Elysian - I nuovi guardiani

di Destiny_935
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Quotidianità ***
Capitolo 2: *** 2. Il nuovo anno scolastico ***
Capitolo 3: *** 3. Qualcosa di inaspettato ***
Capitolo 4: *** 4. Rottura ***
Capitolo 5: *** 5. Il bosco ***



Capitolo 1
*** 1. Quotidianità ***


«Ancora non sei pronta? Sbrigati che è tardi!»

Mamma aveva due caratteristiche rilevanti: urlare e dare ordini. Peggio ancora se si trovava in preda ad una profonda crisi isterica. In quell'esatto momento stava salendo le scale. Si poteva capire benissimo perché le sue pantofole producevano uno strano rumore quando camminava, come quando si mette una pentola calda dopo la cottura a contatto con l'acqua.

Cattivo segno.

Il suo nervosismo assomigliava alla pentola calda e il pavimento all'acqua che al contatto con il caldo produce quel rumore. Al contrario della pentola che si raffredda, però, mamma era quasi sempre di pessimo umore. Aprì la porta della camera urlando.

«Destiny sei ancora a letto? Alzati o arriveremo tardi!»

Biascicai qualcosa mezza insonnolita, ancora sotto le coperte. Mi misi seduta, con la testa che ciondolava da un lato per la troppa stanchezza, e osservai la sveglia.

Le 07:00.

Sbadigliai rumorosamente mentre i miei piedi mi accompagnavano prima fuori dal letto e successivamente fino all’ultimo gradino delle scale e mi diressi a tavola scegliendo la colazione, aspettando la ramanzina. Le frasi solitamente più quotate e ripetute erano:

“Non fai mai nulla in questa casa, devo fare tutto io!”
“Vai a dormire troppo tardi!”
“Camera tua è un disastro, sembra essere scoppiata una guerra!”
“Esci ogni tanto, oltre che per andare a scuola?”

Ora, buttiamole nel calderone e mescoliamole perché sono impaziente di sapere quale di queste sceglierà stamattina. Nell’attesa che la pozione della ramanzina fosse pronta, mio fratello minore Nathan davanti a me, stava già mangiando, ingozzandosi con dei biscotti e bevendo un succo di frutta alla pesca. Ogni mattina mi sembrava più grande, quando erano passati tutti quegli anni? Il piccolo bimbo che attendevo all’uscita da scuola o alla fermata del pullman, era ormai diventato un ragazzo. Le sopracciglia scure folte, i capelli avevano perso quella forma riccia così definita che aveva da piccolo e avevano lasciato spazio a una massa informe di capelli che potevo definire solo mossi, per dar loro una denominazione. Strano come fosse più piccolo di me ma mi batteva sia in altezza, sia in corporatura. Ironia del destino, probabilmente. Puntò i suoi grandi occhi scuri su di me mentre si infilava in bocca l’ultimo biscotto rimanente sul tavolo.

«Nathan, che ora sono?» chiesi, innocentemente.
«Le 08:00 e sono decisamente in ritardo!» rispose in tono frettoloso mentre si alzava dalla sedia. Mi morsi il labbro inferiore trattenendo la risata che sarebbe uscita di getto. Poggiai le braccia sul tavolo, incrociandole.
«Lo hai visto tu o te l’ha detto mamma?»

Nathan si fermò, quasi come se un fulmine l’avesse colpito lì, in cucina. Buttò un’occhiata veloce all’orologio rotondo nella stanza che segnava un orario decisamente diverso da quello detto da lui poco prima.

«Ma cosa…mamma mi hai svegliato un'altra volta tre secoli prima?» lamentò mentre si dirigeva nel salotto accanto. Ridacchiai a bassa voce e presi rapidamente qualcosa da mangiare.

La colazione era sempre il pasto più complesso della giornata. Nei giorni di scuola, era quasi un ospite indesiderato mentre nel weekend era l’unico motivo del mio risveglio. Tentai con del tè caldo e una manciata di biscotti. Non quelli secchi. Va bene non avere fame ma non fino a questo punto. Mamma, intanto, entrò in cucina con passo svelto, mentre io mi sedevo sulla sedia e stringevo gli occhi quasi dolorante perché sapevo cosa stava per arrivare.

La pozione era quasi pronta.

La donna invece si voltò, mentre tentava di agganciare un orecchino, la testa leggermente inclinata come se quella posizione potesse aiutarla in qualche modo. Aprii piano gli occhi per osservarla: alla mia sinistra c’era una donna di 40 anni dai capelli neri che le sfioravano il seno, occhi verdi e una corporatura normale. Le labbra erano di un rosa leggermente più scuro rispetto al loro colore naturale e sugli occhi vi era un po’ di matita, mascara e un ombretto leggero. Quella mattina portava dei pantaloni neri larghi, una maglietta bianca con uno scollo a V e una catenina dorata le adornava il collo. Era bellissima nella sua semplicità.

Una bella donna che ogni tanto decideva di indossare le vesti di un qualche animale urlatore.
Riuscì finalmente a mettere l’orecchino con cui armeggiava da diversi minuti e rivolse le parole successive a mio fratello.

«Se non ti inganno con gli orari, il ritardo che accumuliamo dopo sarà ben più tragico della sveglia tre secoli prima.»
«Giusto, la prossima volta che dobbiamo fare un viaggio in aereo, perché non ci svegliamo direttamente sette giorni prima del volo?»

Mia madre alzò gli occhi al cielo per poi puntarli su di me.
Ci siamo. Potevo sentire anche l’odore della pozione ormai pronta. Nella mia mente, mossi la mano destra verso la mensola in alto per prendere una boccettina vuota tra erbe varie. Restava solamente il nome da porvi sopra.

«Destiny» iniziò con tono di rimprovero.
«Rebecca» risposi.
«Quante volte ancora dovrò dirti che vai a dormire troppo tardi la sera?»

Eccola. La pozione del “Vai a dormire troppo tardi” era pronta. Una delle meno gettonate devo dire ma sempre di grande effetto.

«Hai ragione mamma. Cercherò di non tardare più.» non potevo darle torto in realtà. Prendere sonno la notte, ultimamente, era diventato difficile. Il mio corpo era spossato ma la mia mente restava in movimento senza mai fermarsi. Contare le pecore non era più un’opzione, ero passata direttamente agli agricoltori ormai e poco ci mancava per gli abitanti del villaggio vicino. Mangiai abbastanza in fretta la mia colazione e mi diressi al piano di sopra per vestirmi.

Aprii l’armadio e la realtà di come quei vestiti mi stessero uno peggio dell’altro, mi si versò sul viso. Sbuffai e andai in immersione. Ne uscii con in mano un jeans dal tessuto scuro e una maglietta bianca con sopra disegnate delle farfalle colorate. Mi voltai, guardandomi allo specchio che giaceva riposto all’angolo della stanza. Le borse sotto agli occhi stavano ormai prendendo sempre più territorio, gli occhi cerulei sembravano quasi pallidi e le labbra secche. I lunghi capelli castani erano simili a un nido di rondini prima di passarci la spazzola in mezzo. Guardai il mio riflesso e decisi che per quella mattina non avevo voglia di iniziare a giocare a quanti difetti notavo nella mia corporatura del tutto normale o nelle mie gambe, piuttosto che su quei quattro brufoli che comparivano sul mio viso. Mi vestii velocemente e mi truccai quanto bastava, specialmente per coprire le occhiaie, presi lo zaino da terra e tornai al piano inferiore.

Il pensiero di dover iniziare il quarto anno delle superiori era tragico ma d’altronde necessario. Nathan avrebbe iniziato il primo anno del liceo quella mattina, non la mia stessa scuola però. Ero sicura che sarebbe andato alla grande. Il suo carattere esuberante e il suo cuore buono lo avrebbero portato a far breccia nel cuore di molta gente. Tutto il mio contrario d’altronde ma quando sei al 75% delle superiori, quel che è fatto in termini di socialità è fatto. Sembra quasi come se venga scolpito nella pietra tutto quello che fai e chi sei nei primi quindici giorni del tuo primo anno e nessuno potrà mai dimenticare nulla.

Un tonfo alla mia sinistra mi riportò fuori dai miei pensieri. Buttai lo zaino in terra e mi diressi verso la fonte del rumore. Un libro era caduto dalla libreria nel salotto. Era posizionato male? Lo presi da terra. Enciclopedia del mondo. Mamma aveva delle strane voglie quando si trattava di leggere. Ogni tanto, mentre eravamo tutti seduti a vedere un film, si alzava dicendo “Voglio rileggermi Cime Tempestose” e così seguitava a fare.
Ma l’enciclopedia del mondo? Perché mai avrebbe dovuto leggere una cosa simile?

Mi rialzai, posizionando il libro nella sua posizione originaria ma forzai troppo e quello accanto mi sembrò rovinarsi. Voltai lo sguardo ma sia mia madre, sia mio fratello erano ancora al piano di sopra. Estrassi il libro accanto all’enciclopedia e capii subito di cosa si trattava. La sua forma rettangolare e la copertina in velluto di colore blu, mi fecero riconoscere immediatamente il vecchio album di famiglia. Sorrisi amaramente mentre aprivo la prima pagina ma le mie labbra assunsero immediatamente la forma di una linea dritta. Nella prima foto che raffigurava noi tre e mio padre, il suo volto era completamente sbiadito. Papà se n’era andato tanti anni fa da casa nostra. Io ero piccola e mio fratello era nato da qualche mese quando d’improvviso sparì. Chiedere a mia madre cosa fosse successo di preciso quel giorno era come giocare al lotto, a seconda del suo umore poteva rispondere bene, seppur brevemente, o tagliare corto la discussione. Sapevo solo che lui era da qualche parte nel mondo e si era rifatto una famiglia ma non aveva più intenzione di prendersi cura di noi, così scrisse nell’ultima lettera spedita e indirizzata a noi, circa 8 anni fa. La mia attenzione ricadde nuovamente sull’album di foto e sfogliai velocemente tutte le pagine. Le foto all’interno erano tutte rovinate. Tutti quei ricordi rovinati per sempre.

«Che combini?»

La voce di mio fratello alle mie spalle mi fece sobbalzare. Richiusi velocemente l’album e lo rimisi al suo posto. Ricacciai velocemente le lacrime che stavano prendendo posto, pronte ad uscire e mi voltai.
«Nulla, era solo caduto un lib-» non riuscii nemmeno a terminare la frase. La testa iniziò a martellarmi, le orecchie fischiarono e mi si annebbiò la vista per qualche secondo. Mi sembrò di vedere qualcosa vicino a mio fratello. O qualcuno. Ma fu rapido perché come i sintomi arrivarono, se ne andarono, con la stessa velocità.

«Ehi tutto ok?» Nathan fece per avvicinarsi ma fu fermato dalla mia mano destra tesa verso di lui.
«Tutto ok, i soliti sintomi.» dissi, riprendendo un attimo fiato mentre mia mamma sbucava dalla cucina. «Mamma sono arrivati i risultati delle analisi che ho fatto?» mi portai le dita sulle tempie, massaggiandole.
«Dovrebbero arrivare nel pomeriggio e poi li porteremo dal dottore. Speriamo di poter finalmente scoprire cosa si cela dietro questi tuoi continui mal di testa decisamente estremi» disse, buttando giù l’ultimo sorso di caffè dalla tazzina che teneva in mano. Mi avvicinai all’ingresso e tirai giù dall’attaccapanni la giacca nera. Il fresco di Settembre poteva comunque mietere vittime, tra cui le mie tonsille, specialmente a quell’ora.
«Andiamo forza, o faremo tardi» disse mia madre, mettendosi in spalla la borsa.
«Certo, potremmo unirci al consiglio del professori arrivando a quest'ora, o addirittura aiutare il personale scolastico a pulire le aule!» replicò mio fratello, strappandomi una risata.

Eravamo pronti, lui per l’inizio di un nuovo percorso e io per il continuo del mio.
Chiusi la porta di casa senza riuscire a lasciare dietro la porta quella sensazione di angoscia e inquietudine che ora aleggiavano sul mio petto.

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Capitolo 2
*** 2. Il nuovo anno scolastico ***


Ci trascinammo in macchina, il primo giorno mamma ci teneva particolarmente ad accompagnarci mentre per il resto dell’anno, l’autobus scolastico era il nostro fedele destriero meccanico. Un brivido percorse la mia schiena al pensiero di prendere quel mezzo per raggiungere la scuola. Avevo ricordi particolarmente poco simpatici dei miei viaggi in autobus e diciamo che essere timidi non giova particolarmente a proprio favore quando si ha a che fare con gente che vuole creare spettacolo su di te e non con te.

Un altro semaforo rosso e fu il sospiro preoccupato di mio fratello a riportarmi su quella macchina mentalmente oltre che fisicamente. Voltai lo sguardo verso il finestrino alla mia destra, osservando il folto bosco che si estendeva per diversi chilometri. Aveva un qualcosa di magico e inquietante allo stesso tempo. Le storie che giravano su cosa abitasse quei boschi non erano simpatiche. Eppure vederlo mi infondeva calma e ogni qualvolta lo vedevo, mi sentivo attratta da quella folta schiera di alberi centenari.

Un’altra leggera seppur fastidiosa fitta alla testa mi fece socchiudere l’occhio destro ma durò pochi secondi. Fui io stavolta a sospirare, causando una risatina sommessa di mio fratello. Mia madre era silenziosa, forse agitata per il primo giorno di Nathan al liceo e per i risultati dei miei esami clinici. Mi chiedevo spesso se le mancasse papà, se l’essere l’unica figura genitoriale a doversi sobbalcare tutte le responsabilità, fosse un peso troppo grande per le sue spalle.

Una brusca frenata interruppe i miei pensieri e la mia fronte sfiorò il poggiatesta del sedile avanti a me.

«Dannazione, state bene? Destiny, Nathan?» la voce preoccupata di mia madre risuonò nell’abitacolo assieme al clacson della macchina che proveniva dietro di noi.

«Stiamo bene» rispondemmo quasi all’unisono «ma cosa è stato?»

«Qualcosa ha attraversato la strada, una cosa luminosa. Forse un coniglio…»

«Un coniglio?» chiesi confusa.

«Un coniglio luminoso?» aggiunse Nathan.

Mia madre scosse la testa e controllò che fosse tutto a posto e che lo fossimo anche noi, poi fece un grosso respiro profondo e posizionò le mani sul volante.

«L’importante è che stiate entrambi bene»

Certo, entrambi stavamo bene ma cosa aveva visto mia madre attraversare la strada che noi non avevamo completamente notato? Eravamo così distratti da non accorgerci di una cosa luminosa che attraversa la strada? Ripartimmo e ci immettemmo nuovamente in carreggiata.

«È sbucato dal bosco quindi sarà stato per forza un coniglio» continuò mia madre dopo aver ripreso a guidare.

«Ah sì, i famosi conigli di luce, pieno zeppo in questo paese» rispose Nathan che non incontrò alcuna risposta da parte di mia madre che rimase abbastanza scossa per tutto il viaggio, pur non dandolo a vedere. Il resto del viaggio lo passammo tutti in silenzio e fu una situazione abbastanza pesante. L’aria in quell’abitacolo sapeva di preoccupazione e tensione che mi si appiccicarono addosso come mosche sulla carta moschicida. Fortunatamente, la mia scuola era la prima della fermata. Mia madre posteggiò temporaneamente a destra per permettermi di scendere. Tentai di scrollarmi di dosso quelle emozioni che avevo addosso, scuotendo leggermente la testa e mi convinsi di averle abbandonate lì sul sedile. Presi lo zaino e aprii la portiera.

«Mi raccomando, passerò a prenderti alle 13:00 puntuali, non perdere tempo a chiacchierare e stai attenta, ok?»

«Noto con piacere che si è ripresa in fretta» disse Nathan sottovoce, facendomi ridere con quella frase. Rassicurai mia madre e chiusi la portiera della macchina. Lei sfrecciò sulla strada come se quei 45 minuti di anticipo per percorrere una distanza di massimo 15 minuti, non fossero abbastanza sufficienti. Sorrisi lievemente e poi mi adagiai sul muretto davanti alla scuola, lasciando lo zaino a terra tra i miei piedi.

Era effettivamente troppo presto, cosa avrei dovuto fare in quella mezz’ora? La mia mente era una ragnatela e se mi sarei messa a pensare troppo per tutto quel tempo, ne sarei rimasta ingarbugliata e avrei trovato difficile uscirne.

Battei i piedi contro il muretto, una, due, tre volte.

Ding.

D’improvviso, un suono di campanellini attirò la mia attenzione. Mi voltai velocemente e cercai con lo sguardo l’origine del rumore ma non notai nulla. Mi rivoltai, puntando lo sguardo sulla scuola e notai una signora con un passeggino che passavano di là, mentre la donna teneva in mano un piccolo sonaglio per distrarre il pargolo. Ecco da dove proveniva il rumore. La noia mi avvolse nuovamente e tornai a battere i piedi sul muretto.

Uno, due, tre.

Ding.

Nuovamente quel suono di campanellini ma la signora era distante, impossibile che il suono di quel sonaglio arrivasse così lontano. Questa volta non mi voltai, respirai un po’ tremolante e riprovai a fare la stessa cosa che aveva provocato il suono prima.

Quattro, cinque.

Nulla.

Una macchina passò, poi un’altra, erano passati solo una manciata di minuti ma iniziavo a vedere i primi studenti avvicinarsi. Forse primini in forte attesa del loro primo giorno o forse ancora gente di altre classi che si era data appuntamento prima dell’apertura del cancello.

“È tutto nella tua testa, Destiny.”

Mi tranquillizzai e battei l’ultima volta i piedi sul muretto prima di alzarmi.

Sei.

Ding.

Persi quasi un battito. Mi alzai girandomi di scatto e finalmente lo vidi. Un gatto dagli occhi cerulei e dal lungo pelo bianco che sembrava emanare luce.

“Devo aver sbattuto la testa più forte di quanto pensassi.”

Collegai in quel momento le due cose. La brusca frenata di mia madre, la cosa luminosa che le aveva tagliato la strada, poteva essere stato quel gatto?

Mi rimisi lo zaino su una spalla e mi avvicinai, chinandomi sulle ginocchia, portando indice e pollice a strofinarsi tra di loro in direzione del gatto.

«Qui micio micio!» esclamai cercando di farlo avvicinare.

Ma il gatto era immobile, mi fissava a debita distanza agitando la coda lentamente in entrambe le direzioni. Notai che portava al collo un collare con attaccate delle campanelle e una targhetta. Ero troppo distante per riuscire a leggere quale fosse il suo nome o se ci fosse un numero di telefono del proprietario da chiamare.

Qualcuno che perde un gatto luminoso? Ironico.

«Neanche il tempo di iniziare l’anno e stai già facendo cose strane!»

Sobbalzai. Avrei riconosciuto quella voce anche nel mezzo di una festa.

Gary era tra le persone che meno apprezzavo in assoluto, non solo della scuola, del mondo intero. Il classico ragazzo belloccio che ha l’attenzione di mezza scuola e che per restare nella sua posizione sociale attuale, deve per forza far sentire inferiore qualcun altro.

Me, in quel caso specifico.

Non perdeva occasione per prendermi in giro e schernirmi su qualsiasi cosa facessi o non facessi e la mia risposta era solo una: il silenzio. Notai che era da solo.

Punto a favore per me.

In gruppo era decisamente più pesante da gestire. Il suo sorrisetto sarcastico fece montare in me una rabbia incredibile. Tremai leggermente mentre mi rimettevo in piedi ma cercai di non darlo a vedere. Era solo il primo giorno ed ero già a rischio denigrazione pubblica, direi il mio miglior record personale.

«Stavo cercando di capire a chi apparteneva questo gatto» dissi con voce sommessa, il più calma possibile. Non avevo voglia di scatenare il lupo proprio il primo giorno. Chissà poi cosa lo scatenasse visto che la cosa più tremenda che potessi mai fare era starmene per conto mio o con le mie amiche.

Lui ridacchiò, guardando attorno a me mentre il mio sguardo si posò rapidamente sul gatto che lo fissò negli occhi a lungo, quasi come se lo stesse giudicando.

«Tu non sei decisamente normale» mi sorpassò sbattendo la spalla sulla mia, facendomi cadere lo zaino a terra che pendeva solo da una spalla. «Dai che quest’anno è quello giusto, ci divertiamo!»

Portai una mano dove mi doleva e mi rigirai mentre lui si dirigeva verso il cancello attraversando la strada. Il gatto era rimasto nella stessa posizione anche se la coda sembrava muoversi più velocemente. Tirai su lo zaino ma nello stesso momento in cui misi la mano sulla spalliera, un'altra mano vi si era poggiata sopra.

«Decisamente non un buongiorno, Destiny»

Serena era probabilmente tra le amiche più care che avevo in quella gabbia di matti. Era sempre al mio fianco, pronta a difendermi, cosa in cui io peccavo terribilmente.

«Non dovresti farti trattare così, lo sai» mi porse lo zaino.

«Lo so ma è solo il primo giorno, non ho intenzione di creare sceneggiate e poi stavo cercando di capire se potevo rintracciare i proprietari di questo gatto»

«Gatto?»

«Sì, il gatto davanti a…» indicai con le mani il preciso luogo in cui il felino si trovava fino a poco prima. Scomparso. «Non capisco, era qui davanti a me fino a pochi secondi fa, anche Gary l’ha visto»

Serena mi guardò con i suoi grandi occhi scuri che esprimevano parecchia confusione mentre un ricciolo dei suoi capelli neri le cadeva sulla tempia. Mi battè una mano sulla spalla e il gesto mi fece sobbalzare.

«Sicura di stare bene?»

Non risposi. Ero sicura di cosa avevo visto, gli occhi azzurri di quel gatto…era come se mi stessero scrutando dentro l’anima. Annuii non poco convinta e riportai lo zaino su entrambe le spalle.

Ci posizionammo entrambe sul muretto e parlammo di cose diverse tra loro. Serena aveva passato delle vacanze estive all’insegna sia dell’avventura che del relax. Mi raccontò di città incredibili, di mari meravigliosi e di foreste che sembravano magiche. Pendevo dalle sue labbra, ogni cosa che raccontava sembrava formarsi dettagliatamente nella mia mente. Il mare con gli scogli all’estrema destra, le città con le casette il cui tetto era dei colori più sgargianti…

«E tu invece? Com’è andata quest’estate?»

«Solita storia. Lavori in casa, visite ai parenti…» i suoi posti da sogno erano nulla in confronto all’appendere i quadri che mia madre aveva tenuto da parte appositamente affinchè fossero esposti in quella stagione.

«E tutti quei sintomi che mi avevi scritto?» sobbalzai leggermente «si sono calmati?»

“No, ora vedo anche gatti fatti di luce” sarebbe stata la risposta più sensata.

Mi voltai a controllare ma dove prima c’era il micio, ora vi erano due ragazzi che scherzavano. L’avevo immaginato davvero? Sembrava così reale…

«Il dottore ha deciso di fare delle analisi più approfondite di cui sto ancora aspettando i risultati.»

Serena mi sorrise, stringendomi forte la mano per infondermi un po’ della sua forza e io ricambiai. Ero davvero fortunata ad averla al mio fianco. Il primo suono della campanella scosse entrambe. Non potevo credere al fatto che stessimo per iniziare il quarto anno delle superiori insieme. Ci alzammo entrambe quasi contemporaneamente e fu Serena ad inaugurare l’inizio di quell’anno.

«Beh, che gli dei ce la mandino buona!»

Ridacchiai mentre la suoneria del telefono che segnava l’arrivo di un messaggio attirò la mia attenzione. Mi affrettai per metterlo in modalità silenziosa ma il mio sguardo si puntò sul messaggio che era appena arrivato.

Da: Mamma
Ho appena ritirato i referti. Ne parliamo dopo a casa.

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Capitolo 3
*** 3. Qualcosa di inaspettato ***


Il primo giorno di scuola mi era sempre sembrata più una formalità. Cinque ore formate da cinque professori diversi che ti chiedevano tutti la stessa cosa:

«Come sono andate le vacanze?»
 
La mia risposta fu la stessa per tutte e cinque le ore.
 
«Sono rimasta a casa per aiutare mia madre con dei lavori» e fui costretta anche a dirla in Francese perché la professoressa ci teneva al fatto che raccontassimo delle nostre esperienze nella lingua che lei insegnava. Sospirai quando sentii l’ennesimo «en français!» rivolto verso il compagno simpatico della classe che ripeteva per la terza volta le sue vacanze, prima in Italiano e poi in Inglese. Serena fu perfetta nell’esposizione delle sue vacanze, prendendosi più tempo rispetto agli altri per permettere alla campanella di suonare e terminare quella lezione. Francese era l’ultima ora e io ringraziai il cielo per aver fatto volare quella giornata in fretta. Raccolsi velocemente lo zaino da terra dopo aver riposto tutto all’interno e mi affrettai verso la porta. Una mano mi strattonò il braccio e fui costretta a fermarmi.


«Dove corri così in fretta?» era Serena che ridacchiava.
«Sono di fretta Serena, perdonami»
«Andiamo Des, è il primo giorno di scuola, domani non abbiamo compiti e siamo entrambe a casa e non in due paesi diversi. Andiamo a farci un giro al Bar Verde, è da tanto che non stiamo un po’ insieme»
 
Aveva ragione, solitamente i primi pomeriggi dopo l’inizio delle lezioni erano quelli più tranquilli e sarebbe stato un peccato non approfittarne. Il pensiero dei referti però mi rimbalzava in testa da quando avevo letto quel messaggio e mia madre avrebbe preferito che quel pomeriggio tornassi a casa. Non me la sentii di dire a Serena dei referti, non prima di averli consultati personalmente. La paura di scoprire cosa ci fosse scritto in quei fogli si insinuò lentamente in me e mi fece compiere, forse, la scelta peggiore in quel momento.
 
«D’accordo, andiamo ma devo avvisare mia madre» risposi mentre mi dileguavo dalla presa di Serena che annuì e fu felice della mia risposta. Ci avviammo entrambe verso l’uscita dell’edificio scolastico e all’ultima rampa di scale tirai fuori il telefono con l’intento di scrivere un messaggio a mia madre ma lei mi aveva preceduta.
 
Da: Mamma a Destiny
Destiny ritarderò di mezz’ora, devo terminare un giro di chiamate con alcuni clienti. Ci vediamo davanti alla scuola alle 13:30, ok?
 
Da: Destiny a Mamma
Ciao mamma, Serena mi ha chiesto di andare al Bar Verde con lei, ci vediamo direttamente a casa più tardi, ok?

 
Premetti il tasto per inviare con un peso sul cuore. Sapevo già che non sarebbe stata d’accordo con la mia scelta ma avevo bisogno di non pensare a cosa stava succedendo in quel momento nella mia testa. Pensavo già troppo ai sintomi e a quanto si fossero fatti più frequenti gli episodi in cui questi si manifestavano ed era giusto che sapessi cosa stesse accadendo al mio corpo ma avrei potuto ritardare di qualche ora. La vibrazione nella mia tasca mi diede una lieve fitta allo stomaco.
 
Da: Mamma a Destiny
Proprio oggi che abbiamo pronti i referti? Aspettiamo da settimane di capire cosa ti succede e ho bisogno di parlarti. Puoi rimandare?

 
Potevo rimandare? Certo ma non ero ancora pronta a reggere il peso di quei referti, qualunque cosa riportassero quei fogli. Indugiai per qualche secondo sulla tastiera. Sapevo di non star facendo la scelta migliore ma la paura stava ormai serpeggiando all’interno della mia testa, impedendomi di pensare lucidamente. Trovai finalmente il coraggio di rispondere.
 
Da: Destiny a Mamma
No, non posso. Con l’anno scolastico in partenza saremo poi impegnate con lo studio. Possiamo vederci più tardi a casa e parleremo dopo, mi farò accompagnare, tranquilla.

 
Mandai il messaggio e infilai il telefono nella tasca del giubbino. In cuor mio, sperai che non rispondesse più, tanto sospettavo già che in qualunque modo finisse quella discussione, lei si era già arrabbiata. Raggiunsi Serena che intanto aveva già superato il cancello e gettai uno sguardo dall’altra parte della strada, dove quella mattina avevo avuto quello strano incontro con quel gatto. Per tutto il tempo delle lezioni mi convinsi di essermelo immaginato. Nessuno lo aveva visto, solo io avevo avuto quella breve interazione quindi il passo da fare nel comprendere che fosse stata un’allucinazione, era breve.
 
«Pronta?» chiese felice Serena con un sorriso smagliante.
«Pron-» la risposta mi morii in gola perché una vibrazione continua in tasca mi fece salire la preoccupazione. Guardai lo schermo.
 
Chiamata da Mamma in entrata
 
Lo sapevo. Quella conversazione non poteva essere finita in quel modo. Fui combattuta se rispondere o meno poi la mia mano si mosse in automatico.
 
Rifiutai la chiamata e spensi immediatamente il telefono.
 
Sapeva con chi ero, dov’ero e cosa sarei andata a fare. Le informazioni importanti le aveva e per una volta, dopo aver passato un’intera estate con lei a casa, volevo fare qualcosa per me, per cercare di non pensare a cosa mi attendeva quella sera a casa. Mi voltai verso Serena e sorrisi di rimando «Sono pronta!»
 
 ---
 
 
L’autobus che dovevamo prendere passò direttamente davanti alla scuola in una decina di minuti. In una decina di minuti, eravamo già arrivate alla fermata più vicina al Bar Verde, il posto più frequentato dagli studenti della nostra scuola. Serena mi raccontò di come si stesse avvicinando a un ragazzo che andava in un’altra scuola, conosciuto tramite amici in comune.
 
«Des, non hai idea di quanto è carino! Un gentiluomo, sta attento a quello che dico, fa dei ragionamenti intelligenti…» ne parlava con gli occhi che brillavano e io ne ero felice. Era andata incontro a ragazzi, negli anni precedenti, che si erano rivelati essere decisamente una perdita di tempo e non era la prima volta che mi raccontava di aver notato quelle caratteristiche in un ragazzo ma io speravo sempre che fosse la volta buona. Se lo meritava, era di animo buono e pronta nell’aiutare gli altri senza dare via completamente se stessa.
 
«E tu invece?» mi chiese, facendomi ridacchiare.
«E io cosa?»
«L’ultimo fidanzato che hai avuto risale ad almeno un anno fa»
«Definirlo fidanzato è un termine quasi troppo alto per lui. Ti sei dimenticata che fece il simpatico con me per arrivare a te?»
«Oh»
 
Se n’era decisamente dimenticata.
 
«Mi innamoro decisamente troppo velocemente» disse con un velo di tristezza a ricoprirle l’espressione sul volto.
«Non è necessariamente un male ma dopo tante delusioni dovresti stare più attenta a chi decidi di dare te stessa» il mio tono di voce fu un dolce rimprovero proprio perché odiavo vederla soffrire all’ennesimo ragazzo che le rompeva il cuore.
«Tu come fai?» mi chiese, voltando la testa verso di me.
«Come faccio cosa?»
«A non finire ogni volta come me»
«Serena io non cerco nessuno, non siamo decisamente nella stessa situazione» e la risposta che diedi mi fece più male di quanto pensassi.
 
Non mi ero ancora innamorata seriamente, non avevo mai baciato nessuno, mai saputo come fosse donare un pezzo di se ad un’altra persona, prepararsi per uscire con quella persona che ti fa battere il cuore. Avevo avuto delle cotte, protagoniste dei miei discreti film mentali ma potevo ambire solo a quello. Ero troppo timida per chiedere a qualcuno di uscire o di sentirci. Serena mi fissò a lungo dopo la mia risposta, ad occhi stretti ed espressione curiosa. Capii subito che mi stava giudicando perché stavo pensando stupidaggini, a suo dire. Cercai di scappare da quella situazione indicando un tavolino libero all’interno del bar e corsi per sedermi. Ordinammo due cappuccini e due pezzi di torta e le ore passarono veloci tra risate e racconti. Fu Serena a interrompere quel pomeriggio guardando l’ora, era tardi e dovevamo avviarci, tenendo anche conto degli orari dell’autobus. Ci alzammo entrambe e portammo tazzine e piattino al bancone.
 
O così fece Serena.
 
Nel breve percorso che divideva il nostro tavolino dal bancone del bar, mi fermai. Era come se avessi perso controllo sulle mie gambe. Tentai di chiamare la mia amica ma nessun suono uscì dalla mia bocca. Iniziai ad andare in panico, la tazza e il piattino ancora in mano. Mi guardai attorno ma il bar iniziò a mutare forma mentre un’aurea violacea avvolgeva la zona. Da sotto i tavolini spuntarono dei cespugli mentre dietro al bancone crescevano istantaneamente grosse querce che sfondavano il soffitto e tutto quello che vi era attorno a loro. Il mio respiro si fece sempre più affannoso mentre arbusti e vegetazione si facevano spazio lungo tutto lo spazio che mi circondava.
 
Ding.
 
Riconobbi quel suono nonostante la distruzione che stava accadendo sotto ai miei occhi. Mi voltai lentamente e strabuzzai gli occhi; lo stesso gatto di quella mattina era poggiato su uno dei tavolini del bar. Gli occhi azzurri sembravano più brillanti dell’incontro di qualche ora prima e la coda si muoveva velocemente.
 
«Che cosa diamine succede?!» urlai ma il suono mi rimbalzò in testa senza uscire dalle mie labbra e fu lì che una forte fitta alla testa mi costrinse a terra. La tazza e il piattino caddero a terra frantumandosi ma senza emettere alcun suono. Mi trovai sulle ginocchia, con la testa bassa e le mani sulla testa cercando di far smettere quel dolore, era forse la fitta più forte che avessi avuto in tutto quel periodo. Urlai nuovamente e sentii qualcosa toccarmi il braccio. Il gatto era ormai vicino a me e mi fissava. Mi si avvicinò, mettendo una delle zampine sulla mia gamba e mi trovai il suo muso vicinissimo, nonostante riuscissi a vederlo solo con occhi socchiusi. Spostò la testa di lato senza perdere il contatto con i miei occhi.
 
Miao?
 
«Destiny!» l’urlo di Serena tuonò improvvisamente e mi riportò in me.
 
La fissai con gli occhi spalancati mentre era chinata davanti a me, il suo viso era colmo di paura e preoccupazione mentre mi teneva le mani sulle spalle. Con estrema calma mi guardai attorno e notai una folta schiera di gente che mi fissava. I cocci delle cose che avevo rotto erano davanti a me e il silenzio che ci avvolgeva mi riempiva di profonda inquietudine. La mia amica si rimise in piedi parlando con uno dei camerieri ma non riuscii a sentire cosa si dissero, nelle mie orecchie aleggiava ancora un lieve sibilo e mi sentivo incredibilmente stanca.
 
«Vieni Destiny, ti porto subito a casa» Serena mi aiutò ad alzarmi, tenendo un braccio attorno a me e una volta in piedi le mie gambe ripresero stabilità dopo un breve ondeggiamento. Ci allontanammo dal bar in silenzio, poi Serena chiamò qualcuno e dal modo di parlare che usò capii subito che si trattava di sua madre. Respirai lentamente, riportando aria ai polmoni. Erano stati forse trenta secondi di crisi ma erano stati i trenta secondi più brutti mai vissuti.
 
«Mamma sta venendo, ti accompagneremo a casa. C’è qualcuno che possa aprirci?»
 
Presi il telefono dalla tasca e lo accesi. Andai oltre i quattro messaggi ricevuti e le cinque chiamate perse dalla stessa persona, mia madre, e guardai l’ora.
 
«Mia madre è sicuramente a casa» risposi brevemente a bassa voce. Serena annuì semplicemente e poi si mise al mio fianco in silenzio. Nessuna delle due sapeva cosa dire. Nessuna delle due aveva idea di cosa fosse successo.

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Capitolo 4
*** 4. Rottura ***


Si erano fatte le 18:30 mentre la madre di Serena mi riaccompagnava a casa. La luce del sole iniziava ad essere più debole rispetto a poche ore prima e a me sembrava tutto molto più buio. Ero ancora frastornata dalla crisi avuta poco tempo prima e la testa mi doleva leggermente ma sopportabile. Il viaggio lo passammo in estremo silenzio, Serena raccontò a grandi linee quello che era successo alla madre, nel momento in cui scese dalla macchina parcheggiata poco lontano dal bar e il suo sguardo mi fece capire che sapeva dell'accaduto.

Non ero pronta a tornare a casa, non volevo parlare, non volevo sentire nulla, volevo solo mettermi sotto le coperte e dormire fino al giorno dopo ma sapevo benissimo che non era possibile. Riconobbi il quartiere e inspirai profondamente per cercare di calmarmi. Persino l'agitazione faticava a trovare una via d'accesso per insinuarsi dentro la mia testa. Ero troppo spossata da quello che era successo quel pomeriggio. La macchina frenò e la madre di Serena si voltò.

«Siamo arrivate Destiny, ti serve una mano a scendere?»
Scossi la testa «No grazie, riesco a camminare»
 
Presi lo zaino e aprii la portiera della macchina in silenzio. Fu Serena a rompere quel muro di mutismo.

«Destiny?»
Mi voltai, incrociando il suo sguardo preoccupato. Era ancora scossa da quanto successo e non potevo biasimarla.
«Fammi sapere come stai più tardi, ok?»
Annuii e tentai un debole sorriso che fungesse da ringraziamento. Lei capì e ricambiò, allungando gli angoli della bocca. Mi fece un occhiolino e la macchina riprese il suo cammino. Mi incamminai verso la porta d'ingresso e suonai il campanello. Fu Nathan ad aprire la porta, facendomi sobbalzare leggermente, visto lo sguardo serio che aveva in volto.

«Mamma è già arrivata?» chiesi.

Nathan annuì, facendomi entrare e puntò il dito indice verso la cucina. Mamma stava già preparando la cena e non sembrava di cattivo umore, vista di spalle perlomeno. Entrai in cucina lasciando cadere a terra lo zaino e lei si voltò sorridendomi amaramente mentre si asciugava le mani con un canovaccio. Fui confusa nel vedere quella sua reazione ma cercai di non darlo a vedere. La vidi prendere una sedia e accomodarsi mentre, successivamente, fece segno a me di fare la stessa cosa. Mi avvicinai al tavolo e mi accomodai su una delle sedie in modo che i nostri sguardi fossero uno davanti all'altro.
 
«Spero che il pomeriggio sia stato gradevole» iniziò lei la discussione con tono freddo e uno sguardo che non riuscivo a decifrare quale emozione stesse tirando fuori.
 
«Mamma mi disp-» ma mi interruppe, lanciandomi lungo il tavolo una cartelletta bianca con il simbolo e il nome dell'ospedale. I referti. Afferrai la cartelletta e con il cuore in gola la aprii ma la mia comprensione fu decisamente ridotta visto che non capivo nulla di quei numeri e di quei valori. Feci per parlare ma fui interrotta di nuovo.
 
«I referti sono tutti ottimi. Il dottore dice che sei in salute e non hai nulla se non, probabilmente, un po' di stress»
 
Qualcosa mi si sciolse in petto e mi sentii più tranquilla. Come se un forte peso che aveva trovato lì ormai la sua residenza, veniva rimosso tutto d'improvviso e in un'unica volta. Avrei voluto accennare un sorriso ma la situazione mi sembrava decisamente molto tesa. Nathan entrò nella mia visuale e si appoggiò allo stipite della porta, anche la sua espressione era pregna di tensione.
 
«È...è una buona notizia, giusto?» riuscii finalmente a dire senza interruzioni. Mia madre sorrise ma non vi era felicità in quello sguardo. Le sue labbra erano allungate ma notai nei suoi occhi un bagliore di nervosismo.
 
«Oh è un'ottima notizia, Destiny» rispose «sono contenta che tu stia bene. Va pure a lavarti le mani, è quasi pronto»

Si alzò dalla sedia per tornare ai fornelli e iniziai a sentirmi fortemente a disagio. Cercai lo sguardo di mio fratello che però era fisso sul pavimento e iniziai a comprendere. La miccia della bomba era accesa da troppe ore ed era pronta a scoppiare, in quella cucina. Restai ferma al mio posto, tentando in qualche modo di arginare i danni dell'esplosione che sarebbe arrivata di lì a poco.
 
«Mi spiace di aver spento il telefono e di averti fatta preoccupare» dissi tutto d'un fiato e mi sembrò di averla lanciata dall'alto perchè vidi quel "mi dispiace" cadere lentamente dal soffitto e poggiarsi sulle pentole. Mia madre si fermò di scatto a quelle parole e si voltò, la stessa espressione di prima in volto.

«Dubito tu ne sia dispiaciuta, è stato un bel pomeriggio no?»

Ripensai subito a quell'episodio del bar che non era strato proprio gradevole e annuii. Lei sorrise nuovamente e si voltò verso i fornelli. Non sapevo più come gestire la situazione e allora mi alzai. Mi avvicinai alla porta e feci per raccogliere lo zaino da terra...
 
«Quindi la crisi di oggi hai intenzione di tenertela tutta per te?» ...ma mi fermai a quelle parole. Mio fratello accanto a me guardò prima nostra madre e poi il suo sguardo si poggiò su di me. Guardai mia madre e realizzai che avevo iniziato leggermente a tremare.

Come sapeva della crisi? Io non gliel'avevo detto sicuramente, la madre di Serena non aveva fatto in tempo e...
 
«Ti stai chiedendo come lo so? Serena mi ha scritto un bel messaggio»
 
Serena. Capivo la preoccupazione ma davvero era arrivata al punto di scrivere un messaggio a mia madre raccontandole dell'accaduto?
 
«Te l'avrei detto dopo cena ma poi ho visto le analisi e...»
«E hai pensato che fosse saggio non dirmi di quanto è successo.»
«Non ho mai detto che fosse saggio, mamma.»
 
Il coperchio cadde sulla pentola provocando un forte rumore che fece sobbalzare me e mio fratello.
La miccia era arrivata alla fine del suo percorso.
Mia madre si voltò, un'espressione completamente diversa in volto, piena di rabbia.
 
«Questo è il problema Destiny. Tu non dici nulla. Se i sintomi non fossero capitati quest'estate davanti a noi, chissà quando lo avremmo saputo. La crisi di oggi? Sarebbe stato un miracolo saperlo entro la fine dell'anno.»
 
Aprii la bocca per replicare ma notai i suoi occhi vividi di rabbia e i pugni stretti e l'idea migliore mi parve quella di rimanere in silenzio e lasciarla parlare. Non ero d'accordo con quello che stava dicendo ma non ero nel migliore dei momenti per iniziare una discussione. Mia madre continuò la sua ramanzina battendo sempre gli stessi punti.
 
"Io non parlavo."
"Io vivevo nel mio mondo."
"Non sei mai partecipe di nulla in questa famiglia."
 
Quelle frasi ormai le conoscevo a memoria, erano sempre le stesse. Ad un certo punto alzai lo sguardo, puntando i miei occhi nei suoi. Qualcosa si mosse dentro di me e per la prima volta non lo misi a tacere ma gli diedi voce.
 
«Mi piacerebbe parlare ed essere parte di questa famiglia se tu mi ascoltassi ma in questa casa è come se ci foste solo tu e Nathan, Destiny è un'aggiunta. Ogni volta che cerco di dire qualcosa vengo interrotta, ogni volta che ti chiedo qualcosa vengo zittita, sono così poche le volte che riesco a sentirmi parte di questa casa e di questa famiglia che riesco a contarle sulle dita della mia singola mano sinistra» calò il silenzio dopo il mio sfogo. Mia madre mi fissò con la bocca leggermente aperta e mio fratello aveva un'espressione incredula in volto. Erano poche le volte che riuscivo a rispondere durante una discussione ed ogni volta si creava una situazione di incredulità. Mia mamma ridacchiò battendosi la mano sinistra sul grembiule da cucina all'altezza dei fianchi.
 
«Forza, fammi una domanda ora, una qualsiasi proprio per smentire queste tue assurdità.»
 
Non me lo feci ripetere due volte e presi la palla al balzo.

«Voglio sapere di più su cos'è successo con papà» e la palla di poco prima, probabilmente mi cadde in testa. Lo immaginai ma sentii come se fosse calato un forte gelo in quella stanza, con tanto di stalattiti appese al soffitto. Avevo forse scelto la domanda peggiore ma il pensiero di quell'album di famiglia rovinato non mi aveva lasciato da quella mattina e non mi dava pace.
 
«L'ho già detto un milione di volte ma se ti piace sentirtelo dire, lo ripeterò di nuovo: tuo padre ci ha lasciato perchè non aveva più voglia di prendersi le sue responsabilità ed ora vive lontano con un'altra famiglia»
«Dove vive?»
Ridacchiò prima di rispondere. «Dovrebbe importarmene?»
«È nostro padre» replicai in tono serio. Volevo sapere dov'era, volevo parlargli perchè i miei ricordi, seppur fossi piccola, erano di un papà buono e non potevo credere che, di punto in bianco, avesse deciso di andarsene. Crescendo iniziai a comprendere che poteva succedere che uno dei due si stancasse e decidesse di andarsene di casa ma io volevo parlare con lui e se la stessa risposta fosse uscita dalle sue labbra, mi sarei messa l'anima in pace.

«Non mi sorprende che tu voglia sapere dov'è tuo padre, siete entrambi ottimi nell'aggirare le proprie responsabilità»
 
Aggrottai le sopracciglia, quella frase alimentò ancora di più quella cosa che si muoveva all'interno del mio corpo. Aprii la bocca per rispondere ma una mano sul braccio mi fermò e mi fece voltare. Nathan mi guardò negli occhi, scuotendo la testa, quasi come ad invitarmi a lasciar perdere quella discussione. Morsi il labbro inferiore così forte che mi sembro quasi di farlo sanguinare e gli occhi iniziarono a pungermi. Ripresi lo zaino da terra e salii nervosamente le scale che portavano alla mia stanza, sbattendo la porta. Lanciai lo zaino a terra e mi accasciai a terra, lasciando uscire le lacrime che minacciavano di uscire poco prima in cucina. Portai le mani sul volto, coprendomi il volto e soffocando i singhiozzi. Era stato un primo giorno pessimo, dall'inizio alla fine. Rimasi in quella posizione per diversi minuti e quando sentii di essermi calmata mi rialzai, avvicinandomi al letto. Gli occhi mi caddero sulla fotografia che tenevo accanto al comodino, raffigurante tutta la famiglia, papà compreso, anni prima quando ancora eravamo tutti insieme. Chissà se non ricordassi io le numerose litigate che accadevano tra i miei, probabilmente mia madre aveva ragione ed io ero ancora troppo giovane per capire. Guardai la fotografia e qualcosa non tornava. La faccia di mio padre era...sbiadita. Sembrava quasi come se vi avessero passato sopra una gomma per cancellarlo. Passai il dito sul vetro della cornice per assicurarmi che non fosse sporca ma non cambiò nulla. Le foto erano tutte rovinate, quasi come se il ricordo di mio padre, la sua intera esistenza dovesse essere dimenticata da quel luogo. Gettai la cornice nel cassetto del comodino e mi sdraiai sul letto. Una vibrazione riportò i miei pensieri alla realtà. Estrassi il telefono dalla tasca per rivelare un nuovo messaggio.

Era Serena e le mie sopracciglia si aggrottarono nuovamente.
 
Da: Serena a Destiny
Des, come stai? Spero tu ti sia ripresa dopo quanto accaduto oggi pomeriggio. Riposati, mi raccomando e aggiornami.
 
La mia rabbia montò nuovamente in petto e non riuscii a controllarla mentre scrivevo una risposta.
 
Da: Destiny a Serena
Come hai potuto scrivere a mia madre quello che è successo oggi? Dovevo dirglielo io, non venirlo a sapere da te.
 
Il telefono vibrò nuovamente ma lo gettai con rabbia sul fondo del letto. In un misto di delusione, tristezza e rabbia, fu Morfeo a prendermi tra le sue braccia, in poco tempo, mentre ancora singhiozzavo nervosamente e caddi in un sonno profondo.

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Capitolo 5
*** 5. Il bosco ***


La mattina dopo fui svegliata da un raggio di sole infiltratosi abilmente tra le tapparelle che puntava in direzione dei miei occhi. Mi portai la mano al viso e la strofinai. Il silenzio che aveva preso possesso di quella casa, quella mattina, era incredibilmente magico. Respirai a pieni polmoni per cercare di prendere un po’ di quella calma e trasferirla anche dentro di me. Presi il telefono, che nella notte aveva deciso di danzare e infilarsi in fessure del letto a me sconosciute.

Le 9:43.

L’orario mi pesò più di quanto mi aspettassi. Nessuno mi aveva chiamata per la scuola, nessuno aveva cercato di svegliarmi. La tristezza e la delusione si mescolarono insieme, buttandosi su di me come se fossi un’ottima preda. Sbuffai e mi alzai dal letto. In ritardo il secondo giorno di scuola non era proprio il risultato a cui ambivo. Presi i primi vestiti dall’armadio e mi diressi verso il bagno. Aperta la porta, mi colpii subito quanto il silenzio fosse totale. I miei passi sembravano quelli di un gigante, era una situazione davvero strana.

“È tutto nella tua testa, Destiny.”

E forse lo era davvero, forse stavo ancora sognando e quello che stavo vivendo era un sogno. Sarebbe stata una spiegazione valida all’estremo silenzio e al fatto che nessuno mi avesse chiamata per prepararmi. Oppure ero diventata invisibile e non lo sapevo. Mentre mi muovevo in direzione del bagno, in fondo al corridoio, buttai un’occhiata alle camere alla mia sinistra, rispettivamente quella di mio fratello e quella di mia madre. I letti erano vuoti e ancora disfatti. Cercai di non badarci ulteriormente e aprii la porta del bagno per sistemarmi.

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Tempo una ventina di minuti ed ero già alla fermata del pullman che fortunatamente non distava molto da casa. Il cielo non era dei migliori e qualche tuono in lontananza aveva già deciso di far sentire la sua presenza ma ancora nessun accenno di pioggia. Solo grosse nuvole grigie che si muovevano distrattamente. Tentai di non pensare a quanto era successo la sera prima e a come quella sequela di eventi avessero portato all’essere completamente esclusa la mattina successiva. Ecco perché preferivo non rispondere, le discussioni non portavano mai a nulla di buono e quella ne era la prova. Alzai lo sguardo al cielo e mi sentii proprio come una di quelle nuvole in cielo: grigia, distratta e senza una meta. Fu il rumore del motore dell’autobus a riportare il mio sguardo a terra.

Salii e presi posto, rigorosamente in fondo e con il finestrino alla mia destra. Il mezzo era semi vuoto, l'orario di punta era ormai passato ed i passeggeri erano in netta minoranza rispetto a quando lo prendevo la mattina presto. L'autista fece due fermate e poi prese la direzione verso la scuola. Essendo un autobus di linea, mi avrebbe lasciato un po' distante dalla scuola ma andava bene lo stesso. Lottai costantemente contro la mia vocina interiore che mi diceva di tornare a casa, che la giornata era già pessima di suo. Qualche goccia di pioggia iniziò a decorare il finestrino e vi poggiai la testa, stanca e affranta. Mi sentivo un enorme vuoto in petto e la sensazione era quella che mi stesse divorando dall'interno. Forse sarei diventata davvero invisibile a breve. Fu qualcosa di luminoso a lato della strada a riportare i miei pensieri in ordine. Eravamo fermi ad un semaforo e riuscii a vedere chiaramente di cosa si trattava.

Il gatto bianco.

Non era possibile. L'impulsività ebbe il sopravvento, presi con foga lo zaino e corsi verso l'autista. Dovevo approfittarne in quel momento mentre l'autobus era ancora fermo.

«La prego apra le porte, devo scendere!» dissi a voce alta.
«Non posso aprire le porte mentre siamo per strada, devi attendere la prossima fermata.» fu la risposta secca dell'autista che nemmeno si girò per guardarmi.
«Le sto chiedendo per favore di aprire le porte, ho urgenza di scendere qui» dissi nuovamente.
«Signorina, le ho già detto che non pos-»
Persi la pazienza e sbattei il pugno sulla vetrata.
«Apri queste cazzo di porte!» urlai.

Non riconobbi me stessa in quel gesto o in quelle parole ma qualcosa in me iniziò a muoversi nuovamente e non potevo lasciar sfuggire quella sensazione. L'autista si girò a guardarmi con gli occhi leggermente spalancati e senza dire una parola, aprì le porte del mezzo. Lasciai uscire uno sbuffo e corsi per gli scalini. Il gatto era ancora lì, mentre io velocizzavo il passo a lato della strada, senza marciapiede e con solo il guard-rail da separatore. Velocizzai il passo ma mentre fui a solo pochi passi dal felino, lui corse verso sinistra, superando la protezione. Fu solo in quel momento che alzai lo sguardo e realizzai dov'ero. Davanti a me si ergeva maestoso il bosco del paese, cupo ed angosciante come non mai. La pioggia aumentò leggermente di intensità. Il mio sguardo tornò sull'autobus che aveva ripreso la sua corsa verso le successive fermate e sentii qualcosa dentro di me muoversi in segno di negazione mentre guardavo in quella direzione ma agitarsi ferocemente mentre voltavo gli occhi nuovamente su quella distesa immensa di alberi e folta vegetazione.

«Maledizione» sospirai a bassa voce e scavalcai il guard-rail. Potevo ancora vedere la scia luminosa del gatto, favorita dal fatto che l'atmosfera era grigia in quel luogo, nonostante la pioggia non fosse comunque di grande aiuto. In poco tempo, le mie scarpe furono piene di fango e resero più fastidioso addentrarsi dentro al bosco. Tutte le storie che per anni mi avevano raccontato su cosa albergasse in quel posto tornarono alla carica nella mia mente, provocandomi allucinazioni e facendomi vedere ombre dietro gli alberi.

Ma non mi interessava.

Dovevo trovare quel gatto e capire questa crescente curiosità interiore da dove scaturisse. La mia parte razionale si faceva sempre più piccola e la sentiva a malapena dirmi che stavo facendo una pazzia e che addentrarmi in un bosco, nel bel mezzo di un acquazzone a inseguire un gatto di cui non sapevo nulla era da folli totali. Ma non volevo più sentire il vuoto e la delusione che avevo provato quella stessa mattina. Saltai alcuni rami e dovetti passare attraverso dei rami che ostruivano il passaggio di fronte a me. Più mi addentravo, più il bosco sembrava diventare incredibilmente buio, favorito anche dal fatto che non vi era la minima traccia di sole quella mattina. Un dolore alla mano sinistra arrivò pungente: mi ero tagliata con qualche spina o qualcosa del genere. Tornai al mio obiettivo. La scia lasciata dal felino era l'unica cosa che riusciva a guidarmi in quella folta vegetazione. Salii sopra due grandi massi e, lentamente, scesi per trovarmi di fronte altri rami che mi bloccavano il passaggio. Spostai il più possibile con le mani, tirando su le maniche del giubbino per non peggiorare la ferita alla mano sinistra e quello che trovai di fronte a me fu pazzesco.

Uno stagno di dimensioni abbastanza grandi che brillava di un azzurro intenso nel bel mezzo della foresta.

«E questo che ci fa qui?» esclamai. Non ricordavo che nessuno aveva mai menzionato di uno stagno di tali dimensioni e di un colore così vivace all'interno del bosco. La sorpresa durò comunque poco perchè dall'altra parte dello stagno vi era il gatto che mi fissava muovendo la coda velocemente. Mi affrettai per raggiungerlo ma ogni volta che mi avvicinavo, lui scappava sistematicamente dall'altro lato.

«Davvero divertente micio ma voglio solo aiutarti a trovare la tua casa.»

Il gatto rimase immobile senza distogliere mai lo sguardo da me e da ogni mio movimento. Fu in una frazione di secondo che accadde qualcosa di inaspettato. Il micio balzò in aria e si gettò a capofitto nel centro dello stagno. Rimasi qualche secondo paralizzata da quella scena senza capirne il significato. Alle prime bolle che si increspavano sulla superficie dell'acqua, tornai in me, sbattendo gli occhi rapidamente. Dovevo agire in fretta. Forse era stata una sua sbadataggine, forse era scivolato, dovevo comunque salvarlo. Lasciai lo zaino a terra e mi immersi in acqua. Era gelida e dovevo fare il più in fretta possibile. Più mi addentravo verso il centro, più mi sembrava che l'acqua diventasse ogni mio passo più torbida ma forse era solo il cambio di prospettiva. Mi mossi in acqua aiutandomi con le mani, spostando l'acqua davanti a me e cercando sul fondale traccia del gatto bianco ma non riuscivo a vedere nulla. La pioggia si fece ancora più forte e mentre mi guardavo attorno, sentii il panico crescere ma non ebbi modo di farlo entrare nella mia testa perchè qualcosa mi tirò a picco verso il fondo. Chiusi gli occhi d'istinto e tentai di tornare verso la superficie ma il mio corpo era completamente paralizzato.

"È la fine. Non ci credo che il mio istinto mi ha portato alla morte."

Tentai di pensare a come uscire da quella situazione ma qualsiasi idea veniva frenata dal fatto che il mio corpo semplicemente non rispondeva più, come se avesse avuto un blackout. Ebbi solo la sensazione di girare in senso orario, una, due e poi tre volte. Fu allora che mi ritrovai di nuovo in superficie. Aprii gli occhi di scatto, mi misi seduta e respirai in maniera concitata per cercare di riprendermi da quello che era successo. Mi toccai la testa, poi il petto, la gambe, ero ancora tutta intera. Solo dopo realizzai del sole che si stagliava alto nel cielo.

"Sole?" pensai. Un acquazzone del genere che finisce in poco tempo e fa tornare il sole non era decisamente normale. Poi diedi un'occhiata più approfondita ai dintorni. Mi trovavo in una radura verdeggiante, con qualche fiorellino sparso qua e là e un leggero venticello che impediva al sole di essere spietato con il suo calore. Mi accorsi di essere seduta su una pozzanghera d'acqua che si stava ritirando sempre di più fino a lasciare solo qualche gocciolina attorno a me e nel punto in cui ero seduta.

Che cosa diamine stava succedendo?
Ero morta e finita in paradiso?
Dov'era finito il gatto?
Dov'ero finita io?

«Ooooohi!»

Il turbinio di dubbi e pensieri fu interrotto da una voce che urlava a distanza e proveniva dietro di me. Mi voltai restando seduta con le mani unite sul petto, quasi a sperare che stessi sognando e che in realtà non era successo nulla. L'autobus, il gatto, il bosco, lo stagno, probabilmente stavo sognando tutto. La figura che mi aveva urlato poco prima si avvicinava sempre di più e più vicina si faceva, più velocemente mi accorsi che erano due persone e non una. Vestite con una divisa bianca e rossa, erano due uomini dai capelli scuri che a prima occhiata mi sembravano quasi identici. Solo quando furono ormai davanti a me mi rivolsero nuovamente la parola.

«Che ci fai qui? Hai perso la strada per l'accademia?»
«Accademia?» replicai.
Uno dei due sollevò il braccio indicando in lontananza verso sinistra «L'accademia è per di là, se hai perso la strada ti ci portiamo noi. Siamo studenti.»

Ero ad un passo dal mettermi a urlare.

«In questa accademia c'è un telefono con cui posso fare una chiamata?» chiesi.
I due si guardarono quasi divertiti da quella domanda ma non vi era alcun segno di schernimento nei miei confronti.
«Certo che c'è un telefono!»
Il secondo ragazzo, che non aveva ancora proferito parola, mi porse una mano per aiutarmi a sollevarmi da terra. La presi e mi rimisi in piedi sulle mie gambe, constatando che non avevo nulla di rotto. Mi ricordai della ferita alla mano sinistra provocata da quell'inseguimento nel bosco ma quando la cercai, era completamente sparita. Sulla mano non vi era segno di alcun taglio. Feci un respiro profondo senza riuscire però a placare le miriadi di emozioni che si stavano accalcando dentro di me in quell'istante. Fu ancora una volta quella sensazione nel petto a spingere la mia volontà e decisi di seguire i due giovani, nella speranza di poter trovare un telefono in questa Accademia che mi avrebbe riportato a casa.

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