In the End

di 18Ginny18
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 – COME TUTTO EBBE INIZIO ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 – LA LUCE DI DIAGON ALLEY ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 – LACRIME DOLCI E LACRIME AMARE ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 – L'ANTRO INFERNALE - parte 1 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 – L'ANTRO INFERNALE - parte 2 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 – SEI IL MIO SOLE, IL MIO UNICO SOLE ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 – IN PREDA ALLE EMOZIONI ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 – NEL CUORE DELLA NOTTE ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - SITUAZIONI DIFFICILI ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - CON LE SPALLE AL MURO ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - IN TRAPPOLA ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 – LA MASCHERA ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 - LA SPERANZA CHE NON SIA UN'ILLUSIONE ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 – COME TUTTO EBBE INIZIO ***


ATTENZIONE!
Questa storia può trattare tematiche sessuali o violente. Alcune scene potrebbero soffermarsi un po’ sui
particolari e urtare la sensibilità di alcuni lettori.


Capitolo 1 Come tutto ebbe inizio

Marcus Darcy, o meglio dire l’ospite all’interno del suo corpo, un Essere superiore, stava correndo come un folle per le strade di Londra, tentando di sfuggire ai suoi carcerieri: i Mangiamorte, che non avevano alcun riguardo per le persone che intralciavano il loro cammino durante l’inseguimento; qualsiasi babbano, mago, strega e bambino moriva sotto le loro bacchette.
Non importava chi fossero. Non provavano nemmeno un minimo di compassione. Erano d’intralcio, dunque dovevano morire.
Marcus non poteva tollerare tanta crudeltà, ma nonostante cercasse di avvertire le persone che trovava sul suo cammino di scappare e nascondersi, quelle lo guardavano ad occhi sbarrati come se fosse pazzo e il più delle volte lo ignoravano e basta. Grosso errore. Marcus non faceva nemmeno in tempo ad avvertirli che li vedeva morire ai suoi piedi dopo che un lampo di luce verde li colpiva in pieno.
Quei maghi erano davvero spietati.
Entrò in molti edifici senza mai smettere di correre.
Zigzagava di qua e di là pur di seminarli, ma senza successo; loro erano sempre lì. Ovunque si girasse trovava sempre un Mangiamorte dietro l’angolo, pronto ad assalirlo.
Lo trovavano sempre.
Marcus non poteva usare i suoi poteri o avrebbe esaurito le ultime energie che gli rimanevano. Per non parlare delle ferite che aveva il suo involucro umano, che non gli davano nemmeno la possibilità di smaterializzarsi.
Trovare una soluzione in quel marasma di disgrazie sembrava impossibile, ma lui era un tipo tenace e di certo non si sarebbe lasciato catturare una seconda volta. Doveva solo escogitare un piano.
Nella foga della sua corsa sbatté contro una porta di un vicolo, che lo condusse lungo un corridoio stretto e buio nel quale zoppicò fino a raggiungere una grande sala da teatro; era poco illuminata e, per sua fortuna, sembrava vuota quindi non ci sarebbero state altre vittime innocenti.
Mentre correva in quella sala la sua mente lo riportò al passato, un passato che non era suo, ma del suo ospite, il vero Marcus: un passato fatto di balli, salotti, corteggiamenti, presentazioni in società e serate a teatro. Era la cosa bella degli umani: trovavano sempre il modo di far sentire gli Esseri superiori come lui coinvolti. Era inevitabile.
Non poteva però lasciarsi sopraffare da quei ricordi improvvisi, per quanto fossero belli.
I Mangiamorte lo raggiunsero in meno di qualche secondo. Gli stavano alle costole come un’ombra, senza dargli un attimo di fiato.
Gli lanciavano un incantesimo dopo l’altro, con l’intento di stordirlo o incatenarlo, e lui ne schivava il più possibile, lottando con il dolore lanciante delle sue ferite: costole incrinate, che gli provocavano dolore a ogni movimento; il braccio e la gamba destra erano fratturate e, probabilmente, aveva anche una leggera commozione cerebrale. Ma non poteva permettersi di riposare. Doveva seminarli.
La sua corsa, però, sembrò avere vita breve quando raggiunse uno dei corridoi della platea, vicino all’uscita d’emergenza. Qualcuno si era materializzato davanti a lui, sbarrandogli la strada.
Incespicò e perse l’equilibrio, cadendo all’indietro per l’improvvisa apparizione di Lord Voldemort in persona.
Marcus lo aveva riconosciuto all’istante. Era impossibile per lui dimenticare un viso, soprattutto quello del mago Oscuro che gli stava davanti: era certo che un tempo fosse completamente diverso, forse era persino un bell’uomo, ma i sortilegi oscuri al quale si era sottoposto per ottenere maggior potere lo avevano tramutato in mostro.
Non aveva paura di lui. Niente e nessuno poteva spaventare un Essere superiore, ciononostante, una volta rimesso in piedi, Marcus si ritrovò ad arretrare, lentamente.
Non aveva bisogno di voltarsi per sapere che i Mangiamorte erano dietro di lui, con le bacchette puntate dritte alla sua schiena. Li percepiva.
Era in trappola.
Gli occhi rosso sangue di Voldemort erano fissi su di lui, guardandolo dall’alto in basso con un luccichio di trionfo, mentre sul suo volto deformato spuntava un agghiacciante sorriso.
- Perché tanta fretta? - gli domandò l’Oscuro con voce bassa, simile a un sibilo. - Dammi ciò che voglio e sarai libero…
Avanzò di un solo passo e Marcus arretrò di uno. Divertito, Voldemort avanzò ancora, ancora e ancora, trasformando i loro movimenti in una strana danza.
Marcus lanciò occhiate discrete in quella stanza, in cerca di vie di fuga, trovando solo un’uscita d’emergenza proprio alle spalle del mago Oscuro. Era impossibile da raggiungere.
Il suo destino era ormai segnato… o quasi.
Dentro di lui vi era ancora una piccola fiammella di speranza che riuscì a dargli la forza necessaria. Anche se non poteva combattere, poteva sempre correre.
Non ci pensò due volte a scattare verso l’uscita d’emergenza e riprendere la sua folle e inutile corsa. Una volta spalancata la porta, sgusciò fuori inseguito dalla risata sommessa e beffarda di Lord Voldemort.
- Dove credi di andare?
Lo seguiva con passo tranquillo, senza alcuna fatica, lanciandogli qualche incantesimo di tanto in tanto, ma senza colpirlo. Stava giocando con lui, non aveva alcuna intenzione di ferirlo. Non ancora, almeno.
Voldemort lo aveva torturato, tenuto prigioniero per giorni e portato al limite. Ormai la vita di Marcus si stava accorciando sempre di più e non riusciva a difendersi come poteva, questo Voldemort lo sapeva benissimo e quindi gioiva nel vederlo al limite.
Dopo aver attraversato un lungo corridoio, entrarono in un’altra sala un po’ più piccola della precedente, ma che per fortuna era anch'essa deserta.
Marcus passava da un sedile all’altro cercando di raggiungere la porta al di là della sala e Voldemort, alle sue spalle, non riusciva a trattenersi dal ridere di gusto. Era inequivocabilmente divertito.
- Non puoi scappare ancora per molto – gli urlava dietro, ma Marcus non fermò la sua corsa, anzi, quando vide che la via d’uscita era vicina riuscì ad attingere a un briciolo del suo potere per aumentare la velocità, riuscendo così ad evadere da quel teatro.
Si nascose in un vicolo, dietro dei cassonetti.
Si guardò alle spalle, Voldemort non si vedeva. Non era uscito da quella porta, ma sapeva che era lì anche lui e che lo stava osservando. Lo sentiva.
Marcus era indeciso se riprendere a correre o smaterializzarsi. In ogni caso non si sarebbe fatto catturare. Nemmeno da morto.
Chiuse gli occhi e inspirò a pieni polmoni. Espirò.
Era ormai allo stremo.
Avvertì i battiti del proprio cuore diminuire ad ogni respiro: ormai mancava poco. Nonostante camminasse su quella terra da quasi centonovantacinque anni, il suo involucro stava cedendo prima del suo tempo.
Mancavano solo pochi granelli nella sua clessidra. Lo sentiva.
Le ferite erano troppe per porvi rimedio senza attingere ad ogni briciola del proprio potere.
No. Non poteva sprecarlo.
Quando riaprì gli occhi non provò il minimo stupore quando vide gli occhi di Voldemort che lo fissavano da pochi passi di distanza dal suo volto. Quel mago era in grado di fare magie al di là dell’immaginazione di qualunque mortale… ma non sarebbe mai stato forte come lo era un Essere superiore e nemmeno altrettanto furbo.
- Ti arrendi così facilmente? Mi deludi – pronunciò in un sibilo il mago Oscuro. - Credevo che la tua razza combattesse davanti al pericolo… non che fuggisse come uno stupido coniglio. Ma devo ammettere che è stato divertente inseguirti... Adesso, però, sei in trappola, mio caro amico. Consegnami ciò che voglio...
Marcus non si guardò nemmeno attorno. Sapeva che i Mangiamorte lo avevano accerchiato come un branco di iene assetate di sangue davanti alla preda. Lo percepiva con ogni fibra del suo essere.
Si portò una mano al petto, avvertendo una fitta di dolore.
Voldemort inclinò la testa di lato e sorrise: - Manca poco ormai. Consegna a me il tuo fardello e sarai libero dal dolore.
Marcus sbuffò un sorriso. - Credi di essere il primo? Credi che io non abbia avuto altri folli come te alle calcagna? Mi dispiace tanto per te se credi che io sia così stupido da darti un potere simile.
- Ma sei tu che deciderai chi sarà il prossimo ospite prima della tua dipartita o sbaglio? - disse Voldemort, avanzando lentamente verso di lui. - Quindi, se io ti obbligassi a scegliermi…
- Non lo farò mai!
- Tu lo farai, invece – ribatté Voldemort. - Altrimenti tutti gli innocenti che passeggiano ignare della nostra esistenza per le vie di questa città… moriranno.
- Li ucciderai comunque.
Sì, ne era più che certo.
Voldemort sospirò, rigirandosi la bacchetta tra le dita. - A quanto pare non lo sapremo mai – la puntò contro di lui. - Crucio! - sibilò.
Marcus cominciò a contorcersi, in preda al dolore. Era un dolore immaginabile, come mille lame incandescenti che lo traversavano da parte a parte.
Non urlò.
Non avrebbe dato alcuna soddisfazione a quel mostro.
Il dolore cessò solo per un’istante. - Dammi ciò che voglio – sibilò Voldemort, chinandosi su di lui.
Marcus gli sorrise, divertito. - Dovrai… uccidermi – biascicò, trattenendo il dolore che permeava ancora il suo corpo.
- Oh, vorrei farlo… Ma sappiamo entrambi cosa succederà...
La voce di Voldemort era poco più che un sussurro, inquietante e agghiacciante come sempre, ma tradendo una nota di fastidio. - Non appena ti ucciderò, tu scomparirai... e se scomparirai non potrai scegliere il prossimo ospite – sospirò, contrariato. Marcus lo stava facendo arrabbiare. - Vedi? È un vero problema se non ti decidi a collaborare…
Marcus si tirò su, poggiando la schiena su quel sudicio cassonetto dell’immondizia e fissò i suoi occhi su quelli rossi del mago Oscuro. - Non otterrai mai ciò che desideri. Non lo permetterò.
Un sibilo minaccioso fuoriuscì dalle labbra di Voldemort. - Crucio! - ringhiò, furioso. - Crucio!
Il corpo di Marcus sembrava avvolto dalle fiamme tanto era il dolore e il bruciore di quella Maledizione. Le sue gambe, però, non cedettero.
Restò in piedi, subendo i colpi del mago Oscuro senza emettere un solo grido di dolore.
Era forte.
Poteva resistere ancora un po’.
Voldemort fece scattare la bacchetta ancora e ancora, provocandogli tanto di quel dolore da fargli desiderare di esplodere all’istante. Poi allontanò la bacchetta e avanzò di un passo, arrivando quasi a sfiorare il volto di Marcus con il suo.
I suoi occhi si ridussero a due fessure. - Hai solo un’opzione – disse. - Scegli me come ospite per la prossima entità Primordiale o te ne farò pentire amaramente.
Quella minaccia non sortiva l’effetto che sperava.
Anche se a fatica, Marcus trovò il modo di sorridere. Le forze cominciavano a venir meno, ma aveva ancora una carta da giocare.
- Mai – disse in un sussurro appena udibile, dopodiché si concentrò su quel poco di magia che gli restava al quale era costretto ad attingere.
Voldemort sembrò capire le sue intenzioni, ma non poté fare nulla per impedire ciò che stava per accadere.
Prima di chiudere gli occhi Marcus vide quel volto inumano contorcersi in un’espressione furiosa prima di urlare la sua furia.
Accadde tutto in meno di un secondo.
Riuscì a scappare dalle grinfie del Mago Oscuro smaterializzandosi dall’altra parte della città. Quel vantaggio gli aveva fatto guadagnare del tempo prezioso. Avrebbero impiegato ore prima di rintracciarlo nuovamente.
Arrancò, con una mano poggiata al fianco dolorante, fino all’ingresso del San Mungo. Era l’unico luogo che gli era venuto in mente, probabilmente perché quel corpo aveva amato una dolce infermiera secoli prima e, inconsapevolmente, aveva cercato di tornare alle origini.
Vedendolo arrivare al banco informazioni un’infermiera chiamò subito aiuto e Marcus venne scortato d’urgenza in una stanza dove lui vedeva solo immagini sfocate e prive di senso. Le voci intorno a lui erano talmente basse da sembrare lontane. Quasi un sussurro.
Ad un tratto il dolore diminuì, dandogli un leggero sollievo.
- Il paziente è stabile per adesso – diceva il Medimago alle sue infermiere, - ma non passerà la notte. Manca poco ormai, non possiamo fare più niente per lui.
L’Essere superiore lo sapeva già. Trovava un po’ ironico che nonostante quei dottori non fossero a conoscenza della sua vera natura, avessero trovato il modo di dargli aiuto e di fare una diagnosi tanto accurata.
In quel mondo non c’era solo del male, dopotutto. Meritava di continuare a prosperare ed essere protetto, insieme a tutto quel bene che esso conteneva.
Ringraziò comunque quei maghi che lo avevano aiutato ad attenuare un po’ il dolore e, con quel poco di forze che gli rimanevano, il Primordiale si mise in piedi, pronto per concludere la sua missione: trovare l’ospite per la prossima entità che avrebbe preso il suo posto.
Sapeva che quell’orribile mago Oscuro l’avrebbe perseguitata, ma lui poteva aiutarla ponendo tutti gli incantesimi di protezione necessari sul corpo di quell’ospite per tenerla al sicuro il tempo necessario.
Nonostante il tempo stesso fosse contro di lui, doveva scegliere bene.
Nel suo vagare indisturbato per i corridoi dell’ospedale, si trovò a passare davanti al reparto nascite dove un coro di vagiti accoglieva il suo arrivo.
Si fermò ad osservarli con un sorriso spontaneo sulle labbra. I neonati erano tutti paffuti e in buona salute.
Trovarsi lì era un po’ surreale se si pensava a ciò che Marcus aveva vissuto fino a qualche attimo prima, soprattutto in quel momento in cui la sua vita era quasi giunta alla fine.
Era il cerchio della vita: una stava per spegnersi mentre altre vi si affacciavano.
Marcus aveva sempre amato quelle creaturine. Gli ricordavano la nascita di un nuovo Primordiale. Erano tutti puri, innocenti… ignari di ciò che li aspettava in futuro.
Un’infermiera aveva appena messo nella culla un fagottino tutto rosa che coccolava con attenzione e tenerezza.
Il Primordiale guardò la donna, per poi rimanere affascinato da quel fagottino dal quale fuoriusciva una zazzera di capelli neri dalla coperta insieme al faccino imbronciato di una bambina.
- È quella? - chiedeva un ragazzo poco distante da lui.
Si voltò a guardarlo, colto da un’irrefrenabile curiosità: era alto, magro e di bell’aspetto, nonostante il suo viso fosse pieno di graffi. Sfoggiava un sorriso, però, carico di euforia che Marcus non riuscì a trattenersi dall’imitare.
I bambini facevano quell’effetto.
- Esatto, Lunastorta! - confermò un ragazzo occhialuto con un gran sorriso stampato sulla faccia. Gli mise un braccio attorno alle spalle e indicò la neonata tra le braccia dell’infermiera. - Quella è la piccola Ginevra.
- Sembra una bambolina – pigolò un ragazzo più piccolino degli altri due e un po’ grassottello.
- Mi viene voglia di stringerla e sbaciucchiarla dalla testa ai piedi. È troppo carina! - esclamò quello dal nome bizzarro. Marcus lo trovava un tipo interessante.
Magari quel Lunastorta poteva essere un nuovo ospite...
- Sembra una piccola patata – si esaltò invece il ragazzo occhialuto, rendendo la sua voce sempre più acuta ad ogni parola che pronunciava. - Sarà la mia dolce patata.
Ognuno di quei ragazzi aveva una frase buffa e piena di dolcezza da dedicare a quella piccola infante, ma vi era un quarto ragazzo tra loro che era rimasto in silenzio tutto il tempo. Marcus si meravigliò per non averlo notato prima, ma solo un po’. Dopotutto stava perdendo colpi ogni secondo che passava e se gli sfuggiva un dettaglio era più che plausibile.
Quel ragazzo era quasi incollato al vetro che lo separava da quei bambini e teneva gli occhi fissi sulla piccolina di cui gli altri tre parlavano.
- Wow, Felpato è diventato papà… è chi lo avrebbe mai detto? - esclamò il ragazzo panciuto, con fare adorante.
Felpato.
Quello era di certo un altro nome strambo per un essere umano, ma il Primordiale lo trovò comunque molto affascinante.
Fu allora, quando vide il sorriso di quel ragazzo di nome Felpato, che lui capì quale fosse la scelta più adatta. Quel ragazzo guardava la bambina con occhi pieni d’amore, più degli altri tre alle sue spalle. Aveva l’aria di essere l’uomo più felice della terra anche se non mostrava la sua gioia come gli altri. Sembrava incapace di esternare quel sentimento che stava provando, come se in realtà dentro di sé fosse sul punto di esplodere per la felicità.
I suoi occhi erano pieni di commozione e brillavano di una luce nuova, una scintilla. E le sue labbra erano tese in un sorriso meraviglioso.
Sì. Aveva fatto la sua scelta.
L’Essere superiore si avvicinò al ragazzo silenzioso, senza smettere di guardare i piccoli umani al di là del vetro con un sorriso divertito. - Che gran chiacchieroni ci sono qui – scherzò, dissimulando la fitta di dolore al petto con un colpo di tosse. - Qual è il suo? - domandò poi, fingendo di non saperlo.
Il ragazzo sorrise, felice di rispondere. Nei suoi occhi l’entità vide ancora quella scintilla che andava oltre la felicità. Era amore puro.
- È quella lì – indicò la bambina con il dito. - Quella piccolina dai capelli neri.
- Be’, congratulazioni, figliolo… è davvero una bella bambina.
- Sì – mormorò il ragazzo, adorante. - È così piccola… Sento che potrei morire per lei. In questo momento sento che potrei fare qualsiasi cosa per lei.
- La proteggeresti da qualsiasi cosa? - domandò l’Essere superiore iniziando a formulare l’incantesimo silenziosamente.
Il ragazzo era talmente incantato dalla sua bambina che non lo notò nemmeno.
Sorrise alla piccola e rispose senza remore: - Qualsiasi cosa.
Il Primordiale annuì, suggellando l’incantesimo. Lanciò un’ultima occhiata alla bambina, dopodiché si allontanò raggiungendo il corridoio più vicino e lasciarsi morire.
Il suo corpo iniziò a sgretolarsi diventando una piccola nube fioca, per poi dissolversi subito dopo, senza lasciare traccia.
In quel preciso istante, sul lettino della piccola, apparve una luce luminosa che si insinuò nel suo piccolo corpicino. Felpato la vide, ma solo per un secondo, quel tanto da fargli credere di aver avuto un’allucinazione.
I suoi amici sembravano non aver notato nulla, erano troppo impegnati a litigarsi il titolo come miglior zio, (o meglio l’occhialuto litigava, Lunastorta alzava gli occhi al cielo e il più basso tra loro alternava lo sguardo da uno all’altro senza saper cosa dire).
Felpato guardò alla sua sinistra e l’uomo misterioso con cui aveva parlato era sparito. Si era volatilizzato.
Non poteva sapere che quell’uomo, che in quei centonovantacinque anni non aveva mai smesso di farsi chiamare Marcus, aveva lasciato quel mondo. E non poteva nemmeno sapere che la strana luce che aveva visto sulla sua bambina era la nascita di un nuovo Essere supremo, un Primordiale, che si assopiva dentro di lei in silenziosa attesa.
Infatti, a differenza dei suoi predecessori che prendevano il controllo nell’esatto istante in cui s’insinuavano nel nuovo corpo, quell’Essere era caduto in un sonno profondo. Prima di lasciarsi andare, la vecchia entità Primordiale aveva posto un veto che si sarebbe sciolto col tempo, in modo tale che la bambina che ospitava il suo simile rimanesse al sicuro e crescesse in salute fino al momento in cui l’entità potesse prendere il controllo.
Era un piano perfetto e Lord Voldemort non avrebbe mai vinto.



ANGOLO AUTRICE: 
Eccomi! Come vi avevo promesso sono tornata con un nuovo "libro" della serie.
Vi mancavo, non è vero?
Ovviamente la domanda è puramente ironica. Non siete obbligati a rispondere.
Ringrazio tutti i lettori che hanno deciso di intraprendere questa nuova storia: nuovi o affezionati che siano, li ringrazio dal profondo del cuore. Spero tanto che quello che leggerete da oggi in poi sarà di vostro gradimento. 
Sono consapevole che questo inizio è un po'... "strano", ma ci ho lavorato molto e spero di aver dato l'effetto che speravo. Il famigerato M. Darcy, che era già apparso nel capitolo 36 di "Light and Darkness", ha finalmente trovato il suo spazio nella storia e in futuro sentiremo ancora parlare di lui.
 Nel mio DREAMCAST questo personaggio ha il volto di Jeremy Irons e spero tanto che la mia scelta vi piaccia e che riuscirete ad immaginarlo con il suo volto anche in futuro.
Detto questo vi lascio una sua foto qua sotto e vi do appuntamento alla prossima settimana con il capitolo 2! 
Un bacio,
18Ginny18
18Ginny18

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 – LA LUCE DI DIAGON ALLEY ***


Capitolo 2La luce di Diagon Alley

Ginevra si svegliò di soprassalto, i battiti del cuore erano accelerati.
Si guardò intorno e una volta riconosciuto il luogo in cui si trovava il respiro si attenuò: si trovava al San Mungo, in quell’orribile stanza inzuppata nel bianco nella quale era ricoverato suo padre.
Non si era nemmeno accorta di essersi addormentata stringendogli la mano, ma era successo.
Lanciò una breve occhiata all’orologio appeso al muro, senza poter reprimere uno sbadiglio: erano quasi le otto e mezza del mattino.
Aveva dormito solo due ore.
Ormai la notte chiudeva occhio di rado e negli ultimi tempi, quando il sonno la coglieva, non poteva fare a meno di addormentarsi nei posti e nei momenti più improbabili: in bagno; in cucina; nel magazzino dei Tiri Vispi… ovunque. Le bastava anche poggiare la testa al muro per trovarlo più comodo di un cuscino.
La situazione stava diventando insostenibile, ne era consapevole.
Gli incubi avevano ripreso a tormentarla, solo che anziché prevedere la morte di uno dei suoi cari, come le era capitato fino a qualche mese prima, ciò che vedeva era sempre e solo Voldemort. Ogni notte riviveva il momento in cui, nell’Ufficio Misteri, il mago Oscuro l’aveva tentata ad andare via con lui. Nel sogno, ogni volta che lui tendeva la mano per afferrare la sua, Ginevra si svegliava puntualmente con il cuore a mille, proprio come le era appena successo una volta aperti gli occhi.
Si passò una mano sul viso stanco e sospirò, frustrata.
Il suo sguardo si posò su Sirius. Nonostante fossero passati due mesi da quando era caduto in coma, continuava ad avere un’aria pacifica, rilassata… la testa non era più fasciata, fortunatamente la ferita si era rimarginata; i suoi lunghi capelli corvini poggiavano sul cuscino, ordinati e pettinati in maniera impeccabile; la barba era curata ma non troppo, Regulus se ne prendeva cura una volta alla settimana, sostenendo che se una volta sveglio Sirius avesse visto la barba e i capelli lunghi, avrebbe tormentato entrambi in eterno sostenendo di essere diventato un vecchio matusalemme e di dover trovare due animali per specie e costruire un’arca.
Sirius ne sarebbe stato più che capace. Ma, per quanto la prospettiva di quella scena fosse divertente, Regulus non poteva permetterlo.
In realtà Ginevra trovava molto dolce il modo in cui Regulus si prendeva cura del fratello maggiore. A volte lei restava lì, seduta su quella scomoda poltroncina, ad osservare i suoi movimenti delicati e premurosi, ridendo persino delle volte in cui Regulus sporcava intenzionalmente di schiuma da barba il naso di Sirius.
Se ne avesse avuto la possibilità, Sirius avrebbe riso insieme a loro, sporcandolo a sua volta. Lei ne era certa.
Ripensando a quel momento Ginevra gli scostò un capello ribelle dal viso e lo accarezzò, sfiorando lo zigomo con la punta delle dita.
Le mancavano i suoi meravigliosi occhi grigi. Non c’era giorno in cui lei non si chiedesse quando sarebbe arrivato il momento in cui li avrebbe rivisti aperti.
Un sorriso amaro le curvò le labbra.
“Chissà quando…”, pensò.
Entity, la sua cara vecchia amica nonché Entità superiore nella sua testa, non esitò a far sentire la propria voce. “Accadrà molto presto. Ne sono sicura”, disse. “Ricordi? Fiducia!”.
Ginevra annuì e lasciò andare un altro sospiro.
“Fiducia”, ripeté, ma il suo tono non era sempre carico di entusiasmo come quello di Entity. Soprattutto negli ultimi tempi.
Entity non l’aveva lasciata da sola nemmeno un attimo e ogni volta che lei si svegliava da un incubo era lì a confortarla e a farle capire che non era sola in quella battaglia. Sì, quella contro Voldemort era ormai diventata una vera e propria battaglia. Inutile girarci attorno o fingere che non fosse vero.
Da quando il mago Oscuro aveva tentato di insinuarsi nella sua mente, Entity si allenava con lei a schermarsi, in modo tale che se mai si fossero scontrate nuovamente con lui sarebbero state pronte.
Fiducia.
Dovevano solo avere fiducia.
Più facile a dirsi che a farsi.
- Buongiorno! - esclamò Regulus, entrando nella stanza.
Tra le mani aveva due grossi bicchieri di carta di quello che, ne era certa, era caffè. Con il passare dei giorni quella era diventata la loro routine.
Quella mattina indossava la sua immancabile giacca di pelle nera sopra una maglietta blu scuro, dei jeans e delle scarpe sportive. Niente che saltasse all’occhio, ma era sempre stato un bell’uomo e Ginevra non poteva fare a meno di pensare che anche se si fosse messo un sacco della spazzatura sarebbe stato comunque molto affascinante.
Infatti, come a dar ragione alla teoria della ragazza, ogni volta che arrivava in reparto le infermiere sospiravano senza nemmeno riuscire a togliergli gli occhi di dosso. Ma a lui, ovviamente, non importava nulla. Le ignorava e basta.
Il suo unico pensiero era Sirius.
- Anche stanotte hai dormito qui, eh? - le domandò, chinandosi appena per darle un bacio sulla fronte.
- Si nota tanto? - lo salutò Ginevra sbadigliando subito dopo.
Al contrario dello zio, che possedeva la capacità di apparire sempre bello e dannato anche nel momento peggiore, lei era certa di sembrare un mostro della peggior specie, soprattutto di primo mattino.
Regulus inarcò un sopracciglio mentre, a poco a poco, un angolo delle labbra si curvava all’insù. - Ti sei guardata allo specchio stamattina?
Lei sbuffò.
Allora i suoi timori erano fondati.
Si diede un’occhiata superficiale allo specchio appeso accanto all’armadio rigorosamente bianco come il resto del mobilio in quell’orribile stanza: i suoi vestiti erano in disordine, le occhiaie profonde, i capelli erano in uno stato pietoso… sì, era davvero un mostro.
Provò a darsi una sistemata, passandosi le dita tra i capelli tirandoli indietro in una coda stretta; stirò i vestiti per evitare le pieghe, ma non riuscì a fare di meglio.
Regulus le offrì un debole sorriso e uno dei due bicchieri di caffè caldo. Lei accettò volentieri e si passò il bicchiere sotto il naso, inspirando subito l’aroma della bevanda come se quello fosse il modo migliore per svegliare il cervello.
A Entity il caffè non piaceva molto, la sua opinione era che l’odore era troppo forte e a tratti nauseante. In poche parole: non faceva per lei. Ma Ginevra non poteva più farne a meno. Quel liquido scuro che i Babbani veneravano come un dio, per lei era diventato un ingrediente essenziale per cominciare la giornata.
- Novità? - domandò a Regulus, prendendo un sorso del suo caffè.
Lei imitò il suo gesto e, inevitabilmente, come ogni mattina, si scottò la lingua scatenando l’ilarità di Regulus.
- Perché non ti entra in testa che devi soffiare prima di bere? - si impuntò lui, scuotendo la testa.
Ginevra lo ignorò, soffiando con insistenza nel bicchiere e inveendo sul livello di calore spropositato che l’ignaro barista babbano si ostinava a servire tutte le mattine. - Dovrebbero licenziare quel satanasso – borbottò contrariata, bevendo a piccoli sorsi.
Regulus nascose il sorriso divertito dietro il proprio bicchiere.
Ogni mattina la stessa storia.
Caffè, battutine, imprecazioni e poi il silenzio.
Entrambi si fermarono ad osservare Sirius, come se si aspettassero di vedere i suoi occhi aprirsi da un momento all’altro, incuriosito dal baccano che stavano creando.
Aspettavano.
Aspettavano.
Aspettavano.
Però quel momento non arrivava mai.
- Dovresti andare a dormire – disse ad un tratto Regulus. Aveva abbassato lo sguardo sul suo bicchiere ancora pieno. - Hai dormito qui per quasi tre giorni…
Ginevra non lo guardò, i suoi occhi erano solo per Sirius. - E se poi si sveglia?
Doveva essere lì quando sarebbe successo. Non poteva andarsene.
Un pesante sospiro sfuggì dalle labbra di Regulus.
Avevano già affrontato quello stesso argomento due mesi prima. Lei era rimasta per tre settimane lì al fianco di Sirius, senza lasciarlo nemmeno per un secondo se non per andare in bagno. E, proprio come quel giorno, non riusciva a separarsi da lui.
- Gin… - la voce di Regulus era mite. - Ne abbiamo già parlato.
Sì. Ne avevano parlato per ore e ore, nonostante tutto lei non riusciva a togliersi quel pensiero dalla testa.
Andava a trovare suo padre ogni santo giorno, arrivando lì la mattina presto e andandosene solo nel tardo pomeriggio. C’erano volte in cui Regulus la obbligava a stare a casa per “distrarsi e prendersi cura di sé stessa”. Cosa che lei non faceva mai, o meglio quasi mai.
Per quanto ci provasse, non riusciva mai a liberare la mente.
A volte si chiudeva in una camera e piangeva per qualche ora, e Regulus lo sapeva.
A tradirla era la loro indissolubile connessione mentale.
Quando lui la controllava attraverso quel contatto, niente poteva essergli nascosto. Gesto o pensiero che fosse, lui sapeva ogni cosa. Certo, era un colpo a tradimento alla privacy, ma almeno c’erano dei limiti: Regulus poteva ficcanasare solo quando e se i pensieri della nipote cominciavano a farsi tetri e oscuri come i suoi incubi.
- Hai bisogno di staccare – insistette, serio.
Lei finse di non ascoltare, continuando a sorseggiare il suo caffè.
Solo il pensiero di passare un giorno lontana da suo padre era come ricevere un pugno allo stomaco. Le ricordava costantemente che c’era una percentuale molto alta che lui potesse svegliarsi mentre lei non era al suo fianco e non riusciva ad immaginare quel momento senza provare una stretta allo stomaco.
No. Lei doveva rimanere lì. Doveva esserci al suo risveglio.
Ne aveva bisogno.
Quello di cui hai bisogno è dormire qualche ora in più del solito”, la rimbeccò Entity, accigliata.
Ginevra sospirò, senza poterne fare a meno.
Battibeccava spesso anche con lei sull’argomento.
Ma perché nessuno voleva capire che il suo posto era lì, accanto a suo padre? Non aveva bisogno di un letto per dormire, la poltrona super scomoda sulla quale era seduta in quel momento andava più che bene!
- Lo vedi? Anche Entity la pensa come me – disse Regulus. Le lanciò un’occhiata eloquente, dopodiché tornò al suo caffè ormai intiepidito.
Ginevra provò un moto di nervosismo crescerle dentro e alla fine sbottò. - Anche volendo non saprei dove andare o come tenermi impegnata! Qui invece mi sento utile.
- Non riuscirai a darmela a bere, signorina – ribatté pronto Regulus. - Anche se vuoi stare qui con Sirius… non puoi viverci. Devi uscire, respirare aria pulita e parlare con altre persone che non siano infermiere o me.
- Parlo anche con altre persone – si difese lei, imbronciata.
Regulus alzò un sopracciglio e disse perentorio: - Mi dispiace ma Entity non vale.
Ehi!”, esclamò la diretta interessata, offesa. “Senti, bel faccino, io valgo eccome. Hai capito?”.
Regulus sembrò sentirla e alzò le braccia in segno di resa e un mezzo sorriso. - Scusa – disse, poi guardò Ginevra. - Non ti sto vietando di tornare qui.
- Ma?
C’era sempre un “ma”.
- Ma devi almeno riposare un po’.
Sapeva quanto fosse difficile per lei stare lontano da Sirius, ma non voleva che perdesse di vista la propria salute fisica e mentale.
Ginevra accantonò il bicchiere ancora mezzo pieno, incrociò le braccia al petto e cominciò a riflettere sul da farsi. Solo alla fine riuscì a convincersi che Regulus e Entity avevano ragione.
Acconsentì alla richiesta di Regulus e lasciò la sedia sulla quale era rimasta seduta per ore e ore. A quel movimento le ossa cominciarono a scrocchiare provocandole un misto di dolore e sollievo.
Guardò Sirius, senza riuscire a trattenere una smorfia sofferente.
Ci stava già ripensando.
Regulus le rivolse un sorriso rassicurante. - Non preoccuparti. Resterò io con lui.
- Sì, ma se si sveglia…
- Ti chiamo immediatamente – promise lui, sorridendole amorevolmente.
Lei annuì e sospirò.
Si chinò verso Sirius e gli baciò la fronte. - Ciao, papà – gli sussurrò piano. - Ci vediamo più tardi.
Prima di uscire da quella stanza, Ginevra strinse Regulus in un abbracciò facendogli promettere ancora una volta che l’avrebbe chiamata nel caso ci fossero state novità.
Alla fine Regulus la spinse gentilmente fuori dalla porta, esortandola a tornarsene a casa e farsi una bella dormita. Doveva prendersi almeno un giorno libero o sarebbe uscita fuori di testa.
Rassegnandosi all’idea di dover fare ciò che le era stato praticamente ordinato, Ginevra uscì dall’ospedale e si buttò in quel via vai di pendolari Babbani per le strade di Londra.
Era un vero incubo, ma per qualche minuto poteva sopportare quella marmaglia di tipi strani in giacca e cravatta con le loro valigette scure.
Una volta raggiunto il Paiolo Magico, Tom, il barista e proprietario del locale, l’accolse con il suo solito sorriso gentile e premuroso. - Signorina Black! - esclamò mentre puliva un boccale di burrobirra con uno strofinaccio. - Come sta suo padre?
Ecco una domanda che lei detestava più di ogni altra cosa al mondo.
Nonostante il vecchio Tom sembrasse sinceramente preoccupato per lo stato di salute di Sirius, lei non poteva fare a meno di provare un po’ di fastidio nel sentirselo dire ogni singola volta che varcava la soglia.
Sapevano entrambi qual era la risposta, ma Ginevra gli rispose comunque. Stupide convenzioni sociali!
- Nessun cambiamento – mormorò mostrando un sorriso tirato e ignorando le occhiate dei clienti curiosi seduti lì attorno.
Stupidi impiccioni”, sbuffò Entity.
E come darle torto!
Ogni volta che Ginevra entrava in quel locale d’un tratto cadeva il silenzio e tutti si immobilizzavano, in ascolto.
Il volto di Tom si rabbuiò e il sorriso gli morì sulle labbra, lentamente. - Mi dispiace tanto – disse. - Spero che si riprenda presto.
Ginevra annuì e gli mostrò un altro sorriso di circostanza. - La ringrazio – disse, dopodiché si diresse verso la porta sul retro, continuando ad ignorare le voci dei pettegoli all’interno del pub. Non avevano avuto neanche la delicatezza di aspettare che lei fosse lontana prima di dar fiato alla bocca.
Sospirò.
Era sempre la stessa storia.
Anche se Sirius Black era stato scagionato da tutte le accuse grazie alla cattura di Peter Minus, c’era ancora chi trovava qualcosa da ridire.
I maghi e le streghe di Londra sembravano essersi divisi in due fazioni: c’era chi amava Sirius Black e la sua storia, (ritoccata a dovere da La Gazzetta del Profeta senza il consenso di Ginevra né di Harry), e chi continuava a sostenere che fosse uno spietato assassino a servizio di Lord Voldemort.
Non si poteva mai avere un attimo di pace.
Se non fosse stata tanto stanca si sarebbe smaterializzata così da evitare quel solito teatrino. Ma quello era l’unico modo sicuro che aveva per spostarsi, quindi doveva accontentarsi.
Una volta raggiunto il piccolo cortile dove non c’era altro che un bidone della spazzatura e qualche erbaccia.
Ginevra chiuse la porta dietro di sé, mettendo fine al chiacchiericcio insopportabile dei clienti del locale, poi si dedicò al muro di mattoni che circondava quel cortile.
Non avendo con sé la bacchetta, che era andato letteralmente in fumo mesi prima, dovette accontentarsi di toccare il muro con la punta delle dita della mano destra. Per sua fortuna il braccio era tornato come nuovo in meno di due settimane e poteva riutilizzarlo come prima.
Sotto il suo tocco, il muro di mattoni vibrò, si contorse e al centro apparve il varco d’ingresso per Diagon Alley. Con o senza bacchetta il muro la lasciò passare.
Attraversò la soglia trovandosi nella strada selciata tutta curve del luogo.
Il sole splendeva illuminando le vetrine dei negozi, ma dopo un po’ sembrò allontanarsi, portando l’oscurità sulla via.
Diagon Alley stava cambiando, inutile girarci attorno. Non era più il luogo ridente e trafficato di un tempo.
Alcuni negozi erano chiusi, altri avevano persino il cartello ‘VENDESI’ con le vetrine coperte da assi di legno. Compresa la Gelateria Florian di Florian Fortebraccio, uno dei posti che un tempo era il preferito di Ginevra.
Al loro posto erano spuntate un certo numero di squallide bancarelle lungo la strada. Nella più vicina, che era stata eretta davanti al Ghirigoro sotto una macchiata tenda a strisce, c’era un cartone appuntato che riportava la seguente scritta:
AMULETI: Efficaci contro Lupi Mannari, Dissennatori ed Inferi.
Una piccola strega decrepita faceva sbatacchiare verso i passanti bracciate di emblemi d’argento montati su catenelle. - Un amuleto? Un amuleto per una giovane ragazza? - chiese a Ginevra al suo passaggio. - Per proteggere il tuo grazioso collo, cara?
Ginevra la ignorò, tenendo lo sguardo basso, così come la maggior parte delle persone che bazzicava quella via. Notò che si affrettavano a fare compere per tornare a casa. Ed erano solo le dieci del mattino!
C’era qualcosa nell’aria e tutti ne erano consapevoli. Notò che molte delle persone che incrociava avevano lo sguardo preoccupato e che nessuno si fermava a parlare con gli altri. Gli acquirenti stavano tutti uniti in gruppo, concentrati nei propri affari. Nessuno sembrava andare a far spese da solo.
Dopo aver avuto la conferma che Voldemort, il mondo magico sembrava fosse diventato preda della paura. E la recente evasione di massa da Azkaban dei suoi molti sostenitori non aiutava di certo a far stare la gente tranquilla.
Per le strade erano affissi dei grandi manifesti dall’aria tetra del Ministero della Magia che mostravano una versione ingrandita dell’opuscolo Ministeriale sulla sicurezza, opuscolo divulgato all’inizio dell’estate, altri riproducevano, però, le foto in movimento ed in bianco e nero dei Mangiamorte che si sapevano essere liberi.
Ginevra non li guardò nemmeno.
Andò spedita verso la sua meta, al numero novantatré, dove messo al riparo dai monotoni manifesti ammuffiti delle vetrine circostanti si ergeva il Tiri Vispi Weasley, il negozio di Fred e George.
Era l’unico negozio che riusciva a illuminare Diagon Alley con quella luce che aveva un tempo. I gemelli avevano portato un po’ di spensieratezza in quel luogo ormai lugubre.
Le vetrine colpivano gli occhi come un’esposizione di fuochi d’artificio. Chiunque passasse per caso nei dintorni, si voltava a guardare le vetrine senza poterne fare a meno, sbalordite da quell’incanto. La vetrina di sinistra era straordinariamente piena di un assortimento di oggetti che ruotavano, scoppiettavano, lampeggiavano, rimbalzavano ed urlavano. La vetrina destra era coperta da un gigantesco poster pomposo come quello Ministeriale, ma adornato di lettere gialle e lampeggianti:
Perché Essere Preoccupati Per Tu-Sai-Chi?
Si DOVREBBE essere preoccupati per
TU-SAI-CHE
Quel Senso di Costipazione - Che Attanaglia la Nazione!

Ginevra si concesse un sorriso divertito.
Sentì un coro di risate alle sue spalle dietro di lui e, voltatosi a guardare, vide due bambini tra i dieci e dodici anni con gli occhi luccicanti e meravigliati dal negozio. Erano accompagnati dai genitori che guardavano il poster ad occhi sgranati. Le loro labbra si muovevano silenziosamente, mimando il nome “TU-SAI-CHE.”, mentre i figli li pregavano di entrare.
Senza aspettare di vedere la reazione dei genitori di quei bambini, Ginevra entrò nel negozio. Era strapieno di clienti, come sempre. In molti non riuscivano nemmeno ad avvicinarsi agli scaffali. Si guardò attorno, osservando le scatole ammucchiate fino al soffitto di Merendine Marinare. Si accorse che i Torroni Sanguinolenti erano molto richiesti dall’unica scatola aperta rimasta sullo scaffale. I ragazzini scattavano da una parte all’altra del negozio, spintonandosi con foga per raggiungere gli scaffali pieni di bacchette finte, le piume Auto-Scriventi, gli Sbuffi Pigmei, i Cappelli Decapitanti e le Merendine Marinare con una tale gioia ed energia da essere contagiosa.
Si aprì un piccolo spazio nella folla ed Ginevra si spinse verso la cassa, dove Lizzie, la commessa, aveva tutta l’aria di volersi strappare i capelli; alcuni ragazzini erano talmente eccitati dai loro acquisti da aggiungere un nuovo articolo per volta, facendola impazzire.
- Serve aiuto? - le domandò Ginevra, cominciando a imbustare gli acquisti di due ragazzini. - Dove sono i grandi capi?
Gli occhi di Lizzie si illuminarono di gratitudine rendendosi conto dell’aiuto che la ragazza le stava dando. Ma non c’era tempo per i convenevoli. I clienti sembravano degli assatanati.
Tornò a concentrarsi sul lavoro, battendo i prodotti alla cassa alla massima velocità. - Il signor George Weasley è in magazzino per rifornire gli scaffali di Torroni Sanguinolenti – spiegò in fretta, poi il suo tono si fece eccitato. - Mente il signor Fred è appena andato in ospedale. Pare che ci siamo!
Ginevra sorrise.
Il bambino stava arrivando.
Finalmente Fred e Angelina stavano per diventare genitori. Sembrava che fossero passati solo pochi mesi dal giorno in cui Angelina aveva scoperto di essere incinta, eppure, dopo tanti falsi allarme, il momento era arrivato. I nove mesi erano passati davvero in fretta.
- Trovo che sia molto tenera la scelta di non sapere il sesso del bambino. Sarà una dolcissima sorpresa – esclamò Lizzie. Poi si dedicò ai clienti. - Grazie e torna presto a trovarci!
George raggiunse la cassa poco dopo, posando un leggero bacio sul collo di Ginevra. - Ciao – le sussurrò all’orecchio.
- Ciao – ripeté lei, senza poter fare a meno di sorridere, avvertendo uno sfarfallio alla bocca dello stomaco ogni volta che George le era vicino. Se si fossero trovati in un altro contesto, e magari con un po’ più di privacy, lo avrebbe pregato di non fermarsi solo a quel piccolo bacio.
Un sospiro profondo e tremante le uscì dalla bocca, tenendo a freno la sua fantasia che aveva cominciato a galoppare senza freni.
- Passate una buona serata! - disse poi porgendo una busta ai clienti.
- Tutto bene? - la incalzò George, aiutando lei e Lizzie alla cassa.
Con un’alzata di spalle Ginevra servi il cliente successivo. - Sì – rispose con tono esitante. - La solita storia. Lo sai.
George annuì, comprensivo. - Vai a riposare. Ci penso io qui – le sussurrò prima di darle un altro bacio sul collo.
Un mezzo sorriso curvò le labbra di lei. - È un modo carino per dirmi che devo fare una doccia?
Non che avesse torto… ma l’idea di andare di sopra, da sola, non le piaceva affatto. Quando rimaneva sola troppo a lungo la sua mente cominciava a giocarle brutti scherzi.
- Comunque non posso lasciarvi nel momento del bisogno! - si apprestò ad aggiungere prima ancora che George potesse aprire bocca. - Mi riposerò più tardi. Tranquillo.
Quella era una scusa bella e buona, ma nonostante George lo sapesse benissimo alla fine acconsentì, anche perché ogni minuto che passava i clienti si moltiplicavano come conigli.
Gli affari andavano sempre meglio!
Poi nel negozio entrò un gruppetto di teste rosse che si guardava intorno meravigliati. Erano i signori Weasley e due dei loro figli: Ginny e Ron. Con loro c’erano anche Hermione Granger e un ragazzo dai folti capelli scuri e un paio di occhiali dalla montatura tonda che gli poggiava sul naso. Era impossibile non riconoscerlo.
- Harry! - esclamò la sorella maggiore quando incrociò la sua figura alta e atletica. - Che sorpresa!
Non lo vedeva dalla fine di luglio. Avevano passato un’intera settimana insieme, festeggiando il sedicesimo compleanno del ragazzo girando l’intera città come dei turisti.
Avevano passeggiato tra i corridoi del National Gallery e del British Museum, imitando e prendendo in giro la maggior parte dei ritratti e delle statue esposte scattando anche molte foto. Era un po’ strano e anche triste constatare che nessuno di quei ritratti si muoveva come quelli a Hogwarts, ma alla fine era impossibile non adorarli. Erano uno più bello dell’altro.
Continuarono il loro giro passeggiando per le strade della città fino ad Hyde Park, dove il verde regnava incontrastato. Era semplicemente splendido e Harry e Ginevra lo denominarono il loro posto preferito. Alla fine il loro tour si era concluso con un giro sulle loro scope per contemplare la città dall’altro. La vista era mozzafiato e Londra era un sogno di notte.
L’idea di Ginevra era di far passare a Harry un giorno speciale, diverso, spensierato, e soprattutto lontano dai Dursley. E, in qualche modo, quel giorno era riuscita a distrarsi anche lei.
Quel giorno non avevano parlato nemmeno una volta di quello che era successo all’Ufficio Misteri, né dello stato in cui si trovava Sirius. Né di incubi. Tra di loro c’era un tacito accordo e andava bene a entrambi.
In fin dei conti trascorrere un giorno lontano dalla magia e da tutti i problemi aveva giovato a entrambi; il dolore, la paura… si erano dissolti per qualche ora.
Niente impiccioni.
Niente Profezia.
Niente Voldemort.
Niente guerra in arrivo.
Niente di niente.
C’erano solo lei e Harry, il suo adorato fratellino.
Quando incrociarono gli sguardi Harry sorrise e il cuore di Ginevra cominciò a saldarsi. Harry le era mancato molto.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 – LACRIME DOLCI E LACRIME AMARE ***


Capitolo 3 – Lacrime dolci e lacrime amare

Una volta incrociato lo sguardo del fratellastro, tutto il resto era sceso in secondo piano. Ginevra gli andò incontro, lasciando la cassa nelle mani di George, che le sorrise incoraggiante.
Quando lei era felice lui lo era ancora di più.
Ginevra abbracciò Harry, forte, ignorando la folla di clienti che si accalcava attorno a loro. Poi si imbronciò e gli diede un buffetto sul braccio.
- Perché non mi hai detto niente? Potevi scrivermi! - lo incalzò.
Harry storse la bocca e si portò una mano dietro il collo, a disagio. - Silente…
Solo a sentire quel nome le venne il voltastomaco.
Quel vecchio pazzo era decisamente l’ultima persona di cui voleva sentire parlare. Dopo tutti i guai che aveva fatto passare a lei e al fratello non voleva nemmeno vederlo su una figurina delle Cioccorane!
Alzò un dito, intimandolo di tacere. - Non dire altro, ti prego.
Senza che lei potesse premeditarlo, la signora Weasley la tirò a sé e la strinse in un abbraccio soffocante. - Come stai, tesoro? Va tutto bene? Stai bene? Hai mangiato? Cos’hai mangiato? Ti vedo sciupata. È sciupata. Non è vero, Arthur?
Troppe parole in una sola volta. Ginevra non riuscì a starle dietro.
Il signor Weasley alzò gli occhi al cielo, lasciandosi sfuggire un sorriso tra l’esasperato e il divertito. - Lasciala respirare, Molly.
La signora Weasley la lasciò andare solo quando George si avvicinò a loro, intromettendosi nella conversazione. - Perché non siete al San Mungo? - domandò, con il sopracciglio inarcato e il broncio pronunciato.
Passò un braccio attorno alla vita di Ginevra, stringendola al suo fianco. La sua mano la accarezzava con dolcezza.
Lei lo guardò, sospirando.
Era bellissimo.
Lo trovava sempre bellissimo.
“Come diamine fa a essere sempre così attraente?”, si interrogò, mordicchiandosi il labbro inferiore. Le occorse un enorme sforzo di volontà per ricordare bruscamente a sé stessa che quello non era il momento di farsi venire strane idee in testa.
Entity, invece, era del parere opposto.Ma che te ne frega!”, sbottò. “Prendilo e fallo tuo! Ignora tutto e tutti e cavalcalo fino a domani mattina sul bancone. A lui non dispiacerà di certo”.
“Sei perversa!”, la rimproverò lei.
Ad un tratto la stanza era diventata più calda.
Non fingere che la mia idea non ti piaccia”, ribatté pronta l’Essere superiore. E Ginevra tacque, dandogliela vinta.
Nel frattempo la signora Weasley si rivolse al figlio. - Perché dovremmo essere al San Mungo? - sollecitò, stranita.
Un ghigno impertinente si estese sulle labbra di George, mandando la sua ragazza fuori di testa. - Ma come? Fred non ve l’ha detto? - domandò guardando entrambi i genitori. - In effetti è abbastanza strano che voi siate ancora qui, dato che il prossimo Weasley sta per arrivare.
Davanti a quella notizia la madre sbarrò gli occhi per la sorpresa. - Cosa? - esclamò, facendo girare la testa di qualche cliente curioso. - E perché non ci ha detto nulla? Ora mi sente!
Il signor Weasley si limitò a sbuffare un sospiro e a scuotere la testa. A volte i gemelli erano davvero pessimi per quanto si trattava di trasmettere informazioni importanti. - Possiamo lasciare i ragazzi qui? L’altra volta mi hai detto che il negozio ha ogni sorta di protezione, giusto? - chiese a George notando che la rabbia della moglie era stata sostituita dall’eccitazione. Stava scalpitando per andare dritta in ospedale.
- Ma vogliamo venire anche noi! - si impuntò la loro unica figlia femmina, che incrociò le braccia al petto e fissò i genitori.
Inutile dire che sua madre protestò immediatamente. - No. È meglio che voi restiate qui con George, almeno finché non torniamo a prendervi – disse, allungando una mano per sfiorandole la guancia con una carezza. - È più sicuro.
- Vostra madre ha ragione – si intromise Hermione, prima ancora che Ron dicesse la sua per sostenere la sorella minore. - Di questi tempi non si può mai sapere chi c’è in giro.
- Una ragione in più per andare con loro! - esclamò Ron, cocciuto.
- E per fare cosa? - Hermione lo guardò. - Non possiamo nemmeno usare la magia fuori da Hogwarts. Saremmo solo d’intralcio.
George guardò i fratelli minori e poi si rivolse ai genitori con un finto sorriso contrito. - Baderò io a loro. Andate – disse, per poi aggiungere. - Però dite alla mia copia rimbambita di chiamarmi non appena il mio nipotino arriva. Sono pur sempre lo zio più importante, io.
Molly gli rivolse un dolce sorriso, ma dato che non poteva fargli nemmeno una carezza a causa di tutta quella confusione, gli mandò solo un bacio. Poi, insieme al marito, si incamminò fuori dal negozio.
I ragazzi li guardavano attraverso una delle vetrine del negozio, finché i coniugi non si smaterializzarono al San Mungo.
- Non è giusto – sbuffò Ron.
- Oh, smettila di fare il bambino, Ronald – lo rimbeccò la riccia, facendosi strada tra quella folla pressante verso il piano superiore del negozio. - Vieni, Ginny. Facciamo un giro.
E con un sospiro rassegnato, la Weasley la seguì.
- Da quando Malfoy non si fa sentire è diventata insopportabile – sbottò Ron, infastidito. - Non posso nemmeno respirare che lei comincia a comportarsi come una vecchia isterica.
Hermione lo sentì e lo fulminò con lo sguardo. - Ma va’ a quel paese! - lo rimbeccò, tenendo ben in mostra il dito medio.
- Certo che tu hai il tatto di un Troll di montagna, eh, Ron? - commentò ironica la giovane Black, prima di lanciargli un’occhiataccia.
Il fatto che Draco fosse irraggiungibile da mesi era ormai di dominio pubblico nella loro cerchia ristretta di amici. Nemmeno Blaise, Daphne e Theodore ne sapevano nulla. Al contrario di Draco, loro erano letteralmente scappati di casa e si erano rifugiati in una casetta tutta loro, a Londra. Avevano persino trovato un lavoro per mantenersi in un pub Babbano, il ‘Red Parrot’, e sembravano cavarsela piuttosto bene.
Di tanto in tanto, quando Ginevra si dirigeva al San Mungo, passava a trovarli. Si erano ambientati molto in fretta e sembravano felici di quel nuovo capitolo della loro vita.
Erano disposti a tutto pur di mettere più distanza possibile tra loro e i genitori e alla fine c’erano riusciti. Dopo anni di soprusi e violenze fisiche e mentali, meritavano di riprendersi la loro vita e viverla come meglio credevano.
Anche Draco era della loro stessa opinione, ed era pronto ad imitarli… ma anziché seguirli era tornato a villa Malfoy solo per l’amore della propria madre. Dato che suo padre, Lucius Malfoy, era finito ad Azkaban, lei era rimasta sola e Draco non se l’era sentita di lasciarla. Non in quel momento.
Lui e Hermione si erano promessi di tenersi in contatto e di scriversi una lettera alla settimana, ma nessuna delle lettere che lei aveva inviato aveva avuto risposta.
Hermione era distrutta.
Dopo quasi tre anni di relazione quella era la prima volta che lui non rispondeva alle sue lettere!
Cominciava a temere che gli fosse successo qualcosa e il solo pensiero le provocava molta ansia… oltre alla rabbia e alla frustrazione che sfogava sul povero Ron.
- Oh, non ci pensare, Ronnino – George si rivolse al fratello. - Puoi approfittare dell’occasione per aiutarmi in negozio!
Con le guance rosse come un peperone, Ron assottigliò lo sguardo e raggiunse il fratello maggiore. - Ti ho detto di non chiamarmi in quel modo – sussurrò a denti stretti, ma Harry e Ginevra riuscirono a sentirlo comunque.
- Scusa, hai ragione, Bilius – infierì George, scatenando l’ilarità di chi gli stava attorno, inclusi i clienti. Poi tornò serio. - Devo scendere un’altra volta in magazzino, puoi sostituirmi alla cassa per qualche minuto, per favore?
Gli occhi di Ron sembravano quasi voler uscire dalle orbite. - Perché io? - balbettò. - Non ho mai lavorato in un negozio. Non so come si fa! Che devo fare?! - esclamò, in preda al panico.
- Posso pensarci io, George. Davvero – si offrì Ginevra, ma il suo ragazzo era irremovibile.
L’attirò a sé, ancora di più. Il suo braccio era ancora stretto attorno alla sua vita. - Devi riposare – disse, guardandola come se fossero soli in quel negozio.
Quegli occhi magnetici bruciavano con una tale intensità che era impossibile per lei dire no.
Per non sciogliersi come gelatina tra le sue braccia, Ginevra abbassò lo sguardo, interrompendo il contatto, per nascondere il rossore che stava iniziando a bruciarle le guance.
Ma perché in quel negozio c’era così tanto caldo?
- Be’, allora porto Harry di sopra. Così stiamo un po’ insieme.
Due dita lunghe e affusolate le sollevarono il mento, restituendole il contatto con i bellissimi occhi magnetici di George. - Va bene – disse, dopodiché poggiò le labbra sulle sue. Un breve contatto ma comunque intenso.
- Ma scusa perché non posso andare con Harry anch’io? - sbuffò Ron, interrompendo il momento intimo tra i due fidanzatini.
Ginevra avrebbe voluto strozzarlo e, notando il modo in cui lo stava guardando, neanche George sembrava disprezzare l’idea.
Esasperato, si separò dalla sua ragazza per poggiare le mani sulle spalle del fratello minore, premendo con forza, e lo spinse verso la cassa. - Perché tu mi servi qui – disse, a denti stretti. Poi si voltò verso Ginevra, facendole l’occhiolino.

Mentre si incamminavano verso la scala privata per raggiungere il piano di sopra, Harry si lasciò sfuggire un sospiro profondo. I suoi occhi verdi, notò la sorellastra, viaggiavano per tutto il negozio, luminosi e bramosi di scoprire.
- È un posto pazzesco!
Con un mezzo sorriso, Ginevra disse: - Più tardi George vi farà fare un tour privato.
Le sue parole sortirono l’effetto sperato. Al solo pensiero di fare un tour privato del negozio, gli occhi di Harry si illuminarono. - Non vedo l’ora – ammise.
Arrivarono davanti a una porta di legno, sulla quale era appeso un cartello che diceva:

ACCESSO VIETATO AI NON AUTORIZZATI.
LA PENA PER I TRASGRESSORI SARÀ
UNA MALEDIZIONE CON I CONTRO FIOCCHI”.

- È per scoraggiare i clienti ficcanaso – spiegò Ginevra, tirando fuori una chiave dalla tasca dei pantaloni e infilandola nella serratura.
Harry annuì, comprendendo alla perfezione quello che intendeva. Se solo avesse potuto mettere un cartello del genere sulla porta della sua stanza a Privet Drive i Dursley si sarebbero presi un bello spavento e lui avrebbe avuto un po’ di respiro e, soprattutto, privacy.
Una volta aperta la porta i due fratelli entrarono.
All’inizio la stanza era semibuia, ma quando Ginevra agitò il dito all’insù la stanza venne inondata di luce mostrando l’ingresso di un piccolo appartamento.
- Fai come se fossi a casa tua – lo invitò la sorella. - E scusa il disordine – disse, pronunciando poi vari insulti a mezza voce rivolti a Fred e George mentre rassettava in più punti della casa; a ogni passo trovava calzini, pantaloni, camicie, magliette… e persino boxer!
Le cose erano due: o Fred e Angelina si erano divertiti a fare lo striptease mentre lei non c’era, (e il solo pensiero le faceva venire i brividi dall’orrore), oppure era passato un uragano e aveva tirato fuori dai cassetti solo gli indumenti maschili che erano in casa.
O, forse, i gemelli lasciavano le cose in giro solo perché si divertivano a farla esasperare! Era un’opzione molto probabile anche quella.
Perché, sì, lei, George, Angelina e Fred erano coinquilini da poco più di un mese, ma i due maschi non si erano ancora tolti il vizio di lasciare in giro la loro roba per casa.
Non che lei fosse un tipo dedito all’ordine, ossessionata dalla pulizia o cose del genere. A volte lei si sentiva persino a proprio agio in mezzo al caos, trovando l’ordine nel disordine. Era strano, sì, e non esitava ad ammetterlo, però a differenza sua i gemelli esageravano!
Infatti, quello era uno dei pochi motivi per il quale lei e George litigavano, ma alla fine l’arrabbiatura durava poco più di dieci minuti e tutto tornava alla normalità.
All’inizio andare a vivere lì per lei era stata più una scelta pratica, che dettata dal desiderio di lasciare “il nido”. Alcuni andavano a vivere lontano dai genitori per avere la propria intimità, la propria indipendenza… lei invece no.
L’appartamento era molto più vicino al San Mungo di quanto lo fosse Grimmauld Place, perciò quando George le aveva proposto di andare a vivere con lui il pensiero di poter raggiungere più facilmente il padre l’aveva spinta subito a dire di sì. E non si era mai pentita di quella scelta.
Era un luogo che poteva chiamare casa.
Era piccola, disordinata, ma accogliente.
Certo, con loro vivevano anche Fred e Angelina, e presto si sarebbe aggiunto anche il nuovo piccolo Weasley, ma vivere insieme era comunque bellissimo… per quelle poche volte che lei tornava a casa. E poi ogni volta che lei era a casa George era felice.
- Se hai fame o sete, serviti pure! - urlò Ginevra dal bagno, mentre buttava i vestiti nella cesta dei panni sporchi.
Harry si guardò intorno.
L’appartamento era luminoso e, anche se un po’ piccolo, c’era abbastanza spazio per ospitare più di dieci persone. La cucina e la sala da pranzo condividevano uno spazio unico; da quello che riuscì a vedere Harry, c’erano due stanze ai lati opposti dell’appartamento e un bagno in comune. L’arredamento era molto colorato, vivace, e ovunque Harry guardasse non c’era una sola cosa che fosse grigia o nera. Esprimeva alla perfezione Fred e George: gioia, allegria e caos.
Avvertendo un po’ di sete, Harry si avvicinò al frigorifero giallo che troneggiava dietro a un bancone con quattro sedie che separava il soggiorno dalla cucina. Sulla sua superficie del frigorifero erano stati attaccati dei foglietti con dei promemoria come: “Comprare il latte”, “È finita la Nubella” e tanto altro ancora.
“Nubella?”, pensò, incuriosito, ripromettendosi di chiedere alla sorella di cosa si trattasse.
Poi, attaccate con delle calamite dall’aria buffa, c’erano tante e tante foto magiche di Fred, George, Angelina e Ginevra. La maggior parte erano state scattate a Hogwarts, ma c’era una foto in particolare che attirò l’attenzione di Harry: non era come le altre; era l'unica a non essere in movimento. Era stata scattata a Hyde Park, Harry e Ginevra erano seduti sul prato verde e facevano le facce buffe alla fotocamera.
Ricordava bene quel giorno. Era il suo sedicesimo compleanno. Uno dei migliori che aveva mai festeggiato.
La foto era stata scattata da un passante molto gentile che si era persino fermato a parlare un po’ con loro, raccontando tutte le meraviglie del parco. Poi, però, aveva iniziato a fare delle avance a Harry, mettendolo in imbarazzo, e Ginevra ovviamente non aveva fatto nulla per impedirlo. Se ne stava lì, a ridere sotto i baffi, godendosi la scena.
Per fortuna, prima che quel ragazzo tanto gentile lo invitasse a uscire, Harry aveva trovato il coraggio di confessare di avere già una fidanzata. Era stato un po’ imbarazzante, ma alla fine era andato tutto bene.
La testa di Ginevra fece capolino dal bagno. - Faccio una doccia veloce – disse. - Ti dispiace?
- No, tranquilla. Fai pure – rispose Harry. - Ti aspetto qui.
E quando la porta del bagno si richiuse, Harry aprì l’anta del frigorifero trovando una bottiglietta di succo di zucca.
Nel frattempo, cominciò a girare per casa, soffermandosi a osservare il viavai dei passanti dalla finestra.
Pochi minuti più tardi la sua sorellastra uscì dal bagno, fresca come una rosa. Indossava una tuta comoda e i capelli ancora umidi, erano legati in una coda improvvisata.
- Scusa se ti ho fatto aspettare – disse, dopodiché si afflosciò sul divano, dove lui la raggiunse poco dopo. - Allora? Come va? Raccontami.
Parlarono per più di un’ora, aggiornandosi a vicenda su quello che era successo dal loro ultimo incontro. Nonostante al solo sentirne parlare a Ginevra venisse l’orticaria, Harry le parlò di Silente e di come lo avesse portato via da Privet Drive solo qualche giorno prima, ma non prima di cantarne quattro ai suoi zii per averlo maltrattato per tutta la sua vita.
- Devo ammetterlo – commentò Ginevra. - Per una volta trovò che Silente abbia fatto una cosa buona.
Erano anni che lei moriva dalla voglia di ripagare i Dursley con la stessa moneta. In un certo senso erano anche suoi parenti, dato che Petunia Evans era la sorella di sua madre, Lily, ma non ci teneva a sbandierarlo ai quattro venti. E poi, Ginevra era certa che se avesse parlato anche solo venti secondi con loro avrebbe fatto fuoco e fiamme. Letteralmente.
Forse non è una cosa cattiva, in fondo”, tentò Entity con fare incoraggiante.
“Così non aiuti”, cantilenò Ginevra, divertita.
Be’, se mai sentissi il bisogno di farlo, sappi che avrai tutto il mio appoggio”.
“Non ne avevo dubbi, sai?”.
Una risata divertita vibrò dentro di lei, come un leggero solletico all’altezza del petto.
Adorava quella sensazione.
Adorava quando Entity rideva. Era come se in qualche modo le desse energia.
- Silente dice che la notte in cui mi lasciò dai Dursley, c’era anche una lettera nella quale lui gli chiedeva di trattarmi come un figlio – nel dirlo Harry si rabbuiò. - Direi che non è andata come sperava, eh?
Su di loro calò un triste silenzio, nel quale Ginevra mise la mano su quella di lui. I loro sguardi si incrociarono e la tristezza lo abbandonò completamente.
- Poi cos’è successo? - gli domandò, sforzandosi di spostare il discorso lontano da quei mostri Dursley.
Harry sospirò. - Silente mi ha chiesto di accompagnarlo in una missione, che consisteva nel convincere un suo vecchio amico e collega, il professor Horace Lumacorno, a tornare a insegnare a Hogwarts – spiegò.
- E tu cosa c’entri? Perché dovevi convincerlo tu?
Prima di rispondere, Harry si grattò il collo. - Pare che provi molta simpatia per gli studenti promettenti e mi vorrebbe nella sua “collezione”.
- “Collezione”? - ripeté Ginevra, stranita. - Detta così sembra un po’ ambigua come cosa. Non è un pazzo serial killer, vero?
Un sorriso divertito illuminò il viso di Harry. - No, non credo che lo sia.
- Be’, tu tienilo d’occhio comunque – lo spintonò giocosamente, per poi scoppiare in una risatina. - Certo che Silente se ne esce sempre con qualcosa di nuovo e di strano! Perché vuole che questo professore torni a Hogwarts?
Harry fece spallucce. - Non ne ho la più pallida idea. Forse gli insegnanti disponibili per Difesa contro le Arti Oscure erano finiti – disse. - Comunque poi Silente mi ha portato dai Weasley e lì ho trovato i miei bagagli ad aspettarmi. Nemmeno la signora Weasley ne sapeva niente.
- Sì, quel vecchiaccio ha questo brutto vizio di non parlare mai di quello che ha in mente – sbuffò Ginevra, contrariata.
- Sono ancora arrabbiato con lui – disse Harry dopo un po’. Lei lo guardò, ma senza dire una parola, e Harry continuò. - Per quello che è successo all’Ufficio Misteri. Se lui fosse intervenuto…
Si fermò, incapace di continuare.
Non avevano parlato molto di quel giorno, nemmeno in quelle poche volte in cui Harry era andato a trovare Sirius.
Era molto arrabbiato con il vecchio Preside, non solo per tutti i segreti e piani che aveva nascosto a lui e alla sua sorellastra.
Era arrabbiato con lui perché quel giorno, all’Ufficio Misteri, lui non aveva fatto niente per evitare che Sirius finisse su un letto di ospedale. Si era defilato in un’altra stanza adiacente allo scontro, per poi rispuntare ignorando tutto e tutti. Se solo avesse mosso un dito per aiutare lui e Sirius contro lo scontro con Bellatrix Lestrange, forse non sarebbe andata a finire in quel modo e lui e Ginevra non avrebbero avuto il cuore a pezzi ogni volta che parlavano o pensavano a Sirius.
Ginevra si portò le gambe al petto e appoggiò il mento sulle ginocchia. - Immagino che non sapremo mai come sarebbero andate le cose.
Seguì un lungo silenzio, in cui Harry rimase a fissare le riviste e i libri sparsi sul tavolino basso davanti a lui, ma senza guardarli davvero. Alla fine parlò. - Mi manca molto.
- Anche a me.
Quando Ginevra aprì le braccia, protendendole verso di lui, Harry si rifugiò in quell’abbraccio caldo, soffice e confortante. Ne avevano bisogno entrambi.
Harry si strinse a lei, trattenendosi dal scoppiare a piangere.
- Andrà tutto bene – lo rassicurò, stringendolo a sé.
Quelle parole, però, erano anche un modo per confortare anche sé stessa.
“Andrà tutto bene”. Poteva essere definito come un augurio sul futuro… o come una bugia detta a fin di bene. Quel giorno, Ginevra scelse di definirlo un augurio. Una piccola luce di speranza. Come diceva Entity, doveva avere fiducia nel futuro e soprattutto in sé stessa e voleva che anche Harry provasse la stessa cosa. Voleva trasmettergli tutta la fiducia possibile perché, sì, Sirius si sarebbe svegliato presto e tutto sarebbe tornato alla normalità.

Le ore passarono senza che nemmeno se ne fossero accorti e il brontolio dei loro stomaci li avvisò che era arrivata l’ora di pranzare. Mentre Ginevra si metteva ai fornelli, Harry scese al piano di sotto per sincerarsi che i suoi amici fossero ancora in negozio, in modo tale da invitarli a salire e mangiare tutti insieme. Poco dopo nell’appartamento si sentirono anche le voci di Hermione, Ginny e Ron, che giravano per casa curiosi.
- Ehi, Ronnie, com’è andato il tuo primo giorno di lavoro? - lo salutò Ginevra con un’occhiata allusiva, mentre cuoceva le verdure in padella.
Il ragazzo aveva l’aria stanca; i capelli rosso fuoco erano tutti scarmigliati e a ogni passo che faceva dava l’impressione di essere un morto vivente.
- È stato un incubo! - esclamò lui, lasciandosi cadere a peso morto sul divano.
- Ah, davvero? - gli domandò la sorella minore. - Io e Hermione pensavamo che ti stessi divertendo molto, invece. Con quella Lizzie…
Le guance di Ron si imporporarono all’istante al solo sentire quel nome. - Non so di cosa tu stia parlando – bofonchiò distogliendo lo sguardo.
Ginny, però, non mollava l’osso tanto facilmente. - Ti piace, non è vero? - domandò, sedendosi al suo fianco per guardarlo bene in viso.
La situazione la divertiva molto, al contrario di Ron, che si allontanò da lei scalando di un posto.
Harry si portò una mano sulle labbra per nascondere un sorriso, ma non commentò nemmeno quando il suo migliore amico gli lanciò una muta richiesta di aiuto.
A quel punto anche Hermione iniziò a torchiarlo, sedendosi al lato opposto del divano, in modo che lui non potesse più scappare. - Sembra carina – disse. - E avete parlato molto…
- Mi ha spiegato come funzionava la cassa – si giustificò in fretta Ron.
- Strano, a noi sembravate intimi.
- Le hai chiesto di uscire?
- Ma perché vi impicciate nei fatti miei? Fred e George non erano già abbastanza? - sbottò Ron, in preda all’imbarazzo.
- Dai, non tenerci sulle spine! - lo spintonò giocosamente la sorella minore. - Diventerà mia cognata?
- Ok, ora basta! - Ron si alzò in piedi e fissò lo sguardo sulla sorella e la sua migliore amica. - Sì, abbiamo parlato un po’. E no, non le ho chiesto di uscire – poi, dopo un sospiro rassegnato aggiunse: - Lo ha chiesto lei a me.
I gridolini eccitati delle due ragazze suscitarono la curiosità di Ginevra che, presa dai fornelli e dalla musica di sottofondo della radio lì accanto, non aveva seguito molto la conversazione. - Che è successo?
- Ron ha un appuntamento – le spiegò la sua omonima, gongolando.
- E con chi? Con una cliente?
- No – disse. - Con Lizzie. La commessa del negozio.
Ginevra era piacevolmente sorpresa. - Bel colpo, Bilius – commentò con un occhiolino. - Non sapevo fossi un latin lover.
Le tre ragazze scoppiarono a ridere, ignorando il broncio contrariato di Ron. Harry, per solidarietà maschile, si trattenne dall’imitarle e si avvicinò a lui. Gli poggiò un braccio attorno alle spalle dandogli delle piccole pacche incoraggianti.
- Non farci caso – gli disse. - Le ragazze sono fatte così.
Ron incrociò le braccia al petto, non tanto convinto, e fulminò tutti con lo sguardo. - Quando fate così vi odio – sibilò a denti stretti.
Con uno sbuffo e una alzata di spalle Ginny lo liquidò e un minuto dopo lei e Hermione avevano già cambiato argomento.
- Dov’è George? - domandò invece la giovane Black a Ron.
- Sta sistemando un po’ di cose in negozio. Ha detto “cinque minuti e arrivo” – rispose con un’alzata di spalle.
Ginevra sospirò. - Va bene, allora mi aiutate ad apparecchiare nel frattempo? È quasi pronto.
Cinque minuti dopo la tavola era apparecchiata: sulla tovaglia arancione con i pois bianchi c’erano sei piatti, sei bicchieri, forchette e coltelli per tutti e tre bottiglie d’acqua, succo di zucca e succo di frutta. Le portate erano ancora sul fornello spento, ma Ron, da gran golosone che non era altro, si era già fiondato per spiluccare.
- Tuo fratello non è ancora arrivato – lo redarguì Ginevra, dandogli uno schiaffetto sulla mano.
- Ma io ho fame – borbottò Ron, lasciandosi cadere sulla sedia a braccia conserte.
- Che bambinone – sbuffò la sorella minore.
I minuti passavano e Ginevra cominciò a fissare la porta, chiedendosi perché George ci mettesse tanto ad arrivare.
Poi lui varcò la soglia dell’appartamento e Ginevra notò che aveva un’aria strana, sconvolta. Non indossava più la giacca, le maniche della sua camicia verde acido erano arrotolate a metà braccio, la cravatta viola era mezza sciolta.
- Cosa c’è? - gli domandò Ginevra, preoccupata.
Alle spalle di George c’era qualcuno: era un ragazzo, alto quasi quanto lui. Aveva i capelli biondi e il viso un po’ pallido e affilato… ricoperto di ferite sanguinanti.
- Draco…
- Draco? - Hermione scattò subito in piedi e gli andò incontro. - Che ti è successo?
Lo accompagnò verso il divano, facendolo sedere. Il biondo teneva lo sguardo basso, senza riuscire a risponderle.
Nonostante fosse una giornata particolarmente afosa Draco indossava una giacca nera a maniche lunghe. La mano destra stringeva l’avambraccio sinistro da quando aveva varcato la soglia, dando a chi lo stava guardando la sensazione che volesse staccarselo da un momento all’altro.
Davanti alle continue domande preoccupate di Hermione sembrava non riuscire a dire una sola parola. Allora tutti guardarono George, in cerca di risposte.
Lui sospirò, passandosi una mano sul volto. - È successo un casino – mormorò in un sospiro.
- Che… che tipo di casino? - balbettò Ginevra, avanzando verso il cugino con passo lento.
Draco alzò lo sguardo impaurito su George, che annuì. Era un muto assenso a farsi coraggio e rispondere.
A quel punto Draco alzò la manica della giacca sul braccio sinistro, mostrando a tutti quanti la sua pelle diafana imbrattata da qualcosa oscuro.
Ron, così come tutti nella stanza, aveva gli occhi sbarrati per lo stupore e per la paura. Avevano già visto quel simbolo alla Coppa del Mondo di Quidditch… e, proprio come quella notte in cui era apparso nel cielo, il solo guardarlo seminò il panico. - Il Marchio Nero?
Tatuato sul braccio di Draco c’era davvero il marchio di Lord Voldemort: ritraeva un teschio dalla cui bocca fuoriusciva un serpente. Bastava guardarlo un secondo di troppo per avere la sensazione che si muovesse.
Draco tremava e sembrava sul punto di scoppiare a piangere. Fu allora che trovò le parole. - Non sapevo dove altro andare.
Hermione tremò.
Le volte in cui aveva visto piangere Draco Malfoy si contavano sulle dita di una mano. La prima volta era stata la notte del Ballo del Ceppo, nel momento in cui Hermione gli aveva sussurrato di amarlo. In quel momento lui era talmente felice che si era persino commosso. Ma solo per un momento.
La seconda volta, invece, era stato per colpa del padre; Draco le aveva raccontato di un momento in cui, quando aveva tredici anni, aveva affrontato un'accesa conversazione con il padre, urlandogli contro che non avrebbe mai abbracciato i suoi ideali. Allora Lucius era diventato violento, una vera una bestia. Non lo aveva mai picchiato prima, ma quella non fu di certo l'ultima. Mentre gliene parlava non era riuscito a trattenere le lacrime, confessandole che tremava ancora quando il padre si avvicinava troppo a lui.
Lacrime dolci. Lacrime amare.
Ma vederlo in quello stato, col labbra spaccato, il volto coperto di ferite e lividi, per Hermione fu un grande dolore. Ma ciò che la faceva soffrire di più era il dolore negli occhi di lui. Quelle iridi grigie come la tempesta che lei aveva sempre amato, stavano gridando aiuto.
Con le lacrime agli occhi, lo abbracciò e gli baciò la fronte. - Sono qui, amore – gli sussurrò all’orecchio e Draco scoppiò a piangere come un bambino.


 ANGOLO AUTRICE:
Buon Halloween a tutti voi!
Volevo solo ringraziarvi per aver letto questo capitolo, spero che vi sia piaciuto e che abbia scatenato la vostra curiosità.
Qualche giorno fa ho creato un profilo instagram dove ho inserito già molti contenuti inerenti ai personaggi della storia (che spero vi piacciano).
Vi lascio il link qui https://www.instagram.com/18ginny18/ (ricambio il follow!).
A presto,
18Ginny18

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 – L'ANTRO INFERNALE - parte 1 ***


Capitolo 4 – L’antro infernale
parte 1

Continuò a piangere tra le braccia di Hermione fino a quando il dolore non si attenuò. Solo allora Draco decise di raccontare ciò che gli era successo.
 
Una volta sceso dall’Hogwarts Express, Draco salutò Hermione con un bacio sulle labbra e con la promessa di scriverle ogni settimana fino al loro prossimo incontro. Poi lei andò via, attraversando il muro che portava alla stazione Babbana, e lui rimase lì, in attesa.
Nonostante avesse avvertito sua madre per tempo che avrebbe fatto ritorno alla villa lei non si era fatta né vedere, né sentire. Draco non stupì poi tanto.
Non si aspettava davvero di vedere qualcuno lì alla stazione, soprattutto dopo quello che era successo quella notte all’Ufficio Misteri: aveva voltato le spalle al padre, lasciando persino che lo arrestassero.
Quello non era di certo il comportamento ideale che ci si aspetterebbe dal proprio figlio, ma Draco non era affatto pentito.
Era stato più forte di lui.
Dire “basta” a suo padre e a quella vita alla quale sembrava destinato a intraprendere gli aveva dato la forza e il coraggio che gli mancavano e che gli permettevano di vivere in pace con se stesso.
Niente più bugie. Niente più segreti.
Lui era un Purosangue che amava una Mezzosangue e voleva farlo alla luce del sole, ignorando i continui commenti sprezzanti del padre e le volgarità come: “ - Scopatela! Divertiti, mi sta più che bene!” o “ - È normale per un ragazzo della tua età voler esplorare... E poi è un ottimo modo per fare esperienza, dato che le ragazze Purosangue devono rimanere illibate fino al matrimonio, dico bene?”.
Gli aveva detto quelle parole durante una cena a villa Parkinson, dopo che Pansy si era lasciata sfuggire “accidentalmente” che lui aveva una relazione con Hermione Granger.
Accidentalmente un corno! Lo aveva fatto apposta quella vipera, ne era certo!
Con somma sorpresa di Draco, però, suo padre Lucius aveva mantenuto la calma, mettendosi persino a ridere e continuando a cenare come se niente fosse. Ma una volta tornati a villa Malfoy… be’, non si era di certo risparmiato: lo aveva colpito con il suo bastone, preso a calci fino a fargli sputare sangue e lo aveva torturato con le Maledizioni Cruciatus.
- Mi hai fatto fare la figura dell’idiota!”, lo aveva rimproverato. “Come osi nascondermi una cosa del genere? Come osi gettare la tua stessa famiglia nella vergogna! Come hai potuto permettere che il nostro nome fosse motivo di pettegolezzo? Non ti ho insegnato niente? I Mezzosangue sono feccia, come i Babbani! Non sono persone come me e te!”.
Smise di fargli del male solo quando le urla di Draco non si affievolirono e lui svenne sul pavimento dell’ingresso.
Quel ricordo era ancora marchiato a fuoco nella mente di Draco, ma di certo non gli aveva impedito di continuare a vivere o continuare ad amare Hermione.
Sospirò, appoggiandosi al muro accanto alla biglietteria della stazione in attesa che qualcuno lo venisse a prendere.
Avrebbe aspettato ancora cinque minuti, dopodiché, se nessuno si fosse fatto vivo in quel lasso di tempo, avrebbe lasciato la stazione per raggiungere i suoi amici nel cuore di Londra.
Si guardò intorno fino a quando non incrociò una creaturina con le orecchie flosce e uno straccio per vestito che si fece avanti, sfregandosi le dita lunghe e ossute.
Draco la riconobbe immediatamente e non poté fare a meno di sorridere. Era Pops, la sua elfa domestica personale.
- Padrone – pigolò la vecchia elfa, facendo un inchino profondo una volta dinanzi a lui.
- Ciao, Pops – la salutò lui. - È bello rivederti!
Ed era sincero.
Pops era sempre stata la sua unica amica a villa Malfoy. Certo, un tempo c’era anche Dobby, l’elfo domestico di suo padre, ma con Pops era tutto diverso. Con lei non doveva mai fingere.
Si era presa cura di lui fin dal primo momento, lavandolo, nutrendolo, vestendolo, curandogli le cicatrici e giocando con lui tutti i giorni per quasi dodici anni. Poi Draco era cresciuto e Pops smise di occuparsi di certe cose, ma anziché disfarsi di lei, come voleva Lucius, lui decise comunque di tenerla con sé, disobbedendo per la prima volta al volere del padre.
Pops non era una semplice elfa. Lei era una confidente, un’amica, e Draco la trattava come sua pari.
A volte provava il desiderio di renderla libera, ma poi il solo pensiero di separarsi da lei gli faceva male. Era un pensiero egoistico da parte sua, ne era consapevole. Il problema era che non poteva perderla.
Pops gli sorrise, guardandosi attorno un po’ esitante.
Sembrava che qualcosa la spaventasse, ma Draco ne ignorava la ragione. Dopodiché l’elfa gli domandò dove voleva essere accompagnato tramite smaterializzazione. Lui trovò molto strana quella domanda e rispose con un sopracciglio inarcato e un sorriso obliquo, come se quelle tre parole fossero la cosa più ovvia: - A villa Malfoy.
Pops indietreggiò di un passo con un saltello e cominciò a contorcersi le dita, preoccupata. - Non… non… - balbettò. Non riusciva quasi a spiccicare una parola. - Il padrone non vuole essere accompagnato da uno dai suoi amici? Magari…
- Che ti prende, Pops? Va tutto bene? - domandò. Poi, si rabbuiò, colto da un sospetto. - E per via di ciò che è successo a mio padre? Se è stata mia madre a dirti di non portarmi alla villa… Lo capisco.
Sua madre non lo voleva più intorno.
Comprensibile. Ma faceva male.
Narcissa non era mai stata come Lucius. Con lei aveva un rapporto diverso, fatto di abbracci e amore. E non di rabbia e punizioni.
Ma avendo lasciato che mandassero Lucius ad Azkaban… be’, probabilmente non era una cosa che si poteva perdonare tanto facilmente come credeva.
- Tranquilla - disse a Pops. - Voglio solo tornare a casa per stare un po’ vicino a mia madre. Voglio solo salutarla… Poi raggiungerò i miei amici per l’estate. Lo prometto.
Sì. Quello era il piano. Avrebbe trascorso del tempo con la madre, per non lasciarla da sola in quel momento tanto duro e difficile per i Malfoy, per poi raggiungere Blaise, Theodore e Daphne nella casa che stavano per prendere in affitto. Avrebbero vissuto lontano dal marcio delle loro famiglie una volta per tutte. Era il loro sogno, doveva solo pazientare un po’.
Mentre ripensava a quel programma non poté fare a meno di fare una domanda. - Pops – disse, esitante. - Sii sincera, per favore. Mia madre è in collera con me?
L’elfa sgranò i suoi occhioni. - Assolutamente no. La padrona vi vuole bene.
Le sue parole riuscirono ad alleggerire il peso sul suo cuore.
La affiancò senza alcun timore, allungando la mano verso quella ossuta di lei. - Andiamo a villa Malfoy, allora – disse Draco.
Davanti a quella scelta l’elfa sembrava un po’ riluttante, ma lui non sembrò farci molto caso. Un attimo dopo erano davanti al cancello dell’immensa villa di famiglia.
Quando Draco si avvicinò abbastanza, il cancello si spalancò dandogli una visuale più ampia della casa.
L’ultima volta che aveva messo piede su quel terreno era il primo settembre, poco prima di partire per Hogwarts. Da allora la villa, però, aveva cambiato completamente aspetto… sembrava più tetra di quanto lui ricordasse. Le piante del giardino erano abbandonate a sé stesse; i rampicanti erano cresciuti talmente tanto da ricoprire le mura esterne da cima a fondo.
- Il giardiniere ha preso un anno sabbatico? - domandò Draco alla sua elfa, stranito.
Camminava per il viottolo continuando a guardarsi intorno. Non udiva nemmeno il fruscio familiare che creavano i candidi pavoni di suo padre quando passeggiavano per il giardino.
Che fine avevano fatto? Perché ovunque posasse lo sguardo vedeva solo squallore?
Era abituato all’assidua manutenzione del giardiniere di famiglia, tanto che a volte si dimenticava persino la sua esistenza. Solitamente il giardino era talmente curato da far sembrare che la magia fosse l’artefice di tanta bellezza, eppure Draco ricordava l’omino che si prendeva cura delle rose, dei cespugli, dei rampicanti e di tutte le altre piante della villa: un uomo corpulento, dall’aria gentile e dal sorriso perenne stampato sulla faccia.
Non aveva mai scambiato molte parole con quel signore. Non conosceva nemmeno il suo nome, così come non conosceva il nome della maggior parte della servitù. Tutti erano solo: “la cameriera”, “lo stalliere”…
Certo, gli era capitato spesso di imbattersi nell’occasionale domestico, indaffarato a pulire senza l’uso della magia, ma non poteva dire di conoscerli.
Quando era solo un bambino, nella sua ingenuità, Draco aveva commesso l’errore di chiedere al padre il perché i domestici non avessero un nome e il perché nessuno di loro usasse la magia per lavorare. Quando poi domandò del giardiniere, il quale quel giorno gli aveva fatto dono di una bellissima rosa bianca che aveva donato alla madre, Lucius si era infervorato.
- Non è necessario conoscere il nome della servitù. L’importante è sapere il ruolo che svolgono”, ribadiva più volte. “ - È già un miracolo se lavorano per noi. Quella… feccia!”.
Per paura che il padre punisse loro per la sua curiosità, Draco smise di chiedere. E il discorso, così come la curiosità di Draco, si glissò.
Per suo padre il giardiniere era solo il giardiniere e la cameriera era solo la cameriera. Punto.
Niente di più chiaro.
Ma allora perché Draco non era mai riuscito ad accettarlo?
La servitù era composta rigorosamente da Mezzosangue e elfi domestici, ma i maghi al servizio della famiglia Malfoy non dovevano farsi né vedere né sentire. A volte, agli occhi di Draco, sembravano persino dissolversi nel vento tanto erano silenziosi, comparendo e scomparendo come fantasmi.
In quel momento Draco si guardò attorno, avvertendo una stretta al petto mentre il suo sguardo si posava sulle piante ormai morte del giardino.
Il giardino era sempre stato meraviglioso, curato nei minimi dettagli, Draco lo ricordava bene. Non era mai stato come in quel momento.
- Cos’è successo a questo posto? - domandò alla sua elfa.
Lei esitò. Cominciò a contorcersi le mani, spaventata. - Oh, padrone – pigolò. - Sono successe tante cose brutte da quando ve ne siete andato. Ma Pops non può parlare, la padrona non vuole. Pops deve punirsi per aver detto questo!
Cominciò a darsi dei pugni sulla fronte ma Draco la bloccò prima che potesse farsi male sul serio. Odiava quella prerogativa degli elfi domestici.
Sospirò e si inginocchiò alla sua altezza, in modo da incrociare i suoi grandi occhioni viola. - Cosa mi avevi promesso, Pops? - domandò retorico. Il tono era dolce.
Gli occhi di Pops cominciarono a riempirsi di lacrime. - Pops aveva promesso… di smettere di punirsi. Pops ha disubbidito… - singhiozzò. - Pops chiede scusa al padrone.
Draco le accarezzò la testolina grinzosa e le asciugò le lacrime con un fazzoletto, nonostante lei fosse contraria al suo gesto. Nessun mago Purosangue doveva abbassarsi in quel modo per un semplice elfo domestico. Ma lui non era Purosangue qualsiasi e lei non era un elfa qualsiasi.
- Cos’è successo, Pops? - le domandò con tono mite.
Pops esitò ancora una volta. Poi i suoi occhioni viola incrociarono quelli grigi di lui. - Il padrone non è al sicuro qui. Pops deve portarlo al sicuro.
Un leggero tremore pizzicò il corpo del ragazzo. Provò a domandarle cosa intendesse, ma le parole gli morirono in gola quando, da una delle finestre della villa, vide un ombra.
Qualcuno li stava osservando.
Scattò in piedi e, insieme a Pops, attraversò la strada lastricata da sassolini di pietra bianca fino ad arrivare davanti alla porta della villa.
Prima di varcare la soglia, Draco esitò. Lo faceva sempre quando rimetteva piede lì. Era più forte di lui.
Dopo un sospiro profondo, bussò alla porta e Pops, spaventata, si smaterializzò subito dopo.
Era rimasto da solo.
Il vecchio elfo domestico raggrinzito di nome Sinck aprì la porta di quercia scura, lentamente, salutandolo con un inchino profondo. Varcando la soglia, Draco notò che le sue lunghe dita raggrinzite erano fasciate da della stoffa sporca e sanguinante. Si era punito.
Non era una novità che gli elfi si punissero per aver disobbedito o per aver commesso un’errore, ma per Draco era sempre una sofferenza vedere un elfo domestico ridotto in quello stato.
Guardando il vecchio Snick, Draco aggrottò la fronte senza poter fare a meno di nascondere la preoccupazione. Quel vecchio elfo si muoveva appena, era stanco, ma svolgeva comunque le sue mansioni nonostante avesse un chiaro bisogno di riposo.
- Snick prenderà il baule del padrone – gracchiò l’elfo muovendo un passo malfermo verso di esso.
Il baule. Per un attimo Draco se ne era dimenticato.
- No, per il momento lo lascerò qui. Grazie, Snick – disse. - Puoi andare.
L’elfo fece un secondo e ossequioso inchino e si allontanò, zoppicante, e Draco lo seguì con lo sguardo fino a quando non lo vide sparire dietro l’angolo del corridoio.
Sconcertato, si guardò intorno.
Per quanto fosse possibile l’interno della villa era peggiore dell’esterno: ovunque lui posasse lo sguardo trovava solo polvere e buio. Le lunghe e pesanti tende verde persiano coprivano ogni finestra dell’atrio, senza far trapelare nemmeno una minima parte di luce. Lo splendido tappeto che ricopriva gran parte del pavimento di pietra era ricoperto di grosse chiazze scure… l’odore nell’aria era nauseabondo. Gran parte dei ritratti appesi alle pareti avevano segni di bruciature, alcune tele avevano degli squarci profondi.
Possibile che in quelle poche settimane, dalla cattura di Lucius Malfoy, la dimora fosse in quelle condizioni? Draco non lo trovava possibile.
Tutto sembrava abbandonato. Era quasi come se nessuno si occupasse della manutenzione o della pulizia di quel luogo da tempo.
Un rumore sinistro attirò l’attenzione di Draco.
Veniva dalla biblioteca.
Pensando che si trattasse della madre, andò dritto verso le doppie porte di legno scuro che nascondevano la biblioteca, attraversando un lungo corridoio dall’aria malconcia e abbandonata come il resto della casa.
Gli venivano quasi i brividi.
Spalancò le doppie porte, scoprendosi sempre più inorridito da ciò che aveva davanti.
La biblioteca era bellissima e orribile allo stesso tempo. Non era affatto come la ricordava. Non era più il luogo in cui cercava riparo, il suo nascondiglio segreto.
Anche lì, le lunghe e pesanti tende verde persiano coprivano le finestre rendendo la stanza molto buia. A lui piacevano molto quelle tende, gli ricordavano i bei momenti che aveva passato in quella stanza: quando era piccolo le aveva usate molte volte per nascondersi quando giocava a nascondino insieme a Pops. La piccola elfa ci metteva sempre un bel po’ a stanarlo, lo cercava per tutta la biblioteca, eppure Draco era certo che lei sapesse con esattezza dove si nascondeva.
Invece, in quel momento, ciò che rendeva orribile quel suo rifugio era il gelo che permeava nonostante nel caminetto ardesse un bel fuoco; la carta da parati era ridotta a brandelli, sporca di qualcosa che Draco non riusciva ad identificare; il grande lampadario di cristallo pendeva storto dal centro del soffitto alto, sorretto da una corda mezza rosicchiata.
Continuando a guardarsi intorno, quegli accenni di bei ricordi svanivano lentamente.
Ciò che rendeva ancora più orribile la sua adorata biblioteca era l’odore di bruciato che aleggiava nell’aria e la scarsa presenza dei libri che lo stesso Draco aveva letto e riletto più volte.
La maggior parte dei libri che mancavano dai grandi scaffali era stata riversata sul pavimento di marmo nero: aperti, spogliati, bruciati. Qualcuno li aveva violati.
Perché? Persino lo stesso Lucius Malfoy si sarebbe ribellato davanti a quella scena.
La biblioteca di villa Malfoy vantava il più ricco e unico assortimento del Regno Unito, se non dell’intero mondo magico. Alcuni testi erano talmente rari che erano custoditi gelosamente dietro un passaggio segreto nel muro e solo i Malfoy ne erano a conoscenza.
Chi aveva osato fare una cosa del genere?
Ben presto il suono di carta strappata lacerò il silenzio della stanza, rivelando a Draco che non era solo in quella stanza.
Davanti al camino c’erano due comode poltrone, una delle due era occupata.
Draco si avvicinò, per poi arrestarsi di colpo a pochi passi dalla poltrona. L’istinto gli suggerì subito di arretrare quando una risata bassa e gutturale lo salutò. - Finalmente sei arrivato, nipote.
A quella voce si unì lo strappo inconfondibile della carta, poi il volto magro di un uomo fece capolino dalla poltrona, confermando i timori di Draco.
Conosceva bene quell’uomo.
L’ultima volta che lo aveva visto era solo un bambino di poco più di tre anni, ma lo ricordava fin troppo bene. Portava ancora i segni di quel primo e ultimo incontro.
Il trauma cominciò a riaffiorare, lentamente, man mano che il sorriso crudele si estendeva sulle labbra di quell’uomo.
Era esattamente come lo ricordava: i folti capelli erano castano ramato, così come i baffi e la barba curata. Aveva solo qualche capello bianco e qualche ruga in più, ma era sempre lo stesso uomo dei suoi ricordi. Gli occhi scuri e penetranti erano fissi su di lui.
Rodolphus Lestrange, il marito dell’ormai defunta zia Bellatrix, era proprio lì, davanti a lui.
Non era affatto ad Azkaban come credeva.
Quando era evaso? Non aveva visto la sua foto sul giornale insieme a quella di Bellatrix… possibile che non lo avesse nemmeno notato?
Il suo sorriso si estese quando vide Draco irrigidirsi e impallidire.
- Vedo che ti ricordi di me – sogghignò divertito.
Con la mano gli fece cenno di accomodarsi nella poltrona accanto alla sua, ma il ragazzo non si mosse.
- Che cosa ci tu fai qui? - incalzò Draco. Teneva i pugni erano stretti lungo i fianchi, pronto a tirare fuori la bacchetta in caso di necessità. Rodolphus non sembrava intenzionato ad attaccare, ma la prudenza non era mai troppa.
Anche se non era ancora maggiorenne, Draco era pronto a difendersi con ogni mezzo.
Rodolphus scosse la testa e sospirò, come se disapprovasse il comportamento di Draco. - Non ti scaldare, ragazzo. E siediti – ordinò, con tono mite, dopodiché tornò a dedicarsi alle pagine del libro che stava sventrando.
- Che cosa ci fai qui? - ripeté. - Dov’è mia madre?
Cadde un silenzio irreale.
Rodolphus si voltò, i suoi occhi erano ridotti a due fessure. - Non osare urlarmi contro, lurido moccioso! - sibilò a denti stretti.
Scattò in piedi e improvvisamente una risata folle, maniacale, echeggiò nella stanza penetrando persino nelle ossa di Draco.
Odiava quella risata. Gli dava i brividi.
Rodolphus scagliò il libro, ormai logoro, nel fuoco del camino. - Muori già dalla voglia di stare sotto la sottana della mammina, eh? - domandò derisorio, avvicinandosi all’armadietto dei liquori. Anche quello, come il resto della stanza, era quasi privo di contenuto. Al suo interno vi era solo qualche bottiglia, segno che suo zio si era già servito prima che lui arrivasse, ma non sembrava ubriaco. Aveva vuotato ogni bottiglia con calma.
Era lì da molto tempo. Lo aveva capito anche dalla sicurezza dei suoi movimenti, dal modo in cui si destreggiava per la stanza come se ne conoscesse ogni angolo. Si comportava come il padrone di casa, il che era molto fastidioso per Draco.
In un bicchiere Rodolphus versò dell’ottimo brandy fino all’orlo, perdendosi non più di un istante ad annusarne l’aroma. - Mi mancava – mormorò, poi lo bevve tutto d’un fiato.
Le mani di Draco pizzicavano tanta era la voglia di dargli una bella lezione e buttarlo fuori, ma restò in silenzio con i propri pensieri domandandosi da quanto tempo quell’uomo occupasse villa Malfoy. I suoi genitori lo sapevano? Erano a conoscenza del modo in cui era stata ridotta la loro casa? Dov’era la servitù? Fu allora che si ricordò di Pops e dello spavento che era dipinto nei suoi occhi.
Aveva paura di Rodolphus.
Ma perché non gli aveva detto nulla? Perché non gli aveva detto che lui era lì? Le aveva fatto del male? Aveva fatto del male anche a sua madre?
Il sospetto che quella poteva essere la realtà dei fatti cominciò a diventare una certezza. Quell’animale ne era più che capace.
Se chiudeva gli occhi poteva ancora sentire le urla di terrore di quella notte ormai lontana.
- Sono cambiate molte cose mentre eri a Hogwarts – disse Rodolphus, mentre si serviva del secondo bicchiere. I suoi occhi puntarono dritti quelli grigi di Draco. - Ma sono certo che ti abituerai presto.

Dopo quello scontro verbale Draco lasciò la biblioteca, correndo al piano superiore nella stanza della madre. Sapeva di trovarla lì.
Bussò alla porta. - Madre? Sono io.
Nessuna risposta. Provò ad aprire la porta ma si sorprese di trovarla chiusa.
- Cosa sta succedendo, madre? - domandò in preda all’ansia. - Perché la porta è chiusa?
Udì dei passi frettolosi al di là della porta, poi un fruscio sussurrato mentre qualcosa veniva spinto sotto la fessura della porta. Draco abbassò lo sguardo. Era un foglio color perla ripiegato. Si avvicinò e lo raccolse, riconoscendo immediatamente la grafia della madre.

 
Sono prigioniera. Non posso uscire.
Rodolphus mi ha sottratto la bacchetta e non posso comunicare nemmeno con un elfo domestico.
Non posso reagire in alcun modo, altrimenti se la prenderanno con te e con tuo padre.

Scappa prima che sia troppo tardi.
Salvati, figlio mio.

Nel leggere quelle poche parole Draco era sconvolto.
Prigioniera? Nella sua stessa casa?
Non poteva permetterlo.
La rabbia accumulata era talmente tanta che Draco colpì il muro con un pugno. L’intonaco si ruppe e la parte tremò. Le nocche della mano si erano spaccate e il sangue aveva fatto la sua comparsa, ma non vi prestò la minima attenzione. - Perché? - domandò alla porta. - Cos’è successo?
I passi della madre ripresero a farsi frettolosi e un secondo foglio strisciò fuori da sotto la porta. Cominciò a leggere ciò che vi era scritto nel biglietto e fu quasi come ricevere un pugno nello stomaco.
Villa Malfoy era diventata la base segreta di Lord Voldemort da mesi e nell’esatto momento in cui Lucius aveva messo piede ad Azkaban, il controllo della casa era stato affidato a Rodolphus Lestrange, il nuovo secondo in comando del Signore Oscuro. Per Voldemort quello era un modo per risarcirlo della perdita della moglie, Bellatrix, ma anche per punire i Malfoy per ciò che era successo all’Ufficio Misteri.
Lucius lo aveva deluso.
Draco non si era schierato dalla loro parte.
Era una punizione.
Da padrona Narcissa era diventata una prigioniera, privata persino della facoltà di comunicare con un elfo domestico per ricevere aiuto.
Niente bacchetta. Niente magia.
Nonostante lei continuasse a incitarlo a scappare, Draco non riusciva nemmeno a pensare di lasciarla lì, da sola. E poi era certo che Rodolphus non gli avrebbe mai permesso di scappare.
Ogni volta che aveva incrociato il suo sguardo si era sentito come un topolino davanti a un grosso gatto affamato.
Guardando il danno che aveva fatto al muro, si costrinse a respirare a fondo. La sua mano tremava, ma non di paura. La rabbia ardeva ancora dentro di lui.
- Ti porterò via di qui, madre. Lo prometto – disse.

Le ore passavano e Draco ascoltava dalla propria camera lo zio Rodolphus ammazzare il tempo torturando ogni elfo che gli capitava a tiro e bistrattando ogni cosa nella villa, come un bambino annoiato.
Attraverso i messaggi segreti che aveva scambiato con la madre, Draco aveva scoperto il motivo dell’assenza dei domestici Mezzosangue: erano stati tutti massacrati.
Quando Lord Voldemort e i Mangiamorte avevano preso possesso di villa Malfoy, la maggior parte venne torturata, altri vennero uccisi e solo in pochi riuscirono a scappare. Le donne erano tra le più sfortunate: stuprate e schiavizzate, seviziate in modi indescrivibili. Erano state marchiate a fuoco come bestiame per comunicare il senso del possesso.
Narcissa ricordava ancora le loro grida di dolore e disperazione, le loro preghiere, i loro occhi pieni di lacrime… ma lei non poteva aiutarle, altrimenti avrebbero punito anche lei, il marito e il figlio.
Il giorno in cui Lucius era stato arrestato e Bellatrix era morta, Rodolphus Lestrange aveva preso possesso della villa e aveva rinchiuso Narcissa in camera. Le permetteva di uscire solo per le ore dei pasti, come quella sera, obbligandola a sedersi al suo fianco.
Durante quella cena in particolare Rodolphus non aveva smesso un solo istante di toglierle gli occhi di dosso. Lo sguardo lascivo le metteva i brividi, ma lei restava impassibile, come una statua. Al contrario di Draco che, invece, fumava di rabbia.
- Smettila di guardarla.
- Cosa hai detto? - gli domandò Rodolphus, incurante. I suoi occhi erano sempre fissi su Narcissa e un sorriso perverso si allargava sulle sue labbra a vista d’occhio.
Draco batté le mani sul tavolo, furioso, e scattò subito in piedi. - HO DETTO SMETTILA DI GUARDARLA! - tuonò.
Gli occhi di Rodolphus si spostarono su di lui. - Io guardo quanto mi pare e non sarai tu a impedirmelo, mocciosetto – ribatté a denti stretti. Il suo sguardo era diventato di fuoco. - Se non te ne fossi accorto qui comando io. Sei vivo solo perché lo voglio io. Ma se mi arrabbiare e ti ammazzo senza pietà.
Il rumore improvviso delle posate sul piatto risuonò spostando l’attenzione su Narcissa. Le erano cadute le posate dalle mani. I suoi occhi tremavano di paura, ma sembrava sforzarsi di sorridere. - Non è il caso di… parlare di certe cose... a tavola. Mangiamo.
- Giusto – concordò Rodolphus, sorridendo con soddisfazione. - Siamo una famiglia, dopotutto. Comportiamoci come tale!
La sua mano scivolò sotto il tavolo fino a posarsi sulla gamba di Narcissa, che sobbalzò per la sorpresa.
Draco lo notò ed era pronto a scattare verso lo zio, ma sua madre lo stupì. - Siediti, Draco – disse. La sua voce era tornata calma, come era sempre stata.
- Madre… - tentò lui, ma invano.
Narcissa era impassibile. - Ti ho chiesto di sederti, Draco – disse. - Ti ho insegnato a comportarti come un gentiluomo e pretendo che tu continui a farlo.
- Ma…
- Obbedisci a tua madre, ragazzo – lo canzonò Rodolphus, provocatorio. La sua mano continuava a muoversi da sotto il tavolo e, con orrore di Draco, Narcissa non muoveva nemmeno un muscolo per impedirglielo.
Draco sentì crescere dentro di sé una rabbia incontenibile.
Non capiva perché la madre si comportasse in quel modo, perché non si era mai ribellata dopo tutto quel tempo, perché non si ribellava in quel momento?! Non riusciva proprio a capirlo.
Stava per ribattere per l’ennesima volta, ma lo sguardo di lei lo fece desistere. Era una preghiera.
Non doveva ribattere. Non doveva perdere le staffe.
Rodolphus sembrava non aspettare altro.
- Vuoi dire qualcosa, nipote? - lo stuzzicò, spezzando quel silenzio irrequieto che si era creato. La sua mano continuava a muoversi, ma Draco non poteva vedere cosa stesse facendo con esattezza e una parte di lui non voleva nemmeno saperlo.
Gli occhi di sua madre continuavano a pregarlo silenziosi.
A quel punto si trovò a cedere.
- Niente – sibilò, rimettendosi a sedere.
Il sorriso perverso e vittorioso di Rodolphus lo disgustava.
Ma i tentativi di Narcissa per ammansire il cognato erano presto andati vani. Alla fine la collera di Draco aveva avuto la meglio e quella sera lo scontro con Rodolphus risultò inevitabile.
Non poteva far finta di niente e fingere che tutto fosse normale!
Non riusciva a tollerare il suo comportamento, il modo in cui maltrattava lui e sua madre… persino l’aria che respirava era diventata insopportabile e alla fine era sbottato.
Peccato, però, che il Mangiamorte sembrava non aspettare altro. Draco non ebbe nemmeno il tempo di attaccare che si era già ritrovato disarmato a contorcersi dal dolore sul pavimento.
Rodolphus era stato molto più veloce di lui; lo aveva colpito, torturato, deriso e picchiato senza pietà. E nonostante quella non fosse la prima volta che il ragazzo subiva quel tipo di violenza, sembrava che il dolore fosse più acuto e intenso.
Rodolphus era molto più violento di Lucius.
Draco provò a resistere all’impulso di urlare, soprattutto per non dare alcuna soddisfazione a suo zio, ma man mano che i colpi aumentavano la sofferenza lo spingeva ad arrendersi.
Alla fine le urla di Draco echeggiarono per tutta la notte come una tetra canzone che Rodolphus Lestrange trovava oltremodo sublime.
Quel suono gli provocava un godimento impagabile. Era convinto che la Maledizione Cruciatus fosse il modo più adatto per mettere in riga quel traditore del nipote, ma che fosse anche un modo come un altro per “rallegrare” l’atmosfera. Anche perché con gli elfi domestici non provava altrettanto divertimento come in quel momento.
Obbligò Narcissa ad assistere alla scena, in modo che anche lei capisse una volta per tutte che era lui a comandare. Lei osservava con un groppo alla gola, incapace di intervenire. Senza bacchetta si sentiva più impotente che mai.
Non poteva difendere il suo unico figlio da quella tortura. Non era mai riuscito a proteggerlo nemmeno quando era Lucius a punirlo.
Era davvero una pessima madre.
Gli occhi le si riempirono di lacrime, alcune sfuggirono al suo controllo rigandole le guance. Il corpo le tremava da capo a piedi ad ogni grido straziante che le sfiorava le orecchie.
Quel terribile sottofondo aveva trasformato villa Malfoy in un antro infernale.

Purtroppo le torture non si fermarono lì. Rodolphus, sadico qual’era, imprigionò il nipote nelle segrete della villa infliggendogli una tortura diversa ogni volta che se lo ritrovava davanti. A volte ordinava agli stessi elfi domestici di portarlo al piano di sopra solo per divertirsi un po’, altre scendeva lui stesso e lo castigava nella cella nella quale si trovava il ragazzo.
Draco era disarmato, infreddolito, dolorante… il suo unico desiderio era far sparire quel folle tiranno dello zio dalla faccia della terra ma, per quanto quell’ambizione fosse forte, nessuno poteva aiutarlo.
Era solo.
Col tempo le forze cominciavano a venire meno e la mente gli provocava strane allucinazioni. C’erano volte in cui la mente lo ingannava mostrandogli suo nonno, il vecchio Abraxas Malfoy, morto i primi di gennaio. Draco non si era presentato al funerale perché aveva sempre odiato suo nonno e aveva promesso a sé stesso di non incrociare mai più la sua strada.
Proprio come quando era in vita, suo nonno lo guardava dall’alto in basso proprio come quando Draco era un bambino.
- Sei un debole – sputava acido. - Sei la vergogna della nostra famiglia.
Era esattamente come Draco lo ricordava: occhi di ghiaccio che trasudavano disprezzo, il viso rugoso dove dei baffi si univano a dei folti basettoni bianchi, abiti eleganti e costosi incorniciavano la sua postura elegante nonostante la schiena fosse un un po’ ingobbita a causa dell’età. Con se portava sempre un bastone che stringeva gelosamente tra le dita; era molto simile a quello che apparteneva a Lucius, l’unica differenza era il manico: il primo era un semplice pomello con un triangolo particolare inciso sopra, il secondo, invece, era la testa d’argento di un Basilisco.
- Sei una vergogna. Mi disgusti – ripeteva, ma a Draco non importava. Non più.
Ogni volta che Abraxas si mostrava in quella cella e apriva bocca, Draco si portava le gambe al petto e le mani alle orecchie, in modo da non sentire una sola parola di ciò che diceva. La sua unica preghiera era che quell’immagine sparisse e lo lasciasse in pace.
Poi, improvvisamente, una sera vide Hermione. La sua dolce e meravigliosa Hermione. Era felice di vederla, il suo cuore aveva ripreso a battere nello stesso istante in cui aveva incrociato il suo sguardo. Era bellissima, proprio come l’ultima volta in cui l’aveva vista.
Non sapeva come fosse arrivata lì, alla villa, o come fosse entrata nella cella. Voleva toccarla, accertarsi che fosse realmente al suo fianco, ma qualcosa, dentro di lui, gli impediva di farlo.
Quando Hermione gli accarezzava il viso il suo tocco era gelido, quasi inesistente, e la sua voce sembrava un eco lontano quando gli prometteva che lo avrebbe salvato.
Draco la guardava, perdendosi nelle sfumature dorate dei suoi bellissimi occhi, ammaliato anche il suo meraviglioso sorriso. Le era mancata terribilmente.
- Portami via, ti prego – le sussurrò la prima volta, credendo che fosse realmente lì con lui, ma era un’illusione.
Doveva esserlo.
Draco lo sperava con tutto sé stesso perché, ad un tratto, era sbucato fuori Rodolphus che colpì Hermione alle spalle, uccidendola davanti ai suoi occhi.
Il corpo si era dissolto senza lasciare traccia e lui aveva pianto tutta la notte.
Tirò un sospiro di sollievo solo quando fu certo che quella era solo un’illusione, ma nonostante quella scena si fosse ripresentata più e più volte, il più delle volte non riusciva a frenare le lacrime. La sua mente era talmente martoriata e confusa che a volte quelle allucinazioni lo avevano portato a dubitare che quella fosse la realtà.
Stava diventando pazzo? Probabile.
Dopotutto la Maledizione Cruciatus faceva quell’effetto. I genitori di Neville Paciock erano finiti al reparto psichiatrico proprio per mano di Bellatrix e Rodolphus. A quanto pareva, torturare fino alla pazzia era sempre stata la loro specialità e, di certo, Rodolphus non aveva perso il tocco.
La dolce elfa Pops portava a Draco del cibo ogni volta che poteva, ma doveva fare attenzione e non farsi cogliere in flagrante da Rodolphus, altrimenti le conseguenze sarebbero state terribili.
- Pops è dispiaciuta, padrone – piagnucolava l’elfa mentre lo aiutava a mangiare. - Pops è un elfa cattiva.
- No, Pops – rantolava lui per il dolore. - Non devi nemmeno pensarlo. Tu sei buona.
I grandi occhi a palla di Pops luccicavano di lacrime mentre un piccolo sorriso si allargava sul suo volto grinzoso. Le lunghe dita ossute sfiorarono i capelli di Draco in una carezza affettuosa.
Draco le sorrise.
Era grato a Pops di essere ancora lì, al suo fianco.
Le voleva molto bene, fin da quando era un bambino. Si prendeva sempre cura di lui come meglio poteva, da balia era diventata compagna di giochi e poi confidente. Un’amica.
Pops stava per dire qualcosa quando Draco udì l’ormai famigliare suono di passi che scendevano le scale della prigione.
Le lanciò un’occhiata e l’elfa sparì poco prima che Rodolphus raggiungesse la porta.
Il momento che Draco detestava di più della giornata era arrivato.
- Dormito bene, caro nipote? - lo salutò Rodolphus con un sorriso sadico sulle labbra.
Draco lo ignorò, come faceva sempre. Non incrociava nemmeno il suo sguardo. Provò a calmare i battiti del cuore e ad accumulare abbastanza energie per non urlare quando lo zio lo avrebbe colpito. Non voleva mostrarsi debole. Non più.
- Sentivo tanto la tua mancanza, così ho pensato di fare un salto qua giù e vedere come stavi! - esclamò, sfregandosi le mani.
- Molto premuroso da parte tua – commentò Draco in tono ironico.
- Sì, lo penso anch’io – sibilò prima di sfoderare la bacchetta e puntarla contro il ragazzo.
Draco era pronto.
Doveva solo resistere.



ANGOLO AUTRICE:
Ciao!
Grazie per essere arrivati fino a qui. Spero che quello che state leggendo vi stia piacendo e di non deludervi con i capitoli futuri. Sono in ansiaaaaaaa! ahahah
Ho deciso di separare il capitolo in due parti perché c'era il rischio che risultasse troppo lungo e pesante. So che, probabilmente, ci sono persone che non apprezzano Draco ma ci tenevo molto a descrivere la sua storia all'interno di "The Black Chronicles". Per me è molto importante e spero di riuscire a descrivere ciò che ho in mente con chiarezza.

Vi invito a fare un salto sulla mia pagina instagram, nella quale ho inserito vari aesthetic dei personaggi della storia. Entro domani includerò anche Pops. Mi piacerebbe tanto avere un vostro parere ;) 
Grazie ancora per il vostro sostegno.
A presto,
18Ginny18

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 – L'ANTRO INFERNALE - parte 2 ***


Capitolo 5 – L’antro infernale
parte 2
 
Quella sera stessa il salotto era gremito di persone. Il normale mobilio della stanza, o meglio ciò che ne era rimasto, era stato accostato alla bell’e meglio contro le pareti. L’unica luce veniva dal fuoco che ruggiva in un bel camino di marmo, sormontato da uno specchio con la cornice dorata.
Draco era lì, in piedi, in mezzo a tutti quei Mangiamorte che lo fissavano. Due energumeni lo tenevano stretto per le braccia, per farlo rimanere in piedi e una corda invisibile lo teneva legato lungo tutto il corpo.
Bruscamente, uno dei due uomini gli tirò uno schiaffo sul viso per farlo rimanere sveglio. Il dolore delle torture che erano cessate da poco lo avevano ridotto a uno straccio e cominciava a perdere le forze. Rodolphus lo aveva spremuto fino all’ultimo secondo e la tortura ebbe fine solo quando quegli uomini bussarono alla porta della villa. Per un secondo Draco fu grato di quell’intrusione perché gli avevano permesso di riprendere un po’ di fiato.
Ma solo un secondo.
Il suo corpo continuava a tremare e si reggeva a stento in piedi; la gola era incredibilmente secca per le troppe urla che non era riuscito a trattenere; le orecchie fischiavano, impedendogli di sentire ciò che gli stava attorno; la vista era annebbiata, ciononostante riusciva ancora a distinguere i contorni delle persone vestite di nero che avevano invaso la sua casa.
Una sagoma chiazzata di nero ondeggiava davanti al camino.
Gli uomini al tavolo, o almeno quelli che Draco sapeva fossero uomini e non semplici chiazze scure, sembravano rimanere immobili mentre quella vicino al camino si muoveva.
Qualcuno parlava, ma Draco sentiva solo quel maledetto fischio acuto.
I suoi occhi non riuscivano ancora a mettere a fuoco, tuttavia riuscirono a distinguere quella chiazza scura muoversi verso di lui.
Poi una mano gelida gli toccò il viso, stringendogli il mento con le dita. Girandogli il volto prima a destra e poi a sinistra come per ispezionarlo.
Draco si irrigidì e trattenne un gemito, turbato da quel tocco inaspettato, e il battito del suo cuore accelerò.
La sagoma che gli stava davanti cominciava a farsi più nitida e fu allora che riuscì a distinguere un volto glabro, serpentesco, con due fessure al posto delle narici e scintillanti occhi rossi. Era talmente pallido che sembrava emanare un bagliore perlaceo.
Voldemort.
Draco provò a ritrarsi, ma il Signore Oscuro lo teneva saldamente per il mento premendo le unghie nella carne. E i due energumeni ai lati del ragazzo risaldarono la presa, impedendogli ogni tentativo di fuga.
Accadde tutto in un istante.
Le labbra di Voldemort si mossero: - Legilimens! - e l’incantesimo investì Draco. La stanza fluttuò davanti ai suoi occhi e svanì; le immagini del passato si susseguivano veloci nella sua mente mentre un forte bruciore gli si insinuava in tutto il corpo.
Provò a resistere più che poté a quella violazione improvvisa, ma in quel momento non aveva abbastanza forze per impedirlo e Voldemort era troppo forte da sovrastare.
Aveva undici anni, si trovava sul battello che navigava sulle rive del Lago Nero e guardava ammaliato l’immenso e meraviglioso castello di Hogwarts per la prima volta. Le grandi finestre erano illuminate e brillavano contro il cielo pieno di stelle. Poi il suo sguardo si era spostato sulla ragazzina dai folti capelli ricci con la quale divideva il battello insieme ad altre due ragazze. Draco pensò subito a quanto fosse carina… fu allora, guardando la piccola Hermione Granger, che Draco si rese conto di dover proteggere quei ricordi. Persino i suoi pensieri erano in grave pericolo. Non poteva permettere che Voldemort la vedesse.
Se c’era una cosa che poteva fare era proteggere lei.
Le forze erano sempre meno, ma in qualche modo riuscì ad erigere un resistente e piccolo muro mentale oltre il quale aveva nascosto tutto quello che riguardava Hermione.
Doveva tenerla al sicuro.
Nonostante non si allenasse da anni, riuscì ad alterare alcuni ricordi proprio come gli aveva insegnato Severus nelle lezioni private di Legilimanzia, in modo da ingannare l’intruso. Faceva male, ma era necessario.
Aveva dodici anni, e camminava per le strade di Nocturne Alley insieme al padre… Blaise e Theodore lo aiutavano ad allenarsi per entrare nella squadra di Quidditch di Serpeverde… aveva chiamato Hermione “Sporca Mezzosangue” e lei era scoppiata in lacrime… i Dissennatori avevano invaso il campo da Quidditch durante la partita Grifondoro contro Tassorosso…
L’intrusione mentale di Voldemort stava diventando sempre più incisiva e dolorosa. Draco avvertiva la sua irritazione. Stava cercando qualcosa in particolare e non riusciva a respingerlo.
Era il giorno di Natale, con lui c’erano anche sua cugina Ginevra e Harry Potter. Erano presenti anche Sirius Black, Remus Lupin, la famiglia Weasley…
Il Quartier Generale”, gli sussurrò una voce imperiosa nella sua testa. “Dimmi dov’è lei”.
Voldemort gli mostrò il volto sorridente di Ginevra, focalizzando completamente l’attenzione su di lei. Il volto della ragazza si sovrappose a tutto il resto, così come il suono della sua risata melodiosa che riecheggiò nei ricordi di Draco… Ma dove si trovava?
- Noooo – si ribellò Draco quando capì cosa stava cercando il Signore Oscuro.
Dammi quello che voglio”.
Un altro ricordo sfuggì al suo controllo. Qualcuno gli stava porgendo un pezzo di pergamena.
Doveva leggere cosa c’era scritto.
Doveva sapere.
- Noooo! - urlò Draco.
Non poteva tradirli.
Non poteva farlo.
Erano stati tutti gentili con lui. Erano suoi amici.
Dimmelo!”, esclamò Voldemort.
Draco sentì il cervello stringersi, come se qualcuno lo tenesse tra le mani strizzandolo come una spugna.
Faceva dannatamente male.
No. Doveva resistere.
Doveva fermare tutto.
Alla fine, sfinito, Draco si arrese e guardò il foglio. La grafia era piccola e vagamente familiare. Diceva:

 
Il Quartier Generale dell’Ordine della Fenice
si può trovare al numero cinque
di Kensington Square, Londra.

Il dolore cessò e Draco tornò alla realtà: il salotto della villa era di nuovo visibile così come tutti quei Mangiamorte gli stavano attorno come avvoltoi.
Guardò Voldemort che aveva appena allontanato la mano dal suo mento. Sembrava soddisfatto.
Si allontanò per rivolgersi alla folla di seguaci, ma Draco sentiva solo suoni ovattati.
Gli girava la testa; nonostante il dolore fosse diminuito notevolmente, la strana sensazione del cervello stretto come una spugna umida non era ancora passato. Se non fosse stato per i due energumeni che lo tenevano stretto per le braccia probabilmente sarebbe caduto a terra.
Ad un tratto, senza riuscire a contenersi, si piegò in avanti con violenza e vomitò; il respiro si era fatto affannoso e sibilante. Il suo corpo, assalito da brividi di freddo, era grondante di sudore e i vestiti ne erano impregnati.
Poi uno dei due uomini che lo sorreggeva, con la sua presa salda e prepotente gli afferrò il braccio sinistro, tenendolo ben teso in avanti.
Ribellarsi era inutile, ma Draco ci provò comunque.
Ancora una volta Voldemort si avvicinò a lui. Non muoveva le labbra, ma dal modo in cui muoveva la bacchetta Draco era certo che stava per compiere un incantesimo.
La punta della bacchetta color caramello toccò la pelle diafana di Draco.
Un forte bruciore gli lacerò la carne, penetrando fin dentro le ossa.
Draco non sapeva quanto tempo fosse passato, ma quando il bruciore cessò la prima cosa che incrociarono i suoi occhi fu il sorriso soddisfatto del Signore Oscuro.
- Benvenuto tra i miei seguaci, giovane Malfoy – sibilò al suo orecchio.
Draco abbassò lo sguardo e tremò, disgustato da ciò stava guardando. Il suo braccio era stato contaminato da una chiazza nera… era stato marchiato contro la sua volontà. Era diventato un Mangiamorte.
No. Non poteva essere la realtà.
Era un incubo.
Un’altra allucinazione.
Doveva esserlo.

I giorni successivi passarono senza che Draco se ne rendesse conto.
Aveva dato a Voldemort la posizione errata del Quartier Generale dell’Ordine, mostrandogli la prima casa che gli era venuta in mente occultando Grimmauld Place.
Ricordava il giorno in cui aveva visto quella casa, la settimana di Natale: stava passeggiando con Hermione lungo quella via, fantasticando su un futuro in cui avrebbero potuto vivere insieme e fu allora che videro affisso il cartello vendesi davanti alla porta di quella palazzina dai mattoni rossi. Guardando quel cartello e perdendosi ad ammirare l’edificio, Hermione si era messa a sospirare sognante confessando a Draco che il suo sogno, fin da quando era bambina, era quello di vivere proprio in una casa di Kensington Square e quel giorno quella casa sembrava proprio chiamarla a sé.
- Chissà – gli disse con le guance arrossate dall’imbarazzo. - Forse un giorno verremo a vivere qui, insieme. Che ne dici?
Draco aveva accolto quella possibilità con gioia, trovato quell’idea splendida e non vedeva l’ora di poterla attuare una volta “diventati grandi”.
Quella casa, però… ormai erano passati mesi. Forse era stata venduta e qualcuno era andato ad abitarvi… e probabilmente quelle stesse persone erano in pericolo a causa sua.
Non sapeva se i Mangiamorte avessero già disposto un attacco, ma sperava tanto che quella casa fosse ancora disabitata. Aveva salvato Regulus, Ginevra, Kreacher e gli altri, ma non poteva sopportare di aver condannato degli innocenti.
Continuava a vivere, se così si poteva dire, nelle segrete di quell’antro infernale che una volta era villa Malfoy con lo zio Rodolphus che passava di lì ogni giorno per torturarlo a suon di calci, pugni e maledizioni, proprio come aveva sempre fatto da quando lui aveva rimesso piede in quella maledetta casa.
Una notte, però, accadde qualcosa di strano.
Qualcuno aprì la cella in cui si trovava Draco e lo liberò dalle catene che lo tenevano legato al muro.
Draco era stordito e confuso e, nonostante il buio gli impedisse di vedere chiaramente, una volta libero riuscì a riconoscere le dita lunghe e ossute di Pops dalla carezza delicata che gli sfiorò il volto ricoperto di ferite: quella sera Rodolphus aveva deciso di prenderlo a pugni e usare un coltello per tagliargli il viso provocandogli un dolore immane, per poi passare ad altre parti del corpo. Al tocco leggero dell’elfa il viso bruciò solo un pochino, ma era sopportabile.
- Pops, che cosa ci fai qui? - si animò, colto dall’ansia. - Se quel pazzo ti scopre…
- A Pops non importa – lo interruppe lei, con una determinazione che Draco non aveva mai udito prima. - Pops non può sopportare un giorno di più. Troppo dolore… troppa sofferenza. Pops sa che il suo dolce padrone non merita tutto questo.
E nel pronunciare quelle parole gli consegnò un bastoncino di legno che Draco riconobbe all’istante.
Sentì un moto di sollievo nel stringere nuovamente la propria bacchetta tra le dita, senza di essa si era sentito perso.
- Lumos – pronunciò e una luce invase la piccola cella, permettendogli di vedere i meravigliosi grandi occhi viola della sua amata elfa.
Ad un tratto una nuova speranza si fece strada dentro di lui. Finalmente poteva scappare.
- Ti ringrazio, Pops – sospirò con autentica gratitudine.
La dolce elfa lo aiutò a rialzarsi, sorretto anche dal muro lercio e umido della cella.
- Salviamo mia madre e scappiamo via di qua – disse, avanzando fuori dalla cella, ma Pops si fermò.
- Non possiamo – pigolò, spaventata. - Lui è lì… con la padrona! È troppo, troppo pericoloso, padrone.
Draco si arrestò, con un piede dentro e uno fuori dalla sua prigione. Sentire quelle parole gli aveva fatto gelare il sangue nelle vene.
- Che vuoi dire che lui è con mia madre? - domandò, adagio.
Sospettava da tempo che Rodolphus si insinuasse nelle stanze di sua madre e che passasse la notte con lei già da un po’, ma voleva averne la certezza. C’erano stati molti segnali, ma il più lampante fu quando Rodolphus sembrò dimenticarsi di lui per diversi giorni, senza nemmeno scendere a torturarlo. Quelle sue assenze avevano permesso a Draco di respirare e riprendere un po’ di forze, anche se erano durate poco.
Pops deglutì a vuoto. - La padrona è stata costretta. Lei non voleva… quell’uomo… - pigolò, sempre più spaventata. I suoi occhioni si stavano riempendo di lacrime. - La padrona soffre e...
Dallo straccio sporco che aveva come vestito uscì un foglio di carta e lo consegnò a Draco.
La grafia della madre era sempre bella ed elegante, anche se il tocco era più frettoloso delle altre volte.

Pops, ti ordino di portare via mio figlio.
Non voglio che soffra ancora per colpa mia.Fai tutto quello che puoi per portarlo via
e digli di non tornare mai più, di non pensare a me e di trovare un posto sicuro. Io vi darò il tempo di fuggire.

Dii a Draco che lo amo e che farò tutto il possibile per continuare a proteggerlo.

Draco stropicciò il foglio con tutte le sue forze e lo cacciò nella tasca dei pantaloni. - Non posso abbandonarla.
La voce tremava.
Il solo pensiero di lasciare lì sua madre lo faceva diventare pazzo di dolore.
La mano della vecchia e dolce elfa si intrecciò a quella del ragazzo. - Padron Draco deve smettere di soffrire e Pops deve portarlo al sicuro.
Smettere di soffrire.
Era possibile? Non ne era certo.
Sospirò e annuì, facendole capire che era pronto ad andare. Ma promise a sé stesso che sarebbe tornato a villa Malfoy e avrebbe salvato sua madre dalle grinfie di quel maiale, quel folle parassita che aveva infettato la sua casa.
Insieme raggiunsero in silenzio l’atrio di quell’antro infernale, aprendo la porta lentamente, e una volta attraversato il tetro giardino e raggiunto il cancello Draco lanciò un’occhiata alla finestra della camera madre provando un groppo allo stomaco.
Era un codardo. La stava abbandonando.
Pops gli strinse dolcemente la mano e lui la guardò.
Un forte boato proveniente dalla villa squarciò il silenzio della notte, segno che lo zio Rodolphus si era accorto della fuga. Dovevano andare.
Pops non esitò un secondo di più e un attimo dopo si erano materializzati in un vicolo oscuro, ma Draco non riuscì a capire dove si trovava perché un attimo dopo si smaterializzarono da tutt’altra parte. Continuarono a saltare da un posto all’altro tante di quelle volte che alla fine perse il conto.
Aveva capito la strategia di Pops: voleva depistare Rodolphus, confonderlo.
Idea geniale”, pensò subito Draco, peccato che la nausea che gli provocavano quei salti non lo aiutavano ad apprezzarlo ulteriormente.
Una delle poche tappe che riuscì a riconoscere fu lo Hampshire, dove sorgeva la piccola e ormai disabitata villetta di sua zia Aubrey, la sorella minore di suo padre.
Aveva ancora dei bei ricordi della zia Aubrey. Lei era una donna davvero bellissima, elegante, gentile e dall’animo ribelle. Lei gli aveva insegnato a leggere, a scrivere il suo nome e a cantare le canzoncine divertenti come quella dell’alfabeto o dei colori. Aveva sempre adorato la zia Aubrey.
Ma come tutte le cose belle che ricordava di lei, purtroppo, c’erano anche quelle orribili. Inevitabilmente il ricordo di quell’orribile notte si ripresentò nella mente di Draco come nel momento in cui aveva rivisto Rodolphus la prima volta.
Non si soffermò molto su quel ricordo, ma sugli occhi spaventati di zia Aubrey mentre veniva trascinata nell’altra stanza di quella villa e alle sue terribili urla...
Tornò al presente solo quando lui e Pops si smaterializzarono in un vicolo di Diagon Alley.
Sorpreso da un capogiro e dalla nausea del ricordo Draco si appoggiò al muro al suo fianco, con Pops che era pronta ad afferrarlo in caso di bisogno.
Gli occhi di Draco si focalizzarono sulla via davanti a lui mentre si passava una mano sul volto stravolto e dolorante. Ovunque guardasse c’era solo desolazione e le poche persone presenti correvano senza nemmeno fermarsi per parlare tra di loro. Vedeva solo paura. Una paura che ormai conosceva bene.
Il suo sguardo si spostò dritto sul braccio che era stato marchiato con il simbolo di Voldemort. Lo guardò, provando una forte repulsione. Il primo istinto fu quello di nasconderlo, ma indossava solo una camicia logora e sporca che gli impediva di farlo. Pops lo notò. Sparì solo per un’istante, tornando da lui con una giacca nera a maniche lunghe.
Probabilmente l’aveva rubata, ma gliene fu molto grato.
La indossò in fretta. Pops gli stava vicino, stando ben attenta ad ogni persona che era presente per la via.
Camminarono senza meta, fino ad imboccare l’unica strada che era ancora illuminata e colorata dalle luci di un negozio che andava in contrasto con l’atmosfera tetra e buia del luogo.
I Tiri Vispi Weasley.
Draco si lasciò andare a un sospiro di sollievo e la speranza si riaccese dentro di lui. Finalmente poteva vedere una faccia amica.
I ragazzini estasiati che uscivano dal negozio con le braccia cariche di buste gli facevano provare l’istinto di varcare la soglia, ma una parte di lui aveva paura di commettere un errore.
Non farsi vedere in quello stato dai suoi amici e non voleva metterli in pericolo. Temeva la loro reazione… soprattutto dopo aver visto il marchio che gli infettava il braccio.
Lo avrebbero cacciato? Ripudiato?
Poteva quasi immaginare la scena: vedeva Fred e George con gli occhi che trasudavano disprezzo; lo avrebbero odiato così come tutti gli altri nel gruppo. Poco importava se non era stato lui a volerlo. Il Marchio Nero era sul suo braccio, quindi era un nemico. Non si potevano fidare di lui.
Pops gli accarezzò dolcemente il dorso della mano riportandolo alla realtà. - Il padrone deve nascondersi in fretta – gli disse, continuando a guardarsi intorno. - Pops non sa per quanto tempo il padrone sarà al sicuro per strada.
Draco stava per chiederle di smaterializzarsi da tutt’altra parte e abbandonare Diagon Alley, ma una voce gli impedì di farlo.
Gli si gelò il sangue nelle vene.
Non voleva alzare lo sguardo per vedere chi lo stesse chiamando.
Aveva paura.
Si voltò, pronto ad andarsene, ignorando quella voce.
- Draco? – lo chiamò ancora la voce. - Sei proprio tu?
Lui tremò.
Era vicino. Troppo vicino.
Una mano si poggiò sulla sua spalla, fermandolo.
- Ehi. Te ne vai senza salutare?
Draco si voltò lentamente, fino ad incrociare lo sguardo di uno dei gemelli Weasley. Una da una parte era sollevato di trovarselo davanti, l’altra tremava ancora di paura.
Vide il sorriso del ragazzo Weasley affievolirsi lentamente man mano che spostava lo sguardo per indugiare sulle cicatrici sul suo volto.
Non aveva avuto occasione di guardarsi allo specchio ma immaginava di non essere un vero spettacolo… se si soffermava troppo sul ricordo di come Rodolphus gli aveva inferto quei tagli viso, c’era il rischio che scoppiasse a piangere.
- Che ti è successo? - gli domandò il rosso, preoccupato.
Draco esitò, incapace di pensare a una sola parola in grado di spiegare.
Esisteva una parola in grado di farlo? Probabilmente no.
- Io… - tremò. - Io...
Il ragazzo dai capelli rossi, (che Draco non riusciva a distinguere se si trattasse di Fred o George), gli passò un braccio intorno alle spalle, con gentilezza. - Vieni. Non dobbiamo restare in strada. Dentro saremo al sicuro. - Così dicendo, lo accompagnò all’interno del negozio.
Il cartello davanti alla porta con la scritta ‘CHIUSO’, almeno, riuscì a rincuorare Draco dall’idea che non ci sarebbero stati degli estranei intorno a lui.
Pops li seguì, continuando a guardarsi intorno con circospezione. Doveva fare attenzione. Nessun Mangiamorte doveva vederli.
- Fred è andato in ospedale con Angelina – gli disse quello che finalmente Draco capì essere George. - Il bambino sta arrivando, finalmente.
George sistemava gli scatoloni che erano stati abbandonati sul bancone della cassa mentre Draco rimaneva fermo, immobile come una statua, davanti a lui. Poi il rosso si fermò e si tolse la giacca dai colori sgargianti abbandonandola sullo scatolone in cima. Si sbottonò i polsini della camicia color verde acido e allentò la cravatta color porpora.
Un abbigliamento eccentrico, ma Draco non si sentiva tanto in vena di commentarlo.
George sbuffò. - Oggi è stata una giornata piena – disse con un sorriso sulle labbra.
Draco annuì a disagio, mostrando un sorriso di circostanza. - Mi… mi fa piacere che gli affari vadano bene.
Fu il turno di George di annuire. - Già.
I suoi occhi non abbandonavano la figura di Draco nemmeno per un secondo, lo stava esaminando da cima a fondo.
- Ti va di dirmi chi ti ha conciato così? Per caso sei finito in un incontro di Doxy clandestino o hai fatto arrabbiare un Chupacabra? - domandò, ma nella voce non c’era la solita allegria che lo contraddistingueva.
Il suo sorriso era sparito e la sua espressione era più seria che mai. Draco non lo aveva mai visto in quel modo, lo faceva sentire più piccolo di quanto fosse. Come un bambino di fronte al genitore dopo aver commesso un guaio enorme.
Al suo fianco c’era ancora Pops, che lanciava occhiate spaventate fuori dal negozio attraverso le vetrine del negozio.
Se non fosse stato per lei non sarebbe mai riuscito a scappare da quella maledetta prigione.
Draco sospirò e accumulò tutto il coraggio che gli serviva per spiegare a George tutto quello che gli era successo. Non tralasciò alcun dettaglio: parlò di Rodolphus e delle torture che gli aveva inflitto, delle condizioni in cui si trovava villa Malfoy, della prigionia di Narcissa, della morte di tutti i domestici Mezzosangue, dei Mangiamorte che usavano la villa come base principale, di Voldemort… ma alla fine, quando arrivò il momento di parlare del Marchio Nero, Draco esitò. Si toccò il braccio sinistro e strinse il tessuto scuro della giacca nera e soffocante.
George aveva ascoltato la storia lasciando che lui si sfogasse, senza mai interromperlo. Ma aveva capito che c’era ancora qualcosa che il biondo non gli aveva ancora detto. Lo vedeva nei suoi occhi. C’era un’ombra… come se la luce dentro di lui fosse stata sul punto di spegnersi.
- Che cosa ti hanno fatto?
Draco lo guardò. Le sue parole gli fecero trattenere il respiro per un tempo che sembrò interminabile.
Aveva resistito a tutti gli orrori che Rodolphus gli aveva inflitto e ne aveva parlato con George provando solo un po’ timore, ma come poteva confessare ciò che gli avevano fatto? Come poteva trovare le parole?
Decise che non poteva, quindi glielo mostrò e basta.
Con un sospiro tremante scoprì la manica destra e concentrò la sua attenzione sull’espressione di George. Lo vide sbiancare e sgranare gli occhi. Cercò di ignorarlo e raccontò ciò che era successo. - Sono stato marchiato contro la mia volontà. Mio zio Rodolphus mi ha torturato fino allo stremo quel giorno, così che io non avessi le forze per ribellarmi. Poi tu-sai-chi ha usato la Legilimanzia su di me. Voleva sapere dov’era il Quartier Generale dell’Ordine e… voleva sapere dov’era Ginevra.
George scattò. - Che cosa?
- Io ho fatto in modo di occultare ogni cosa – si affrettò a spiegare lui. Sospirò. - Gli ho dato un’altra posizione. Ma poi lui mi ha… fatto questo – si coprì bruscamente il braccio. I suoi occhi cominciavano a pizzicare, le lacrime erano pronte ad uscire.
Distolse lo sguardo.
Non poteva permettere che George lo vedesse crollare. Nessuno doveva vederlo.
George si passò una mano sul volto. - Dobbiamo dirlo all’Ordine – disse. - Loro sapranno cosa fare… Troveremo una soluzione, Draco.
- Non credo che potrò liberarmi facilmente di questa cosa – disse indicando il braccio sinistro. - E poi chi ti dice che i membri dell’Ordine crederanno alla mia storia? Sono figlio di un Mangiamorte, dopotutto...
- Io ti credo.
- Tu sei un caso anomalo – borbottò lui, amareggiato.
- Lo prenderò come un complimento – ribatté George con un sorriso. Gli diede una pacca leggera sulla spalla. - Non preoccuparti – lo rassicurò affiancandolo. - Questo è un gran casino, ma non sei solo. Io ti credo e ti crederanno anche gli altri quando parlerai con loro.
Gli altri…
Draco scosse la testa. - Non credo che saranno molto comprensivi.
- Devi dirlo agli altri – insistette George fingendo che non avesse parlato. Si sforzava di sorridere per infondergli coraggio, ma Draco vedeva la maschera che nascondeva la realtà. Anche lui aveva paura.
Insieme raggiunsero le scale e George lo invitò a salire. Quando gli disse che al piano di sopra c’erano già i suoi fratelli minori, Harry, Ginevra e Hermione il coraggio venne meno.
Non poteva affrontarli, non in quel momento.
Hermione non lo avrebbe guardato più con affetto, lo avrebbe allontanato ed era certo che anche gli altri lo avrebbero fatto. Lo avrebbero trattato come un appestato.
Già riusciva a sentire la voce di Ron Weasley che sputava acido: “I Serpeverde sono tutti uguali. Tutti cattivi, Mangiamorte, traditori. L’ho sempre pensato”.
Era certo che i bei momenti e il loro rapporto d’amicizia si sarebbe distrutto in un istante una volta visto il Marchio tatuato sul suo braccio.
Prima di salire il primo gradino Draco si arrestò. - Non ci riesco. Non posso.
- Non preoccuparti – lo incoraggiò George.
Lo spinse a salire insieme a lui fino ad una porta. George la varcò.
Draco teneva lo sguardo basso e Pops, dietro di lui, si reggeva all’orlo della giacca nera.
- Cosa c’è? - domandò una voce femminile dall’interno dell’appartamento. Era preoccupata.
George si scostò mostrando a tutte le persone all’interno la presenza di Draco.
- Draco… - mormorò Ginevra, sconvolta dal suo aspetto.
- Draco? - domandò invece una voce che Draco accolse con un tuffo al cuore. Subito dopo Hermione gli andò subito incontro. I suoi bellissimi occhi erano sgranati, terrorizzati, posandosi sulle mille cicatrici sul volto di lui. - Che ti è successo?
Lui provò a dirle qualcosa, ma il solo vederla gli aveva mandato in pappa il cervello. Non poteva fare a meno di domandarsi se fosse davvero lei, se era un’illusione. Poteva toccarla? Era reale?
Lei lo prese per mano e il calore della sua pelle gli fece capire che sì, Hermione era reale. Era lì.
Lo accompagnò verso il divano, facendolo sedere al suo fianco.
Lui abbassò lo sguardo, terrorizzato al solo pensiero di incrociare lo sguardo degli altri. La mano destra stringeva l’avambraccio sinistro da quando aveva varcato la soglia, provando l’irrefrenabile desiderio di staccarselo prima che qualcuno potesse vedere quello che nascondeva il tessuto della giacca.
Non riuscire a spiccicare una sola parola. Alzò lo sguardo solo per guardare il volto di Hermione che continuava a fargli domande preoccupate.
Era sempre bellissima. Forse era persino più bella di quanto lui ricordasse. Alla luce di quel pomeriggio estivo la sua pelle chiara appariva eterea, e lui desiderava sfiorarle delicatamente la guancia con le dita. Bramava quel tocco da tempo, ma si astenne dal farlo. Era troppo spaventato dalle conseguenze.
Davanti al suo silenzio tutti guardarono George, in attesa che almeno lui potesse rispondere alle loro domande.
Lui sospirò, passandosi una mano sul volto. - È successo un casino – mormorò in un sospiro.
- Che… che tipo di casino? - balbettò Ginevra, avanzando verso il cugino con passo lento.
Draco alzò lo sguardo impaurito su George, che annuì. Era un muto assenso a farsi coraggio e rispondere.
A quel punto, anche se contro voglia, Draco alzò la manica della giacca sul braccio sinistro, mostrando a tutti quanti la sua pelle diafana imbrattata dal Marchio Nero.
Abbassò lo sguardo, mortificato. Non voleva vedere le loro reazioni.
Ron Weasley fu il primo a rompere il silenzio irreale che si era creato. - Il Marchio Nero? - esclamò in preda al panico.
I timori di Draco cominciavano a diventare reali. Sapeva che Ron avrebbe cominciato a sbraitargli contro e a trattarlo come feccia. Era solo questione di minuti.
George aveva torto. Non gli avrebbe creduto nessuno.
Cominciò a tremare trattenendo a stento dallo scoppiare a piangere. Fu allora che trovò le parole. - Non sapevo dove altro andare – si giustificò.
Voleva scappare da lì, ma una parte di lui voleva rimanere e provare a convincerli che non era cattivo, che non lo era mai stato. Voleva convincerli ad ascoltarlo. Voleva convincersi che George aveva ragione.
Hermione era ancora al suo fianco e la sentì tremare.
Lui la guardò, pregando con tutto se stesso che non fosse troppo tardi e che almeno lei fosse disposta ad ascoltarlo.
Hermione aveva le lacrime agli occhi e per un attimo temette di averla persa, che non avrebbe mai creduto alle sue parole, che non gli avrebbe nemmeno dato la possibilità di spiegare… poi lei lo abbracciò e gli baciò la fronte. Draco era pietrificato.
- Sono qui, amore – gli sussurrò lei all’orecchio. Il cuore di Draco perse un battito e lì, tra le braccia di Hermione, si lasciò andare e scoppiò a piangere come un bambino.

Una volta terminata la storia, Draco si accorse di avere il cuore più leggero. Non aveva alcuna colpa di ciò che era successo; non era colpa sua se Rodolphus lo aveva torturato e non era colpa sua se Voldemort lo aveva marchiato.
Hermione lo abbracciò forte. - Sono felice che tu sia qui – gli disse senza lasciarlo andare.
Lui la abbracciò a sua volta, senza poter fare a meno di godersi il suo calore, inebriandosi del profumo della sua pelle. Le sfiorò dolcemente il collo con la punta del naso.
- Io sono felice che tu sia qui – le sussurrò, realmente grato.
Senza smettere di stringerla a sé, Draco si scostò appena da quell’abbraccio solo per poterla guardare negli occhi, come se non potesse fare altrimenti.
Hermione gli sorrise e gli accarezzò le guance piene di cicatrici.
Lei era lì. Non sarebbe andata via. Non lo avrebbe mai lasciato solo.
- Ma cosa si fa adesso? - domandò Ron guadagnandosi la loro attenzione. - Insomma… avvertiamo qualcuno dell’Ordine?
- Certo – rispose Harry. - Scriverò a Remus e gli racconterò tutto.
- Scrivere una lettera? - intervenne la sua sorellastra. - Pessima idea. Potrebbero intercettare la tua posta. Edvige è troppo vistosa e riconoscibile.
- Allora potresti farlo tu o Hermione.
- No, penso che sia comunque molto pericoloso – disse Ginevra. - Dobbiamo fare molta attenzione. Se i Mangiamorte stanno tenendo d’occhio i membri dell’Ordine non possiamo correre il rischio di contattare nessuno di loro. Dobbiamo trovare un’altra soluzione.
- Puoi rimanere qui con noi finché non troviamo una soluzione – disse George a Draco. - Il negozio e l’appartamento sono provvisti di protezioni e scudi abbastanza forti da confondere i Mangiamorte o chiunque abbia intenzione di farci del male. E se non dovessero funzionare io e Fred abbiamo seminato trappole ovunque così potremo scappare al primo sentore di pericolo.
- George ha ragione – disse Ginevra, poggiando le mani sulle spalle del ragazzo. - Qui sei al sicuro, Draco.
- Vi ringrazio, ragazzi – disse il Serpeverde. - Ma non voglio crearvi troppi problemi… troverò un altro posto. Pops mi aiuterà.
- Pops? - domandò la piccola Weasley, confusa. - Chi è Pops?
- Pops è qui? - le fece eco Hermione.
Lei conosceva bene l’elfa. Solitamente era proprio Pops che le consegnava le lettere di Draco ogni estate. Nonostante non avesse mai approvato che la povera elfa fosse ancora una schiava, Hermione adorava il rapporto che aveva con Draco. Era l’elfa più dolce e simpatica che lei avesse mai conosciuto.
Draco indicò la piccola elfa che era rimasta davanti alla porta. - Sì, è lì. Pops è la mia elfa – spiegò agli altri che non avevano avuto il piacere di conoscerla.
Tutti guardarono il punto che era stato indicato, scambiandosi occhiate confuse.
- Ma noi non vediamo nessuno – commentò Ron. - Sei sicuro di non aver battuto la testa da qualche parte?
La sorella minore gli assestò una manata sulla nuca, intimandogli di tenere a freno la lingua.
Draco non vi fece caso. Guardò la sua elfa, che continuava a contorcersi le mani, spaventata.
Com’era possibile che nessuno, a parte lui, riuscisse a vederla?
Lei era lì, davanti a lui. Lo stava guardando!
- Com’è possibile? - mormorò, confuso. - Mi ha aiutato a scappare… ci siamo smaterializzati molte volte prima di arrivare qui! Davvero non riuscite a vederla? - domandò e ognuno di loro scosse la testa. Scattò in piedi e le andò incontro. - Non prendetemi in giro. Lei è qui! Qui. Pops, mostrati a loro per favore.
Pops fissò i suoi occhioni viola su di lui e gli sorrise. - Pops non è qui. Non più. Il padrone deve ricordare.
La sua voce era strana, lontana… Cosa stava succedendo?
Una mano si intrecciò a quella di Draco. Alzò lo sguardo e vide Hermione.
- Draco – disse. - Cerca di ricordare: dov’è Pops? Dove l’hai vista l’ultima volta?
Draco era sempre più confuso. Nemmeno Hermione riusciva a vederla?
Abbassò nuovamente lo sguardo sull’elfa, ma la sua immagine era sbiadita.
Sgranò gli occhi, spaventato. Pops si stava dissolvendo.
Hermione gli accarezzò il volto, dolcemente, e lo incitò a ricordare.
Ricordare, ricordare, ricordare… come poteva ricordare? Perché doveva farlo? Pops era lì e aveva bisogno d’aiuto. Si stava dissolvendo davanti ai suoi occhi! Non poteva lasciare che accadesse.
- Pops? - la chiamò con voce tremante. Le lacrime cominciarono a scendere copiose.
- Il padrone deve ricordare – rispose l’elfa prima di dissolversi del tutto.
Draco rimase lì, ad occhi sbarrati, a guardare il vuoto mentre un fiume di ricordi lo investiva in pieno.
Era la sera in cui Rodolphus lo aveva colpito la prima volta. Lo stava torturando, senza smettere di ridere come un sadico.
Draco cercava di non urlare, ma gli era quasi impossibile.
Doveva resistere. Non doveva dare a quel maiale di suo zio la soddisfazione di averlo in pugno.
Il dolore cessò per un breve istante.
La risata di Rodolphus divenne un latrato fragoroso. - Spostati, stupida elfa.
Draco accumulò abbastanza forze per poter alzare lo sguardo e fu lì che la vide: Pops era proprio lì, in piedi davanti a lui e gli stava facendo da scudo con il suo piccolo corpicino.
- Nessuno può fare del male al mio padrone – esclamò la piccola elfa spaventata.
- Pops – gracchiò Draco avvicinandosi a lei nel tentativo di fermarla.
La risata di Rodolphus si spense. - Come osi? - sbraitò, furioso. - Resta al tuo posto!
Le lanciò la Maledizione Cruciatus e Pops si accasciò a terra, in preda al dolore. Piangeva, gridava e si contorceva, ripristinando il divertimento di Rodolphus. Ma una volta smesso di tremare, Pops tornò in piedi in posizione di difesa.
- Nessuno… può fare del male... al mio padrone – ripeté lei a fatica. Schioccò le dita e si udì uno scoppio fragoroso.
Draco vide Rodolphus scaraventato all’indietro da una forza invisibile dall’altro lato della stanza. Pops, invece, barcollò. Soffriva ancora molto per la Maledizione senza Perdono che le era stata lanciata, e usare la magia le era costato un certo sforzo.
Rodolphus si rialzò, livido di rabbia, e recuperò la bacchetta magica che era stata sbalzata lontana da lui.
- LURIDO MOSTRICIATTOLO!
Un attimo dopo Pops era stata sollevata da terra per poi tornare giù a gran velocità, battendo la testa. Rodolphus ripeté quel gesto più e più volte, ignorando le suppliche disperate di Draco.
Il suono sordo che emetteva la testa della povera e vecchia elfa contro il pavimento di pietra accompagnava le grida di Draco all’interno della stanza.
Splat! Splat! Splat!
Fiotti di sangue macchiarono il viso di Draco, sconvolto dalla macabra immagine che aveva davanti: la testa di Pops era andata in pezzi; il cervello ormai spappolato colava dal cranio frantumato.
Sangue.
Pops era circondata dal sangue. Il suo corpicino era immobile, inerte, scomposto e i grandi occhi ancora spalancati e rivolti verso l’alto.
Fu come uscire bruscamente da un incubo quando Draco tornò alla realtà. Era successo. L’aveva vista.
Il respiro gli rimase bloccato in gola: Pops era morta.
Ma com’era possibile? Lei era sempre stata al suo fianco, le aveva restituito la bacchetta, lo aveva fatto evadere… si erano smaterializzati insieme… com’era possibile?
Forse era davvero diventato pazzo?
Pian piano cominciò a realizzare che vedere il momento in cui la vita di Pops si era spenta lo aveva talmente traumatizzato che la sua mente aveva iniziato a fargli credere che la sua dolce elfa fosse ancora viva.
Aveva cominciato a figurarsi con lei, in quelli che credeva ricordi e che, invece, erano solo vaneggiamenti.
Era fuggito da solo da villa Malfoy e la bacchetta era finita chissà come tra le sue mani. Si era smaterializzato da solo, senza pensare alla traccia magica. Quindi il Ministero della Magia sapeva dove si trovava… e se lo sapeva il Ministero, probabilmente, lo sapevano anche i seguaci di Voldemort al suo interno.
Ma no. Non era possibile.
Non poteva essere!
Infilò una mano nella tasca dei pantaloni, certo di trovare il messaggio di sua madre che gli aveva fatto leggere Pops… ma non lo trovò.
Hermione gli fu subito accanto. - Va tutto bene. Guardami, Draco. Va tutto bene – gli ripeteva prendendogli il viso tra le mani.
All’inizio lui non capì il perché continuasse a ripeterglielo, poi si accorse di avere il fiato corto. Un dolore al centro del petto gli impediva di respirare. Stava avendo un attacco di panico.
- Pops è morta – ansimò. - Pops è morta.
Hermione tratteneva le lacrime. Lo strinse a sé. - Lo so. Lo so.
- LUI L’HA UCCISA! - urlò Draco, scoppiando in un pianto disperato. Si aggrappò a Hermione come se fosse la sua unica salvezza in un mare di disperazione. Lei gli accarezzò la schiena, incurante della maglietta che cominciava ad inumidirsi. Conosceva il legame che aveva con la povera Pops, e sapeva che in quel momento Draco stava affrontando un dolore immane. Una ferita nel petto che non si poteva risanare.



ANGOLO AUTRICE:
... Lo so. Questo capitolo ha avuto un finale abbastanza cruento e mi dispiace molto, soprattutto per la povera Pops. Sono una persona orribile.
Scrivere questo capitolo è stato molto difficile per me e, sinceramente, non so quanto tempo mi ci vorrà per riprendermi... spero di non aver urtato la sensibilità di nessuno e che mi perdonerete.
Detto questo ringrazio tutti coloro che hanno letto anche questo capitolo e vi do appuntamento alla prossima settimana con il capitolo 6.
Un bacio,
18Ginny18

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 – SEI IL MIO SOLE, IL MIO UNICO SOLE ***


Capitolo 6 – Sei il mio sole, il mio unico sole

L’aria dell’appartamento era diventata piuttosto pesante. Vedere Draco ridotto quello stato… era stato troppo, per ognuno di loro; erano tutti molto provati da ciò che lui aveva raccontato e, dopo averlo visto piangere, si erano sentiti impotenti.
Volevano dargli conforto, ma non sapevano nemmeno da dove cominciare. Hermione dava l’impressione di essere l’unica in grado di farlo. Mentre lo stringeva forte a sé sembrava quasi che lei provasse ad assorbire il suo dolore. Non lo lasciò solo nemmeno per un’istante. Pianse con lui e asciugò le sue lacrime anche dopo che si era addormentato sul letto di George e Ginevra. Rimase al suo fianco, accarezzandogli il viso e cullandolo con voce rassicurante ogni qualvolta che lui si agitava nel sonno.
Riuscì a trattenere a stento le lacrime ripensando a tutto quello che aveva passato Draco. Aveva sofferto talmente tanto che la sua mente gli aveva fatto credere che la sua povera elfa fosse ancora viva. Le torture di Rodolphus Lestrange avevano colpito molto forte e, probabilmente, la sua salute mentale era a rischio.
La paura cominciò ad insinuarsi dentro di lei.
La stanza sembrava diventare sempre più piccola, le mancava l’aria.
Non poteva perderlo, non poteva.
Senza far rumore Harry entrò nella camera e si avvicinò a Hermione posando una tazza di tè caldo sul comodino al suo fianco, non voleva svegliare Draco. Poi rimase lì, fermo, incapace di formulare una sola parola di conforto.
Anche se Hermione gli dava le spalle sapeva che lui era lì, ma non si voltò.
Harry allungò una mano verso di lei e la appoggiò sulla spalla e la accarezzò dolcemente, lei non lo allontanò. Aveva bisogno di quel tipo di conforto.
- Andrà tutto bene – le sussurrò Harry con fare rassicurante.
Lei annuì, senza mai distogliere lo sguardo sofferto da Draco.
Uscendo dalla stanza Harry non poté fare a meno di pensare ai genitori di Neville, ricoverati al reparto per le Malattie e le Ferite Magiche del San Mungo, l’equivalente del reparto psichiatrico per i Babbani. Sperava che Draco non fosse destinato a finire lì dentro e che la sua fosse solo confusione dovuta alla stanchezza. Dopotutto quando aveva raccontato la sua storia, poco prima, era sembrato molto lucido. Anzi, lo era sicuramente.
Dovevano essere positivi.

Il cibo giaceva freddo sulla tavola, nessuno lo aveva toccato. Avevano perso tutti l’appetito. George aiutò Ginevra a riporre tutto in frigo, in modo tale che nel caso la fame fosse tornata potessero mangiare più tardi.
- Questo è l’ultimo – George le passò un contenitore blu con il coperchio di plastica, dopodiché si afflosciò contro il piano della cucina, nascondendo la testa tra le mani. Ron gli fu accanto e si appoggiò anche lui al bancone.
- Ora che si fa? - domandò.
George non sapeva come rispondere. Si limitò a scrollare le spalle.
Poche ore più tardi, nel pomeriggio, scese al piano di sotto per riaprire il negozio per qualche ora e i suoi fratelli gli diedero una mano con i clienti e la cassa; preferivano tenersi occupati piuttosto che rimanere con le mani in mano seduti ad aspettare che Draco desse qualche segno di lucidità o in attesa che i loro genitori si facessero vivi con notizie dal San Mungo. Non c’era niente di meglio di una folla di persone urlante per distrarsi e tenersi occupati.
Harry e la sua sorellastra, invece, rimasero nell’appartamento. Le orecchie tese ad ascoltare ciò che accadeva nella camera dove si trovavano Draco e Hermione, finché alla fine non si addormentarono sul divano, con la testa uno sulla spalla dell’altra. Si svegliarono qualche ora dopo, spaventati a causa dei rumori provenienti dal piano di sotto. Qualcuno stava correndo a passo svelto le scale.
La porta dell’appartamento si aprì mostrando Ron, bianco come un lenzuolo. - Dobbiamo andare all’ospedale. Subito – esclamò, ansante.
Allarmato, Harry scattò subito in piedi. - È successo qualcosa? - Fece un passo verso il suo migliore amico.
Ron non rispose. Rimase immobile a guardarli, senza riuscire a trovare le parole.
Ginevra cominciava a temere il peggio. Si portò una mano alla bocca, terrorizzata, colta da un tetro pensiero. - Il bambino… - La sua voce si incrinò. Non riuscì nemmeno a terminare la frase. Non voleva nemmeno pensarlo.
Gli occhi di Ron erano lucidi. La sua bocca si apriva per parlare, ma le parole sembravano non voler uscire.
Sembrava che quel giorno il dolore avesse deciso di convivere a stretto contatto con loro.

Era come se il mondo gli fosse caduto addosso all’improvviso.
Da quando il medimago gli aveva dato la notizia Fred era caduto in uno stato catatonico. Non badò nemmeno a suo padre che, nel tentativo di dargli conforto, gli mise una mano sulla spalla. Né alle parole dell’infermiera che si era intrattenuta a parlare con loro.
Fred non ascoltava una sola parola.
Il suo sguardo era perso nel vuoto, fisso sulle mattonelle bianche e nere del pavimento. Nella sua mente echeggiavano ancora le parole del medimago, come un disco rotto. Ancora, ancora e ancora.
- Mi dispiace. Purtroppo non abbiamo potuto fare di più”, erano state le sue esatte parole, ma non aveva detto solo quello. Ogni parola che aveva pronunciato era stata una coltellata.
Fu allora che, lentamente, Fred cominciò a prendere coscienza di ciò che era successo e il respiro sembrò dimezzarsi di colpo. Gli sembrava di essere sott’acqua. Di affogare. Forse stava davvero affogando.
Forse il suo era un incubo!
No, non era affatto un incubo. Era tutto vero.
Ma com’era possibile? Solo qualche ora prima lei era tra le sue braccia. L’aveva guardata negli occhi. Era .
Avrebbe dovuto stringerla a sé e non lasciarla andare. Avrebbe dovuto restarle accanto.
L’aveva persa.
Voleva piangere, gridare, spaccare tutto. Voleva fare qualcosa. Qualsiasi cosa facesse sparire quel dolore straziante al petto. Ma in quel momento non aveva le forze per fare niente.
Qualcuno lo abbracciò, forte, e lo strinse a sé. Mentre una mano gli accarezzava la schiena, dolcemente, cullandolo come quando era un bambino. Fred lo lasciò fare e il respiro tornò regolare. Non stava più affogando.
- Sono qui – gli sussurrò suo padre all’orecchio. - Non sei solo.
Gli occhi di Fred pizzicavano, ma si sforzò di non scoppiare a piangere. Doveva essere forte.
Una volta sciolto l’abbraccio con suo padre, prese posto in una delle tante sedie nel corridoio davanti al reparto nascite e suo padre lo imitò, restando entrambi in attesa.
Il signor Weasley non lo lasciò solo nemmeno per un secondo e anche se aveva smesso di abbracciarlo continuava a passargli una mano sulla schiena, senza interrompere il contatto. Voleva fargli sapere che non lo avrebbe lasciato solo. Voleva dargli coraggio.
Quando videro arrivare la signora Weasley con indosso uno di quei camici monouso come le infermiere i due uomini scattarono subito in piedi.
- Come sta? - domandò Fred, in preda all’ansia. Il cuore sembrava scoppiargli nel petto.
Sua madre aveva gli occhi lucidi e gonfi, segno inequivocabile che aveva pianto fino a pochi istanti prima, ciononostante sul suo volto vi era un dolce sorriso. - Sta bene – disse. - La stanno portando qui.
Gli poggiò una mano sulla schiena e lo invitò ad avvicinarsi al vetro dove tanti neonati scalpitavano irrequieti nelle loro culle. Sembravano tutti paffuti e in buona salute. Ma per quanto fossero carini a lui non importava niente di loro. Voleva vedere lei.
La porta nella stanza al di là del vetro si aprì e una ragazza con l’uniforme da infermiera entrò con un fagottino tra le braccia avvolto da una copertina rosa. Fred non le staccò gli occhi di dosso nemmeno per un secondo, osservando con attenzione a tutti suoi movimenti. Non la conosceva, ma sapeva che c’era qualcosa di sbagliato in lei. Nonostante sorridesse raggiante mentre cullava e coccolava con tenerezza la neonata, lui era convinto che non la stesse tenendo bene.
Era tutto sbagliato. Non doveva tenerla in braccio.
Voleva entrare.
Doveva entrare.
L’infermiera posò la neonata nel lettino e la coprì con cura, ma per Fred non era abbastanza. La bambina continuava ad agitarsi e a piangere.
Come poteva ignorarla?
Non riusciva a sopportare di vederla soffrire. Aveva bisogno di lui.
Un rumore leggero attirò la sua attenzione. L’infermiera si era avvicinata al vetro, facendolo sobbalzare per la sorpresa.
Da dove era spuntata? Era stata talmente veloce che non si era nemmeno accorto che lei fosse lì.
L’infermiera gli sorrise. - Vuoi entrare? - gli domandò con la voce attutita dal vetro. Dopodiché gli indicò il percorso per raggiungerla e un attimo dopo Fred era lì, a pochi passi dalla sua piccolina.
Continuava ad agitarsi e a piangere. Nel suo dimenarsi era persino riuscita a disfarsi della copertina che l’avvolgeva, così che Fred potesse vederla chiaramente: era piccola e delicata, adorabilmente paffuta, aveva le pelle color caramello e la testa ricoperta di una peluria nera.
In quel momento, guardandola da vicino, l’unica cosa a cui Fred era in grado di pensare era quanto fosse perfetta.
Allungò una mano verso di lei, ma poi si fermò e strinse il pugno.
Aveva paura.
- Vuoi tenerla in braccio? - gli chiese subito l’infermiera facendolo trasalire per la seconda volta.
Ma era umana almeno? Com’era possibile che fosse talmente veloce e silenziosa?
Non riusciva a spiegarselo e, forse, non gliene importava nemmeno.
Ascoltò con attenzione le sue indicazioni e osservò i suoi movimenti mentre prendeva nuovamente la bambina tra le braccia per poi passarla a lui.
Era terrorizzato. Non si era reso conto di quanto quella piccola creaturina urlante fosse fragile e delicata fino a quando non se l’era ritrovata tra le braccia.
La stava tenendo bene? Non voleva farla cadere.
Non stava piangendo più… l’aveva forse rotta?
Forse non doveva restare in piedi mentre la teneva tra le braccia.
Doveva sedersi.
Si guardò intorno alla ricerca di un posto tranquillo nella stanza accanto, dove una sedia giaceva lontano dai pianti dei neonati. La raggiunse con cautela, prendendo posto con altrettanta calma. Non voleva fare errori. Non poteva permetterlo.
La bambina non emise un solo vagito, i suoi occhietti si erano chiusi. Si era addormentata tra le sue braccia. Fred si perse a guardarla, incantato. Assomigliava a Angelina, era proprio come lei: bellissima.
Prima di andare via l’infermiera gli posò una mano sul braccio per un attimo, per poi lasciarlo da solo con la bambina. La sua bambina.
Sua figlia.
Le toccò la manina con il mignolo. Era piccolissima.
Mentre si perdeva ad osservarla in ogni minimo dettaglio si rese conto di provare una sensazione tutta nuova. Una delle più piacevoli della sua vita. Credeva di sentire le farfalle nello stomaco, ma erano strane. Possibile che quello che stava provando fosse amore?
Continuò a guardarla.
Sì, era decisamente amore.
Era certo di non aver mai provato così tanto amore per qualcuno, era diverso da quello provava per Angelina. Era molto forte.
Un sorriso spontaneo gli curvò le labbra, incapace di trattenersi. Era felice.
Continuò a guardarla con venerazione, ancora incredulo che quella bambina fosse sua figlia.
Quella dolce e meravigliosa bambina era bella come il sole.
Era il suo sole, il suo unico sole. Il solo guardarla era in grado di far sparire le nuvole che aveva intorno.
Un calore piacevole e rassicurante gli invase il petto. Era gioia pura quella che stava provando?
Ma quel sentimento si unì ben presto al senso di colpa e il sorriso gli morì sulle labbra.
Non doveva andare in quel modo. Era tutto sbagliato.
Angelina doveva essere lì, dovevano guardare la loro bambina insieme. Dovevano sorridere e gioire entrambi per quel piccolo miracolo.
Perché non era lì con lui?
Mandò giù il groppo che aveva in gola trattenendo le lacrime che minacciavano di uscire.
Continuò ad accarezzare la manina della piccola neonata con il dito, e mentre lo faceva la manina si strinse attorno al suo dito. Quel contatto scatenò in Fred un uragano di emozioni tutte in una volta, ma tra tutte vi era soprattutto la paura.
Non voleva lasciare sua figlia da sola.
Sentì il bisogno di proteggere la sua bambina da ogni male, di tenerla al sicuro da qualsiasi dolore, come quello che stava provando lui in quel momento.
- Fred.
Lo chiamò suo padre a bassa voce, aveva aperto appena la porta della stanza in cui si trovava. Controvoglia Fred distolse appena lo sguardo dalla sua bambina e lo guardò.
Il sorriso dolce e comprensivo di suo padre gli scaldò il cuore. Anche lui stava guardando la piccola. Erano stati stregati entrambi dalla sua bellezza.
- Somiglia a Angie – disse, riportando lo sguardo sulla piccola che in quel momento aveva aperto la boccuccia per un piccolo sbadiglio.
Quello era il primo? Era davvero bellissimo.
Chi avrebbe mai detto che lui, Fred Weasley, avrebbe trovato bellissimo uno sbadiglio? Era certo che George lo avrebbe preso in giro se lo avesse saputo. Ma non gli importava.
Era già emozionato alla sola idea di vedere il suo primo sorriso o di sentire il suono della sua prima risata. L’avrebbe fatta ridere molto e non le avrebbe fatto mancare nulla. Era una promessa.
Ad un tratto un dolore violento all’altezza del petto lo colpì. Era davvero uguale a Angelina. Quella consapevolezza lo aveva colpito senza che se ne fosse nemmeno reso conto.
Angelina.
Perché il solo pensare al suo nome faceva male?
Le lacrime spingevano per uscire, ma chiuse gli occhi e lottò con tutte le sue forze per impedire che accadesse l’inevitabile.
La manina della piccola strinse ancora il suo dito con una forza incredibile, considerando quant’era piccola, come a richiamare la sua attenzione. Fred la guardò, stava ancora dormendo.
Lei era uguale a sua madre.
Anche se controvoglia il signor Weasley dovette distogliere lo sguardo e informare il figlio su ciò che era successo. - Ho parlato con l’infermiera – disse, con cautela. - Hanno chiamato i genitori di Angelina. Stanno arrivando.
Angelina.
Il cuore di Fred sembrò fermarsi. Il solo sentire il suo nome gli faceva troppo male. Perché doveva fare tanto male?
Sapeva che prima o poi i signori Johnson sarebbero arrivati. Doveva affrontarli, ma in quel momento non aveva né la forza né il coraggio per farlo.
Senza distogliere lo sguardo dalla sua bambina, si chinò in avanti per avvicinare le labbra alla sua manina e la baciò dolcemente.
Non poteva lasciare la sua bambina da sola. Non poteva.
- Vuoi che me ne occupi io? - gli domandò Arthur, con cura.
Fred annuì. - Sì. – mormorò. - Sì, grazie, papà. - La sua voce era poco più di un sussurro, ma il signor Weasley riuscì comunque a sentirlo.
Annuì e gli rivolse un sorriso. - D’accordo. A dopo – e lo lasciò da solo con la sua bambina.

Una volta raggiunto l’ospedale George e i suoi fratelli sfondarono le porte, spaventando i pazienti nella sala di accettazione e la maggior parte dei medimaghi presenti. La donna dietro la scrivania sobbalzò e tutti i fogli che aveva tra le mani sfuggirono al suo controllo, voltando di qua e di là attorno a lei.
- Ma che modi sono questi? - sbottò, contrariata.
- Dove dobbiamo andare? - domandò Harry a Ron, ignorando la donna.
- Papà ha detto che dobbiamo raggiungere il quinto piano.
George cominciò a correre verso le scale con i fratelli, Ginevra e Harry al suo seguito. Mentre percorreva quelle maledette scale, sentì una dolorosa fitta al cuore. Sentiva che il suo gemello aveva bisogno di lui, che stava soffrendo.
Arrivati al quinto piano trovarono la signora Weasley ad accoglierli.
- Mamma – Ginny scattò subito verso di lei e l’abbracciò. - Come sta Fred?
George non aveva bisogno di sentire la risposta. Poteva solo immaginare quanto la notizia lo avesse devastato.
Angelina era morta. La causa: un’emorragia interna. Purtroppo i medici non erano stati in grado di salvarla.
Il signor Weasley aveva avvertito immediatamente i figli dell’accaduto tramite Patronus e George non aveva esitato un solo secondo a chiudere il negozio e radunare tutti per raggiungere il gemello.
Doveva vederlo.
- Dov’è? - domandò in fretta. Il cuore batteva talmente forte che sembrava volesse uscirgli dalle orecchie.
- È con la bambina. Nel reparto nascite – rispose subito Molly con un sorriso che non era riuscita a trattenere. Per quanto la situazione fosse tragica, una parte di lei era felice ed era impossibile nasconderlo. Era felice di essere diventata nonna.
George si rivolse ai suoi fratelli e a Ginevra. - Vado a cercarlo. Aspettatemi qui – disse, dopodiché andò dritto nel punto che gli aveva indicato sua madre.
Lo trovò quasi subito, nascosto in una stanza adiacente al reparto in cui un coro scatenato di neonati piagnucolanti si esercitava a trapanare le orecchie a chiunque osasse passare loro accanto. Un branco di diavoletti… se la situazione non fosse stata delicata si sarebbe fermato a guardarli, ma non poteva permettersi quel lusso. Non in quel momento.
Fred era seduto. Tra le sue braccia c’era una neonata, la sua bambina, e i suoi occhi erano fissi su di lei. La guardava con un sorriso dolce sulle labbra.
George sorrise e appoggiò le spalle al muro, perdendosi qualche istante a guardarli. Una parte di lui non voleva interrompere quel momento intimo… ma non poté farne a meno.
- È bellissima – disse.
Fred sorrise. - È perfetta – ribatté. - E hai visto quanto è piccola? Sembra una bambola di porcellana.
La bambina continuava a sonnecchiare tranquilla tra le sue braccia, cullata dal suo calore e dal suono della sua voce.
- La mia piccolina – sospirò, adorante Fred. Non riusciva a fare a meno di sorridere nel guardarla. Aveva occhi solo per lei. - La sua manina si è stretta attorno al mio dito tutto il tempo e non vuole più lasciarla.
George si avvicinò e si piegò sulle ginocchia fino ad arrivare alla sua altezza. - Come si chiama? - domandò, intenerito.
Fred scosse la testa con un sorriso appena accennato sulle labbra. - Non… Non le ho ancora dato un nome. Dovevamo scegliere insieme… io e Angie – spiegò mandando giù il groppo che aveva in gola.
George annuì, comprensivo. - Be’, prima o poi dovrai scegliere – disse. - Ma se vuoi possiamo continuare a chiamarla “la piccolina”. Per me non c’è alcun problema.
Il fantasma di una risata sfuggì a Fred. - Sì, mi sa proprio che devo scegliere.
Non sembrava il solito vecchio Fred Weasley. Era quasi come se qualcuno avesse spento il suo entusiasmo. Ma George sapeva che era ancora lì. Non se n’era ancora andato.
La sua missione era farlo tornare come era prima, anche a costo di metterci giorni, mesi o anni.
Fred guardò la sua bambina e gli vennero in mente tutti i nomi a cui lui e Angelina avevano pensato in tutti quei mesi… la maggior parte erano solo per gioco, come “Principessa” o “Zucchero Candito”.
Al tempo Fred sosteneva fortemente che quelli fossero dei veri nomi, soprattutto dopo che il suo amico Lee Jordan li aveva praticamente obbligati a guardare un vecchio film in quella scatola magica babbana che il signor Weasley si ostinava a chiamare chelevisione.
I babbani sapevano il fatto loro, anche se non usavano la magia.
Fred era talmente esaltato quella sera che l’idea di chiamare la sua ipotetica figlia come la bella coprotagonista del film non lo aveva abbandonato per giorni.
- Zucchero Candito Weasley? Fai sul serio? - gli aveva domandato Angelina, sconvolta e divertita allo stesso tempo.
- Ovviamente – affermò lui in risposta. - Sarebbe perfetto se fosse una femminuccia! È un nome unico! Perfetto per una Weasley! E poi hai visto anche tu che tra i babbani è nome molto usato, no?”.
Ricordava ancora le grasse risate di Angelina. Più passava del tempo con lei, più adorava farla ridere.
Gli mancava già moltissimo.
Gli mancava il suono della sua voce, il suo sorriso, i suoi bellissimi occhi castani che lo guardavano in quel modo speciale, il modo in cui si muoveva, quando si accarezzava il ventre felice e impaziente dell’arrivo della piccola.
Maledizione, come poteva resistere ancora senza scoppiare in lacrime?
Prese un profondo respiro e si concentrò sulla bambina.
Doveva trovarle un nome… ma era difficile. Troppo difficile.
Mentre continuava a cercare il nome per la sua bambina, gli vennero in mente tutti i nomi che aveva proposto ad Angelina e che lei aveva bocciato senza pensarci un attimo.
Katherine.
Kayla.
Alexandra.
Nicole.
Ashley.
Taylor.
Man mano che quei nomi si affacciavano nella sua mente storceva il naso. Possibile che non gliene piacesse nemmeno uno nemmeno in quel momento? Nessuno di quei nomi era adatto. Sua figlia non aveva la faccia né da Katherine, né da Kayla né tanto meno da Alexandra!
Un nome. Gli serviva un nome.
“Pensa, Fred. Pensa!”, si ripeté.
La voce di Angelina gli risuonò nelle orecchie e poi… eccolo lì. Il nome perfetto. Il preferito nella lista di Angelina.
Fred curvò le labbra in un sorriso e disse: - Roxanne.
Strinse al petto la bambina e la cullò dolcemente.
Sì. Roxanne era il nome perfetto.
Come se gli avesse letto nel pensiero, George sorrise e allungò una mano verso la neonata. - È perfetto – concordò. - Ciao, Roxy – mormorò con voce acuta.
Fu allora che i gemelli incrociarono i loro sguardi e che George poté vedere gli occhi del fratello: erano rossi e gonfi, pronti alle lacrime.
- Ehi, andrà tutto bene – lo incoraggiò.
- Non vedo come – mormorò Fred, preso dallo sconforto. - Angie non c’è più e io… crescerò la bambina da solo. Sarò in grado di darle ciò di cui ha bisogno? Sarò un bravo padre? Non faccio altro che chiedermelo.
- Smettila di dire cazzate, Fred. Tu sarai un padre fantastico. Basta guardarti per saperlo – disse George. - È una bambina fortunata.
Fred sapeva che suo fratello non parlava mai a vanvera. Credeva fermamente in quello che diceva. Era sincero, lo era sempre stato.
Ma allora perché lui continuava a vedere tutto nero?
Aveva programmato di chiedere ad Angelina di sposarlo, ma ogni volta non aveva trovato il coraggio o il momento giusto di farlo. Il suo desiderio era rendere ufficiale la loro piccola famiglia e passare tutta la vita con lei. Era un passo importante e faceva paura, ma voleva comunque provarci. Voleva farlo per la loro bambina.
Aveva preso l’abitudine di portare con sé l’anello così da essere sempre pronto nel caso in cui si fosse presentata l’occasione di chiederglielo: era semplice, con una piccola pietra incastonata, ma era certo che Angelina lo avrebbe adorato.
Quel giorno, mentre era in sala d’attesa, aveva persino pensato di chiederle di sposarlo dopo il parto mentre lei teneva il loro bambino tra le braccia.
Purtroppo, però, l’anello giaceva nella tasca dei suoi pantaloni, nascosto da una scatolina che probabilmente non sarebbe mai stata aperta.
L’infermiera entrò nella stanza, attirando l’attenzione di Fred e George. Quando la donna vide Fred sorrise e gli andò subito incontro. - Devo portare la bambina a fare un controllo – disse, a malincuore. - Ma non dovremmo metterci molto. Dieci, quindici minuti al massimo e questa bambolina tornerà dal suo papà.
Fred sospirò.
Avrebbe tanto voluto impedirle di allontanarla da lui. Aveva ancora bisogno di lei. Aveva bisogno di tenerla ancora tra le braccia.
Il solo pensiero di separarsene gli faceva male, ma alla fine diede ascolto alla voce della ragione. Se era questione di minuti allora non poteva fare altro che cedere.
Si alzò in piedi e, dopo aver posato un piccolo bacio sulla testolina di Roxanne, la lasciò alle cure dell’infermiera.
- Ti aspetto qui – promise con una dolcezza tale che la donna si intenerì.
Quando la porta si chiuse alle spalle dell’infermiera, Fred sentì un peso all’altezza del petto. Soffriva già la mancanza della bambina e per un secondo la tentazione di andare a riprenderla gli sfiorò la mente.
George gli poggiò una mano sulla spalla, ma il peso era ancora lì così come la paura di fallire. Si sentiva perso, abbandonato e incompleto.
Aveva un gran voglia di piangere.
- Andrà tutto bene – disse George, e quando lo avvicinò a sé per un abbraccio Fred lo strinse forte e si lasciò andare. Aveva provato a tenere duro, ma alla fine non era riuscito a resistere ed era crollato.
Quel momento ricordò a George quando, poche ore prima, Draco aveva raccontato ciò che gli era successo ed era scoppiato in lacrime tra le braccia di Hermione. Ovviamente non era la stessa cosa: Fred e Draco stavano provando un dolore diverso l’uno dall’altro, ma il loro era pur sempre dolore.
Perché doveva esserci tanta sofferenza? Perché tutto sembrava voler crollare? Il mondo stava davvero andando a catafascio. La guerra doveva ancora iniziare e avevano già subito delle perdite.
George non poté fare a meno di chiedersi quale altra disgrazia doveva ancora abbattersi su tutti loro.
Delle urla disperate e rabbiose lo distolsero da quei pensieri, attirando anche l’attenzione di Fred. Venivano dal corridoio lì vicino.
Fred si allontanò dal fratello e si asciugò le lacrime.
- Cosa sta succedendo? - esclamò George.
Fred conosceva bene la risposta, ma sperava di sbagliarsi. Ma ecco che, una volta raggiunto il corridoio, capì che non si era affatto sbagliato.
Davanti a lui, circondata da un medimago e il resto dei Weasley, c’era la signora Johnson. Era impossibile non riconoscere la sua voce. Accanto a lei c’era il marito ed entrambi inveivano rabbiosi contro i signori Weasley, ringhiando come bestie feroci.
- Sapevo che la vostra famiglia portava guai! - urlava la madre di Angelina. - Siete dei mostri!
Fred mandò giù il groppo che aveva in gola e cominciò a sudare freddo quando lei alzò lo sguardo e lo individuò.
Prima di allora non si era mai reso conto di quanto Angelina somigliasse a sua madre. Vedere quella bella donna con gli occhi pieni di rabbia e dolore, così simili a sua figlia, era come una coltellata al cuore.
Correva verso di lui, con la mano ben tesa, e quando se lo trovò davanti gli assestò uno schiaffo sulla guancia.
- Questa è tutta colpa tua! - gli urlò contro mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. - La mia Angelina… il mio piccolo angelo… è MORTA PER COLPA TUA!
- L’ho persa anch’io – sibilò Fred, stringendo i pugni contro le cosce. Tremava, incapace di controllare il proprio corpo.
- Come osi? - gridò lei. I suoi occhi lampeggiavano di rabbia. - Lei se n’è andata. Se n’è andata per colpa tua! Tu non l’hai persa! ME L’HAI PORTATA VIA! SONO IO AD AVERLA PERSA! È COLPA TUA!
Fred resse il colpo, impedendo a George di intervenire, perché sapeva che la signora Johnson sentiva il bisogno di sfogare la sua rabbia e il suo dolore e che lui aveva il dovere di ascoltarla.
Quando decise che le urla erano state abbastanza, il signor Johnson mise un braccio attorno alle spalle della moglie e l’allontanò. - Andiamo da lei, Olivia – le disse, spingendola verso la stanza dove Fred sapeva che si trovava Angelina.
Fred rimase lì, immobile, ad osservarli fino a quando non varcarono la soglia. Ogni parte di lui desiderava tornare indietro nel tempo ed impedire la morte della sua amata, ma non vi era alcuna possibilità che ciò accadesse.
Il risentimento della signora Johnson era più che giustificato. Aveva ragione. Era tutta colpa sua. Era stato lui ad ucciderla.
Si prese il viso tra le mani e si passò le dita tra i capelli, frustrato.
Non riuscì ad impedire che le lacrime gli bagnassero nuovamente le guance e pur sapendo che quel piccolo sfogo non era in grado alleviare nemmeno un briciolo del suo dolore, lui continuò a piangere.
Il senso di colpa bruciava, come una terribile ferita.
George lo abbracciò, continuando a ripetergli che i genitori di Angelina avevano torto. Ma Fred sapeva che avevano ragione. Gli era impossibile negare l’evidenza. Anche se inconsapevolmente, aveva condotto Angelina alla morte.
Smise di piangere solo quando capì che non poteva continuare ad autocommiserarsi per sempre. Piangere non serviva a niente.
Doveva pensare positivo.
Doveva pensare alla piccola Roxanne.
Lei aveva bisogno di lui. Così come lui aveva bisogno di lei.
Doveva smettere di piangersi addosso, non doveva farsi vedere debole davanti agli altri. Doveva essere forte.
Avrebbe avuto il resto della vita per piangere, lontano dagli occhi di tutti.

Le ore seguenti trascorsero nel silenzio. I Johnson se n’erano andati, ma senza rinunciare a rivolgere degli sguardi rabbiosi a Fred. Non si erano nemmeno preoccupati di sapere se la loro nipotina stesse bene. Non gliene importava nulla.
- La pagherai – promisero, per poi sparire dalla sua vista.
George voleva mandarli al diavolo, ma si trattenne dal farlo. Non voleva peggiorare la situazione.
Quando l’infermiera era tornata con la piccola Roxanne tra le braccia, Fred la seguì per darle il latte con il biberon. La signora Weasley stava per proporre al figlio che poteva essere lei ad occuparsene, ma il marito la fermò appena in tempo perché sapeva quanto lei potesse risultare invadente e fastidiosa nonostante tutte le sue buone intenzioni.
- Se avrà bisogno del nostro aiuto lo chiederà, Molly – disse. - Dobbiamo dargli i suoi spazi, soprattutto adesso che è diventato padre.
La signora Weasley provò ad obbiettare, poi però si astenne dal farlo. - Oh, hai ragione, tesoro – sospirò.
La famiglia Weasley si soffermò davanti al vetro che li separava da Fred e la bambina. Ognuno di loro la guardava con occhi adoranti.
George distolse appena lo sguardo per avvolgere un braccio attorno ai fianchi di Ginevra. L’attirò a sé e premette le labbra sulla sua fronte indugiandovi a lungo. Lei lo abbracciò, accoccolandosi contro il suo petto, e insieme mantennero lo sguardo su Fred.
Non riuscivano ancora a credere a ciò che era successo. Era stato un duro colpo per ognuno di loro, e non sapevano se Fred sarebbe riuscito a superare la morte di Angelina tanto facilmente.
Qualcosa nel petto di Ginevra vibrò.
Povera Agnellina”, disse Entity. “Avevo appena cominciato ad abituarmi a lei… Mi stava simpatica”.
Ginevra sospirò, sorvolando sul soprannome che l’Essere superiore nella sua testa aveva appena pronunciato. “Anche a me” disse.
Certo, lei e Angelina non erano mai state grandi amiche e il loro rapporto non era iniziato nel migliore dei modi.
Ricordava ancora gli anni in cui lei e Angelina si facevano la lotta anche per il piccolo dei motivi. Ogni occasione era buona per attaccare briga. Tutto era cominciato per gelosia, poi però era bastato deporre l’ascia di guerra per far nascere l’amicizia tra loro.
Quando Angelina era rimasta incinta Ginevra era stata la prima a saperlo. Da quel momento tra loro nacque un legame. Un’amicizia inaspettata che Ginevra avrebbe conservato nel cuore per sempre.
- Non riesco ancora a credere che se ne sia andata – disse tra sé e sé.
Non aveva nemmeno avuto l’occasione di salutarla.
L’ultima volta che l’aveva vista erano stati tre giorni prima e non ricordava nemmeno l’ultima cosa che si erano dette.
Si sentì una persona orribile.
George la strinse a sé ancora di più. Si chinò su di lei e le solleticò il collo con le labbra per baciarla.
C’era un pensiero fisso che gli dava il tormento e non riusciva a toglierselo dalla testa.
Se fosse stato al posto di Fred e fosse stata Ginevra a morire, non sarebbe stato in grado di sopportare il dolore. Non avrebbe mai sopportato di perderla. Il pensiero di vivere senza di lei era intollerabile.



ANGOLO AUTRICE:
Salve a tutti! So di essere una persona imperdonabile e che questi ultimi capitoli sono stati molto depressivi, ma c’è un motivo se ho causato la prematura dipartita di Angelina. Spero solo di riuscire a descrivere tutto al meglio in futuro per farvi capire la mia scelta.
Detto questo, spero che (nonostante tutto) il capitolo vi sia piaciuto e che continuerete a seguire la storia.
Vi do appuntamento a martedì prossimo!
A presto,
18Ginny18

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 – IN PREDA ALLE EMOZIONI ***


Capitolo 7 – In preda alle emozioni

Dopo aver girato e fatto avanti e indietro per il corridoio del reparto nascite, Ginevra non riuscì più a resistere all’impulso di raggiungere la stanza di Sirius. Tutta quell’atmosfera l’aveva incupita e il suo unico desiderio era andare da lui e sedersi un po’ al suo fianco.
Anche se erano passate solo poche ore dall’ultima volta che lo aveva visto, sentiva il bisogno di intrecciare la mano alla sua e fargli sapere che lei era lì con lui e che lo stava aspettando.
Quando George si era offerto di accompagnarla lei aveva rifiutato. Sapeva che il gesto di George era spontaneo e mosso da tutta la galanteria e la gentilezza di cui era dotato, ma era Fred ad avere bisogno di lui. Non doveva lasciarlo da solo nel momento del bisogno.
Gli baciò le labbra in una carezza leggera, promettendogli di tornare presto da lui, dopodiché si allontanò.
Una volta raggiunta la stanza di suo padre Ginevra trovò Regulus proprio dove lo aveva lasciato quella mattina: al fianco di Sirius.
Era seduto sulla poltrona super scomoda sulla quale lei era rimasta seduta per giorni, lo sguardo fisso sul libro che teneva in grembo.
Non voleva distrarlo dalla sua lettura, ma aveva bisogno di stare un po’ accanto a Sirius.
Provò a fare piano.
Si avvicinò al letto sul quale suo padre era sdraiato. Regulus non si mosse e, per un attimo, Ginevra pensò che non avesse nemmeno notato la sua presenza.
Si sbagliava.
- Hai dimenticato che siamo collegati e che hai ancora la pessima abitudine di farmi sentire i tuoi pensieri? - la sorprese Regulus facendola sobbalzare.
Secondo te bel faccino si diverte a farci prendere un colpo?”, domandò Entity, ansante.
Regulus sorrise sommessamente. - Scusa, Entity.
Ok, ti perdono solo perché sei tu”, borbottò l’Essere superiore, ma Ginevra sentiva il disagio che stava provando.
Entity non apprezzava che qualcun altro, a parte lei, sentisse i suoi pensieri. Si sentiva spiata, il che era parecchio fastidioso e non poteva darle torto.
Ginevra sospirò. - Scusa Reg – disse. - Non volevo disturbarti. Sembravi molto preso dal tuo libro.
Regulus sollevò la copertina nera, mostrando a Ginevra uno dei diari di M. Darcy.
Si diede mentalmente della sciocca per non averlo riconosciuto subito. Avevano passato tanto di quel tempo su quei diari che ormai ogni pagina era stampata nella sua mente. Quelli che all’inizio erano solo scarabocchi, si erano rivelati dei messaggi, delle tracce sulle origini di Entity. Lei andava talmente fiera di essere un Primordiale che non perdeva mai occasione di vantarsene.
- Sto studiando tutti i diari da settimane in cerca di indizi… di qualcosa che possa aiutarci – spiegò per poi chiudere il libro con un tonfo.
Si passò una mano sul viso stanco, sfregandosi le palpebre.
- Come sta Fred? - domandò dopo un po’.
- Sai tutto, eh?
Regulus annuì. - Devi riprendere i tuoi esercizi se non vuoi che ascolto i tuoi pensieri – disse. - A volte è fastidioso. Altre, invece, è talmente coinvolgente che non posso fare a meno di prendervi parte.
- O forse sei solo un ficcanaso – lo schernì lei, sforzandosi di alleggerire la tensione.
L’espressione di Regulus, però, era impassibile. - Allora, come sta?
Ginevra fece spallucce e prese posto su una piccola parte del letto di suo padre. Lui, come al solito, non spostò nemmeno un muscolo. I suoi occhi rimasero chiusi.
- È a pezzi – rispose, senza distogliere lo sguardo da Sirius. - Per lui sarà dura. Ma almeno non sarà da solo.
Regulus annuì, approvando le sue parole. - E Draco? - domandò dopo un po’.
Lei lo guardò, sorpresa. - Come…?
- Me lo stai chiedendo sul serio?
Già. Domanda stupida.
Era ovvio che Regulus sapesse già tutto anche su quello che era successo a Draco.
Doveva smetterla di sorprendersi così tanto.
Forse Entity aveva ragione quando le diceva che negli ultimi tempi stava davvero perdendo colpi.
- Be’, Draco è… - Si interruppe non sapendo come continuare. Sospirò. - È più complicato.
- Posso solo immaginare – disse Regulus. - Ricordo ancora il talento di Bellatrix e Rodolphus per le torture. Evidentemente neanche lui ha perso il tocco. È il solito animale… per questo è ancora tra le grazie del Signore Oscuro.
Ginevra provò un brivido spiacevole lungo la spina dorsale.
Il solo sentire nominare Voldemort le rievocava ricordi spiacevoli.
Pensò a Draco e tutto il dolore fisico e mentale che aveva subito e l’angoscia l’avvolse.
- Devo ammettere che non so cosa fare. Voglio aiutare Draco. Davvero. Solo che non so come fare – disse titubante.
La mano di Regulus si allungò quel tanto che bastava per toccare la sua, avvolgendola. Era molto calda, al contrario di quella fredda di lei. - Devi solo stargli vicino e volergli bene, come hai sempre fatto – disse, per poi aggiungere: - Devi fare lo stesso anche con Fred. Hanno entrambi bisogno di tutto l’aiuto e l’affetto possibile.
Ginevra lo guardò e gli sorrise, provando a stemperare l’atmosfera con un po’ di ironia. Di certo male non faceva. - Quando sei diventato così saggio?
La fronte di Regulus si aggrottò leggermente e un sorriso obliquo gli curvò le labbra. - Da quando sono diventato adulto, temo – rispose.
Ma in realtà lui non riusciva ad autodefinirsi “saggio”. La maggior parte delle sue scelte erano state sbagliate e di saggezza ne avevano ben poco.
Il suo obiettivo era di non commettere gli stessi errori e di imparare a percorrere la strada giusta, quella che gli avrebbe permesso di rendersi utile e fare del bene alle persone a lui care. Di proteggerle. Di stare loro vicino, soprattutto nel momento del bisogno.
Il suo sguardo si posò su Sirius, immobile nel suo sonno perenne. A volte sembra che non respirasse nemmeno.
Per un attimo il panico si impossessò di lui.
Possibile che fosse morto?
Quel pensiero gli diede i brividi.
Riuscì a trattenersi dal toccarlo per accertarsi che fosse ancora vivo. Non voleva allarmare la nipote e scatenare il panico in tutto il reparto. Per sua fortuna vide il petto di Sirius alzarsi e abbassarsi e si tranquillizzò.
Era ancora lì con loro.
Anche Ginevra tornò a guardare il padre. Il suo sguardo si era fatto triste; gli occhi erano lucidi. - Secondo te, se non mi fossi intromessa…
Non riuscì a terminare la frase, ma Regulus capì quello che voleva dire.
“Se non mi fossi intromessa papà sarebbe morto?”.
Aveva sentito così tante volte quella domanda frullarle nella mente così tante volte che non aveva nemmeno bisogno di sentirgliela pronunciare.
A volte malediva la connessione mentale. Sentiva troppo o troppo poco, ma era comunque snervante.
- Hai fatto la scelta giusta, Gin – le disse con tono rassicurante, quasi paterno. Poteva sembrare una frase fatta ma era fermamente convinto in ciò che diceva.
Ogni probabilità che avevano sondato dava sempre lo stesso risultato e quelle favorevoli, invece, erano ben poche. Il fatto che Sirius fosse sopravvissuto ma in coma era comunque una conquista e aveva riscritto il suo destino.
- Ma questo non puoi saperlo – ribatté lei pronta. - Forse la mia visione era già stata cambiata con il tuo intervento e io ho creato un casino!
- Non hai creato un casino. Hai seguito l’istinto.
Frustrata, Ginevra si portò una mano alla fronte e scosse la testa. - È quello che ho fatto. Mi dici sempre che devo fidarmi di me stessa e io l’ho fatto! Mi sono fidata, ho agito d’istinto – affermò. - Ma come faccio a sapere se seguire il mio istinto è stato un errore?
Regulus le poggiò una mano sulla spalla.
- Non devi sentirti in colpa per quello che è successo – ribadì. - Hai salvato Sirius ed è questa la cosa importante.
- E se ti sbagliassi? E se non si risvegliasse più?
- Ti prometto che si risveglierà presto.
Voleva crederci anche lui, anzi doveva crederci.
C’era ancora speranza.
Ginevra, invece, non sembrava tanto incline a credere alle sue parole.
Voleva urlare, distruggere tutto quello che la circondava. Qualunque cosa pur di calmare la rabbia che aveva dentro.
L’ultima cosa che desiderava in quel momento era sentirsi dire che non era colpa sua se suo padre era finito in coma.
Cazzate.
Lei sapeva benissimo la colpa di ciò che era successo era solo sua. Era inutile che Regulus cercasse di indorarle la pillola.
Nella sua testa rimbombavano ancora le parole di un’infermiera che era entrata in camera qualche settimana prima per prendersi cura di Sirius. Ginevra avrebbe tanto voluto staccarle la testa, ma si era accontenta di urlarle contro e di vietarle di avvicinarsi a suo padre.
“Almeno è vivo. Starà bene!”, le aveva detto.
No. Sirius non stava bene e probabilmente non si sarebbe mai risvegliato.
Forse aveva esagerato un po’ a reagire in quel modo, ma quelle parole l’avevano fatta scattare.
Vedere suo padre steso su quel letto d’ospedale le spezzava il cuore ogni singola volta. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di svegliare suo padre. Qualsiasi.
Entity la richiamò con dolcezza alleviandole, in un modo a lei sconosciuto, tutta la rabbia che stava provando.
Se c’era qualcuno che in quel periodo era in grado di alleggerire il macigno che si era messa sulle spalle era proprio lei.
Abbi fiducia”, glielo ripeteva ogni volta.
Ginevra aveva promesso di provarci, ma era difficile.
Accarezzò il viso del padre, pregando con tutta sé stessa che lui potesse sentire il suo tocco. Non c’era giorno in cui non lo facesse.
Lasciò cadere solo qualche lacrima silenziosa prima di alzarsi e raggiungere la porta.
- Spero che tu abbia ragione, Reg – disse, per poi lasciare la camera e raggiungere George e gli altri.

Una volta tornati all’appartamento trovarono Draco e Hermione seduti sul divano, in attesa.
Lasciarli da soli era stato necessario anche se difficile, dato che anche Draco stava attraversando un momento difficile.
Ginevra non poteva fare a meno di sentirsi in colpa.
Nel suo cuore si agitavano talmente tante preoccupazioni che non aveva mai pensato di dover affrontare fino a quel momento.
Sarebbe stata in grado di aiutare Draco e Fred?
Quando li vide Hermione scattò in piedi come una molla. La sua mano era intrecciata a quella diafana di Draco. - Come stanno? - domandò, ansiosa.
Prima di correre al San Mungo avevano avvertito Hermione su ciò che era successo e da quel momento la preoccupazione della ragazza si era quadruplicata esponenzialmente.
Quando Draco si era ripreso ci aveva messo un po’ a dirgli cos’era successo, una parte di lei sosteneva che parlargli della morte di Angelina non lo avrebbe aiutato a superare il trauma su Pops e temeva la sua reazione.
Troppo dolore tutto in una volta.
Con sua somma sorpresa, però, Draco non aveva perso il controllo. L’aveva abbracciata e poi si erano spostati sul divano a parlare, ovviamente non senza versare qualche lacrima.
Fu George a rispondere alla domanda di Hermione. - La bambina sta bene. Fred non si stacca un attimo da lei.
Cadde il silenzio, accompagnato da abbracci e singhiozzi appena trattenuti che vennero interrotti dall’arrivo dei signori Weasley.
La prima cosa che fece la signora Weasley quando individuò Draco fu andargli incontro e stringerlo in un forte abbraccio. Lui non ricordava di essere mai stato abbracciato in quel modo da sua madre. Tutto ciò che aveva provato a causa delle torture, tutto ciò che aveva vissuto fino a poche ore prima, sembrò precipitargli addosso e vorticare nella sua mente, come a sfidarlo a gridare tutto il dolore che stava ancora provando.
Nonostante l’istinto di lasciarsi andare ancora una volta fosse forte, riuscì ad opporsi e a frenare le lacrime appena in tempo.
La signora Weasley sciolse l’abbraccio e gli prese il viso tra le mani, accarezzandogli dolcemente le guance tumefatte. Ron e Harry avevano già raccontato a lei e al signor Weasley tutto quello che era successo e lei si sentiva in dovere di prendersene cura.
Gli rivolse un sorriso gentile e amorevole che provocò a Draco un brivido all’altezza del cuore. Stava davvero per scoppiare a piangere, di nuovo.
Quella donna metteva a dura prova il suo autocontrollo.
Sfiorò i tagli che gli circondavano il viso, delicatamente.
Quando erano soli Hermione si era proposta di medicargliele, ma lui si era rifiutato. Era certo di soffrire se solo le avesse toccate e non voleva che, una volta tornati a casa, i suoi amici lo vedessero piangere ancora una volta come un bambino.
La signora Weasley gli sorrise, come solo una madre affettuosa sapeva fare, e disse: - È l’ora di medicarti, caro. Non vogliamo che si infettino, no?
Draco non si oppose. Insieme a Hermione e alla signora Weasley si spostò in un’altra stanza, così da non avere gli occhi di tutti addosso, e si lasciò medicare le ferite.
Gli altri rimasero in soggiorno.
Nessuno parlò, nessuno si mosse.
Trovarsi di nuovo in quell’appartamento, con la consapevolezza che Angelina non vi avrebbe più fatto ritorno, era ancora inverosimile.
Ginny aveva ancora il viso rigato dalle lacrime; non aveva fatto altro che piangere da quando aveva ricevuto la notizia. Il suo umore era altalenante tra momenti di dispiacere, in cui riaffiorava il pensiero che Angelina fosse morta, e momenti di felicità in cui si ritrova a sorridere felice per essere diventata zia. Poi, però, arrivava anche il senso di colpa proprio a causa di quella felicità. E non era l’unica a provare quelle emozioni.
Harry non si allontanò da lei nemmeno per un’istante, senza smettere di abbracciarla. Non riusciva ancora a credere che Angelina fosse morta; era così tenace, così coraggiosa… così giovane. Troppo giovane.
Si scambiò qualche occhiata con Ron e gli altri, sentendo qualcosa dentro di sé, un peso, che sembrava non volerlo più abbandonare.
Aveva già perso due amici in meno di due anni. Non voleva perderne altri.
Quando la signora Weasley, Draco e Hermione tornarono in soggiorno il signor Weasley infranse il silenzio rivolgendosi proprio a Draco.
- Stai bene, ragazzo?
Draco annuì, ma non aggiunse altro. Il suo viso era parzialmente coperto da cerotti e bende bianche, il labbro era ancora spaccato e ogni volta che stirava le labbra facevano male. Ma poteva dire davvero di stare bene?
Indossava ancora la giacca scura e la sua mano stringeva il braccio sinistro, come se in quel modo potesse cancellare ciò che vi era nascosto sotto.
Si vergognava come un ladro.
- Sei il benvenuto alla Tana, se lo desideri – disse il signor Weasley, avvicinandosi. - Ci saranno anche Harry e Hermione fino al primo settembre. E in più sarai al sicuro.
Per quanto la proposta fosse allettante, Draco esitò. - Non voglio disturbare. Tutti voi avete già fatto tanto per me. Forse anche troppo – aggiunse abbassando lo sguardo, contrito. - Io non merito tanta gentilezza.
- Draco… - Hermione gli stringeva la mano e non aveva intenzione di lasciarla.
- Tu non disturbi affatto, caro – insistette la signora Weasley, accarezzandogli ancora una volta il viso con dolcezza. - Sei parte della nostra famiglia.
Draco la guardò. I suoi occhi si velarono di lacrime, commosso da tanta gentilezza.
Non riusciva ancora a credere che esistessero persone tanto buone e gentili, ma soprattutto non riusciva a credere di essere tanto fortunato.
Finalmente capiva davvero perché Harry adorava la signora Weasley: era una donna meravigliosa, allegra e solare, che aveva una sempre una buona parola per tutti. La madre che ogni figlio potesse desiderare.
E il signor Weasley?
Era impossibile fare il confronto con Lucius. Arthur era il padre dei suoi sogni! Lo era sempre stato, fin dalla prima volta in cui lo aveva incontrato al Ministero quando era solo un bambino: lui si era perso e Lucius era sparito dalla sua vista. Era solo, circondato da un via vai di maghi e streghe indaffarati con il lavoro. Il signor Weasley era stato così gentile da fermarsi, giocare con lui e fargli compagnia fino all’arrivo di Lucius.
Era un vecchio ricordo, ma per Draco era pur sempre uno dei più belli della sua infanzia. Non poté fare a meno di chiedersi se anche il signor Weasley ricordasse ancora quel giorno.
I Weasley erano una bella famiglia.
- Allora? Che ne dici? - gli domandò il signor Weasley con un sorriso gentile sulle labbra. Lo stesso sorriso che gli aveva rivolto la prima volta che lo aveva incontrato da bambino.
Com’era possibile che quella famiglia fosse così gentile con lui? Sentiva di non meritare tanto amore… ma ne aveva bisogno.
Fu allora che si decise ad accettare.

Una lunga doccia calda fu un vero toccasana dopo una giornata come quella.
Nessuna notizia spiacevole poteva raggiungerla sotto lo scrosciare dell’acqua. A volte Ginevra adorava stare per conto suo, senza essere obbligata a fingere di essere felice, senza dover affrontare ogni problema a testa alta reprimendo i sentimenti che provava… a volte aveva solo bisogno di un luogo dove chiudersi e lasciarsi scivolare tutto di dosso.
In quel piccolo box si sentiva sollevata, poteva finalmente svuotare un po’ la mente e godersi ciò che la circondava. Ma la pace ebbe vita breve e i pensieri negativi tornarono a darle il tormento dopo nemmeno cinque minuti: Sirius era ancora in coma, Draco era stato torturato, Angelina era morta… una serie di sfortunati eventi che sembravano aumentare con il passare del tempo.
“Finirà mai tutto questo?”.
Non poteva fare a meno di chiederselo.
Entity non le rispose. Restò in silenzio, come a lasciarle quell’attimo di pace e intimità tutto per sé. Non voleva sciupare tutto e Ginevra gliene fu grata.
Quando capì di aver passato troppo tempo sotto l’acqua uscì dalla doccia, avvolgendosi in un morbido asciugamano. Indossò il pigiama e andò in camera, cercando di scuotersi di dosso la malinconia.
George la raggiunse poco dopo.
Era sceso al piano di sotto, per sistemare il caos che avevano lasciato lui e i fratelli, nel pomeriggio, poco prima di chiudere il negozio e correre verso il San Mungo.
- Faccio una doccia – disse, prima di chiudersi in bagno.
Ginevra non rispose, non ce n’era bisogno. Si legò i capelli un po’ umidi in una coda improvvisata, si ficcò sotto il lenzuolo e recuperò il libro che giaceva dimenticato sul comodino al suo fianco: Il ritratto di Dorian Gray, un vecchio regalo di Hermione.
Non leggeva molto spesso nell’ultimo periodo, ma si era ripromessa di dedicare un attimo del suo tempo alla vecchia Ginevra, l’amante dei libri, del rumore e del profumo delle pagine.
Forse era proprio quello che le serviva per allontanare i cattivi pensieri.
Aprì il libro nel punto in cui aveva lasciato il segnalibro l’ultima volta, al capitolo nove, e cominciò a leggere.
Ben presto, una frase del protagonista la colpì come un treno in corsa, aprendole gli occhi.

 
Non voglio essere in balia delle mie emozioni.
Voglio servirmene, goderle e dominarle
.

Si accorse di dover riprendere il controllo delle proprie emozioni, di neutralizzare quelle negative e riprendere il controllo di sé stessa, proprio come Dorian Gray, altrimenti sarebbero state le emozioni stesse a dominarla. Per un attimo si era persino dimenticata quello che poteva accadere se avessero preso il sopravvento, come l’ultima volta.
Riusciva già a vedere le sue mani incendiarsi, a sentire il dolore di chi la circondava… No. Non poteva permettere che la rabbia o la sofferenza avessero la meglio. Doveva controllarsi.
Chiuse il libro con uno scatto e lo ripose sul comodino, promettendo a sé stessa di sostituire quelle emozioni, di sedarle, di dominarle.
Si portò le mani sul viso. Inspirò ed espirò profondamente, lasciando che la sua mente le mostrasse momenti sereni, felici, privi di sofferenza: ognuno di quei ricordi riuscì a darle la forza necessaria per allontanare le emozioni negative e ad attenuare il dolore.
In quel momento il suo cuore si era fatto un po’ più leggero.
George tornò in camera e prese posto accanto a lei, sul letto. Quando le spostò le mani dal viso Ginevra riaprì gli occhi.
- Ehi – le disse. - Va tutto bene?
Ginevra lo guardò. - Certo.
Non voleva farlo preoccupare. Aveva già abbastanza pensieri di suo e non voleva pressarlo ulteriormente con i suoi.
Poteva gestirli da sola.
Sul viso di George era apparso un sorriso dolce ma allo stesso tempo sensuale, mentre si portava il dorso della mano di lei alle labbra.
Il momento esatto in cui sentì il calore della sua bocca sulla pelle, Ginevra si sentì incendiare. Non letteralmente, per fortuna, altrimenti ci sarebbe stato un bel barbecue in camera da letto.
- Tu stai bene?
Il sorriso di George si ampliò. - Starò meglio quando mi avrai dato un bacio. Oggi sei stata un po’ avara – disse, con finto tono accusatorio.
Il sopracciglio sinistro di lei si inarcò.
- Che c’è? - domandò George, simulando un broncio da manuale. - Sai benissimo che ho bisogno della mia dose giornaliera per rimanere attivo e scattante.
Fortuna che George era allergico alle emozioni negative, non come lei. Per quanto fosse triste o depresso lui riusciva sempre a tornare felice e a contagiare chiunque gli stava attorno.
C’era un momento in cui essere tristi e uno in cui sorridere e farsi travolgere dalla felicità. Quello, sicuramente, era il momento di sorridere e ne avevano bisogno entrambi.
Ginevra dovette trattenersi dallo scoppiare a ridergli in faccia.
Si avvicinò a lui, piano, mordendosi il labbro inferiore, ben cosciente che in quel modo lo avrebbe fatto impazzire.
- Oh, ma allora dobbiamo rimediare – mormorò a pochi centimetri dal suo viso.
I loro nasi si sfiorarono, accarezzandosi dolcemente. Le labbra di George toccarono quelle di lei diventando roventi e smaniose di approfondire quel contatto.
Lei si ritrasse appena, per guardarlo.
- Ti prego, baciami – sospirò George, accorciando definitivamente le distanze tra le loro bocche in un contatto dolce ma esigente.
Man mano il bacio raggiunse un’intensità tale da toglierle il respiro, risvegliando tutto il suo corpo.
Si separarono quel poco che bastava per guardarsi di nuovo negli occhi e, quando Ginevra incrociò il suo sguardo, vide il fuoco. George ardeva dal desiderio.
Al solo guardare quegli occhi il cuore le pulsava più forte e il respiro veniva sempre meno.
I loro corpi cercavano istintivamente il contatto reciproco, sfiorandosi le mani, le gambe… ogni forma di contatto era come una scossa di energia pura. Sentivano entrambi la mancanza di quell’intimità da troppo tempo ormai e il desiderio stava per sopraffarli.
Ginevra si avvicinò a lui un altro po’, fino a coprire la distanza tra i loro corpi. Il tocco di George e il suo profumo quel giorno sembravano intensi come non mai.
Aveva sentito la sua mancanza.
George tolse l’elastico che tratteneva la coda di cavallo di lei, e quando le ciocche umide le ricadettero sulle spalle, lui vi affondò le mani in modo da attirare il suo viso più vicino per baciarlo.
Pervasa dai brividi di piacere, Ginevra schiuse le labbra e lascio che la punta della lingua di George cercasse e trovasse la sua e il bacio sfociò in uno travolgente, pieno di urgenza e possesso.
Lei gettò la testa all’indietro in preda ai mugolii di piacere mentre con la sua bocca George la divorava scendendo sul suo collo e poi, dopo averle sfilato dolcemente la maglia del pigiama, iniziò a mordere la pelle sottile della clavicola e a lei sfuggì un gemito di piacere.
Le mani di lei cominciarono a cercare il calore del corpo di George. Gli sollevò la maglia, toccando con la punta delle dita la pelle tesa e liscia dei suoi addominali.
Nel frattempo, George le abbassò i pantaloncini del pigiama per poi cingerle la vita con un braccio, portandola a cavalcioni su di sé, per farle sentire quanto la desiderasse.
Ancora una volta Ginevra gemette di piacere.
George le prese il viso tra le mani e la baciò di nuovo. Non riusciva a fare a meno delle sue labbra.
Mugolò contrariato quando Ginevra indietreggiò sotto la forza dei suoi baci per togliergli la maglietta. Ma venne ripagato ben presto dalla lunga scia di baci bollenti che lei tracciò sul suo torace e sugli addominali finché non raggiunse l’elastico dei suoi boxer.
Stava già pregustando ciò che stava per accadere quando lei cominciò a mordersi il labbro inferiore; nei suoi occhi vide un luccichio malizioso che lo mandava fuori di testa.
Prima di dedicarsi completamente a lui, però, Ginevra diede inizio ad una lunga e piacevole tortura solleticandogli dolcemente i fianchi con le dita tiepide.
George inarcò un po’ la schiena e chiuse gli occhi, pervaso da brividi di piacere. Quando li riaprì si godette l’immagine che aveva davanti: lei lo sovrastava, con la cascata di capelli neri e scompigliati che le ricadevano sul viso e la pelle liscia e morbida come la seta che si strusciava contro la sua.
Era una visione splendida in quella posizione.
Era lei ad avere il comando su di lui, e non gli dispiaceva affatto.
C’erano soltanto gli indumenti intimi che impedivano ai loro corpi di toccarsi completamente, ma ben presto lei si sbarazzò del reggiseno che raggiunse il pavimento come la maglietta e i pantaloncini.
Gli occhi di George la squadravano famelici come un predatore pronto a sbranarla.
Con un sorriso malizioso sulle labbra Ginevra si chinò su di lui.
- Ti voglio – sussurrò al suo orecchio, mordicchiandogli il lobo, e lui emise un gemito soffocato.
Poi le mani di lei premettero sui suoi boxer e strofinò delicatamente. La testa di lui si piegò all’indietro, e strinse i denti dal piacere.
- Mi fai impazzire – ansimò George.
- Ma non ho nemmeno cominciato - lo punzecchiò lei.
George non riuscì più a trattenersi dal toccarla. Prima che lei gli abbassasse i boxer, le bloccò i polsi con una mano sola.
I loro visi erano di nuovo vicini, talmente vicini che le punte dei loro nasi si sfioravano e i loro respiri si mescolavano.
Le mani di George catturarono i suoi seni, stringendo dolcemente, e ne stuzzicò i capezzoli prima di prenderne uno in bocca. Lei non poté fare a meno di reclinare la testa all’indietro e inarcare il corpo, in estasi, offrendosi a lui.
Le sue dita affusolate affondarono tra i suoi capelli rosso fuoco di lui e lo strinse più vicino a sé. Intrecciò le gambe attorno ai suoi fianchi e sussurrò, stremata: - Ti prego...
- Ti prego? - domandò lui, con un leggero tono canzonatorio nella voce, mentre le sue labbra salivano dai capezzoli fino al collo.
- Ti voglio – gemette lei. Il respiro era corto e affannato, il corpo tremava in preda all’eccitazione. Era certa di essere sul punto di esplodere. Lo guardò dritto negli occhi. - Adesso.
George le sorrise e la baciò ancora. - Ti accontento subito, allora.
In un solo gesto, la sollevò con le mani sotto i glutei, e il secondo dopo, era dentro di lei.
Un gemito lieve le sfuggì dalle labbra e lui emise un di ringhio gutturale, un suono intriso di soddisfazione, mentre lasciava una scia di baci e morsi sul suo collo.
Ginevra non sapeva se chiudere gli occhi per abbandonarsi alle sensazioni o tenerli aperti e guardarlo mentre la prendeva e godeva. I suoi occhi avevano una sfumatura scura e ombrosa, piena di desiderio.
L’incalzare delle spinte di George erano talmente profonde da farle stringere il lenzuolo nei pugni, mentre il corpo si contraeva dal piacere e la vista quasi le si annebbiò.
Si mordeva il labbro, come assaporando uno spasmo di piacere dopo l’altro.
- Sei bellissima – mormorò lui fissandola negli occhi.
Lei tese le mani sulle spalle di George per attirarlo a sé.
Fece appena in tempo a baciarlo che, sotto un altro intenso affondo, esplose in un urlo al quale lui si unì un secondo dopo. Ogni fibra del suo essere si irrigidì per lunghi secondi durante i quali lei dimenticò perfino di respirare, e quando anche l’ultimo spasmo dell’orgasmo la investì, i nervi si sciolsero di colpo lasciandola esanime sul letto, le sue gambe ancora strette ai fianchi di George.
Gli attimi successivi si cristallizzarono mentre rimanevano in quel modo, stretti l’uno all’altra, ansimanti e con la pelle coperta da un velo di sudore.
Finalmente, dopo tanto tempo, Ginevra era riuscita a dominare le emozioni negative sostituendole con quelle positive ed era solo grazie a George se c’era riuscita. Le aveva fatto dimenticare ogni cosa: dolore, rabbia, frustrazione… era bastato un suo sorriso.
Era riuscito a farle toccare il cielo con un dito, come sempre.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 – NEL CUORE DELLA NOTTE ***


Capitolo 8 – Nel cuore della notte

Il Marchio Nero era là, sospeso nel cielo sopra la scuola: il fiammeggiante teschio verde con la lingua di serpente, il simbolo che i Mangiamorte lasciavano davanti a un edificio ogni volta che avevano ucciso… Stava scintillando direttamente sopra alla Torre di Astronomia, la più alta del castello.
Se era lì… Significava che era appena stato commesso un assassinio?
Il corpo di Ginevra venne pervaso dai brividi al solo pensiero che Harry e gli altri fossero in pericolo.
Iniziò a correre schivando gli abitanti di Hogsmeade che si erano fermati ad osservare con orrore il Marchio Nero alto nel cielo.
Il tempo di battere le ciglia e Ginevra si trovò esattamente lì, proprio sotto alla luce verdastra del Marchio, alla Torre di Astronomia. Ciò che la sorprese maggiormente, oltre alla velocità in cui aveva raggiunto la torre, era trovarsi di fronte Albus Silente.
Cosa ci faceva lì? Ginevra non lo sapeva e non era nemmeno certa di volerlo sapere davvero.
L’aria che aleggiava su quella torre era greve, quasi immobile. Un’innaturale silenzio era calato sull’intero castello e sembrava precedere la furia di un attacco.
Ginevra accennò a un passo verso di lui per chiedergli cosa stesse accadendo ma, quando vide il vecchio mago voltarsi, si fermò.
Gli occhi azzurri di Silente si spostarono dalla luce del Marchio a lei.
Non disse nulla. Le sorrise e basta.
Nei suoi occhi, però, lei vide quello strano e insopportabile luccichio che aveva sempre ogni volta che le rivolgeva lo sguardo.
Le diede la sensazione che lui sapesse con certezza cosa stava per abbattersi sul castello, o addirittura come se lo aspettasse. Se ne stava lì, immobile, con le mani dietro la schiena ma, secondo l’istinto della ragazza, stava sicuramente macchinando qualcosa.
Un improvviso fascio di luce verde esplose, accecando Ginevra per qualche istante. Quando riaprì gli occhi vide Silente scontrarsi con i bastioni della torre per poi cadere lentamente all’indietro, come una grossa bambola di pezza, fuori dalla sua vista.
Per quanto odiasse quell’uomo, il solo pensiero che fosse caduto di sotto le provocò una spiacevole sensazione all’altezza del petto. Paura? Preoccupazione? Non sapeva darle un nome.
Forse non era realmente caduto e si era smaterializzato non appena le sue gambe avevano oltrepassato il muretto...
Doveva controllare.
Non appena accennò un passo in avanti, si gelò sul posto; una risata risuonò alle sue spalle. Aveva riconosciuto quella voce all’istante.
Lei si voltò lentamente, il cuore che le batteva forte nel petto.
- Non dirmi che sei dispiaciuta per lui, mia cara. La sua morte è inevitabile - disse Voldemort con un sorriso maligno.
Ginevra non disse una sola parola. Semplicemente lo guardò.
Trovarlo lì, a pochi passi di distanza, e incrociare nuovamente i suoi occhi iniettati di sangue fu come immergersi nell’acqua gelida. Una serie di brividi le attraversarono il corpo dalla testa ai piedi.
Quando il Mago Oscuro avanzò di un passo verso di lei, Ginevra indietreggiò di uno.
- Non ti senti più leggera sapendo che morirà presto? - continuò Voldemort, avanzando di un altro passo.
“Quindi non è ancora morto? Silente è ancora vivo?”, pensò Ginevra indietreggiando.
Perché non provava sollievo nel sapere che non era morto? Perché sentiva quel peso opprimente dentro di sé? Che cos’era? Rimorso? Rabbia? Sì, rabbia.
Avrebbe voluto ucciderlo lei stessa.
Silente doveva pagare per quello che le aveva fatto.
Gli occhi rossi di Voldemort non si staccavano da lei e il suo sorriso serpentesco si allargò man mano che la distanza tra di loro diminuiva.
Sembrava non avere fretta di raggiungerla. Gli piaceva giocare un po’, con calma.
- Se ti unisci a me… potrai realizzare il tuo desiderio.
Ginevra guardò il Mago Oscuro con sospetto mentre allungava la mano cinerea verso di lei.
Bastava poco per toccarla… veramente poco. Non doveva fare altro che tendere la mano per cogliere la sua offerta. Finalmente poteva sistemare ogni cosa, liberarsi una volta per tutte di Silente, l’uomo che le aveva rovinato la vita.
Ginevra trasalì quando si rese conto che quei pensieri non le appartenevano.
“Ma che cosa sto facendo?”, pensò.
Era davvero così facile da manipolare? Stava davvero per cedere? No. Non doveva lasciarsi tentare dalla vendetta. Ricordò a sé stessa che doveva controllare le proprie emozioni. Dominarle, non lasciarsi dominare.
Anche se a fatica, si costrinse a sostenere lo sguardo del Mago Oscuro. - Vai al diavolo – sibilò a denti stretti.
Anziché scatenare la rabbia, le sue parole ebbero solo l’effetto di accentuare il sorriso di Voldemort. - Continuo a pensare che saresti un’ottima risorsa nella mia schiera.
Avanzò di un altro passo e Ginevra indietreggiò di tre, urtando i bastioni. Perse l’equilibrio. Sentì il terreno mancarle sotto i piedi e cadde all’indietro, precipitando nel vuoto.
Scorse Voldemort le sorrideva dall’alto, facendo capolino dall’orlo della torre. Sembrava divertito.
Si svegliò di soprassalto, in un bagno di sudore, con il cuore che le batteva all’impazzata. Il respiro era affannato e rapido. La camera da letto era buia, illuminata solo dalla luce della luna che filtrava attraverso le finestre, e il silenzio era interrotto solo dal leggero russare di George che dormiva al suo fianco.
Ginevra si tirò su a sedere sul letto e lasciò dondolare le gambe oltre il bordo del materasso. Si passò una mano sul viso per poi passarla tra i lunghi capelli neri le ricadevano scarmigliati sulle spalle.
Inspirò ed espirò, provando a calmarsi.
Ogni volta che chiudeva gli occhi vedeva il sorriso maligno di Voldemort. Era impresso nella sua mente, così come il suono della sua risata. Le dava i brividi.
Il suo non era stato solo un sogno, bensì una premonizione, ne era certa. Si poteva dire che ormai fosse diventata un’esperta in quel campo dopo tutte quelle volte che quelle visioni le avevano dato il tormento, quindi era in grado di riconoscerle anche ad occhi chiusi. Ma per la prima volta, dopo tutti quegli incubi in cui lei era solo una spettatrice incapace di intervenire, aveva notato qualcosa di diverso. Per la prima volta aveva avuto un dialogo con qualcuno all’interno di una premonizione, una cosa che non aveva dei precedenti.
Provò a contattare Entity per avere la conferma di ciò che era successo, ma non l’Essere superiore rimase in silenzio.
Per un breve istante, il dubbio che Voldemort fosse entrato nella sua mente per appropriarsi di Entity, come l’ultima volta al Ministero, si insinuò nella sua mente.
“No. Entity sta bene”, si disse. Dopotutto, se si concentrava abbastanza poteva ancora sentirla. Anche se era un Essere superiore aveva tutto il diritto di dormire anche lei, no?
Non aveva niente di cui preoccuparsi.
Improvvisamente si sentì un rumore sordo provenire dal soggiorno, come di qualcosa che cadeva.
Sobbalzò per lo spavento. Si voltò verso George, ma lui era ancora nel mondo dei sogni e non diede segno di aver sentito il rumore. Era stata una giornata piuttosto impegnativa e stressante per lui in negozio. Aveva bisogno di riposo.
Facendo molta attenzione a non svegliarlo, lasciò il letto e andò a controllare quelle fosse la causa di quel rumore.
L’appartamento era avvolto dal buio.
Con un gesto della mano, Ginevra evocò una piccola fiammella che danzò tra le sue dita, illuminandole il cammino. Purtroppo la sua bacchetta era andata letteralmente in fumo qualche mese prima, durante un piccolo incidente con il fuoco che aveva evocato lei stessa durante un incubo. All’inizio era stato difficile abituarsi, ma con il passare del tempo ogni incantesimo che praticava le veniva naturale quasi come respirare. Non rimpiangeva affatto la bacchetta, non ne aveva più bisogno, e poi sapeva bene come difendersi in caso di un attacco.
Si avvicinò con cautela al soggiorno e, quando vide che una seconda luce che illuminava parzialmente la stanza, la fiammella tra le sue dita si spense; vide Fred seduto sul divano, con Roxanne stretta al petto e il biberon pieno di latte in una mano. Le stava cantando una ninna nanna, sussurrando le parole con voce dolce e calma.
Senza che potesse farne a meno, Ginevra si fermò a osservare la scena, in silenzio, rapita dal dolce suono della voce di Fred e dalla tenerezza di quel momento.
Non ricordava di averlo mai sentito cantare. A volte stonava un po’, ma aveva comunque una voce bellissima.
Sorrise, era un lato di lui che non conosceva e cominciava a piacerle. Si domandò se anche George sapesse cantare in quel modo e la voglia di testare quella sua dote si insinuò tra le sue fantasie.
Era felice di vedere che Fred si era abituato senza problemi al suo nuovo ruolo di padre; Roxanne era tranquilla e serena ogni volta che si trovava tra le sue braccia. Erano uno spettacolo dolcissimo.
Colta da un’improvvisa curiosità, Ginevra si avvicinò piano al divano e si sedette in un angolo.
Fred la guardò, sorpreso, ma non smise di cantare. Le fece un cenno di saluto con la testa e le sorrise.
Lei ricambiò il sorriso. Si portò le gambe al petto e restò lì, ad ascoltare il suono della sua voce, incantata dal modo in cui guardava la piccola Roxanne. Nonostante il carattere un po’ focoso e folle, Fred era sempre stato un ragazzo premuroso e gentile, e da quando Roxanne era entrata nelle loro vite, tre settimane prima, si era dedicato a lei con tutto sé stesso nonostante stesse affrontando il tumulto di emozioni che era dentro di sé. Sembrava disposto a fare qualsiasi cosa per la sua bambina, persino a mettere il dolore in secondo piano, e Ginevra non poteva fare a meno di ammirarlo.
Aveva una grande forza.
La ninna nanna si concluse, e Roxanne iniziò a sonnecchiare dolcemente. Fred la baciò sulla fronte e la mise nella culla che aveva fatto levitare fin lì con un colpo di bacchetta.
Tornò a sedersi sul divano, buttò la testa all’indietro e sospiro, stanco.
- Va tutto bene? – gli domandò Ginevra a bassa voce per paura di svegliare la bambina.
Lui annuì. - E tu? Come mai sei sveglia? - sussurrò lui in risposta.
- Avevo sentito un rumore – rispose con un’alzata di spalle. Non voleva parlargli dell’incubo. Fred aveva già abbastanza problemi per conto suo, non era giusto caricargliene altri senza motivo.
Un imprecazione gli sfuggì dalle labbra. - Scusa. Non volevo svegliarti. Quando Roxanne ha iniziato a piangere mi sono messo a cercare la bacchetta per fare un po’ di luce, ma non ricordavo dove l’avevo lasciata e il buio non ha aiutato – spiegò lui. - Poi sono andato a sbattere contro il tavolino.
Con un cenno della testa indicò il tavolino sul quale era adagiata la bacchetta che illuminava ancora una parte della stanza.
Ginevra sorrise. - Non preoccuparti - disse. - Capita a tutti di sbattere contro qualcosa nel buio.
La flebile luce della bacchetta illuminò il viso stanco di Fred e con esso un sorriso appena accennato. - Ricordo che una volta hai sbattuto contro un albero, ma sono certo che fosse giorno.
Ginevra aggrottò la fronte. - Sei sicuro? Io non ricordo.
Mentiva e lui lo sapeva bene, ma quel giorno era stato talmente imbarazzante che preferiva non parlarne. Il ricordo di quel giorno era impresso nella sua mente: era un giorno come tanti alla Tana, quel giorno era decisa a salire per la prima volta alla guida di una vera scopa e non voleva fare brutta figura, soprattutto davanti a Fred e George che, era certa, l’avrebbero presa in giro in eterno se solo avesse fallito. Sua cugina Nymphadora si era offerta di farle da mentore e le aveva dato istruzioni precise, ma lei non riusciva a concentrarsi.
Il suo sguardo si posava sempre verso il giardino della Tana, dove Charlie, uno dei fratelli maggiori dei gemelli, si stava allenando. Allora lei aveva una gran cotta per lui. Era alto e atletico, con capelli rossi e occhi verdi. Quel giorno, indossava una canottiera che metteva in mostra i muscoli e per lei era uno spettacolo imperdibile. Ma, a causa di quella sua distrazione, la scopa era finita contro un albero e lei era rimasta con la testa dolorante per due settimane.
Fred continuò: - Era un giorno di sole, e se mi concentro abbastanza ti vedo ancora urlare contro a quel povero albero.
Lei abbassò lo sguardo, imbarazzata. - Va bene, è successo. Ma non è stata colpa mia.
- Oh, lo so, lo so – insinuò lui. - È colpa dell’albero se si è spiaccicato contro la tua faccia, dico bene?
- Non ricordo niente del genere.
- Io sì ed è stato divertente.
Scoppiò in una risata silenziosa e lei non poté fare a meno di sorridere.
Era bello rivedere il vecchio Fred.
- Oh, ricordi quel giorno in cui sei caduta nel ruscello? O di quando sei inciampata tra i gradini del terzo piano e sei scapicollata fino al secondo per miracolo?
- Ehi! - ribatté lei, assestandogli un buffetto indispettito sul braccio. - Non c’è bisogno di sfottere.
Fred alzò gli occhi al soffitto scuotendo il capo, divertito. - La solita imbranata con i piedi tondi.
Continuarono a parlare e ridere, mantenendo sempre un tono basso per non svegliare Roxanne che dormiva nella culla. Ginevra non ricordava nemmeno quand’era stata l’ultima volta che lei e Fred avevano scherzato serenamente. Gli era davvero mancato.
Per Fred era tutto merito di Roxanne se non si era lasciato trasportare dalle emozioni negative ed era tornato a sorridere. Era la sua bambina, era parte di lui, era il suo futuro, la sua priorità, la sua ragione di vita. Per lei avrebbe cercato di essere il padre migliore del mondo, per lei avrebbe fatto persino i salti mortali per farla sorridere. Per lei, lo seppe con certezza, avrebbe dato la vita.
Dovette lottare contro l’istinto di prenderla di nuovo in braccio e cullarla quando la sentì agitarsi nel sonno, anche se si era trattato di un’istante.
Tra lui e Ginevra cadde il silenzio e entrambi si soffermarono ad osservare la bambina, ognuno con occhi carichi di tenerezza; Roxanne aveva appena sbadigliato.
Lo sguardo di lei si spostò appena su Fred e notò i suoi occhi farsi lucidi mentre un mezzo sorriso sghembo appariva sulle sue labbra.
- Sai – sussurrò, rompendo il silenzio. - Roxy è fortunata ad avere un padre come te.
Fred si voltò a guardarla e arrossì quando vide il sorriso di lei farsi più affettuoso che mai.
Il cuore, che fino ad allora sembrava essersi perso nel nulla, iniziò a battergli sempre più in fretta, come se fosse appena sfiorato dalla scarica di un fulmine.
Deglutì a vuoto, sentendo la bocca improvvisamente arida. Non capiva cosa stava succedendo, il perché provasse quella strana sensazione.
- Cerco di fare del mio meglio – disse.
Ginevra si avvicinò a lui e lo abbracciò. - Be’, allora sappi che ci riesci benissimo.
Fred la strinse a sé senza alcuna fretta di lasciarla andare. Affondò il viso nella tenera curva del suo collo e ne inspirò il profumo come se fosse quello fosse il suo ultimo respiro, mentre qualcosa dentro di lui riprendeva vita.
“No. Non di nuovo”, pensò. “Non posso cascarci un’altra volta”.
- Grazie, Gin.
Il cuore batteva talmente forte da fargli temere che lei potesse sentirlo. Che potesse sentirlo battere di nuovo per lei.
- Per me significa molto.

A molte miglia di distanza, la notte era avvolta da una fredda nebbia che serpeggiava tra le file di case di Spinner’s End. Era un luogo piccolo e tranquillo. L’aria era fresca, e l’unico suono udibile era quello degli irrigatori che spruzzavano acqua sui prati verde smeraldo di ogni vialetto. Il vento soffiava leggero attraverso gli alberi e gli abitanti di Spinner’s End erano rintanati nella penombra delle loro case fresche, con le finestre spalancate godendosi la brezza che entrava mentre loro dormivano tranquilli nei loro letti. La sola persona rimasta sveglia in tutto il quartiere era un uomo che, non trovando modo di chiudere occhio, quella notte si era deciso a occupare la vecchia poltrona in soggiorno, in compagnia di un buon libro, lasciando che il tempo scorresse.
Era un uomo magro, dalla pelle giallastra, naso lungo e adunco e con lunghi capelli neri. Vestiva sempre di nero e, il più delle volte, i vicini lo avevano paragonato a un grosso pipistrello, il che non lo rendeva caro ai loro occhi. Infatti l’aspetto di Severus Piton incuteva sempre un certo timore, ma a lui non importava ciò che pensava la gente di lui. Si trovava bene nella sua solitudine e andava bene così.
Il minuscolo soggiorno in cui si trovava dava l’idea di una cella ovattata d’oscurità, l’unica fonte di luce proveniva dall’abat-jour sul tavolo traballante, accanto alla poltrona. I muri erano completamente ricoperti di libri, la maggior parte dei quali rilegati in vecchia pelle nera o marrone; un divano consunto sostava di fronte alla poltrona e sul soffitto galleggiava un lampadario a candele, spento. Il posto aveva un’aria di abbandono, come se non fosse usualmente abitato. Ma non c’era tanto da stupirsi: Severus trascorreva molto più tempo a Hogwarts che in quella casa.
In realtà lui odiava quella casa con tutto sé stesso, si sentiva come in una prigione ogni qual volta era al suo interno. Sarebbe rimasto volentieri a Hogwarts anche durante il periodo estivo, proprio come negli anni precedenti, se non fosse stato pericoloso per la propria copertura.
Il Signore Oscuro aveva bisogno di averlo vicino, nel caso in cui avesse avuto bisogno di lui e Silente aveva bisogno di tutte le informazioni possibili riguardo ai movimenti del nemico, quindi lo aveva incoraggiato a rimanere in quella casa.
Severus sospirò.
Odiava anche fare il doppio gioco.
Per sua fortuna le valigie lo aspettavano lì, accanto alla libreria, pronte alla partenza per l’indomani.
Hogwarts era l’unico luogo in cui poteva dormire sogni tranquilli senza aspettarsi la chiamata improvvisa e dolorosa del Signore Oscuro e senza convivere la perenne ansia di essere scoperto.
D’un tratto sentì un forte bussare alla porta.
Non si aspettava di ricevere alcuna visita, soprattutto a quell’ora scellerata, ma chiunque fosse sembrava impaziente di farsi ricevere.
Ripose il libro sul tavolo, lasciò il soggiorno e raggiunse la porta.
Aprì uno spiraglio, trovando una figura incappucciata al di là della porta. Era un uomo alto, magro e con un lungo mantello nero che gli copriva il corpo; tirò indietro il cappuccio, mostrando il proprio volto: folti capelli castano ramato, baffi e barba curata del medesimo colore.
Guardandolo, Severus non riuscì a trattenersi dal corrugare la fronte.
- Rodolphus! - disse, aprendo un po’ di più la porta. - A cosa devo la sorpresa?
Senza attendere l’invito ad entrare, Rodolphus Lestrange varcò la soglia.
- Come fai a vivere in questo letamaio popolato da babbani, Piton? - sbottò seccamente mentre gli passava davanti.
- Prego, entra pure – borbottò sardonico Severus, con la bocca appena piegata in un sorrisetto sprezzante mentre chiudeva di scatto la porta dietro di sé.
Rodolphus aveva già raggiunto il minuscolo soggiorno.
Piton indicò al suo ospite il divano, invitandolo ad accomodarsi. Rodolphus si tolse il mantello e lo gettò da una parte, ma non si sedette. Preferì rimanere in piedi e puntare dritto sulla bottiglia di vino sul tavolo traballante. Si versò il vino rosso sangue nel bicchiere, ingollandolo tutto d’un fiato, ma non prima di sibilare in tono di disprezzo: - Babbani… Che schifo.
Per quanto quel modo di fare lo innervosisse molto, Severus non disse nulla. Si limitò a sistemarsi nella poltrona che aveva occupato fino a un attimo prima, domandando: - Allora, cosa posso fare per te?
La risposta non tardò ad arrivare. - Voglio sapere dove lo nascondi.
- Nascondere chi?
Rodolphus si voltò a guardarlo, torvo. - Sai benissimo che sto parlando di quel rammollito di mio nipote!
- E perché Draco dovrebbe essere qui?
- Non fare il furbo con me, Piton – lo ammonì Rodolphus in un ringhio sommesso, selvaggio. Avanzò verso di lui con il bicchiere di vino di nuovo pieno. - Allora, dov’è?
Nonostante il temperamento collerico e il tono imperioso che aveva appena usato il suo ospite, Severus non si scompose. Anzi sembrava perfino divertito. - Non so proprio di cosa tu stia parlando.
Rodolphus schioccò la lingua. - Non mi fido di te, Piton, come tu ben sai!
- Come mai non ti fidi di me?
- Per un centinaio di ragioni! - Disse lui ad alta voce, camminando a grandi passi da dietro il divano fino a sbattere il bicchiere sul tavolo. - Da dove iniziare! Dove eri quando l’Oscuro Signore è caduto? Perché non facesti alcun tentativo di trovarlo quando sparì? Che cosa hai fatto in tutti questi anni in cui sei vissuto all’ombra di Silente? Perché hai impedito al Signore Oscuro di procurarsi la Pietra Filosofale? Perché non sei tornato subito quando l’Oscuro Signore è rinato? Dove eri qualche settimana fa, quando abbiamo combattuto per recuperare la profezia per il Signore Oscuro? Dov’eri quando hanno ammazzato mia moglie? - la sua voce s’incrinò solo per un brevissimo istante. Agitò le braccia in aria, come a voler scaraventare qualcosa contro il muro, ma le sue mani erano vuote. I suoi occhi si velarono di lacrime.
Sembrava un bambino a cui avevano appena strappato via il suo giocattolo preferito.
Severus provò quasi pena per lui.
Quasi.
Era risaputo che Rodolphus Lestrange provasse un’amore morboso e malato nei confronti della propria moglie. Era sempre stato ossessionato dall’idea di renderla felice. Bellatrix, ovviamente, aveva sempre approfittato della situazione, ben sapendo che il marito avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei, pur di stupirla.
Tutti quegli anni rinchiusi ad Azkaban non avevano di certo aiutato ad attenuare il livello di follia di entrambi.
Quando lei era morta Rodolphus era esploso dalla rabbia e, nonostante Severus non fosse presente quel giorno tra le schiere dei Mangiamorte, la voce di ciò che era successo si era sparsa a macchia d’olio.
Aveva torturato e ucciso senza pietà tanta di quella gente che era impossibile tenere il conto. Un vero massacro.
Rodolphus tornò ad urlare, come un ossesso. Il petto saliva e scendeva rapidamente, le guance arrossate, ma Piton non diede più ascolto ai suoi sproloqui.
Gli sorrise. - Prima di risponderti… - cominciò Piton, - lasciami fare una domanda a mia volta. Pensi veramente che il Signore Oscuro non mi abbia rivolto, una per una, tutte queste domande? E pensi veramente che, se non avessi potuto dare risposte soddisfacenti, io sarei seduto qui a parlare con te?
Rodolphus esitò. Poi, il suo volto si contrasse in espressione rabbiosa. Lo afferrò fermamente per le spalle, schiacciandolo contro la poltrona in modo da guardarlo dritto in faccia. Severus non si scompose, restò impassibile.
- Sei solo un lurido Mezzosangue… un traditore...
- L’Oscuro Signore si fida di me.
- L’Oscuro Signore si sbaglia.
- Pensi che stia facendo un errore? - domandò Severus in un sorriso divertito. - O che io l’abbia in qualche modo raggirato? Imbrogliato il Signore Oscuro, il più grande mago, il più abile Legilimens che il mondo abbia mai visto?
Rodolphus non disse niente, evidentemente credeva che fosse oltremodo assurdo che Severus avesse gabbato il Signore Oscuro, l’uomo che lui e Bellatrix veneravano come un dio!
Per la prima volta, mostrò un’aria di sconfitta. Liberò Severus dalla morsa e riprese il suo bicchiere di vino, diede un sorso ma non senza fumare di rabbia.
Le labbra di Severus erano ancora tese in un sorriso.
Aveva vinto anche quel round. Ma per quanto ancora poteva resistere con tutta quella manfrina? Erano anni che si prestava a quel gioco contorto in cui Silente e Voldemort si ostinavano a schierarlo in prima linea come una pedina sacrificabile.
Era stanco ma, pur di fare ammenda dei propri errori del passato, era disposto a tutto.
- Tu chiedi dove ero quando il Signore Oscuro cadde – disse, soavemente, pronto a recitare la parte come il miglior attore. Il copione lo conosceva a memoria, ormai. Mentire in maniera convincente era la cosa che gli veniva meglio da sedici anni. - Ero lì dove egli mi aveva ordinato di essere, alla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, perché voleva che spiassi Albus Silente. Tu Sai, immagino, che ho preso il posto per ordine del Signore Oscuro?
Rodolphus annuì impercettibilmente e poi aprì la bocca, ma Severus lo anticipò.
- Tu chiedi perché non ho cercato di trovarlo quando sparì. Per le stesse ragioni di Avery, Yaxley, i Carrows, Greyback, Lucius e molti altri non cercarono di trovarlo. Ho pensato che fosse finito.
- Ma potevi unirti a me, Bellatrix, Barty e Rabastan! - lo interruppe Lestrange, sputando acido. - Noi non ci siamo mai arresi, a differenza di voi miscredenti!
- Non ne vado fiero – disse Severus, - mi sbagliavo, ma è così… se lui non avesse perdonato coloro che persero la fede in quei momenti, gli sarebbero rimasti ben pochi seguaci.
- Avrebbe ancora me! - disse Rodolphus appassionatamente. - Me, che ho passato tanti anni ad Azkaban per lui!
- Sì, è vero, decisamente ammirevole - disse Piton con voce annoiata. - Naturalmente, non è che in prigione tu gli sia stato di grande aiuto, ma il gesto è stato bello, senza dubbio…
- Il gesto! - gridò lui; nella furia sembrava quasi impazzito. - Mentre io sopportavo i Dissennatori, tu sei rimasto a Hogwarts, a fare il cocco di Silente! Probabilmente ti sbattevi anche qualche bella studentessa mentre tutti noi pagavamo per la causa!
Severus alzò gli occhi al cielo e scosse la testa, reprimendo il disgusto di fronte a quelle parole.
Il pensiero di Rodolphus non era cambiato in tutti quegli anni. Per lui ogni donna, ad eccezione della moglie, ovviamente, serviva solo a soddisfare le proprie esigenze fisiche. Un oggetto e niente di più.
- Non è come pensi - disse Piton con calma. - Silente non mi ha mai voluto assegnare la cattedra di Difesa Contro le Arti Oscure, sai. Sembrava pensare, ah, che questo potesse portare ad una ricaduta… riportarmi indietro sui miei passi.
- Questo è stato il tuo sacrificio per il Signore Oscuro, non insegnare la tua materia preferita? - lo beffò lui, ingollando un altro bicchiere stracolmo di vino. - Perché sei rimasto lì tutto quel tempo, Piton? Stavi ancora spiando Silente per un padrone che credevi morto?
- Niente affatto, - disse Piton, - anche se il Signore Oscuro è compiaciuto del fatto che io non abbia mai abbandonato il mio posto: avevo sedici anni di informazioni su Silente da dargli quando lui è tornato, un regalo di bentornato ben più utile dell’incessante ricordo di quanto Azkaban sia spiacevole…
- Ma tu sei rimasto…
- Sì Rodolphus, io sono rimasto - disse Severus, tradendo un filo d’impazienza per la prima volta. - Avevo un lavoro comodo che ho preferito alla detenzione ad Azkaban. Stavano rastrellando tutti i Mangiamorte, come sai. La protezione di Silente mi ha tenuto fuori di prigione, era estremamente conveniente e me ne sono servito. Ripeto: il Signore Oscuro non si lamenta del fatto che rimasi al mio posto, quindi non vedo perché lo faccia tu.
Rodolphus sbuffò rabbioso e accantonò il bicchiere per servirsi direttamente dalla bottiglia di vino, ormai semivuota.
Severus continuò a raccontare e lui a interrompere ogni qual volta trovava assurda una risposta, in un botta e risposta tra il rabbioso e il pacato.
La recita dell’insegnante di Pozioni, da bravo Mangiamorte fedele che torna dal suo padrone donandogli informazioni preziose, era inoppugnabile tanto che persino il Signore Oscuro in persona aveva finito per crederci.
Per qualche strana ragione, però, Rodolphus continuava a essere restio dal credere alle sue parole. Che fosse più sveglio di quanto credesse? Severus ne dubitava fortemente, ma era meglio non abbassare la guardia.
Alla fine Rodolphus si stravaccò sul divano e puntò il suo sguardo scuro e penetrante sul suo ospite.
- La tua storia è molto bella, Piton – disse. - Ma non mi hai ancora detto perché non eri presente quando i tuoi amichetti hanno ammazzato la mia Bella.
- I miei ordini erano di rimanere indietro - disse Severus. - Il Signore Oscuro ha pensato bene di far mantenere la mia copertura, altrimenti Silente si sarebbe accorto se avessi unito le mie forze ai Mangiamorte per combattere l’Ordine della Fenice. E poi, perdonami, tu parli di pericolo… stavate fronteggiando nove adolescenti, non è vero?
Rodolphus storse la bocca come se, anziché del vino, avesse appena preso una sgradevole dose di medicina. Poi lanciò la bottiglia di vetro, ormai vuota, dall’altro lato della stanza lasciando che si frantumasse in tanti pezzettini.
- Non sfottere – lo ammonì, furioso. - L’Ordine è piombato all’improvviso, come ben sai. Erano troppo forti e superiori di numero. Per quanto io ti ritenga un inetto ci saresti stato molto utile in battaglia!
- Sono lusingato - disse Piton ironico.
- Comunque non ha più importanza – disse Rodolphus. - Ora che sappiamo dove si trova il Quartier Generale dell’Ordine, li ripagheremo con la loro stessa moneta. Ammazzerò il cane che mi ha portato via Bella – ringhiò a denti stretti.
Severus sgranò gli occhi, tradendo il proprio sgomento.
- Come fate a sapere dove si trova?
Rodolphus sogghignò, soddisfatto. - Grazie a quel bastardello di mio nipote, ovviamente.
“Draco?”, pensò Severus, confuso. “Ma non è lui il Custode Segreto. A meno che...”.
- Oh, giusto. Tu non c’eri… - gongolò, Rodolphus. Finalmente c’era qualcosa in cui Severus era allo scuro. Si tirò su dal divano e iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza, mettendo su un sorriso nefasto. - Uno di noi ha avuto un’informazione preziosa che il Signore Oscuro non poteva farsi scappare. Vedi, la cosa è semplice! Draco, al contrario di te, sapeva benissimo chi era il Custode Segreto e gli è stata anche rivelata la posizione esatta del Quartier Generale, quindi per dimostrare la mia devozione, ho portato il ragazzo da lui. Non ha retto nemmeno dieci minuti e ha tradito i suoi amichetti dell’Ordine. Ora è solo questione di tempo, dobbiamo solo aspettare il segnale del Signore Oscuro. Presto faremo fuori tutti quei bastardi e tu ne prenderai parte.
Severus mostrò un sorriso di circostanza, il più convincente del suo repertorio, mentre nella sua mente vagavano mille dei pensieri peggiori che potesse coniare.
Il Custode Segreto era Ginevra Black, ed erano davvero in pochi a conoscere la verità. Era stata avvertita di non rivelare a chiunque la posizione esatta del Quartier Generale, ma evidentemente non aveva dato ascolto a nessuno e aveva coinvolto il giovane Malfoy nella vicenda.
La domanda che Severus continuava a porsi senza trovare risposta, però, era come facesse Rodolphus a sapere che Draco Malfoy fosse a conoscenza della posizione del Quartier Generale dell’Ordine. C’era forse una talpa nell’Ordine?
- Ora che ci penso – disse, sovrappensiero. - Perché credevi che tuo nipote fosse qui?
Rodolphus allargò le braccia e sogghignò. - Perché è sparito. E ovviamente, essendo tu il suo padrino, cosa alla quale io mi ero opposto energicamente al tempo, se ben ricordi, ho pensato che lo nascondessi qui, in questa… casa – disse calcando l’ultima parola con disprezzo. - Quello lì è un indisciplinato, un rammollito, proprio come suo padre… Ho provato a raddrizzarlo e fargli capire chi comanda, ma alla fine mi è sfuggito. Riesci a crederci? È scappato come un ladro dalla sua stessa casa!
Ma Severus non stava più ascoltando; il suo pensiero era diretto al povero Draco.
In passato aveva avuto la sfortuna di assistere ad ogni tipo di tortura che il cervello di Rodolphus era capace di generare e poteva solo immaginare cosa aveva fatto a quel povero ragazzo. Rodolphus si vantava persino di averlo “raddrizzato”…
Sospirò. Era un miracolo se Draco era riuscito a sfuggirgli.
Ma dov’era andato? Al Quartier Generale? Doveva indagare, ma doveva stare attento a non farsi scoprire da Rodolphus o da chiunque seguisse i suoi movimenti. Perché era certo che, per quanto il Signore Oscuro sostenesse di avere piena fiducia in lui, qualcuno lo teneva d’occhio.
Erano mesi che sentiva lo sguardo di qualcuno su di sé. Lo stavano sorvegliando giorno e notte. Fare l’indifferente era la scelta migliore, sperava solo che una volta a Hogwarts quell’incubo avrebbe avuto fine.
- Ho pensato che tu dovessi conoscere il piano – disse Rodolphus a un certo punto, attirando nuovamente la sua attenzione. - Dopotutto è strano che il Signore Oscuro non ti abbia ancora messo a parte del piano, dato che ha così tanta fiducia in te… che sei il suo preferito, il suo consigliere più fidato…
Il volto di Rodolphus mostrò una fugace espressione di soddisfazione.
- Tu conosci il piano, non è vero?
- Evidentemente no – disse Piton.
- Be’, se il Signore Oscuro non ti ha rivelato nulla, vuol dire che non ha poi così tanta fiducia in te, non trovi?
In preda a una collera del tutto nuova, Severus scattò in piedi come una molla e lo fronteggiò. - Cosa hai fatto a quel povero ragazzo, Lestrange? - sibilò a denti stretti.
- Quel “povero ragazzo”, come lo chiami tu, dovrebbe essere fiero dell’onore che gli ha riconosciuto il Signore Oscuro - disse Rodolphus con indifferenza.
Severus strabuzzò gli occhi quando capì a cosa si stava riferendo. - Lo ha marchiato?
- Perché questo tono sorpreso? - domandò, beffardo. - È il tuo figlioccio. Sii fiero di lui!
Fiero? Era tutt’altro che fiero!
Draco aveva sempre espresso il suo disgusto per tutto ciò in cui credevano i suoi zii e suo padre, Severus lo sapeva bene. Era sempre stato il suo confidente, fin da quando era un bambino. Da quando Draco aveva visto il Marchio Nero tatuato sul braccio di Lucius, di Bellatrix e Rodolphus, era entrato nel panico. La sola idea di ricevere quella condanna sulla propria pelle lo spaventava a morte.
Improvvisamente Severus si sentì come se lo avesse tradito. Diventando suo padrino aveva promesso di proteggerlo da ogni male e di essere sempre al suo fianco nel momento del bisogno… Aveva già fallito una volta, in passato, quando Lucius aveva iniziato a picchiarlo. E aveva fallito ancora una volta.
- Il Signore Oscuro è molto felice - disse con calma Lestrange, riacquistando l’attenzione di Severus. - Adesso che ha potuto ascoltare la profezia sembra molto più tranquillo. È tutto calcolato e niente può andare storto.
La profezia.
Severus l’aveva quasi dimenticata.
Da quando Voldemort era riuscito a prenderne possesso, quel giorno al Ministero, era al settimo cielo.
- Qual è il piano? - si azzardò a domandare.
Per sua sfortuna Rodolphus non era uno sprovveduto. - Sei pazzo se credi che io te lo riveli – disse, per poi gonfiare il petto con orgoglio. - No, il Signore Oscuro mi ha ordinato di non dire niente a nessuno… Desidera che nessun altro, a parte me, conosca il piano. Scommetto che sei geloso, eh, Piton? Non ti biasimo. Fino a un attimo fa ti vantavi di essere il favorito del Signore Oscuro, mentre adesso sei rimasto con niente se non il tuo ego ferito.
Gli girò intorno, osservandolo, senza smettere un attimo di camminare. Severus restò immobile, senza mai abbassare la guardia, pronto nell’eventualità di un attacco improvviso.
- Stranamente mi sento caritatevole – enunciò Rodolphus, improvvisamente. - Se prometti di non dire nulla al Signore Oscuro, ti rivelerò una parte del piano.
- Non sto più nella pelle – mormorò Severus, sarcastico.
Dubitava che Rodolphus potesse dargli una vera informazione su un piano super segreto. Ma il suo umore era talmente imprevedibile, a volte, che la probabilità che dicesse il vero poteva anche essere alta.
Rodolphus arrestò il passo, piazzandosi proprio davanti a lui. Il suo sorriso furbo si ampliò, una strana e folle luce nei suoi occhi lasciò intendere che aveva qualcosa in mente. Qualcosa di oscuro. - Ho un infiltrato, a Hogwarts – disse. - Ma non sono così stupido da rivelarti la sua identità. Con il suo aiuto potremo finalmente liberarci di Albus Silente, una volta per tutte!
Severus sembrò paralizzarsi. Il sangue gli si raggelò nelle vene. Non era nemmeno sicuro di respirare.
Un infiltrato a Hogwarts… Era la notizia peggiore che potesse dargli.
- Finalmente sarai libero – disse Rodolphus. - Non sei contento?
Silente era spacciato.
Lo erano tutti loro.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 - SITUAZIONI DIFFICILI ***


Capitolo 9 - Situazioni difficili

Tornare a Hogwarts non fu tanto facile, specialmente per Draco Malfoy. Lui rimpiangeva con amarezza i giorni trascorsi alla Tana: in quelle poche settimane era riuscito a svuotare la mente e dimenticare ciò che gli era successo... o almeno ci aveva provato.
Non c'era stato un giorno in cui la signora Weasley non lo avesse rimpinzato di cibo e affetto; era una donna meravigliosa e le era molto grato per averlo accolto in casa trattandolo come un figlio. Aveva passato tanto di quel tempo con Ron, Harry e Ginny a giocare a Quidditch, a ridere e scherzare con loro, da non averne avuto mai abbastanza; aveva persino imparato a smontare e rimontare oggetti Babbani insieme al signor Weasley, scoprendosi un appassionato quasi quanto lui.
Era grazie a tutti loro se non era impazzito, ma se c'era qualcuno a cui doveva essere davvero grato era Hermione. Ogni istante con lei era il suo preferito.
La notte sgattaiolavano fuori dai loro letti per incontrarsi in giardino e si sdraiavano sul prato a guardare il cielo stellato, l'uno di fianco all'altra.
Era come trovarsi in una bolla, isolato dal resto del mondo: quando Hermione era al suo fianco non esisteva nessun un mago Oscuro, nessun Lucius, né Rodolphus... niente dolore, niente morte e distruzione. C'era solo Hermione, l'unica con il potere di farlo stare bene.
Con lei il tempo sembrava fermarsi.
Una volto tornato ad Hogwarts, però, quella bolla era esplosa e la realtà si era ripresentata con prepotenza.
Nonostante fossero passate settimane, ogni studente che incrociava il suo cammino lo fissava proprio come il primo giorno: occhi sgranati, attoniti, e bocca spalancata.
Proprio come temeva, il suo volto ricoperto di cicatrici aveva attirato molto l'attenzione. Al banchetto, sentiva su di sé gli occhi di tutti. Non si parlava d'altro. Persino la notizia che il professor Piton fosse diventato il nuovo insegnante di Difesa contro le Arti Oscure era passato in secondo piano.
Alcuni dei suoi compagni, come i Serpeverde, non si erano curati nemmeno che lui fosse a portata d'orecchio o meno quando avevano cominciato a sparlare di lui, inventando le teorie più assurde su come si era procurato quelle ferite. Nessuno, a parte, Theodore Nott, Blaise Zabini e Daphne Greengrass, si erano preoccupati di chiedergli: "Come stai? Va tutto bene?", non che a lui importasse davvero sentire quelle parole.
Man mano che i giorni passavano, le sue cicatrici suscitavano sempre più sussurri e domande non richieste. Alcuni studenti se ne uscivano con battute come: " - Ehi, Malfoy, che ti è successo? Un Purvincolo ti ha abbracciato la faccia?", o "Hai appena iniziato a raderti? Dovresti fare più attenzione!".
Era in quei momenti che si sentiva un mostro, uno scherzo della natura, e quando sentiva le loro risate, inevitabilmente, nella sua testa si presentava anche Rodolphus. Se chiudeva gli occhi poteva sentire anche la sua risata in mezzo alle altre, la più spietata tra tutte.
Provò a pensare ai bei momenti trascorsi a casa Weasley e a ignorare tutte quelle risate e il dolore che esse procuravano, ma era troppo difficile.
- Ehi, sfregiato! - lo salutò un Serpeverde del suo stesso anno, quando lo vide passare per il corridoio.
- Sei solo un coglione, Higgs! - lo berciò Daphne, furiosa, intrecciando il braccio a quello del suo migliore amico. - Lascialo perdere, Drake.
- Non l'ho nemmeno sentito. Ha detto qualcosa? - mentì spudoratamente e Daphne lo sapeva.
Nonostante provasse un gran tuffo al cuore, Draco abbozzò un mezzo sorriso e abbassò lo sguardo.
Non sapeva che, alle sue spalle, ci fossero Blaise e Theodore che lanciarono una fattura Orcovolante contro Higgs. Così come non sapeva che Harry, Ron, Hermione e Ginny si erano inimicati tutti coloro che si azzardavano a prendersi gioco di lui. Tutti loro erano disposti a tutto pur di proteggerlo e difenderlo dalle malelingue e da sé stesso.
Una volta raggiunti i sotterranei, i quattro Serpeverde, così come il resto degli studenti, si accorsero che l'aula era insolitamente già piena di vapori e strani odori. Annusarono interessati passando a distanza da alcuni calderoni fumanti. Si formarono delle coppie e, quando arrivò Hermione, Daphne le cedette il posto al fianco di Draco. Le due ragazze si scambiarono un sorriso e uno sguardo che Draco non notò, perché era troppo impegnato a combattere con le voci e le risate nella sua testa.
- Ciao – lo salutò la Grifondoro con un bacio sulla guancia.
Draco ricambiò il saluto con sorriso appena accennato.
Tuffò la testa dentro la borsa a tracolla, fingendo di cercare qualcosa di importante. Non voleva che lei vedesse quanto tutto quello schifo lo stesse lentamente spezzando.
La mano di Hermione trovò quella di lui e la accarezzò, lentamente. Draco si voltò a guardarla, gli occhi di lei sembravano dire: "Sono qui. Non ti lascio solo. Ce la faremo, insieme".
Prima che potesse dirle alcunché, la porta del sotterraneo si aprì e il nuovo insegnante di Pozioni varcò la porta. Il professor Horace Lumacorno era un uomo anziano, ma dall'aria arzilla. Di bassa statura e tarchiato, i suoi grandi baffi grigi da tricheco gli incorniciavano il viso paffuto. L'odore di tabacco e di libri vecchi lo avvolgeva come una nuvola, e i suoi occhi azzurri brillavano di entusiasmo mentre si presentava alla classe, salutò con particolare entusiasmo Harry.
All'inizio Draco non vi prestò molta attenzione, ma il calderone che lui e Hermione condividevano emetteva degli odori più allettanti che lui avesse mai sentito: era qualcosa che gli ricordava insieme la torta al cioccolato appena sfornata, l'odore della pergamena nuova, e l'odore dolce e inebriante di Hermione...
Capì in fretta di trovarsi di fronte a l'Amortentia, il filtro d'amore più potente del mondo. Si diede dello stupido per non averla riconosciuta subito per il suo aspetto madreperlaceo.
Scoprì che stava respirando molto lentamente e profondamente i fumi della pozione, con l'intento di imbrigliare quelle dolci sensazioni che gli regalava. Era davvero piacevole.
Guardò Hermione.
A giudicare dalla sua espressione divertita, anche lei aveva intuito di che pozione si trattasse. Si sorprese a sorridere per il modo in cui aveva arricciato il naso.
Anche senza fare il minimo sforzo, Hermione era in grado di farlo sorridere. Lei era pura magia.
Draco non poté fare a meno di chiedersi quale fosse l'odore che Hermione sentiva nella sua Amortentia, quali fossero gli odori che l'attraevano di più e se, tra di essi, fosse presente il suo.
- Bene, bene, bene - disse Lumacorno, il cui profilo massiccio tremolava fra lo scintillio dei vapori. - Tirate fuori le bilance, tutti, e gli ingredienti per le pozioni, e non dimenticate la vostra copia di Pozioni Avanzate...
Mentre Harry scambiava qualche parola con il professore, Draco non riuscì a resistere dal piegarsi leggermente verso Hermione e sussurrarle all'orecchio: - Sento il tuo odore.
La vide tremare dolcemente e arrossire.
- Il mio odore? - domandò, incrociando il suo sguardo, mentre un sorriso meraviglioso le curvava le labbra.
Draco annuì, subito contagiato dal sorriso. - Il tuo profumo mi fa impazzire. È unico e lo riconoscerei ovunque: è dolce, caldo e avvolgente come te – le sussurrò roco.
Le posò un bacio sul collo e la sentì rabbrividire di piacere sotto il suo tocco.
- E tu cosa senti? - domandò ancora.
- Anch'io sento il tuo odore – rispose mordendosi il labbro inferiore con voluttà.
Draco alzò un sopracciglio, mostrando un'evidente interesse. Le cicatrici bianche sul suo viso si incresparono quando le sorrise.
Hermione si sporse verso il calderone e ne inspirò il contenuto. - Io sento il profumo delle mele, dell'erba appena tagliata, della cera delle candele che si scioglie e la cannella.
Il sorriso di Draco si ampliò notevolmente. Si chinò nuovamente su di lei per rubarle un bacio sulle labbra. - Non sai quanto ti desidero, in questo momento – le sussurrò, sfiorandole la guancia con la punta del naso.
Lei emise un mugolio di piacere che non era riuscita a trattenere.
- Ha detto qualcosa, signorina Granger? - le domandò il professore, curioso, avvicinandosi al loro tavolo.
Quando Hermione si rese conto di aver attirato l'attenzione dell'intera classe, sgranò gli occhi e le sue guance si colorarono per l'imbarazzo. Draco soffocò una risata e si allontanò in fretta dal suo viso, ma con la coda dell'occhio lei poté vedere uno dei sorrisi più belli del ragazzo.
Nonostante si stesse divertendo a sue spese, lei non poté fare a meno di trovarlo bellissimo ed era grata di vedere che il vecchio Draco era ancora lì.
- Oh, niente, professore – balbettò, provando a darsi un contegno e di non far trasparire troppo il suo imbarazzo. - Le chiedo scusa. Parlavo tra me e me.
Per sua fortuna il professor Lumacorno non indagò oltre e le risatine divertite degli altri ragazzi si assopirono non appena lui cominciò a spiegare la lezione del giorno.
- Ti eccito ancora così tanto, Granger? - la provocò Draco all'improvviso.
Hermione s'imbronciò e incrociò le braccia al petto, ma non incrociò il suo sguardo. Non subito, almeno. - Non prendermi in giro, Malfoy – lo rimproverò a mezza voce.
E quando i suoi occhi puntarono quelli di ghiaccio di lui, il suo cuore si sciolse come il cioccolato fuso.
Il suo Draco era ancora lì.

Dato che l'appartamento di Fred e George era troppo piccolo, e che la piccola Roxanne aveva bisogno di tranquillità e non di un chiasso infernale, Ginevra decise di trasformare Grimmauld Place in una palestra d'allenamento. Dopo l'intrusione improvvisa di Voldemort nella sua visione, Ginevra aveva deciso di riprendere gli allenamenti da dove li aveva lasciati mesi prima.
Kreacher era il suo fedele aiutante, nonché coach motivazionale. L'aiutava a schermare la mente e a migliorare i riflessi. - Più in alto. Più a destra. A destra – le ripeteva ogni qual volta commetteva un errore.
La cosa positiva di avere Kreacher come insegnante era che non alzava mai la voce. Era sempre premuroso e attento, e quando correggeva i suoi errori lo faceva senza essere mai sgarbato.
Era un vero tesoro, ma a lei serviva un po' più di grinta, proprio come quando era Regulus ad insegnarle. Quando lo faceva notare all'elfo domestico, lui annuiva e si sforzava di accontentarla, ma alla fine tornava sui propri passi e la sua vocetta raggrinzita tornava a farsi dolce e premurosa.
Ginevra sospirò e tirò un pugno a uno dei manichini d'allenamento che le stava davanti; alcuni erano bruciacchiati, altri un po' umidicci a causa dei poteri che lei stava ancora imparando a usare.
Si stava allenando da ore, ma era ancora lontana dal sentire le forze venire meno. Aveva bruciato quasi tutto il soggiorno con le lingue di fuoco che aveva generato, in particolare le lunghe tende alle finestre e il tappeto preferito di nonna Walburga. Ma non le importava poi un granché.
Il suo pensiero era fisso su Voldemort. Doveva impedirgli di giocare ancora con la sua mente e di manifestarsi nei suoi sogni.
- La padrona vuole fare una pausa? - domandò Kreacher, gentile.
Ginevra scosse la testa. - No. Continuiamo.
Entity era d'accordo. Non dovevano fermarsi.
L'aiutò, condividendo i propri poteri mentre si allenava a schermare i pensieri di entrambe. Era un lavoro di squadra ben rodato; quando Ginevra si schermava era Entity ad attaccare e viceversa.
Kreacher sembrava soddisfatto del risultato, ma per Entity e Ginevra non era abbastanza. Dovevano essere più forti.
Insieme controllarono gli elementi, evocando delle frecce di fuoco, creature d'acqua, folate di vento tanto forti da assorbire il mobilio della stanza e concentrarlo in un piccolo tornado e generando persino un piccolo terremoto che allertò il vicinato di Babbani.
Dopo il controllo degli elementi, Ginevra passò al combattimento corpo a corpo. Dato che Kreacher non era molto d'aiuto con quella disciplina quanto Regulus, l'elfo animò i manichini con l'intento di attaccarla.
- La padrona deve concentrarsi – gracchiò, per poi schioccare le dita. - Attacco!
Quattro manichini le furono addosso.
Ginevra tirò calci, pugni e schivò i loro attacchi, stando ben attenta a non farsi sviare da Kreacher che appariva e spariva di tanto in tanto con il preciso obiettivo di distrarla.
Niente poteri. Solo forza bruta.
Atterrò otto manichini su dieci, più e più volte, e non smise finché anche gli ultimi due non furono a terra.
L'allenamento terminò solo con l'arrivo di Remus Lupin, alle cinque del pomeriggio. Era appena tornato dall'ospedale, dopo aver trascorso la notte al fianco di Sirius.
- Ciao – la salutò, mostrando un sorriso stanco.
- Ciao, Remus. Regulus ti ha dato il cambio? - domandò Ginevra. Grondava di sudore e ansimava per lo sforzo del duro allenamento che si era autoimposta, ma si sentiva forte.
Remus annuì. - Da quanto tempo è che ti stai allenando? - le domandò, mentre posava il soprabito rattoppato sul divano.
Ginevra fece spallucce. - Non saprei.
Lui infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, inclinò la testa, e la guardò a lungo. - Kreacher – disse. - Potresti dirmi da quanto tempo si sta allenando, per favore?
Ginevra sbuffò, disfacendo le bende di protezione dalle mani, ma non protestò davanti a quella richiesta del padrino.
- Otto ore – rispose l'elfo domestico, facendo sparire i manichini con uno schiocco di dita.
Il solito sorriso bonario che Remus era solito rivolgere alla sua figlioccia sparì. Strabuzzò gli occhi e li fissò su di lei. - Otto ore? - esclamò, scandalizzato. - Sei forse impazzita? Così ti ammazzerai!
- Sto bene – ribatté lei, sospirando. - Non sono nemmeno stanca, stai tranquillo. So quello che faccio.
- Lo spero proprio, perché non ho alcuna intenzione di raccoglierti con il cucchiaino dal pavimento.
Ginevra sbuffò un sorriso. - Sei dolce quando ti preoccupi per me.
- Non provare a rabbonirmi, signorina.
- Non oserei mai, lo sai – rispose lei, mentre gli andava incontro. Si alzò sulle punte dei piedi e gli scoccò un bacio sulla guancia. - Vado a fare una doccia e poi preparo la cena.
Remus la guardò salire le scale scuotendo la testa.
Purtroppo per lui quella ragazza aveva la testa dura, proprio come suo padre, e quando si metteva una cosa in testa non c'era niente che lui potesse fare o dire pur di farle cambiare idea.
Sospirò e si rivolse al fedele elfo domestico di casa Black. - Non sei obbligato assecondarla in tutto, Kreacher. Finirai per stancarti.
Kreacher puntò i suoi piccoli occhi azzurri sul vecchio lupo mannaro e rispose, solenne: - Kreacher non si stanca. Kreacher vive per servire la nobile famiglia Black ed è sempre felice di aiutare la padrona. La padrona è sempre buona con questo povero e vecchio elfo. Kreacher vuole aiutarla.
Un mezzo sorriso curvò le labbra di Remus, intenerito da tutta quella devozione. Kreacher era davvero un bravo elfo.

Durante la prima lezione di Pozioni, essendo sprovvisto del libro di testo, Harry si era affidato all'armadio delle scorte trovando un libro di seconda mano e molto usurato. Per quanto fosse malconcio, trovò delle indicazioni molto utili segnate nei bordi delle pagine, degli appunti scritti a mano dallo studente che lo aveva preceduto: il Principe Mezzosangue.
Un nome un po' insolito, ma era ciò che era scritto lungo il bordo del retro della copertina, nella stessa piccola scrittura stretta delle istruzioni. Grazie ad esso aveva vinto la piccola competizione che il professor Lumacorno aveva architettato per sondare le capacità dei suoi studenti, vincendo così la fiala di Felix Felicis, una pozione che rende incredibilmente fortunato chiunque la beva.
Per tutto il resto delle lezioni di Pozioni della settimana, Harry continuò a seguire le istruzioni del Principe Mezzosangue alla lettera, con il risultato che, in occasione della loro quarta lezione, Lumacorno mostrò tutta la sua ammirazione per le capacità di Harry, affermando che raramente era stato l'insegnante di qualcuno così dotato.
Harry era molto grato al Principe Mezzosangue, senza il suo aiuto non avrebbe mai ottenuto grandi risultati in Pozioni.
Nonostante la gran mole di compiti che avevano ricevuto gli avesse impedito di leggere l'intera copia di Pozioni Avanzate, lo aveva sfogliato abbastanza per notare che vi era appena una pagina sulla quale il Principe non aveva preso appunti, e che non tutti riguardavano le pozioni. Qua e là vi erano indicazioni per quelli che sembravano incantesimi che il Principe stesso aveva inventato e che suscitarono l'immediato interesse di Harry.
Era disteso sul divano della Sala Comune insieme alla sua ragazza, Ginny, che gli teneva la testa in grembo e gli passava le dita tra i suoi capelli con aria distratta. Gli occhi della Weasley erano inchiodati sulla rivista che teneva nella mano sinistra dove un articolo molto interessante sulle Holyhead Harpies occupava due pagine intere.
Era una bella serata, silenziosa e tranquilla.
Ad un tratto Harry diede un'occhiata veloce all'orologio al suo polso e imprecò. Chiuse il libro di scatto e scattò a sedere come una molla.
Ginny sobbalzò.
- Che succede? - gli domandò, confusa, mentre lo guardava riporre il libro nello zaino in fretta e furia.
- Sono quasi le otto. Se non mi do una mossa sarò in ritardo da Silente.
La Weasley annuì. - Ah, giusto. Lo avevo dimenticato – disse. Poi aggrottò la fronte, storcendo un po' le labbra. - Sei sicuro di non voler dire niente a tua sorella? Secondo me merita di sapere.
Mentre si riallacciava le scarpe e si dava una ripulita ai vestiti, Harry la guardò e disse: - Ne abbiamo già parlato, Ginny. Mia sorella non deve sapere nulla, per adesso.
La rossa incrociò le braccia al petto. - Continuo a pensare che mentirle sia una pessima idea.
Anche una parte di Harry pensava la stessa cosa, era impossibile non farlo, ma a volte era meglio dire una piccola bugia piuttosto che far soffrire le persone amate.
- Lo so – sospirò, affranto. - Ma risolverò tutto. Prometto che le dirò tutto a tempo debito.
Ginny si tirò su dal divano e gli andò incontro. Gli accarezzò la guancia e lo baciò teneramente sulle labbra. - Torna presto – gli sussurrò a fior di labbra.
Harry annuì e la baciò ancora una volta prima di uscire attraverso il buco del ritratto.
Camminava lungo i corridoi deserti con un gran senso di colpa che gli opprimeva il petto. Dopo tanti e disastrosi tentativi Silente lo aveva convinto a seguire delle lezioni private, con lui come insegnante. Harry era certo che, se solo l'avesse saputo, la sua sorellastra avrebbe fatto fuoco e fiamme pur di impedirglielo. Mentirle lo faceva impazzire, ma era costretto a farlo.
Ovviamente il suo risentimento nei confronti del Preside non era scemato e ogni volta che era in sua compagnia Harry teneva sempre gli occhi ben aperti e i sensi in allerta. Non si fidava più di Silente come un tempo e, di certo, non avrebbe abbassato la guardia al minimo segno di bontà del vecchio.
Decise che lo avrebbe usato, così come Silente stesso aveva usato lui e la sorellastra.
Non gli importava più di essere il ragazzo per bene. Voleva essere più forte e voleva sconfiggere Voldemort a qualunque costo. Importava poco il mezzo che utilizzava per farlo.
Una volta raggiunta la porta con il battente d'ottone che portava direttamente all'ufficio di Silente, Harry bussò.
- Avanti - disse la voce di Silente e Harry varcò la soglia. - Ah, buonasera Harry. Siediti.
Harry ricambiò il saluto con un cenno del capo e prese posto in una delle due sedie libere davanti alla scrivania.
- Spero tu abbia trascorso una piacevole prima settimana dal ritorno a scuola - disse Silente, sorridendo.
- Sì - disse Harry.
Non lo chiamò "signore", come era solito fare in passato. Non provava più alcun rispetto per lui. Da quando Sirius era finito al San Mungo provava solo una grande rabbia ogni qual volta Silente incrociava il suo sguardo.
- È stato crudele, -" erano state le parole di Silente la sera in cui lo aveva portato via dai Dursley," - che tu e Sirius abbiate avuto così poco tempo per stare insieme. Una fine brutale a quello che avrebbe dovuto essere un lungo e felice rapporto."
- Ne parla come se fosse morto", lo accusò Harry, trattenendosi a stento.
Ricordava ancora ogni parola, così come ricordava il sorriso compassionevole che Silente gli aveva rivolto dopo quella frase. Sembrava dire: "Povero ragazzo. Non sa ancora come andrà a finire". Non aveva mai provato tanta voglia di tirargli un pugno in faccia come in quel momento, ma alla fine riuscì a controllarsi.
Provando a calmare la rabbia che minacciava di uscire, Harry si guardò intorno, alla ricerca di qualche indizio che potesse aiutarlo a capire cosa Silente avesse in programma di fare con lui quella sera. L'ufficio circolare sembrava lo stesso di sempre. I delicati strumenti d'argento erano posati su tavolini con lunghe gambe sottili, emettendo sbuffi di fumo e ronzii. I ritratti dei vecchi presidi e direttrici sonnecchiavano nelle loro cornici, e la magnifica fenice di Silente, Fanny, era appollaiata sul trespolo dietro la porta, guardando Harry con chiaro interesse. Non sembrava affatto che Silente avesse fatto spazio per esercitarsi in duello.
Harry non sapeva esattamente perché Silente avesse insistito tanto affinché lui seguisse le sue lezioni private, ma credeva che fosse a causa della profezia. Dato che Voldemort si era appropriato della sfera che la conteneva, impedendogli di ascoltarla, Remus gli aveva fatto un breve riassunto di ciò che ricordava.
- Sembra che tu sia il solo che ha la possibilità di uccidere Voldemort... Ma non è una certezza alla quale ci possiamo aggrappare", gli aveva detto il suo ex professore, qualche giorno dopo lo scontro al Ministero.
Il resto della profezia era piuttosto confuso, ma lasciava intendere che ci fosse qualcun altro coinvolto, in grado di cambiare le sorti di quella guerra. Stando alle parole di Remus, Silente era sempre stato fermamente convinto che quella parte della profezia parlasse proprio della sorellastra di Harry... e, proprio per quel motivo, aveva deciso di allontanarla dai Potter per studiarla e per tenere d'occhio eventuali sviluppi sui suoi strani poteri. Ma come poteva dire con certezza che si trattasse proprio di lei? Al tempo era solo una bambina!
"Perché Silente si è fissato con me e Ginevra? Non poteva cercarsi altri hobby anziché rovinare le nostre vite?".
- Allora, Harry - disse Silente con tono più serio, distogliendolo da quei pensieri. - Sono sicuro che sarai curioso di sapere cosa ho programmato per te durante queste... lezioni?
Harry annuì.
- Bene, ora che tu sai che cosa ha indotto Voldemort a cercare di ucciderti quindici anni fa, credo che sia arrivato il momento in cui tu venga a conoscenza di certe informazioni.
- Be', era ora.
Silente abbassò lo sguardo. - Ti chiedo scusa per averti nascosto la verità, ancora una volta – disse. - Come ti ho già dimostrato, commetto errori come chiunque. Infatti, essendo... perdonami... un po' più esperto rispetto alla maggior parte degli uomini, i miei errori tendono ad essere relativamente più grandi.
Harry lo ignorò.
Conosceva già la tiritera e non gli interessava sentire le stesse parole all'infinito. Era impaziente di conoscere la verità.
- Bene - disse Harry. - Passiamo a cosa concrete, adesso? Ha detto che mi avrebbe rivelato tutto.
Per quanto ci provasse, era difficile trattenere una nota di accusa nella voce.
Ci fu una pausa.
- E così ho fatto - disse Silente serenamente. - Ti ho detto tutto ciò che so. D'ora in avanti, dovremo abbandonare il solido fondamento dei fatti e viaggeremo insieme attraverso le putride paludi della memoria fino alla selva delle più sfrenate congetture.
Harry sospirò, sforzandosi di essere paziente. - Quello che sta per dirmi ha qualcosa a che fare con la profezia?
- Oh, ha molto a che fare con la profezia - disse Silente con estrema disinvoltura, come se Harry gli avesse chieste del tempo il giorno successivo. - E certamente spero che ti aiuterà a sopravvivere.
Harry alzò un sopracciglio. - Devo dire che è rassicurante – commento sarcastico.
Silente si alzò e girò intorno al tavolo, oltre Harry, che si voltò impaziente sul posto per vedere Silente piegarsi verso l'armadietto accanto alla porta. Quando Silente si raddrizzò, teneva un basso catino di pietra dall'aria familiare con strani simboli incisi intorno al bordo. Silente pose il Pensatoio sul tavolo di fronte ad Harry.
- Sei pronto? - domandò Silente, tirando fuori dalla tasca una bottiglia di cristallo contenente una sostanza biancastra che girava vorticosamente.
Gli occhi di Harry erano fissi sul pensatoio. Le sue precedenti esperienze con quello strano congegno che registrava e rivelava pensieri e ricordi, sebbene altamente istruttive, erano state anche spiacevoli. L'ultima volta che ne aveva toccato il contenuto, aveva visto molto più di quanto avrebbe desiderato.
Non era certo di essere davvero pronto a fiondarsi in un altro ricordo che non gli apparteneva, ma decise di provarci comunque.
Guardò Silente, ancora intento a togliere via il tappo dalla bottiglia di cristallo, notando solo in quel momento la sua mano: era nera, ferita, e sembrava irrigidita.
Sospirò, non sapeva come se la fosse procurato, ma provò un'improvvisa compassione per lui.
Tese la mano verso la boccetta e gliela sfilo delicatamente. Silente glielo lasciò fare.
Il tappo scivolò via e Harry versò l'argenteo contenuto della bottiglia nel Pensatoio, nel quale cominciò a girare vorticosamente e a luccicare, né liquido né gassoso.
- Sono pronto – disse.
Silente gli sorrise. - Dopo di te, allora - disse indicando la ciotola. Harry si piegò in avanti, prese un respiro profondo e immerse il viso nella sostanza argentea.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 - CON LE SPALLE AL MURO ***


Capitolo 10 – Con le spalle al muro

Era passato poco più di un mese da quando era ricominciata la scuola. La clientela dei Tiri Vispi Weasley era diminuita notevolmente e, per quanto la gente avesse bisogno di ridere in quel periodo, non erano in molti quelli che passavano di lì per acquistare il Torrone Sanguinolento o le Pasticche Vomitose. I clienti più affezionati che frequentavano Hogwarts avevano aderito a un servizio di consegna via gufo, quindi gli affari continuavano ad andare bene… ma a lungo andare, presi dallo sconforto, Fred e George si resero conto che era pressoché inutile continuare a girare il cartello con su scritto ‘APERTO’, sapendo che non sarebbe entrato nessuno a fare acquisti.
 I passanti erano troppo spaventati per fermarsi più del dovuto in un negozio. Passavano a passo di corsa e scappavano via al minimo rumore, temendo l’arrivo improvviso dei Mangiamorte.
 Quella mattina di ottobre i gemelli erano in piedi dietro il bancone, intenti ad andare avanti con quella era diventata la loro routine quotidiana, preparando gli ordini diretti a Hogwarts; Fred teneva la figlia in un marsupio legato al petto e di tanto in tanto le dava un bacino sulla testa. George lo guardava con la coda dell’occhio e sorrideva. 
 - Signor Weasley – chiamò Elizabeth, da dietro uno scaffale. - Non trovo i croccantini delle Puffole Pigmee.
 Fred e George risposero in coro, senza distogliere lo sguardo da ciò che stavano facendo: - Sesto scaffale. Nello scatolo grande. 
 Ci fu un breve silenzio, seguito poi da un gran baccano e un: - Trovato! - urlato della ragazza. 
 Fred scosse la testa divertito e George sogghignò.
 Anche se non riuscivano a vedere la scena, sapevano che Lizzie aveva fatto cadere la scatola. C’era un’alta probabilità che era stata sommersa dalle bustine di croccantini e sapevano entrambi che lei non lo avrebbe mai ammesso nemmeno davanti a un giudice.
 La loro commessa era un vero portento e aveva un ottimo senso degli affari. Sapeva essere divertente e folle al punto giusto per lavorare con loro, ma era anche molto goffa. Da quando era arrivata in negozio i guai non mancavano mai.
 - Siamo coperti con l’assicurazione, vero? - domandò Fred al gemello, ma George lo ignorò. In quel momento la sua attenzione era rivolta altrove.
 Lì, in cima alle scale, vi era il suo desiderio più ardente. La sua amata dai morbidi capelli corvini.
 La vide inclinare la testa e mordersi il labbro inferiore, consapevole che in quel modo lo avrebbe fatto impazzire.
 George sentì uno strano e piacevole formicolio lungo la schiena al ricordo della notte trascorsa tra le lenzuola.
 Era bella come la notte precedente… e come quella prima ancora… e quella prima ancora. 
 - ‘Giorno - mormorò con un sorriso sensuale gli curvava le labbra, mentre gli occhi guardavano spudoratamente le gambe scoperte di lei.
 - Buongiorno, amore – rispose Ginevra, sorridendo.
 Indossava un leggero abito rosso con le bretelle sottili, che nascondeva appena le sue forme generose. Dei piccoli pois bianchi decoravano la stoffa aggiungendo un tocco di eleganza. La gonna arricciata era corta e sinuosa, e metteva in risalto le sue gambe. Ai piedi aveva delle scarpe da ginnastica bianche che completavano il look.
 George non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Non poteva fare a meno di pensare a quanto fosse splendida. Quell’abito rosso le donava moltissimo, e risaltava la sua figura. Le bretelle sottili evidenziavano le sue spalle delicate, sulle quali vi erano appoggiati i suoi lunghi capelli neri, sciolti e fluenti. 
 Si avvicinò al bancone e posò le labbra sulle sue, in un bacio soave.
 - Sei bellissima – le sussurrò lui a fior di labbra.
 Lei lo ringraziò con un sorriso malizioso e un altro bacio.
 Salutò anche Fred, sorridendo a lui e alla piccola.
 Provò una gran tenerezza per quel quadretto e apprezzò che il suo amico utilizzasse il regalo che lei e George avevano fatto a lui e alla piccola. Quel marsupio sembrava fatto apposta per loro due. 
 - Hai dormito bene? - le domandò George, spostandole una ciocca ribelle dal viso con movimento delicato delle dita.
 - Divinamente – rispose lei in sussurro appena percettibile, intimo. - Dopo tutto quello che abbiamo fatto ieri notte avevo bisogno di ricaricarmi. Ho fatto una lunga doccia… calda... tutta sola. 
 Gli occhi di George scintillarono di malizia e il suo cervello sfruttò quel momento per rivivere i loro giochetti in camera da letto e iniziò a replicarli immaginandola sotto il getto d’acqua della doccia… tutta bagnata.
 Al solo pensiero emise un ringhio gutturale. - Donna diabolica.
 - Magari la prossima volta potrai unirti a me.
 L’idea lo mandava già fuori di testa e la voglia di prenderla tra le braccia e riportarla al piano di sopra a fare l’amore spingeva con insistenza contro ogni priorità.
 Poi Fred si schiarì la voce rumorosamente, richiamando la loro attenzione e la magia del momento si affievolì. - Non dovrei dirvelo, ma qui c’è una minorenne e non voglio che lei veda questo tipo di effusioni per i prossimi quarant’anni – sbottò, indicando la dolce bambina che dormiva contro il suo petto. 
 - Scusa – ridacchiarono George e Ginevra, imbarazzati.
 Ignoravano entrambi che in realtà quella predica sorridente nascondesse la gelosia crescente del ragazzo. Lo stesso Fred non riuscì ad accorgersene subito. Si apprestò a sopprimere immediatamente quel sentimento, sentendo affiorare un gran senso di colpa all’altezza del petto. 
 Stava tradendo Angelina con il pensiero. Era morta da un mese e lui pensava già a un’altra! Quale altro verme tradirebbe la memoria della madre dei suoi figli pensando a un’altra? 
 Forse il suo sentimento era riaffiorato proprio per quel motivo, pensò. Aveva passato così tanto tempo accanto a Ginevra da pensare a lei non più come un’amica ma a qualcosa di più.
 Era sbagliato, e lo sapeva bene.
 Ginevra era la ragazza di suo fratello, praticamente era sua cognata. Non poteva lasciarsi ingannare dai battiti del cuore ogni volta che lei era nella stanza.
 Perdere Angelina era stato un duro colpo e non era semplice convivere con la consapevolezza che non sarebbe più tornata, che non avrebbe più rivisto il suo volto corrucciato o il suo sorriso. 
 Abbassò lo sguardo sulla sua bambina, che dormiva beata.
 Doveva pensare a Roxanne.
 Solo a Roxanne.
 Nessun’altra donna.
 - Cos’era quel baccano? - domandò ad un tratto Ginevra, curiosa.
 Fred alzò un sopracciglio, mascherando i pensieri che gli davano il tormento con un sorriso beffardo. - Secondo te? - La sua voce grondava ironia. E senza aspettare una risposta fece un cenno verso Lizzie, intenta a raccattare ciò che era caduto canticchiando un motivetto allegro fingendo che non fosse successo nulla.
 Ginevra strinse le labbra una contro l’altra per evitare di ridere. Elizabeth era una cara ragazza e anche molto simpatica, e Ginevra adorava passare del tempo con lei ma incidenti di quel tipo capitavano spesso quando lei era nelle vicinanze e l’ipotesi che ci fosse un Imp dispettoso seminasse il panico nel negozio era poco credibile.
 - Poverina. Capitano tutte a lei – disse piano per non farsi sentire. 
 - Sapevi che ha un appuntamento con Ron? - le bisbigliò George con complicità. Lei annuì, tutta sorridente. - Si vede che ha fatto colpo… non me lo aspettavo.
 - Non se lo aspettava nessuno, Georgie – specificò Fred quando si avvicinò a lui per accatastare l’ennesimo pacco alla pila pronta per la spedizione.
 La piccola Roxanne si agitò nel sonno e, per farla calmare, lui cominciò a passeggiare per la stanza mormorandole farsi dolci. - Vai da qualche parte? Mi sembra una tenuta un po’ singolare per gli allenamenti - domandò poi a Ginevra.
 - Infatti non vado ad allenarmi - rispose lei, stirando una piega invisibile sul suo vestito. - Vado a trovare mio padre.
 I sorrisi dei gemelli si affievolirono, lentamente.
 - Vengo con te - si offrì George, ma lei scosse la testa.
 - Non ti preoccupare. In ogni caso penso che rimarrò lì fino a sera, ho bisogno di stare un po’ da sola con lui, ma tornerò per l’ora di cena.
 - Ti vengo a prendere io.
 Sapeva che George non avrebbe mai accettato un altro rifiuto, soprattutto con i tempi che correvano. Bisognava essere sempre prudenti e non restare mai da soli per strada, Malocchio lo ripeteva in continuazione quindi chi era lei per contraddire quella regola?
 - D’accordo, Weasley. Hai vinto! - disse e gli baciò la guancia. - Allora a stasera.
 Si infilò il giubbotto di pelle nera che era appeso al suo braccio e uscì dal negozio, facendo tintinnare la campanella sopra la porta. 
 I gemelli la guardarono allontanarsi e sparire dalla loro vista. Un sospirò pesante sfuggì dalle loro labbra e incrociarono gli sguardi, senza dirsi una sola parola.
 Erano preoccupati per lei, inutile nasconderlo.
 Per quanto lei provasse a smentire il loro pensiero tra sorrisi e risate, da quando il padre era entrato in coma la luce dentro di lei sembrava spenta. Non era più quella di un tempo. 
 Lei e George facevano l’amore ogni notte. Si lasciavano andare, si amavano ed erano felici… ma una volta raggiunto il culmine del piacere, dopo essersi coccolati, baciati e abbracciati, lui sapeva che, in fondo in fondo, c’era qualcosa che la turbava. La guardava e sapeva che c’era un pensiero fisso che non la mollava mai. 
 Non voleva darle il tormento, farle pressioni, convincendola a parlargliene. Non lo aveva mai fatto e non aveva intenzione di cominciare in quel momento. Sapeva che Ginevra era una testa calda e che odiava sentirsi con le spalle al muro. La conosceva talmente bene da sapere che l’approccio diretto non era mai la scelta migliore, anche se a volte era servito.
 Se aveva un problema era sempre lei a decidere quando e con chi parlarne. Se avesse voluto parlare, lui l’avrebbe ascoltata. Se non avesse voluto, l’avrebbe lasciata in pace. L’avrebbe ascoltata quando ne avrebbe avuto bisogno e le avrebbe concesso tutto lo spazio necessario finché non si fosse sentita pronta ad aprirsi.
 Aveva bisogno di tempo. 
 Fred, al contrario del gemello, non riusciva a pensare a mente fredda. Era talmente preoccupato che sentiva il forte bisogno di domandarle quale fosse il problema e perché non volesse confidarsi con nessuno. Voleva confortarla, darle tutto l’aiuto di cui aveva bisogno. 
 Era convinto che un contatto diretto fosse la soluzione migliore. La pazienza non era mai stata il suo forte.
 Decise che, una volta soli, l’avrebbe aiutata a sfogarsi e sarebbe rimasto al suo fianco anche tutta la notte, se necessario.
 Doveva farlo. Per lei. 

 Ginevra raggiunse l’uscita del Paiolo Magico in una manciata di minuti.
 Un vento freddo e leggero soffiava per le strade di Londra, tipico della stagione autunnale, ma tutto sommato piacevole. Aveva sempre apprezzato il vento e la sensazione di sentirlo scompigliarle i capelli.
  Il cielo azzurro era cosparso qua e là da nuvole grigie, ma niente di minaccioso. Si preannunciava una giornata tranquilla e priva di pioggia.
Inspirò l’aria fresca e uno sbuffo del profumo invitante del panificio lì vicino penetrò nelle sue narici. Quando era stata l’ultima volta che si era concessa a una colazione tranquilla? O apprezzare una bella giornata?
 Non lo ricordava più. 
 La sua vita era cambiata tanto e in poco tempo. Era piena di responsabilità e priva di tempo per rilassarsi e godersi la vita. Persino in quel momento, mentre si era persa ad osservare le nuvole che si rincorrevano veloci nel cielo, provò un gran senso di colpa per aver perso del tempo prezioso.
 Distolse lo sguardo e si incamminò. 
 Doveva raggiungere il San Mungo e dare il cambio a Regulus. Quel povero uomo era rimasto lì per settimane, senza lasciare il capezzale del fratello maggiore, per darle la possibilità di allenarsi e concentrarsi su qualcosa che non fosse il dolore.
 Regulus aveva fatto tanto per lei, da sempre, ma non voleva approfittare della sua bontà. E poi voleva stare vicino a Sirius tutto il tempo possibile, quindi quel giorno aveva deciso di mandare al diavolo gli allenamenti e andare dritta al San Mungo, da Sirius.
 “Secondo me dovevamo continuare ad allenarci”, borbottò Entity per quella che era l’ennesima volta da quando Ginevra aveva aperto gli occhi quella mattina. 
 “Ne abbiamo già parlato, Entity”, ribatté lei perentoria, ma l’Essere superiore non si lasciò abbattere.
 “Dobbiamo approfittare di ogni momento possibile per allenarci! Voldecoso sta diventando sempre più forte” disse. “Lo percepisco ogni volta che si intrufola nella nostra testa. Non dobbiamo abbassare la guardia. Ieri siamo state brave, abbiamo evitato un suo attacco… ma oggi? Cosa ti fa pensare che oggi non ci attaccherà?”.
Ginevra sospirò. “Non abbasseremo la guardia e non smetteremo di allenarci”.
 Entity sembrò sul punto di ribattere, ma poi cambiò idea e alla fine disse: “Bene. Fa come vuoi”.
 E la conversazione terminò.
 Aveva paura. Ginevra lo sapeva, ma non ne parlavano mai apertamente. Era come se entrambe avessero pattuito un tacito accordo in cui non bisognava ammettere ciò che più le spaventava: non Voldemort in sé, ma il controllo che lui poteva avere su di loro. 
 Entity aveva ragione, l’allenamento era importante, ma Ginevra aveva bisogno di spegnere il cervello per un po’ e dedicarsi a suo padre. Doveva vederlo. Ne aveva bisogno.
 Vagò per le strade, già affollate dal traffico di inizio giornata da taxi, turisti e impiegati d’ufficio con le loro valigette strette tra le dita e lo sguardo fisso sull’orologio al polso, lamentandosi del ritardo. Quest’ultimi non guardavano dove andavano e il più delle volte sballottavano i passanti che si trovavano sul loro cammino senza nemmeno degnarsi di chiedere scusa.
 Stanca del via vai di persone che la spingevano da un lato all’altro senza riguardo, Ginevra decise di cambiare direzione e proseguì verso un’altra strada. Non era proprio una scorciatoia, ma almeno lì non avrebbe trovato una grande e soffocante folla.
 Imboccò un vicolo stretto, sbucando subito dopo in un quartiere tranquillo, occupato da molti negozi e un piccolo ristorante dall’insegna un po’ storta, ma comunque carina e dall’aria accogliente. La maggior parte dei pochi pedoni che bazzicavano per quella strada puntavano tutte verso il centro, curiosando qua e là tra i negozi che si lasciavano alle spalle.
 Colpita dal dolce profumo proveniente da una piccola pasticceria e dai meravigliosi colori pastello dell’insegna sulla vetrina, Ginevra si fermò ad acquistare qualche pasticcino per Regulus. Quando Regulus non faceva colazione era sempre intrattabile, quindi pensò che era meglio fargli cominciare la giornata nel modo giusto.
 Quando uscì dal negozio si incamminò verso la sua meta. Non prestava grande attenzione a dove andava: conosceva tutte le strade che portavano al San Mungo a memoria.
 D’un tratto, però, avvertì uno spiacevole formicolio lungo la schiena. Un presentimento. Capì che non era frutto della sua mente quando Entity disse: “Qualcuno ci sta seguendo”.
  Senza lasciarsi prendere dal panico si fermò davanti a una vetrina con tre manichini esposti. Finse interesse per i vestiti, mentre i suoi occhi osservavano il riflesso alle sue spalle.
 Alle sue spalle, poco più in là, c’erano due uomini vestiti di nero. I loro lunghi mantelli erano troppo vistosi per passare inosservati tra i Babbani, eppure nessuno sembrava averli notati. 
 Mangiamorte.
 “Cazzo”, imprecò Entity a denti stretti.
 “Non possiamo attaccarli. Ci sono dei Babbani”.
 “E allora che facciamo? Gli diamo qualche pasticcino e li invitiamo a prendere un tè con il Cappellaio Matto e il Bianconiglio?”, sbottò Entity, nervosa. “Merda! Te l'avevo detto che dovevamo allenarci. Qui siamo troppo esposte!”
 Ginevra la ignorò. “Non si sono accorti che li abbiamo notati. Facciamo finta di nulla. Continuiamo a camminare finché non troviamo un punto isolato per smaterliazzarci o per combatterli”.
 “Chi ti ha eletta capo? Io ho voce in capitolo tanto quanto te”.
 “Hai un’idea migliore?”, la sfidò Ginevra, ma alla fine Entity non fiatò.
 Con gli occhi che continuavano a vagare per la vetrina, si passò le dita tra i capelli un paio di volte, con disinvoltura. I due Mangiamorte camminavano da un lato all’altro del marciapiede, lanciandole occhiate attente di tanto in tanto, ma nessuno di loro sembrava intenzionato ad attaccare tanto presto.
 Ginevra fece qualche respiro profondo, fingendo sconforto nel guardare il cartellino del prezzo di uno dei vestiti esposti nella vetrina, poi proseguì, svoltando l’angolo.
 “Sono proprio dietro di noi”, la informò Entity.
 “Mantieni la calma. Andrà tutto bene”. O almeno era quello che sperava, ma quando vide spuntare altri quattro uomini in nero dall’altro lato della strada, proprio di fronte a lei, per poco non arrestò il passo per la sorpresa.
 Indossavano già le maschere.
 “Merda!”.
 “Entity”, la richiamò Ginevra. “Guarda che imprecare non aiuta!”.
 “Be’, aiuta me a non mandarti a quel paese!”, ribatté lei pronta. “Ti avevo avvertita, ma tu non hai voluto darmi ascolto”.
 Mano a mano che si avvicinavano, Ginevra si accorse che alcuni di loro non dovevano essere molto più grandi di lei. Si scambiavano frasi sussurrate e spregevoli risatine rauche mentre i loro occhi si soffermavano su qualche donna di passaggio o su un bambino.
 Una serie di pensieri spiacevoli le sfiorò la mente provando paura per quello che avrebbero potuto fare a quei poveri innocenti, ma per loro fortuna i Mangiamorte non si soffermarono a lungo sui Babbani. Il loro obiettivo era lei, ormai era ovvio.
 Ginevra finse indifferenza e lanciò un’occhiata discreta alla sua sinistra. 
 C’erano altri tre Mangiamorte diretti verso di lei, dunque svoltò a destra e il suo cuore perse un battito quando vide altri due Mangiamorte avanzare da quella direzione.
 “Siamo circondate!”.
 “Ma va? Non me n’ero accorta”, replicò Entity, ironica. 
 “Non ti preoccupare, ce la faremo”.
 “Se hai un piano ti conviene parlamene, altrimenti mi metterò a bruciare le chiappe di qualche schifoso Mangiamerda”.
 “Sono in troppi e la strada pullula di Babbani. Non possiamo”.
 “Oh, al diavolo i Babbani! Qui c’è in gioco la nostra vita”.
 “A volte il tuo altruismo mi commuove, Entity”.
 “Lo so, sono un amore”, cinguettò lei con tono infantile. 
 Ginevra accelerò il passo, puntando lo sguardo verso il bar a pochi passi da lei e, senza un attimo di esitazione, entrò.
 - Buongiorno, cosa prende? - domandò il barista quando la vide entrare. Era un uomo alto, stempiato, e con un gran sorriso stampato sulle labbra. 
 - Buongiorno - salutò educatamente. - Vorrei un tè al limone. 
 - Arriva subito.
 Lo ringraziò con un sorriso esitante e cominciò a guardarsi attorno, contando i Babbani attorno a lei. Sette Babbani, incluso il barista. Con discrezione lanciò un’occhiata verso l’uscita del bar e vide alcuni dei Mangiamorte passare a turno, senza perderla mai di vista. Sembravano degli avvoltoi. 
 Digrignò i denti. “Sono troppi”.
 “Ce la possiamo fare”, fu l’eco incoraggiante di Entity.
 “Ma non senza ferire qualcuno di innocente”. 
 Il suo pensiero andò subito a Kingsley, al quale aveva bruciato metà del volto il giorno in cui il suo potere era esploso a causa della Umbridge. Non voleva che accadesse di nuovo.
 “Ci serve aiuto”.
 Un lamento di Entity le echeggiò nella mente: “Ma è imbarazzante!”, piagnucolò.
 La ignorò.
 L’istinto le diceva di avvertire Regulus telepaticamente, ma non poteva permettere che lasciasse Sirius da solo, incustodito. Regulus non doveva sapere nulla. Controllò che il muro mentale tra di loro fosse alto e impenetrabile, in modo che lui non potesse vedere e sentire ciò che stava accadendo, e iniziò ad elaborare un piano insieme a Entity.
 - Ecco a lei, signorina - disse il barista versando la bevanda calda in una tazza. Ginevra lo ringraziò, ma prima di servirsi gli domandò a bassa voce: - Avete un telefono? Sono passata per una cabina telefonica ma era fuori servizio.
 Era una bugia, ovviamente, ma anche se era passata più volte davanti a un telefono pubblico non si era nemmeno azzardata a farsi vedere da uno dei Mangiamorte. Troppo pericoloso. Doveva essere discreta.
 Per sua fortuna il barista le disse che il telefono era in fondo a destra, vicino al bagno delle signore. Un ottimo escamotage per trarre in inganno i suoi aguzzini.
 Si allontanò dal bancone e andò dritta verso il telefono. Digitò il primo numero che le era venuto in mente e restò in attesa.
 - Pronto?
 Ginevra fu presa un po’ alla sprovvista da quella voce sconosciuta, ma dopo un attimo di esitazione, si lanciò. - Emily?
 La donna all’altro capo del filo rispose. - No. Sono Claire, la sua coinquilina. Chi la sta cercando?
 L’ansia cominciò ad assalirla. - Sono Ginevra. Sua nipote. 
 - Oh, ciao! - cinguettò Claire. - Emily mi ha parlato tanto di te e ho visto tutte le foto. Sono felice di dare una voce al tuo volto.
 Anche Ginevra conosceva Claire di fama: sapeva che era una Babbana, una ragazza dolcissima e divertente, stando ai racconti di Emily, e che non sapeva nulla sul mondo magico e sul vero lavoro della sua coinquilina.
 Ma di certo quello non era il momento adatto per fare una conversazione tranquilla e gioiosa.
 - Emily è in casa? - domandò glissando ogni tentativo della coinquilina Babbana della zia acquisita di fare conversazione. - È importante - aggiunse poco dopo, sentendosi in colpa per il tono sbrigativo.
 - Oh, ma certo. Te la chiamo subito - la voce di Claire si spense. Forse aveva intuito l’urgenza o che c’era qualcosa che non andava. 
 Dopo un ‘grazie’ appena mormorato da parte di Ginevra, chiamò Emily dopodiché ci fu solo il silenzio.
 Poi la voce di Emily Tonks risuonò dall’apparecchio. - Pronto? Ginevra, che succede?
 - Mi stanno seguendo.
 Non era necessario dire chi.
 Emily lo aveva capito immediatamente ed esitò qualche istante prima di chiedere con tono greve: - Sei sicura? Quanti sono? 
 - Ne ho contati undici. Ma non so se ce ne sono altri - rispose Ginevra, con il cuore in gola. Il respiro cominciava ad accelerare. Poi aggiunse a voce ancora più bassa: - Mi hanno seguita tutto il tempo ma non hanno attaccato, nemmeno una volta. Sono circondata. 
 - Sei da sola?
 - Sì, ma qui è pieno di Babbani. Non posso attaccare o seminarli tanto facilmente senza coinvolgere qualcuno - disse. - Ho bisogno di rinforzi.
 Emily sospirò, cominciando a pensare a una soluzione. - Dove ti trovi adesso? Da dove chiami? Dammi la tua posizione.
 Ginevra ubbidì immediatamente e, poco prima di riattaccare, Emily le raccomandò di rimanere lì e di non muoversi, a meno che non fosse strettamente necessario, promettendole di tirarla fuori da lì al più presto.
 Riagganciò la cornetta e sospirò.
 “E adesso? Che facciamo?”, domandò Entity. 
 “Aspettiamo i rinforzi”.
 “Scherzi, vero? Non possiamo restare qui senza far niente! Siamo abbastanza forti per battere ognuno di loro”.
 “Non voglio coinvolgere innocenti”, ribatté Ginevra, mostrandole il ricordo di quel giorno nell’infermeria di Hogwarts. “Ti prego”.
 Entity sospirò pesantemente e si arrese. “Detesto quando fai questi giochetti con me!”.
 Ginevra si allontanò dal telefono e si voltò per tornare al bancone. Ma si arrestò di colpo quando si ritrovò dinanzi a un Mangiamorte.
 Il cuore sobbalzò per la sorpresa.
 “Ma perché devo avere sempre ragione?”, fu l’immediata esclamazione di Entity.
 Il Mangiamorte mascherato, il cappuccio del mantello nero gli copriva la testa. - Sei appena arrivata e già te ne vai? - le disse a mo’ di saluto, con voce lenta e divertita. Tra le dita inguantate rigirava la bacchetta.
 Ginevra restò immobile. I pugni stretti lungo i fianchi, mentre i suoi occhi vagavano veloci per il locale in cerca degli altri Mangiamorte, ma era da solo; gli altri attendevano fuori. Non smettevano di tenerla d’occhio.
 I Babbani nel locale erano aumentati e alcuni di essi erano ragazzi poco più giovani di lei, forse persino di Harry. Ognuno di loro era in pericolo.
 Il Mangiamorte davanti a lei la osservò per qualche secondo inclinando la testa di lato, poi fece sparire la maschera con un leggero movimento della bacchetta, mostrandole il suo volto.
 Per quanto fosse cambiato, Ginevra lo aveva riconosciuto immediatamente; ricordava quel sorriso spregevole meglio di quanto pensasse. Era Marcus Flitt, l’ex capitano della squadra dei Serpeverde. Non si stupì più di tanto nel ritrovarlo in quelle vesti; il suo disprezzo per i Babbani e per i Mezzosangue non era mai stato un mistero.
 Fin dai tempi in cui frequentava Hogwarts, Flitt era stato il tormento di quei poveri ragazzi che lui e suoi compagni definivano “sporcizia”, “sangue sporco”. 
 In quel momento il disgusto di Ginevra era aumentato, più di quanto lo fosse già. 
 Lo vide arricciare le labbra, prima di avanzare d’un passo e sollevarle il mento con due dita. Gli occhi blu e profondi di Flitt erano fissi su di lei. - Ciao, bambolina. Ti sono mancato?
 Bambolina. Ancora quel nomignolo orribile! Le vennero i brividi quando lo sentì pronunciare quella parola con tono lascivo. Per non parlare poi di quell’inquietante abitudine del ragazzo di odorarle i capelli ogni qualvolta le stava vicino.
 - Per niente - sibilò lei. Si scostò in fretta e incatenò il suo sguardo a quello del Mangiamorte, rabbiosa. - Che cosa vuoi?
 Nonostante fosse visibilmente infastidito dal modo brusco in cui si era allontanata, Flint curvò le labbra in uno strano sorriso.
 - Che domanda stupida! Credevo che fossi una ragazza intelligente, ma evidentemente mi sbagliavo - disse.
 Avanzò di un altro passo, obbligandola a poggiare la schiena contro il muro accanto al telefono e le bloccò ogni tentativo di fuga, piantando le mani inguantate ai lati della sua testa e si abbassò a colmare la distanza fra di loro.
 La sua voce divenne poco più di un sussurro quando disse: - Chiunque tu abbia contattato non potrà aiutarti… Tu e tutti questi stupidi Babbani… sarete morti prima del loro arrivo se non farai quello che ti dico - il suo sorriso era crudele. 
 In quel momento la voce di Entity sibilò nella mente di Ginevra: “Uccidiamolo”. Stava ribollendo di rabbia quasi quanto lei e la voglia di accontentarla era sempre più invitante.
 “Non ancora”, ribatté Ginevra alla sua amica. “Sii paziente”.
 Doveva mettere più distanza possibile tra lei e quello schifoso, ma doveva sapere. Doveva sapere il perché lui e gli altri Mangiamorte non l’avevano ancora attaccata e quale fosse il loro piano.
 - Che cosa vuoi? - ripeté, mostrandogli che non aveva paura. 
 “Ho un pessimo presentimento”, sussurrò Entity mentre il sorriso del giovane Mangiamorte si ampliava.

 Dopo aver chiuso la telefonata, Emily si era messa le mani tra i capelli. La sua mente cominciò a elaborare un piano di soccorso, in fretta.
 Si sforzò di ignorare la sua amica, nonché coinquilina, Claire, che da quando la telefonata con Ginevra si era conclusa non aveva fatto altro che tempestarla di domande.
 - Che cosa ti ha detto? - fu una delle tante domande della ragazza. - Sembra quasi che tu abbia visto un fantasma… Si trova nei guai? Chiamo la polizia? 
 Era preoccupata e temeva che fosse successo qualcosa di grave, ma Emily non sapeva cosa risponderle. Non poteva dirle la verità, era troppo da digerire.
 Disse solamente: - Niente polizia. Non è successo nulla. Stai tranquilla.
 Ma quella risposta non era riuscita ad ammansire Claire nemmeno un po’. Anzi, sembrava che fosse appena esplosa. - Come puoi dire una cosa del genere? - esclamò, stralunata. - Guarda che c’ero anch’io qui. E da quello che ho sentito sembra che sia successo qualcosa di grosso.
 Emily scosse la testa. - Ti fai i film mentali. 
 - Film mentali? - ripeté Claire. - Wow… Fai sul serio? Ti sembro un idiota? È da settimane che ti comporti in modo strano, ma ho fatto finta di niente perché pensavo che ti saresti confidata con me, ma a quanto pare mi sbagliavo.
 Emily non le diede retta. Andò dritta verso l’attaccapanni e prese il giubbotto. 
 - Si può sapere perché mi stai ignorando? - sbottò Claire tutt’a un tratto.
 - Non ti sto ignorando - esclamò. - È colpa del lavoro se ci siamo viste poco.
 Non era una bugia. Il lavoro l’aveva davvero sommersa, soprattutto nell’ultimo periodo. Claire credeva che facesse la hostess, il ché giustificava le lunghe assenze e le sparizioni improvvise, o almeno in parte, e non poteva sapere che il vero lavoro di Emily fosse così impegnativo.
 Claire sbuffò, stanca. - Oh, ti prego! So benissimo che mi nascondi qualcosa! Io voglio solo aiutarti - disse. - D’accordo. Non chiamerò la polizia, ma mi devi almeno dire la verità. Ci siamo dette sempre tutto. Tu conosci tutti i miei segreti e io conosco i tuoi. Perché adesso ti comporti così? 
 Sentirle pronunciare quelle parole fu come ricevere venti coltellate tutte, una dopo l’altra. Per sua fortuna le dava le spalle e non poteva vedere l’espressione contrita sul suo volto. 
 - Non puoi capire - disse mentre si infilava il giubbotto.
 Claire le fu accanto. - Certo che posso capire. Sono la tua migliore amica - disse. Dopodiché prese il suo giubbotto di jeans attaccato all’attaccapanni e se lo infilò.
 Emily la guardò. - Che stai facendo? Non ho tempo di giocare con te.
 - Vengo con te - rispose con determinazione.
 - Assolutamente no. 
 Voleva gridare, ma la voce sembrava non voler collaborare.
 - Allora dimmi la verità - la sfidò l’amica.
 Emily sbuffò, contrariata.
 Con Claire andava sempre a finire in quel modo. Doveva vincere la maggior parte delle conversazioni e delle liti. Per lei ciò che importava era che la verità saltasse fuori, dovevano essere trasparenti l’una con l’altra. La trasparenza, però, era una delle qualità in cui Emily non eccelleva affatto. Riusciva quasi sempre a mascherare con altre bugie, creando un circolo vizioso, e Claire non si era mai accorta di nulla o non aveva indagato più del dovuto davanti alle sue bugie… ma non quella volta. 
 Quello non era più un gioco tra loro. Era spaventata e voleva davvero sapere quale fosse il problema. Ma Emily non poteva dirle la verità. 
 Tutta quella insistenza, tutte quelle domande, la stavano facendo innervosire e tutto lo stress che aveva accumulato fino a quel momento sembrava fosse arrivato al limite. Si sentiva prossima a un'esplosione emotiva, e fu proprio quello che accadde all’ennesima insistenza di Claire.
 Emily esplose.
 - Vuoi la verità?
 Non aspettò una risposta. Tirò fuori la bacchetta che teneva nascosta nello stivale e la puntò contro le riviste di moda babbana di Claire, ammassate sul tavolino dell’ingresso, ed esclamò: - Wingardium Leviosa!
 Con immensa sorpresa di Claire le riviste cominciarono a fluttuare sopra le loro teste, poi fu il turno delle chiavi, delle scarpe abbandonate vicino alla porta d’ingresso e dei libri sugli scaffali là vicino.
 Fece tornare tutto al suo posto e, con le lacrime agli occhi, incrociò lo sguardo sconvolto di Claire. 
 - Sono una strega - disse con un’alzata di spalle. - Ecco la verità. Mentre parliamo, mia nipote si trova in pericolo, circondata da maghi oscuri che vogliono farle del male, e io devo andare a salvarla.
 Claire era sconvolta, ma non pronunciò una sola parola. Guardava ancora le riviste, i libri e le scarpe come se si aspettasse in qualche modo che riprendessero vita e la circondassero.
 Non si accorse nemmeno che Emily le aveva appena puntato contro quel bastoncino di legno magico. 
 - Avrei voluto dirtelo in un altro modo - le confessò Emily, affranta. - Ma ora devi dimenticare.
 Claire la guardò, confusa, e non ebbe il tempo di obiettare o di dire alcunché quando Emily sussurrò l’incantesimo: - Oblivion!


ANGOLO AUTRICE:
Salve a tutti! So che non è un granché come capitolo, ma ho avuto problemi con il mio computer e ho dovuto riscrivere tutto il capitolo. Spero comunque che vi sia piaciuto e vi do appuntamento al prossimo! 
E ci tenevo ad approfittare dell'occasione per augurarvi buone feste e ringraziare ognuno di voi che continuate a leggere questa storia.
A presto, 
18Ginny18 


 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 - IN TRAPPOLA ***


Capitolo 11 – In trappola

  - Che cosa voglio? - Lo strano sorriso di Flitt si ampliò, diventando sgradevolmente malizioso.
 Resistere all’impulso di assestargli un calcio nelle parti basse non fu affatto facile per Ginevra, soprattutto quando lo vide chinarsi sempre di più su di lei come per baciarla.
 Era pericolosamente vicino, ma il ginocchio di lei era comunque pronto a colpire nel caso si fosse azzardato a toccarla. Sorprendentemente, però, Flitt riuscì a capire in anticipo le sue intenzioni e fu abbastanza lesto da pietrificarla prima ancora che lei potesse reagire in qualche modo.
 Era in trappola.
 Entity urlò con tutte le sue forze e provò a annullare l’incantesimo, ma ogni suo tentativo fu inutile.
 Il sorriso di Flitt divenne sempre più malizioso. - Non sai quante volte ho desiderato farlo - le sussurrò spudorato, avvicinando la bocca al suo orecchio.
 Per quanto ci provasse, Ginevra non aveva via di scampo. La paura, al solo pensiero di ciò che poteva accadere, le invase la mente.
 “Aiutami! Proviamo a liberarci”, esclamò Entity. “Non possiamo farci toccare”.
 Nonostante la sua preghiera fosse disperata, non riuscivano a combattere. Il fuoco dentro di loro era ardente, ma non riusciva a scalfire l’incantesimo.
 I Babbani lì attorno sembravano ignorarli; era quasi come se non potessero vederli. 
 Ginevra capì che il giovane Mangiamorte era stato tanto furbo da aver applicato un incantesimo di disillusione, così da rendere entrambi momentaneamente invisibili.
 Fu in quel momento, che lei maledì chiunque avesse inventato quell’incantesimo. E maledì ogni istante in cui il Mangiamorte le si strusciava addosso, con tutto il suo cuore.
 Quando Marcus inspirò ancora una volta il suo profumo e col braccio le cinse la schiena, facendo scivolare la mano fino al sedere, le vennero le lacrime agli occhi.
 Era incapace di opporsi, di reagire in alcun modo.
 Sembrava che oltre al suo corpo le si fosse pietrificato anche il respiro. 
 Non poteva parlare, né urlare, né sottrarsi. Era completamente inerme sotto il suo tocco.
 - Le regole sono semplici, bambolina - le sussurrò Flitt, minaccioso. - Voglio che tu venga con me, senza fiatare. E se solo ti azzardi a fare un passo falso uccideremo te, i tuoi amici e tutti i luridi Babbani in questo locale da quattro soldi prima ancora che tu possa battere ciglio. 
 Non era necessario guardarlo per capire che i Mangiamorte avrebbero ucciso comunque tutti gli innocenti in quel locale. Ginevra sapeva con certezza che quello era il loro piano fin dall’inizio, lo si poteva intuire dal modo in cui continuavano a lanciare occhiate ad ogni singola persona all’interno del bar e dai sorrisi spietati sui loro volti.
 Era convinta che ognuno di loro stesse escogitando il modo più divertente per massacrare tutta quella gente. Le loro intenzioni erano ben chiare.
 Così come erano chiare le intenzioni di Flitt nei suoi confronti. 
 Aveva ancora una mano sul suo fondoschiena, ma sentì le sue dita arricciare la gonna del vestito, lentamente, fino a scoprire la parte che più gli interessava toccare. 
 Un sospiro soddisfatto sfuggì dalle labbra del giovane Mangiamorte alimentando sempre di più il disgusto e l’orrore di lei.
 Ginevra avvertì un fremito dentro di sé, ardente come il fuoco, accompagnato da un ringhio sommesso. Capì che Entity provava esattamente la stessa cosa.
 “Io lo ammazzo. Li ammazzo tutti”, urlò l’Essere superiore.
 Dal modo in cui si agitava nella mente della ragazza, sembrava comportarsi come un animale in gabbia: la immaginava camminare continuamente in circolo, con gli occhi pieni di furia fissi sull’uomo davanti a loro e sulle sbarre che la dividevano da lui. Ginevra non poté fare a meno di notare che quella era la prima volta che reagiva in quella maniera e ne capì il motivo.
 Soffriva. 
 Soffriva con lei senza potersi muovere, subiva senza poter reagire. Erano una cosa sola.
 - Mi piaci da morire. Lo sai? - disse Flitt con un rantolo roco, mentre la sua mano le strizzava la natica. - E ti preferisco quando stai zitta e buona.
 Si spinse su di lei, schiacciandola completamente contro il muro, e la strinse a sé, con violenza. Fu in quel momento che Ginevra si accorse con orrore di qualcosa che si strusciava con entusiasmo contro la sua coscia.
 Voleva urlare, impedirgli di continuare a muoversi. 
 Pregò che qualcuno lo fermasse e che corresse in suo aiuto e, prima che quello sporco maniaco si azzardasse a muoversi ulteriormente, fu qualcuno dall’esterno a richiamarlo. 
 Anche se era stato un Mangiamorte a rispondere alla sua preghiera gliene fu molto grata. Inconsapevolmente, l’aveva salvata.
 Flitt brontolò il proprio disappunto. - Fine dei giochi, bambolina.
 Si scostò quel tanto che bastava per tornare a guardare Ginevra negli occhi. Aveva un orribile sguardo animalesco.
 Spostò la mano dal fondoschiena di lei e, prima di rimuovere ogni incantesimo che aveva lanciato, si apprestò a sussurrare minaccioso: - Se oserai colpire me o uno dei miei compagni, tutti i Babbani che ci stanno attorno moriranno. E ricorda: non scappare - le sorrise e aggiunse: - Spero di essere stato chiaro. Fai la brava, d’accordo? 
 Agitò la bacchetta in aria e quando pronunciò l’incantesimo Ginevra si ritrovò con il corpo molle, privo di forze. Si accasciò su sé stessa e cominciò a tremare.
 Voleva scoppiare a piangere, ma si trattenne dal farlo.
 Non lì.
 Non davanti a lui.
 Flitt la strattonò per un braccio. - Ora muoviti - le ordinò in un sussurro. La bacchetta stretta nella mano destra, premuta contro la schiena di lei. - E se pensi di scappare o colpirmi, ricordati che hai una bacchetta puntata alla schiena.
 Il modo in cui lo disse suonò molto ambiguo e Ginevra non riuscì a mascherare il disgusto e il tremore lungo tutto il corpo.
 Non voleva più sentire il tocco di quel mostro su di sé.
 Assetata di vendetta, Entity era già pronta a colpire, ma lei la fermò.
 Anche volendo, tentare di prenderlo alla sprovvista colpendolo o evocando uno degli elementi per metterlo fuori gioco non sarebbe stata una buona idea.
 C’erano troppi Babbani e i Mangiamorte che aspettavano fuori erano troppi da gestire per una persona solta. Doveva sfruttare l’elemento sorpresa.
 Insieme a Entity cominciò a pensare alle alternative, scartando ogni tipo di incantesimo o fattura che le venivano in mente. Anche senza utilizzare una bacchetta avrebbe attirato l’attenzione e non era ciò che voleva. Doveva essere discreta e doveva trovare un modo che l’aiutasse a salvare i Babbani.
 - Ehi, amico! Tu col cappuccio e il mantello! - lo richiamò un uomo dal fondo del bar.
 Quella esclamazione era troppo chiassosa per ignorarla e, dato che Flitt era l’unico in quel bar ad indossare quegli indumenti, era chiaro a chi si riferiva. 
 Arrestò il passo, obbligando così anche Ginevra a fermarsi, e si voltò verso quella voce. 
 L’uomo che aveva parlato gli aveva fatto un cenno con la mano, come per farsi riconoscere. Era un uomo anziano, con la barba incolta e un sorriso genuino. Al suo tavolo sedevano altri tre uomini, della sua stessa età. Tutti loro ridacchiavano sotto i baffi come dei ragazzini.
 Flitt li guardò uno per uno senza celare lo sdegno che provava, ma nessuno di loro sembrava non averlo notato. 
 - Non è un po’ presto per Halloween? - lo sfotté quel vecchietto scoppiando a ridere insieme ai suoi amici. 
 Flitt lo guardò e mostrò loro un sorriso crudele, ma non rispose alla loro provocazione.
 Spinse Ginevra verso l’uscita e fece esplodere il bicchiere di succo d’arancia di quell’uomo con un veloce movimento della bacchetta.
 Si udirono delle urla di sorpresa e di spavento, ma né Flitt né Ginevra si voltarono a guardare.
 Uscirono dal locale.
 Il resto dei Mangiamorte li accolse con sorrisetti strani, altri con semplici occhiate impazienti. 
 - Ci hai messo tanto, Flitt. Ma finalmente hai fatto qualcosa di utile - esclamò uno dei Mangiamorte più anziani. Il tono che aveva usato era inespressivo, privo di colore. Sembrava fosse stanco e annoiato, ma Flitt era comunque molto soddisfatto di sé stesso.
 Il Mangiamorte anziano guardò Ginevra e sbuffò.
 Non capiva perché il suo Signore avesse mobilitato un’intera squadra per rapire quella ragazzina. Quanti anni aveva? Quindici? Sedici?
 Che cosa aveva di tanto speciale? In realtà non gliene importava. 
 Sapeva solo che era la figlia di quello schifoso Babbanofilo di Sirius Black.
 Se il Signore Oscuro la voleva viva o morta non era affar suo.
 Ciò che innervosiva il vecchio Mangiamorte era che, da grande, fedele e affezionato seguace che combatteva in prima fila nelle battaglie, era stato recluso lì, a fare da balia ai nuovi accoliti, con la missione di rapire una ragazzina. 
 Che poi non era nemmeno un vero rapimento! Non dovevano toccarla, dovevano solo spingerla a seguirli senza obiezioni. L’importante era di non farle del male.
 Puah!
 Dov’erano finiti i tempi in cui rapire qualcuno significava torturare e creare scompiglio?
 Rimpiangeva i bei vecchi tempi e il brivido della battaglia.
 - Ora andiamo. Il Signore Oscuro non accetta i ritardi - disse.
 Poi uno di loro tirò fuori la bacchetta e la puntò verso il locale pieno zeppo di Babbani e nella testa di Ginevra suonò l’allarme rosso.
 “Dobbiamo agire. Adesso!”, fu l’immediato intervento di Entity. E aveva ragione. Non avevano tempo da perdere. 
 Ginevra si liberò dalla presa di Flitt e lo spinse di lato, con forza.
 Approfittando dell’assenza di pedoni su quella strada, chiamò a sé una potente folata di vento che scansò i Mangiamorte riuniti attorno a lei contro un muro, e sigillò la porta del bar applicando un incantesimo non verbale di protezione. 
 Dopodiché spostò l’attenzione verso i Mangiamorte. Sotto i loro sguardi attoniti, plasmò quel vento fino a formare una prigione attorno a loro.
 Li guardò urlare, tentare di attraversare quel vento smaterializzandosi, ma ogni loro tentativo era vano. Venivano respinti uno ad uno.
 Quel vortice d’aria non le costava tanto sforzo, ciò che la affaticava era mantenere la concentrazione sui vari incantesimi di reclusione che stava applicando man mano su di essa per impedire ai Mangiamorte di uscirne. Soprattutto a Flitt.
 Non si era accorta, però, che uno di loro era fuori da quella prigione d’aria: il più anziano. Era stato l’unico ad avere i riflessi pronti e si era schermato da quell’attacco appena in tempo.
 In un lampo si materializzò alle spalle della ragazza che, ignara, manteneva la concentrazione su quell’immensa prigione di tempesta che aveva creato.
 Il Mangiamorte esitò un solo istante prima di puntarle la bacchetta contro. Non era riuscito a nascondere lo stupore.
 Fin da quando aveva memoria non aveva mai veduto né sentito parlare di nessuno in grado di fare una magia talmente potente come quella ragazzina… forse un tempo, ma mai come il Signore Oscuro. Lui era grande, il più grande mago del mondo.
 Ma quella ragazza aveva un potere molto più forte.
 Fu in quel momento che il Mangiamorte avvertì l’essenza di quel potere. Poteva sentirlo fin dentro le ossa. 
 Guardandola, realizzò il perché il suo Signore fosse tanto interessato a quella ragazza. Lei era la Fonte.
 Era colei che avevano cercato per anni e anni, che portava il dono che ogni mago o strega bramava: il potere assoluto, la vita eterna…
 Finalmente era davanti a lui.
 Era stato forse il destino a metterla sulla sua strada?
 Poteva avere tutto ciò che desiderava… poteva diventare il mago più potente del mondo, anche più del Signore Oscuro.
 Sempre più strabiliato, guardò la giovane Black compiere quella straordinaria magia che era in continua evoluzione: la prigione costruita dal vento si stava pian piano restringendo attorno agli accoliti del Signore Oscuro e, dal modo in cui li vedeva contorcersi e stramazzare a terra, capì che l’aria stava diventando insostenibile; li stava soffocando lentamente. 
 “Magnifico”, pensò il Mangiamorte.
 Nulla poteva impedirgli di colpirla alle spalle, prenderla e sottrarle quel dono fino all’ultimo granello. Non sapeva esattamente come far suo quel potere, ma era certo che si sarebbe divertito molto a scoprirlo.
 A quel punto sarebbe stato il Signore Oscuro a strisciare ai suoi piedi e inchinarsi a lui.
 Sì, riusciva già a immaginare la scena.
 Accecato dalla brama di potere puntò la bacchetta contro la ragazza e scagliò il primo incantesimo.
 Un grido lacerò l’aria e la ragazza si piegò, in ginocchio, in preda al dolore. 
 Non poteva ucciderla: gli serviva in vita, doveva sfruttare la sua forza e risucchiare il dono dentro di lei. Morta sarebbe stata un’inutile guscio vuoto.
 Lentamente, i Mangiamorte all’interno della sfera ricominciarono a respirare. La prigione ventosa si stava dissolvendo fino a sparire del tutto. 
 Li sentì tossire, imprecare, ma non gliene importava molto. 
 Il suo unico obiettivo era la ragazza.
 - Crucio! - gridò, godendosi il suono melodioso delle sue urla. E lo ripeté ancora, ancora e ancora quando lei provò ad attaccarlo per difendersi.
 Era tenace e forte, doveva concederglielo, ma l’avrebbe spezzata facilmente. Ne era sicuro.
 Si avvicinò a lei, senza il minimo timore. La guardò contorcersi e affannarsi sui ciottoli di quella strada.
 - Tutto qui? - la schernì. - Credevo che la Fonte fosse più potente di così…
 Ginevra respirava ancora con affanno. Quell’attacco a sorpresa, oltre a provocare tanto dolore, l’aveva deconcentrata da ciò che stava facendo e, in quel momento, fu come se l’aria nei suoi polmoni fosse stata attirata dal tornado che lei stessa aveva creato e che stava sottraendo il respiro a coloro che teneva prigionieri. 
 Aveva perso il controllo. 
 “Odio ammetterlo ma… te l’avevo… detto”, ansimò Entity. “Io ho… sempre… ragione”
 “Davvero? Ti sembra… il momento… di rinfacciarmelo?”.
  Sì, Entity aveva ragione. Avrebbero dovuto rimanere a casa, continuare ad allenarsi… Ma Ginevra non lo avrebbe ammesso tanto facilmente. 
 “È sempre… il momento per rinfacciarti qualsiasi sbaglio tu faccia… tesoro”, ribatté prontamente l’Essere superiore.
 Nonostante fossero entrambe ansimanti, doloranti, confuse e quasi prive di forze, trovavano comunque le forze di mandarsi a quel paese a vicenda. Con tenerezza, ovviamente.
 Il loro rapporto era così, inutile girarci attorno. 
 Battibeccavano, ma si volevano bene. Quasi come sorelle. E si proteggevano l’un l’altra.
 “Dobbiamo sbrigarci”, la incitò Entity. “Non è ancora finita”.
 Infatti, insieme all’uomo che le aveva colpite, cominciavano ad avvicinarsi anche gli altri Mangiamorte. 
 - Perché non ci hai aiutato? - sbraitò uno dei più giovani con tono rabbioso, rivolgendosi al più anziano. 
 - Stavamo soffocando! - continuò un’altro.
 Ginevra era in mezzo a loro, separandoli con il proprio corpo. Restò in silenzio, con i palmi delle mani a terra, approfittando di quella stupida faida tra loro per riprendere le energie necessarie. 
 Nessuno le prestò attenzione. Pensavano fosse svenuta o semplicemente innocua. 
 Si sbagliavano.
 Il Mangiamorte anziano mise su un ghigno crudele e si rivolse al resto del gruppo. - Perché vi state scaldando tanto? Vi ho salvato, no?
 - Sì, ma con i tuoi porci comodi!
 Flitt si fece avanti. - Che cos’hai in mente, vecchio? - ringhiò. - Volevi lasciarci morire soffocati?
 - Al contrario di voi, io ho portato a termine il piano - disse il Mangiamorte. - Voi, stupide signorine, non avete retto nemmeno per un secondo. Mi dovete la vita! - aggiunse alla fine con crudele soddisfazione.
 Tutto stava andando meglio di come pensava.
 Quegli stupidi ragazzini erano in debito con lui e presto il Signore Oscuro si sarebbe ritrovato senza seguaci. 
 - Cosa diamine pensavi di fare? - lo accusò poi Walden Macnair, suo vecchio amico di scorribande, e l’unico adulto in quel gruppo oltre lui.
 Si conoscevano fin da quando erano ragazzini e non poteva nascondergli nulla. Era più facile che riuscisse a ingannare sé stesso, piuttosto che darla bere a Macnair.
 Incrociò lo sguardo dell’amico, poi guardò la ragazza rannicchiata ai loro piedi e qualcosa in lui scattò. Proprio come il suo vecchio amico, Macnair aveva avvertito il potere e aveva capito chi, o meglio cosa, fosse.
 Sgranò gli occhi per la sorpresa, per poi deformare il viso in un’espressione di puro disgusto. - Volevi prenderla tu, non è così?
 Il Mangiamorte sbuffò un sorriso. Per Macnair era sempre stato un libro aperto e lo detestava. 
 - Sappi che il Signore Oscuro non apprezzerà la cosa quando glielo riferiremo.
 Non vi era alcun rimorso in quelle parole. Solo una forte delusione.
 Il Mangiamorte anziano si sentì tradito. - Peccato che non accadrà mai - sibilò a denti stretti. Puntò in fretta la bacchetta contro di loro, pronto a colpire, ma Ginevra fu più veloce.
 La terra tremò con un forte boato e si aprì sotto di loro. Alcuni Mangiamorte barcollarono, due di loro piombarono nell’oscurità della voragine, urlando. L’unico punto in cui il terreno era rimasto intatto era proprio dove si trovava Ginevra.
 Quando fu di nuovo in piedi, Ginevra attirò l’acqua delle tubature sotto di sé e si schermò dagli attacchi feroci dei suoi avversari più arditi e, quando l’acqua non riusciva a proteggerla, evocava gli altri elementi.
 Il duro allenamento cominciava a dare i suoi frutti.
 Una potente ondata di fuoco investì i Mangiamorte in prima linea, che caddero uno ad uno. La maggior parte si nascosero alla sua vista, lanciandole qualche attacco da dietro un muro.
 Nella confusione di quegli incantesimi, Ginevra vide Marcus Flitt rialzarsi da terra.
 I suoi occhi bruciavano dalla rabbia. 
 Al solo guardarlo, Entity digrignò i denti. “Posso ucciderlo, ora?”
 Flitt scuoteva la testa con disappunto, pulendosi l’abito scuro dalla terra. - Oh, Black - disse con uno strano sorriso sulle labbra. - E io che ti avevo sottovalutata…
 - Non è la prima volta, mi pare - lo rimbeccò lei, ricordando quella volta in cui gli aveva rotto il naso con un pugno dopo che lui aveva insultato Fred e George.
 In quel momento voleva limitarsi al naso, voleva rompergli ogni osso del corpo.
 Prima che lui potesse aprire di nuovo bocca, lo colpì con una potente ondata di fuoco. Sentì il suo grido di dolore, ma non accennò a fermare o diminuire l’attacco. Anzi, lo colpì con più ferocia.
 Voleva far sparire il suo stupido sorrisetto… voleva dimenticare la sensazione orribile che le aveva lasciato quando si era avvicinato a lei e l’aveva toccata. Voleva distruggere ogni cosa.
 Macnair le fu alle spalle e, da bravo serpente infame, era pronto a stordirla e porre fine a quello scontro. Ma quel giorno la dea bendata sembrava non essere dalla parte dei Mangiamorte. 
 Emily Tonks gli lanciò uno schiantesimo appena in tempo. Al suo fianco c’erano anche sua nipote Nymphadora e Remus Lupin, che sbaragliarono tutti i Mangiamorte gli stavano intorno. Con loro c’era anche Alastor Moody, che non ebbe alcuna difficoltà a mettere fuori gioco ogni Mangiamorte che aveva a tiro. 
 Al solo guardarlo alcuni scapparono via.
 - La mia fama mi precede - sghignazzò l’Auror, compiaciuto, attirando a sé uno dei fuggitivi con un incantesimo. 
 Con il loro aiuto Emily era riuscita a sconfiggere i nemici in pochi minuti. L’unica che non accennava a porre fine a quella battaglia era Ginevra, che non si accorse minimamente della loro presenza finché Emily non le poggiò una mano sulla spalla. 
 - È finita - disse. - È finita
 Il suo tono di voce era dolce, pacato, come se stesse parlando a un animale impaurito.
 Quando incrociarono i loro sguardi, le fiamme che continuavano a fuoriuscire dalle dita della ragazza si ritirarono lentamente.
 Il terreno si chiuse sotto di loro. 
 Ginevra cominciò a tremare. Le si appannò la vista e il respiro divenne affannato.
 Guardò il corpo carbonizzato di Marcus Flitt disteso a pochi metri di distanza provando un gran sollievo. Poi realizzò ciò che era accaduto.
 Aveva ucciso. 
 Aveva tolto la vita a un essere umano. 
 La voce di Entity provò a tranquillizzarla, dicendole che quello non era un essere umano, ma un mostro che meritava quella fine. Ma Ginevra non era molto d’accordo. 
 Le forze cominciarono a venire meno dopodiché vi fu il buio.

Si svegliò qualche ora dopo, in un luogo che non riconosceva, in un letto che non era il suo; la stanza dove si trovava era piccola ma arredata nei minimi particolari, suscitando ordine e serenità. Sulla parete c’erano dei poster di band musicali babbane e fotografie immobili. Dalla finestra si udiva il caos della strada Babbana, con le sue automobili.
 Ginevra si tirò su e puntellò i gomiti sul materasso. Le faceva male il petto, e respirava a fatica. La testa girava e non ricordava molto di ciò che era successo. Nella sua mente vedeva solo i Mangiamorte che la seguivano e la circondavano. E poi? Cos’era successo?
 - Come ti senti? - le chiese qualcuno. 
 Una giovane donna dal sorriso gentile era seduta accanto a lei. Aveva lunghi capelli scuri e ondulati, occhi chiari e luminosi e sfoggiava una bellezza invidiabile.
 Ginevra la guardò, confusa. Non la conosceva, ma non sembrava cattiva. Si trovava stranamente a suo agio in sua compagnia.
 - Dove…? - La domanda le si spense in gola quando vide Emily accanto alla porta.
 - Sei nel mio appartamento - rispose. - Dopo quel forte terremoto, la città si è riempita di ambulanze ed è entrata nel caos. Quando ti ho trovata eri svenuta dalla paura, ma non avevi nulla di rotto. Così ho pensato che questo fosse il posto più vicino e sicuro dove tu potessi riprenderti senza dover avere a che fare con la bolgia del traffico e degli ospedali. Spero che non ti dispiaccia - aggiunse infine con un sorriso obliquo.
 Per un attimo le sue parole, o meglio le sue bugie, riuscirono a confonderla. Poi Ginevra capì e cominciò a ricordare quello che era successo.
 La terra che tremava. 
 I Mangiamorte. 
 I Babbani.
 Flitt. 
 Il fuoco. 
 Ricordava ogni cosa.
 - Ci sono dei feriti? - domandò Ginevra con groppo alla gola, temendo la risposta.
 Emily scosse la testa. - Stanno tutti bene, ma la polizia e gli ospedali hanno comunque dato l’allarme.
 - Grazie al cielo, oserei dire - sospirò la donna seduta vicino a lei. - In tutta la mia vita non avevo mai sentito un terremoto così forte. È stato spaventoso. Tremo ancora - disse poi mostrando le mani che tremavano leggermente.
 Emily la guardò di sottecchi, mal celando un certo disagio. Poi rivolse nuovamente lo sguardo verso la nipote, come a farle capire che avrebbero parlato in un secondo momento, da sole.
 Ginevra annuì e guardò la donna seduta al suo fianco.
 Aveva capito subito che si trattava di una Babbana e che era meglio non coinvolgerla nel loro mondo. Quindi si limitò a tenere per sé tutte le immagini che le frullavano nella mente, con i pensieri e le sensazioni orribili e tutto il resto.
 Decise di indossare una maschera, fingendo che andasse tutto bene e che l’aver ucciso un essere umano non l’avesse toccata minimamente. Avrebbe mostrato il lato migliore di sé stessa, per poi lasciarsi andare una volta rimasta sola nella sua camera.
 Persino Entity rimase in silenzio. Forse fingeva anche lei o forse era talmente sfinita da tutto quello che era successo che si era ritagliata uno spazio tutto per sé e riposare.
 “Andrà tutto bene”, si disse. “Sorridi e tutto andrà bene”.
 Sospirò, trattenne le lacrime e sorrise alla zia Emily.
 Anche la donna al suo fianco si voltò a guardarla. - Per fortuna adesso è tutto apposto - disse, sorridendo.
 Emily abbassò lo sguardo immediatamente, con aria colpevole. - Vado a preparare un tè - disse per poi dileguarsi in fretta.
 Sembrava volesse stare il più lontana possibile da quella donna, ma Ginevra ne ignorava la ragione.
 - Da quando è tornata è un po’ strana - disse la donna, pensierosa, continuando a guardare il punto in cui prima vi era Emily. Poi scrollò le spalle e si imbronciò. - Be’, d’altronde è sempre un po’ strana. Ma è per questo che le voglio bene. Tutti i migliori sono un po’ matti o strani, no? 
 Ridacchiò, ma senza allegria.
 Ginevra la guardò e vide che c’era qualcosa nel suo sguardo, un’ombra. Era come se stesse cercando di ricordare qualcosa di importante senza però riuscirci.
 - Tu sei Claire, vero? - domandò, decisa a distrarla dai suoi pensieri. In realtà quello era anche un modo per distrarre sé stessa, ma aiutare qualcun’altro l’aiutava a non pensarci troppo.
 La donna annuì e sorrise, riacquistando un po’ di entusiasmo. - È bello conoscerti, finalmente! - disse. - Emily mi ha parlato così tanto di te che mi sembra quasi di conoscerti già!
 - Spero che ti abbia detto solo cose belle - disse Ginevra con una risatina. 
 - Oh, lei ha solo parole di lode su di te. 
 Chiacchierarono per un po’, scoprendo di avere molte cose in comune come la passione per Jon Bon Jovi e per i cani. Claire era un tipo molto esuberante e lo dimostrò anche quando accese lo stereo e si scatenò cantando a squarciagola Livin’ On A Prayer. Era una delle canzoni preferite di Ginevra e riusciva sempre a darle la carica… ma non in quel momento.
 Si sforzò di imitare Claire, per nascondere il caos dentro di sé, senza riuscirci del tutto.
 Non riusciva più a ricordare quando fosse stata l’ultima volta che aveva ascoltato una canzone del suo musicista Babbano preferito e si era lasciata andare in un ballo scatenato come stava facendo Claire in quel momento. In realtà non ricordava di aver ascoltato alcun tipo di musica negli ultimi mesi.
 Per il suo ultimo compleanno, George le aveva regalato i biglietti per il concerto di Bon Jovi che previsto per la fine di ottobre, ma non ci sarebbero mai andati. Purtroppo, lasciarsi andare e divertirsi era diventato un lusso che non potevano più permettersi con la stessa spensieratezza di un tempo, quindi avevano deciso di rivendere i biglietti.
 Ciononostante continuava a ripetersi che era la scelta migliore, ignorando il rammarico per quell’opportunità perduta. 
 Era un peccato rinunciare a quel concerto, soprattutto se pensava a quanto aveva speso George per avere quei biglietti, ma dopo tutto quello che stava accadendo sapeva che era meglio rinunciarvi.
 “Ci saranno altre occasioni”, aveva detto a George quando avevano venduto i biglietti a una coppia di Babbani.
 Sospirò, chiedendosi se un giorno ci sarebbero state altre occasioni in cui potersi godere ogni istante e vivere senza il timore di essere attaccati dai Mangiamorte e affrontare una guerra.


ANGOLO AUTRICE:
Salve a tutti! 
Questo capitolo è stato abbastanza difficile da (ri)scrivere perché, come vi ho già detto nel capitolo precedente, ho avuto problemi con il computer e ho perso cinque capitoli che avevo già scritto ma che (nella mia stupidità) non avevo salvato né su Wattpad né in una chiavetta USB. Di conseguenza sto riscrivendo tutti i capitoli che ho perso.
Non ricordo proprio tutto quello che ho scritto in quei capitoli, ma ci sto provando. Quindi vi chiedo scusa già in anticipo se ci saranno volte in cui non pubblicherò con la stessa assiduità di prima.
Ho iniziato il nuovo anno col botto, eh?😅 (o meglio il mio computer ha fatto il botto. RIP computer😢).
Comunque, spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che continuerete a seguire la storia. Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate con un commento qui sotto. Accetto anche critiche, purché siano sempre scritte con rispetto ed educazione. 
Ringrazio tutti coloro che sono arrivati fin qui e che continuano a sopportarmi. Rallegrate le mie giornate.
Vi mando un bacio e vi do appuntamento al prossimo capitolo (che spero di pubblicare giorno 16).
 Incrociamo le dita🤞​🤞​
18Ginny18

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 – LA MASCHERA ***


Capitolo 12 – La maschera

Indossare una maschera era diventato un problema. Con il passare del tempo aveva cominciato a creparsi e, una volta incrinata, il rischio che finisse in pezzi era alto.
Dopo aver lasciato la casa di Claire e Emily era stata scortata fino ai Tiri Vispi da Remus e Nymphadora, che assunsero il ruolo di guardie del corpo, ovviamente stando sempre all’erta e con la bacchetta a portata di mano. Moody, invece, non aveva perso tempo ed era tornato al Ministero della Magia a fare rapporto sull’accaduto. Se i Mangiamorte erano a piede libero era meglio mobilitare più uomini possibili e allertare il Ministro.
Ginevra camminò in mezzo a Remus e Nymphadora, senza dire una sola parola; si limitò solo a rispondere con monosillabi ad alcune domande che, era certa, le avrebbe posto chiunque quel giorno: “Stai bene? Niente di rotto? Ti hanno fatto del male?”.
Non appena varcarono la soglia del negozio, Remus raccontò a Fred e George dell’attacco dei Mangiamorte, tralasciando il fatto che Ginevra ne avesse ucciso uno, e lei gliene fu grata.
Non era ancora pronta ad affrontare l’argomento. Il solo pensiero la faceva tremare.
Sul viso dei gemelli balenarono diverse emozioni: stupore, rabbia, paura e infine sollievo, perché Ginevra era ancora viva ed era lì davanti a loro.
- Avresti dovuto chiamarci! - le aveva detto George. Era fuori di sé dallo spavento e aveva le lacrime agli occhi. - Sarei arrivato immediatamente.
- Non volevo che ti succedesse qualcosa a causa mia - rispose lei in un sussurro.
Allora George l’aveva abbracciata, forte, come per assicurarsi che lei fosse realmente lì. Che andava tutto bene. L’aveva lasciata andare solo dopo averle promesso che non l’avrebbe più lasciata da sola, nemmeno per andare a fare la spesa.
Ginevra acconsentì senza alcuno sforzo a tutte le sue richieste.
Il solo pensiero di camminare per strada da sola le provocava una certa ansia, ma si sforzò di non crollare e finse che tutto andava bene. Mostrò a tutti la maschera di un volto sereno e un sorriso, fingendo per tutto il tempo di stare bene.
Continuò a indossare la sua maschera per giorni seguenti. Continuò a indossarla persino con George, e commise l’errore di tenerla troppo a lungo.
Divenne una parte di lei.
Mostrò tutta la falsità di cui era capace, pur di nascondere il dolore che persisteva dentro di lei. Per fortuna era brava a mentire e, per tutto il tempo in cui aveva indossato la maschera, nessuno aveva battuto ciglio o fatto domande.
Si ripeteva che l’avrebbe presto tolta. Che avrebbe concesso a sé stessa di respirare senza più fingere, ma non ancora. Non in presenza di qualcuno.
Nel tempo che avrebbe passato con gli altri, sarebbe stata bene. Si sarebbe mostrata sorridente, e non una consumata dalle cicatrici e dalla paura che, col passare del tempo, la stavano lentamente consumando.
C’erano giorni in cui il trauma che le aveva lasciato Flitt diventava talmente forte da formare dei veri e propri attacchi di panico.
Non riusciva a respirare e cominciava col provare un senso di nausea e vertigine. Aveva la sensazione di soffocare, come se le pareti intorno a lei si stessero restringendo, e il cuore le batteva forte.
Ogni volta che avvertiva che il panico stava per opprimerla, si isolava in camera da letto o in bagno, sigillava la stanza con un incantesimo, e infine crollava.
A volte accadeva sotto la doccia: piangeva sotto lo scroscio dell’acqua, mascherando le lacrime, e tremava come una foglia nonostante il dolce tepore dell’acqua.
Una parte di lei voleva davvero confidarsi con George, dirgli come si sentiva, alleggerire quel peso, raccontargli l’esatto momento e in cui qualcosa in lei si era spezzato. Aveva bisogno di sentirlo accanto a sé.
Poi, però, la sua mente si soffermava sugli ultimi momenti che anticipavano la morte di Marcus Flitt e lei perdeva il coraggio di confessare.
Ricordava ancora le mani di quel Mangiamorte che la toccavano e l’impotenza che aveva provato quando non era riuscita a fermarlo e a reagire. Provava vergogna e temeva la reazione di George, una volta confessata ogni cosa.
Non voleva crollare e lasciare che George vedesse quello che Flitt le aveva fatto. Non voleva essere debole ai suoi occhi e non voleva che lui sapesse che lo aveva ucciso per vendicarsi.
Aveva ucciso un uomo.
Stentava ancora a crederci.
Quella scelta dettata dalla furia del momento aveva creato un grande vuoto dentro di lei, una voragine, che non sapeva come colmare. Solo per pura rabbia e vendetta.
Ma ciò che era successo con Marcus Flitt non era l’unica ragione che aveva creato quel vuoto.
La notte Ginevra veniva assalita dai sensi di colpa.
La mente cominciava a giocarle brutti scherzi, inviandole momenti del passato insieme a un senso di ansia e paura, trasformandoli in incubi.
Riviveva il ricordo dell’esatto istante in cui aveva spinto suo padre lontano dall’Anatema mortale scagliato da Bellatrix Lestrange. Rivedeva i suoi occhi pieni di stupore, la paura… e poi tutto il sangue che gli circondava la testa.
C’erano volte in cui si svegliava di soprassalto, grondante di sudore, con la costante paura che suo padre fosse morto. Era in quei momenti che oltrepassava le barriere mentali di Regulus per accertarsi che in realtà fosse vivo.
Quando Regulus si accorgeva delle sue intrusioni la rassicurava e rimaneva sveglio fino all’alba insieme a lei, a vegliare su Sirius.
Erano mesi che Ginevra si tormentava con la stessa domanda: “Si sveglierà mai?”. Il suo cuore era incerto sulla risposta.
Sentiva che, in qualche modo, aveva ucciso suo padre.
Il suo gesto, per quanto eroico e mosso dal più puro dei sentimenti, aveva imprigionato Sirius in uno stato di incoscienza. Lui, che aveva sempre odiato essere rinchiuso e bramava ogni giorno la libertà, soprattutto dopo dodici anni ad Azkaban, era stato recluso in un’altra prigione. Un limbo, dove nessuno era davvero vivo e nessuno era davvero morto.
Regulus ignorava le vere ragioni delle ansie della nipote. Credeva che la sua fosse solo la semplice mancanza del padre.
Era stata talmente brava a gestire il collegamento tra loro da riuscire a mascherare persino i propri pensieri. Non voleva che Regulus scoprisse come era ridotta la sua anima.
Quando aveva saputo dell’attacco dei Mangiamorte, Regulus si era arrabbiato per non essere stato avvertito, ma il suo malumore era durato poco. Come tutti gli altri prima di lui, si era premurato di domandarle come stesse e se uno di quei Mangiamorte si era azzardato a toccarla.
Continuando a indossare la sua maschera, Ginevra si era limitata a rispondere con le frasi più semplici, raccontando il minimo indispensabile e nulla più.
In quel modo era certa di non infettare gli altri con il proprio veleno.
Sapeva che quella maschera che indossava non sarebbe durata a lungo. Doveva mantenerla solo per un altro po’, giusto il tempo per permettere a quella parte di lei che si era spezzata di ricostruirsi.
Solo un altro po’ di tempo, non chiedeva altro.

Il tempo continuò a scorrere, indifferente al suo dolore.
Ogni giorno era uguale all’altro: si svegliava, faceva colazione, piangeva sotto la doccia, si vestiva, scendeva al piano di sotto a sistemare la merce del negozio, tornava su per preparare il pranzo, mangiava, sparecchiava, lavava i piatti, leggeva un libro e, quando faceva buio, si rimetteva ai fornelli per preparare la cena e infine andava a dormire.
Stessa vita, stessa routine, stesse bugie.
Nessun cambiamento.
La maschera era sempre lì, in piena vista, ma nessuno sapeva della sua esistenza; o almeno così credeva.
Fred e George sembravano gli unici ad aver notato le bugie di Ginevra e l’oscurità nei suoi occhi. Lo avevano notato già da tempo, ma da quando era stata attaccata dai Mangiamorte… la situazione era peggiorata. Sapevano che era successo qualcosa che l’aveva segnata nel profondo.
Per George era difficile trattenersi dal stringerla e consolarla, fingendo di non sentirla piangere ogni volta che si chiudeva in camera da letto o in bagno. Fingeva di non sapere quanto lei stesse soffrendo, perché aspettava che fosse lei a compiere un passo in avanti e confidarsi.
Non aveva alcuna intenzione di forzarle la mano e obbligarla ad aprirsi con lui. Sapeva che, quando Ginevra sarebbe stata pronta, lo avrebbe cercato.
Doveva solo aspettare.
Mentre l’aiutava a preparare la cena, quella sera, osservò i suoi occhi privi di luce e il sorriso falso che si ostinava a mostrare. I capelli erano raccolti in una morbida coda e sue dita sottili si destreggiavano con maestria sul piano da lavoro. Lui tagliava le verdure e lei disponeva con cura e attenzione sulla base dell’impasto.
Si scambiavano sorrisi e battutine. Quelle di lei, però, erano sempre prive di sincerità.
Per quanto lei fosse brava a mentire, George la conosceva talmente bene da saper riconoscere la differenza in un istante. Ma anziché parlarle, restò in silenzio.
Come il gemello, anche Fred riusciva a vedere e, a differenza sua, era stanco di tacere. Così, quella sera, decise di distruggere la maschera della ragazza in mille pezzi.
Dopo aver messo la piccola Roxanne nella culla, si diresse in cucina; George e Ginevra stavano apparecchiando la tavola mentre le pietanze che avevano preparato cuocevano in forno.
Si avvicinò al frigo e tirò fuori le bevande per disporle sul tavolo.
Lanciò un’occhiata veloce al forno e lasciò andare uno sbuffò. - Quanto ci vuole ancora? - domandò, impaziente. - Io ho fame.
- Ancora pochi minuti - rispose Ginevra distrattamente, mentre si apprestava a prendere i bicchieri dalla credenza.
In realtà Fred fingeva di avere un gran appetito. Fosse stato per lui si sarebbe stravaccato sul divano e avrebbe chiuso gli occhi fino al giorno dopo, talmente era stanco. Ma decise di giocare quella carta, consapevole di ogni mossa che stava facendo. Decise di farla reagire, farla arrabbiare. Voleva farle esternare delle emozioni, nonostante fossero negative.
Si afflosciò sul bancone della cucina, emettendo versi di frustrazione. - Ma non potevi usare i tuoi poteri da piromane per cucinare? - sbottò, irritato. - Avresti abbrustolito tutto in meno di minuto!
A quelle parole, il bicchiere che Ginevra aveva in mano esplose in mille pezzi.
- Scusa - esclamò subito lei. Solo dopo aver pronunciato quella parola si rese conto di ciò che aveva appena fatto.
“Ho appena chiesto scusa a un bicchiere!”, pensò, trovando la situazione sempre più assurda.
Sapevo che sarebbe successo, prima o poi”, disse Entity in tono greve, per poi aggiungere con una risatina: “Sei diventata matta!”.
Ginevra la ignorò.
I suoi occhi erano fissi sui frammenti di vetro sul tavolo e sulla sua mano. Alcuni pezzi le avevano tagliato la carne, ma lei non provava alcun dolore. Sentiva soltanto una delicata punzecchiatura che cercava di ignorare.
Guardò i piccoli rivoli di sangue colare lenti dal palmo fino al polso, senza riuscire a distogliere lo sguardo.
Era impietrita.
L’odore del sangue la frastornava, provocandole nausea. Le fischiavano le orecchie mentre le immagini del corpo del padre circondato dal sangue si presentavano prepotentemente nella sua mente. 
George la raggiunse in fretta, ma non prima di aver lanciato un’occhiata d’ammonimento al fratello. Aveva capito cosa aveva in mente di fare e non gli piaceva affatto.
Avevano notato entrambi che Ginevra aveva smesso di usare i suoi poteri. Un tempo li usava spesso, soprattutto il fuoco, che lei tendeva a prediligere, quindi era impossibile non notarlo. Ma dopo l’attacco dei Mangiamorte… ne sembrava quasi spaventata e aveva anche smesso di allenarsi.
A quel punto per Fred non fu difficile tirare le somme e intuire che ciò che la bloccava era collegato ai suoi poteri. E, il modo in cui aveva reagito alla sua richiesta, gli aveva dato ragione.
Con un colpo di bacchetta George riparò il bicchiere, dopodiché prese la mano insanguinata della ragazza e vi tamponò delicatamente un tovagliolo di stoffa bianca. Poi, ricordando il dispiacere che Ginevra aveva mostrato per quel vecchio bicchiere, corrugò la fronte e le sorrise.
- Ti fa male? - le chiese teneramente, mentre le esaminava la mano. - Non sembra che ci siano dei frammenti.
Ginevra scacciò via i ricordi dalla sua mente e si concentrò sul viso del ragazzo. - Sto bene, tranquillo - lo rassicurò lei, mostrando la sua maschera sorridente.
Si sentiva pietrificata, ma per fortuna non aveva la voce malferma.
Sospirò, cercando di ricomporsi. - Non credevo di riuscire a rompere un bicchiere con una mano.
George la confortò, sforzandosi di sorridere. - Può capitare.
- Però non puoi negare che di solito queste cose capitano soltanto a me.
George rise sotto i baffi, ma non obiettò.
Quando uscì dalla stanza per prendere bende e cerotti per la medicazione, Fred si avvicinò a lei. Stava già iniziando ad avvertire il nervosismo crescere dentro di sé. Non sopportava più la sola idea di continuare a fingere che tutto andasse bene.
Era arrivato il momento di colpire.
- Sembra che ti importi più del bicchiere che della tua mano - osservò.
Ginevra alzò un sopracciglio e un angolo della bocca si curvò in un sorriso. - È solo un graffio. Non devo mica dare in escandescenza! - disse, poi mostrò la mano al ragazzo. - Visto? Ho anche smesso di sanguinare!
- Vedo - mormorò Fred a mezza voce.
Poi sospirò e alzò gli occhi al cielo.
Ginevra lo guardò, confusa.
Per qualche strana ragione sembrava arrabbiato con lei. Ma quale poteva essere il motivo? Provò una sensazione bizzarra, alla quale non sapeva ancora come reagire. Alla fine decise di non dargli importanza, convinta che Fred fosse arrabbiato per i fatti suoi; era meglio non indagare oltre.
George tornò in cucina in fretta, armato di bendaggi, cerotti, disinfettante e cotone idrofilo. - Non sono un medico, ma so che i cerotti non basteranno - si giustificò quando notò gli sguardi su di sé.
Intimò a Ginevra di sedersi, imitandola poco dopo, e lei si lasciò medicare senza fare storie.
Chino sulla ferita, George strofinò con cura un batuffolo di cotone impregnato di disinfettante sulle ferite. La mano pizzicava un po’ e l’odore del disinfettante le faceva girare la testa, tuttavia era sopportabile. Aveva visto di peggio, ma la vista del sangue le provocava sempre le stesse orribili sensazioni.
Mentre George completava l’opera con un bendaggio aderente, per distrarsi Ginevra pensò al lato positivo della vicenda: almeno non doveva correre al San Mungo. Se c’era una cosa che lei detestava più di ogni altra cosa al mondo erano gli ospedali. Soprattutto nell’ultimo periodo.
Ringraziò George per la sua dolcezza e per averla aiutata.
Quando ebbe finito si misero a tavola per cenare, ma alla fine nessuno di loro toccò cibo perché Fred era deciso più che mai ad attuare il suo piano.
- Ma come fai? - domandò a Ginevra. - Come fai a far finta di nulla?
Ginevra aggrottò la fronte, confusa. - Di che parli?
- Parlo di tutte le cazzate che continui a propinare a noi e a te stessa - sbottò lui. Il tono della sua voce esprimeva perfettamente la rabbia crescente. - Sappiamo che ti è successo qualcosa, anche se non vuoi parlarcene.
Per un secondo Ginevra smise di respirare. Poi rise, provando ad alleggerire la tensione che stava provando. - Sciocchezze! Io non nascondo proprio nulla!
- Smettila di dire stronzate! - Fred scattò in piedi e batté i palmi sul tavolo, producendo un forte rumore che echeggiò nella stanza, e si sporse verso di lei, guardandola dritto negli occhi. - Ti sembriamo due idioti? - domandò indicando sé stesso e il fratello gemello. - Continui a mentire e io sono stanco di starmene zitto e fermo ad aspettare che ti decidi ad aprirti con noi! Si può sapere cosa diamine nascondi?
Il sorriso sparì dalle labbra di Ginevra. Rimase stupita dalla rabbia del suo amico; cominciò a sentirsi con le spalle al muro. Si voltò a guardare George. - Anche tu la pensi così? Avete deciso di organizzare questo interrogatorio?
George fulminò il gemello con lo sguardo, e sbuffò dal naso, come a dirgli “Visto in che guaio mi hai cacciato?”, dopodiché rivolse nuovamente lo sguardo alla sua ragazza. - Sai bene che non ti farei mai una cosa del genere.
- Quindi sei d’accordo con lui! - Ginevra incrociò le braccia al petto e schioccò la lingua.
- Sono d’accordo sul fatto che non voglio vederti soffrire.
- Ma io sto bene!
- Bene? - ripeté Fred a denti stretti. - Bene? Tu non stai bene! Fuori sembra che tu stia bene, ma dentro stai cadendo a pezzi.
A quel punto, stanca e al limite della sopportazione, Ginevra si alzò in piedi battendo i pugni sul tavolo.
- Ma come fai a sapere se sto bene o no? - esplose lei. - Credi di saperlo meglio di me?
- Certo che sì - rispose Fred, testardo. - Io e George ti conosciamo come le nostre tasche. So che stai mentendo!
Ginevra abbassò lo sguardo, vergognandosi di sé stessa. Fred aveva ragione, ma non lo avrebbe mai ammesso.
Mentre lui parlava poteva sentire il suono della maschera sul suo viso che stava lentamente cadendo a pezzi, ma non voleva dargli la soddisfazione e ammettere di essere stata scoperta.
Ancora una volta mostrò la maschera alla quale era tanto legata e sorrise, strafottente.
- E sentiamo - disse. - Cosa vi fa pensare che io stia mentendo?
- So che da quando tuo padre è finito in coma ti sei spenta - rispose lui, facendo cadere altri frammenti della maschera.
Ma non finì lì.
Fred sapeva dove colpire e non si sarebbe risparmiato.
- E da quando sei stata attaccata dai Mangiamorte hai smesso di usare i tuoi poteri. Hai smesso di confidarti con noi e non fai altro che fingere. Ti sei spenta. Sei finta. Non sei più tu.
Ginevra alzò lo sguardo, fissandolo con sfida. - Forse sei tu che non mi conosci davvero.
Fred non si lasciò intimorire.
- Se è così allora usa i tuoi poteri. Dimostrami che mi sbaglio - disse. - Oppure… hai paura?
Ginevra provò un brivido lungo la schiena.
Quando erano bambini, le parole: ‘Hai paura?’, erano sempre state il loro guanto di sfida davanti al quale nessuno dei tre aveva mai osato tirarsi indietro.
Fino a quel momento.
Il volto di Ginevra sembrò spegnersi di fronte a quelle parole e la maschera andò letteralmente in frantumi.
Usare i suoi poteri?
- Coraggio - la incitò. - Ti sfido.
George, che fino a quel momento aveva cercato di mediare tra i due amici, decise di intervenire. - Fred, smettila! - lo ammonì in tono greve.
- E perché? - sbottò l’altro con rabbia. - Lei non ci considera nemmeno, non vuole nemmeno confidarsi con te! Sei il suo ragazzo e fai finta che questa situazione ti vada bene!
Ginevra, in silenzio, osservava la scena come se fosse un’estranea. Li guardava litigare e urlarsi addosso senza riuscire a intervenire, sembrava paralizzata. George la difendeva, accusando il fratello di essere un insensibile e sostenendo che non fosse compito di nessuno decidere come o quando lei doveva sentirsi pronta ad aprirsi con loro.
Le parole di Fred l’avevano colpita come una doccia fredda.
Si sentì terribilmente umiliata e delusa da sé stessa. Era stata scoperta senza nemmeno essersene accorta, e per qualcosa che non aveva nemmeno il coraggio di ammettere a sé stessa.
Una strana sensazione le salì alla testa. Non sapeva se fosse la rabbia o qualcos’altro, ma decise che era arrivato il momento di porre fine a quella discussione.
- BASTA! - urlò e i gemelli si zittirono.
Si voltarono a guardarla.
Ciò che lei provava in quel momento era talmente forte e confuso da non essersi nemmeno accorta di aver fatto tremare il pavimento con un’esplosione di magia involontaria.
Guardò Fred fisso negli occhi. - Tu non sai un bel niente - disse a denti stretti. Non riusciva a impedirsi di tremare. Strinse le dita a pugno.
Gli occhi verdi di Fred si accesero.
- Ginevra - disse, - tu non capisci. Dobbiamo parlarne!
- No - ribatté lei. La sua voce era poco più di un brontolio cupo. - Non dobbiamo fare proprio niente.
- Tu non ti rendi conto di ciò che ti sta capitando…
- Smettila, Fred! Tu non sai niente. Niente.
Ginevra si voltò di scatto, le lacrime le rigavano il viso. Senza dire una parola, corse verso la camera da letto e si chiuse dentro, sbattendo la porta alle sue spalle. Fred e George rimasero i gemelli soli nel soggiorno, avvolti da un silenzio carico di preoccupazione.
- Dobbiamo fare qualcosa - disse Fred. - Non sopporto di vederla ridotta in questo stato.
George sospirò. - Lo dici a me? - mormorò, cercando di tenere a freno la rabbia.
Sapeva che le intenzioni di Fred erano buone, ma non sopportava quando si comportava in quel modo. Non sopportava quando agiva senza pensare e lo scavalcava in quel modo.
“Dannata testa calda!”, imprecò tra i suoi pensieri.
- Sparecchi tu? - domandò poi indicando la cena ancora intatta sul tavolo. Poi seguì Ginevra in camera da letto senza aspettare una risposta del fratello.
La trovò sul letto, rannicchiata su se stessa come un gatto impaurito, illuminata dalla luce soffusa delle candele. Lacrime silenziose le rigavano il viso; lo sguardo era vacuo.
All’inizio George pensò che non si fosse accorta della sua presenza, ma si sbagliava.
- Ti è mai capitato di guardati allo specchio e di non riconoscerti? - gli domandò, ma non aspettò di ricevere la risposta. - A me capita spesso in questi ultimi tempi.
George si avvicinò a cautamente lei, il cuore gli batteva forte nel petto. Le accarezzò delicatamente il viso con il pollice, sollevandole il mento fino a che i loro occhi si incontrarono. Nel suo sguardo vide un dolore profondo che lo straziò. - È così che ti senti?
Ginevra cercò di fargli un sorriso, ma riuscì solo ad abbozzare una strana smorfia. - Purtroppo sì - rispose tirando su con il naso. - Ho fatto delle cose… di cui non vado molto fiera.
George si sdraiò accanto a lei e la prese tra le braccia. Lei si accucciò, poggiando la testa sul suo petto, nascondendogli il viso. 
Si sentì un fallito. Non era stato in grado di proteggerla quando avrebbe dovuto, ma aveva intenzione di rimediare. Avrebbe fatto tutto il possibile per non commettere lo stesso sbaglio una seconda volta.
Le accarezzò la spalla con il pollice. - Vuoi parlarmene?
Davanti al silenzio di lei, George continuò.
- Non voglio insistere. Sai bene che non ti costringerei mai a fare o dire qualcosa che non vuoi. Ma voglio che tu sappia che io ci sono, posso ascoltarti e voglio aiutarti. Ci sarò sempre per te. Dimmi solo di cosa hai bisogno.
Se c’era anche una sola possibilità di farla sentire meglio, non si sarebbe tirato indietro di fronte a niente.
Ginevra sollevò la testa e incrociò il suo sguardo. Le loro labbra si sfiorarono un bacio leggero.
- Di te - sussurrò lei. - Ho bisogno di te.
E fu quello che lui le diede. Le diede tutto se stesso, anima e corpo.
Le lacrime le rigavano ancora il viso, ma era grata a George per essere lì con lei. Si abbandonò completamente alle sue carezze, lasciando che il suo tocco caldo le sciogliesse le tensioni e le paure. In quel momento aveva bisogno di lui più di qualsiasi altra cosa.
La luce soffusa delle candele creava un’atmosfera intima nella stanza. Si spogliarono lentamente, muovendosi con gesti carichi di tenerezza e desiderio. Le loro mani si sfilarono i vestiti con movimenti lenti e sensuali, rivelando corpi desiderosi e vulnerabili. George iniziò a baciarla, sfiorando il suo viso, il collo e le spalle con delicatezza, facendola rabbrividire di piacere. Le sue labbra erano calde e morbide, lasciando una scia di fuoco sulla sua pelle.
Ginevra si abbandonò al suo tocco, chiudendo gli occhi e lasciando che il piacere la consumasse. Le sue mani si attorcigliarono al collo di George, attirandolo ancora più vicino a sé. Quando scivolò dentro di lei, quasi gridò per il piacere. I loro corpi si unirono in un abbraccio appassionato, pulsando all’unisono come due cuori in sincronia.
Ogni fremito, ogni bacio, ogni carezza, ogni sguardo era un’esplosione di sensazioni che li inebriava. Ginevra gemeva di piacere, perdendo ogni inibizione e lasciandosi andare al flusso delle emozioni. Ma un lampo di dolore attraversò i suoi occhi per un attimo, un tremendo ricordo che riemergeva dalle profondità della sua mente per tormentarla ancora una volta. George se ne accorse e la strinse ancora più forte, sussurrando parole di conforto e amore.
- Non sei sola - le disse con voce profonda e rassicurante. - Io sono qui per te. Supereremo tutto questo insieme.
Ginevra annuì, le lacrime che le rigavano il viso. In quel momento, sapeva di poter affrontare qualsiasi cosa con George al suo fianco.
Nelle ore successive, si amarono con una passione che bruciava come un fuoco inestinguibile. George le lasciò fare tutto quello che desiderava, egoisticamente felice di poterle donare anche solo un attimo di tregua dal suo dolore. I loro corpi si muovevano in un ritmo sincronizzato, creando una danza sensuale che li univa sempre di più. Ginevra gemeva di piacere, urlava il suo nome, si abbandonava completamente al suo tocco. George la accarezzava con delicatezza, la baciava con passione, le sussurrava parole d’amore all’orecchio.
In quel momento, non esisteva niente al mondo oltre a loro due. Il dolore di Ginevra era svanito, sostituito da un’ondata di piacere e appagamento mai provata prima. Si sentiva amata, protetta, desiderata. George era il suo rifugio, la sua salvezza.
Quando finalmente raggiunsero il culmine, fu un’esplosione di sensazioni che li lasciò senza fiato. Ginevra si strinse a lui, gemendo ancora di piacere, mentre George la baciava teneramente sulla fronte. Rimasero così per un lungo momento, avvolti in un silenzio pieno di complicità e amore.

La luce del sole filtrava dalle tende, illuminando il viso di Ginevra che dormiva ancora beatamente tra le braccia di George. Lui la guardò con amore, accarezzandole delicatamente i capelli. Era grato per la notte che avevano trascorso insieme, per la passione che avevano condiviso, per il dolore che lei era riuscita ad allontanare per qualche ora.
Sapeva che quel dolore non era svanito del tutto, ma era fiducioso che insieme avrebbero potuto superarlo. Si voltò verso di lei e le sussurrò all'orecchio: - Ti amo.
Ginevra aprì gli occhi e gli sorrise, avvolta ancora dal dolce tepore del sonno. - Anch’io ti amo - rispose con voce roca.
Dopo tanto tempo, aveva dormito bene. Nessun incubo o ricordo spaventoso si era affacciato nella sua mente. George era riuscito ad allontanare ogni cosa.
Lui le sorrise, accarezzandole il viso dolcemente e lei sentì un fremito lungo tutto il corpo al ricordo della notte di passione appena trascorsa.
Ma dopo un po’, quella stessa passione che aveva permeato la notte si dissolse come nebbia, lasciando spazio a un’inquietudine che tornò a tormentare Ginevra. Il ricordo della discussione con Fred invase i suoi pensieri, facendo tremare il suo animo.
Fred e George avevano capito che c’era qualcosa che non andava in lei, nonostante le continue bugie. Volevano sapere cos’era che l’aveva turbata tanto, cosa l’aveva obbligata a indossare quella maschera anche con loro. E, dopo le dolci parole di George e tutto l’amore che le aveva dato quella notte, lei non riuscì più a sostenere il suo sguardo. Era terrorizzata dal giudizio che temeva di leggere nei suoi occhi una volta confessata la verità.
Temeva che nonostante tutte le promesse che le aveva fatto, George sarebbe scappato via. Temeva di terrorizzarlo talmente tanto da perderlo per sempre. Ma era stanca di continuare a mentire, soprattutto a lui. Lo aveva promesso: niente più segreti.
Notando le ombre che le avevano oscurato il viso, George le accarezzò il viso dolcemente con il dorso della mano. - Cosa c’è? - le domandò, mentre un dolce sorriso gli sfiorava le labbra.
Lei distolse lo sguardo, incapace di guardare ancora quei bellissimi occhi verde foglia che amava tanto. Temeva che se avesse continuato a guardarli avrebbe perso il coraggio di confessare il segreto che la opprimeva.
Si sentì soffocare.
Fece un respiro profondo, poi buttò lentamente fuori l’aria nel tentativo di calmarsi. Aveva giurato che non ci sarebbero stati segreti tra loro. Doveva dirgli ogni cosa.
Con voce tremante, sussurrò: - Ricordi quello che ti ho detto ieri sera?
George annuì, continuando ad accarezzarla, e lei continuò.
- C’è una cosa che mi tormenta e che non riesco a dimenticare. Questa volta… ho fatto una cosa orribile.
Le lacrime cominciarono a rigarle le guance e lui si premurò ad asciugarle dolcemente.
- George - sussurrò e abbassò lo sguardo. - Ho ucciso un uomo.
La maschera non c’era più e lui poteva vedere la sua sofferenza, la sua paura senza che lei potesse nasconderla. Il suo volto era completamente nudo.
Un altro sospiro, poi decise di guardarlo negli occhi e gli raccontò ogni cosa. Se c’era qualcuno che doveva sapere tutto quello che era successo, quella persona era proprio George. Lui era l’unico con cui poteva confidarsi, nonostante la paura di allontanarlo fosse immensa.
Gli parlò dei Mangiamorte che l’avevano seguita e circondata e, per quanto le costasse, gli parlò anche di Flitt e delle sue mani che sgusciavano e si insinuavano dappertutto, delle minacce, dell’incantesimo che le impediva di reagire… e raccontò della lotta contro i Mangiamorte. Raccontò di tutte le cose orribili che lei aveva fatto, pensato, e del modo in cui aveva messo fuori gioco la maggior parte di loro e di come aveva ucciso Flitt, senza pietà.
Raccontò il peggio di sé, così che lui sapesse tutta la verità.
- Ho perso completamente il controllo. Ho ucciso un uomo. L’ho... l’ho carbonizzato completamente… e questo solo per vendetta - un brivido gelido le percorse la schiena. - Aveva ragione Silente. Io sono un pericolo. Un mostro.
Si fermò, preparandosi a leggere il disappunto, il disgusto e la paura sul viso di George.
Ma invece di allontanarsi o guardarla con orrore, lui le circondò i fianchi e la strinse forte a sé, in un caldo abbraccio. Poggiò le labbra sulla sua spalla nuda e le lasciò una piccola scia di baci.
Gli occhi cominciarono a pungere quando George disse: - Non sei un mostro - le sussurrò con voce dolce e rassicurante. - Hai fatto quello che dovevi fare per proteggerti. Flitt non era un uomo. Era uno verme schifoso, un Mangiamorte, un criminale. Ma soprattutto era una minaccia per te. Ti sei protetta e non devi vergognarti di ciò che hai fatto. Io avrei fatto la stessa cosa. Anzi, ti assicuro che gli avrei dato la caccia e l’avrei ucciso io stesso per quello che ti ha fatto.
Ancora una volta, Ginevra rimase stupita dalla gentilezza e dall’amore che George provava per lei. Non riusciva a capacitarsi della fortuna di averlo nella sua vita, di ricevere un’amore incondizionato da parte sua.
George c’era sempre stato per lei e nonostante tutto non si sarebbe mai allontanato da lei. La paura e la vergogna si stavano dissolvendo pian piano, e tutto grazie a lui.
La guardò negli occhi, con uno sguardo pieno di amore e comprensione.
Un amore che lei non meritava, che non aveva mai meritato, ma che era lì. Come lo era sempre stato dal momento in cui si erano incontrati.
- So che è stata un’esperienza terribile - disse, - e che ti tormenta ancora. Ma non sei sola. Sono qui per te, e lo supereremo. Insieme.
Commossa, Ginevra lasciò trasparire sul suo viso tutto l’amore per George. Non aveva mai amato nessuno quanto amava lui.
Affondò il viso nel suo petto. Lui le diede un bacio sulla fronte e continuò a stringerla in quel dolce e caldo abbraccio, accarezzandola con tenerezza e sussurrandole parole di conforto e rassicurazione.
Finalmente, Ginevra si sentiva libera di piangere, di sfogare il dolore e la paura che l’avevano oppressa per così tanto tempo. In quel momento, capì di non essere affatto sola. Aveva al suo fianco un uomo che l’amava, che la capiva e che era disposto ad aiutarla ad affrontare qualsiasi cosa. Grazie a lui avrebbe trovato la forza per superare ogni cosa.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 - LA SPERANZA CHE NON SIA UN'ILLUSIONE ***


Capitolo 13 – La speranza che non sia un’illusione

Harry fissava il foglio di pergamena, la penna stretta tra le dita. Le parole sembravano bloccate nella sua mente, soffocate dal peso del segreto che nascondeva. Ginevra, la sua sorellastra, aspettava una risposta alla sua ultima lettera e lui non aveva la più pallida idea da dove cominciare.
Nella lettera le parole della sorella erano cariche di preoccupazione e sospetto. Ti scrivo perché Remus mi ha riferito che il ritratto di Phineas Black ti ha visto frequentare molto spesso l’ufficio di Silente negli ultimi tempi. Ma non ha aggiunto altro. Per caso c’è qualcosa che vuoi dirmi?, aveva scritto, senza nascondere un velo di rimprovero.
Un brivido gelido gli percorse la schiena, come se un serpente di ghiaccio si fosse insinuato tra le sue vene. Il cuore gli batteva all’impazzata nel petto, un tamburo sordo che annunciava un pericolo imminente.
Era forse stato beccato? Ginevra sospettava qualcosa? Come era possibile?
“Dannato Phineas e la sua boccaccia larga!”, esclamò Harry tra sé e sé.
Nella lettera la sorella spiegava che negli ultimi tempi nessun membro dell’Ordine della Fenice era riuscito a mettersi in contatto con Silente. Persino la professoressa McGranitt e il professor Piton, che vivevano a Hogwarts a tempo pieno, non riuscivano a trovarlo o mettersi in contatto con lui.
Silente si inventava sempre scuse per giustificare viaggi improvvisi e misteriosi avvolti in un alone di segretezza che alimentavano i dubbi e i sospetti di tutti. Quando finalmente tornava al castello, era scostante e di pessimo umore, rifiutando di spiegare le sue assenze e la sua strana condotta.
La sua preoccupazione era palpabile, le sue parole trasudavano un affetto protettivo verso il fratello minore.
Nasconde sicuramente qualcosa”, aveva scritto la sorella, calcando la penna quel tanto da rischiare di bucare la pergamena. “Stai attento, Harry. Non fidarti di lui”.
I dubbi di Ginevra erano troppo concreti per essere ignorati. Harry si sentiva diviso tra il dirle la verità e mantenere il silenzio.
L’idea di continuare a mentirle non lo entusiasmava affatto, ma quale alternativa aveva? Non poteva di certo dirle tutto quando era ad un passo dallo scoprire la verità su Voldemort!
Se solo si fosse azzardato a confessarle che Silente gli dava delle lezioni private che lo stavano avvicinando sempre di più a un mistero oscuro e pericoloso, lei avrebbe dato di matto. E, ne era certo, si sarebbe fiondata ad Hogwarts per impedirgli di continuare quella pazzia.
Nonostante i dubbi e i tentennamenti, Harry sapeva che doveva tacere.
Con un sospiro profondo, iniziò a scrivere. Le parole scorrevano lentamente, piene di esitazioni e omissioni. Descrisse le sue giornate a Hogwarts parlando delle nuove lezioni con Piton. Menzionò il professor Lumacorno, i miglioramenti in pozioni e al Lumaclub con un entusiasmo forzato. Parlò delle selezioni di Quidditch e del suo nuovo ruolo come capitano che gli andava un po’ stretto.
Le domandò di Sirius, chiedendole degli aggiornamenti sul suo stato di salute, ormai immancabili in ogni lettera.
Harry sperava di ricevere delle buone notizie, un briciolo di speranza a cui aggrapparsi.
Poi la sua penna si fermò.
Fissò il foglio, la mente tormentata da dubbi e sensi di colpa.
Immaginava l’espressione preoccupata della sorella mentre leggeva le sue lettere, i suoi occhi pieni di domande silenziose.
Harry si sentiva in trappola, stretto tra il suo desiderio di proteggere la sorella e la necessità di nasconderle la verità.
Un senso di panico lo attanagliò, ma subito dopo fu sostituito da una strana sensazione di sollievo. Forse era meglio così, forse era ora di confessare tutto alla sorella, ma come? Non poteva dirle tutto per lettera. Non era prudente. Chiunque avrebbe potuto intercettare Edvige e leggere la lettera per primo.
No. Era troppo pericoloso.
Harry sospirò, attanagliato dai dubbi, e infine riprese a scrivere.
Nonostante la cosa non gli andasse a genio, continuò a mentire.
Concluse la lettera con un sospiro di rassegnazione. Non poteva rischiare di mettere Ginevra a parte di tutto senza vedersi faccia a faccia.
Giurò a sé stesso che le avrebbe parlato per le vacanze di Natale, quando sarebbe tornato alla Tana insieme agli altri. Ma fino ad allora, avrebbe dovuto continuare a mentirle, portando il peso del suo segreto sulle spalle. Un senso di angoscia lo attanagliò mentre posava la penna, consapevole che la verità, prima o poi, sarebbe venuta a galla.
Sospirò, passandosi una mano sul viso stanco.
I ricordi che il Silente condivideva con lui sul passato di Tom Riddle erano molti e, spesso, talmente raccapriccianti da fargli venire gli incubi, ma non se ne lamentava.
A volte, nei suoi sogni appariva Orfin Gaunt, lo zio di Tom, uno squilibrato e violento, che lo terrorizzava con le sue macabre canzoncine in serpentese mentre torturava dei poveri serpenti con un coltello affilato.

Soffia, soffia, serpentello,
striscia striscia e và,
fà il bravino con zio Orfin
o sulla porta t’inchioderà”.

Lo vedeva rannicchiato in un angolo della vecchia baracca, accanto a Little Hangleton, con i suoi folti capelli impastati di lerciume da non capire di che colore fossero. La sua bocca priva di parecchi denti e piccoli occhi scuri che lo fissavano con malignità, proprio come nei ricordi che gli aveva mostrato Silente.
Tutte le deformità di quel povero uomo erano dovute al suo essere il prodotto di generazioni di relazioni incestuose e malattie mentali, rendendolo un individuo violento e squilibrato.
Il solo ricordo di quell’uomo lo faceva rabbrividire, ciononostante Harry non poteva fare a meno di provare un po’ di pena per lui.
A causa di Tom Riddle, che gli modificò la memoria facendogli credere di aver commesso un triplice omicidio di Babbani, Orfin era stato arrestato e portato ad Azkaban.
Quando Silente era andato a trovare Orfin in prigione e riuscì a estrarre il ricordo del suo incontro col nipote, era riuscito a determinare che la sua memoria era stata manomessa. Silente usò immediatamente le sue scoperte per fare appello per il rilascio di Gaunt da Azkaban, ma purtroppo l’uomo morì prima che venisse presa una decisione in tal merito e venne seppellito nel cimitero della prigione.
Nonostante Orfin fosse una persona orribile, Silente era certo che non meritasse di morire in quel modo, costretto a trascorrere la vita in prigione per un crimine che non aveva commesso ed era dispiaciuto per lui. Era inaccettabile che un uomo innocente fosse stato condannato ingiustamente e lasciato a marcire a Azkaban per errore.
La storia di Orfin Gaunt risuonava dolorosamente familiare nella mente di Harry, evocando il ricordo del suo padrino Sirius Black. Entrambi uomini innocenti, vittime di un sistema giudiziario fallace e di una società crudele. Entrambi condannati a vivere ingiustamente dietro le sbarre, privati della loro libertà e della loro dignità. Harry sentiva un profondo senso di empatia per entrambi, un’indignazione crescente verso l’ingiustizia che aveva segnato le loro vite.
Un sospiro profondo sfuggì alle sue labbra.
Nonostante la tragica fine di Orfin, Harry non poteva fare a meno di nutrire una scintilla di speranza per il futuro di Sirius. La sua innocenza era stata finalmente riconosciuta, e ora era libero, libero di vivere la vita che meritava. Ma quella libertà era vuota, senza senso, se Sirius non era lì per viverla.
Dopo tanti anni gli era stata riconosciuta l’innocenza ed era un uomo libero, ma in qualche modo era ancora imprigionato.
Harry pregò con tutto sé stesso ogni divinità esistente che Sirius si svegliasse presto dal coma, così da poter tornare a camminare per il mondo da uomo libero. Ma la risposta era un silenzio assordante, un vuoto che alimentava la sua disperazione. Un nodo di angoscia gli strinse la gola mentre si chiedeva se il suo amato padrino sarebbe mai più tornato da lui, se avrebbe mai più sentito la sua voce.
Si aggrappò a un piccolo, fragile ricordo. Un sorriso complice, una battuta scherzosa, il calore di una pacca sulla spalla. Sirius era lì, con lui, in quel sorriso, in quella risata, in quel gesto affettuoso. E Harry sapeva, nel profondo del suo cuore, che non lo avrebbe mai abbandonato, neanche nel coma.

Il sole calava all’orizzonte, tingendo il cielo di rosso e arancione, mentre Harry camminava assorto per i corridoi del castello. La lettera spedita alla sorella era ancora fresca nella sua mente, i suoi pensieri, però, erano altrove, ossessionati dalla storia dei Gaunt e dalle origini oscure di Voldemort.
Le immagini mostrategli da Silente, frammenti di ricordi intrecciati come fili di un arazzo oscuro, dipingevano un ritratto ancora più inquietante del suo nemico. Aveva visto Tom Riddle crescere passo dopo passo, da bambino solitario e tormentato a uomo ambizioso e pericoloso, il seme del male già radicato nel suo cuore.
Aveva assistito alla sua infanzia segnata dall'abbandono, all’odio che cresceva nel suo cuore come un’edera velenosa, fino alla trasformazione in Lord Voldemort, l’incarnazione del male.
Un’ondata di rabbia e frustrazione lo attanagliava mentre riviveva quei momenti. Come era possibile che Silente, un mago tanto potente e brillante, avesse commesso l’errore di non scorgere l’oscurità che già dimorava nel cuore di Tom Riddle?
Se solo avesse agito in tempo, se solo avesse compreso la vera natura di quel bambino, forse le cose sarebbero andate diversamente. Forse tutte quelle vittime innocenti, cadute per mano sua, sarebbero ancora vive.
La mente di Harry cercava informazioni, collegamenti che potessero aiutarlo a scoprire i segreti di Voldemort, anche il minimo dettaglio poteva rivelarsi utile. Ma inevitabilmente, la sua mente tornava sempre sul misterioso anello della famiglia Gaunt.
Silente era riuscito a recuperarlo solo qualche mese prima. Lo aveva trovato nella vecchia dimora della famiglia Gaunt, mentre cercava altri indizi. Voldemort aveva rubato quell’anello a Orfin quando era solo un ragazzo e trovarlo lì, nascosto e protetto da incantesimi e maledizioni oscure, aveva incuriosito il vecchio preside e, nonostante molte difficoltà, era riuscito a distruggere le protezioni e portare via con sé l’anello per poterlo studiare nel dettaglio.
Secondo Harry, quell’oggetto sembrava la chiave di un enigma inquietante, un filo invisibile che legava qualcosa che lui doveva scoprire.
Quasi d’istinto, Harry arrestò il passo e infilò la mano in tasca e tirò fuori un piccolo oggetto avvolto in un fazzoletto di stoffa.
Lo aprì con cura rivelando un anello d’oro con una pietra nera incastonata. Era l’anello dei Gaunt, che Silente gli aveva affidato la sera prima, sperando che potesse rivelarsi utile con le ricerche su Voldemort.
L’anello esercitava su Harry un’attrazione magnetica. Era come se quell’oggetto maledetto lo chiamasse, sussurrandogli segreti proibiti che solo lui poteva decifrare. Ogni volta che lo fissava, un brivido di terrore gli percorreva la schiena, ma allo stesso tempo sentiva un’irresistibile attrazione verso il suo potere oscuro.
Si interrogava sul significato dell’anello e sul suo legame con Voldemort. Perché l’aveva rubato? Quali segreti oscuri custodiva la pietra nera incastonata al suo centro? Era solo un oggetto di valore per la sua stirpe o nascondeva poteri inimmaginabili?
Harry sapeva che doveva essere cauto, che doveva procedere con attenzione, ma la sua determinazione a sconfiggere Voldemort era più forte di qualsiasi paura.
L’anello era freddo al tatto, quasi glaciale. La pietra nera incastonata al suo centro emanava una luce fioca, come un occhio che lo osservava dal buio. Harry poteva sentire pulsare il potere dell’oggetto nelle sue mani, come un cuore oscuro.
Sentì un brivido percorrere la sua schiena, un senso di vertigine che lo fece barcollare.
Con un respiro profondo, allontanò lo sguardo dall’anello e lo ripose in tasca.
Si diresse verso la biblioteca, deciso a immergersi in una frenetica ricerca tra antichi tomi di magia oscura e leggende dimenticate. Ormai erano settimane che passava intere notti a leggere, annotando appunti e formulando ipotesi.
Finalmente, in un vecchio libro polveroso su Salazar Serpeverde, trovò un brevissimo accenno all’anello. Lo riconobbe da una vecchia foto: era un anello d’oro con una pietra nera incastonata, proprio come quello che aveva in tasca.
Stando a ciò che riportava il testo, l’anello era un oggetto antico appartenuto a Salazar Serpeverde in persona, proprio come sosteneva il padre di Orfin, Morfin Gaunt. L’anello passava attraverso la linea maschile della famiglia del Serpeverde, di generazione in generazione.
Harry rimase sconvolto da questa scoperta. Era possibile che Tom Riddle avesse rubato l’anello solo perché lo riteneva suo per diritto di nascita? No, c’era molto di più. Se quell’oggetto era appartenuto davvero a Salazar Serpeverde, allora aveva un potere immenso e pericoloso.
Harry strinse l’anello con forza tra le dita, sentendo il suo potere pulsare nelle sue mani. Sapeva che aveva appena trovato un tassello fondamentale del puzzle per sconfiggere Voldemort. Forse era vicino alla risposta che gli avrebbe permesso di scoprire come usare quel potere oscuro a suo vantaggio.

La luce soffusa del sole invernale filtrava attraverso le tende bianche della camera d’ospedale, illuminando il volto pallido di Sirius, disteso sul letto. Un silenzio carico di tensione avvolgeva la stanza, rotto solo dal monotono bip del monitor cardiaco che registrava il ritmo irregolare del suo respiro, un metronomo implacabile che scandiva la sua lotta per la sopravvivenza.
Accanto al letto, seduto sulla solita poltrona scomoda, Regulus vegliava sul fratello. Il suo sguardo stanco e preoccupato fisso sul volto di Sirius. I suoi occhi azzurri, solitamente vivaci e pieni di vita, erano offuscati da un velo di tristezza e impotenza.
Erano mesi che vegliava su lui, senza mai allontanarsi nemmeno per un istante se non quando Remus o Nymphadora gli davano il cambio obbligandolo ad andare a casa. Era intenzionato a non lasciarlo mai da solo, voleva essere lì quando lui si sarebbe svegliato così da poter vedere riaprire i suoi occhi e sorridergli come ai vecchi tempi.
Era come un guardiano fedele che temeva di lasciare il suo tesoro più prezioso incustodito.
Un rumore leggero di tacchi ruppe il silenzio della stanza. Regulus alzò lo sguardo verso e salutò Emily con un sorriso appena accennato a mo’ di saluto. Indossava sciarpa e cappello di lana, un paio di pantaloni scuri coperti in parte da un lungo cappotto marrone e un paio di stivaletti neri che completavano l’abbigliamento.
Regulus era felice di vederla, ma non era dell’umore adatto per comportarsi al meglio.
Si sentiva distrutto ed era pronto a scommettere di avere un aspetto orribile: la barba trascurata da una settimana o due, gli stessi vestiti da due giorni… e non aveva il coraggio di guardarsi allo specchio per vedere in che condizioni fossero il viso e i capelli. Sicuramente pessimo.
Probabilmente puzzava anche un pochino e al solo pensiero era nauseato da sé stesso, ma Emily non sembrava disgustata o sconcertata dal suo aspetto. Non lo vedeva da settimane a causa del lavoro estenuante al Ministero e sapeva che lo avrebbe trovato lì in ospedale, quindi si era premurata di raggiungerlo per stargli vicino.
Gli sorrise. - Ti ho portato qualcosa da mangiare - disse sollevando una busta bianca dalla quale arrivava un profumino delizioso.
Regulus guardò Emily liberarsi del cappello di lana e della sciarpa. I suoi capelli biondi ricci incorniciavano un viso che esprimeva una sincera preoccupazione. I suoi occhi verdi, solitamente pieni di allegria, ora erano velati da una sottile ombra di tristezza.
- Ti ringrazio - disse Regulus, alzandosi per andarle incontro per liberarla della busta che aveva l’impressione di essere pesante.
Appallottolando sciarpa e cappello e buttandoli alla rinfusa nella borsa, Emily si avvicinò a lui con passo leggero, come se temesse di disturbare la quiete fragile della stanza.
Gli diede un bacio leggero la guancia ispida. La barba incolta di qualche giorno, le solleticò piacevolmente le labbra.
Regulus avrebbe tanto voluto abbracciarla, ma si trattenne. Erano settimane che non condividevano un momento di intimità, persino quel bacio sulla guancia aveva risvegliato in lui l’istinto di prenderla e sbatterla contro il muro e baciarla fino a farle perdere il respiro. La desiderava così tanto, che temeva di perdere il controllo.
- Come sta? - domandò Emily con voce sommessa, frenando ogni istinto.
Guardava Sirius, preoccupata.
Regulus sospirò con un sorriso flebile sulle labbra e tornò a sedersi sulla poltrona. - Non è cambiato molto. Ma io non lascio mai solo.
Emily si avvicinò a Regulus e gli posò una mano sulla spalla. - Andrà tutto bene, vedrai - disse. - Sirius è fortunato ad averti come fratello.
Regulus poggiò la mano su quella di lei e la strinse, cercando conforto. - Mi manca tanto, Emily.
Emily gli sedette accanto, il suo silenzio era carico di empatia. - Lo so - disse, condividendo il suo dolore.
Si guardarono, e per un attimo Regulus sentì un piacevole calore diffondersi in tutto il corpo. Lei era l’unica in grado di fargli sensazioni difficili da definire e dimenticare. L’unica in grado di dargli quel briciolo di speranza che gli serviva, anche solo con lo sguardo. Quando Emily era al suo fianco ogni spiacevole sensazione e ogni pensiero negativo sembrava dissolversi nel nulla.
- Hai notizie di Ginevra?
Un sospiro profondo sfuggì dalle labbra di Regulus e il suo sguardo tornò sul fratello. - Conosci Ginevra - disse. - Lei è molto brava a fingere che tutto vada bene… e tagliarmi fuori.
- Non si può certo biasimare - ribatté Emily, abbassando lo sguardo. - Subire un attacco di quel genere, in pieno giorno, e uscirne vincitore non è facile. Penso sia normale che lei reagisca in questo modo.
- Ma io non riesco a mettermi in contatto con lei - disse Regulus con voce tremante. - Non capisco nemmeno come abbia fatto a…
Le parole sparirono prima ancora di poter uscire. Ciò che non capiva era come fosse stato possibile che Ginevra lo avesse respinto dai suoi pensieri. La loro connessione non era mai stata tanto debole. Persino in quel momento comunicare con lei era quasi impossibile. Era come se avesse trovato il modo di silenziare il loro collegamento.
- Se penso che quegli schifosi stavano per prenderla… – ringhiò, in preda alla rabbia crescente.
Emily lo strinse a sé, offrendogli il suo sostegno silenzioso. - Adesso è salva, no? L’importante è questo.
Regulus annuì e si calmò pian piano. Poi la sua voce si fece tremante, l’angoscia si dipinse sul suo volto. - Sì, ma io non ero lì per proteggerla come avrei dovuto. Aveva bisogno del mio aiuto.
Sì, Ginevra era riuscita a scappare. Aveva affrontato tutti quei Mangiamorte ed era riuscita a reagire. Ma per quanto fosse stata brava ad affrontare la situazione, lui sapeva che qualcosa in lei era cambiato. Per quanto si sforzasse a nascondersi da lui, sapeva che si era spezzato qualcosa.
In quel momento, un movimento impercettibile attirò l’attenzione di Regulus. All’inizio non ci aveva fatto caso, il suo sguardo era perso e i pensieri erano per la nipote. Non aveva notato minimamente quel piccolo movimento che sembrava chiamarlo.
Guardò il fratello, steso su quel letto, e rivide quel gesto.
Le dita di Sirius si erano mosse leggermente, un tremito quasi impercettibile. Regulus spalancò gli occhi, il cuore cominciò a battere all’impazzata.
- Emily - chiamò con voce tremante. - Hai visto anche tu?
Emily seguì la direzione del suo sguardo e, come lui, osservò Sirius con attenzione finché anche non vide le dita della sua mano muoversi.
Il suo viso si illuminò di speranza. - Ha mosso le dita! - sussurrò.
Felice di aver avuto un’allucinazione, Regulus si inginocchiò accanto al letto, stringendo la mano del fratello nella sua. Il suo sguardo fisso su Sirius, pieno di trepidazione e speranza.
Emily andò verso la porta, chiamando a gran voce le infermiere e un Medimago, ma Regulus sembrava non ascoltare ciò che gli succedeva intorno.
Dopo sei mesi, finalmente un movimento.
Sirius stava per svegliarsi? Sperava proprio di sì.
- Sono qui, Sir - gli sussurrò. - Sono qui.
La stanza si riempì di Medimaghi e infermiere che si affrettavano al capezzale di Sirius. Costretto ad allontanarsi affinché lo visitassero, Regulus osservava la scena con il fiato sospeso, il suo cuore che batteva all’impazzata.
Finalmente, dopo mesi di attesa, suo fratello sta per tornare a lui.
Poi un dubbio lo assalì all’improvviso, gelandogli il sangue e il suo entusiasmo.
E se fosse solo un’illusione?

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