentieri.» aveva sospirato e distolto lo sguardo
«Non è semplicissimo da
organizzare ma ci possiamo provare.»
«Ok.»
aveva annuito «Magari un pomeriggio, la prossima settimana?
Domenica?»
«Questa
domenica sono già impegnato. Quella dopo?»
«No.
Quella dopo giochiamo. Tra tre domeniche.»
Kojiro
si era fermato, si era toccato il mento, pensieroso.
«Sì.
Sì, magari tra tre domeniche può
andare.»
Genzo
aveva sorriso.
«Bene.
Allora… ci sentiamo.»
«Sì,
Wakabayashi. Ci sentiamo.»
Gli
aveva strizzato appena un braccio e poi si era allontanato a passo
svelto.
Genzo
era rimasto per alcuni istanti a guardarlo entrare nel tunnel.
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Capitolo 3 *** L'incontro ***
L’incontro
Ottobre
Erano
trascorse tre settimane senza intoppi né colpi di scena, a
Berlino il Bayern
aveva conquistato un’altra vittoria. Poi avevano incontrato
lo Stoccarda e
l’Augsburg in Campionato e il Preußen
Münster al primo turno della DFB-Pokal,
inanellando un successo dietro l’altro. Gli animi erano
caldi, caldissimi, a
Sӓbener Straße si respirava un’avvolgente atmosfera
di ottimismo che galvanizzava
giocatori e staff.
Kojiro
non si era fatto sentire per organizzare quella rimpatriata, Genzo, da
parte
sua, si era limitato a rimanere in attesa di un cenno che non arrivava.
L’Eintracht aveva subito una sconfitta contro il Wolfsburg e
portato a casa
soltanto due punti nelle ultime tre giornate. Si era detto che forse
Kojiro non
era dell’umore giusto, forse sarebbe stato meglio lasciar
passare un po’ di
tempo.
Il
messaggio era infine arrivato inaspettato un martedì
pomeriggio.
K.
‘Ciao, scusa se poi non mi sono fatto sentire ma
è stato un mese
impegnativo. Ho controllato il calendario, che ne dici di domenica
14?’
Non
era riuscito a trattenere un sorriso.
G.
‘Andata. Scendi tu? Saliamo noi?’
K.
‘Stavolta vi aspetto qui. Vediamoci per
pranzo.’
G.
‘Ok!’
Aveva
messo via il telefono prima che lo raggiungesse Karl, l’amico
si stava
asciugando i capelli con una salvietta. Si era fermato proprio di
fronte a lui.
«Gen,
a che ora stasera?»
«Sette
e mezza. Passo io a prenderle tutte e due, ci vediamo direttamente
là.»
Karl
aveva annuito pensieroso. Avevano in ballo un’uscita a
quattro con due amiche.
Una pessima idea, a dirla tutta, nessuno dei due ne era entusiasta, la
faccenda
puzzava troppo di appuntamento combinato ma ormai erano in ballo e
avrebbero
ballato.
Genzo
si era allacciato con tutta calma le scarpe, poi si era infilato il
giaccone. Aveva
fatto per dirgli della proposta di Kojiro, per tre volte, ma si era
morsicato
la lingua. Aveva deciso di aspettare, in fondo non c’era
nessuna fretta. Per
cui si era limitato a salutarlo.
«A
dopo, allora.»
«Sì.
A dopo.»
La
cena con Dagmar e Uta si era rivelata un flop, come da pronostico.
Erano
entrambi distratti, la bellezza appariscente delle due donne e
l’ottimo menù
non erano stati sufficienti per salvare la serata. Mentre erano rimasti
soli per
alcuni minuti Karl gli aveva confessato di essere ancora preso dalla
sua ex,
Genzo lo aveva ascoltato e si era limitato a metterlo in guardia. Non
aveva
raccontato niente di sé, aveva preferito glissare e restare
sul vago. La realtà
era che non gli importava niente di Dagmar né di come
avrebbe concluso
quell’appuntamento, soltanto non riusciva a smettere di
pensare a quando
sarebbe andato a Francoforte. Aveva avuto qualche piccolo
tentennamento, una
parte di lui si sentiva quasi in colpa a fare tutto di nascosto. Ma poi
si era
detto che in fondo non avrebbe fatto proprio niente di male, di certo a
Karl
non interessava fare una rimpatriata, in quel periodo sembrava stare
bene con
le sue ossessioni.
E
così domenica 14 ottobre, alle otto di mattina, dopo aver
avvisato Kojiro che
si sarebbe presentato da solo, aveva preso l’auto e si era
messo in marcia
verso Francoforte. L’altro gli aveva scritto
l’indirizzo via messaggio.
K.
‘Fai uno squillo quando sei in zona, scendo e ti
faccio parcheggiare nel
box.’
Quattro
ore e mezza di viaggio, era arrivato puntuale – come suo
solito – per il
pranzo.
E
puntuale era stato Kojiro, lì sul marciapiedi, che gli
faceva dei gesti
affinché accostasse. Gli aveva aperto la portiera.
«Ehi,
ciao!»
«Vai
avanti per cinquanta metri, poi metti la freccia a sinistra. Ti apro io
con il
telecomando.»
Aveva
parcheggiato in silenzio, spento l’auto, poi era rimasto in
attesa di
istruzioni.
«Saliamo
dalle scale, tanto abito al piano terra.»
Genzo
lo aveva guardato con aria interrogativa.
«Vivo
in un loft che mi ha messo a disposizione la società. Una
roba piuttosto
fighetta, potrebbe piacerti.»
Lo
aveva seguito, e mentre camminava alle sue spalle non era riuscito a
trattenersi dal dare una breve sbirciatina a quei glutei che vedeva
muoversi
sotto il tessuto della tuta. Ma si era riscosso subito, consapevole che
lasciare
liberi certi pensieri era una cosa inappropriata. Nel modo
più assoluto.
Il
loft era effettivamente piuttosto fighetto. Un trilocale di circa
centottanta
metri quadri, molto luminoso, arredato in uno stile contemporaneo dalle
linee
pulite ed essenziali. Non c’erano piante, né
fotografie alle pareti, soltanto
un paio di poster.
Kojiro
si era accorto che Genzo si era soffermato a guardarli.
«Me
li sono fatti regalare dal proprietario della libreria che
c’è in fondo alla
via. È materiale pubblicitario che aveva in negozio per
l’uscita di due volumi
in edizione speciale.»
«GOAT.
Greatest of all time… A tribute to Muhammad Ali.»
aveva fatto una smorfia
incredula «Non posso negare che sei una continua
scoperta.»
Kojiro
aveva fatto un mezzo sorriso.
«Mi
piace la lotta. Il senso di lotta che esprimono queste fotografie.
Trovo che mi
diano la carica, non so se capisci.»
«Penso
di capire.»
Si
erano guardati, poi aveva distolto lo sguardo.
Si
erano accomodati a mangiare sul robusto tavolo in ferro e legno
massiccio
posizionato al centro della zona giorno.
«Hai
cucinato tu?»
«Qualcosa.
Qualcos’altro è stato comprato. Se vuoi puoi
divertirti a indovinare…»
Genzo
aveva scosso la testa. Non voleva giocare. Non a quel gioco.
Voleva
solo godersi la compagnia dell’altro.
«È
molto bello. Il loft, dico.»
«Sì,
immaginavo che sarebbe stato nelle tue corde.»
«Ed
è anche nelle tue?»
«Forse.
Non ci ho mai pensato seriamente.»
Aveva
sollevato un sopracciglio invitandolo a proseguire, Kojiro si era
stretto nelle
spalle.
«Non
mi sono mai lasciato andare fino a sentire questo posto casa mia. Sono
di
passaggio, e lo sapevo dal primo momento. Ma vivo qui ormai da un anno
e mezzo,
ci sto abbastanza bene.» si era interrotto solo per un paio
di secondi «Ma non
è casa mia.»
«Fino
a quando ti fermerai?»
«Ho
firmato un triennale. Salvo sorprese sarò qui fino alla fine
del prossimo anno.
Ma poi chissà.»
Aveva
annuito. Lui viveva a Monaco da una vita, e probabilmente avrebbe
concluso lì
la sua carriera. In realtà non ci aveva mai pensato sul
serio, non ancora.
«Il
contratto scadrà quando avrò trentatré
anni. Spero di poter giocare ancora e
ancora, ma non dipende solo da me, lo sai bene anche tu.»
«Già.»
si era toccato il mento, pensieroso «Siamo ormai nella fase
finale delle nostre
carriere, ma credo che possiamo ancora toglierci qualche soddisfazione,
non
credi?»
«Certo.»
«Ma
la verità è che quel giro di boa
l’abbiamo compiuto qualche anno fa.»
Kojiro
non aveva ribattuto subito. Era rimasto fermo, la forchetta tra le
dita, lo
sguardo per un attimo perso nel vuoto. Poi aveva parlato, ma si era
limitato a
dire tre parole.
«Sì,
è così.»
Dopo
pranzo avevano preso posto sul divano. Kojiro gli aveva domandato se
avesse
voglia di fare due passi ma Genzo aveva risposto di preferire restare a
casa.
«Non
ho molta voglia di venire fermato per strada, ti scoccia se restiamo
qui?»
«Ok,
come preferisci tu.»
In
realtà non gli importava di eventuali tifosi che avrebbero
potuto importunarlo,
di solito era piuttosto disponibile a firmare qualche autografo. Ma
voleva rimanere
in quel loft, assorbire l’aria di quella stanza e sentire
quegli ambienti,
conscio del fatto che non gli sarebbe ricapitata un’altra
occasione tanto
presto. E così avevano trascorso un altro paio
d’ore, chiacchierando degli
impegni della Nazionale, dei futuri incontri in Bundesliga e qualche
altro
argomento neutrale come i progetti per le vacanze di Capodanno.
Ad
un certo punto Kojiro aveva fatto una strana smorfia, le braccia
conserte, e
aveva piegato la testa all’indietro fino ad appoggiarsi al
cuscino del divano,
con il collo teso. Genzo osservava il suo profilo.
«Ma
lo sai che con te parlo tantissimo?»
«Dici?»
«Sì!
Accidenti, quanto parlo quando sono te!»
«È
una buona cosa. No?»
«Sì…
No. Boh, non lo so. È una cosa strana. Ma è vera,
è così, da quando abbiamo
cominciato a vederci qualche anno fa. Sei l’unico con cui
parlo così tanto.»
«Forse
è perché ti ascolto. Io ti ascolto sul serio e a
te viene voglia di parlare.»
«Anch’io
ti ascolto.»
«Davvero?»
gli aveva domandato Genzo.
«Davvero.»
In
quel momento allora avrebbe voluto parlare e dire tutte quelle cose che
gli
frullavano in testa da Miami. Dei sogni, dei pensieri che lo assalivano
in ogni
momento. Dei ricordi di quelle emozioni che si affacciavano senza
preavviso in
ogni ora del giorno.
Aveva
deglutito, si era fissato per un po’ le mani.
Ci
aveva provato.
«Ogni
tanto mi capita di ripensare a Miami…»
«Anche
a me.»
Aveva
spalancato gli occhi, un brivido leggero era corso giù per
la sua schiena per
fermarsi all’altezza dei lombi e dilatarsi in una specie di
bolla. Aveva
trattenuto il fiato.
Poi
Kojiro aveva ripreso.
«Che
vacanza allucinante… Mia madre grazie al cielo non ha fatto
troppo caso alla
mia faccia, non ho dovuto raccontarle niente. È passato
tutto sotto silenzio.
Anche il finto flirt con Stella Seymour!»
Ed
era scoppiato a ridere.
«Solo
mia sorella è arrivata a chiedermi delucidazioni, e io le ho
risposto: ma ti
pare? Lo sai che scrivono sempre un mucchio di
fesserie…»
La
bolla era scoppiata.
Genzo
aveva fatto un sorriso stiracchiato e aveva annuito.
Alle
quattro del pomeriggio si era congedato.
«È
meglio che vada, se parto adesso dovrei essere di ritorno a casa prima
delle nove
anche fermandomi a mangiare per strada.»
«Ok…
È stato bello rivederti.»
«Sì.
Anche per me.»
Si
erano alzati, guardandosi negli occhi, una volta ancora.
«Ricambierò
la visita. Quando mi inviti scendo da te a Monaco. Così
saluto anche il biondo.»
«Già.»
Genzo aveva annuito «Naturalmente. Ci conto.»
Gli
aveva stretto la spalla, un contatto breve ma che gli era quasi
sembrato
disperato. Stava morendo dalla voglia di toccarlo.
E
poi era rimasto lì, quasi interdetto, con altre parole che
gli si erano
incastrate in gola. Era stato impossibile farle uscire, aveva dovuto
ingoiarle.
Un
sorrisetto.
Si
era infilato le scarpe, ma prima di andarsene davvero si era voltato
per un’ultima
domanda.
«Qual
è il tuo citofono?»
«Il
mio citofono? Cos’è, ti vuoi presentare qui a
sorpresa?»
«Se
capita…»
Aveva
scosso la testa, sembrava divertito.
«387.»
Soltanto
allora Genzo aveva fatto un cenno di saluto e aveva richiuso la porta.
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Capitolo 4 *** Il livello successivo ***
Il
livello successivo
Autunno
Era
stata una rivelazione improvvisa, collocabile nello spazio e nel tempo,
in un
luogo e una data precisi.
Quella
notte di giugno a Miami. Quando l’aveva visto nudo, eccitato,
fare sesso
davanti a lui con una donna. Insieme a lui, perché erano
lì vicini, tanto
vicini da sfiorarsi, più e più volte. Erano
insieme, ma insieme in un modo
diverso. Genzo aveva pregustato per anni quei momenti, sollazzandosi in
più
occasioni sotto la doccia, ma niente si era rivelato come aveva
immaginato. Quella
dannata notte si era ritrovato a fissare Kojiro rimanendo senza fiato,
i suoi
muscoli tesi e le sue smorfie, non era riuscito a distogliere lo
sguardo. E
l’altro non se ne era nemmeno accorto, concentrato sulle sue
sensazioni, forse perso
nei fumi dell’alcol che aveva bevuto.
Per
Genzo era stata una rivelazione improvvisa.
L’ammissione
a sé stesso e l’accettazione invece erano state un
percorso lento, e che non si
era ancora del tutto compiuto.
Come
un velo che viene sollevato poco per volta e mette finalmente in mostra
ciò che
per quasi una vita intera aveva solo lasciato intuire in qualche rara
occasione.
Ci
rimuginava in quelle settimane d’autunno, quando cercava di
trascorrere il suo
tempo libero da solo con i suoi pensieri. Non aveva più
cercato compagnie e
distrazioni femminili, le uniche persone che riusciva a frequentare con
continuità erano Karl e Katrin. La bimba rappresentava una
ventata di spensieratezza,
padre e figlia lo costringevano inconsapevolmente a fare i conti con il
mondo
reale e a fargli tenere i piedi ben saldati a terra.
Ma
in quelle settimane d’autunno il velo era stato infine
strappato, impigliatosi
in quei pensieri ormai diventati ossessione, e aveva esposto,
inesorabile, una
realtà negata da troppo tempo. Un intrico di menzogne a cui
si era aggrappato
per anni, che gli era stato necessario come l’aria che
respirava. Aveva
guardato con sgomento l’ipocrita impalcatura morale che si
era costruito per
proteggersi, l’aveva vista davvero per la prima volta.
Quell’impalcatura che
l’aveva condannato a vivere con un senso di appiccicosa
indolenza e di angoscia
atavica. Che gli aveva garantito una costante insoddisfazione e
un’inquietudine
di fondo, spingendolo a scappare di letto in letto, un lungo elenco di
conquiste vuote e insapori.
Aveva
pianto.
Il
suo cuore gli apparteneva da tempo? Quanto tempo? Non aveva una
risposta. Forse
pochi mesi, oppure pochi anni, da quando avevano preso a frequentarsi
dopo
quell’incontro in aeroporto. O forse addirittura dal primo
istante in cui si
erano incrociati i loro sguardi, poco più che bambini, su
quel campetto? Non lo
sapeva, non era più sicuro di niente.
I
giorni quell’autunno si susseguivano tutti uguali, uno dopo
l’altro. Si immergeva
negli impegni quotidiani cercando di mettere a tacere i suoi desideri,
troppo
spaventato all’idea di affrontare quella nuova
realtà, finché una mattina la
voglia di rivederlo si era fatta insopprimibile.
Il
ventisette novembre Genzo si era deciso, aveva scritto un messaggio a
Kojiro
per invitarlo a Monaco in occasione del suo compleanno la settimana
seguente.
G.
‘Ciao! Abbiamo un invito a Monaco in
sospeso… Che ne dici di approfittare
del compleanno del sottoscritto? Settimana prossima, domenica
sera.’
Gli
aveva risposto dopo pochi istanti.
K.
‘Volentieri! Cosa mi devo aspettare?’
Un
ghigno.
G.
‘Non lo so. Sono anni che lascio tutto in mano a
Karl, ci pensa lui. Sicuro
si finisce la serata in un locale, ma quello che succede prima
è sempre una
sorpresa.’
K.
‘Ok. Corro il rischio.’
E
dopo cinque secondi.
K.
‘Pensa cosa sono disposto a rischiare pur di stare
in tua compagnia’
Tutto
si era fermato.
Genzo
era rimasto senza fiato, il telefono in mano.
Non
era nemmeno sicuro di aver letto bene, stava per controllare quando
Kojiro aveva
subito ripreso a scrivere.
K.
‘Mi fermo a dormire da te o mi devo prendere una
camera?’
Le
dita erano corse veloci.
G.
‘Stai da me.’
L’altro
gli aveva risposto con l’emoji del pollice alzato e poi si
era disconnesso da
Whatsapp.
E
lui all’improvviso si era accorto di avere il battito
accelerato e le mani
sudate e si era sentito un cretino.
A
Francoforte, Kojiro aveva mollato in fretta e furia il telefono sul
tavolo da
pranzo come se scottasse e si era spostato in cucina per versarsi un
bicchiere
d’acqua. Aveva indugiato davanti al lavandino, i gomiti sul
ripiano, la testa
china. Non sapeva che cosa gli fosse preso ma tutto ad un tratto si era
reso
conto di stare flirtando con Genzo. Flirtando con dei messaggi, come
avrebbe
fatto con una ragazza.
Aveva
sbuffato, e poi si era stiracchiato le braccia dietro la schiena.
Non
sono impazzito. Stavo solo scherzando. Era solo una battuta.
Santiddio.
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Capitolo 5 *** Sfiorarsi ***
Sfiorarsi
Dicembre
G.
‘Sono felice che quest’anno ci sia anche
tu’
K.
‘Quest’anno il calendario ci aiuta!
Sarò a Monaco per le sei e mezza’
Erano
usciti a cena, un gruppo di nove, aveva organizzato tutto Karl come da
copione.
Mentre erano seduti a tavola, vicini, i tre si erano divertiti a
ricordare alcuni
aneddoti della loro vacanza insieme.
Kojiro
non aveva perso tempo e aveva apostrofato il tedesco
«Chissà come se la starà
passando Stella… Stiamo tutti aspettando la canzone che ti
dedicherà!»
Aveva
fatto una smorfia allusiva a sottolineare la presa in giro.
«Ragazzi,
arriverà. Io ne sono sicuro.»
Kojiro
era scoppiato a ridere e poi si era scambiato uno sguardo complice con
Genzo.
«Certo,
certo... Lo pensiamo anche noi! Vero, Genzo?»
«Certo,
come no. Possibilmente una canzone ispirata alle tue doti da seduttore,
e non
alle sue da disturbatore!» e così dicendo gli
aveva tirato una pacca sulla
schiena.
«Ehi,
tieni le mani a posto!»
«Ma
invece, tua madre?» gli aveva domandato Karl interrompendoli.
«Mia
madre cosa?»
«Davvero
non si è accorta del naso?»
«Macché.
Ormai i segni sotto gli occhi non si vedevano praticamente
più, le ho detto che
erano occhiaie da jet lag e che avrei dovuto recuperare un
po’ di riposo perché
era stata una vacanza sfiancante. Mi ha creduto. Forse mi voleva
credere.»
«Ma
sei un figlio terribile!»
«Al
contrario.» aveva fatto spallucce «Le risparmio di
agitarsi per niente. È un
atto di gentilezza.»
A
quel punto era intervenuto Genzo.
«Mi
dispiace per il tuo naso… È stata colpa
mia.»
Karl
lo aveva guardato con un’espressione stupita, Kojiro dopo un
attimo di
incertezza aveva sbuffato.
«Ti
sei già scusato a sufficienza a suo tempo, non serve che tu
lo ripeta. Mi
ricordo come era andata, ed è stata anche colpa
mia.»
E
così dicendo aveva voluto chiudere la questione,
scoraggiando eventuali altri
tentativi di tornare sull’argomento.
Erano
rimasti in silenzio per alcuni secondi, poi Karl aveva controllato
l’orologio.
Genzo
aveva fatto un sorriso stiracchiato per poi cambiare discorso.
«Che
cosa hai pianificato quest’anno? Abbiamo il tavolo al
P1?»
«Non
subito. Quest’anno ho voluto cambiare un po’. Ormai
stavo diventando
ripetitivo, ho pensato che fosse l’ora di introdurre qualche
elemento di
novità.»
«Ah.
Ho quasi paura.»
«Ma
no!»
«Almeno
non lasciarmi sulle spine!»
L’amico
aveva allargato lo sguardo alla tavolata.
«Siamo
in pochi rispetto al solito. Mi sembrava carino cambiare un
po’ registro.»
«Che
hai fatto?»
«Ci
aspetta un’Escape room. Tra venti minuti.»
Kojiro
aveva spalancato gli occhi.
«Un’Escape
room?»
«Esatto.»
Anche
Genzo era sbalordito.
«Questa
volta sei riuscito a lasciarmi senza parole.»
Mezz’ora
dopo erano sul posto per partecipare a quella simulazione di fuga da un
ospedale psichiatrico rivisitato in tema horror. Era stato tutto
sommato
divertente, anche perché l’alcol che avevano
ingerito aveva sciolto le
inibizioni che rischiavano di rendere difficoltoso il successo di
quell’esperienza alternativa. C’erano state
tensione e adrenalina, l’intervento
degli attori aveva creato la giusta dose di panico. A Dejan, un
compagno di
squadra, uno dei più giovani, all’improvviso era
sfuggito un grido spaventato
che aveva causato l’ilarità generale. Kojiro se
l’era cavata egregiamente
mantenendo il sangue freddo necessario, Genzo ne era rimasto
piacevolmente
sorpreso. Aveva dato il suo contributo nella risoluzione degli enigmi,
in meno
di un’ora la squadra era riuscita a compiere la missione. Ma
soprattutto i due erano
restati vicini per diverso tempo in un corridoio al buio, e il calore
del corpo
dell’altro lo aveva quasi ipnotizzato.
Alle
undici avevano lasciato qualche autografo, poi si erano recati tutti al
P1 dove
sarebbero rimasti a festeggiare fino a tardi.
Avevano
fatto ritorno a casa alle tre del mattino, piuttosto stravolti.
«Ma
lo sai che a Francoforte io non faccio questa vita? Mi ritrovo nei club
soltanto quando sono in giro con te e Karl…» aveva
borbottato Kojiro mentre si
toglieva le scarpe all’ingresso e si grattava un orecchio
«E mi sento tutto
rincoglionito, la musica così ad alto volume –
quella musica – mi sembra che mi
renda sordo. Ma non ho sonno, anche se sono stanco. Sarà
colpa dell’agitazione
che mi ha messo addosso l’Escape room…»
«Io
penso di farmi una doccia.»
«Eh?
Ma mi ascolti quando parlo?»
«Sì.
Ti ascolto. Ti senti rincoglionito. Sei stanco ma non hai sonno.
Anch’io.
Proprio per questo motivo vado a farmi una doccia. Forse dovresti anche
tu.»
Kojiro
aveva incrociato le braccia al petto e gli aveva lanciato
un’occhiataccia.
Genzo non aveva battuto ciglio, sembrava quasi impermeabile alle
reazioni dell’altro.
«Nel
caso, trovi tutto quello che ti serve nel bagno del piano terra, quello
di
fronte alla tua camera… Io… Io penso di
salire.»
«Ma
che ti prende? Non mi offri almeno un bicchiere
d’acqua?»
Aveva
fatto per ribattere ma non era uscito nessun suono, aveva annaspato.
«Ok,
chiaro. Allora se non ti disturba faccio da solo.»
«No.
Ok. Andiamo in cucina.»
Aveva
preso la bottiglia di Evian dal frigorifero, l’aveva versata
in due bicchieri.
Avevano bevuto in silenzio, Kojiro lo guardava di sottecchi. Era il
più sobrio
dei due, si era limitato a un calice di vino a cena e a una sola
flûte in
discoteca. Ma Genzo no, in quanto festeggiato i suoi amici si erano
premuniti
di fargli avere sempre in mano qualcosa da bere. E aveva bevuto.
«Sei
sicuro di star bene, Wakabayashi?»
«Perché
adesso mi chiami per cognome? Hai cancellato i ricordi degli ultimi
mesi?»
«No.
Mi è… mi è uscito
così.»
«Ok,
Hyuga.»
Kojiro
aveva scosso la testa ma non aveva fatto in tempo a dire la sua.
«E
comunque sì, sono sicuro di stare benissimo. Ho solo caldo,
dormirò con la
maglietta a maniche corte. E soprattutto ho voglia di lavarmi, mi sento
il
sudore addosso e non sono nemmeno sicuro sia il mio.»
«Ok.»
«Bene.»
«Allora
grazie per l’acqua. Vado a lavarmi
anch’io.»
«Bene.»
«Buonanotte,
Genzo.»
Gli
aveva dato le spalle ed era uscito dalla stanza.
Genzo
era rimasto lì, appoggiato al ripiano della cucina, gli
occhi chiusi. A
sentirsi un deficiente.
Muoversi
gli era costato parecchia fatica ma finalmente ad un certo punto era
riuscito a
spostarsi ed era salito al piano superiore dove si trovava la camera
padronale.
Si
era spogliato per poi rinchiudersi in bagno e si era infilato sotto la
doccia,
godendosi il getto d’acqua e il profumo del docciaschiuma.
E
poi, dopo essersi asciugato, aveva indossato una t-shirt e i boxer e si
era
sdraiato sul suo letto.
Ma,
come aveva temuto fin dal primo momento in cui Kojiro aveva messo piede
nel suo
attico, non era riuscito a prendere sonno. E non a causa
dell’agitazione che
gli aveva trasmesso l’Escape room.
Aveva
atteso, immobile e supino. Le dita delle mani incrociate sul ventre.
Gli
sembrava di sentire il suo cuore battere, gli dava quasi fastidio, come
il
suono del suo stesso respiro. Fissava la parete di fronte dove era
posizionato
l’armadio. Cercava di distrarsi osservando i dettagli.
Non
funzionava.
Aveva
provato a fantasticare su qualcosa di rilassante, come i progetti per
un
prossimo viaggio, oppure di noioso, come il menù della
settimana seguente. E non
funzionava. Era solo frustrante.
Allora
aveva fatto l’unica cosa che aveva davvero voglia di fare,
era sceso al piano
inferiore. Scalzo, senza far rumore. Senza nemmeno accendere la luce,
non ce
n’era bisogno, sapeva come muoversi in casa sua.
Era
sceso e si era lentamente avvicinato all’altra camera.
Non
aveva avuto subito il coraggio di entrare, per un po’ si era
fermato sulla
soglia.
Lo
intravedeva appena, sembrava abbandonato al sonno. Aveva avvertito una
fitta di
invidia subito sostituita dal sollievo, in fondo se fosse riuscito ad
addormentarsi anche lui non si sarebbe trovato lì. Poteva
essere un bene,
poteva essere un male. Dipendeva da parecchie cose. Tanto per
cominciare da
quello che avrebbe deciso di fare. Era rimasto lì ancora per
qualche minuto,
incerto, quasi fosse stato in attesa di un segnale che non arrivava. E
poi,
senza preavviso, le sue gambe avevano cominciato a muoversi e
l’avevano portato
dentro la stanza.
Lo
aveva raggiunto, con lentezza. Aveva indugiato per alcuni istanti in
piedi
accanto al letto, trattenendo il fiato, emozionato, ma poi si era
seduto.
Accanto a lui. E si era sdraiato, lo sfiorava appena con il braccio.
Nonostante
il tocco appena accennato gli sembrava che avrebbe potuto prendere
fuoco. Aveva
assaporato quel momento come meritava, cercando di imprimere nella
memoria ogni
brivido. E infine non era più riuscito a soffocare quella
voglia, si era
sdraiato su un fianco, aveva sollevato una mano e lo aveva accarezzato.
Dapprima i capelli, ma poi era sceso più in basso, sfiorando
il collo, e poi la
spalla. Quel contatto era elettrico, sentiva qualcosa che partiva dalla
punta
delle sue dita e risaliva correndo dentro di lui, lungo i nervi o forse
le
vene, e arrivava al cuore. Il suo cuore che adesso batteva
all’impazzata, ma
non lo infastidiva più.
Genzo
aveva allora preso coraggio e gli si era avvicinato, ancora di
più. Aveva
annusato la pelle di Kojiro, il suo odore gli sembrava così
dolcemente
familiare ed estraneo allo stesso tempo. E aveva chiuso gli occhi,
estasiato.
L’eccitazione
che si sentiva addosso era quasi dolorosa, aveva soffocato un gemito.
Poi,
spaventato dalla sua stessa reazione, si era rialzato e, silenzioso,
era
risalito al piano superiore e si era rinchiuso nella sua stanza.
Si
era lasciato cadere sul letto, esterrefatto.
Non
era riuscito ad addormentarsi per molto, molto tempo.
Al
piano inferiore, anche Kojiro era sveglio. Era sempre stato sveglio,
aveva solo
finto di dormire.
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Capitolo 6 *** Terzo principio della dinamica ***
Terzo
principio della dinamica
Inverno
La
mattina seguente non era stato semplice alzarsi, e nemmeno compiere
quelle
azioni che in un giorno qualunque sarebbero state banali. Genzo, ancora
turbato
da quanto successo poche ore prima, si era chiuso in un mutismo
refrattario a
qualsiasi tentativo di intrusione, Kojiro pareva forzatamente allegro.
Si
erano trovati in cucina alle undici, il padrone di casa era intento a
preparare
il caffè.
«Buongiorno!
Sei poi riuscito a dormire? La doccia ha funzionato?»
«Sì.
Tutto bene.»
«Anch’io
sai? Ho fatto una doccia, ieri. Ho seguito il tuo consiglio, e in
effetti avevi
proprio ragione. Mi sono sentito subito meglio.»
Kojiro
si era stiracchiato allungando le braccia davanti al petto, poi si era
messo a
tamburellare con le dita sul ripiano in legno massiccio e a lanciare
occhiate
nella direzione di Genzo, che però continuava a dargli le
spalle, indaffarato.
«Faresti
un caffè anche per me, per favore? Ho bisogno di una bella
svegliata.»
«Sì.»
Lo
aveva osservato in silenzio, aveva intuito il suo imbarazzo che
tuttavia gli
pareva poca cosa rispetto a quella spiacevole sensazione che gli si era
appiccicata addosso poche ore prima e che non riusciva a ignorare.
Era
a disagio, Kojiro, e parlava a macchinetta cercando di ostracizzare il
rischio di
un silenzio carico di tensione che non sarebbe stato in grado di
gestire.
«Il
tuo letto per gli ospiti è molto comodo, te
l’hanno mai detto?»
«Sì.
Lo dice anche Karl.»
«Davvero
molto comodo, ho dormito bene. Anche se per poche ore.» aveva
afferrato la
tazza che l’altro gli porgeva «Grazie.»
«Prego.»
Aveva
allargato lo sguardo a tutta la stanza, si era soffermato sul paesaggio
al di
là della vetrata.
«Oggi
c’è un bel sole, chi l’avrebbe mai
detto? Soprattutto dopo la pioggia di ieri…»
Genzo
non aveva ribattuto, si era limitato a imburrarsi una fetta di pane
tostato.
Kojiro
a quel punto aveva sbuffato.
«Non
sembri aver molta voglia di parlare, o sbaglio?»
«Non
ti sbagli. Ho un po’ di mal di testa.»
Allora
aveva annuito, e all’improvviso aveva smesso di sorridere.
«Ok.
Allora io tra mezz’ora me ne vado.»
Solo
a quel punto Genzo lo aveva guardato negli occhi.
«Di
già?»
La
sua voce era risuonata quasi innaturale. Incredula e delusa.
L’altro
si era messo a giocherellare con il cucchiaino.
«Sì.
Prendo il treno dell’una. Preferisco non fare tardi, ho un
po’ di cose da fare.»
Genzo
aveva sentito qualcosa incrinarsi nel petto, ma aveva preferito
soprassedere e
simulare indifferenza.
«Ok.»
«Grazie
per l’ospitalità.»
«Non…
Non c’è di che.»
«E
di nuovo auguri di buon compleanno.»
«Sì.
Grazie.»
E
così dicendo, dopo aver raccolto la sua roba, Kojiro se ne
era andato, senza
fare alcun accenno alla possibilità di vedersi ancora.
Genzo
lo aveva guardato uscire senza proferire parola.
Erano
trascorsi alcuni giorni.
Non
si erano più sentiti nemmeno via messaggio, anche se
entrambi continuavano a scrivere
con una certa regolarità sulla chat della Nazionale.
Kojiro
aveva cercato con tutte le sue forze di mettere quanta più
distanza possibile
tra sé e il ricordo di quanto era successo quel sette
dicembre, di archiviare
quell’episodio in un angolino del cervello e possibilmente di
dimenticarselo in
fretta. Non voleva tornare a pensarci, richiamare alla memoria le
emozioni che
aveva provato gli procurava delle strane palpitazioni.
Genzo
da parte sua si sentiva quasi offeso, percepiva
un’inspiegabile freddezza nei
suoi confronti che non riusciva a capire e che lo riempiva di
risentimento. Aveva
pensato di chiamarlo, di fare per primo quel passo verso
un’ipotetica
riappacificazione, ma poi aveva desistito, perché si diceva
che in fondo non avevano
litigato e quindi non erano necessarie spiegazioni o altro. Ma ci
soffriva, e
ci rimuginava spesso. Gli mancava quella complicità che
sentiva di aver avuto
con lui, quando si divertivano a stuzzicarsi a qualsiasi ora del
giorno,
soltanto poche settimane prima. Kojiro sembrava avergli voltato le
spalle, dal
nulla, senza un motivo apparente. E Genzo, giorno dopo giorno,
cominciava a
credere che quel primo passo spettasse all’altro, e giorno
dopo giorno,
cominciò a sua volta a imporsi di guardare avanti e di non
indugiare più in
certi pensieri. Spaventato dalle sue stesse emozioni, cercava di
metterle a
tacere. In fondo, aveva vissuto per oltre trent’anni in un
certo modo, e sapeva
benissimo come comportarsi. Era un esperto a negare
l’evidenza a sé stesso,
poteva farlo ancora e ancora.
E
così ci aveva provato, per quasi tutto l’inverno.
Si
imponeva di censurare certe idee e certi impulsi - che una parte di
sé
continuava a trovare sconvenienti -, aveva archiviato la loro vecchia
chat di
Whatsapp per evitare di trovarsela davanti agli occhi. Non poteva
bloccare il
suo numero perché avevano troppo in comune, poteva
però limitare tante altre
cose. Si concentrava sulle partite e sugli allenamenti, frequentava la
casa di
Karl, si divertiva con Katrin. Aveva ricominciato a giocare a scacchi
nel tempo
libero, si era creato un profilo fittizio su una community online di
appassionati. Ogni tanto gli capitava di uscire per locali, ma sempre
più
raramente. Quando trovava compagnia erano solo incontri di sesso senza
altri
strascichi con donne molto disponibili.
Dicembre
se ne stava andando lasciando definitivamente il posto al lungo e
freddo
inverno bavarese.
Genzo
aveva festeggiato il Capodanno a Londra, lo aveva invitato suo fratello
Shuici.
Una
serata formale in black tie, aveva cenato in un ristorante stellato di
Mayfair
con altre quaranta persone, in gran parte sconosciute. Sua cognata gli
aveva
presentato Emma, una sua cara amica londinese, pensando di fare cosa
gradita.
Genzo l’aveva subito classificata come una noiosa quasi
trentenne in carriera,
egocentrica e dal tono di voce sgradevole. Erano seduti uno accanto
all’altra,
lei lo aveva stordito di chiacchiere banali sbattendo le lunghe ciglia
finte. A
fine serata gli aveva lasciato il suo numero di telefono, scritto in
bella
grafia su un pezzo di carta con la stilografica di lusso che teneva
nella
borsetta. Non aveva mai pensato di cercarla.
Tornato
a Monaco si era rituffato nelle sue abitudini: allenamenti e impegni
agonistici
con la squadra, partite di scacchi online e soprattutto Karl.
L’amico aveva
appena ricevuto una tremenda batosta dopo aver saputo
dell’esistenza di un
rivale in amore, ormai appariva sempre più convinto di
essere ancora innamorato
di Lena. Genzo lo ascoltava, sapeva di essere la sua valvola di sfogo.
E gli
piaceva ricoprire quel ruolo, perché gli permetteva di
nascondersi senza far
notare il suo silenzio.
Ma
il suo cuore continuava a sanguinare, e lui continuava a soffrire, con
discrezione, senza disturbare. Nascondendosi.
Nota:
Il
terzo principio della dinamica è conosciuto anche,
semplificando, come
principio di azione e reazione. L'enunciato del terzo principio della
dinamica
è: Per ogni forza che un corpo A esercita su un altro corpo
B, ne esiste
un'altra uguale, in modulo e direzione, e contraria in verso, che B
esercita su
A.
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Capitolo 7 *** Il muro ***
Il
muro
Kojiro
quell’inverno comincia a uscire con due ragazze
contemporaneamente, Diete e
Martha - che non sanno l’una dell’esistenza
dell’altra - con la precisa e
ambiziosa volontà di non ritrovarsi da solo con i suoi
pensieri per troppo
tempo.
Eppure,
continua a rimuginare su quanto è successo a Monaco, non
riesce a farne a meno,
per quanto si sforzi con tutto sé stesso.
Gli
capita di pensarci mentre si pettina osservando il suo riflesso allo
specchio, o
quando il tessuto delle maniche gli accarezza l’avambraccio
mentre si veste. La
sensazione delle dita di Genzo sui suoi capelli e sulla sua pelle torna
a farsi
sentire dirompente, e lo lascia sempre scombussolato. I ricordi di quei
momenti
sono vivi e pulsanti, e sembrano volerlo costringere a fare i conti con
sé
stesso, contro la sua volontà.
Quella
notte del sette dicembre, a casa di Genzo, si era ritrovato insonne e
inquieto.
Non riusciva a prendere sonno nonostante avesse provato a seguire il
consiglio
di farsi una doccia per lasciar scivolare via il rumore che sentiva
ancora
assordante nelle orecchie e quello strano senso di irrequietezza che lo
pervadeva da quando avevano messo piede nell’attico. Era
rimasto per una buona
mezz’ora sdraiato supino sopra le lenzuola, al buio con gli
occhi aperti,
finché non si era accorto che l’altro era
lì sulla soglia.
In
quell’istante il suo cuore aveva mancato un battito.
E
quando lo aveva visto entrare nella stanza camminando lentamente per
poi
fermarsi accanto al suo letto aveva trattenuto il fiato e la voce
perché, se da
una parte avrebbe voluto farsi sentire per domandare che cazzo avesse
intenzione di fare quel cretino, c’era stato qualcosa di
più forte che l’aveva
trattenuto. Come se fosse stato vittima di un incantesimo che pareva
averlo
incatenato. Forse era ammaliato da una situazione così
ambigua, forse ne era
semplicemente incuriosito oppure spaventato. E quei secondi di
esitazione
l’avevano in un certo senso costretto al silenzio,
perché, quando aveva
compreso davvero cosa stava per succedere, si era subito trovato la
mano di
Genzo addosso. Aveva trattenuto un grido, si era imposto di non muovere
neanche
un muscolo. Si era concentrato per mantenere il respiro il
più regolare
possibile, pensando - in un modo tanto ingenuo da sembrargli idiota
soltanto
pochi minuti dopo - che se avesse fatto finta di niente avrebbe potuto
comportarsi come non fosse successo niente.
Come
se il metodo di ignorare i problemi per farli scomparire abbia mai
funzionato
per qualcuno.
E
no, non sta funzionando nemmeno per lui, in quel lungo e freddo inverno.
Alla
fine di febbraio
E
poi accade. Succede all’improvviso, non
c’è una causa scatenante.
Genzo
si accorge che l’amarezza e i rimpianti si sono accumulati,
ignorarli non è
stato sufficiente. Sono diventati così pesanti da rischiare
di soffocarlo.
Una
fredda notte di febbraio si sveglia di soprassalto, il respiro
affannoso, il
cuore in gola.
Si
mette a sedere, infila le ciabatte e raggiunge il bagno, il suo
riflesso nello
specchio gli mostra un viso pallido e stravolto. Si lava la faccia,
mette i
polsi sotto l’acqua corrente cercando di calmarsi.
Si
sposta in cucina, si prepara una tisana.
Mentre
la sorseggia seduto su uno degli sgabelli decide che non può
continuare a
fingere che vada tutto bene.
Ammette
a sé stesso di stare male, molto male, di non riuscire a
smettere di provare
questo senso di struggimento che lo sta consumando da dentro.
È innamorato,
perdutamente innamorato come un ragazzino, e una parte di sé
se ne vergogna e
si sente in colpa per questi sentimenti così conturbanti.
Ma
esiste anche una voce che gli sussurra di osare, e che lo rassicura,
perché la
felicità premia solo gli arditi.
Si
stropiccia il viso con le mani, poi appoggia la nuca contro la parete.
Sospira.
Rimugina
su quanto sia accaduto fino a quel momento. Si ripete che tutto sommato
è
riuscito a tenere a bada i suoi pensieri e le sue azioni, ma percepisce
ormai
in modo chiaro e inequivocabile di essere molto vicino a un punto di
rottura.
Qualcosa
rischia di sfuggirgli di mano, e, se non correrà ai ripari,
sa che ci
potrebbero essere delle ripercussioni anche su altri aspetti della sua
vita. In
campo e fuori.
Posa
la tazza nel lavandino, controlla l’orologio. Sono le quattro
del mattino.
Non
può chiedere consiglio a nessuno perché nessuno
conosce il suo inconfessabile
segreto, può contare solo ed esclusivamente su sé
stesso.
È
così che decide di passare all’azione. Il giorno
dopo è sabato, non ha impegni.
Hanno giocato la sera prima in casa, l’Eintracht
scenderà in campo domenica a
Francoforte.
Quel
sabato, all’una del pomeriggio, Genzo prenderà la
sua auto e guiderà fino a
casa di lui. Suonerà quel citofono digitando 387,
presentandosi senza
preavviso, determinato a parlargli di sé e a confessare i
suoi sentimenti.
Costi quel che costi, giocandosi anche la reputazione.
Come
sappiamo, le cose non andranno come aveva sperato.
Quella
sera, Genzo tornerà a casa con il cuore spezzato.
Quella
sera, Kojiro chiederà a Diete di lasciarlo solo, troppo
confuso e turbato per poter
anche soltanto sopportare la sua compagnia.
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Capitolo 8 *** La spada nel cuore ***
La
spada nel cuore
Marzo
E
poi c’è il silenzio.
Kojiro
non lo chiama, non gli scrive nessun messaggio.
Sa
che cosa sarebbe potuto accadere quella sera, se fosse stato solo; sa
che cosa
sarebbe successo se lo avesse fatto entrare in casa sua. Genzo sarebbe
stato tremendamente
reale, fatto di carne e di ossa, e lui lo avrebbe guardato accomodarsi
sul suo
divano e avrebbe ascoltato certe parole.
Quelle
parole che a volte cambiano il corso della vita, o quantomeno mettono
in
discussione i rapporti e gli equilibri. Le parole che Kojiro non ha
ancora il
coraggio di sentire.
********
Non
era solo, aveva compagnia. Un “impegno
romantico”, così aveva detto.
Aveva sentito il bisogno di specificarlo, come se avesse voluto
assicurarsi che
il messaggio arrivasse a destinazione in modo inconfondibile.
Genzo
si ritrova a rifletterci per ore e ore nelle settimane successive a
quel colpo
di testa.
Gli
sembra che Kojiro fosse rimasto inizialmente stupito a saperlo
lì, ma poi il
suo stupore si fosse come trasformato in fastidio. Era diventato tutto
ad un
tratto freddo, come se avesse intuito quello che avrebbe potuto
accadere e la
cosa lo avesse oltremodo irritato. Come se sospettasse tutto, senza che
ci
fosse bisogno di dire alcunché.
Genzo
si domanda se siano solo sue paranoie, se davvero la cosa sia
possibile. Forse
il suo comportamento in alcune occasioni avrebbe potuto suggerire certi
suoi
pensieri? Lo esclude, ha sempre avuto il controllo di tutto. Delle
parole che
ha pronunciato, delle espressioni sul suo viso. Dei suoi gesti.
Deglutisce
a vuoto, ha quasi un mancamento.
Quasi
sempre.
Una
sola volta aveva ceduto ai suoi impulsi, quando la notte dopo la festa
del suo
compleanno si era intrufolato nella camera degli ospiti dove Kojiro
stava
dormendo. Lo aveva guardato, per minuti che parevano ore, e poi gli si
era
sdraiato accanto. Lo aveva accarezzato, sfiorandolo con la punta delle
dita. Ma
Kojiro stava dormendo, giusto? Se si fosse svegliato avrebbe reagito,
avrebbe
fatto qualcosa, avrebbe detto qualcosa. Non avrebbe mai fatto finta di
niente.
Giusto?
Il
dubbio comincia a farsi strada nella sua mente, e lo paralizza.
L’idea che
Kojiro fosse stato sveglio, e disgustato dal suo tocco, ma troppo a
disagio per
reagire, gli va venire il voltastomaco. Eppure, questo spiegherebbe la
sua
decisione di andarsene subito, e i suoi silenzi. Il suo allontanamento,
che
adesso gli sembra irreversibile, è stato motivato
dall’imbarazzo.
Genzo
si porta mani al viso, gli sfugge un gemito.
L’inverno
sta per finire. Le giornate si sono allungate, il sole si fa via via
più caldo.
Marzo non è ancora sinonimo di primavera lì a
Monaco, ma racchiude in sé la
voglia di tepore e di un nuovo inizio.
Genzo
continua a dare il massimo in campo, in partita e in allenamento; la
compagnia
di Karl è un sollievo perché gli permette di
mettere il cervello in pausa. Non
si è ancora confidato con l’amico però,
ha deciso di aspettare di capire quello
che sta vivendo. Chi lo vede dall’esterno potrebbe pensare
che vada tutto bene,
come sempre, che sia solo più solitario e silenzioso del
solito. In realtà,
Genzo si sente bruciare dentro. E quando questa sensazione di bruciore
si fa
insopportabile decide di contattarlo. Deve parlargli, ha un bisogno
assoluto di
avere un confronto con Kojiro. Di spiegarsi, e di sapere quali siano i
pensieri
dell’altro.
Lo
chiama una sera, mentre è a casa da solo. Seduto sul divano,
la televisione
accesa con il volume azzerato. Fa partire la chiamata. Uno, due, tre
squilli.
Diventano nove, non risponde.
Genzo
sbuffa. Prova a scrivergli un messaggio, gli ci vogliono cinque minuti.
Digita
il testo, ci ripensa, lo cancella. Prova a riformulare le frasi, non
è
soddisfatto del risultato. Ritenta, più e più
volte. Alla fine, lo invia.
G.
‘Ciao. C’è uno strano imbarazzo
tra noi due e questa cosa non mi dà pace.
Vorrei fare il possibile per risolvere questa situazione che si
è creata,
vorrei avere l’occasione di dirti tante cose. Ho capito di
averti messo in
imbarazzo quando mi sono presentato a casa tua, vorrei non averlo
fatto, non
così. Mi dispiace.’
La
risposta arriva mezz’ora dopo – una
mezz’ora eterna, che Genzo ha trascorso
tormentandosi le mani e lanciando occhiate ossessive al telefono -.
K.
‘Non c’è niente per cui tu ti
debba scusare. Tutto ok.’
Quelle
parole hanno lo stesso suono del citofono a Francoforte, quando Kojiro
aveva
chiuso la comunicazione. Le legge e gli sembra che gli trapanino il
cervello.
Gli fanno male come un cappio attorno al collo, non è un
dolore fisico e
immediato, è il dolore causato dalla paura di quello che sta
per accadere. Non
lo accetta, non lo può accettare.
G.
‘E allora perché è dal giorno
dopo il mio compleanno che ti comporti in modo
strano con me?’
Sente
il cuore battere furioso nel petto, aspetta, e questa volta la risposta
arriva
subito.
K.
‘Stai facendo tutto da solo. Ti ho già
scritto che è tutto ok.’
Genzo
non può far altro che strizzare gli occhi, si pinza il naso
tra pollice e
indice.
Vaffanculo.
Vaffanculo
e vaffanculo.
Prende
a pugni il cuscino, dalla sua bocca fuoriesce una specie di suono
gutturale che
pare un grido strozzato in gola.
Non
funziona, sembra che niente possa funzionare e che ogni passo sia un
passo
nella direzione sbagliata.
Si
alza, cammina avanti e indietro, i pensieri si rincorrono angosciosi e
non
riesce a venirne a capo. È in collera, ma anche dispiaciuto,
imbarazzato e
preoccupato. Si scontreranno a Francoforte dopo qualche giorno, si
sente un
idiota per non aver aspettato almeno fino a dopo la partita. Magari se
fosse
riuscito a scambiare con lui qualche parola di persona sarebbe stato
diverso,
magari guardandosi in faccia. E allora si domanda come sarà
scendere in campo
sabato, dopo quei messaggi a senso unico.
La
partita si gioca sotto la pioggia. Genzo sembra il fantasma di
sé stesso. I
padroni di casa vanno subito in vantaggio grazie a un colpo di testa di
Hyuga,
un bel goal su calcio d’angolo, la palla va insaccarsi in
alto a destra. Genzo
si muove appena in ritardo e non riesce a pararlo. Kojiro lo guarda,
vede la
smorfia di rabbia sul volto del portiere. Resta immobile a fissarlo per
qualche
secondo, poi gli volta le spalle e corre via, esulta con i compagni e
fa
qualche gesto alla curva che risponde con un boato.
Il
Bayern deve ringraziare una prova superlativa della difesa che riesce a
contenere egregiamente gli assalti delle aquile e il solito Schneider
che
realizza una doppietta, e porta a casa il risultato vincente.
Il
viaggio di ritorno a Monaco gli sembra eterno. Se ne sta seduto da
solo, la
fronte appoggiata al finestrino. Nessuno osa disturbarlo, solamente
Karl non si
fa scrupoli e gli si siede di fronte. Gli tocca la gamba con il
ginocchio,
Genzo si toglie gli auricolari e risponde allo sguardo.
«Non
hai giocato una buona partita ma abbiamo vinto lo stesso. Non serve che
tu stia
qui in un angolo ad autoflagellarti.»
«Non
mi sto autoflagellando.»
L’altro
incrocia le braccia al petto mostrando chiaramente quello che pensa.
«Solo
che ho bisogno di stare da solo.»
Fa
per rimettersi gli auricolari ma Karl lo blocca. Gli poggia la mano
sulla
coscia e lo guarda dritto negli occhi.
«È
da parecchio tempo che sembri aver bisogno di stare da solo.»
Si
stringe nelle spalle.
«Va
così.»
«Allora
è per Hyuga?»
Rimane
congelato, non ribatte.
«Intendo
perché oggi ti ha fatto goal proprio Hyuga. Sai…
la faccenda della sfida.»
Genzo
deglutisce sollevato, Karl continua.
«Ma
ha segnato da dentro l’area.»
Gli
fa l’occhiolino e sorride.
E
allora anche Genzo sorride.
«Non
importa. È tutto ok.»
Non
è davvero tutto ok.
Le
giornate si inseguono, una dopo l’altra. Un allenamento dopo
l’altro, una
partita dopo l’altra.
Genzo
spera sempre di trovare un messaggio o una chiamata, ma tutto tace.
Kojiro non
si è nemmeno fatto vivo per vantarsi o per sfotterlo.
Il
telefono squilla un tardo pomeriggio di fine marzo, sta guidando verso
casa
dopo essersi attardato con il massaggiatore a Sӓbenerstrasse a causa di
un
fastidio muscolare. Ha un tuffo al cuore, subito spera sia lui. E
invece il
nome che compare sul display dell’auto è quello di
Karl.
Risponde,
un po’ stupito.
La
voce del suo migliore amico è quasi metallica, gli racconta
che Katrin ha avuto
un incidente.
“In
questo momento è in sala operatoria, la stanno operando alla
testa… È successo
all’improvviso, è stata questione di un
attimo…”
Quando
Genzo chiude la conversazione si sente attraversare da brividi che lo
scuotono
da capo a piedi. Sembrano brividi di freddo, ma sono di paura. Ha paura
per la
bambina, e ha paura per Karl. Prega tra sé che vada tutto
per il meglio, non è
mai stato credente ma in quel momento affidare le proprie speranze a
qualcosa
di altro da sé è la cosa più naturale
del mondo.
Raggiunge
casa sua, si siede su una delle poltrone e si mette le mani nei capelli.
Chiude
gli occhi, si sforza di silenziare i pensieri.
Sente
un disperato bisogno di fare pulizia. E così decide che
è arrivato il momento
di una svolta.
Basta
piangersi addosso e perdere tempo a struggersi, sta vivendo quella che
ormai è
diventata un’impasse mentale che lo sta mettendo in gabbia e
gli sta creando un
mucchio di problemi.
Vuole
metterci una pietra sopra e guardare altrove, perché si
rende conto di essere
circondato da persone a cui vuole bene e che gli vogliono bene, e
l’unica cosa
saggia da fare è dare l’anima per loro, e per loro
soltanto.
Racconta
a sé stesso qualche menzogna, si dice che forse essere
spettatori della
felicità degli altri può essere abbastanza
appagante, forse il segreto della
felicità sta proprio nel sapersi accontentare e accettare i
momenti di
amarezza.
Per
i successivi due mesi Genzo si sforzerà di non pensare
più a Kojiro e ai loro
scambi. Non guarderà più il telefono sperando di
trovare traccia di qualche
contatto.
Tornerà
a essere il portiere numero uno della Bundesliga e uno dei migliori al
mondo. Sarà
al fianco di Karl e giocherà di nuovo con Katrin, che
farà ritorno a casa
qualche settimana dopo. Si toglierà parecchie soddisfazioni
a scacchi, e
soprattutto chiuderà il suo cuore a qualunque tentativo di
avvicinamento, da
parte di chiunque.
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Capitolo 9 *** Ambivalenza ***
Ambivalenza
Francoforte,
inizio di maggio. Notte.
Cammina
lungo il marciapiede dell’isolato, le mani in tasca, il
cappuccio della felpa
gli nasconde il viso. Non che ci sia bisogno di nascondersi, il
quartiere sta
dormendo e lungo la sua passeggiata notturna non incontra nessuno. Non
è la
prima volta che si ritrova a girovagare insonne, negli ultimi mesi gli
è già capitato
di avere problemi ad addormentarsi. È nervoso, Kojiro, anche
perché sa che
dovrebbe dormire, l’indomani l’Eintracht
giocherà in casa nel primo pomeriggio
e verrà schierato titolare.
Si
ferma dopo aver oltrepassato l’angolo vicino a casa, si mette
a sedere su una
panchina. Le mani intrecciate dietro la nuca, si appoggia allo
schienale e
ammira il cielo, dove tra le nuvole fa capolino la luna ormai quasi
piena.
Resta lì, a contemplare l’immensità
sopra la sua testa e il vuoto che sente nel
suo cuore finché il bisogno di parlare con una voce amica
non si fa
insopprimibile. Afferra il cellulare, lo chiama e lui risponde al
secondo
squillo.
K.W.
“Capitano?! Ma che ore sono a Francoforte?”
K.H.
“È quasi l’una…”
Ken
sorride tra sé scuotendo appena la testa.
K.W.
“Posso chiederti perché tu non stia
dormendo?”
K.H.
“Non riesco a dormire. Faccio una fatica tremenda ad
addormentarmi, e allora ho
pensato che potesse essere un buon orario per chiamarti. Come te la
passi?”
K.W.
“Non c’è male. Sto facendo colazione,
tra un’ora devo essere agli allenamenti.”
K.H.
“Ho visto che siete primi in campionato,
complimenti.”
K.W.
“Sì, grazie… Siamo un bel
gruppo.”
K.H.
“E il dojo?”
K.W.
“Va benone. Tre volte la settimana sono là. Mio
padre si è finalmente
rasserenato.”
K.H.
“Sono contento per tutti e due…”
K.W.
“Grazie.”
K.H.
“Lo sapevo che sarebbe stato solo questione di tempo, a volte
poi le soluzioni
arrivano da sole.”
K.W.
“A volte sì. E lì da te che aria
tira?”
K.H.
“Mah, direi tutto bene. Siamo matematicamente qualificati
alla Champions che
era il vero obiettivo stagionale, io ho disputato una buona
stagione.”
K.W.
“Lo so. Seguo le tue statistiche da qui.”
È
il turno di Kojiro di sorridere mentre percepisce quella sensazione
familiare
di calore che lo avvolge ogni volta che chiacchiera con Ken. Sempre,
nonostante
il tempo che passa e nonostante le migliaia di chilometri che li
separano.
K.H.
“Sì, sono soddisfatto.”
K.W.
“Ma non riesci a dormire.”
K.H.
“Già. In questo momento sono seduto su una delle
panchine della via sotto casa,
non riuscivo a prendere sonno.”
Ken
aggrotta le sopracciglia, perplesso.
K.W.
“Ma scusa, non hai nessuna che ti faccia compagnia?”
K.H.
“No. Non più. In questo periodo avevo bisogno di
stare da solo.”
K.W.
“Capisco… Beh, ti conviene comunque almeno
provarci, giocate tra qualche ora…”
Kojiro
fa un sorriso amaro, torna a guardare il cielo. La luna non si vede
più, le
nuvole sembrano averla inghiottita.
Sospira,
sente uno strano ronzio nelle orecchie.
Sbatte
le palpebre e si ricompone, riprende a parlare con una voce
all’improvviso più
profonda.
K.H.
“Il fatto è che ultimamente sto vivendo una
situazione un po’ strana, Ken. Non
so neanch’io come dirlo, mi sento diviso in due. È
per questo che non dormo, ho
come un senso di inquietudine che mi tormenta.”
Ken
fa una smorfia, si era appena alzato per riporre il piatto nella
lavastoviglie
ma torna a sedersi.
K.W.
“Prova a spiegarti meglio.”
Kojiro
sbuffa.
K.H.
“Beh, c’è una piccolissima parte di me
che vorrebbe una cosa, ma è una cosa che
fa anche paura, per cui l’altra parte di me sta cercando di
negarlo a tutti i
costi. E finora c’è riuscita. Ma non sono felice,
non è quello che voglio.”
Ken
fissa un punto di fronte a sé, accavalla la gamba e un
sorriso appena accennato
gli increspa le labbra.
K.W.
“Forse se non sei felice stai sbagliando qualcosa.”
K.H.
“È facile a dirsi…”
K.W.
“Beh, sì. Quella cosa è così
terrificante?”
Kojiro
risponde con quello che sembra un sibilo.
K.H.
“Non ne hai idea…”
K.W.
“Ok. Non ti chiedo che cosa sia. Però se ti
dà un tormento così grande e da
così tanto tempo è perché quella cosa
forse ha acceso un fuoco che sta
bruciando dentro di te… E sai, io credo che, quando si ha il
fuoco dentro, di
solito valga la pena correre il rischio.”
K.H.
“E se mi brucio?”
Ken
sorride divertito.
K.W.
“Ma se fai le passeggiate notturne perché non
riesci a dormire stai già
bruciando, capitano!”
Monaco
di Baviera, la stessa notte
Il
bilancio a fine stagione del Bayern quell’anno è
ambivalente: si conclude con
la gioia per la conquista della Bundesliga ma porta con sé
anche la cocente delusione
per l’eliminazione in semifinale di Champions League.
La
vittoria contro il Colonia regala il titolo con una giornata di
anticipo,
quella sera tutta la squadra festeggia cenando con i piatti fatti
consegnare
dal servizio catering direttamente nello spogliatoio e poi si
trasferisce a far
baldoria in un locale notturno.
Genzo
ha giocato un’altra partita perfetta, la rete dei bavaresi
è rimasta inviolata
ancora una volta. È il portiere che ha subito meno reti di
tutto il campionato
tedesco, manca ancora l’ultimo incontro per decretarlo
ufficialmente ma tutti
sanno già che verrà nuovamente premiato come il
migliore della Bundesliga.
Si
sente abbastanza soddisfatto, l’annata è stata
tutto sommato positiva.
Ci
riflette mentre è seduto sui divanetti di fronte a Karl e a
Stefan, sente la
musica rimbombare direttamente dalle casse al suo diaframma. Guarda il
suo
migliore amico, lo osserva portarsi alle labbra una flûte di
champagne e
lanciare in giro occhiate pigre alla sala con aria annoiata. Sa
perfettamente
che entrambi in quel preciso istante preferirebbero essere altrove e
avere
qualcuno di speciale al proprio fianco.
Le
luci laser e i led disegnano coreografie allineate al ritmo dei bassi,
compaiono i ballerini e le ballerine arrampicate sui tacchi a spillo.
Si sente
all’improvviso piuttosto stanco.
Prova
a riscuotersi, si ripete che ha di che essere fiero ma non
può ignorare una
vocina fastidiosa che invece sembra voler puntare i piedi e urlare a
gran voce
che no, non si può accontentare così.
Che
deve ambire a molto, molto di più.
Che
non è sufficiente, non per uno come lui.
L’anno
prossimo. L’anno prossimo vinciamo tutto.
Ma
io non parlavo solo della squadra.
Genzo
strizza gli occhi, sbuffa.
Il
loro tavolo è accerchiato da gruppi di ragazze che sembrano
molto determinate a
cogliere la più piccola occasione di un contatto con uno dei
giocatori, vengono
palesemente ignorate da tutti e tre. Nessuna di loro ha la
benché minima
speranza.
Con
noncuranza afferra il telefono, vuole controllare che ore siano per
capire se
potrebbe già congedarsi senza fare la figura del misantropo.
È
soltanto l’una e mezza.
Ma
vede alcune notifiche su Whatsapp.
Scorre
le anteprime, uno dei messaggi è di Kojiro.
È
una capriola del cuore, lo legge trattenendo il respiro.
‘Ciao,
complimenti per la vittoria. Sia per il Bayern, avete fatto un ottimo
campionato, ma soprattutto per te. Miglior portiere per, boh, quanti
anni di
fila? Comunque sia, congratulazioni. Sei sempre il numero
uno.’
Resta
a fissare lo schermo per quella che sembra
un’eternità.
Sei
sempre il numero uno.
Sempre
il numero uno.
Il
numero uno.
Il
pollice scorre veloce e digita la risposta, non gli serve pensare.
Invia.
‘Grazie.
Tu sei uno dei pochi che ha sporcato il mio record. E sei
l’unico’
Non
aggiunge altro. Avrebbe potuto scrivere tante cose, oppure metterci dei
puntini
di sospensione. Avrebbe potuto essere chiaro o allusivo, decide di
esprimersi
per come si sente. Mozzato.
Kojiro
legge subito il messaggio di Genzo.
Lo
legge, e poi lo rilegge ad alta voce.
Lo
sa quali sono le parole mancanti.
Si
stropiccia la faccia, e torna a sentire quelle palpitazioni.
È
con queste premesse che i due si ritrovano fianco a fianco a
Nishinomiya, al
ritiro della Nazionale organizzato alla fine di maggio.
Si
incontrano nella hall dell’albergo, Kojiro era già
lì, Genzo appena arrivato
dall’aeroporto. Si salutano con un cenno, non
c’è tempo per altro e non è
nemmeno il momento giusto.
Durante
il briefing sono seduti lontani, lo stesso a tavola, hanno i posti
assegnati.
Ma
durante gli allenamenti si trovano spesso vicini, mai da soli.
Rimangono di
frequente a parlare in gruppo con altri compagni di squadra, tra loro
due non
ci sono scambi di occhiate né messaggi di intesa. Come se
fosse un rapporto
sempre cordiale ma diventato freddo e distante.
Genzo
vorrebbe fare il primo passo, ancora una volta.
Ma
questa volta non sa davvero come approcciarlo, e sentirsi evitati e
respinti è
frustrante.
Non
sa della tempesta che da mesi infuria nella testa di Kojiro, non lo
può sapere.
Anche quello è un segreto che non conosce nessuno.
Gli
impegni della Nazionale si snodano per sette giorni tra amichevoli,
allenamenti
e qualche cena ufficiale in attesa della convocazione successiva che li
vedrà
scendere in campo per l’ultima fase delle qualificazioni
della Coppa d’Asia, e
sono giorni che passano in fretta. Troppo in fretta.
Ma
poi succede.
L’occasione
si presenta dopo l’ultima partita giocata contro il Vissel
Kobe, Genzo si è
attardato sotto la doccia. Fa tutto con calma, perso nei suoi pensieri,
quando
esce con l’asciugamano annodato sui fianchi è
convinto di essere solo nello
spogliatoio, e quasi si spaventa quando lo vede seduto lì,
su una delle
poltroncine.
Kojiro
è già vestito, il trolley pronto ai suoi piedi.
Lo ha atteso in silenzio.
Si
guardano negli occhi, l’aria diventa all’improvviso
tesa.
Genzo
sbatte le palpebre, nervoso, e con pochi passi rapidi raggiunge la sua
postazione e gli dà le spalle. Vorrebbe parlare, dire tante
cose, e dirle bene.
Non trova le parole, e si arrabbia con sé stesso.
L’altro
non si è nemmeno mosso.
Passano
i secondi, inesorabili, uno dopo l’altro.
E
allora Genzo si decide, si toglie l’asciugamano e resta nudo,
ma sempre voltato
verso il muro. Kojiro non lo sta nemmeno guardando ma lui non lo
può sapere.
«Quindi?
Che cosa stai facendo qui?»
La
voce risulta molto meno fredda, e soprattutto molto più
titubante di quanto
avrebbe voluto.
«Non
lo so bene nemmeno io…»
Scuote
la testa, cerca di respirare normalmente e comincia a vestirsi. Per
prima cosa
si infila i boxer, poi i pantaloni della tuta.
Finalmente
Kojiro sembra ridestarsi e solleva lo sguardo.
«Non
lo so bene ma so che ci sono delle cose che potrei dirti. Che vorrei
dirti.»
prende fiato «Tanto per cominciare sono dispiaciuto. Per
tutto. Lo so di non
essermi comportato tanto bene.»
Genzo
si blocca, le braccia a mezz’aria con la maglia in mano. Alza
gli occhi al
cielo.
«Hyuga.
Non è che abbiamo litigato o che tu mi hai fatto un
torto.»
«No,
ma…»
«Niente
ma.» indossa la maglia e si gira, pianta gli occhi in quelli
dell’altro «Io ho
il dispiacere di non essere stato abbastanza chiaro e di essermi
cacciato da
solo in un ginepraio.»
Kojiro
deglutisce, non ribatte.
Genzo
riprende.
«Per
cui ok, visto che hai fatto questo bel gesto di farmi un agguato nello
spogliatoio – che peraltro è una mossa piuttosto
audace visto il contesto, non
credi? -, comunque sia, visto che me ne stai dando
l’occasione, io adesso sarò
molto chiaro. Con te e con me stesso.»
L’altro
stringe i pugni, a disagio.
«Io
sono innamorato. Di te. Da Miami.»
Le
parole si fanno trovare e fluiscono, incredibilmente leggere.
«Magari
anche da prima, non ne sono sicuro. Ma di sicuro Miami mi ha aperto gli
occhi e
ho capito.» prende fiato «Ho provato a negarlo a me
stesso, non ci riesco. Non
pensare che sia stato semplice. È stato uno shock. Ma
è la verità. E ho provato
a dirtelo, ma ho capito che tu avevi intuito e ne eri tremendamente
turbato. Se
non disgustato. E questa cosa mi ha fatto male.»
Adesso
crede di non potersi più fermare.
«Ci
sono stato male per mesi, Hyuga! Ed è stato peggio di quello
che mi sarei
potuto aspettare, perché oltre al dolore che ho
già conosciuto per un amore non
corrisposto c’era la vergogna, e la consapevolezza di doverti
vedere più spesso
di quanto avrei voluto tra Bundesliga e Nazionale.»
Sorride
sarcastico.
«Eccomi
qui. Adesso lo sai, in modo chiaro e inequivocabile. E puoi fare quello
che
vuoi, puoi dire quello che vuoi. E così anch’io lo
saprò in modo chiaro e potrò
davvero guardare oltre.»
Kojiro
si mette le mani nei capelli, la fronte è corrucciata.
«Io…
Io non sono gay. Mi piacciono le ragazze, addirittura ho sempre
preferito
quelle con le tette grandi.»
Genzo
scoppia a ridere, ma è una risata cattiva.
«Ma
dai? Nemmeno io sono gay. Non mi alletta l’idea di fare sesso
con un altro uomo,
te lo assicuro.»
Chiude
il suo trolley, lo fissa negli occhi con una spavalderia che aveva
dimenticato.
«Sei
tu, Kojiro. Solo tu.»
Non
sta ad ascoltare la risposta, vede che l’altro sta provando a
farfugliare
qualcosa e quasi annaspa, non vuole sentire parole di compatimento.
Afferra
la maniglia ed esce dalla stanza.
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Capitolo 10 *** Un'altra estate ***
Un’altra
estate
Le
parole di Genzo non lo abbandonano più.
Gli
sembra di sentire la sua voce quando l’altro se ne
è andato ormai da un pezzo,
e lui, Kojiro, è rimasto seduto in quello spogliatoio a
fissare il vuoto, le
dita delle mani intrecciate, il respiro corto.
Non
lo lasciano nemmeno mentre attende il treno per Osaka qualche ora dopo.
Percepisce
la sua voce, è come se fosse ancora lì vicino a
lui.
Si
sente all’improvviso stanco, anzi sfinito, e si addormenta
poco dopo la
partenza dello Shinkansen per Tokyo.
E
sogna.
Sogna
la malinconia di un pomeriggio parigino, e poi il mare di Cap Ferrat
con le sue
acque turchesi, le viuzze acciottolate di Antibes di una sera di inizio
estate.
La piscina a sfioro di una villa con vista sulla costa.
Avverte
un brivido, sorride mentre è ancora abbandonato al sonno.
Giugno
Torna
a Monaco più leggero.
Ci
sono voluti mesi ma alla fine è riuscito a dire tutto quello
che pensa ad alta
voce, e a farsi ascoltare. Non ha idea di quali saranno le reazioni di
Kojiro, ma
in quel momento è convinto di aver fatto la cosa giusta.
È stato trasparente, e
coraggioso, e qualunque cosa accadrà non vivrà
con il rimpianto di essersi
nascosto facendosi scudo con le menzogne.
Ha
davanti a sé tre settimane di vacanza, e per la prima volta
nella sua vita non
ha pianificato niente, ma va bene così. Ha appuntamento con
Karl e Katrin, poi
l’amico partirà per una decina di giorni per la
Sardegna. Pensa che deciderà
all’ultimo, per una volta potrebbe fare una pazzia,
presentarsi in aeroporto
con la valigia e comprare un biglietto per una destinazione a caso.
Si
ritrova a sogghignare, si ripete che va bene così,
può permettersi di fare
quello che gli pare. È libero, non porta zavorre sulle sue
spalle.
È
libero, ma soprattutto è solo.
Glielo
ricordano bene le parole di Lena due giorni dopo, lei le pronuncia
senza darci
troppo peso mentre la sta riaccompagnando a casa dopo quel pranzo da
Fausto.
Gli chiede se stia uscendo con qualcuna perché non sente
parlare da tempo delle
sue avventure, e aggiunge che le sembra piuttosto strano.
Genzo
in quel momento glissa, risponde che si tratta di un’altra
storia, e che magari
un giorno gliela racconterà.
Si
domanda se ci potrebbe mai riuscire, non ne è sicuro.
Forse
è semplicemente ancora troppo presto.
È
ormai giugno inoltrato. Le giornate sono luminose, e promettono
un’altra estate
calda e soleggiata.
Gli
Schneider si sono riappacificati e saranno lontani ancora per una
settimana,
Genzo decide che è arrivato anche per lui il momento di
partire.
Quella
sera prepara la valigia, ci mette dentro solo il minimo necessario.
Comprerà
sul posto ciò che gli serve.
Si
siede sulla chaise longue in terrazzo, guarda il profilo della
città che si
scorge dal suo attico.
È
quasi ora del tramonto, la luce è cambiata.
Si
sente in pace con sé stesso, si sente quasi felice.
E
poi qualcuno suona il citofono.
È
perplesso, non aspetta nessuno.
Risponde.
Il
portiere lo avvisa che c’è Kojiro Hyuga, che si
è presentato come suo amico, e che
vorrebbe salire.
Può
farlo salire?
Non
ci deve pensare neanche per un secondo.
«Sì.
Lo faccia salire, grazie.»
Lo
aspetta sulla porta.
Kojiro
esce dall’ascensore, gli occhiali da sole appesi al collo
della t-shirt e uno
zaino sulla spalla.
Genzo
inclina la testa, incuriosito e timoroso, l’espressione
dell’altro non lo aiuta
a decifrare le sue intenzioni.
Si
fronteggiano lì all’ingresso, poi il padrone di
casa si sposta e lo fa entrare.
Kojiro
prende un bel respiro prima di parlare.
«Ho
copiato la tua idea di presentarti senza preavviso e senza
invito.»
Lo
osserva in silenzio.
«Spero
solo che non finirà allo stesso modo, perché io
non ce l’ho la compostezza che
hai dimostrato di avere tu.»
Genzo
scuote appena la testa, l’altro continua.
«Quindi,
eccomi qui.» deglutisce e si guarda attorno, nota la valigia
in un angolo «Ma sei
in partenza?»
«Già.
Domani.»
«Ah.»
«Ma
non ho prenotato niente. Domani vado in aeroporto e decido una volta
lì. Ho
voglia di improvvisare.»
Kojiro
sospira annuendo e si umetta le labbra, nervoso.
«Ok.
Però io adesso devo parlarti. Voglio dirti che non
è andata esattamente come
hai detto tu. Non sono mai stato disgustato. Turbato sì,
all’inverosimile.
Cazzo, non è facile, questa cosa mette addosso
paura…»
«Senti,
Hyuga, io…»
Ma
Kojiro non ascolta, non vuole interrompersi perché teme di
non riuscire più a
dire tutto quello che vorrebbe dirgli.
«No,
non ho finito. Non chiamarmi Hyuga, chiamami con il mio
nome.» gli sorride
«Miami ha sconvolto anche me, non ti credere.»
Sbatte
le palpebre, poi torna a guardarlo negli occhi. Li punta dritti in
quelli di
Genzo.
«Mi
ha sconvolto perché avevi già toccato qualcosa
quando siamo stati a Parigi, tre
anni fa, e in Costa Azzurra. Te lo ricordi, vero?»
Genzo
annuisce.
«Ma
allora mi ero girato dall’altra parte, erano pensieri che
trovavo sbagliati.
Perché io avevo una ragazza, tu mille, e mi avevi appena
raccontato di Sanae, e
tutto sembrava tranne questo...» prende fiato «Poi
Miami. Non solo per la
storia della festa, ma tutto il contorno. È…
è stato bello stare insieme per
tanti giorni. Bello in modo strano. Totale.»
Sospira.
«Genzo,
io non lo so bene cosa sto per dirti, non mi sono preparato un
discorso. Ma so
che non voglio perderti. Mi terrorizza l’idea di perderti, e
l’ho capito
davvero dopo che mi hai parlato a Nishimoniya. Io vorrei averti sempre
nella
mia vita, quando sono insieme a te mi sento bene come non mi
è mai successo. Mai.
Con nessuna.»
Si
stropiccia il viso con la mano, torna a fissarlo.
«Però
io non lo so di cosa sarei capace. Non mi è mai successo
niente di simile...»
«Nemmeno
a me.» la voce di Genzo esce come un bisbiglio.
«Hai
ragione tu. Hai avuto sempre ragione. Non sono gay, a questo punto sono
certo di
non essere nemmeno solo etero, ma non serve mettersi addosso una
definizione,
no?»
Fa
un cenno di diniego con la testa.
«Ecco.
Non serve. Ma ho capito, e sono sicuro di questa cosa, che vorrei
starti
vicino. Voglio starti vicino. E non come un amico. Voglio molto di
più. Voglio
tutto di te. E voglio darti tutto di me.»
Genzo
lo guarda. Percepisce le emozioni di Kojiro come se fossero le sue.
Quel
disagio che lascia il posto al sollievo, quella punta di turbamento che
diventa
eccitazione. La gioia che se ne sta lì, pronta ad esplodere.
Annuisce
lentamente.
«Sarà
complicato…»
«Lo
so.»
«Sarà
complicato tra noi e lo sarà certamente fuori. Ci hai
pensato?»
«Lo
so. Sarà complicatissimo, sì. Ma in questo
momento non mi importa. Lo terremo
nascosto o magari un giorno lo diremo al mondo, ma lo affronteremo
insieme, un
pezzo per volta. Se siamo insieme ci possiamo riuscire.»
Tornano
a guardarsi negli occhi.
Tutto
ad un tratto il mondo sembra fermarsi.
Genzo
alza la mano destra, fa per toccarlo ma poi non osa.
È
tanto bello da sembrare irreale.
Kojiro
afferra quella mano e se la porta sul petto.
Sente
il cuore battere all’impazzata, sente il tepore del suo corpo.
Torna
a fissarlo, il viso e poi la bocca, quel sorriso.
Vorrebbe
baciarlo ma non sa come fare.
E
allora è Kojiro a fare quel passo, gli si avvicina e posa le
labbra sulle sue.
E
glielo dice, lo sussurra nella sua bocca.
«Ci
vengo anch’io con te in aeroporto domani.»
Questa
è la fine, voglio chiudere così quel percorso
iniziato un po’ per caso con
quella mini oneshot scritta quasi due anni fa. Li ho fatti incontrare
in
aeroporto, li lascio pronti a volare via, insieme.
Non
è stato facile per me scrivere questa storia, ma
è stato uno stimolo continuo e
sono contenta di averla compiuta e condivisa. Spero, come in altre
occasioni,
di essere riuscita a strapparvi qualche emozione e di avervi fatto
sorridere
sul finale.
Genzo&Kojiro
torneranno probabilmente con qualche comparsata in The cuddle
collection, ma
non ci saranno altri sviluppi nella loro storia all’interno
di questo filone e
questa serie.
Li
saluto qui e li guardo andare via, e mando loro un bacio soffiandolo
dal palmo
della mano.
Ringrazio
tutte voi che avete letto, recensito, e che mi avete scritto in mp. Ho
cercato
di cogliere ogni spunto e di riflettere su ciò che mi avete
fatto notare e vi
sono grata per la possibilità di un confronto.
Grazie,
davvero.
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