Brevi istanti di reminescenza

di Evali
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il treno degli inconsapevoli artefici del loro destino ***
Capitolo 3: *** Bartholomew ***
Capitolo 4: *** La compressione dei ricordi ***
Capitolo 5: *** L’origine della vita ***
Capitolo 6: *** L’origine del destino ***
Capitolo 7: *** ​Fasci di luce spenta ***
Capitolo 8: *** Una bolla per Viktoriya e Aleksander ***
Capitolo 9: *** Il bambino di metallo ***
Capitolo 10: *** Sento, dunque sono ***
Capitolo 11: *** Hussain’s Cafe ***
Capitolo 12: *** “Paris Project” ***
Capitolo 13: *** Il tranello di Bianca ***
Capitolo 14: *** Deus ex machina ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Dopo ogni morte, vi è una rinascita. Non tutti rinascono subito, alcuni impiegano mesi o anni, altri secoli, mentre altri ancora sembrano destinati a non rinascere più.
In base al nostro comportamento nella vita precedente, il Fato onnipotente ci assegna un luogo e un nome nella prossima vita, i quali potrebbero essere gli stessi della scorsa, oppure no. Possiamo ricordare la o le vite precedenti, oppure restarne ignari. Così sembriamo totalmente diversi da quelli che eravamo prima, oppure uguali. Vincent Van Gogh ha avuto quattro vite differenti dopo la prima che lo ha reso famoso. Durante la seconda era un generale che combatteva nella Prima Guerra Mondiale, nella terza un mercenario, la quarta l’ha trascorsa a suonare e a cantare per le strade del Congo, mentre nella quinta è morto da bambino a causa di un’aggressione in casa. In nessuna di queste ricordava la precedente. William Shakespeare invece, ha condotto quasi la stessa vita dopo ogni rinascita. Molti dicono che non ne avesse dimenticata neanche una.
Che senso avrebbe la vita se la morte fosse la fine di tutto?
Che significato avrebbero le nostre azioni, la nostra anima, se fosse destinata ad una sola vita?
Riesci ad immaginare un mondo senza rinascita?
 
- Come ti senti, Bianca? – chiese una voce bella, calda e capace di penetrare le ossa.
- Leggera.
- Bene. Ora apri gli occhi.
Lei obbedì e si sentì come venire al mondo una seconda volta: un bianco accecante la invase, una luce troppo densa e forte per essere vera, come quella della sala ospedaliera quando gli occhi si aprono e si affacciano per la prima volta al mondo. Solo una persona si stagliava netta in quella sospensione irreale, dai contorni definiti e dai colori apposti a quella luce. Egli aveva un corpo maschile, come la sua voce, dei vestiti neri, una maschera bianco opaco a coprirgli il volto, dalla quale sbucavano ribelli ciocche bionde.
- Sono morta?  – gli chiese mettendolo a fuoco e osservando quella maschera dai connotati umani stilizzati.
- Non ancora, Bianca – le rispose porgendole la mano.
Lei la afferrò alzandosi e sentendo girarle intensamente la testa, come in un’orribile vertigine. Tutto ruotò velocemente intorno a lei, una sensazione che aveva già provato più volte. – Dove mi trovo? – riuscì a chiedere.
- Lo chiamano “Il treno dei folli”, il più vuoto, il più difficile in cui approdare.
- Treno? Perché mi trovo in un treno?
- Stai per morire, Bianca.
Spalancò gli occhi. Dei ricordi non molto vividi si fecero strada nella sua mente. Anastasia che urlava, il ragazzo di cui non ricordava il nome al volante, la macchina che ruotava come una trottola con loro all’interno, lo schianto. Delle lacrime si affacciarono prepotenti ai suoi occhi scuri. - Non capisco. Io dovrei rinascere. Non c’è niente dopo la morte e prima della rinascita.
- Questo è quello che credono tutti, Bianca. Ogni essere umano che vive in questo mondo è ignaro dell’esistenza dei treni. Ma i morti sanno tutto, finché rimangono morti e non rinascono. Il Fato decide come, dove e quando farci rinascere, ma sceglie anche cosa ci spetta durante il periodo di morte. Questo è il tuo oltretomba, Bianca, determinato dal modo in cui sei morta, oppure, come in questo caso, da qualcosa che hai fatto durante la tua breve vita. Tuttavia, sei in una fase di transizione, né viva né morta, dunque il Fato, per ora, non ti assegnerà una pena.
- Sono in coma …? – azzardò a chiedere.
Egli annuì per poi continuare. – Finché non morirai o non ti risveglierai, rimarrai qui “in prova”. Capirai di essere morta quando non vedrai più il tuo fiato uscire dalla bocca, non percepirai più alcuno stimolo umano, e ti verrà assegnata una pena, come agli altri. A quel punto sarai una passeggera permanente di questo treno fino alla tua prossima rinascita, la prima, a quanto vedo.
- Sì, ho vissuto una sola vita finora – sussurrò ancora sconvolta.
- I passeggeri del vagone nel quale ti inserirò ti spiegheranno il resto. Tutto ciò che devi sapere ora, è che, sia che ti risveglierai, sia che morirai e rinascerai, quando sarai di nuovo in vita, non ricorderai nulla di ciò che ti è accaduto in treno. Svanirà tutto. I vivi non devono sapere. Inoltre, se morirai e Lui non vorrà che alla tua rinascita ricorderai la tua vita precedente, sappi che comincerai a dimenticare gradualmente mentre sarai qui, dettaglio per dettaglio, evento per evento della tua vecchia vita, non all’improvviso o solo quando rinascerai.
- Perché? Perché i vivi non devono sapere? Chi sei tu?
L’individuo rimase fermo a guardarla da oltre la maschera, senza risponderle. - Perché il Fato ha deciso così, Bianca. Io sono il guardiano di questo treno, ogni treno ne ha uno - le rispose dopo qualche minuto.
Il respiro cominciò a divenire accelerato mentre quella luce continuava ad accecare i suoi occhi e quella maschera di plastica la osservava. Improvvisamente i ricordi ritornarono più vividi e dolorosi, colpendole il petto e la testa. – Aiutami … - lo implorò non riuscendo a controllare il respiro e sdraiandosi di nuovo su quel lettino vacuo.
- Chiudi gli occhi, Bianca. Presto andrà meglio.
 
 

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Capitolo 2
*** Il treno degli inconsapevoli artefici del loro destino ***


Il treno degli inconsapevoli artefici del loro destino
 

Camminava in mezzo al treno percependo il freddo che le penetrava le ossa come fuoco.
Indossava gli stessi abiti dell’incidente: il vestitino argenteo, oramai strappato e slabbrato in vari punti, comprato la settimana prima con sua sorella Melanie. Un abbigliamento affatto da lei. Era stata Anastasia a convincerla ad uscire quella sera e a vestirsi in quel modo per il party al quale sarebbero dovuti andare prima dello schianto. Ricordava perfettamente ogni dettaglio ora.
Il vagone nel quale era stata condotta era praticamente vuoto, se non per poche figure che riusciva a vedere in lontananza aguzzando la vista.
Sembravano figure assenti come bambole, o meglio, manichini, proprio come lo era lei.
- “Nel bosco senza fine e senza inizio,
vi erano le anime perdute e danzanti,
iridi di vuota natura e di buie origini,
passi cadenzati e spenti li muovevano,
voci sommesse, bisbigliate, senza suono,
corpi meccanizzati e irreali, finti,
finti come la finta nuvola che copriva la luna,
in un giorno in cui il nulla era visibile
mentre tutto era dissolto.” – aveva pronunciato una voce sottile, ovattata, ma dolce e rassicurante. Il ragazzo dai capelli castani l’aveva recitata piatto, impassibile e, al contempo, disperato.
Bianca non pensava fosse possibile.
Man mano che i suoi piedi nudi si posavano sulla superficie fredda del treno e si avvicinava a quei quattro individui, riusciva a vederli più chiaramente nelle loro pose accasciate, nei loro abiti leggeri nonostante il freddo che le stava facendo battere i denti violentemente. Dalle loro bocche non fuoriusciva nessuna buffa nuvoletta di aria condensata, mentre dalla sua sì.
Questo la rendeva ancora salvabile, lucente di una speranza che gli altri non avrebbero mai potuto possedere.
Si voltarono a guardarla, qualcuno incuriosito, qualche altro meno.
La ragazza russa, che da seduta non sembrava così incredibilmente alta e magra, si alzò in piedi, avvicinandosi un po’ a lei, ponendo le braccia conserte.
Non sapeva bene perché stesse dando per scontato fosse russa, forse per i suoi capelli a caschetto biondi platino palesemente naturali, come le sopracciglia altrettanto chiare, oltre ai lineamenti particolari. – Sei tu la mezz’anima? – le chiese la ragazza con sguardo duro, quasi truce. La prima cosa che realizzò Bianca era che non avesse alcun accento di nessun tipo.
- Con mezz’anima intendi …?
- Ancora viva, sì. Non abbiamo mai avuto una mezz’anima qui.
Le nuvolette di aria condensata che apparivano ogni volta che Bianca apriva bocca, parvero bastarle come risposta. Tutti le guardarono incuriositi, come se non avessero mai visto un fenomeno del genere in vita loro.
- Creati un cappotto. Noi siamo abituati a questo clima freddo oramai. Io non ho neanche avuto il bisogno di abituarmi, dato che a Mosca questa temperatura è ritenuta calda.
- Anche voi riuscite a percepire il freddo, quindi?
La russa la guardò torva. – Certo. Questi sono manichini con le sembianze dei nostri corpi, ma è come se fossero composti della materia di quelli veri. Nonostante siamo morti, i bisogni fisici primari che servono per tenere un uomo in vita sono gli unici che non riusciamo a sentire; mentre il freddo, il caldo, il dolore e tutto il resto, lo percepiamo come i vivi.
- Creale tu un cappotto, Vik. Lei non è ancora capace di farlo – la esortò il ragazzo della poesia.
A ciò, la russa, sbuffando, sporse le mani lunghe, bianche e affusolate, chiudendo gli occhi e facendo comparire un cappotto di pelliccia.
Bianca lo toccò per constatare se fosse materiale, e quando realizzò che lo fosse, guardò la russa con sguardo interrogativo.
- Ti puoi anche creare dei nuovi vestiti e toglierti questi sporchi e strappati – la informò squadrandola ancora, per poi proseguire. - Ad ogni modo, qui la mente e il ricordo sono i motori di tutto: imparerai ad usarli per creare e per distruggere.
- Perché qui è così freddo? – chiese Bianca mentre si infilava la calda pelliccia.
- Succede quando il guardiano del tuo treno è nato e vissuto in Alaska per anni – le rispose un'altra voce, roca e decisa, proveniente dal vecchio dallo sguardo sveglio e arzillo. – Sono Osmond, a proposito – aggiunse accennandole un educato sorriso e porgendole la mano.
- Bianca – rispose lei stringendogliela.
- Il treno è lo specchio del proprio guardiano, Bianca. Il nostro non ha mai dimenticato l’amato clima gelido della sua terra natale.
- Il Fato sceglie il guardiano di ogni treno?
- Esatto.
- Era colui che mi ha accolta nella stanza bianca quando sono arrivata qui, giusto? Quello con la maschera.
- Sì. A quanto pare, usa ancora quel trucchetto – rispose la russa questa volta.
- Lui mi ha parlato di una pena e mi ha detto che mi avreste spiegato tutto voi.
- Il solito menefreghista – rispose il ragazzo della poesia.
L’unica che non aveva ancora parlato era la ragazzina accanto a lui, la quale sembrava partecipare con i suoi grandi occhi profondi alla conversazione.
- In base a ciò che ha compiuto in vita, ognuno di noi, una volta giunto nel proprio treno, riceve una pena assegnata dal Fato e della quale il guardiano è il portavoce. Come una sorta di contrappasso – aggiunse il giovane.
- Come in Dante, il primo che ha immaginato un mondo senza rinascita – gli rispose Bianca.
- Anche se le nostre pene non sono fisicamente violente come quelle inventate da lui, sono ugualmente dolorose, sotto altri punti di vista – spiegò amaramente. – Mi chiamo Andrè, comunque.
Un nome francese, pensò la mezz’anima prima di rispondere. - Molto piacere. Ma se quando rinasciamo dimentichiamo tutto ciò che è accaduto in treno, a cosa servono le pene?
- Curiosa la ragazza – commentò Osmond accennando un sorriso.
- Gli effetti della pena rimangono, ma i ricordi no. Serve a questo: è come se il tempo trascorso qui dentro influisse totalmente su di noi alla nostra rinascita, ma noi non ne siamo coscienti, perché è insito e non lo ricordiamo - rispose nuovamente Andrè.
- E quanti tipi di treno ci sono?
- Non lo sappiamo con certezza. Il guardiano lo sa dato che è l’unico che può viaggiare di treno in treno, insieme agli altri guardiani; oltre che sulla terra, tra i vivi, nonostante loro non possano vederlo. Finora sappiamo solo dell’esistenza di altri due treni oltre al nostro: quello dei malati morti per malattie genetiche e degli involontariamente o volontariamente colpevoli della loro stessa morte – la informò il vecchio.
- I suicidi, detto in una parola – spiegò Vik semplificando la definizione appena udita.
- Suicidi consapevoli e inconsapevoli, in realtà – precisò Osmond.
- Ma, da quanto sappiamo, alcuni treni hanno il primato su altri – aggiunse Andrè.
- In che senso?
- Nel senso che, se un suicida o un malato mortale riesce a cambiare il destino scritto per lui nel corso della sua vita, finisce comunque nel nostro treno. Così come suppongo valga per tutti gli altri treni: è talmente difficile finire nel nostro treno, da renderlo quello che ha il primato su tutti. E nonostante ciò, rimane comunque il più vuoto. I vagoni degli altri treni sono affollatissimi da quanto abbiamo udito, mentre qui siamo massimo una decina a vagone.
- Quello che riusciamo a fare è talmente grande e raro, da essere ritenuti pazzi - commentò la voce sarcastica di Vik. - Non riuscirei mai a vivere in un luogo così affollato - aggiunse poi, stravaccandosi sul sedile accanto ad André.
- Come si suddividono i vagoni?
- Il nostro è quello delle anime più giovani, ossia che hanno vissuto solamente la loro prima vita. Nessuno di noi ha provato il brivido di ritrovarsi in un ospedale di rinascita - parlò ancora la russa, poi indicando la fine del vagone. - Puoi farti un giro per i vagoni, non è vietato. Da qui in poi, le anime divengono sempre più vecchie, fino ad arrivare ai vagoni alla fine del treno, quelli completamente vuoti: quasi nessun’anima riesce a non sparire nel nulla per più di sette o otto secoli.
- “Sparire nel nulla”? - chiese Bianca confusa. - Cosa significa?
A ciò, i quattro si guardarono tra loro, sapendo di dover comunicare la parte più amara alla mezz’anima. - La permanenza in treno serve anche a questo, a capire se un’anima è degna o no di rinascere ancora: se si riesce a sottostare alla propria pena fino alla rinascita, va tutto bene. Ma se un’anima non adempie ai doveri richiesti dalla pena, sparisce nel nulla - spiegò André, decidendo di assumersi quel piccolo fardello.
- Nel senso che non esiste più? Non può più rinascere?? Perciò, le persone che non rinascono da secoli …
- … probabilmente sono anime sparite nel nulla e nessuno lo sa – completò la frase Osmond.
Vi furono alcuni minuti di silenzio in cui Bianca provò a metabolizzare l’informazione, prima di passare alla prossima domanda. - Non mi avete ancora detto come è possibile fare ciò che noi siamo riusciti a compiere. Insomma, io non ho nulla di speciale, i miei sedici anni di vita sono stati tortuosi sì, ma come quelli di molti altri. Come è possibile che io sia riuscita a rientrare tra le poche persone al mondo che sono state in grado di mutare il loro destino? – chiese Bianca sempre più incuriosita.
- Non c’è un modo. Non è spiegabile. Nessuno di noi riesce a capacitarsi di ciò. Nel nostro treno tutto è incerto e velato. Non sappiamo nemmeno con che criterio Lui scelga il guardiano del treno, se perché è attirato da lui o perché è riuscito a fare qualcosa che lo innalza rispetto agli altri passeggeri - rispose Vik abbassando lo sguardo.
- Sono Jaya – si presentò improvvisamente la ragazzina che era rimasta in silenzio fino a quel momento, quasi bisbigliando, tanto che Bianca fece fatica ad udirla.
- Jaya è sorda. Legge il labiale, sta’ tranquilla – le spiegò Vik.
Ora tutto aveva più senso. Jaya le sorrise mostrando i denti quasi di un bianco accecante, poiché in contrasto con la sua pelle scura. Doveva essere medio-orientale, forse indiana, pensò Bianca osservandola e domandandosi per l’ennesima volta come sei persone di paesi diversi riuscissero a capirsi.
Jaya sembrò leggerle nel pensiero. - Nei treni tutti si comprendono nonostante le lingue diverse, poiché la lingua diviene una sola ed universale - le rispose accennandole un genuino sorriso.
Bianca ricambiò e la sua pancia emise qualche brontolio che riconosceva bene. La toccò e gli altri la guardarono perplessi, lontani dalla familiarità che quel suono un tempo suscitava in loro.
- Sto morendo di fame - disse guardandoli lievemente imbarazzata.
Vik non poté fare a meno di sorridere prima di prendere la parola. - Sì, è davvero strano avere una mezz’anima qui. Va’ da Barth, saprà sicuramente soddisfare il tuo appetito. Si trova a due vagoni di distanza dal nostro.
 

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Capitolo 3
*** Bartholomew ***


Bartholomew
 


La russa accese la sigaretta e iniziò a fumare, cercando di scacciare via quell’immagine dalla sua mente:
Si trovava in ascensore con l’arma tra le mani. L’attesa per arrivare al ventisettesimo piano era sfinente. Guardò accanto a sé e lo vide fare la stessa cosa, come se fossero coordinati, e, in realtà, tutti pensavano che lo fossero davvero. Le somigliava talmente tanto, da non lasciare ombra di dubbio su che legame condividessero: stessi capelli troppo biondi, stessi occhi troppo chiari, stesso sguardo freddo, troppo abituato ad eseguire degli ordini che li avevano resi troppo sporchi per ricercare una qualsiasi sorta di redenzione.
Lui le sorrise rassicurante, con uno di quei sorrisi che lei conosceva bene e che nascondevano più di quanto avrebbero dovuto.
Il microfono dell’ascensore si attivò: “Viktoriya e Aleksander Nyström, scendete subito dall’ascensore e posate le armi a terra. Ripeto: posate le armi a terra”.
Aleks ricaricò l’arma come lei aveva fatto poco prima. Fucili che avrebbero potuto tranquillamente soppiantare le mitragliatrici erano maneggiati dalle loro giovani mani esperte come fossero penne e matite in mano ad uno studente.
Il microfono si attivò ancora: “Viktoriya Nyström, 23 anni, Aleksander Nyström, 18 anni: avete ancora tutta la vita davanti, ragazzi. Abbassate le armi e arrendetevi.” Questa volta era una voce femminile che parlava, più dolce.
- Sei pronta, Vik? – le chiese Aleks voltandosi a guardarla nuovamente, mentre lei faceva lo stesso.
- Cambierebbe qualcosa se non lo fossi più? – gli rispose alzando il fucile.
Le ante si erano aperte e un’ondata incontrastabile di proiettili si era alzata dalle due armi che reggevano. Si fecero scudo tra loro, come fossero una cosa sola, non lasciando neanche il tempo al loro nemico di controbattere. La pioggia di colpi aveva impiegato solo pochi secondi per produrre l’effetto desiderato e uccidere ogni individuo presente in quel piano, mentre loro due avevano mosso solamente pochi passi da quando erano usciti dall’ascensore.
I fucili fumavano rilasciando la familiare aria calda che seguiva dopo innumerevoli spari così potenti e vicini tra loro.
La sigaretta terminò, così se ne accese subito un’altra nervosamente.
- Ancora quel ricordo? – le chiese Andrè.
- Tu pensa ai tuoi – rispose sgarbatamente lei, come era abituata a fare in quelle situazioni.
Il ragazzo vi era troppo abituato per darle peso. – Se non te lo fai passare, la mezz’anima comincerà a fare domande. Non ci metterà molto a farsi preparare qualcosa da Barth e a tornare qui – le disse guardando fuori dal finestrino, dal quale si intravedeva il bianco più totale.
- Non sono l’unica qui che non riesce a comprimere la memoria. Faresti meglio a pensare ai tuoi flashback, che sono anche più frequenti dei miei, se non erro. Almeno io con le sigarette riesco a mandarli via – continuò la russa.
- E tu dovresti ricordare qual è la tua pena, Vik – rispose mettendola con le spalle al muro tramite quelle poche parole, continuando a guardare fuori dal finestrino.
 
Giunse nel vagone che le aveva indicato Vik, superando due vagoni dalle sette alle undici anime ciascuno, le quali la guardarono curiose mentre camminava e le sorpassava. In quel vagone sembravano essercene solo tre o quattro, oltretutto sdraiate, come intente a cercare di dormire nonostante sapessero che non avrebbero potuto riuscirci.
Vagando con lo sguardo si accorse che in quel vagone vi era uno splendido piano bar, di quelli d’epoca che non si trovavano più da nessuna parte, almeno da dove veniva lei. Sorrise avvicinandosi, ascoltando la musica che caratterizzava un secolo dandy e scanzonato che sembrava così lontano da quello attuale, osservando le luci soffuse e suggestionanti, le bottiglie di vetro di liquori ormai quasi estinti, i bicchieri, i piattini, le stoviglie di provenienza antica, i cibi esposti in vetrina particolari e raffinati sia nell’odore che nell’aspetto, le decorazioni del bancone e del retro e, per finire, la splendida insegna grande e luminosa esposta in alto che conteneva la scritta “Hussain’s Cafe”.
Si sedette sull’elegante sgabellino continuando ad osservare la scritta, assorta, mentre la sua pancia non smetteva di brontolare.
- Desiderate, milady? – le chiese improvvisamente un uomo sulla trentina, vestito e pettinato di tutto punto, il quale sembrava appena uscito dall’Inghilterra del 1800, con i suoi folti baffi scuri e ordinati e la capigliatura tirata indietro, abbinata all’abito nero composto da camicia bianca con colletto che sbucava dalla giaccia stretta e allacciata completamente.
Bianca, spaventatasi lievemente dalla comparsa dell’uomo, lo osservò e gli sorrise gentilmente. – Sei tu Barth?
- Bartholomew Hussain, sì, sono io.
- Sono confermate le mie già consolidate ipotesi: non potresti essere più inglese di così.
- Perdonatemi, milady, ma non sono avvezzo a rivolgermi in maniera informale agli sconosciuti – le disse l’uomo gentilmente.
- Oh, scusatemi, poichè io invece non sono abituata a rivolgermi in maniera così formale ai baristi – si giustificò.
- Perdonatemi anche voi se non sono stato abbastanza accogliente, è che non ricevo molti clienti qui nel treno. Quelli che vengono sono i pochi che approdano qui e sempre gli stessi, perciò oramai degni di una particolare confidenza. Voi, invece, siete …?
- Mi chiamo Bianca Annjoy. Sono americana – gli rispose accennandogli un altro sorriso, ancora incredula di trovarsi in quella situazione.
- Oh, americana, la terra dei coloni – rispose Barth con gli occhi che brillavano di curiosità.
- Già, anche se ora non la chiamano più così.
- Perdonate, qui perdo la cognizione del tempo e a volte dimentico in che secolo siamo attualmente. Sareste così gentile da ricordarmelo?
- Siamo nel 2220.
- Grazie mille. E da quale parte dell’America provenite?
- Filadelfia.
- Io da Londra.
- Chissà perché me lo aspettavo. Avete un menù?
Barth glielo fece comparire direttamente tra le mani, bello e decorato come tutto il resto.
- Devo ancora abituarmi a questo – disse la ragazza sorpresa, iniziando a sfogliarlo. – Qui ci sono anche cibi più “recenti”, come le donuts dolci e salate. Non mi aspettavo di trovare queste pietanze nel menù di un cafe del diciannovesimo secolo – aggiunse sorpresa.
- Beh, sono consapevole del fatto che coloro approdati qui appartengono ad un’epoca futura a quella che io ricordo di aver vissuto. Sono diversi dagli individui di cui ho memoria: sono vestiti in modo strano, parlano in modo strano, mangiano persino in modo strano, proprio come voi; e mentre in alcuni ciò è dato dalla diversa provenienza nel mondo, in altri comprendo che non è così. Ho cambiato il menù perché quasi tutti coloro che sono in questo treno mi chiedono cibi strani, che io non ho mai visto in vita mia. D’altronde, anche se potrebbe crearsi il cibo autonomamente come il restante degli oggetti, alla gente piace essere servita e sentirsi ancora parte di una società anche se non lo è più, così come io amo preparare le pietanze alla vecchia maniera, sentendo la loro evoluzione tra le mie mani. Il mio cafe è l’unico stralcio di società presente nel treno.
- Già. Nel mio caso, non sono ancora capace di crearmi del cibo autonomamente, ma credo anche io che quando ne sarò in grado, continuerò comunque a venire qui. Mi piace questo cafe. – La ragazza fece una breve pausa ammirando ancora quel piccolo angolo di epoca dissolta, per poi continuare. - In realtà, volevo farvi questa domanda già da prima: è possibile che voi siate qui da quasi quattrocento anni? Insomma, non so se vi sia un limite massimo per rimanere qui, ma mi sembra alquanto strano che voi non siate rinato prima. Poiché, se non è così, l’unico motivo per il quale voi sembrate rimasto al 1800, è spiegabile solo con il fatto che avete cominciato a dimenticare le vostre vite più recenti e magari ricordate solo la prima, o una delle prime, per volontà del Fato. È così?
A quella domanda, Barth quasi sbiancò. – Io … non sono qui da quattrocento anni. Ricordo solo degli istanti, degli sfocatissimi ricordi che non riesco a comprendere delle mie vite più recenti, quelle seguenti alla mia prima vita, l’unica che rimembro nei minimi dettagli, risalente al 1800. Sapete, lady Bianca, è terribile non ricordare quasi nulla di numerosi anni di vita vissuti - l’uomo disse ciò con uno sguardo tanto perso, contrito e calmo insieme, da apparire doloroso da guardare, quasi al punto da spaventare Bianca.
- Mi dispiace tanto, Barth. Sai, vorrei una pietanza che non c’è nel vostro menù, e ciò mi addolora. Si chiama “icepizzacake”. È un’invenzione dell’ultimo secolo e ora io vi spiegherò come si cucina, così voi, seguendo le mie indicazioni, la preparerete: si tratta di una pizza divisa a metà, poiché una parte è composta dall’impasto della pizza classica, e l’altra da quello del semplice pancake; si cuoce, si lascia raffreddare, e poi vi si aggiunge il gelato sulla superficie – disse soddisfatta, sperando di farlo svagare un po’ da quei pensieri.
A ciò, perplesso, Barth cominciò a preparare tutti gli ingredienti. – Non capisco come mai la vostra generazione dissacri il cibo in tal modo.
La ragazza rise prima di rispondergli. – Già, non lo so neanche io! Alcune cose ci fanno stare bene e il cibo spazzatura “dissacrante” è una di quelle. Solitamente mangio l’icepizzacake quando sono triste.
- Ed ora siete triste?
- Non propriamente. Solo confusa.
- Sapete, mi sono accorto che avete qualcosa di strano: dalla vostra bocca escono delle bizzarre nuvolette bianche, mentre la vostra pancia è da prima che emette strani suoni. Gli stessi suoni che emetteva il pancino di mia figlia Elicia in tarda serata, poco prima che la mettessi a letto.
- Già. Non sono propriamente morta, Barth. Sono solo qui come “ospite”. Diventerò una passeggera stabile del treno solo se morirò.
- E come è possibile, se mi è lecito chiedervelo?
- Sono stata vittima di un grave incidente e ora mi trovo tra la vita e la morte, in coma. Per questo non mi è stata assegnata nemmeno una pena.
- Siete uno spirito errante, una viaggiatrice.
- Mi piace questa definizione – rispose la ragazza appoggiando il gomito sul bancone e successivamente il mento sul palmo della mano, osservando l’impasto della pizza che si muoveva sotto le mani esperte di Barth. – Posso chiedervi quale sia la vostra pena, Barth?
- Sono condannato a rimanere perennemente dietro il bancone di questo cafe. Non posso mai uscirvi. Se lo facessi, la mia anima svanirebbe nel nulla - rispose tranquillamente l’uomo.
Bianca sgranò gli occhi, trovando la pena stranamente crudele e deprimente, capendo che quel cafe doveva aver avuto un’influenza particolare nella vita di quell’uomo.
- Prima avete parlato di vostra figlia. Elicia avete detto che si chiamava, giusto?
- Solo io e suo fratello potevamo chiamarla in quel modo. Per il resto della società era Ellis. Era una sorta di dandy ribelle nei confronti del sistema - disse sorridendo intenerito.
- Vi ricordate così bene di lei.
- Ve l’ho detto: ricordo ogni minimo dettaglio della mia prima vita, specialmente dei miei figli, Elicia e Braeden, e di questo cafe.
Nel momento in cui pronunciò quelle parole, degli offuscati ricordi accompagnati da delle voci si fecero strada nella sua mente:
Quello che pareva un soldato dall’aria troppo familiare, un giovane uomo dalle iridi di un’ocra acceso, correva evitando gli spari, saltando giusto in tempo dentro una trincea. Lo sguardo del giovane uomo col viso sporco di sangue e di fango si spostò verso di lui e urlò una sola parola: “Padre”.
Poi svanì nel nulla e ne comparve un altro:
Questa volta si trovava dietro un bancone di una biscotteria, un inebriante profumo di buono e di margarina lo avvolse. Nel suo soffuso campo visivo comparve una donna anch’ella familiare, dal volto sereno, i capelli mogano legati in maniera sfatta e il naso fine sporco lievemente di zucchero a velo. Stava servendo una cliente con un dolce sorriso sulle labbra. Dopo di che, anche lei si voltò verso la sua direzione. Nel cartellino che indossava sul grembiule era scritto un nome: “Ellis”.
Poi svanì nel nulla anche quello, dissolto, come se non fosse mai esistito.
La ciotola con l’impasto all’interno cadde a terra e si frantumò mentre lui rimaneva immobile e con lo sguardo fisso.
- Barth! Barth, che vi succede?? Tutto bene? – gli chiese allarmata Bianca, scavalcando il bancone e cominciando a scuoterlo lievemente.
L’uomo si voltò verso di lei con gli occhi ricolmi di lacrime. – Li ho persi, lady Bianca … li ho persi di nuovo.

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Capitolo 4
*** La compressione dei ricordi ***


La compressione dei ricordi
 

Rimaneva sospesa, l’aria tra i capelli, il corpo leggero, aeriforme poiché parte del vento.
Allargò le braccia e alzò lo sguardo al cielo lasciando che l’aria fredda le penetrasse il vestito sottile. Era libera. Solo in quel modo lo era. Sarebbe rimasta per sempre così se fosse stato per lei: sospesa su un filo, in bilico tra la vita e la morte, accarezzata dal vento e dal cielo. Guardò giù e si accorse della folla che aveva incominciato ad ammucchiarsi sotto di lei, sotto quei due enormi palazzi, come piccole formiche senza spessore, né testa, né gambe, troppo lontane per avere un peso.
Sembravano tutti allarmati, intenti a vociferare parole che lei non udiva. D’altronde, era normale che lo fossero: era vietato fare ciò in luoghi pubblici, senza alcuna imbragatura, da principianti. Quel giorno, inoltre, aveva deciso di non portarsi nemmeno l’asta, esponendosi ancor di più al rischio di perdere l’equilibrio.
L’equilibrio, già. Quelle dieci lettere che rappresentavano l’infinito.
Non capiva coloro che soffrivano le vertigini, non li aveva mai compresi: lei avrebbe guardato continuamente giù, ininterrottamente, mentre saliva sempre più su, come fosse una droga.
Un giorno avrebbe raggiunto un grattacielo. Avrebbe provato a farlo lì, ne era certa.
Ripensò a lei e capì che era la sua grande occasione per sparire dal mondo e abbandonarla per sempre. Era il modo migliore che potesse desiderare per farla finita. 
Poi pensò anche a Melanie e ad Anastasia, allora si bloccò.
Perché bastavano anche solo due persone per tenerla attaccata al mondo?
Chiuse gli occhi, fece svanire i pensieri, e, per la prima volta, perse l’equilibrio di sua spontanea volontà, lasciandosi trascinare dal vento e precipitando giù, da sedici piani di altezza, riaprendo gli occhi per vedere tutto scorrere ad una velocità inumana dinnanzi ai suoi occhi, per vedersi inghiottire completamente dalla gravità.
Bianca riaprì gli occhi ritrovandosi sudata e con il fiatone, rendendosi conto di essere ancora nel treno, e di essersi addormentata occupando tre sedili nello stendersi.
- Ehi, brutto sogno? – le chiese Osmond sedendosi accanto a lei e porgendole una tazza di the caldo.
- Grazie – gli rispose accennandogli un sorriso, rimettendosi seduta e sorseggiando l’infuso.
- Sei l’unica ancora capace di dormire e, di conseguenza, di sognare, qui dentro. Ci stai facendo morire di invidia – disse il vecchio accennando un sorriso tra l’amaro e il divertito, guardando il solito bianco candido fuori dal finestrino.
- Non so bene se fosse solo un sogno o un ricordo. Da quando sono qui mi sembra tutto confuso.
- Il treno fa questo effetto a tutti.
- L’infuso è buonissimo. Da cosa è composto? – gli chiese la ragazza.
- Ti piace? Lo bevevo sempre quando avevo bisogno di schiarirmi le idee e di riscaldarmi. Da dove vengo io, nel sud dell’Olanda, è molto diffuso. La ricetta è segreta. Ho pensato che ti potesse essere utile per sentire meno freddo: ci si mette un po’ ad abituarsi a questo clima gelido.
- Già. Grazie – rispose lei continuando a bere e stringendosi nella pelliccia.
- Come mai non ti cambi il vestito dell’incidente? – domandò il vecchio.
- Non mi sento ancora pronta. Questo vestito sporco e strappato è l’unica cosa che mi tiene ancorata alla mia vita, al mondo terreno, quasi come fosse l’unico indizio in grado di ricordarmi che c’è ancora una speranza che io sopravviva – disse guardando a sua volta fuori dal finestrino.
- Già, l’hai ancora, a differenza di tutti noi.
- Perché sembra che ognuno di voi si stia trattenendo? Vik fuma sigarette da quando sono arrivata, Andrè legge e scrive continuamente e convulsamente e Jaya … Jaya continua a guardarmi come se volesse confessarmi un enorme peccato.
- Sono decenni che non giunge qualcuno nel nostro vagone. Come ti abbiamo già spiegato, è molto difficile finire in questo treno. In questi lunghi anni abbiamo tutti imparato a comprimere i nostri ricordi più dolorosi, seppellendoli talmente in profondità, da riuscire a far finta che non siano mai esistiti. Stando qui scoprirai che puoi fare innumerevoli cose solo con la forza della tua mente. Ad ogni modo, il tuo arrivo è come se avesse scatenato nuovamente quei ricordi che abbiamo compresso con molta fatica, dato che siamo sempre stati abituati a raccontare la nostra storia all’arrivo di un nuovo passeggero.
- Quindi vale anche per te?
Il vecchio rimase in silenzio, confermando la sua deduzione.
- Mi dispiace, non era mia intenzione. Non voglio costringervi a raccontarmi la vostra storia. D’altronde, non credo di essere pronta a raccontare la mia - rispose la ragazza reggendo la tazza con le mani tremanti per il freddo. - Perciò, suppongo che ognuno di voi ricordi perfettamente la sua vita passata.
- Sì, a quanto pare il Fato, per ora, ha predisposto che ognuno di noi ricordi la sua vita passata nel momento della rinascita.
- Per Barth non è così invece. L’ho visto mentre alcuni dei suoi ricordi svanivano, prima. I suoi occhi, in quell’istante, mi hanno prosciugato il sangue.
- Barth ha vissuto più vite a differenza nostra, ma almeno ricorda la prima. Purtroppo dobbiamo adeguarci al volere del Fato.
Vi fu un breve silenzio, poi interrotto da Bianca. – Da quanto tempo sei qui?
- Forse cinquanta o sessant’anni. Qui dentro si perde la cognizione del tempo - dopo di che, Osmond si girò a guardarla. - Quanti anni hai?
- Sedici.
- Ne dimostri di più. Per il modo in cui parli e il tuo atteggiamento.
- Ah sì? Me lo hanno già detto in passato – rispose lei accennando un sorriso. - C’è un tempo massimo per rimanere qui?
- No, ma, solitamente, il Fato non arriva mai a tenere un’anima prigioniera nel treno per cento anni, senza farla rinascere. Ovviamente vi sono delle eccezioni, come per il nostro guardiano.
- Da quanto tempo è qui?
- Quasi duecento anni.
La ragazza sgranò gli occhi e mancò poco che sputasse anche il the caldo dalla bocca nell’udire quell’informazione. – Duecento …? E quanti anni di vita ha vissuto prima di morire?
- Ha diciannove anni. In treno ha trascorso dieci volte il tempo che ha vissuto. Sinceramente non so come faccia a ricordare ancora la sua vita, dopo tutti questi anni.
In quel momento, la porta del vagone si aprì e vi entrò un bambino piccolo, con gli occhi gonfi di lacrime e lo sguardo confuso e perso. Bianca dedusse che avesse massimo cinque o sei anni e le si strinse il cuore. Si toccò involontariamente il ventre come accadeva ogni volta che vedeva un bambino, per poi tirare un respiro di sollievo altrettanto involontario, gesto che non sfuggì ad Osmond.
- Che diamine, e lui da dove sbuca ora? – chiese scocciata Vik, non smettendo di fumare nonostante la presenza del piccolo.
- Non l’ho mai visto girare per i vagoni, deve essere nuovo – commentò Andrè guardandolo dirigersi verso di loro un po’ intimorito.
- Che succede? – chiese Bianca desiderando delle spiegazioni.
- I bambini che giungono nel treno sono problematici. Persino per un guardiano è difficile tenerli a bada. Girano per i vagoni continuamente, come se avessero perso la strada di casa e non riuscissero a ritrovarla. Quelli nuovi in particolar modo – rispose Vik.
- Quindi adesso che facciamo con lui? – chiese Bianca guardandolo avvicinarsi a lei.
- Aspettiamo che lo stronzo se lo venga a prendere – fu di nuovo la russa a rispondere.
Il bambino si incantò a fissare le nuvolette di aria condensata che uscivano dalla bocca di Bianca. Sorrise divertito. – Me lo insegni? – chiese la voce dolce e innocente del piccolo.
- Che cosa, tesoro? – gli domandò Bianca.
- A farlo. A farle uscire anche dalla mia bocca – insistette il bambino facendo sbiancare la mezz’anima.
- Non posso, piccolino … è un mio potere speciale – gli rispose lei cercando di non cedere alle lacrime di fronte ad una situazione così triste ed inquietante insieme.
- Mark – lo richiamò una voce che fece riscuotere immediatamente Bianca, quel suono che la attraeva come una calamita, udito all’inizio, e che l’aveva introdotta nel treno, nella stanza bianca e accecante. Comparve la stessa figura da cui proveniva, quella del giovane guardiano vestito di nero e con la maschera bianca a coprirgli il volto.
La sua voce sembrò attirare totalmente anche il bambino, il quale, non appena si voltò e lo vide, sorrise felice e gli corse incontro. – Sei tornato! Sei tornato a prendermi! – esclamò il piccolo aggrappandosi alle sue gambe come se fosse un suo genitore.
A ciò, il guardiano si accovacciò per arrivare alla sua stessa altezza. – Mark, che ti avevo detto riguardo al girare per i vagoni?
- Che non si fa – rispose il bambino in tono colpevole. – Volevo solo cercare la mia mamma.
- Ti ho già detto che la tua mamma non è qui, Mark. Mamma Annette è rimasta nella lavanderia a prepararti il costumino per andare al mare. Te lo aveva promesso, ricordi? – rispose il guardiano in tono tranquillo.
- Sì. Quindi vuol dire che mi aspetterà per andare al mare?? Mi aspetterà finché non finisce il viaggio in treno? Fin quando non saremo arrivati? - chiese Mark speranzoso.
- Fin quando non saremo arrivati, sì.
Il cuore di Bianca si strinse in una morsa ancora più dolorosa nell’osservare quella scena, mentre il guardiano sembrava rimanere calmo e impassibile, come se ciò costituisse la normalità per lui. La ragazza si accorse anche che quella bizzarra maschera sembrava mimare le espressioni del volto sotto di essa, dato che si allargò in un lieve sorriso rassicurante nel pronunciare quell’ultima frase.
- Mark, te la ricordi la regola che ti ho detto ieri? Quella tanto importante che non devi mai infrangere?
- No, non me la ricordo più – rispose sinceramente il bambino.
- Vieni con me – disse il guardiano prendendolo in braccio con tutto il cappottino che lo copriva dal freddo. Una volta tirato su da terra, il piccolo avvolse le braccia strette attorno al collo del ragazzo, accucciandosi con il faccino sulla sua spalla.
Dopo di che, il guardiano spostò lo sguardo su Bianca prima di dirigersi verso l’uscita del vagone con il giovanissimo passeggero in braccio. – Ho sentito bene poco fa? Gli hai detto che è un “tuo potere speciale”?
La ragazza annuì, lievemente intimorita.
- Brava. Ci sai fare con i bambini – si complimentò lui, facendola impietrire.
A Bianca venne il dubbio che quell’individuo sapesse perfettamente l’effetto che quella frase avrebbe provocato su di lei. – Grazie – rispose. – Quindi anche i bambini sono capaci di approdare qui … come può un bambino avere la capacità di mutare il proprio destino? – trovò il coraggio di chiedere, trattenendolo dall’andarsene.
- Non è impossibile, come vedi. Coloro che riescono a mutare il proprio destino già da bambini, sono considerati ancora più indegni dal Fato. Meritano un posto d’onore in questo treno – rispose lui accennandole un sorriso tramite la maschera bianca e uscendo dal vagone mentre il bambino si reggeva ancora stretto al suo collo.
- Bisogna avere molta pazienza con i bambini – le spiegò Osmond. – Fanno i capricci, fanno fatica ad abituarsi, sono più disobbedienti nei confronti delle regole, perciò è molto più facile che non riescano a sottostare alla pena, sparendo nel nulla. Per questo il guardiano deve mostrare loro la minima attenzione e tenerli sempre d’occhio, finché non comprendono la serietà della “regola” che devono rispettare. Molti continuano sempre a cercare i genitori, dopo anni, nonostante tutto. Per questo ha adottato il metodo della maschera: l’arrivo in treno è come una rinascita e i bambini tendono molto più degli adulti ad associare un volto ad una figura importante, materna o paterna. Dato che è il guardiano ad accogliere sempre le nuove anime, alcuni bambini, dopo il loro arrivo, hanno continuato a cercarlo continuamente per i vagoni, desiderando restare sempre al suo fianco poiché si sentivano al sicuro, vedendo in lui un nuovo genitore, avendo perduto quelli veri. Molti non smettevano di piangere finché non lo vedevano arrivare. Così ha deciso di coprirsi il volto con una maschera nella stanza bianca in cui approdano le nuove anime, e ha continuato a farlo anche con quelle adulte, credo più per una questione di abitudine. Quando non deve accogliere nuove anime la toglie, ma mai dinnanzi ai bambini.
- Ma anche se ha il volto coperto, i bambini tendono a riconoscere persino l’odore, l’atteggiamento, oltre che il corpo e la voce.
- Difatti lo riconoscono anche con la maschera come hai potuto vedere poco fa, ma qualche miglioramento c’è stato comunque. A quanto pare, i caratteri visivi associati al volto influiscono molto di più sull’attaccamento e sulla memoria dei bambini.
I due rimasero in silenzio per un po’, fin quando Osmond non parlò di nuovo. - Mi piacerebbe conoscere la tua storia, Bianca.
La ragazza si voltò a guardarlo sorpresa. – Perché?
- Ho dato una sbirciata al tuo sogno/ricordo di poco fa.
- Che cosa …? Puoi farlo??
- Magari avessimo anche questo potere – rise il vecchio. – No, non possiamo. Solo il guardiano può farlo, o meglio, deve. Tuttavia, lo leggo nei tuoi occhi. Leggo che anche tu, proprio come noi, hai bisogno di raccontare una storia triste.

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Capitolo 5
*** L’origine della vita ***


L’origine della vita
 

- Os, c’è qualcuno di fuori per te. L’ho fatta entrare – gli disse un suo collaboratore, distraendolo dalle prove che stava facendo con il suo lombrico in ampolla.
- Alle sette di mattina? Non viene mai nessuno. Specialmente non per me – rispose sinceramente stupito, prima di vedere la sagoma di sua figlia sbucare dalla porta del laboratorio con un bel marmocchietto in braccio.
- Oggi la babysitter è ammalata e i vicini sono in vacanza. Non so dove lasciarlo. Dovrai rimanere tu con lui finché il mio turno di lavoro non terminerà all’ora di pranzo – disse la ragazza con freddezza, quasi come se stentasse anche lei a credere a ciò che stesse dicendo. Ma lui non poteva di certo biasimarla.
- Chlöe, non puoi lasciarlo qui al laboratorio … devo lavorare - fu capace di dirle semplicemente, continuando a guardare il bambino che lo fissava a sua volta, e sua figlia che trafficava con la borsa contenente tutto il necessario per badare al piccolo.
- No, papà, questo non è mai stato un lavoro per te, ma un’ossessione. Per questo motivo non sei mai stato presente nel corso della mia crescita, o te lo sei dimenticato? – gli rispose secca, senza neanche guardarlo.
- Come … com’è che si chiama? Rudolf? – chiese accennando un lieve sorriso mentre continuava a guardare suo nipote con quel buffo ciuccio in bocca.
- Raoul – lo corresse sua figlia.
- È cresciuto molto dall’ultima volta che l’ho visto. Ora sta addirittura in piedi da solo.
- Sì, papà, ha due anni e mezzo, è normale che stia in piedi da solo. L’ultima volta che lo hai visto era in fasce – rispose lei per poi riconcentrare tutta l’attenzione su suo figlio. – Ti voglio bene, tesoro. Stamattina resterai con il nonno. La mamma torna presto – gli disse baciandogli una guancia, per poi lasciare la borsa con l’occorrente su una sedia, recuperare quella da lavoro e uscire dal laboratorio.
Osmond rimase ancora a guardare suo nipote per un po’. Che non ci sapesse fare con i bambini era risaputo. Quell’esserino così piccolo e irrazionale faceva dei passetti instabili e irregolari mentre si guardava intorno curioso. Notò che i suoi occhioni dalla forma a mandorla brillavano ogni volta che si posavano su qualcosa di diverso, e i suoi capelli scompigliati di un nero caldo somigliavano tanto a quelli di suo padre, nonché il marito di sua figlia. Camminava troppo, e mentre ciucciava emetteva dei versetti strani, stupiti, disturbando i suoi colleghi e sottoposti impegnati a loro volta con le piccole cavie animali.
- Vieni qui, ragnetto – gli disse, non sapendo bene come approcciarsi a lui.
Quando il piccolo fece cadere a terra e rompere una fiala contenente solo dell’acqua distillata, fortunatamente, decise di prenderlo in braccio. – Raoul, vieni qui. Vieni qui dal nonno – disse con incertezza, avvicinandosi e accovacciandosi.
A ciò, il bambino sporse le braccia attendendo di essere alzato da terra, e Osmond fu preso dalla paura nel tirarlo su. Non ricordava più come si facesse, da quelle poche volte in cui aveva preso in braccio Chlöe. Ma lui era un uomo di scienza. Non poteva perdere tempo a vergognarsi per una cosa simile. Pose le mani sotto le ascelle del bambino e lo tirò su, rischiando quasi di farlo volare via a causa della troppa forza che aveva posto nell’atto, accorgendosi che fosse leggero come una piuma.
Il bambino pose una manina dietro al suo collo per reggersi, mentre con l’altra si tolse il ciuccio con nonchalance. – Co è? – chiese con la sua vocina acuta, indicando con il ditino il lombrico abbandonato nell’ampolla, per poi rimettersi il ciuccio in bocca.
A ciò, Osmond capì che se lo fosse tolto solamente per parlare e gli venne da sorridere, mentre quegli occhioni pretenziosi e luminosi aspettavano una sua risposta.
- “Che cos’è quello” vuoi dire?
Raoul annuì.
- Quello è un lombrico.
Raoul si tolse nuovamente il ciuccio. – Co fa lì?
- Aspetta che io finisca di fare degli esperimenti su di lui.
- Appetta? – ripeté il bambino dubbioso, guardando nuovamente l’esserino verde. – Ma lui tonna a casa poi?
- Questa è casa sua.
- No. Quetta no casa lombico. Albeo e foglia casa lombico – disse deciso mimando un “no” con il ditino. – Dopo, dopo tonna a casa? – insistette.
Intenerito da quegli occhioni che era convinto riuscissero a contenere l’origine della vita intera, e dallo sguardo puro tanto diverso da quelli che lui aveva da sempre conosciuto, provò un brivido lungo la schiena. Lo strinse involontariamente più forte a sé, prima di rispondergli. – Sì. Sì, tornerà a casa dopo.
In preda a tali ricordi che prepotenti si riaffacciavano nella sua memoria, Osmond si isolò nella sua mente un tempo spoglia, e ora di nuovo piena e dolorosa.
 
 
La mano si posò con leggerezza sulla lapide, unica roccia conficcata in un deserto grigio e nebuloso, privo di consistenza propriamente solida.
Il ragazzo vestito di nero si inginocchiò sulla superficie, di fronte alla pietra liscia di forma pentagonale, sopra di essa nessun nome inciso.
Lo sguardo impenetrabile e al quale nulla era celato, seguì attentamente la traiettoria della sua stessa mano, la quale delineava la forma inclinata di uno dei due lati più alti che terminavano nella punta.
Il vento freddo gli piombò addosso, facendogli finire i capelli davanti agli occhi ma non distogliendolo da quello che, da fuori, sarebbe potuto apparire come un sacro rituale.
- Il tempo dei reami è terminato da molto, ormai. Ed io, continuerò a perdonarti. Per i morti, i vivi e i non ancora venuti al mondo delle ere avvenire, io sarò qui, tu lì, e tutto permarrà nel suo eterno equilibrio, grazie al mio perdono.
Detto ciò, il giovane si rialzò in piedi, rivolse alla lapide un rapido inchino e svanì da quel luogo.

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Capitolo 6
*** L’origine del destino ***


L’origine del destino
 


“Come quando riconosci un sogno che non ha nulla di reale, ma pensi comunque che lo sia perché tutte le tue membra ti dicono che lo è. Allora capisci che lo è stato davvero.”
Trattenne il fiato. Trattenne il fiato fin quando non la vide arrivare, da sotto il pelo dell’acqua. Non la stava chiamando perché sapeva che sarebbe stato inutile farlo.
Lo sarebbe stato in quella riva del fiume vicino ai vecchi binari, come in una grande metropoli, quelle di cui aveva solamente sentito parlare.
Il luogo in cui viveva lei era un piccolo paradiso sperduto, “ai confini del mondo”, dicevano. Non veniva mai nessun turista poiché dicevano anche fosse “malfamato”. I turisti andavano a Delhi o a Mumbai, non di certo dove viveva lei.
Restò sott’acqua, aspettando che Chameli si preoccupasse. D’altronde, era l’unica che avrebbe potuto preoccuparsi: i suoi fratellini, nonostante fossero ancora piccoli, lavoravano già per mantenere la famiglia, mentre lei aveva deciso di prendere un’altra strada. Tutti i giorni se ne stava a girovagare per la piccola città ai confini del mondo, esplorandola e conoscendo sempre nuove persone, inventando nuove storie da raccontare loro, ad insegnare ai bambini a scrivere. Aveva il suo modo di raccontare le sue storie, nonostante non potesse usare la parola: le metteva in scena, parlando con gli sguardi, con gli occhi, con i movimenti, con il corpo. Ed era infinitamente più intenso rispetto al farlo tramite la bocca. Tutte le persone si emozionavano con i suoi “spettacoli” muti. Per questo sua madre non le parlava. Avrebbe preferito avere un maschio come primo figlio, almeno avrebbe potuto lavorare tutto il giorno portando a casa molti più risultati di quelli che erano in grado di ottenere i suoi fratellini piccoli, invece di avere lei, una vagabonda di strada che sognava di raccontare a tutti le sue storie finte.
Emerse dall’acqua, leggendo il labiale di Chameli, come aveva imparato a fare da tempo. – Jaya! Finalmente ti ho trovata! Mi hai fatto prendere un colpo, come al solito! Sei troppo brava a nasconderti, pulcino! – disse puntando le braccia sui fianchi, mentre il bel telo verde acqua che le fasciava il corpo veniva smosso dal vento, così come i suoi lunghi capelli.
Aveva sempre desiderato diventare come Chameli da grande, ma le sue speranze erano cadute quando le avevano detto che la sua amica, alla sua età, sembrava già una piccola principessa indiana. Lei, invece, all’età di tredici anni aveva dei ribelli capelli folti e arruffati come quelli di una naufraga, oltretutto di un castano troppo poco scuro per essere apprezzati davvero nella sua cultura. Già le premesse non andavano affatto bene.
- Mi aiuti a lavare i panni, pulcino? – le chiese sorridendo con quel sorriso dolce e materno nonostante avesse solo dieci anni in più di lei.
Annuì, uscì dall’acqua, e si sedette sulla riva, ascoltando il canto degli uccelli, il rumore dei binari rotti che emettevano uno strano suono stridulo ogni giorno e osservando il resto del fiume popolato di ragazzini che si divertivano a giocare nell’acqua, mentre aiutava Chameli a lavare i vestiti.
- Sto avendo un deja vu – disse improvvisamente Chameli, afferrando un altro vestito dalla cesta.
- Sul serio? – chiese guardandola incuriosita. – A me non capita mai.
- Perché questa è la tua prima vita. Gli unici contatti che abbiamo con le nostre vite precedenti, in particolar modo con quelle che non ricordiamo, come nel mio caso, sono i sogni e i deja vu.
- Non ti senti mai triste per non riuscire a ricordare quante e quali vite hai vissuto finora?
- Credo che questa sia la mia terza vita. Ma l’ho supposto solamente dai sogni e dai deja vu.
- Che cosa vedi?
- Una vita diversa, luoghi sconosciuti, persone differenti – disse posando lo sguardo perso nel panorama di fronte a lei. – Sai, in fondo alla montagna, dicono ci sia uno sciamano, una specie di stregone che vive da mille anni senza mai rinascere.
- Questo è addirittura più assurdo delle storie che mi invento! – rispose sorridendo.
- Sì, lo so! Quei pochi che hanno avuto il coraggio di spingersi così oltre per scoprire se lo stregone esistesse davvero, hanno detto che lui è a conoscenza del segreto che fa andare avanti l’universo, un segreto pericoloso e proibito.
- Che segreto?
- L’origine del destino.
- E in che cosa consiste?
- Si dice che lo sciamano sottoponga ogni coraggioso visitatore ad un gioco. Tramite i risultati di questo gioco si possono scoprire le tre informazioni contenute nel segreto dell’origine del destino: il nome che avevamo nella nostra prima vita, quello originario, è la prima; quante vite abbiamo vissuto prima di quella attuale è la seconda; e, infine, quanto tempo ci rimane ancora prima della morte in questa vita.
Se fosse vero, mi piacerebbe andarci. Ma sicuramente sarà un’assurda favola che raccontano gli imbroglioni per vantarsi. A noi esseri umani è proibito conoscere le informazioni che solamente Lui dovrebbe sapere.
Non si accorse di star scrivendo con il dito sul vetro appannato, mentre quel ricordo le ritornava alla mente.
- Ehi, cosa c’è scritto? – le chiese improvvisamente Bianca avvicinandosele, notando che fosse tutto scritto in punjabi.
- “Amelia / 3 / 13. 38” – rispose.
- E che cos’è?
- Niente di importante.
 

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Capitolo 7
*** ​Fasci di luce spenta ***


Fasci di luce spenta
 

“Pensa al momento più bello della tua vita”.
 
La ragazza ballava citando Shakespeare e Hugo insieme, ancheggiando leggiadra sulle note di una canzone rock e scandendo le parole a ritmo, mentre, di tanto in tanto, si girava a dargli un’occhiata.
Il ragazzo oggetto di quegli sguardi sputò la bevanda metà sulla federa del divano nel quale era seduto, e metà sul bicchiere di plastica. – Che diavolo … questo ponce fa schifo … - disse posando il bicchiere sul tavolino lì accanto e facendo una smorfia disgustata.
- André, siamo ad una festa a casa di un tizio che frequenta la nostra scuola e che neanche conosciamo … non puoi pretendere di bere un Dom Perignon - disse la ragazza continuando a muoversi flessuosa nonostante le note scattanti e violente della canzone.
Lui la guardò sorridendo divertito. Lei ricambiò il sorriso. – Si può sapere che diavolo stai facendo, Audrey?
- Sto ballando, non vedi?
Lui le sorrise ancora complice, come usavano fare sempre da anni e anni. - Siete sprecata qui, madame. Dovreste onorare della vostra presenza i locali più lussuosi di Parigi.
- Siamo a due ore da Parigi, monsieur. Se voi mi deste un passaggio, potrei anche farlo – gli rispose voltandosi verso di lui e avvicinandosi al divano.
- Misà che ho bevuto troppo per mettermi alla guida, miss Audrey – rispose trattenendo un singhiozzo.
In quel momento, entrarono nella casa di quello sconosciuto un’altra decina di persone, tra cui un gruppetto di ragazze.
Quella più avanti di tutte individuò Andrè e gli sorrise. – Ciao, André – lo salutò immediatamente.
Il ragazzo si voltò non appena udì il suo nome, e da dietro lo schienale del divano alzò una mano ricambiando il saluto della nuova arrivata, la quale seguì soddisfatta le sue amiche poco dopo.
- Blanche non cambia mai – commentò Audrey fissandola mentre si allontanava. – Gatta morta alla nascita, gatta morta fino alla morte.
- Sputi acido, Drey – le disse Andrè provando a bere nuovamente il ponce.
- Non sputo acido, sono giusta: la reginetta non faceva altro che snobbarti e trattarti come uno scarto della natura quando eravamo tutti alle elementari; ed ora che sei cresciuto, ti sei tolto gli occhialetti rotondi, non hai più l’apparecchio ai denti e non sei più uno scricciolo pelle ossa, ti saluta come solo le gatte morte sarebbero in grado di fare. E ti mangia con gli occhi ogni volta che ti vede. Ma non si vergogna?
Andrè si passò la mano sulla fronte e sui capelli, sbattendo un po’ le palpebre per focalizzare le immagini che stava cominciando a vedere sfocate. - Perché dobbiamo rovinarci la serata pensando a lei? Ci basta isolarci da tutti come stiamo facendo ora e come facciamo sempre e sarà una serata perfetta. Dobbiamo solo preoccuparci di tenere d’occhio Auguste, Blaise e Damien, dato che non reggono l’alcol e non voglio che i nostri amici finiscano annegati in una piscina di cui non sapevamo l’esistenza.
In quel momento, un ragazzo ben oltre dall’essere brillo, piombò da dietro il divano quasi lanciando la ciotola di popcorn addosso ad Andrè. – Andrè, Audrey, volete?? Venite di là?
- Parli del diavolo … - disse Andrè osservando in che stato penoso fosse il suo amico. – Damien, vatti a sedere, ok?
- Sto bene! Che fa Drey? – chiese osservando curioso e divertito la sua amica che ballava ancora come un’incantatrice di serpenti, con un copione in mano.
- La lady Macbeth qui presente sta ripassando la sua parte per lo spettacolo del giorno dei morti – rispose Andrè al suo amico, dando un’altra occhiata complice ad Audrey.
- Non usare quel tono, ragazzo, dato che tu sarai Amleto in quello di fine anno!
- Forse stai tralasciando qualcosa, un piccolo insignificante dettaglio: devono ancora tenersi i provini per il ruolo di Amleto ed io non mi presenterò. Non verrei preso in ogni caso – rispose stravaccandosi più comodamente sul divano.
- Idiozie! Sceglierebbero te senza pensarci due volte! E tu ci andrai. Ti verrò a prendere io sabato mattina e ti ci porterò con la forza. Non importa se dovrò drogarti.
- No.
- Staremo a vedere, caro – disse avvicinandosi ancora in preda al ballo insensato, fulminandolo. – Mi accompagni alle prove generali mercoledì, vero?
- No – rispose lui coprendo la circonferenza del bicchiere vuoto con naso e bocca.
- Perché no??
- Perché ho da fare – ribadì sorridendole.
- Cosa c’è di più importante delle mie prove generali?
- Non mi va di uscire di casa.
- Ma si tratta di me – disse fermandosi a guardarlo fisso, rivolgendogli uno sguardo innocente e supplichevole. – Lo farai perché si tratta di me, vero?
- Lo farò perché si tratta di te – si arrese lui, sapendo di non riuscire mai a resistere alle richieste della sua migliore amica. – Ma torno a casa subito, appena finito. Non mi fermo per il the e i dolcetti.
- Andata! – esclamò felice ricominciando a ballare. – Che cos’hai scritto sul test di oggi?
- Quale?
- Quello che chiedeva i progetti per il nostro futuro.
Il ragazzo vi pensò su per qualche secondo. – L’ho lasciato in bianco. Lo completerò domani. Non ho progetti. L’unica cosa che io abbia mai ipotizzato riguardo il mio futuro, sono i modi in cui potrei morire. Tipo la ghigliottina. Mi piacerebbe morire tramite la ghigliottina. Mi sentirei patriottico.
- Ma fammi il piacere! Vuoi paragonarlo all’ipotermia?? Moriremmo congelati, non sentendo più il sangue nelle vene, né gli arti, né null’altro! Sarebbe una sensazione che soppianterebbe qualsiasi altra.
- Hai ragione.
- Ad ogni modo – disse lei piegandosi per avvicinarsi e appoggiandogli le mani sulle ginocchia. – So io cosa scriverai domani su quel foglio.
- Cosa?
- Parigi. E Amleto – disse sorridendo a trentadue denti. – Ed ora – continuò rialzandosi e guardandolo dall’alto. – Mi concedete questo ballo, mademoiselle?
A ciò, Andrè sorrise ancora, prendendole la mano che lei aveva sporto, e rialzandosi in piedi, ballando con lei per l’intera nottata.
 
“Ed ora, pensa al momento più brutto della tua vita”.
 
Il cellulare squillò. Non rispose. Squillò ancora, così lo tirò fuori dalla tasca, smise di guardare la persona che era con lui, e aprì la chiamata, avvicinando il telefono all’orecchio. – Damien, che succede? Uno che dimentica continuamente di avere un cellulare come te, lo usa solo in caso di Apocalisse. Che è successo?
Damien non rispose. Il respiro era affaticato, rotto, spaventosamente incerto.
- Andrè, devo dirti una cosa … però … però promettimi che non farai pazzie, ti prego – disse l’altro dopo quasi un minuto di silenzio.
Il sangue gli si pietrificò nelle vene. Strinse convulsamente il cellulare. - Damien, dimmi che è successo. Dimmelo.
Poi lo disse. La notizia arrivò.
Il frullato che aveva tra le mani cadde a terra, così come il cellulare, rompendosi in mille di pezzi.
 
 
André riaprì gli occhi. Era di nuovo lì. Nel treno.
Vik lo guardò confusa. – Che hai? Sei sconvolto.
- Che sta succedendo? Che mi sta succedendo …?
 
 
- Dove stiamo andando?
- Lo scoprirai a breve, mezz’anima – le rispose il guardiano continuando a camminare dritto dinnanzi a sé, finalmente con il volto lasciato allo scoperto, lo sguardo che plasmava quei giovani lineamenti intimoriva quanto la sua agghiacciante presenza.
Oramai erano giunti oltre il primo vagone. Cosa ci sarebbe stato oltre quello?
Lo seguì mantenendo a fatica il suo passo, fin quando lui non le porse la mano, attendendo che lei la stringesse.
Quando avvenne, Bianca fu completamente trascinata attraverso un fascio di luce che l’accecò, e dovette fare appello a tutta la sua forza per tenersi stretta a quella presa, l’unico contatto che le permetteva di non essere trasportata via da quel getto indefinito.
Dopo alcuni secondi, si ritrovò in un altro vagone, ma diametralmente opposto a quelli del suo treno: l’affollamento che vi trovò era a dir poco soffocante. Migliaia di anime contenute in quello spazio limitato, ammassate, lamentose, confuse, spaventate.
Bianca provò a farsi spazio tra quell’accatastamento di corpi che si muovevano, cercando di non perdere mai di vista il suo guardiano, che camminava avanti a lei e rallentava ogni qual volta si accorgeva che lei non riuscisse a non farsi trascinare dalla folla. Li guardavano tutti ad occhi sgranati, sicuramente perché erano nuove figure, pensò la ragazza.
Il guardiano riusciva a superare le varie anime, le quali cercavano di fargli spazio e di non spingerlo, mentre lui le guardava infastidito.
Superarono un vagone, poi due, tre, quattro e così via. La situazione era sempre quella, se non peggio, e la ragazza oramai era giunta al limite.
- Dove siamo …? – chiese trattenendo l’affaticamento, quando riuscì a raggiungere abbastanza il guardiano da poter essere udita da lui.
- Nel treno degli involontariamente o volontariamente colpevoli della loro stessa morte – rispose continuando a guardare dinnanzi a sé. – Ogni giorno in questo treno approdano migliaia di anime.
Essendo abituata ai vagoni quasi deserti, calmi e placidi, oltre che al clima gelido pungente del suo treno, Bianca si ritrovò disorientata, ed ebbe l’impressione che lo fosse anche il guardiano, nonostante l’esperienza accumulata.
- Non dovrei essere qui. Perché mi ci hai portata?
- Io sono il tuo custode, perciò posso decidere dove condurti – rispose semplicemente, raggiungendo finalmente l’inizio di quel treno e spalancando le porte con poca grazia. Gli sguardi di tutte le persone che vi erano all’interno, non più di dieci o quindici, si puntarono immediatamente su di lui e su Bianca.
- Questo treno è un inferno. La temperatura raggiunge quella di una colata lavica – esordì seccato, senza salutare nessuno, cercando di farsi aria come meglio potesse.
- Buongiorno anche a te, Layt. Ti fai attendere come al solito – rispose una donna.
- Che ci fai lei qui?? Perché l’hai portata?! Lo sai che non puoi trascinare le anime da treno in treno come ti pare e piace! – esclamò un uomo.
- Sì che posso. A Lui non importerà. E se anche fosse, scaglierà la sua ira su di me, non su di te, Shitqa – replicò tranquillo.
- Ti abbiamo detto che volevamo vedere la tua mezz’anima e studiarla, dato che molti di noi non ne hanno mai custodita una, ancora. Ma non volevamo che la portassi qui, nella nostra riunione d’emergenza – replicò un’altra di quelli che dovevano essere tutti i guardiani dei treni esistenti, oramai Bianca ne era abbastanza sicura.
- Ho approfittato per portarla da voi ora, senza attendere che invadiate tutti quanti il mio treno come dei cani che accorrono per vedere qualcosa di nuovo, pronti a scodinzolare felici, in cerca di un minimo di soddisfazione. Potete farle le domande che volete, è tutta vostra fin quando non la riporterò indietro.
- Sei un pazzo, Layt. Così come lo sono i quattro gatti che approdano nel tuo treno. Il re della gabbia di matti, scelta più che eccelsa da parte del Fato!
- Dobbiamo continuare a comportarci come infanti, colleghi? – ristabilì l’ordine un’altra di loro.
- Dunque? Per quale motivo mi avete fatto attraversare quest’orrore per venire qui? – chiese Layt sedendosi.
- Ci sono di nuovo problemi con Eleonore.
- Questo lo avevo capito. D’altronde siamo nel suo treno – rispose Layt vagando con lo sguardo per cercare la collega succitata. Quando la individuò, seduta, rannicchiata e a testa bassa come al solito, si rialzò in piedi e le si avvicinò.
La ragazzina alzò lo sguardo verso l’alto per guardarlo, mentre lui le si accovacciava di fronte per essere alla sua altezza. – Che succede questa volta, Eleonore? – le chiese quasi dolcemente.
Lei restò a fissare il suo viso per un po’ con i suoi occhi perennemente sgranati, ma poco prima di aprir bocca e di rispondergli, fu anticipata da un altro guardiano. – Se ti fossi degnato di presentarti all’incontro leggermente prima, ora sapresti qual è il problema, dato quanto ne abbiamo discusso mentre attendevamo che arrivassi.
- L’ho chiesto a lei – lo zittì Layt rivolgendogli uno sguardo gelido, per poi tornare a guardare Eleonore. - Puoi dirmelo, Eleonore – la incoraggiò ancora.
- Non sprecare fiato. Abbiamo dovuto ipotizzare noi cosa fosse accaduto dato che quella ragazzina non parla mai. Non so con che diavolo di senno Lui l’abbia scelta per diventare una guardiana. Soprattutto trattandosi di un treno affollato e ingestibile come questo. Sono stanco di risolvere tutti i problemi che non è in grado di gestire. Abbiamo tutti un treno da custodire, e lei non è affatto in grado di custodire il suo, data la sua instabilità mentale e l’atteggiamento di una larva – controbatté un altro.
- Quasi l’avevo dimenticato – disse Layt rialzandosi in piedi e posando lo sguardo su di lui. – Quasi avevo dimenticato la tua abitudine di usare la terza persona anche in sua presenza. Poi pretendete che parli, ovviamente. Un ragionamento che non fa una piega – aggiunse inacidito. - Voglio tornare nel mio treno il prima possibile, non intendo trascorrere un minuto in più di ciò che è necessario in vostra compagnia, quindi illuminatevi voi sull’emergenza. Sono tutt’orecchie.
- Qualcuno sta scatenando un’epidemia. Le anime di questo treno e anche di altri hanno cominciato a ricordare degli episodi specifici delle loro vite, contro la loro volontà, come costretti da una forza esterna. Niente di particolarmente grave all’apparenza, ma su alcuni, tali ricordi, hanno un effetto devastante. E se il fenomeno si dovesse estendere, non sapremmo cosa potrebbe accadere. Dobbiamo sempre cercare di contenere questi …
- Sono guardiano da molto più tempo di voi tutti. So cosa va fatto in questi casi – la interruppe Layt, per poi accorgersi che Bianca fosse entrata in una sorta di trance.
- Bianca, mi senti? Bianca? – le chiese avvicinandosi ma non ottenendo risposta.
 
“Ed ora, pensa al momento più brutto della tua vita” - udì quella voce leggera e dolorosa nella sua testa, mentre la ragazzina con gli occhi spalancati, la guardiana che chiamavano Eleonore, la osservava fissa, entrando nella sua mente.
Non poteva combatterla.
- Fammi uscire!! Fammi uscire di qui!! – esclamò prendendo la porta a calci in preda alla disperazione.
Quando rimase senza forze, si lasciò cadere a terra, seduta con le gambe piegate, contorte per i singhiozzi, le mani che si tiravano i capelli.
Pianse un po’, sdraiandosi completamente sul pavimento freddo e di legno, fino ad addormentarsi.
Quando si svegliò, le sembrò trascorso un minuto come una vita. Non riusciva a capire se fosse notte o giorno. Quella stanza non aveva finestre.
Poi, avvolta nel silenzio incessante del buio pesto, quel tremendo pensiero le balenò in testa. Ci pensò su, ci rifletté ancora e ancora, non riuscendo bene a distinguere la differenza tra il prima e il dopo di un atto simile. Non le importava ad ogni modo. Aveva bisogno di non sentire più il silenzio e aveva bisogno di compiere un atto d’amore per sé stessa. Non importava quanto avrebbe fatto male.
Si mise alla ricerca per tutta la stanza, aprendo mobili e cassetti, tirando fuori tutto ciò che trovava, convulsamente e con le mani tremanti, fino a quando non intravide una graffetta …
Ma un’altra voce entrò nella sua mente, interrompendo il ricordo: - Bianca, rimani sveglia. Rimani nella realtà.
Bianca sbatté più volte le palpebre, uscendo dal suo stato di trance, trattenendo il fiatone e trovando la mano di Layt appoggiata alla sua fronte e il suo sguardo addosso, così come quello degli altri presenti.
- Se non ti fossi risvegliata, mi avresti costretto ad addormentarti. Quando un guardiano addormenta un’anima non le impone un sonno umano, bensì simile ad una morte violenta. Il risveglio è sempre traumatico, ma necessario per situazioni anomale come questa – le disse il ragazzo, poi spostando lo sguardo su Eleonore, ancora seduta a pochi metri da loro. – Sta facendo tutto da sola. Eleonore sta spargendo l’epidemia – affermò convinto.
Gli altri guardiani puntarono i loro occhi accusatori sulla ragazzina, mentre le iridi stralunate di quest’ultima saettavano da uno all’altro come impauriti, intimiditi e colpevoli. Si rannicchiò ancor di più su se stessa, portando le ginocchia al volto e sprofondando in esse, cominciando a tremare.
- Non possiamo andare avanti così … la ragazzina ha bisogno di aiuto. Deve essere nominato un guardiano provvisorio – esordì una di loro.
- Solo il Fato decide se nominare un guardiano provvisorio. Se non l’ha ancora fatto, vuol dire che vuole lei come guardiana di questo treno - contestò un altro.
- Avete altre proposte??
Gli sguardi di tutti vagarono tra loro.
- Deve trascorrere del tempo. Imparerà. Il suo trauma è ancora vivo in lei. Quando imparerà a superarlo, riuscirà a gestire il suo treno – ruppe il silenzio Layt.
- Layt, il trauma che ha subìto, per una ragazzina di quattordici anni, è impossibile da superare.
- Tutti lo superano prima o poi. Questo ci rende “adatti ” alla Sua scelta. Lui l’ha voluta per un motivo preciso. Ha bisogno di sfogare ancora la rabbia, il dolore e la tristezza. La paura l’ha già dimenticata. Questo è già un passo avanti – continuò il ragazzo, riportando poi l’attenzione su Eleonore, ancora con la testa tra le ginocchia tremanti. – Rivivili, Eleonore. Rivivi il momento migliore della tua vita e quello peggiore. Quelli degli altri non ti sazieranno mai. Per quanto cercherai di diventare loro, di provarli con loro, ti sembreranno sempre blandamente mediocri – le disse, vedendola alzare leggermente il volto.
- C’è un altro problema. Ne arrivano troppe in questo treno. Eleonore non è riuscita ad accogliere e ad assistere le anime giunte oggi e nelle ultime settimane. Mentre attraversiamo i vagoni, potremmo trovare molte anime deliranti, ignare, o addirittura impazzite, che non ricordano chi sono, chi sono state e non capiscono perché si trovano qui – disse un’altra guardiana.
- Lo terremo in considerazione.
Poco dopo, Bianca si ritrovò nuovamente in mezzo al delirio e all’affollamento del vagone, cercando di non venire inghiottita mentre seguiva il suo guardiano.
Ad un tratto, quando finalmente riuscì ad intravedere la fine del secondo vagone, vide una mano afferrare il polso di Layt e trattenerlo.
La mano apparteneva ad una ragazza più o meno loro coetanea, lo guardava con degli occhi candidi e sconvolti, e qualcosa in quel viso le fece credere che i due, in vita, si fossero già incontrati.
- Io ti conosco! Ti conosco …
- Mi devi aver confuso per qualcun altro – le rispose freddo lui, cercando di liberarsi dalla presa.
- Sono sicura di averti già visto … sei uno di loro? Sei un guardiano? Io riesco a ricordare solo stralci, immagini confuse e non capisco cosa mi stia succedendo … mi ricordo di te ma non ricordo il tuo nome o chi fossi … sono arrivata qui da una settimana o forse da un mese, ma non capisco perchè … non capisco …
Un forte istinto di pietà avvolse Bianca, nel vedere quegli occhi lucidi e nell’udire il tono di voce rotto di quella povera ragazza, abbandonata a se stessa, senza uno scopo, con un’identità sull’orlo dello svanimento.
Forse anche Layt aveva provato un briciolo di qualcosa che somigliasse lontanamente alla pietà, poiché le rispose: - Sei giunta qui perché sei morta per suicidio volontario o involontario. Devi sottostare ad una pena per avere la possibilità di rinascere. Resterai qui fin quando lo deciderà il Fato. Per quanto riguarda i tuoi ricordi, invece, Lui ha deciso di cancellarteli. Non ricorderai più le tue vite precedenti quando rinascerai, se rinascerai – la liquidò.
- E riguardo al ricordo che ho di te? – chiese dopo qualche secondo, speranzosa.
- Quando si hanno i ricordi così offuscati, capita spesso di confonderli o sovrapporli, ritrovandosi una fastidiosa ed estraniante confusione in testa. Passerà. Passerà quando dimenticherai ogni cosa e non vi sarà più nulla nella tua mente vuota che possa creare confusione. Come ti ho detto, noi due non ci siamo mai visti – concluse.
Ma nonostante il suo sguardo convinto e la sua voce ferma, Bianca riuscì a dedurre che l’ultima risposta non corrispondesse a verità.
La ragazza, arresa, mollò la presa e accennò un lieve e triste sorriso. – Che strano … sei il ricordo più vivido che ho. Mi dispiace di averti disturbato. Grazie. Grazie per aver risposto alle mie domande.
- Di niente – rispose Layt rivolgendole un sorriso educato, per poi continuare a camminare, seguito da Bianca.
La mezz’anima, giunti al terzo vagone, si decise a porgli quella domanda. - Vi conoscevate sul serio quando eravate in vita, vero? Chi era quella ragazza?
- Mia madre.
 
 

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Capitolo 8
*** Una bolla per Viktoriya e Aleksander ***


Una bolla per Viktoriya e Aleksander
 

La ragazzina tornò a casa facendo attenzione al sacchetto della spesa quasi più pesante del suo corpo ancora acerbo. La pistola ben nascosta nella cintura. Tirò le chiavi sul tavolo e chiuse la porta con il piede, per poi appoggiare finalmente il pesantissimo sacchetto sul tavolino del salotto.
Improvvisamente, una testolina platinata esattamente come la sua, sbucò da oltre il divanetto, mentre due occhioni insonnoliti la scrutavano incuriositi. - Che cosa hai preso, Kiki??
- Da mangiare per la prossima settimana. E sì, ci sono anche le caramelle gommose se è quello che ti stai chiedendo. Ma quelle lasciamocele per stasera – rispose Viktoriya sorridendo al suo fratellino. – Hai trovato qualche film da vederci questa sera? – gli chiese raggiungendolo e ponendosi dietro il divano, con i gomiti poggiati sullo schienale e lo sguardo rivolto ai cartoni animati alla tv.
- Mi annoiano i cartoni.
- Lo vedo – rispose sorridendo, mentre guardava il suo visino ancora mezzo addormentato.
- Ho trovato un film sui mostri per stasera.
- Un altro sui mostri? Qualcosa di diverso?
- Voglio quello sui mostri. Ci sono sia gli zombie che le mummie, Kiki – rispose categorico il bambino.
- Non sia mai che io osi contrariarla! – scherzò Viktoriya schioccandogli un bacio sulle guancette. – Prova a riaddormentarti, orsetto.
Aleksander annuì e riappoggiò la testa sul suo enorme e morbido peluche depositato sopra il bracciolo del divano.
- Kiki? – si sentì richiamare la ragazzina mentre sistemava la spesa.
- Sì?
- Com’è andata alla scuola per grandi?
- Bene. Oggi ci hanno fatto scrivere parecchio – rispose oramai abituata a raccontare al suo fratellino sempre le stesse bugie. – E a te com’è andata la scuola per piccoli?
- Bene. Abbiamo disegnato le nostre facce e abbiamo seppellito dei semi.
- “Piantato”, Aleks, “piantato”. I semi non sono morti. Al contrario, devono crescere – rispose sorridendo ancora.
- Fa lo stesso. Ora voglio dormire.
- Hai iniziato tu a parlare, Aleks.
- Perché non riesco a riaddormentarmi.
Improvvisamente, la ragazzina udì un rumore che le fece salire dei brividi di freddo che non provava da molto tempo.
Come era possibile? Lui non tornava mai in quella casa. Mai.
Scattò di nuovo verso il divano e prese suo fratello in braccio.
- Kiki, che succede? – chiese lui confuso, vedendola tremare e correre frenetica.
- Niente, orsetto. Ora dobbiamo sbrigarci ad andare di sopra, in soffitta. Dopo ti spiego tutto – disse spegnendo il televisore, nascondendo la spesa e fiondandosi per le scale, percorrendo in fretta e furia le tre rampe.
Giunta in soffitta, la ragazzina chiuse la porta a chiave e riprese a respirare. - Ora cerchiamo qualcosa da mangiare e un film da vedere sul vecchio televisore – disse sorridendo ma non smettendo di tremare, mentre toglieva la polvere ammucchiata sul piccolo schermo e cercava sotto i vecchi letti. I rumori provocati da suo padre e dai suoi scagnozzi al piano di sotto si facevano sempre più forti.
- Cosa sono questi rumori? Chi c’è di sotto? – chiese Aleks.
- Sono i vicini! Guarda! Qui avevo nascosto delle vecchie merendine! Tieni! – esclamò porgendogliene una e cercando di calmarsi, ma fallendo. – “La casa delle streghe nullafacenti”! Lo vediamo? – disse alzando la custodia del dvd.
- Ma lo abbiamo già visto tre volte.
- C’è solo questo – rispose frettolosamente Viktoriya inserendo il dvd nella fessura apposita e cominciando a guardare il film accanto ad Aleksander.
Tuttavia, per quanto alzasse il volume, nulla poteva nascondere gli spari.
Il rumore del proiettile schiantato sul legno fu assordante per il bambino, e per la ragazzina non lo fu solamente per abitudine.
Vik si fiondò ad abbracciare il fratellino, tappandogli forte le orecchie, mentre lui continuava a guardarla sgomento, bianco in viso. – Va tutto bene, orsetto. Ci sono qui io. Non avere paura. Finché siamo insieme, andrà bene. Ok?
Aleks annuì, e Vik gli tappò ancora forte le orecchie per cercare di non fargli udire gli spari che seguirono al piano di sotto.
Dopo qualche minuto, finalmente, quei rumori assordanti si placarono, lasciando spazio a qualcosa di peggiore: le scale scricchiolarono, segno che qualcuno le stesse salendo.
Viktoriya si pose davanti ad Aleksander, sperando fino all’ultimo che nessuno provasse a forzare la porta.
Ma, come previsto, la maniglia si abbassò più volte, venendo spinta dal lato opposto, fin quando un violento calcio non sfondò la porta.
Suo padre fece il suo ingresso nella stanza, guardandola dall’alto con un cipiglio semi divertito. Dopo qualche secondo, il suo sguardo virò alle spalle di sua figlia, cercando di vedere chi stesse nascondendo dietro di lei.
- Guarda, guarda chi abbiamo qui. Ciao, piccolino – disse avvicinandosi di qualche passo e abbassandosi un po’, guardando il bambino.
- Kiki, chi è quest’uomo? – chiese il piccolo.
- “Kiki”?? Oh, quanta tenerezza!
- Stai lontano da lui – ordinò categorica Viktoriya.
- Calma, bambina mia. Quanta aggressività! Se non ti conoscessi, direi che non è da te. Lo stavi per caso nascondendo da me?
- Tu non vieni mai qui! Resti sempre a dormire al capanno con gli altri! Ti sei dimenticato dell’esistenza di questa casa, così come ti sei dimenticato di avere un secondo figlio! Da quando la mamma è morta dopo averlo partorito, hai fatto finta che non esistesse!
- E così tu ti sei approfittata della situazione, giusto?
- Ti prego … sto cercando di fargli avere una vita normale, a differenza di quella che tu hai dato a me. Lo sto facendo andare a scuola, gli faccio guardare i cartoni animati, lo faccio giocare con dei giochi innocui, che non comprendano l’uso delle armi, lo faccio stare insieme ai suoi amichetti. Gli sto dando una casa, una famiglia normale … per favore … - disse questa volta supplicante, stringendosi sempre più al bambino.

- La stai dando a lui o la stai dando a te, questa agognata “famiglia normale”? - chiese l’uomo toccando il tasto dolente di sua figlia.
- Non rovinare tutto ciò che ho fatto finora, papà … ti basto già io! Servo il boss e svolgo i miei compiti meglio di una donna adulta grazie all’addestramento al quale mi hai sottoposta sin da piccola! Non te ne serve un altro! Per favore, lui ha bisogno di rimanere in questa bolla che gli ho costruito. Io ne ho bisogno. Ho bisogno che lui vi rimanga …
- Non intendo ignorare ancora il figlio che fino ad ora mi hai tenuto nascosto, cara. Vedo che è sveglio e in salute … crescerà al mio fianco esattamente come sei cresciuta tu. Non puoi continuare a mentirgli. Quando sarà grande, non te lo perdonerà – rispose avvicinandosi ancora e porgendo ad Aleksander il peluche che nascondeva dietro la schiena, recuperato dal divano. – Questo è tuo, non è vero? – gli chiese sorridendogli.
Il bambino lo prese ma continuò a guardarlo diffidente, rimanendo a fianco a sua sorella.
- Come ti chiami? – chiese l’uomo.
A ciò, Aleks guardò Vik ancora dubbioso, non rispondendo.
- Aleksander. Questo è il suo nome. E ha solo cinque anni, quindi, te lo chiedo per l’ultima volta, papà. Lascialo a me – rispose lei, tentando ancora.
- Tu ne avevi di meno, quando hai iniziato – fu la risposta dell’uomo, che proseguì ad osservarlo. – Anche lui somiglia tantissimo a tua madre, proprio come te. Vieni con me, Aleksander – aggiunse porgendogli la mano.
Ma il bambino non si mosse, continuando a guardare sua sorella in cerca di un segno, o di qualsiasi altra cosa. Tuttavia, la ragazzina sembrava essersi arresa e aver perso qualsiasi capacità reattiva in quel momento, mentre lo sguardo era vuoto e fisso su suo padre.
- Kiki? Kiki, sicura che posso andare con lui? Io non voglio andarci. Tu mi dici sempre di non dare confidenza agli sconosciuti.
Quell’ultima parola aveva fatto scendere un brivido freddo sulla schiena del mafioso. – Non sono uno sconosciuto, Aleks. Sono tuo padre.
- Lo so, ho sentito il vostro discorso – rispose il piccolo.
A ciò, l’uomo, spazientito, prese suo figlio in braccio, il quale continuò a guardare sua sorella fino all’ultimo, in attesa del suo intervento, del suo aiuto. Poi la porta si chiuse, e Vik rimase da sola in soffitta, dopo aver visto tutto ciò che aveva, strappato via. Aveva sbagliato ad illudersi in quel modo. Aveva sbagliato a sperare, per una volta, di potersi ritagliare un piccolo angolo di pace e libertà e di potervi nascondere dentro colui che era divenuto la sua unica luce da quando era venuto al mondo, riuscendo a renderle sopportabile un’esistenza blanda e basata sulla morte, sulla violenza e sull’odio. Lui le aveva permesso di smettere di odiare. Ma ora non c’era più, poiché suo padre avrebbe rovinato anche lui e lei glielo avrebbe permesso. Oramai la bolla era scoppiata.
 
- Dagli un’altra botta, Georgi! Credo sia ancora calda! – esclamò l’uomo, ancora con il membro infilato nell’ano della ragazza incatenata, la quale aveva finito la voce per urlare.
- Ehi, chi si vede! La bambola è tornata! – esclamò uno dei tre intenti a stuprare la ragazza, vedendo Viktoriya arrivare in tutta la sua avvenenza, nonostante i vestiti maschili.
Lei si sedette prima di rispondergli. Non degnò neanche di uno sguardo la ragazza morente, ancora arpionata dalle mani sudate e callose dei suoi compagni. – Sai bene come è finita l’ultima volta, Egor. Vuoi che ti rinfreschi la memoria? Preferisci che, questa volta, appenda le tue palle sul campanile della piazza invece che il pezzo del naso che ti ho rotto? – rispose facendo tremare l’uomo al solo ricordo.
- La solita aggressiva! Dove ti ha mandato il boss oggi?
- Nulla di particolare, solo una banale rapina e reclusione di ostaggi – disse annoiata. - Dov’è Aleks? – chiese guardandosi intorno. Oramai erano trascorsi undici anni da quel giorno.
- Tuo fratello è impegnato in un affare importante in città. Dovrebbe tornare a momenti.
- In città?? – chiese allarmata.
- A quanto pare il boss gli sta affidando compiti sempre più pericolosi e delicati. Roba grossa!
- Neanche a noi sono state affidate imprese del genere in trent’anni di servizio! Il ragazzo ci sa fare. Perché non glielo chiedi tu stessa?
- Lo sai che non ci parliamo più – rispose lei gettando uno sguardo annoiato alla ragazza incatenata oramai abbandonata a se stessa.
Quando i tre se ne uscirono dal capanno, la prigioniera si voltò e le parlò con le poche forze che le erano rimaste. – Ti prego … ti supplico … tra qualche ora torneranno e continueranno … aiutami … - sussurrò.
A ciò, Vik si alzò e la raggiunse, guardandola dall’alto. – Pagherai i danni di tutto ciò che i miei compagni ti hanno fatto per il resto della vita, lo sai, vero?
- Sì …
- Non prendertela, scopano tutto ciò che respira: ragazze, ragazzi, bambini, capre. Se vuoi davvero che io ti conceda la grazia di non soffrire più, lo farò - disse tirando fuori la sua pistola e sparandole in testa, con una naturalezza che non avrebbe avuto neanche bevendo un bicchiere d’acqua.
Era stata pietà quella che aveva avuto? Viktoriya Nyström era in grado di provare pietà?
Dopo aver risposto l’arma nel fodero sulla sua cintura, la ragazza vide suo fratello entrare nel capanno. I suoi vestiti erano completamente zuppi di sangue, fattore che le fece intendere che avesse avuto un bel po’ di corpi da macellare durante la sua impresa in città. Si guardarono per un po’ e calò un fastidioso silenzio, oramai abituale tra loro.
Dopo qualche minuto, Aleks posò gli occhi sul cadavere della ragazza ancora fresco, poi di nuovo su Vik. – Il boss la voleva viva.
- Me la vedrò io con lui.
- Vado a farmi una doccia – disse lui prendendo dei vestiti puliti e dirigendosi verso i bagni del capanno.
- Aleks – lo richiamò, non riuscendo neanche a capire cosa l’avesse spinta a farlo.
Egli si voltò, in attesa che parlasse.
- Credi di conoscere qualcos’altro oltre questo? Credi che ci sia qualcos’altro là fuori, nelle vite che conducono gli altri, per cui valga la pena vivere?
Calò ancora silenzio tra loro, dopo quella domanda. – No. Non conosco altro, Vik. Quando non uccido, io non sento niente – rispose il ragazzo, poi rivoltandosi e ripercorrendo la strada che aveva interrotto.
Nei due anni seguenti era accaduto molto altro: lei aveva incontrato quella donna che le aveva aperto gli occhi, Aleks era stato ferito gravemente durante una spedizione in città, e la corsa mortale in auto con il suo corpo insanguinato nei sedili dietro verso l’ospedale, unito alla settimana infernale che aveva trascorso seduta dinnanzi al suo lettino senza mangiare e dormire, in attesa che si risvegliasse, le avevano fatto capire che avrebbe dovuto agire in fretta.
Aveva atteso abbastanza e aveva commesso troppi errori, i quali, in realtà, erano imputabili ad una vita che non conosceva altro che il mondo malavitoso nel quale era cresciuta, fin dalla nascita. Ma si sa, una coscienza da sempre sopita e poi risvegliata, non è in grado di non imputarsi tutte le colpe che crede di avere.
Alla fine aveva convinto Aleks a farlo. Sarebbero stati finalmente liberi e avrebbero potuto vivere una vita normale, ribellandosi.
Ma il piano non era andato come previsto.
Ricordava Aleks che afferrava la pistola impugnata da suo padre e se la puntava alla gola, sfidandolo: - Uccidimi, papà. Se mi stai chiedendo di uccidere tua figlia, mia sorella, allora uccidimi ora e va’ tu stesso a completare il lavoro. Io non lo farò.
E in quel singolo momento, anche il suo terribile padre era riuscito ad ottenere la sua libertà, la sua redenzione, scegliendo di non uccidere suo figlio.
Poi c’era stata la fine dolceamara: libertà per Aleks e morte per lei. L’ultima immagine che aveva, erano gli occhi di Aleks lucidi, la testa leggera appoggiata sulle sue gambe e le mani del ragazzo che le accarezzavano i capelli umidi di sangue.
 
- Vik? Vik? – si sentì chiamare da quella voce che, dopo due mesi, aveva imparato a considerare familiare.
Si voltò verso di lei. – Cosa c’è, mezz’anima?
- Sono due ore che stai piangendo e che sei fissa sul vetro del finestrino, come assente – rispose Bianca preoccupata. – Ti ho portato un infuso rilassante preparato da Barth – continuò porgendole l’elegante tazza.
A ciò, Vik si asciugò distrattamente le guance e prese l’infuso, accennando un sorriso. – Passi sempre più tempo con lui ultimamente.
- Mi piace stare con lui – rispose Bianca ricambiando il sorriso. – Allora? Non vuoi dirmi che succede?
- La tua permanenza qui mi sta riportando alla mente i miei ricordi, la mia storia. Mi sta riportando in mente una persona, qualcuno che stavo cercando di seppellire.
- Perché lo vuoi seppellire?
- Per non pensare. Per non farmi congetture. Per non sperare – rispose continuando a guardare il bianco candido fuori dal finestrino. – Immagina se, da questo vetro, riuscissimo a vedere un paesaggio. Un paesaggio qualsiasi.
- Sarebbe bello. Potremmo sognare.
- Proveremmo invidia, Bianca. Una tremenda invidia che metterebbe radice nel nostro cuore già dopo la prima settimana passata ad osservarlo senza potervi entrare – disse secca, continuando a sorseggiare il liquido speziato.
Poco dopo, i suoi occhi andarono sui piedini piccoli ed eleganti della mezz’anima, nei quali erano ancora presenti le ferite dell’incidente. – Hai i piedi da ballerina – disse improvvisamente.
- Lo ero – rispose Bianca poggiando la testa sulle ginocchia piegate. - Ballavo e camminavo sui fili sospesi in aria – aggiunse chiudendo gli occhi.
- Puoi raccontarla se vuoi, la tua storia. Ma solo quando sarai pronta. Ed ora basta con le frasi melense. Non sono da me! – esclamò la russa ridendo.
- In realtà, io penso che lo siano molto, invece. Cos’è questa musica? Sbaglio o è la seconda volta che sento una melodia come questa suonata al pianoforte? – chiese Bianca volgendo lo sguardo verso la fonte lontana di quella bellissima melodia.
- Layt si è creato un vagone solamente per la musica. Suona una volta al mese. La melodia è sempre differente. Sono più di sessant’anni’anni che permango in questo treno e non ne ho mai udita una uguale ad un’altra suonata da lui.
- Perché non ne ripete mai nessuna?
- Gliel’ho chiesto più volte. Dice sempre che ci sono canzoni che devono essere ascoltate una sola volta.
 
 

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Capitolo 9
*** Il bambino di metallo ***


Il bambino di metallo

 
- “C'era una volta...
‘Un re!’ diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d'inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
Il pezzo di legno in questione era un bambino. Un bambino di nome Pinocchio.”
Raoul sorrise di gusto e di impaziente curiosità, gli occhioni svegli e a forma di mandorla brillavano alla luce della abat-jour mentre si stringeva sempre più sotto le coperte.
Gli sorrisi di rimando, cercando di bearmi di quello sguardo luminoso finché potessi.
- Ma nonno, come può un bambino essere fatto di legno?
- Perché non dovrebbe?
 
 Quella fu l’ennesima bugia della mia vita di inganni e menzogne. Bugie quando devi cercare di vendere un prodotto uscito da poco sul mercato al pubblico, quando devi persuadere un compratore ad investire sul tuo progetto scientifico per essere supportato economicamente, quando devi convincere le persone che la vita privata di un uomo dedito completamente alla scienza come te, sia comunque buona. Bugie quando, ai saltuari incontri con la famiglia che per qualche motivo hai deciso di formare pur sapendo che l’avresti ignorata per la maggior parte del tempo, devi sorridere e mostrare buon viso a cattivo gioco.
Sì, mentii anche a lui. Mentii all’unica persona al mondo che fu capace di donarmi ancora speranza, di credere ancora in me come essere umano, come nonno, di credere che possedessi della bontà nel mio cuore, dell’amore. Ma si sbagliò. Delusi quell’unica persona poiché, appunto, un animo freddo e asettico come il mio non potrà mai e poi mai mutare la sua natura e composizione: la plastica non assorbe il calore, si scioglie e basta.
Al tempo credevo che quella risposta che gli diedi avesse un fondo di verità.
Forse non poteva esistere un bambino di legno, ma uno di metallo sì. Era lo studio di tutta la mia vita.
Oltre me, anche qualcun altro ci credeva. Così, entrambi, come due cercatori d’oro, impiegammo anni della nostra vita per vedere quel progetto realizzato. Entrambi avevamo un motivo specifico per volerlo con tale bramosia. La incontrai ad una gara di motocross, eventi per giovani ribelli e annoiati ai quali non assistevo mai.
Tuttavia, quel giorno, nel retro del mio nuovo laboratorio, trovai un cospicuo gruppo di ragazzi e ragazze con l’aspetto da delinquenti intenti ad esultare guardando dei suicidi che facevano capriole in aria in sella ad una moto. Quando la vincitrice della competizione si tolse il casco, per qualche strano motivo, la riconobbi subito: capelli tinti di verde, smalto sulle unghie rovinato sempre di un verde petrolio, occhi chiari truccati di nero, qualche piercing e tatuaggio in un corpo magro e non molto alto, di una ragazza non più che venticinquenne. Non avevo dimenticato quel viso, quel viso che avevo visto perso e in lacrime anni prima, quando mi ero recato in ospedale per il parto di mia figlia Chlöe, il giorno in cui Raoul venne al mondo. Mi ero perso tra i reparti dell’enorme ospedale, entrando erroneamente in quello delle malattie degenerative. Il dottore si avvicinò a lei con sguardo cupo, lei si alzò dalla sedia, lo fissò con quegli occhi tremanti e quasi vitrei. Scoppiò ad urlare, poi a piangere furiosamente, tanto da dover essere trattenuta da tre medici nonostante il corpo esile. Quel giorno pensai che, nonostante le apparenze, quella ragazza dovesse avere una forza da leone nascosta da qualche parte.
Che strana ironia che ci offre la vita: il giorno in cui venne al mondo la mia luce salvifica, la mia speranza, lo stesso giorno morì la sua di luce.
Avvenne per lo stesso processo naturale che richiede una morte in cambio di una vita.
Quando la notai e, inaspettatamente, si avvicinò a me presentandosi, capii immediatamente che “Crystal” non dovesse essere il suo vero nome.
- Ti conosco. La tua faccia è sulle riviste e sui giornali. Il tuo nome è famoso su qualsiasi piattaforma che tratti di argomenti scientifici in Olanda. Ho letto che stai conducendo studi “pericolosi” sull’intelligenza artificiale. So anche che i tuoi studi non procedono a causa della mancanza di fondi, perciò ti propongo un accordo: ti pagherò mensilmente una cospicua somma di denaro e, in cambio, creerai una copia di una persona a me cara deceduta anni fa.
Lo disse in maniera così decisa e naturale, che quasi mi spaventò.
Accettai per qualche motivo, senza pensarci, non chiedendomi nemmeno come facesse a recuperare tutti quei soldi che mi faceva recapitare. Non mi interessava. Il primo pensiero che mi passò per la mente, fu il più ovvio, la prostituzione. Ma, come ho detto, non mi interessava. Poi, però, lei cominciò a presentarsi sempre più spesso a casa mia, per controllare che io non la stessi ingannando, che stesse investendo adeguatamente i suoi soldi, come era giusto che fosse. Ogni mattina mi svegliavo con il profumo di caffè nero, panna e fondants di nocciole, comprati puntualmente al suo bar preferito. Cominciai a riconoscere i suoi gusti, le sue manie, le sue bizzarre abitudini e a non odiare più così tanto la sua fissa di chiamarmi “Ozzy ” per dispetto. Erano anni, o meglio, decenni, che non condividevo i miei spazi privati con un’altra persona, forse dal liceo. Scoprii che quei soldi li guadagnava tramite le suicide corse con il motocross nelle quali era un vero asso, ma anche che, oltre quello, aveva tante altre passioni che le permettevano di mantenere intatto il suo bel gruzzoletto: dipinti su tela, gare con lo skateboard, un lavoro come tatuatrice e uno come fotografa. Allora cominciò ad interessarmi. Senza neanche accorgercene, il nostro legame diveniva sempre più saldo, in vista di un interesse, di un’ossessione comune, ma non solo.
Quando il primo modello di robot, quello per me, cominciò a prendere forma e iniziai a dotarlo di caratteri fisici precisi e ben definibili, Crystal mi fece quella fatidica domanda.
 
Gli occhi a forma di mandorla si aprirono ad un ritmo meccanico, donando a quel visino apparentemente umano una luce fanciullesca quasi reale, ma che era lontana anni luce dalla sua.
- Ciao, Raoul. Benvenuto al mondo – gli dissi con gli occhi quasi lucidi. – Riesci a sentire la mia voce?
Crystal era positivamente sconvolta e commossa quasi quanto me, mentre lo guardava estasiata.
- Sì, ti sento – rispose il robot con la voce metallica leggermente rotta.
Mi voltai a guardare la mia oramai socia e le sorrisi felice finalmente, dopo anni.
- Se escludiamo la voce, sembra esattamente umano! Ozzy, sono fiera di te! Hai creato un bambino meraviglioso! – esclamò osservandolo da vicino. Poi si girò nuovamente a guardarmi. – Chi è questo bambino? O meglio, “chi era”? Questa è la domanda adatta, giusto? Non ci siamo mai raccontati la nostra storia, il perché siamo così ossessionati da questa pratica proibita. So bene che non sei stato da sempre così attratto dall’idea della creazione. La tua brama è nata ad un certo punto della tua vita, proprio come la mia. Se non vuoi rispondermi non importa, ti chiedo scusa per la mia invadenza. Ci conosciamo da due anni, e, nonostante ci vediamo tutti i giorni, non mi sono mai sognata di chiedertelo. Però, ora, vedendo questo bambino che sembra così incredibilmente umano, mi è venuto spontaneo volerlo sapere.
A ciò, glielo rivelai.
 
- Nonno, nonno, guarda! – mi chiamò Raoul felice, sdraiandosi a pancia in sotto sul ramo dell’albero e osservando gli uccellini che aveva salvato, riportandoli sul nido.
Uscii dalla casetta sull’albero e lo raggiunsi.
Lui aveva sei anni e, al tempo, la mi ricerca era solo una delle tante, niente che meritasse tutto il mio interesse e la mia dedizione, per lo meno non più di altri progetti ai quali stavo lavorando.
- Ho scavato una tomba per il passerotto che non ce l’ha fatta. Ora è felice – disse continuando ad osservare gli uccellini.
- Perché è felice? Se è morto non può essere felice – risposi.
- Perché si è ricongiunto con la terra che lo ha creato.
- Non vorresti riportarlo in vita, se solo potessi? – gli chiesi solo per curiosità, per valutare quale sarebbe stata la sua risposta.
- No. Non lo farei – mi rispose convinto, sorprendendomi. – La morte non è una cosa brutta, nonno. Viene e basta. Anche se l’uccellino non dovesse rinascere, ora è parte delle radici dell’albero della sua casa. La sua morte ha avuto un senso che gli altri non capiscono – disse riportando lo sguardo su di me e sorridendomi.
Quelle parole non me le sarei mai dimenticate.
- Vieni al mio torneo di atletica domani sera, nonno? So che hai da fare in laboratorio, mamma me lo dice sempre, ma potresti uscire prima per venire a vedermi?? Ti prego. Io vorrei tanto che tu mi vedessi correre! – mi supplicò.
Sapevo che avevo degli impegni irrevocabili quel giorno, ma non riuscii a dire di no a quello sguardo. - Va bene.
I suoi occhi si illuminarono e mi saltò addosso abbracciandomi, facendomi quasi sbilanciare. – Ti voglio bene! Sei il nonno migliore del mondo!
Fu così che accadde. Per colpa mia.
Lui mi aspettava, mi aspettava con ansia, mi aspettava al punto da abbandonare l’arena e venire a cercarmi. Ma io sono arrivato tardi e l’ho deluso.
Quando giunsi nell’arena nel quale si stava svolgendo il torneo, conscio che fosse già iniziato il turno di Raoul da un po’ e che fossi arrivato con parecchio ritardo, udii una voce al microfono che comunicava una notizia tremenda. -Attenzione, attenzione a tutti i presenti nell’arena. Si comunica che è da poco avvenuto un terribile incidente. Un bambino di sei anni tra coloro che dovevano gareggiare, è stato ritrovato morto annegato nella piscina riservata alle gare per i professionisti. La polizia sta indagando sul posto ma si presuppone che il piccolo si sia allontanato da solo per cercare qualcuno agli ingressi, passando per la sala vuota delle piscine, scivolando e cadendo in acqua. Avendo le vasche una profondità di cinque metri, il bambino, incapace di nuotare, è annegato e nonostante abbia sicuramente urlato e chiamato aiuto, nessuno deve averlo udito a causa del rumore nell’arena. La squadra sta recuperando il corpicino e presto avverrà il riconoscimento.
Mi si gelò il sangue nelle vene.
Corsi verso le piscine riservate alle gare dei professionisti fino a farmi mancare il fiato in gola. Non appena giunsi sul posto affollatissimo, mi resi conto che i miei funesti presentimenti fossero fondati. A causa della folla non riuscii ad avvicinarmi moltissimo, ma abbastanza da vedere lo strumento meccanico che stava tirando fuori dalla vasca il corpicino inerme, inumanamente floscio e senza vita. Mi bastò vedere i capelli neri bagnati e il braccialetto sul braccino che penzolava: quel braccialetto bianco latte recuperato tra quelli per i dipendenti del mio laboratorio, era stato il mio regalo per il suo compleanno e non se lo toglieva mai.
Mi lasciai cadere inginocchiato a terra, le gambe sbatterono pesantemente sulle mattonelle fredde provocando un rumore sordo.
 
Quando terminai il mio racconto, Crystal si asciugò gli occhi lucidi. – Mia madre è morta di HIV, perché, per mantenermi, si prostituiva. Ho vissuto un’infanzia e un’adolescenza stupende perché lei era un’eroina: è stata capace di farmi credere per anni che il suo lavoro fosse quello della fata turchina. La amavo immensamente – confessò. La strinsi a me e rimanemmo così per un bel po’.
Ci misi troppo tempo a capire che ciò che stavo facendo non era quello che Raoul avrebbe voluto. Dimenticai il suo discorso che tanto mi aveva colpito riguardo la vita e la morte. Ci misi troppo anche a capire qualcos’altro.
Una morte per una vita.
Avevo perso lui, ma avevo trovato un’altra luce, avevo ottenuto la luce di Crystal.
Crystal aveva perso la luce di sua madre, ma aveva trovato quella di un nonno, la mia.
Dovevamo essere quasi arrestati per riuscire a capirlo. Il nostro progetto doveva avere una fine disastrosa per farci comprendere quanto fosse importante e provvidenziale il nostro legame.
Il bambino di metallo con le sembianze di Raoul cominciò a “comportarsi” in modo strano, non rispondendo correttamente ai miei stimoli e dimostrandomi che non avrei mai potuto creare una coscienza umana dal nulla. Raoul non poteva e non voleva essere sostituito, così come non lo voleva la madre di Crystal, Katherine.
Finché non diverrà un bambino vero, Pinocchio rimarrà sempre e solo un pezzo di legno.
Fortunatamente, la nostra storia, la mia e di Crystal, ha avuto un esito positivo, al contrario di molte altre dei residenti in questo treno.
 
Aprii gli occhi e mi ritrovai immerso nell’accecante bianco, contrastato solo dalla figura che svettava in esso, un viso da ragazzo, giovane e bello, ma spaventoso al contempo, per nessun motivo razionalmente spiegabile.
- Benvenuto, Osmond – mi disse quella voce calda che riuscì a provocarmi quasi lo stesso effetto di quella di mia madre poche ore dopo essere uscito dal suo ventre. – Come ti senti?
- Stanco – risposi di getto.
- Non preoccuparti, è normale che tu ti senta così.
- Mi sembra di trovarmi nel mio laboratorio. La luce accecante …
- Ti ci abituerai tra un po’. Ora rispondi ad una mia domanda, Osmond.
- Va bene – dissi un po’ confuso e intimorito.
- Hai rimpianti?
- No.
Egli sorrise, guardando altrove. – A quanto pare non sei ancora stanco.
- Di cosa?
- Di mentire – disse ritornando a bucarmi lo sguardo. – Purtroppo però, dovrai imparare a non farlo più. Mai più. Per lo meno fino a quando resterai qui in questo treno, se vorrai avere la possibilità di rinascere. Per te sarà molto difficile, dopo aver trascorso settant’anni mentendo.
Non stavo capendo una parola di ciò che mi stava dicendo, motivo per cui iniziai a sudare freddo. – Non capisco. Ho bisogno di spiegazioni …
Appoggiò i gomiti al tavolino che mi divideva da lui, avvicinando il viso. – Vuoi sapere quale sarà la pena alla quale dovrai sottostare d’ora in avanti, Osmond? Se dalla tua bocca uscirà anche solo una parola che non corrisponde a verità, la tua anima svanirà nel nulla in eterno.

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Capitolo 10
*** Sento, dunque sono ***


Sento, dunque sono
 

Aprii gli occhi fui invasa letteralmente, tanto da non riuscire a tenerli aperti. La vista più sviluppata a causa della sordità con la quale ero venuta al mondo, mi stava giocando brutti scherzi.
- Dove sono? – sussurrai stropicciando gli occhi.
La persona che era seduta dinnanzi a me aveva una delusione negli occhi che superava di gran lunga qualsiasi sguardo pieno di disprezzo che avevo ricevuto durante la mia vita per la mia condizione. In quello sguardo di delusione tutto rivolto a me, c’era anche un bruciante disgusto, misto a qualcosa che somigliava quasi alla paura, forse.
- Tu non riesci a sentirmi, Jaya – lessi le labbra di quello sconosciuto che mi guardava come se avessi commesso il più grave dei peccati. Pensai che fosse un dio, e mi guardasse in quel modo perché sapeva ciò che avevo fatto, come ero morta. Perché ero morta, giusto? D’altronde, quel luogo non poteva essere altro che una sorta di aldilà.
- Però riesco a leggerti le labbra – risposi con lo sguardo basso, non riuscendo a mantenere il contatto visivo con lui, troppo intimorita per farlo. - Posso sentirti in questo modo.
Costretta a guardarlo per comprendere le sue parole, lo vidi sorridere a metà tra il divertito e l’inacidito. Temetti che, se non fossi stata già morta, mi avrebbe uccisa lui. O forse non ce ne sarebbe stato bisogno, poiché era uno di quelli capace di uccidere con gli occhi, cosa che stava facendo con me. – No - rispose. - Non potrai mai udire nessuno, in alcun modo.
Perché avevo l’impressione che, se avessi udito il tono e l’inclinazione della sua voce, sarei scoppiata in lacrime?
- Mi dispiace … - mi venne spontaneo farlo, scusarmi dinnanzi a lui.
- Perché ti scusi?
- Non lo so.
- Ti assicuro che non è nulla di personale, Jaya. Se stai pensando che io ti disprezzi per ciò che sei riuscita a fare, ti sbagli.  
- Quindi è solo per il mio handicap?
Chi è così stupido e superficiale da discriminare qualcuno nato diverso? Molti sicuramente, molti anche tra coloro che avevo conosciuto durante la mia vita, ma lui no, non lo sembrava affatto.
- Non è per quello. Sto combattendo contro la tentazione di stroncare la tua esistenza e di privarti della possibilità di rinascere con le mie mani.
Mi scossero più di qualsiasi altra nuova e tremenda consapevolezza acquisita, quelle parole.
- No, non sono un dio o un angelo della morte. Posso farlo solo grazie alla mia pena – continuò.
- Una pena …?
- L’avrai anche tu a breve. La mia è una delle rare pene che non provocano danno a se stessi come la maggior parte, ma reca danno solo agli altri se il sottoscritto non la rispetta.
- Non capisco …
- Non sono onnipotente, ma posso farti svanire irreversibilmente nel nulla se violassi la mia pena. È successo altre volte. Ho cancellato l’esistenza di decine e decine di anime negli anni passati in questo modo, per sbaglio – nel dire ciò, il suo sguardo lasciò trapelare una punta di rimpianto, che scomparve subito.
- E qual è la tua pena?
Sorrise ancora e per qualche motivo capii che non avrebbe mai risposto a quella domanda. – Se io fossi nato come te mi sarei tolto la vita all’istante. Per questo non riesco neanche a guardarti e a non sentirmi pizzicare le mani, Jaya. Nulla di personale. Siamo solo io e gli spettri annidati nella mia irrazionalità, il problema. Non tu.
- Quando ero in vita, avevo un amico nato cieco. Avevamo l’abitudine di fare un gioco. Io chiudevo gli occhi per essere come lui e lui si tappava le orecchie per essere come me. Ma riuscivamo comunque a comunicare e a capirci. Ci riuscivamo perché sfruttavamo ciò che avevamo entrambi: facevamo toccare le nostre bocche come in un bacio, ma, in quel contatto, parlavamo. Dal movimento di quelle labbra sulle mie, capivo ciò che lui mi diceva e lui capiva me – Non seppi perché glielo raccontai.
- Vivevo di musica. Ho sempre vissuto solo di quello. Vivevo di suoni, di respiri, di melodie, di rumori. Se fossi nato cieco, se qualcuno mi avesse strappato via gli occhi con delle pinze, non sarebbe stato un problema. Ma le mie orecchie erano ciò che mi teneva in vita. Lo sono ancora. Anche le immagini per me sono onde sonore, e senza udirle non riuscirei a vederle. Per me è inconcepibile vivere senza sentire, come lo è per ogni uomo vivere senza il cuore nel petto. Ai miei occhi, tu vivi con il petto vuoto.
- Ora capisco – Feci una pausa, poi continuai. – Credo di aver guadagnato qualche potere particolare dopo quello che ho fatto.
- Quale potere?
- Dopo aver attraversato tutto il paese e i Monti dell’Ade, ho trovato lo sciamano. Ma lui non voleva rivelarsi a me. Lo ha fatto solo dopo aver capito che fossi sorda e che riuscissi a leggere la lingua dei morti. Mi ha parlato di mille argomenti e di nulla. Non comprendevo ciò che stesse cercando di dirmi, non riuscivo neanche a capire come un rituale magico come quello che stava facendo lui, avrebbe potuto rivelarmi la verità sul mio destino e su quello di Chameli. Solo dopo ho capito fosse matematica. Un enigma regolato da un codice. Un codice che si rivela solo quando si acquisisce lo stato mentale ideale per apprenderlo. Il Fato ha sepolto dei piccoli indizi. Non ci vuole tenere completamente all’oscuro delle sue trame. Tuttavia … io lo odio comunque. Non riesco a non odiarlo e non riesco a pentirmi di averlo sfidato.
- “Amelia / 3 / 13. 38”. Nome posseduto nella prima vita, numero di vite vissute e tempo rimanente alla morte della vita attuale.  Le tre informazioni base. Quando hai scoperto che a Chameli rimanessero solamente tredici ore e trent’otto minuti di vita, hai deciso di sfidarlo. Poi però, qualcosa è andato storto. L’hai vista morire davanti ai tuoi occhi. Per questo hai deciso di agire diversamente. Di fargliela pagare in qualche modo. “Jaya/ 1 / 32 anni”.  Chiunque, conoscendo il proprio tempo di vita rimanente, cercherebbe di allungarlo. Tu, invece, lo hai drasticamente accorciato. Dimmi, com’è stato? Com’è stato suicidarsi entrando in un fiume e lasciandosi annegare?
- Ho provato un insano piacere nel sapere che avrei deciso da sola quando morire. Non avevo più altri trentadue anni a disposizione per vivere, come era scritto, poiché stavo ponendo fine alla mia vita in quel momento, ed è stato bellissimo. Non cambierei niente.
- Aspetta a dirlo, prima di aver conosciuto la tua pena.
- Ora conosco il segreto. Quello che tutti evitano e bramano allo stesso tempo - dissi asciugandomi velocemente le lacrime dagli occhi e appoggiando le mie mani sul tavolino, con i palmi all’insù, in attesa. - Stringimi i polsi.
Lui, con sguardo neutro mostrò le sue mani, i polsi semicoperti dalle maniche sottili e nere del tessuto che lo avvolgeva. Le appoggiò sulle mie, stringendomi i polsi, dandomi libero accesso ai suoi.
Chiusi gli occhi e avvolsi le mie dita intorno alle sue vene ben in rilevo alla fine dell’avambraccio. Vene che avrebbero dovuto essere pulsanti ma che non lo erano. Non sapevo se fosse possibile farlo con un morto. Lo avrei scoperto a breve.
Poi lo sentii. Era diverso, ma lo sentii e ne fui completamente invasa.
Allontanai le mani dai suoi polsi, quasi attonita, mentre aprii gli occhi e tornai a guardarlo. – Layton / 1 / zero.
- Sei stata brava. Ma Lui non può permettere che tu continui a saperlo. Io sono il primo e l’ultimo che hai letto.
- Posso farti una richiesta prima di conoscere la mia pena?
- Parla.
- Sei capace di farmi sentire? Almeno una volta. Una sola. Voglio solo sapere come ci si sente.
Lui restò a guardarmi per un po’ in seguito a tale richiesta. Dopo di che, fece svanire il tavolo dinnanzi a noi e si avvicinò a me. Pose le sue mani aperte sui lati della mia testa, come per prenderla in mano.
Fu in quel momento che finalmente mi sentii viva. Viva come non lo ero mai stata. Un rumore fortissimo penetrò i miei timpani sani come per magia, dei tonfi violenti, aggressivi e al contempo melodici. Per quanto facesse male, in quell’istante, il mio unico pensiero fu la bellezza.
Poi, quando tutto svanì e lui allontanò le mani, al contempo avvicinò le labbra al mio orecchio fino a farle toccare con il mio padiglione auricolare. Sentii il colore, il peso, la consistenza e l’identità della sua voce che mi disse: “Dimentica”.
 

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Capitolo 11
*** Hussain’s Cafe ***


Hussain’s Cafe

 
La sala da ballo della lussuosa dimora di lady Whikalmer si estendeva sotto un enorme lampadario fornito delle prime luci elettriche realizzate in Inghilterra.
Il richiestissimo e giovane duca di Leicester si avvicinò silenzioso alla dama oggetto dei suoi sguardi da tutta la serata.
- Permettete un ballo, milady? – le chiese porgendole la mano e facendole distogliere lo sguardo dalla splendida musica che proveniva dai violini della piccola orchestra in salotto.
La fanciulla dalla pelle color perla, i capelli scuri fluenti e raccolti in una ricercatissima ed elegante acconciatura, i grandi occhi azzurro cielo e il corpo sottile perfettamente fasciato da un vestito di seta verde che la rendeva ancora più raffinata di quanto già non fosse, mosse leggiadra il calice di vino che reggeva tra le dita e si voltò a guardare colui che l’aveva richiamata.
- Certamente, mio signore – gli rispose accennando un sorriso seducente, alzandosi dal divanetto di camoscio rosso e concedendogli di prendere la sua mano.
I due iniziarono a ballare sulle note lente e avvolgenti dei violini. – Sono ammaliato da voi, milady.
- Ne sono lusingata, duca.
- Non avete fatto altro che rimanere seduta tutta la sera, come foste in attesa.
- Sono sempre in attesa di un pretendente, milord. Le donne amano sentirsi corteggiate.
- Vi chiamate “Elicia”, giusto? Ma mi è giunta voce che amate farvi chiamare con un nome differente da quello di battesimo.
- Esatto, per voi sono “Ellis”, duca. Solo i miei familiari hanno il privilegio di chiamarmi con il mio nome di battesimo.
 
- Scommetto quarantanove penny che lord Mitchell proverà a conquistare quella scrofa assatanata e ricca sfondata della duchessa di Sheffield! – esclamò il ragazzo sbattendo il suo bicchiere di birra sul tavolo.
A ciò, il giovane con la pelle olivastra e gli occhi giallo crema spense la sua sigaretta sul costoso tavolino in legno di castagno del maestoso giardino di lady Whikalmer e bevve un sorso dal suo bicchiere di birra. – Io ne scommetto cento che sarà la duchessa ad andare da lord Mitchell per prima. D’altronde, è passato già un mese dal suo ultimo divorzio e ha bisogno di trovarsi un uomo di almeno dieci anni più giovane di lei alla svelta.
Scossi da quella puntata così alta, gli altri giovani lo guardarono perplessi, per poi spostare l’attenzione sulla coppia di loro interesse.
Non appena notarono la grassa duchessa sopracitata avvicinarsi con sguardo civettuolo al giovane lord Mitchell, si sentì imprecare.
- Come diavolo fai a vincere ogni volta, Braeden?? – chiese il ragazzo, sganciando i suoi cento penny.
- C’è chi nasce intuitivo – rispose il giovane prendendo i soldi e un tiro da un’altra sigaretta appena accesa.
- O fortunato – controbatté un altro di loro, provocando le risa degli altri.
Ad un tratto, giunse un altro dei tanti lord invitati al ballo, accompagnato dal suo schiavo nero.
Le risa del gruppetto di amici si placarono dinnanzi a tale scena. Ognuno di loro catapultò gli occhi su Braeden, il quale non staccava mai lo sguardo dai due, continuando a fumare apparentemente tranquillo.
- Avanti, muoviti, razza di animale! – esclamò il lord spingendo immotivatamente il suo schiavo. Dopo aver detto ciò, si guardò intorno ed individuò il gruppetto di giovani anticonvenzionali seduti al tavolo a fumare e bere birra, estraniati dal ballo.
- Guarda chi si vede! Braeden Hussain! Non vi vedo da parecchio tempo! C’è qualcosa di vostro interesse?
 - Buonasera anche a voi, lord Harris. Mi sto divertendo con i miei compagni. Facciamo scommesse – rispose pacatamente l’interpellato, continuando a tirare dalla sua sigaretta.
- Che genere di scommesse? - Evidentemente quell’uomo aveva voglia di stuzzicarlo, e dopo ciò che disse in seguito ne ebbe la conferma: - Considerando che siete un mezzosangue, io scommetterei su quale città si trova il bordello in cui è finita la puttana straniera che vi ha messo al mondo. È persiana, giusto? Già immagino da quanti altri uomini si sarà fatta scopare e quanti altri piccoli mezzosangue come voi avrà partorito, i quali, però, a differenza vostra, non hanno la fortuna di vivere tra gli agi dell’alta borghesia.
Dopo quelle parole, l’uomo si pentì di averle pronunciate, poiché Braeden scaraventò via la sedia nella quale era seduto e gli piombò addosso massacrandolo di colpi dinnanzi agli sguardi allibiti di tutti gli invitati.
 
- Ahi! – si lamentò il ragazzo facendo una smorfia di dolore quando sua sorella pulì il taglio che aveva sopra il sopracciglio.
- Non lamentarti, Brad! Se tenessi le mani a posto, questo non succederebbe! Mi ritrovo ogni volta a pulire le tue ferite e a morire di paura! – esclamò la fanciulla perseverando nell’impresa di pulire il taglio mentre suo fratello era seduto e lei in piedi dinnanzi a lui.
- Non c’è modo che io possa contenermi in queste situazioni, lo sai bene, Elicia.
- Che diavolo succede qui?! Stavo giocando una partita a scacchi molto tranquillamente nella sala del buffet, finché non ho udito la notizia che mio figlio ha quasi ucciso un uomo in giardino! – esclamò lord Bartholomew Hussain fiondandosi al bancone dinnanzi al quale si trovavano i suoi due figli. Aveva la faccia stralunata, il fiatone e la camicia di pregiato cotone zuppa di sudore per la corsa.   
- Le solite risse di Braeden, papà – lo “tranquillizzò” Elicia, poi voltandosi nuovamente verso suo fratello e proseguendo con la sua opera, beccandosi altri suoi lamenti doloranti.
- “Solite risse”?? Elicia, tesoro, tuo fratello ha quasi ucciso lord Harris! Che mi venga un colpo! E tu – disse rivolgendosi prima a sua figlia, poi a suo figlio. – Siamo al ballo di una lussuosa casa aristocratica, caro il mio giovanotto. Trattieniti.
- Mi spiace, papà, ma non avrei potuto trattenermi.
- Lady Ellis, tutto bene? Siete corsa via all’improvviso … - intervenne il duca di Leicester, avvicinandosi al bancone, rivolgendosi alla sua sfuggente dama.
- Duca di Leicester, non vedete che mi sto dedicando a mio fratello? Potete andare ad occupare la serata in altro modo? Che so, seducete qualche dama - gli suggerì la ragazza non distogliendo l’attenzione dal taglio sul sopracciglio di suo fratello.
A ciò, il duca, offeso, se ne andò, sotto lo sguardo confuso di Bartholomew, mentre Peter, vecchio amico di quest’ultimo, rise sorseggiando il suo calice seduto su uno degli sgabelli.
Nell’osservare la scena, si avvicinò un altro lord, vecchio e dall’aria impettita. - Perché mio figlio il duca si è allontanato in tal modo da voi, lady Ellis?
- Perché l’ho rifiutato, milord.
- Tal delinquente è vostro fratellastro, milady?? – chiese guardando Braeden con il volto ferito.
- “Fratello”, milord. Anche se il colore della nostra pelle è diverso, siamo entrambi figli degli stessi genitori, solo che lui ha preso più da nostra madre e io da nostro padre – rispose lei mostrandogli un sorriso palesemente forzato.
- I vostri figli sono incorreggibili, lord Hussain! Una dandy e un bohemien: non poteva andarvi peggio! Una che riesce solo a sedurre e a stare al centro dell’attenzione, e un altro con la passione per le risse! – esclamò il vecchio rivolgendosi ad un mortificato Bartholomew.
- Ehi! – esclamarono in coro Elicia e Braeden, mentre quest’ultimo si alzava in piedi e la fiancheggiava.
- Sparite dalla nostra vista – disse Elicia svuotando elegantemente un calice di vino sulla testa semipelata dell’uomo.
- Se non volete finire come lord Harris, vi conviene tornare a posare il culo in quei divanetti di camoscio – aggiunse Braeden.
A ciò, il vecchio ingoiò un groppo di saliva e si volatilizzò.
I due ragazzi si girarono a guardarsi nello stesso momento, complici, sotto gli occhi ancora stralunati di Bartholomew e alle risa di Peter.
- B.E., quando fate così mi fate paura. Sembrate quasi gemelli – commentò Barth.
- Potremmo esserlo se io non fossi nata dieci mesi dopo Brad, papà – rispose Elicia sorridendo.
- Miei cari, mi dispiace se la storia di vostra madre vi reca ancora dei turbamenti. Da quando è scappata via, abbandonando l’Inghilterra e lasciando solo un biglietto d’addio, vent’anni fa, quando voi eravate ancora in fasce, ho sempre cercato di prendermi cura di voi e non farvi mancare nulla ma, forse, ho sbagliato qualcosa …
- No, papà.
- Non devi pensare questo – intervennero i due.
- Sono le persone che non comprendono il nostro spirito. La storia della mamma non c’entra nulla – lo tranquillizzò Elicia abbracciandolo affettuosamente.
Dopo di che, Barth guardò anche suo figlio come in attesa.
- Papà, non sono tipo da queste smancerie, lo sai – rispose Braeden sorridendo, roteando gli occhi e arrendendosi, unendosi all’abbraccio come volevano.
- Sono sicuro che lord Harris se le meritava – commentò Barth guardando suo figlio.
- Già, Barth, il ragazzo ha un vero talento! Forse dovrebbe sfogare tutta questa implacabile energia combattiva in qualcosa come la guerra! D’altronde, tra poco vi saranno gli arruolamenti per la guerra contro i turchi! – esclamò Peter terminando il suo calice.
A quelle parole, il volto di Braeden fu come attraversato da un lampo di realizzazione, ma nessuno vi fece caso.
- Sei ubriaco, Peter! Va’ a casa, amico mio! – lo spronò Barth sorridendogli, per poi rivolgersi nuovamente ai suoi ragazzi. – B.E., domani mattina potreste aiutarmi con il locale affittato per il mio Cafe?
- Ancora con questo progetto utopico dell’aprire il Cafe più lussuoso e frequentato d’Inghilterra, papà? – gli chiese Braeden disilluso.
- Vi farò cambiare idea! Trasformerò il vostro scetticismo in fierezza! Sapete quanto sia importante per me. Ho sempre voluto averne uno, fin da bambino. Sento che ora la mia occasione è giunta – disse, per poi voltarsi verso Elicia.
- Elicia, tesoro, tu mi aiuterai domani?
Ella lo guardò per un po’ dubbiosa, poi si arrese nonostante non fosse convinta, spinta dall’immenso amore per suo padre. – Sì, ovviamente.
- E tu, Brad? – chiese speranzoso a suo figlio, il quale impiegò un po’ di più a rispondere.
- Cosa dobbiamo fare di preciso? – rispose infine, facendo capire al suo vecchio di avergli dato una possibilità.
- Verniciare e montare le tende! – esclamò felice Bartholomew.
- Posso aggiungermi anche io, se vuoi, amico! A meno che non ti bastino Braeden ed Elicia – propose Peter venendo immediatamente fulminato da tutti.
- Peter!! – esclamò Elicia con la bocca spalancata, trattenendo l’irritazione nei suoi modi raffinati.
- Peter, come diavolo ti sei permesso?!? – aggiunse Braeden guardandolo truce.
- Peter, non pensavo potessi arrivare a tanto … - terminò Bartholomew fissando il suo amico sconvolto.
- Oh, dimenticavo, scusate! Scusate! “Ellis”, volevo dire “Ellis”!
 
Da quel giorno in poi, molte cose cambiarono.
I B.E. erano sempre stati il centro focale della sua vita, ma anche il sogno del suo Cafe lo era.
Non credeva che un giorno avrebbe dovuto scegliere tra i due e che avrebbe compiuto la scelta sbagliata.
I suoi ragazzi lo aiutarono per mesi a lavorare al suo utopistico progetto, sostenendolo sempre, fin quando Braeden non comunicò loro di volersi arruolare per la guerra contro i turchi, dicendo che sentiva qualcosa dentro da tutta la vita, che lo spingeva a farlo. Non aveva mai compreso cosa fosse, ma ora sì, lo sapeva, e sapeva di dover partire per sentirsi completo e in pace con se stesso.
Dopo quella notizia, qualcosa si era rotto dentro Bartholomew, e anche dentro Elicia.
Sapere di avere un familiare in guerra a rischiare la vita ogni giorno, è motivo della maggior sofferenza per qualsiasi famiglia.
Tuttavia, compresero la sua scelta e, da quando partì, ogni giorno pregarono per lui. Braeden non smise mai di inviare loro lettere per due anni interi, e loro fecero lo stesso, rincuorati di sapere che, finché vi sarebbero state le lettere, sarebbero potuti rimanere tranquilli e continuare a sentirlo vicino anche nel proseguimento del progetto del Cafe.
Elicia rimase ad aiutarlo fino agli ultimi istanti, così come Braeden, anche se a distanza. Ora credevano davvero in lui e sapevano che ce l’avrebbe fatta, ne erano certi.
Un sogno divenuto ossessione.
Il giorno dell’apertura dell’“Hussain’s Cafe”, moltissime persone si presentarono e ammirarono i frutti dell’estenuante e splendido lavoro: il lusso e la magnificenza raffinata di quel luogo erano visibili persino dal vetro dei bicchierini da dolce.
Tutto era perfetto ed esattamente come lo aveva immaginato.
Non vedeva l’ora che Braeden tornasse per mostrarlo anche a lui.
Ma la sua gloria durò molto poco poiché, già la mattina dopo, Barth fu svegliato da un tonfo e da alcuni spari.
I turchi erano penetrati in città a sorpresa cominciando ad uccidere i soldati inglesi, e prendendo i civili come prigionieri di guerra.
Corse subito verso la stanza di Elicia e uscì di casa insieme a lei, non lasciandole mai la mano.
Quando furono all’aria aperta ed esposti al pericolo, come per miracolo, Braeden riuscì a trovarli. Dopo due anni di lontananza, finalmente lo rividero, con la divisa e un fucile in mano, intenzionato a portarli in salvo insieme agli altri civili a tutti i costi.
- Rimanetemi sempre vicini, intesi?? Stiamo portando i civili in un rifugio ad un chilometro da qui. Se riusciremo ad arrivarci senza farci vedere, sarete salvi.
- E tu che farai?? – aveva chiesto Elicia a suo fratello.
- Vi raggiungerò appena possibile.
- Brad, figliolo …
- Niente storie, papà – lo aveva interrotto il ragazzo.
Ma mentre scappavano difesi da lui, accadde qualcosa.
- Il mio cafe, no!! Lo stanno assaltando!! – esclamò correndo istintivamente verso il suo cafe.
- No, papà, non farlo! Ci scoveranno! – gli aveva urlato Braeden.
Ma era troppo tardi. I turchi li videro, gli spari di Braeden non bastarono.
Sua figlia venne presa come schiava e suo figlio come prigioniero, costretto ai lavori forzati. Lui venne colpito e creduto morto per un giorno intero, ma, in realtà, era solo svuotato. Era colpa sua. Il cafe oramai non c’era più, ma non era il sogno di una vita distrutto ad averlo disumanizzato: aveva scelto il suo cafe piuttosto che la salvezza dei suoi figli.
Aveva perso loro. Aveva perso tutto.
Trascorse i suoi ultimi giorni di vita in una casa di cura, non scoprendo mai che fine avessero fatto i suoi figli.
Nella vita seguente, rincontrò Braeden come comandante di un battaglione inglese durante la Prima guerra mondiale. Sapeva che la sua predisposizione alla combattività fosse insita nella sua anima e non poté essere più felice di averlo ritrovato. Suo figlio era un uomo mentre lui era solo un bambino. Nonostante appurò che avesse ancora tutti i ricordi della sua prima vita, decise di non dirgli subito chi fosse poiché preferì conoscerlo e conoscere la sua nuova famiglia da esterno, vestendo i panni di un suo fratellino minore acquisito.
Poi morì tragicamente durante la guerra, e i suoi occhi videro come ultima immagine Braeden che correva verso di lui, non essendo riuscito a salvarlo.
Nella terza, invece, era stato il turno di Elicia. Entrambi avevano nomi diversi quando li aveva rincontrati nelle vite seguenti, ma, per qualche scherzo del Fato, sua figlia, anche in quella vita, si faceva chiamare “Ellis”. Lei gestiva una biscotteria, un frammento del cafe perduto del padre che non ricordava più, al contrario di Braeden. Barth era suo coetaneo, ricordava sempre tutto e, anche con lei, decise di conoscerla da esterno, cominciando a lavorare nella sua biscotteria come dipendente e legando con lei uno splendido rapporto, fin quando non si ammalò all’età di trent’anni e lei lo accudì fino al momento in cui emise l’ultimo respiro.
Barth si chiese molte volte nel corso delle sue vite seguenti alla prima, se anche i B.E., un giorno, sarebbero riusciti a rincontrarsi tra loro, in una delle loro vite future, proprio come lui era riuscito a star loro accanto separatamente.
Ma Barth non avrebbe dovuto ricordare le due vite seguenti alla prima, poiché, oramai da molti mesi, ricordava solo frammenti di queste e l’unica che era ben fissa e stabile nella sua memoria era la prima, quella nella quale aveva commesso il suo imperdonabile errore.
Perché ora le stava ricordando?
Chi stava agendo nella sua mente e stuzzicando i suoi ricordi, la sua memoria che credeva perduta?
Avrebbe dovuto parlare con Layt per chiedergli spiegazioni.
Barth si risvegliò da quel flashback e ritornò alla realtà del treno, trovando Bianca che sedeva sullo sgabello dinnanzi al bancone come faceva di solito, e sorseggiava la sua cioccolata calda con mousse.
La osservò per un po’, fin quando la ragazza non alzò lo sguardo verso di lui, distogliendolo dalla sua tazza. – Allora, Barth? Mi stavi cominciando a parlare dei B.E. Perché ti sei fermato?
 
 
 

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Capitolo 12
*** “Paris Project” ***


 “Paris Project”

 
“Paris Project” scrisse la matita sulla parete della scuola.
- Vuoi smetterla di scriverlo ovunque? – le aveva detto André sorridendo esasperato, ma provando comunque una sorta di eccitazione mista a fierezza vedendola farlo.
- No, non la smetterò perché tutti devono sapere – aveva risposto tranquillamente la ragazza dai capelli bronzei e gli occhi scuri.
Saltellava come una gazzella in mezzo alla foresta, superando tutti i loro compagni di scuola con nonchalance.
- Hai presente le torture che facevano nei manicomi un tempo? Quelle che ti facevano il lavaggio del cervello costringendoti a guardare immagini e tenendoti forzatamente gli occhi aperti?
- Andrè, non so che idea tu ti sia fatto dell’Amleto, ma non dovrai sottoporti ad un trattamento del genere per avere quella parte.
- Non ti arrendi mai, eh? Io mi riferivo al fatto che potrei interpretare un ruolo come questo un giorno, sai in quegli spettacolini con le scenografie fatte di carta pesta. Lì conta solo l’esagerazione dell’interpretazione per colpire il pubblico. Il mio pessimismo sostanziale mi aiuterebbe a risultare credibilissimo nei panni di un carnefice. Pensaci, io spavento la gente per strada, loro mi pagano per la credibilità, e tu mi aspetti fuori dal camioncino rottame vestita da Moulin Rouge, pronta per il biglietto per Parigi.
- Questo è perché non hai fiducia nelle tue capacità e perché pensi che presto moriremo tutti. La tua nuvoletta di negatività non mi ha mai spaventata, Amleto.
- Ma è vero che presto moriremo tutti. E smettila di denominarmi in base al nome del personaggio che vorresti che io interpretassi periodicamente.
- Lo faccio da quando avevamo cinque anni e ti lamenti solo ora? Comunque, come ti vestirai stasera?
André si fermò a guardarla, confuso.
- Pronto? Festa dei morti? Qualcosa come maschere spaventose e gloria all’oscurità e alla magia nera? Non passeremo un altro Halloween rinchiusi in casa a farci la maratona horror, Andrè – continuò lei.
- Che c’è di male nella maratona horror? Cosa c’è di meglio di ascoltare le urla delle vittime stupide di Jack lo Squartatore la notte di Halloween?
- C’è di male che lo facciamo già da sedici anni ed è ora di cambiare. Indovina da chi mi vestirò – disse continuando a saltellare.
- Da Iside.
A ciò, Audrey si fermò a guardarlo, mettendo su un finto broncio. – Sono così prevedibile?
- Per il tuo migliore amico che conosce anche la filastrocca che cantavi in bagno da piccola per riuscire ad andare di corpo, sì. Inoltre, la tua fissa per l’egittologia è storia. Insomma, quale bambina di sei anni supplicherebbe sua madre di toglierle il vestito da principessa delle favole per farsi vestire da Cleopatra il giorno di Carnevale? Nessuno capirà l’associazione a Iside, Drey.
- Non mi importa, non mi vesto mica per farmi riconoscere. Non riconosceranno neanche te.
- Ti ho già detto che non mi vestirò.
- Sì, invece. Ti lego al letto e ti vesto da Giudizio Universale. Queste sono esperienze preziose, dobbiamo accumularle prima di andare a Parigi, caro il mio Amleto!
 
“Paris Project”. Lo incise con la punta dell’unghia sul comodino accanto al letto.
Lei diceva che l’inglese faceva più internazionale quando lo scriveva puntualmente su ogni superficie disponibile.
Sorrise, ignorando la puzza di vomito, di alcol e di fumo che imperniava la stanza fatiscente. Ignorò anche le lenzuola umide che gli coprivano la pelle nuda e la lurida mano appiccicosa che gli stringeva il fianco.
Tutto in quella stanza sapeva di schifo.
Ma era abituato a tutto quello.
Era abituato alla bestialità. Perché solo con quella riusciva a non sentire dolore e a redimere la sua colpa.
Afferrò i soldi che colui con cui condivideva il letto gli aveva lasciato sul comodino e cominciò a sfogliarli.
Nel buio, percepì quella mano artigliarsi maggiormente alla sua vita, insieme all’alito caldo farsi più vicino al suo collo. Nonostante ciò, continuò a dargli le spalle.
- Sei sveglio, André? – chiese la voce rozza impastata dal sonno.
Si ricordava addirittura il suo nome. Ne rimase sorpreso. – Sto contando i soldi.
- Non ti fidi?
- Mi piace solo contare i soldi quando non riesco a dormire.
- Vuoi dirmi quanti anni hai ora? Li hai superati i venti, vero?
- Non sei né il primo, né sarai l’ultimo ad avermi scopato per tutta la notte qui a Parigi. Le tue ansie sono inutili – rispose cinico.
- Come sei diventato così? Sei famoso da qualche anno in tutta Parigi per quello che fai e che ti fai fare. Ma per esserti ridotto così, deve esserti successo sicuramente qualcosa. Un giovane ragazzo come te, pieno di possibilità. Puoi raccontarmelo? – nella sua voce vi lesse un interesse che sembrava quasi sincero.
Si voltò finalmente verso di lui e, senza alcun motivo, cominciò a raccontare a quell’uomo di mezza età semisconosciuto la ragione della sua rovina.
E mentre narrava, i ricordi lo invadevano nuovamente:
 
Sognavano Parigi.
Sognavano il palco dei grandi teatri.
Sognavano di recitare insieme, di interpretare la parte di due amanti.
Sognavano di viaggiare insieme per il mondo, conoscendo qualsiasi cosa si fossero trovati dinnanzi, scrivendoci sopra e fermandosi solamente quando avrebbero avuto voglia di fermarsi.
Questo era il loro sogno.
Lui e Audrey erano cresciuti insieme, scambiandosi le merende alle elementari, difendendosi dai bulli alle medie, fin da quell’età fieri di essere nerd, sognatori e artisti, al contrario di tutti i loro coetanei. Poi, crescendo, erano riusciti a trovare un gruppetto di amici che era esattamente come loro, fuori dal mondo.
Erano cresciuti così. Tra canzoni scritte dentro la metropolitana, l’odore dello smog sopra i tetti delle case, i popcorn davanti ai film e alle serie tv, le feste in maschera, i provini per il teatro, i croissant caldi alle quattro di notte.
Era una vita semplice, ma anche se una meteora avesse colpito la terra e frantumato il pianeta in mille pezzi, non gli sarebbe importato, finché avrebbe avuto quella vita.
Non se ne era reso conto, fino a quando non l’aveva persa.
Era il penultimo anno di liceo quando cominciò ad accadere tutto.
Quella sera Audrey e gli altri l’avevano persuaso ad andare ad una festa di una ragazza che frequentava il loro liceo, cosa non assolutamente da lui. E quanto avrebbe voluto che non l’avessero fatto. Se fosse rimasto a casa quella sera, non sarebbe successo niente. Aveva continuato a crederlo.
A quella festa, lui e Audrey si erano baciati. Per lui era stato un errore compiuto da ubriaco perso, mentre per lei no.
Quel bacio lo aveva confuso, perché era il suo primo bacio e perché Audrey era tutto per lui, ma non era quel tutto. Non era quel tutto che avrebbe dovuto rappresentare una compagna, un’amante, per lui. Ma per lei non era lo stesso, e averlo constatato solamente dalla sua espressione dopo essersi staccati, lo aveva in qualche modo, lacerato.
Era corso nel retro della casa, sedendosi sulla scala antincendio per allontanarsi da tutti, riprendere fiato e pensare.
Era stato lì che lo aveva incontrato, poco dopo aver vomitato tutto il ponce.
Disse di vivere lì, difatti si presentò come il fratello maggiore della ragazza che aveva organizzato la festa a casa sua. Il suo nome era Daniel Durand, era di almeno sei anni più grande di lui e aveva gli occhi e lo sguardo di chi aveva cercato con tutte le sue forze di affermare la sua identità e di rimanere se stesso in un mondo nel quale non tutto ciò che devia dalla normalità è ben accetto.
Avevano parlato per ore seduti in quelle scalinate antincendio, entrambi sotto gli effetti della sbornia.
La mattina dopo non ricordava come si fosse conclusa la nottata.
Lo scoprì solamente quando arrivò a scuola e centinaia di sguardi diffidenti, schifati, sorpresi o delusi si puntarono su di lui senza che ne conoscesse il motivo.
Quando giunse finalmente dal suo gruppo di amici, il primo che gli andò incontro con un’espressione dispiaciuta e ancora semisconvolta, fu Damien.
- Se ce lo avessi detto non sarebbe cambiato nulla. Perché non ce lo hai mai detto? – gli chiese addolorato, mostrandogli il video che oramai tutta la scuola aveva visto, girato la sera prima, alla festa, da una ragazza che era uscita fuori dalla casa per vomitare sotto la scala antincendio.
André si sentì mancare il fiato e sbiancare non appena vide l’immagine di se stesso impegnato in un lungo bacio con Daniel.
Non ricordava, ma soprattutto non lo sapeva. Come poteva rivelare ai suoi amici una cosa del genere se neanche lui stesso sapeva di essere così? Poteva forse dedurlo dal fatto che non era mai stato capace di farsi una ragazza nonostante non rimanesse indifferente al genere femminile? Assolutamente no.
Ma la prima persona in assoluto, alla quale pensò in quell’esatto momento di realizzazione, fu Audrey. Si girò a cercarla con lo sguardo disperatamente, ignorando le continue e perenni occhiate da parte di tutti.
La vide finalmente avvicinarsi a lui dopo qualche minuto, la testa bassa, una maschera di cera al posto del viso.
Alzò gli occhi su di lui e gli sorrise con uno di quei sorrisi che sarebbero stati capaci di far sprofondare il mondo nel dolore. – Ciao – gli disse semplicemente.
Andrè non riuscì a risponderle, ma continuò a fissarla mentre l’immagine di quel sorriso lo perseguitava.
- Non fa niente, André. Volevo che tu sapessi che non cambierà niente tra noi. Fai finta che quello che è successo tra noi due ieri sera, non sia mai accaduto. Io ti sosterrò.
Dopo quelle parole che rimasero incise a sangue nella sua mente, capì ciò che avrebbe dovuto fare.
La amava troppo per vederla così.
La amava troppo per rimanere accanto a lei nell’affrontare la scoperta della sua omosessualità.
Non era giusto e anche se sentiva di poter soffocare senza vederla un solo giorno, doveva farlo per il suo bene.
Trascorsero mesi in cui lei provò disperatamente a cercarlo, a convincerlo che andava davvero tutto bene, a ripetergli che non riusciva più a vivere senza di lui, di ritornare amici. Lui aveva dovuto essere forte per entrambi e non cedere alla tentazione di buttare all’aria tutti i suoi propositi pur di riaverla nella sua vita.
Prima o poi sarebbe passato, lei sarebbe andata avanti e anche lui.
In tutto ciò lo aiutò Daniel. Dopo la sera alla festa e la fase di rigetto durata qualche settimana, provò a frequentarsi con lui per conoscere nuove informazioni e sensazioni riguardo alla sua scoperta. Egoisticamente, cominciò ad uscire con lui anche per superare il dolore della lontananza della sua migliore amica. Di certo una relazione amorosa non avrebbe mai potuto sostituire l’eterna amicizia che aveva con Audrey, ma, con il tempo, ciò che provava per Daniel, quell’insieme di nuovissime emozioni che non aveva mai sentito, divennero qualcosa di reale e di serio.
Quando l’anno scolastico terminò, Audrey e Andrè erano riusciti ad andare avanti senza cercarsi a vicenda continuamente, e quest’ultimo aveva raggiunto la completa accettazione della sua omosessualità grazie alla splendida e stabile relazione che aveva con Daniel, colui che gli aveva fatto aprire gli occhi. Anche i rapporti con il suo gruppo di amici si erano riaggiustati.
Ma Audrey continuava a scrivere nei muri “Paris Project” e Andrè continuava a leggere quelle scritte.
Poi, ad un mese dalla fine del liceo, accadde.
Quando Damien lo chiamò al cellulare mentre lui era uscito al parco con Daniel, per riferirgli la notizia, in quell’esatto istante, capì che la sua vita fosse terminata.
Audrey era stata investita da un camion mentre percorreva la strada per tornare a casa dalle prove generali di uno spettacolo nel quale avrebbe recitato.
L’impatto l’aveva uccisa subito.
“Se l’avessi accompagnata a casa, come facevamo sempre, non le sarebbe successo nulla”. Questo fu il suo primo pensiero mentre sentiva il rumore del suo cellulare cadere a terra frantumandosi e le mani di Daniel sulle sue spalle, mentre lo chiamava preoccupato.
Si attribuì la colpa della sua morte, si attribuì la colpa di aver rovinato i suoi ultimi momenti di vita, si attribuì la colpa di non averle mai fatto comprendere davvero quanta importanza lei occupasse nella sua mente e nel suo cuore, quanto soffrisse nel sentirla distante e che la mancanza, prima o poi, l’avrebbe fatto correre nuovamente da lei con due biglietti per Parigi tra le mani.
Fu la disperazione più nera a farlo sprofondare e a fargli prendere quella decisione.
Tagliò i contatti con i suoi genitori, con Damien e gli altri suoi amici, e anche con Daniel.
Si trasferì davvero a Parigi, ma lo fece per punirsi, perché se non avesse potuto realizzare il “Paris Project”, allora avrebbe distrutto l’immagine che aveva di Parigi, rendendola il suo inferno in terra.
Divenne subito famoso, nel giro di qualche mese, grazie alla brutalità con la quale permetteva a chiunque lo volesse e avesse qualche soldo da spendere, di maneggiarlo e di usare il suo corpo giovane e avvenente a piacimento.
La sua malleabilità e le sue prestazioni lo resero sempre più conosciuto e ambito tra gli altolocati parigini, così cominciò a farsi pagare sempre più, ritrovandosi con mazzi di soldi inutili tra le mani, non sapendo come sfruttarli.
Dopo tre anni passati in quelle condizioni, un fantasma della sua vecchia vita si presentò dinnanzi alla sua porta. Uno dei fantasmi più importanti.
Capelli bruni e un paio di occhi blu scuri, tanto grandi quanto colmi di speranza.
Daniel era riuscito a convincere Damien a farsi dare il suo indirizzo, poiché quest’ultimo era l’unico al quale Andrè l’aveva confidato, con la promessa di non venire mai a cercarlo e di accettare la sua decisione. 
Daniel entrò in casa sua e provò a farlo ragionare nonostante tre anni prima lo avesse mollato su due piedi, sparendo, senza dargli neanche una spiegazione. La sua visita gli fece più male di quanto si aspettasse.
- Audrey non avrebbe voluto questo per te! Cosa proverebbe se potesse vederti ora?? Fallo per lei, Andrè. Torna a casa con me. Questi ultimi anni a Parigi diventeranno solo un ricordo lontano. Risolveremo tutto – queste erano state le parole del suo primo e ultimo amore.
Daniel gli fece rendere conto di quanta influenza avesse davvero avuto su di lui e, nonostante gli anni passati, di quanto ancora desiderasse rimanergli accanto, tornare a casa con lui e provare a ricominciare da capo. Un’altra parola e, forse, l’avrebbe davvero convinto. Lo avrebbe salvato dalla pena tremenda che si era imposto da solo e che lo stava consumando.
Poi, però, un cliente li interruppe, lo fece tornare in sé, così cacciò via Daniel, perdendo la sua occasione di perdonarsi per ciò che credeva di aver fatto.
Ed ora, un anno dopo dalla visita di Daniel, si ritrovava nel letto di uno sconosciuto, come ogni notte, ma, per qualche motivo, intento a raccontargli la storia della sua rovina.
 
Fu in quel momento, non appena terminò il suo racconto, che un’idea, l’ultima delle tante idee autodistruttive che aveva avuto, prese forma. Forse non sarebbe stato così facile, o forse sì.
- Wow, che storia agghiacciante – commentò l’uomo, oramai completamente sveglio dal suo sonno.
- Già – rispose Andrè, prendendogli le mani lentamente e portandole sulla sua gola, aprendo le dita, in modo che gliela stringessero.
- Che stai facendo? – gli chiese l’uomo, lasciando comunque che Andrè guidasse le sue mani.
- Stringi. Stringi forte – gli disse avvicinando le labbra alle sue.
- Così ti farò male.
- Infatti è quello che voglio.
- Perché non ti uccidi da solo se è quello che vuoi? – gli rispose ironico, cercando di sdrammatizzare.
- Perché non ho le palle per farlo - disse serio il ragazzo, facendo capire all’uomo che non stesse scherzando.
- André, credo sia meglio smetterla con questo gioco … la tua storia è davvero dolorosa da sentire, ma non è un buon motivo per …
- Se non lo farai, dirò a tua moglie come abbiamo passato la scorsa notte. Le elencherò tutto quello che abbiamo fatto. Poi lo elencherò a tua figlia …
A ciò, le grandi mani dell’uomo, involontariamente, strinsero più forte il collo del ragazzo nell’udire tali parole. – Non oseresti.
- Perché no? Ormai non ho niente da perdere. Stringi.
- No.
- Nel tuo portafoglio hai una bustina di cocaina. L’ho visto prima mentre dormivi.
- La tengo per uso personale.
- So riconoscere uno spacciatore da uno che vuole provare qualcosa per divertirsi e metterci una pietra sopra la mattina dopo. Tu spacci. Chiamerò la polizia e ti rovinerò la vita oltre a rovinare quella della tua famiglia. Stringi queste fradice mani sul mio collo e fai in fretta! – gli urlò non riconoscendo neanche la sua stessa voce.
- Se verrò accusato di omicidio la mia vita sarà comunque rovinata!
- Ho un sacco di clienti che vorrebbero uccidermi quanto vorrebbero fottermi. Ho un sacco di conti in sospeso. Se anche dovessero avere il minimo sospetto su di te, un uomo con un patrimonio come il tuo può pagare i migliori avvocati di Parigi. Te la caverai. Non avrai neanche il peso sulla coscienza dato che te lo sto chiedendo io e se non lo facessi tu, mi farei comunque ammazzare da qualcun altro. Ora stringi prima che componga il numero di tua moglie …!
- Tu sei pazzo … - sussurrò l’uomo sull’orlo delle lacrime, stringendo più forte il collo pulsante del ragazzo dinnanzi a sé, il quale sorrideva soddisfatto, ma facendo sempre più fatica a respirare.
- Dì … dì loro … che mi dispiace … - mimò con le labbra, non riuscendo più a parlare ormai.
- A chi?
- Scrivi loro una lettera da parte mia … a Daniel, a Damien e … ai miei … genitori …
- Lo farò … - disse l’uomo stringendo ancora più forte per non vedere più quel volto contratto, per mettere fine a quell’agonia il prima possibile.
Chiuse gli occhi e strinse ancora, fin quando non sentì più alcun soffocato lamento e non avvertì più le vene pulsare sul collo che stava avvinghiando.
Rallentò la presa e aprì gli occhi per guardare il cadavere steso sul letto, non potendo fare a meno di tapparsi la bocca e urlare dinnanzi alle iridi vitree e fisse al soffitto, prive di ogni liquidità e triste luce.
 
Aprì gli occhi e si ritrovò immerso dalla luce bianca. Percepiva ancora quella soffocante stretta al collo, come delle dita fantasma.
Sbatté le palpebre qualche volta, fino a quando i suoi occhi si posarono sulla figura dinnanzi a lui. – Qual è la mia punizione? – chiese immediatamente, come d’istinto, come se colui che gli era seduto di fronte avesse la risposta a tutto. – Qual è la mia punizione per quello che ho fatto in vita?
- L’hai già ricevuta, André. Ti sei già punito abbastanza da solo – gli aveva risposto il ragazzo dai biondi capelli, distaccato. – Qualsiasi peccato tu abbia commesso, qui non vale più. Siete tutti uguali nella morte.
- Ma io ho distrutto un sogno.
- Ti sbagli, André. Solamente quando uscirai da questa stanza in qualità di morto ed entrerai a far parte stabilmente del mio treno, le tue azioni cominceranno ad acquistare un reale significato. Fin quando sei vivo, non puoi distruggere niente.

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Capitolo 13
*** Il tranello di Bianca ***


Il tranello di Bianca
 

La mezz’anima camminò ancora e ancora, fino a quando non raggiunse la sua meta, il vagone dal quale proveniva quella musica ogni volta diversa.
Non appena vi entrò, la musica cessò e si ritrovò completamente sola in mezzo a tutti quegli splendidi e imponenti strumenti musicali. Si guardò intorno.
- È inutile che ci provi anche con me – quella voce ben riconoscibile e distinguibile da tutte le altre, si levò alle sue spalle.
Bianca si voltò individuando la figura che cercava, appoggiato con la schiena ad una parete, a qualche metro da lei. – Che vuoi dire?
Layt accennò un sorriso divertito. – Sono il guardiano di questo treno, mezz’anima. E sono qui da duecento anni. La tua sfacciata modestia non può arrivare a credere di riuscire ad ingannare me, né tanto meno di leggere i miei ricordi, così come sei riuscita a fare con tutte le anime del tuo vagone. Quindi è inutile che ci provi con me. Non funzionerà.
Bianca inghiottì a vuoto, arrendendosi. – Non riesco mai ad entrare nei tuoi ricordi le poche volte in cui appari. Non riesco neanche a vedere la tua pena …
- Dovresti dire loro cosa hai fatto. Non saranno felici di sapere che la tua cieca e smaniosa curiosità ti ha fatto compiere un gesto tanto ignobile come quello di scavare nella loro memoria senza il loro consenso. Vuoi continuare a far credere ai tuoi amici che i loro ricordi da vivi tornati prepotentemente a galla negli ultimi mesi, siano solo un caso?
- Se lo dicessi loro, mi odierebbero. So di aver sbagliato, ma … non sono stata capace di fermarmi quando mi sono accorta di essere in grado di farlo …
- Quando confesserai tutto, vorranno sapere come ci sei riuscita, dato che, non solo sei una mezz’anima, ma sei qui da neanche un anno.
- Non so neanche io come ci sono riuscita … dovresti averla tu la risposta a questa domanda – rispose la ragazza stringendo i pugni.
A ciò, Layt passò una mano sopra il pianoforte, sfiorandone la superficie con le dita. – È una capacità che si acquisisce dopo anni di permanenza nel treno, ma non tutte le anime la padroneggiano a prescindere. La tua è una vera e propria particolarità … quasi un’eccezione – rispose posando lo sguardo su di lei.
- Cosa dovrei fare ora? I sensi di colpa mi stanno divorando …
- Va’ da loro e dì ogni cosa. Dovrai essere pronta a pagare le conseguenze di ciò che hai fatto – disse dandole le spalle e camminando verso l’uscita del vagone.
- Layt – lo richiamò Bianca facendolo fermare. – Non stavi suonando tu prima che arrivassi, poco fa?
- La risposta ad una domanda del genere non ti riguarda. La tua famelica curiosità mi piace, mezz’anima, ma devi imparare a dosarla quando ti trovi dinnanzi ad un codice che non riusciresti mai e poi mai a decifrare. Sbrigati ad andare da loro. Quando avrai finito, ci sarà qualcos’altro ad attendervi.
Dopo quelle parole, Bianca ritornò nel suo vagone e, quasi come se le avessero letto nel pensiero, trovò i suoi compagni in piedi ad aspettarla, nei loro occhi una rabbia nera.
- Ciao, Bianca – fu Vik a parlare per prima, e sembrava avere lo sguardo più deluso di tutti. – Abbiamo parlato, durante la tua gita per i vagoni. Sono venute fuori alcune cose.
- André ha voluto parlarci dopo che ieri ha rivissuto tutta la sua tremenda storia dei suoi anni di vita, passando una notte colma di incubi e dolori - continuò Osmond.
- È successo a tutti noi. Per questo siamo giunti alla conclusione che ci fosse qualcosa di strano – proseguì Jaya.
- Vieni con noi, Bianca. Affronteremo questo argomento altrove: anche Barth merita la sua vendetta – parlò anche Andrè, riferendosi ovviamente al fatto che Barth non potesse muoversi da dietro il bancone del suo cafe situato due vagoni prima del loro.
Bianca prese a seguire quelli che ormai erano divenuti suoi amici e che sentiva di aver perso per sempre, avvertendo dei tremori alla base della spina dorsale. Sapeva che oramai avessero compreso.  -  Che cosa volete farmi …? – sussurrò, passando subito al dunque.
- Lo scoprirai presto – le rispose nuovamente Andrè, il quale la affiancava insieme a Vik.
Non appena giunsero nel vagone di Barth, dinnanzi al suo bancone, questo mostrò il suo volto addolorato, insieme agli occhi lucidi. – Io mi fidavo di te – le disse subito, con la voce rotta.
- Mi dispiace, Barth! Mi dispiace davvero tanto! Scusatemi tutti! – esclamò lei ponendosi una mano dinnanzi alla bocca, resistendo all’istinto di piangere.
- Hai idea di cosa hai fatto? Hai spiato nella nostra cazzo di mente senza il nostro consenso, facendo ritornare alla luce i ricordi peggiori che hanno segnato la nostra esistenza, quelli che con tanta fatica eravamo riusciti temporaneamente a seppellire. Ed io che credevo fossimo amiche! – aggiunse Vik.
- Lo siamo!
- Per te l’amicizia è questa? Essere amici significa entrare abusivamente nelle teste degli altri? Ti abbiamo accolta subito nel migliore dei modi, facendoti sentire parte della nostra quotidianità cristallizzata. Se solo avessi aspettato, con il tempo, saremmo riusciti ad aprirci, e con i nostri ritmi, a ritirare fuori quei ricordi con calma e pazienza, per raccontarteli e renderti partecipe del nostro passato, proprio come abbiamo fatto l’uno con l’altro ogni volta che un nuovo arrivato giungeva nel nostro vagone. Con i nostri tempi, Bianca – incalzò Andrè.
- Sei addirittura riuscita a vedere le mie vite seguenti alla prima … quelle che avevo dimenticato. Come diavolo hai fatto?? – le chiese Barth ancora sconvolto.
- Non lo so, ragazzi, davvero, dovete credermi … non avrei mai voluto violare la vostra privacy. L’ultima delle mie intenzioni era quella di tradire la vostra fiducia in questo modo … non so cosa mi sia preso. Sono sempre stata molto curiosa fin da piccola e, forse, queste premature capacità che non dovrei ancora possedere, sono dovute a questo … non lo so neanche io. So solo che non ho saputo darmi un freno e capisco in pieno la vostra rabbia. Al vostro posto mi odierei anche io … mi odierei al punto da non provare altro sentimento. Ma vi giuro, vi giuro su ciò che ho di più caro al mondo, che non era mia intenzione farvi soffrire e provocarvi tanto dolore! Sono stata impulsiva e incosciente, ma l’affetto che nutro per voi è qualcosa di inspiegabile, quasi innato. Vi considero la mia famiglia oramai, e, se fosse per me, non mi divederei mai da voi … - disse accorata, guardandoli uno per uno, mentre le lacrime scalpitavano per uscire dai suoi occhi.
 Trascorse qualche secondo di silenzio, poi Osmond prese la parola. – Lo stesso vale per noi, Bianca. Ma non possiamo ignorare quello che hai fatto.
- Meriti di essere ripagata allo stesso modo – aggiunse Jaya.
- Che intendete dire con “allo stesso modo”? – chiese timorosa la mezz’anima.
- Da un momento all’altro potresti risvegliarti dal coma, oppure morire e diventare una passeggera del treno a tutti gli effetti. Dato che la tua permanenza qui è così incerta, anche noi siamo impazienti di conoscere la tua storia – disse Andrè, facendo impietrire Bianca.
- La nostra vendetta consisterà nel farti ciò che tu hai fatto a noi, senza permesso – concluse Vik mentre tutti la circondarono in un cerchio comprendente anche il bancone del cafe.
Bianca si accovacciò a terra e cominciò ad abbracciarsi da sola, tremante. - Vi prego, vi prego, non fatelo …
- “All’età di quattro anni, una donna mi vide camminare su un bastoncino in bilico tra due alberi, attraversarlo senza problemi, come fosse una superficie solida. Ho letto che il senso dell’equilibrio è nascosto nel nostro cervello, molto in profondità, e fa parte di quelli che nessuno si ricorda di avere, come se si trattasse di ricordarsi di respirare. Proviene dalle orecchie e da un angolo del cervello nascosto al cervello stesso, mi piace pensare. Alcune persone ne sono sprovviste mentre altre, altre come me, ne sono fin troppo dotate. Così mi dissero” - cominciò Vik, pronunciando i ricordi che lesse nella mente di Bianca.
- “La donna disse a mia madre che avevo un dono, un talento.
Ma mai dire ad un’attrice fallita, frustrata e ambiziosa, che sua figlia ha un talento.
Perché la distruggerà pur di vederlo realizzato.
All’età di quattro anni, mia madre mi iscrisse ad una scuola di danza, seguendomi assiduamente in ogni fase dei miei progressi, soffocandomi in ogni momento della giornata. Non potevo avere amici, non potevo avere nessuno.
Mio padre era morto prima che nascessi, perciò l’unica che provò a combattere contro nostra madre per impedirle di rovinarmi già da bambina, fu la mia unica sorella maggiore, Melanie. Lei ci ha sempre provato, fino alla fine.
Tuttavia, quando si ha a che fare con una bestia feroce e affamata, la si placa solamente uccidendola. Mia madre era terribilmente e patologicamente affamata di successo, di gloria, di applausi” – continuò Andrè.
- “‘Hai i piedi da ballerina, il corpo di un fiore e il viso di ceramica’ mi dicevano. ‘Faresti invidia alla più colorata delle farfalle e al più aggraziato dei cigni.’ Era strano non sentirsi adatta, percepire di avere tutti gli elementi per eccellere in qualcosa, ma sentirsi comunque fuori posto. Io volevo solo tenermi in equilibrio, camminare tra il vento, ondeggiare in quel filo sospeso in mezzo al nulla che tanto mi faceva sentire al mio posto. Non volevo gli applausi, non cercavo la fama, non aspiravo alla perfezione. Lo faceva qualcun altro per me.
Trascorsi in questo modo l’infanzia e quando Melanie si trasferì nell’Oregon per andare al college, fu ancora peggio. L’unica mia ancora di protezione era svanita ed io ero sola nella gabbia del leone” – proseguì Jaya.
- “Cominciarono ad arrivare le prime gare di ballo, le competizioni di pattinaggio artistico, gli spettacoli di danza classica. Ottenevo sempre dei buoni risultati, ottimi per la mia età, ma, per qualche assurdo motivo, non bastava mai. Mi piaceva danzare, mi piaceva muovermi sotto le note della musica, percepire di toccare il cielo con la punta del dito anche in quel modo, quando mi prendevano in braccio e mi lanciavano in alto.
Poi, all’età di dieci anni, durante una gara di ballo, caddi, slogandomi una caviglia e rovinando l’intera riuscita della coreografia, dinnanzi ad un pubblico di più di quattrocento persone.
Dopo essere uscita dall’ospedale con la caviglia fasciata, quella notte, avvenne ciò che ricordo come il primo dei due momenti peggiori della mia vita” – fu il turno di Osmond.
- “Mia madre aveva completamente perso il senno dopo la mia caduta e la messa a rischio della mia intera carriera da ballerina. Così, fece qualcosa che, un tempo, era come una benedizione per le bambine piccole e costrette da una società che vedeva la donna solamente come un magnifico petalo di un fiore, mera e pura esteriorità, nonché piacere visivo e sessuale. Qualcosa che nessuna bambina dovrebbe provare.
Ma, almeno, al tempo, ad una pratica come quella venivano sottoposte bambine davvero molto piccole, quando le ossa dei piedi devono ancora formarsi del tutto e il dolore risulta estremamente minore.
Su di me, che avevo già dieci anni e i miei piedi erano quasi completamente formati, fu pari ad una lama conficcata nella testa che comincia a farti vedere tutto nero, come se al mondo non vi fosse altro che un buio intenso.
Mi infilò un panno in bocca per attutire le urla, mi prese entrambe le caviglie con le mani, togliendo prima la fasciatura su quella infortunata, e poi mi spezzò i piedi. Prima uno, poi l’altro. Sentii letteralmente uscirmi l’anima dal corpo e poi rientrarvi dentro mentre urlavo e mordevo la mia lingua fino a farla sanguinare, nonostante il panno. Quando ancora il buio non mi aveva invaso, vidi i miei piedi in una posizione innaturale, contorti su loro stessi, mostruosamente rigirati in un intreccio che non riuscivo a comprendere.
Quando le fasciature strette tenute per un anno intero e i dolori atroci quotidiani si alleviarono lievemente, mentre le mie ossa si adattavano a fatica a quella nuova, innaturale posizione distorta, rendendo i miei piedi ancora più piccoli e aggraziati, ricominciai a danzare” – disse Barth stoppandosi, non potendo fare a meno di versare delle lacrime amare nel pronunciare quelle atroci parole, mentre anche tutti gli altri percepivano il magone montare in loro. Tuttavia, si imposero di continuare.
- “All’età di tredici anni arrivò il giorno del tentato suicidio. Camminavo su quel filo sospeso tra due palazzi, accarezzata e avvolta dalla nebbia come un tempo, come amavo tanto fare. Le braccia allungate all’esterno e poste ad asta, mentre il vociare sotto di me, della folla ammucchiata e preoccupata nel notare una ragazzina che cammina su un filo sospeso a metri e metri di altezza, si faceva sempre più alto. Sarebbe stato un modo perfetto per morire, per porre fine a tutto quanto, per non sentire più dolore ai piedi, il peso di un macigno sulla schiena e il fiato rovente e asfissiante dinnanzi alla bocca. Sarebbe stato tutto perfetto, proprio come doveva essere. La mia esasperazione era arrivata ad un punto tale, da farmi sentire bene e felice in quel momento, nonostante l’azione che stessi per compiere.
‘Questa è la segreteria di Bianca Annjoy, ti prego di lasciare un beep dopo il messaggio. Cioè, intendevo un messaggio dopo il beep! Se non avessi una sorella schizzata che mi tirasse i vestiti in questo esatto momento, riuscirei a fare un discorso sensato! Mel, la smetti?? Sto registrando il messaggio per la segreteria, grazie! Comunque, chiunque tu sia, appena potrò ti richiamerò!   -    BEEP   -    Ehi, micetta, sono io, la tua sorella maggiore che ti manca tanto. Scusa, scusa e scusa altre mille volte se non ci siamo sentite per un’intera settimana! Dovevo recuperare alcune lezioni arretrate così mi sono messa sotto con lo studio! Spero di riuscire a tornare a casa per rimanere qualche giorno il prossimo mese! Mi manchi come l’aria, baby B. Non immagini quanto. Non vedo l’ora di vederti in videocall e di ascoltare tutti i tuoi pianti, sfoghi e lamentele, che poi si trasformeranno in risate non appena ti mostrerò la montagna di marshmellow dalle forme più assurde che ho comprato stasera per cena! Che diavolo stavamo facendo quando hai registrato questo meraviglioso messaggio per la tua segreteria?? Rinfrescami la memoria che ne ho bisogno! Ti voglio bene da impazzire, micetta, a dopo!’
Chissà perché mi venne in mentre quel messaggio ascoltato la mattina stessa proprio in quel momento. Forse perché, solo quando ci avviciniamo alla morte, il nostro corpo viene invaso da una scarica di istinto di sopravvivenza improvvisa e inaspettata. Ripercorsi la distanza che mi divideva dal palazzo e ritornai con i piedi a terra, buttando all’aria quella possibilità di suicidio perfetta” – riprese il giro Vik.
- “Trascorse un altro anno in cui la mia carriera riprese il via definitivamente, fin quando, eccitata ai limiti dell’umano, un giorno mia madre tornò a casa e mi disse di aver ottenuto una proposta senza pari: dei proprietari di un circo molto prestigioso fuori città, mi avevano offerto di essere il loro pezzo forte e di preparare un numero da trapezista, equilibrista e ballerina. Si trattava di un compito di estrema difficoltà dato che avrei dovuto ballare sopra un filo sospeso in aria, senza mai cadere.
Ovviamente, mia madre non mi avrebbe permesso di rifiutare, perciò accettò per me.
In quella nottata di luci e di stelle brillanti in cielo, io fui il raggio di sole in quel circo. Eseguii il numero perfettamente, fin quando, un rumore mi distrasse, facendomi perdere quel briciolo di concentrazione fondamentale a non farmi precipitare giù come una goccia di pioggia che si sfalda sul cemento. La rete attutì il colpo, ma l’altezza era talmente elevata, da non avermi risparmiato un forte colpo al piede, il quale riaccese in me il dolore per quelle ossa che mi erano state spazzate tanto dolorosamente e che non erano ancora al loro posto” – proseguì André.
- “Quella notte corrispose al secondo momento peggiore della mia vita.
Quando tornammo a casa, mi aspettai qualcosa come la rottura di qualche altro osso, magari della schiena, per farmi sembrare più elegantemente slegata nei movimenti, secondo gli assurdi parametri di mia madre.
Ma ciò non avvenne: mia madre mi chiuse in uno stanzino buio, non dicendomi né come né quando mi avrebbe fatta uscire di lì. Mi chiuse lì dentro senza dirmi nulla, lasciandomi con i miei atroci dolori ai piedi, a piangere per ore e ore intere, fino all’alba.
In quei momenti di buio e di disperazione totale, la mia rabbia e il mio dolore mischiati insieme partorirono qualcosa. Forse, la cosa migliore che avessi mai potuto partorire.
Mi misi alla estenuante ricerca di qualcosa di lungo e appuntito completamente al buio, aiutandomi solo con le mani e con il mio sviluppato equilibrio.
Alla fine, trovai una graffetta.
Se dal ventre di quella donna ero uscita io e non avevo fatto altro che soffrire a causa sua, a causa della sua decisione di darmi alla luce nonostante non fosse adatta a crescere una vita, allora la storia si sarebbe potuta ripetere … e non avrei mai e poi mai potuto rischiare che si ripetesse. Per niente al mondo.
Spaventata di divenire come lei un domani, decisi che mi sarei definitivamente tolta la possibilità di commettere il suo stesso errore. Se avessi optato per una soluzione meno drastica, avrei potuto nutrire dei ripensamenti negli anni, ripensamenti che mi avrebbero portata a compiere quello sbaglio. Perciò avrei dovuto farlo in quel modo, per renderlo perenne e irreversibile …”  - Jaya si bloccò, con le lacrime che le rigavano il volto. – Io non … non ce la faccio … - disse ai suoi compagni, leggendo nella mente della mezz’anima quello che sarebbe avvenuto in seguito.
Si guardarono tra loro e apparentemente nessuno sembrò trovare il coraggio di continuare.
- Continuo io – si propose infine André. – “Aprii la graffetta completamente, per poi sfilarmi le calze e l’intimo. Rimasi in ginocchio con la graffetta in mano per un po’, tremante.
Amavo i bambini, tutti i bambini che avevo conosciuto in vita. Ma dovevo comunque farlo. 
‘Non soffrirai, mai e poi mai, mio tesoro’ continuai a ripetermi per darmi coraggio, respirando piano, mentre le lacrime colavano giù a fiotti.
Dopo quasi un’ora in cui mi ripetei quella frase, infilai la punta della graffetta di metallo dentro il mio buco inviolato, applicando una forza bruta che non credevo di avere, per sfondarlo e per andare fino in fondo … alla fine ci riuscii. Bucai tutto e mi sentii come sventrare. Continuavo perché stavo male, perché mi facevano male i piedi e perché sapevo fosse la cosa giusta. Spinsi sempre più in profondità, fino a quando quel filo rigido, lungo e informe di metallo, non svanì quasi del tutto dentro il buco. Quando provai a farlo uscire fece ancora più male di prima e sentii colare fuori un lago di sangue denso mentre mi accasciavo a terra e chiudevo gli occhi, fiera, nel dolore, della scelta presa.”
- “Mi risvegliai in ospedale, circondata dai miei compagni di scuola, dai miei parenti, da mia madre, ma soprattutto da Melanie, la quale, grazie a ciò che era successo, riuscì ad ottenere la mia custodia totale. Tutto sembrò risolversi dopo quel gesto estremo: mia madre rinsavì come per miracolo e cercò di rimediare a tutti gli errori commessi, ovviamente senza successo. Mi rimisero a posto le ossa dei piedi, e mi fece ancora più male della prima volta, ma, dopo tutti i tormenti fisici subiti, riuscii a superarlo senza fatica.
Non potevo più avere un bambino mio; tuttavia, riavevo la mia vita, la possibilità di vivere come volevo e la sicurezza che per niente al mondo avrei messo alla luce una creatura che avrebbe sofferto le mie stesse pene.
Tutto ciò avvenne quando avevo quattordici anni. Nei due anni seguenti, feci tutto ciò che una normale adolescente dovrebbe fare, unendomi ad un gruppo di amici, coltivando le mie passioni, i miei hobby, vivendo momenti splendidi con Melanie e con altre persone che amo. Poi, per casualità, per un’assurda e stupida fatalità, c’è stato l’incidente in macchina. Eravamo diretti ad un party io, le mie due migliori amiche e altri due nostri amici, tra cui uno alla guida. Una semplice svista, una banale distrazione, ed eccomi qui, in coma, tra la vita e la morte” – continuò Osmond.
- “‘Tu non hai i piedi da ballerina, il corpo di un fiore, la pelle di ceramica o le ali da farfalla. Tu sei molto più di questo. Tu sei determinata come una tempesta dopo un’arida estate, forte come i lampi che squarciano il cielo, intelligente e brillante come i neon che illuminano un palco buio, appassionata come la musica, come il cibo caldo, come le onde, come i fuochi d’artificio. Sei impulsiva e curiosa come una dea bambina.’ Queste sono state le parole più belle che io abbia mai udito, parole uscite dalla bocca di Melanie, nonché la persona che più di tutte mi ha fatto apprezzare una vita perduta.”
Bianca era stesa a terra, in mezzo al cerchio, con le lacrime secche sulle guance, e le braccia ancora serrate al corpo. Era ferma e immobile, come in attesa di qualche altra pugnalata da parte dei suoi compagni e dei suoi ricordi.
- Che cosa abbiamo fatto … che razza di mostri siamo … - sussurrò inaspettatamente Vik, asciugandosi velocemente le lacrime e piombando su Bianca, tirandola su di peso, delicatamente, e stringendola a sé, accarezzandole i capelli come per cullarla. -  Mi dispiace, Bianca. Non avrei mai immaginato … non immaginavo facesse tanto male. Scusami … perdonami – la pregò.
- Va tutto bene, Vik, ho sbagliato anche io con voi … - sussurrò sulla sua spalla, stringendola a sua volta.
A ciò, anche gli altri cedettero e raggiunsero le due, inglobandole in un abbraccio collettivo, tutti eccetto Barth, poiché non poteva muoversi dalla sua postazione, e Andrè.
Non appena Bianca notò le fontane che stavano scendendo dagli occhi di Barth mentre la guardava dal bancone, si alzò e lo raggiunse, in modo da poter abbracciare anche lui. Andò dietro il bancone e lo strinse, mentre lui le diede due o tre baci sulla fronte, solleticandola con i suoi baffi. – Perdonami, bambina.
- Non c’è nulla da perdonare, Barth – disse sorridendogli, per poi dirigersi verso l’ultima persona che pareva ancora fare fatica ad avvicinarsi a lei.
André teneva le braccia conserte e la osservava con uno sguardo indecifrabile. – Hai vissuto davvero delle esperienze tremende, Bianca, ed è stato crudele fartele rivivere in questo modo. Ma io ero riuscito a dimenticare Audrey, Daniel e i rifiuti umani che per anni hanno abusato di me trattandomi come un animale. Ero riuscito a superarlo prima che tu arrivassi.
 - Lo so. Non ho scuse. Se mi darai una seconda possibilità, prometto che la sfrutterò al meglio. Se ti deluderò ancora, avrai ogni diritto di perseguitarmi per l’intera permanenza in treno.
A ciò, il ragazzo si arrese e abbracciò la mezz’anima a sua volta.
Fu proprio in quel momento di felicità incontaminata che Bianca ripensò alle parole che aveva udito poco prima dal guardiano: “Devi imparare a dosare la tua curiosità quando ti trovi dinnanzi ad un codice che non riusciresti mai e poi mai a decifrare. Sbrigati ad andare da loro. Quando avrai finito, ci sarà qualcos’altro ad attendervi.”

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Capitolo 14
*** Deus ex machina ***


Deus ex machina
 

- Sai, non sono riuscita a vedere la tua storia, ma l’ho percepita. Ho sentito che c’è stato qualcosa, nascosto in profondità. C’è ancora. Anche se i tuoi ricordi mi sono celati, ho sentito un magone dilaniante alla bocca dello stomaco non appena li ho percepiti. Ho sentito tanto, tanto male – disse Bianca all’improvviso, rientrando nel vagone adibito alla musica.
- Ancora non vuoi arrenderti, mezz’anima – rispose Layt seduto dinnanzi al pianoforte.
- Credevo che non riuscissi a leggere niente in te perché, dopo duecento anni passati qui, avessi dimenticato i pochi anni che hai trascorso in vita. Invece non è quello … - continuò avvicinandosi.
- Quello che hai percepito potrebbe essere solo una mia illusione.
- No, non posso crederci – disse decisa, guardando i suoi occhi, sperando di riuscire a capire se stesse mentendo.
Ma quello sguardo flemmatico non lasciava trapelare nulla. Il ragazzo le accennò un sorriso provocatorio. – Non puoi esserne certa. Rassegnati, mezz’anima. Non puoi avere le risposte a tutto. Alcune persone non sono fatte per essere lette dentro. Alcune persone sono solo immagini.
- Non ci credo e non voglio crederci. Devi aver avuto un passato che ricordi, tutti lo abbiamo e io voglio …
- Tu cosa vuoi? – la interruppe alzandosi in piedi, sovrastandola e intimorendola. - Tu vuoi sapere tanto e vuoi conoscere tutto.
- Trascorriamo questi giorni, mesi e anni di morte nella tua realtà, forgiata a tua immagine e somiglianza. Tu pretendi di riuscire a nasconderti e di passare inosservato, ma questo posto sa di musica e sa di Alaska. È tuo, Layt, in tutto e per tutto. La sua complessità deriva da te e spinge ad avvicinarsi a te per sapere, per conoscere – si bloccò, sorpresa di aver osato tanto, rimanendo ferma sotto gli occhi del giovane guardiano, capaci di sviscerarla e impossibili da sostenere per più di un minuto.
Distolse lo sguardo, sentendosi improvvisamente troppo esposta e fragile, approfittandone per cambiare discorso. – Perché prima mi hai detto che ci avrebbe atteso qualcos’altro dopo la mia punizione per ciò che ho fatto?
Trascorsero altri minuti di silenzio prima che lui le rispondesse. – Molti anni fa, diverse anime del mio treno si sedevano davanti a questo pianoforte e suonavano per me tutte le melodie composte da me, le canzoni scritte di mia mano – disse sfiorando i tasti bianchi e neri.
- Dove sono ora? Sono rinate tutte quante?
- Sono svanite nel nulla. Morte per sempre – affermò con naturalezza Layt, riposando lo sguardo su Bianca, la quale impietrì.
- Tutte quante …? E quante erano?
- Non giungono molte anime nel mio treno dato che, come ben sai, è raro riuscire a sovvertire il destino che il Fato ha tessuto per noi. Ma, in duecento anni, ne sono giunte una quantità consistente. Più della metà di loro sono svanite nel nulla. Il numero preciso non è rilevante – affermò con la solita calma. – Sai, è davvero strano vedere una persona svanire nel nulla dinnanzi a te. All’inizio non te ne rendi subito conto poiché succede così velocemente, da non farti prendere coscienza di cosa sia appena accaduto. Vedi la sua immagine lì davanti a te, vivida e concreta, poi, un quarto di secondo dopo, non c’è più. Dell’immagine non è rimasta neanche l’ombra. Nessun passaggio intermedio, niente di niente. Solo il vuoto, proprio come i ricordi che se ne vanno. Non come quando rinascono, in cui le vedi dissolversi piano piano come un sogno.
Bianca inghiottì a vuoto. – Come hanno fatto a sparire nel nulla …? Hanno violato la loro pena …?
- Non è stata la loro pena a farli svanire nel vuoto, ma la mia.
- Che cosa intendi dire?
- Il Fato ha diviso i tipi di pene in due categorie: quelle che recano danno a se stessi, e quelle che recano danno agli altri. La mia appartiene alla seconda categoria. Ho violato la mia pena dinnanzi a loro e loro sono svaniti nel nulla in eterno. È successo tante di quelle volte all’inizio, quando non sapevo controllarmi, che non me le ricordo più.
- Perché mi stai dicendo questo? – chiese indietreggiando istintivamente.
- Perché a breve succederà qualcosa che merita una spiegazione. Almeno la tua insaziabile curiosità merita una spiegazione.
- Non la meritano anche gli altri?
Layt storse il naso. - All’inizio perdevo tempo nel fornirla. Ora, non vi faccio più caso.
- Layt, dimmi di cosa stai parlando.
- Poniti delle domande, mezz’anima, e datti da sola delle risposte. Sei troppo intelligente per non riuscire a farlo.
- Aspetta un momento … il Fato ti sta tenendo prigioniero qui come guardiano, ma perché lo sta facendo? Dunque, voi guardiani avete incontrato il Fato? Lo avete visto in faccia? Perché sembra una presenza così assente da quando sono approdata qui?
- Brava, sei sulla buona strada.
- Tu hai milioni di motivi per avercela con Lui per quello che ti ha fatto e che ti sta facendo … per questo mi hai raccontato di tutte le morti permanenti che hai provocato per sbaglio a causa della pena che Lui ha scelto per te. Lui non ti ha mai lasciato andare, ti vuole qui.
- Mi “vuole” qui?  - chiese Layt, ponendo l’accento su una parola che fece salire un tremendo moto di realizzazione a Bianca.
- Ti “voleva” qui …? Ora non può più volerlo? Tu lo hai … lo hai ucciso?
- Ci hai messo meno di quanto sperassi, mezz’anima - si congratulò applaudendo.
- Layt, tu hai ucciso il Fato? Lo hai fatto davvero?
- Non ero completamente solo in questo. Cento anni fa ho dato inizio ad una ribellione, convincendo gli altri guardiani a farne parte. Non credevo che delle semplici anime fossero capaci di uccidere il padrone di tutto. Non è stato facile, ma neanche così difficile: ho usato contro di Lui la stessa arma che mi aveva fornito di sua volontà. Gli altri guardiani mi hanno aiutato ad intrappolarlo, mi sono chiuso in una stanza con Lui e ho violato la mia pena. Più e più volte. Non riuscivo mai ad ucciderlo completamente, ma dopo aver insistito un bel po’, lo stesso potere della pena che Lui aveva scelto per me, l’ha annientato. Lo abbiamo sepolto in un luogo lontano da qui e a volte faccio visita alla sua tomba. Dopo avermi tenuto cento anni qui senza mai darmi la possibilità di rinascere, come un prigioniero, e caricandomi anche dell’enorme fardello di avermi scelto come guardiano dopo soli dieci anni di permanenza, quando già una tipologia di pena come la mia non faceva altro che macchiarmi e macchiarmi sempre più, ho preso la mia decisione e ho agito. Gli altri guardiani non avevano i miei stessi motivi, ma tutti quanti, alla fine, sono stati attratti dall’idea di decidere completamente da soli le regole del proprio treno, il proprio successore, le pene per le anime che approdavano nel loro treno, ma, soprattutto, i destini di ogni anima di cui desideravano tracciare la strada. Nessuno si tirerebbe mai indietro da un tale istinto di potenza. Nessuno riuscirebbe a resistervi. Neppure io. Sarei ipocrita se dicessi che ho fatto tutto per disperazione, per rabbia e per vendetta. Se fosse stato così, avrei deciso autonomamente di rinascere appena terminata la ribellione e ucciso il Fato. Invece sono rimasto altri cento anni qui, facendo il dio insieme agli altri guardiani, vestendo questo ruolo e questi panni ancora, ancorandomeli addosso come una seconda pelle. Ora non voglio più rinascere. La vita umana è così lontana da quello che sono, che quasi mi schifa. Perciò, se ti sei mai chiesta in vita tua, se fosse possibile per noi vivere senza il Fato, la risposta è sì: ci siamo riusciti noi semplici anime mortali da cento anni a questa parte, tessendo i vostri destini a nostro piacimento, decidendo le vostre pene e cosa farcene di voi, regnando sul mondo terreno e ultraterreno.
Dopo aver assimilato tutte quelle informazioni, Bianca non riuscì più a ragionare concretamente. Gli porse la prima domanda che le venne in mente. - Perché ti ha fatto questo? Lo hai mai saputo?
- Gli ho chiesto come mai mi volesse a tutti i costi trattenere qui, mentre provavo ad ucciderlo, soli in quella stanza. Mi rispose che lo avevo stregato, la mia anima lo aveva catturato fin da subito.
- E tu? Che cosa gli hai risposto?
- Che non amava me, ma i miei mostri. Stava confondendo le due cose.
- Perciò, quando mi hai portata nel treno dei suicidi, quello governato da Eleonore, lei …
- Non era traumatizzata dai ricordi della sua vita, ma si sentiva terribilmente in colpa per ciò che abbiamo fatto cento anni fa. Si sente in colpa da allora. Abbiamo dovuto fingere dinnanzi a te.
- Perché non confessate tutto alle anime del vostro treno fin da subito?
- Per cosa? Per avere seccature continue? Per sentirvi lamentarvi e uscire di senno? Per quale motivo dovremmo? – disse, continuando a non lasciar trasparire nulla.
- Quindi le pene degli altri …
- … le ho decise io, sì – continuò la frase lui.
- Hai deciso tutto tu, controlli tutto. Non solo scrivi i destini, ma anche quando far rinascere un’anima. Questo vuol dire che … - un altro lampo di timore invase il viso della ragazza. – Ciò che ci attendeva, il motivo per il quale mi stai dicendo questo … che cosa hai in mente? Hai già tessuto anche i nostri destini nella prossima vita??
- Sì.
- E hai stabilito anche quando rinasceremo??
- Anche, ma mi ci è voluto un po’ di più per quello, per un motivo che capirai a breve. Tu sei l’unica sulla quale non ho un tale potere dato che non sei ancora morta e, di conseguenza, non sei una passeggera effettiva del mio treno.
- Hai anche fatto dimenticare a Barth le sue ultime due vite … è tutta tua la colpa!
- Quando avrai finito di sbigottirti e di manifestare il tuo stupore, seguimi, mezz’anima. Il momento è giunto - le disse dirigendosi fuori dal vagone e prendendo a camminare.
 
Non appena giunsero nel vagone di Barth, Layt si fermò. – Tu va’ pure avanti, Bianca. Chiama gli altri e dì loro di venire qui: deve essere presente anche Barth – le disse, e lei, ancora sconvolta, obbedì, lasciando Barth confuso, mentre guardava il guardiano in cerca di spiegazioni.
Quando tutti gli interessati entrarono nel vagone di Barth, fu Vik la prima a prendere la parola. – Che sta succedendo? Layt, perché ci hai riuniti qui?
- Vik … - la richiamò Bianca. – Ragazzi, vi voglio bene - disse loro la ragazza, avendo un brutto presentimento a scavarle dentro.
- Bianca, perché dici questo? Che succede? – le chiese Osmond.
- Qualcuno vuole spiegarci qualcosa?
- Layt è il Fato, ragazzi. Ha ucciso il Fato e sta ricoprendo il suo ruolo da cento anni – sputò fuori Bianca, di colpo, lasciando tutti allibiti.
- No, non ci credo … non è possibile – sussurrò André, ma gli sguardi seri di Bianca e di Layt non lasciavano spazio a dubbi.
- Layt, che diavolo?! Parla sul serio?? – si scagliò contro di lui Vik, con il suo solito impeto. – Sono più di sessant’anni che sono qui e tu non ti sei mai degnato di dirmi niente? Dopo tutto quello che è successo …! – gli urlò addolorata, alzando d’istinto il braccio per colpirlo, ma venendo subito bloccata dal giovane, il quale le afferrò il polso stretto prima che lo colpisse.
- Per quale motivo avrei dovuto informarvi? Lo sapete ora. Basta e avanza per quello che ho in serbo per voi – le disse truce, per poi oltrepassarla e avvicinarsi anche agli altri. – Stavolta ho programmato tutto a regola d’arte, perciò non vedo l’ora di iniziare – disse con un sorriso che intimorì tutti.
- Iniziare cosa …? – chiese Jaya.
- Non sono sempre io a tessere il destino delle anime che voglio. Spesso mi diverto a fare un gioco che si rivela sublime tutte le volte – iniziò facendo apparire sulle mani di Bianca una cartella colma di fogli.
Vik si affacciò e sbiancò quando vi lesse stampato sopra un nome: “Aleksander Nyström”.
- Che accidenti significa?! – gridò andando completamente in escandescenza. – Perché c’è il nome di mio fratello scritto lì sopra?? Layt, rispondimi!!
Bianca aprì la cartella con le mani tremanti, e vi trovò dentro un blocco di fogli con dei campi compilati. Nel primo che comparve ai suoi occhi, lesse informazioni fisiche come altezza attuale, peso attuale, colore di occhi, di capelli, eccetera, mentre sul secondo che sfogliò, vi lesse informazioni comportamentali come inclinazioni caratteriali e molto altro. – Che significa …? – chiese Bianca guardando prima Layt, per poi osservare la sua amica in preda alla rabbia più cieca.
- È come una sorta di codice genetico di ogni anima. Ognuno di voi ne possiede uno. Quello appartiene all’anima di Aleksander, il fratello di Viktoriya. Sfoglia altre pagine fino a quando non ne troverai una bianca – le ordinò Layt. Bianca obbedì mentre Vik doveva essere tenuta calma da André, nel frattempo, troppo agitata e innervosita dalla situazione.
- Layt, se non mi dici ora che diavolo ci dovrebbe fare Bianca con tutte le informazioni che riguardano mio fratello, io ti giuro che …
- Ora scrivi il destino che avrà nella sua prossima vita – proseguì Layt, interrompendo Vik ed esortando Bianca.
- Che cosa …? Non starai dicendo sul serio … - sussurrò Bianca, con la penna nella mano tremante.
- Ognuno di voi sceglierà il destino che nella prossima vita avrà la persona più cara ad un altro di voi, divenendo ognuno il Fato dell’altro.
- Cosa c’è che ti diverte tanto in tutto questo, stronzo sadico? Siamo tutti amici, quindi è ovvio che ognuno di noi sceglierà il meglio per la persona cara dell’altro – gli disse André.
Layt gli sorrise. – L’ho fatto fare molte altre volte, ad altre anime prima di voi, e ti assicuro che, nonostante l’amicizia che vi lega, vi azzannerete comunque l’un l’altro facendo diventare questo vagone il palco di una tragedia greca.
- Tu sei pazzo … sei pazzo! – urlò Vik, la quale si lasciò cadere su una sedia del vagone cercando di calmare i tremori. – Bianca, attenta a quello che scriverai – disse in tono intimorente alla mezz’anima.
- Sarete divisi a coppie: Bianca scriverà il destino della persona più cara a Viktoriya e viceversa. Le altre coppie sono André/Jaya e Osmond/Bartholomew. I destini che scriverete saranno applicati alla prossima vita che le anime in questione vivranno, sia che attualmente siano vivi o nei treni. Come ben sapete, non potrete influire consapevolmente sul destino scelto per i vostri cari una volta in vita, dato che non ricorderete nulla del treno e di tutto ciò che vi è accaduto dentro – disse Layt facendo comparire le cartelle nelle mani di ognuno di loro.
Vik si ritrovò tra le mani la cartella con su scritto “Melanie Annjoy”; André quella che portava il nome di “Amelia Alieti”, nonché il nome originario di Chameli; Jaya quella con il nome “Daniel Durand”; Osmond possedeva la cartella denominata “Braeden Hussain” e Barth quella chiamata “Christien Visser”, ossia il vero nome di Crystal.
- Se ti stai chiedendo come mai io abbia scelto il tuo primo e unico amore, invece che Audrey, se guardi dentro di te, André, capirai il perché e comprenderai che occupa un posto più grande nel tuo cuore, persino di lei. Lo stesso è quello che dico a te, Osmond: comprenderai il motivo per il quale io abbia optato per Crystal, al posto di Raoul – disse Layt prima ad uno poi all’altro. - La scelta tra i B.E. sarebbe stata molto difficile, Barth, ma, quando sei stato qui l’ultima volta, ho scelto Ellis, perciò ora è il turno di Braeden - continuò voltandosi verso Barth.
- Mi hai già sottoposto a questo prima …?
- Sì, ovvio.
A ciò, condannati, tutti quanti cominciarono a scrivere, credendo di star scegliendo il meglio per il destino della persona cara del loro amico, in base anche alla storia che conoscevano della persona con la quale erano stati accoppiati.
Impiegarono più di un’ora a finire di scrivere tutti, ma quando avvenne, Layt parlò di nuovo. – Ora lasciate leggere a colui o colei con cui siete accoppiati, il destino che avete scritto per la sua persona cara.
Le anime obbedirono e, inizialmente, i loro sguardi furono sollevati. Poi, ad una seconda lettura, cominciando a ragionare, iniziarono a storcere il naso. - Germania? Rinascerà a Berlino?  È questo il destino che hai scelto per Aleks?? – chiese Vik a Bianca, già visibilmente alterata.
- È un paese pacifico, Vik. Non avrà mai più gli stessi problemi che ha avuto quando eravate in Russia. Avrà una vita splendida.
- A Berlino ha vissuto nostra madre, per un periodo della sua vita. Tu credi che sia così, ma non è affatto la città pacifica che ti figuri. Lo hai condannato di nuovo!  - disse Vik mettendosi le mani tra i capelli.
- Vik, io non … - cominciò Bianca, ma si bloccò, ripensando a ciò che aveva letto poco prima, scritto dalla russa sulla cartella di Melanie. – Aspetta un momento. Potevi farla rinascere negli Stati Uniti almeno … dove siamo cresciute, dato che non abbiamo vissuto una vita come la tua. Il luogo andava bene. Perché diavolo hai deciso di far rinascere mia sorella in Giappone??
- Che cosa significa “Avrà in giovinezza una vita movimentata, mentre in maturità troverà finalmente la sua pace”?  - chiese Jaya innervosita, ad Andrè.
- Mi stai rimproverando questo, quando tu hai scritto sulla cartella di Daniel che vivrà nell’ombra, nascondendo la sua omosessualità, per metà della sua vita??
- Braeden un leader politico?? Impazzirà! Il mio ragazzo sente il richiamo della guerra giusta, della ribellione alle convenzioni sociali! Lui combatte contro i leader politici!
- E tu?? Tu che cosa hai scritto di Crystal?? L’hai condannata a rimanere sola, senza una famiglia, solamente per una carriera come scalatrice professionista??
Si alzò il caos, le urla, gli insulti e le parole che mai avrebbero dovuto essere dette.
Layt li osservò azzannarsi, fin quando non ne ebbe abbastanza e ritirò tutte le cartelle con la forza del pensiero, facendo placare tutti e pronunciando le parole che avrebbero fatto da firma al contratto, suggellando il tutto:
- “I nomi originari delle persone delle quali è stato scelto il destino nella prossima vita dal momento della loro prossima rinascita, sono: Aleksander Nyström, Melanie Annjoy, Amelia Alieti, Daniel Durand, Braeden Hussain e Christien Visser. Mai niente e nessuno potrà cancellare il destino scelto dai Fati che io, guardiano di questo treno, ho incaricato. A meno che  … ” – si bloccò guardandoli e sorridendo loro prima di continuare la frase. – “… a meno che i soggetti in questione appena nominati, non siano in grado di sovvertire autonomamente il proprio destino, giungendo, di conseguenza, in questo treno, dopo la morte.” – concluse solennemente chiudendo le braccia e facendo svanire le cartelle dalla loro vista.
Dopo di che, si voltò verso Jaya. – Avevi ragione, Jaya. Hai svelato il segreto che il Fato, millenni fa, ha nascosto molto accuratamente, e che, nonostante la sua morte, vale ancora. Non potevo permetterti di continuare a custodirlo. Tuttavia, hai dimenticato un piccolo enigma da decifrare, ancor più celato delle informazioni principali di ogni anima.
La ragazza lo osservò con sguardo interrogativo.
- L’ultima informazione, quella che ti sei dimenticata di leggere, quella che non hai notato, è la firma. La firma della mano che ha scritto quei dati, quella che ha tessuto quel destino. Finché era il Fato a farlo, era un’informazione irrilevante, ma, dato che ora è morto, appariranno altre firme in quel codice. Insieme ai dati principali delle anime delle quali avete scritto il destino, compariranno le vostre firme – affermò guardando prima la ragazzina indiana, poi tutti gli altri. – Ora è il momento di andare – concluse.
- Cosa??
- Che vuoi dire?
Ma le cinque anime non fecero in tempo a chiedere spiegazioni, che, con un altro banale movimento del braccio, Layt li fece dissolvere lentamente dalla loro vista.
Bianca rimase a fissare gli spazi in cui prima si trovavano i suoi amici, per un tempo che sembrò infinito.
Ricordandosi le parole che poco prima aveva pronunciato Layt, tirò un sospiro di sollievo. – Le hai fatte rinascere, vero? Non le hai fatte sparire nel nulla.
- Noto che ricordi le mie descrizioni dei modi di dissolvenza diversi – le rispose lui dandole conferma.
- Sei stato comunque infimo e crudele.
- Non ricordo più un tempo in cui non lo sono stato.
- Perché io sono ancora qui?
- Te l’ho detto: non sei morta. Non posso farti rinascere. Hai ancora una possibilità di continuare a vivere, Bianca.
- Allora perché hai fatto tutto questo ora, per poi farli rinascere? Io non … - ma le parole della fanciulla le morirono in bocca non appena percepì le sue membra strane: era come se un formicolio fastidioso la stesse invadendo completamente e paralizzando.
A ciò, Layt sorrise. – Ho avuto un’altra mezz’anima nel mio treno in passato. Quando voi mezz’anime ritornate nel mondo dei vivi, vi “risvegliate” dal lungo sonno del coma, è diverso sia da quando un’anima morta rinasce, sia da quando svanisce nel nulla. Quando vi risvegliate, impiegate molto, molto più tempo prima di dissolvervi. Voi avete l’opportunità di salutare chi vi sta vicino, perché sapete ciò che vi sta accadendo, un’opportunità invidiata da chi rinasce o da chi svanisce.
- Sto … mi sto risvegliando dal coma …? – sussurrò Bianca deglutendo a vuoto, sentendo quella destabilizzante sensazione aumentare.  – Quindi a me hai concesso un saluto che a loro hai tolto. Altra crudeltà.
Layt accennò un altro sorriso.
- Dunque … - continuò la ragazza. - Avevi programmato tutto nei minimi dettagli, anche i tempi: avendo l’opportunità di visitare il mondo dei vivi come spettatore invisibile, sei andato nell’ospedale che mi tiene in cura, e hai visto che le mie condizioni stavano migliorando. Così, calcolando i tempi, hai deciso di fare questo gioco e di far rinascere loro subito dopo, in modo che non avessero il tempo di vedermi risvegliarmi e di soffrire. Nel vedermi andarmene. Hai davvero programmato tutto a regola d’arte – realizzò Bianca sorridendo malinconicamente.
- Ammetti che così è stato molto più cinematograficamente drammatico. Ho fatto un ottimo lavoro.
- Lo hai fatto solo per questo? Oppure di mezzo c’è anche una punta di compassione rimasta annidata in profondità dentro di te?
- A volte viene fuori, fastidioso, quel briciolo di compassione che non riconosco. Esce raramente e ogni volta che succede provo a scacciarlo, ma, poi prende il sopravvento e svanisce di nuovo.
- Non ti mancheranno nemmeno un po’ tutti loro? Hai vissuto con loro per anni.
Il ragazzo alzò un sopracciglio in risposta, divertito.
- Layt … - lo richiamò Bianca allarmata, come se il guardiano non fosse di fronte a lei.
- Sono qui.
- Layt, non sento più il mio corpo … mi sento male … - disse con la voce tremante.
A ciò, egli le porse le braccia. – Stringile. Aggrapparti a qualcosa ti aiuterà temporaneamente a non sentire che ti stai dissolvendo.
Lei obbedì e constatò che avesse ragione. Strinse le mani sui suoi polsi come se da ciò dipendesse la sua vita, dandosi un sostegno fermo per farle sentire di essere ancora lì nel treno, con lui. – Questa sensazione … è terribile.
- Lo so, è normale che tu ti senta così.
Vi fu una breve pausa, poi Layt riprese la parola. – Sai, mezz’anima, saresti stata la più adatta per venire scelta da me, per divenire il mio successore e portare il fardello e il potere provvidenziale che derivano dal ruolo di guardiano di questo treno; se solo io avessi voluto rinascere e non fossi oramai cristallizzato in questa esistenza che mi sono scelto.
Bianca sorrise a quelle parole, fin quando una fitta maggiore di insensibilità del proprio corpo la colpì, facendola aggrappare ancora più forte agli avambracci del ragazzo.
Strinse gli occhi, cercando di non pensarci. - Non voglio dimenticare, Layt. Non voglio dimenticare niente. Non voglio dimenticare te, non voglio dimenticare gli altri, non voglio dimenticare il treno. Non sono disposta a rinunciare a tutto questo.
- Dicono tutti così, mezz’anima. Ma vedrai che non te ne accorgerai neanche, non appena sarai sveglia. Sei pronta per risvegliarti?
- No - affermò netta, riaprendo gli occhi per guardarlo. - Non posso andarmene senza sapere cosa ti è successo. Voglio conoscere la tua storia, la tua vita prima del treno.
- Non c’era niente prima del treno.
- Dimmi solo una cosa della tua vita. Una sola e sarò pronta.
- Anche se te la dicessi, non la ricorderesti più tra pochi secondi.
- Non mi importa. La saprei ora, ed è questo l’importante.
Layt sorrise divertito, mentre Bianca aveva iniziato a non percepire più davvero nulla, come se la sua testa fosse sospesa nel vuoto e le sue dita che stringevano i polsi del ragazzo fino a sbiancarsi, fossero solamente un leggero solletico.
- Non lasciarmi - gli ordinò impaurita.
- Ti sto tenendo stretta.
- Se non vuoi raccontarmi niente, allora, almeno, lasciami un ricordo, qualcosa, qualsiasi cosa che appartenga al treno, a tutto ciò che ho vissuto, e che mi rimarrà quando sarò sveglia. In tal modo, anche se non lo ricorderò, lo saprò.
- Quando un’anima rinasce o, come nel tuo caso, si risveglia, e non ricorda più nulla del treno, solitamente rimane un rimasuglio ben nascosto nell’inconscio. Nessuno lo vede, nessuno lo sente o lo percepisce, ma lui è fermo lì e continua ad esistere. Quando sono io a scegliere il destino delle anime, mi piace giocare con quel rimasuglio, sfruttarlo: ti ho lasciato già qualcosa quando ti risveglierai: il tuo istinto lo saprà non appena lo vedrai, ma la tua razionalità no – la rassicurò. – Ora sei pronta?
- No. Non voglio lasciarti solo qui dentro.
- Non sono solo.
- Non mi sento più. Non ti sento più, Layt …
- Non preoccuparti, va tutto bene.
Bianca sorrise nervosamente stringendolo ancora. – Sai, se fossi morta e rimasta qui, ti avrei convinto a fare di me il tuo successore. Non mi sarebbe importato di dover portare un tale fardello perché … perché avrei avuto la consapevolezza di averlo tolto a te. Me ne sarei fatta carico con piacere, sapendo di averlo rimosso dalle spalle di un’anima che merita di non averlo e di essere libera da tutto quanto.
Per la prima volta, Bianca notò gli occhi chiari e freddi del giovane guardiano aprirsi di più in segno di sorpresa, la sua espressione farsi positivamente perplessa. Dopo di che, Layt sorrise. – Ora è giunto il momento che tu torni a vivere da dove la tua vita si è interrotta.
Bianca si sentì invadere dal nulla totale, come se stesse divenendo nebbia trasportata dal vento, incapace di percepire qualsiasi cosa. Spaventata ai limiti dell’umano, si sporse ad abbracciarlo stritolandolo per sentirsi ancorata alla realtà, a lui.
- Sei pronta?
- No.
- Perché no?
- Perché non ti sento più.
Improvvisamente, la stessa luce bianchissima che l’aveva invasa appena arrivata in treno, tornò ad accecarla.
- Come ti senti, Bianca?
- Leggera.
- Bene. Ora apri gli occhi.
Aprì gli occhi e si ritrovò in un letto d’ospedale, con un’infinità di tubi attaccati addosso. Voltò lievemente la testa sentendola vuota ed estremamente dolorante, così come tutto il corpo. L’ultima immagine che compariva nei suoi ricordi era quella della sua migliore amica che le urlava di tenersi stretta, poco prima che l’auto si capovolgesse.
Quando riuscì a ruotare la testa di qualche grado in più, notò Melanie addormentata sulla sedia accanto al letto. Sorrise nel guardare la bava che scendeva dallo splendido volto di sua sorella, la sua roccia. - Mel … - sussurrò con la voce gracchiante. - Mel … - riprovò, cercando di alzare la mano per accarezzarle la testa appoggiata al bordo del letto.
Quando Mel aprì gli occhi, giurò di non aver mai visto niente di più luminoso in vita sua. Le luci dei palchi che aveva solcato non erano paragonabili a quello sguardo. – Oh mio dio!! Oh mio dio!! – esclamò sua sorella cominciando a piangere accorata e buttandosi addosso a lei. Udendo quei pianti, entrarono nella stanza anche sua madre, la sua migliore amica con delle lievi e nuove cicatrici in faccia, e altri conoscenti che le erano stati accanto durante tutti i mesi di coma, quando la speranza, stava via via quasi scemando. Invece eccola lì, viva, vegeta e più forte di prima. Un corpicino così piccolo e all’apparenza esile per quanto delicato, in realtà fatto di alluminio. Dopo diverse ore in cui aveva fatto in tempo a riabbracciare tutti i suoi cari, a fare tutti i controlli necessari e a venire a conoscenza del fatto che i suoi amici presenti in auto al momento dell’incidente avessero riportato delle ferite guaribili (eccetto il guidatore, un ragazzo che conosceva poco e che aveva perso la vita sul colpo), andò a prendere qualcosa da bere al distributore dell’ospedale in compagnia di Melanie e di sua madre.
Passando per i reparti, Bianca si fermò davanti ad una vetrata, dalla quale si intravedevano decine di piccole culle piene di neonati. Una stretta allo stomaco colpì sua madre, la quale fu subito individuata dalla ragazza. - Mamma, va tutto bene - la tranquillizzò. - Non ci penso più ormai - la rassicurò, conoscendo già i sensi di colpa della donna nel ricordare ciò che lei si era fatta quasi tre anni prima.
La vista di quei neonati che sarebbero potuti essere suoi nipoti, le aveva risvegliato quella sensazione che la attanagliava riguardo tutti gli errori compiuti con sua figlia.
- Carini, eh? Questo ospedale è anche un ospedale di rinascita, sai? – le disse Melanie, mentre la guardava osservare i neonati con uno sguardo bizzarro.
- Ah, quindi non sono quelli del reparto gravidanze?
- No, quelli del reparto gravidanze sono al piano di sotto, baby B. Questi sono solo quelli rinati qui da poco e non ancora adottati.
Nel far vagare lo sguardo tra tutti quei bambini rinati e che si erano appena affacciati alla loro seconda, terza, oppure alla decima o alla undicesima vita, per quanto ne sapeva lei, i suoi occhi si posarono su una neonata dai capelli color platino, che spiccava su tutti, sia per il pianto più violento, che per l’argentata capigliatura. – Quella bambina … - sussurrò come se la conoscesse e non ne comprendesse il motivo.
- La piccola belva con i capelli biondissimi? Come sai che è una femmina? – le chiese Melanie.
- Non lo so, in realtà. Ma sento che è una femmina … non so come - sussurrò ancora, guardandola, poco prima che persino un nome comparisse da qualche parte nella sua memoria: “Viktoriya”. - La voglio adottare - affermò all’improvviso, lasciando sua madre e sua sorella allibite. - Voglio adottare quella bambina.
Ti ho lasciato già qualcosa quando ti risveglierai: il tuo istinto lo saprà non appena lo vedrai, ma la tua razionalità no.
 
 

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