Il mondo segreto di Cathy Holland (/viewuser.php?uid=1269134)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** PARTE PRIMA. Capitolo 1. Il mondo segreto ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. Il premio ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3. La spina ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4. Quello che non è tuo ***
Capitolo 6: *** PARTE SECONDA. Capitolo 5. Una pessima idea ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6. Il giocatore ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7. Fantasmi ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8. Il filo spezzato ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9. Un'anima in due corpi ***
Capitolo 11: *** PARTE TERZA. Capitolo 10. Lo specchio ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11. Sete ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12. Quannu la vita mia finisci e mori ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13. Il richiamo ***
Capitolo 15: *** PARTE QUARTA. Capitolo 14. Nato con loro ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15. Un affare complicato ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
PROLOGO
Milano
Maggio 2015
Stefano
mandò giù un
sorso di caffè dal bicchierino di plastica monouso, mentre
seguiva con lo
sguardo i numeri luminosi che indicavano il piano, sul display nella
parete, a
mano a mano che l’ascensore saliva. A destra e a sinistra le
pareti erano di un
vetro immacolato, tanto che avrebbe potuto usarle come uno specchio e
darsi una
controllata, se non fosse già stato certo di non averne
bisogno. Alle sue
spalle, una terza parete trasparente mostrava il parcheggio alberato ai
piedi
dell’edificio, in basso, gli altri due grattacieli che lo
affiancavano e sullo
sfondo Milano, avvolta in una lieve, morbida foschia.
A Stefano, però, il
panorama interessava poco, innanzitutto perché lavorava in
quel grattacielo da due
anni e ormai la vista aveva smesso di stupirlo, ma anche
perché tendeva a
evitare le distrazioni. La sua mente girava in continuazione, simile a
una di
quelle ruote per i porcellini d’India, come diceva a volte
sua moglie per
prenderlo in giro. Aveva delineato una scaletta precisa della giornata
già
quella mattina presto, durante il footing
al parco, come ogni giorno alle sei. In verità, nel suo
lavoro non sempre
scorreva tutto liscio e regolare. Anzi, quasi mai. Gli imprevisti si
verificavano praticamente ogni giorno e fare programmi era molto
difficile, ma
Stefano calcolava anche quelli e raramente lo coglievano di sorpresa.
Se non ne
fosse stato capace, dopotutto, non avrebbe mai lavorato in quel
grattacielo.
L’ascensore iniziò a
rallentare piano e si fermò con un morbido strattone.
Stefano si sistemò meglio
sulla spalla lo zainetto nero di Armani e abbassò per un
attimo lo sguardo sui
gemelli d’argento smaltati d’azzurro. Erano
abbinati alla camicia azzurro
chiaro e davano un tocco di luce al completo blu scuro che indossava.
Si udì un
suono lieve, poi una fredda
voce femminile annunciò: «Settantacinquesimo
piano». La porta automatica
dell’ascensore si aprì, scivolando dolcemente e
silenziosamente, su uno spazio
già occupato da diverse persone in attesa. Sebbene fossero
appena le otto del
mattino, lì dentro erano già tutti in piena
attività. Sulla destra c’era un
altro ascensore.
La maggior parte degli
uomini e delle donne, tutti in completo elegante, salutò
Stefano con
cordialità, qualcuno con un semplice «Ciao,
Stefano», altri con un più formale
«Buongiorno, dottor Ruggero» o un cenno del capo.
Lui rispose a tutti con un
sorriso e batté con la mano sulla spalla di un collega
mentre fendeva la
piccola folla con passo sicuro e rapido. Passò accanto a una
signora sulla
quarantina in tailleur pantalone verde scuro che
nel vederselo davanti
spalancò gli occhi, poi sollevò una mano per
sistemarsi una ciocca di capelli
dietro l’orecchio e si girò un po’,
cercando di seguirlo con lo sguardo senza
attirare l’attenzione. Stefano se ne accorse a malapena.
Attraversò il
pianerottolo, dalle pareti trasparenti come quelle
dell’ascensore e il
pavimento di marmo candido, e imboccò il corridoio di fronte
a sé. Sbucò in un
vasto open space affollato di
persone
che parlavano e camminavano rapidamente, invaso da un chiacchiericcio
simile a
un rombo costante, dal suono di telefoni che squillavano e dal ronzio
di
stampanti in funzione. Lo spazio era suddiviso in cubicoli dalle pareti
di
plexiglass, ciascuno dotato di una scrivania e di un computer, che a
Stefano
facevano sempre venire in mente le cellette di un alveare fremente di
attività.
In un angolo due donne e un uomo discutevano con voce sommessa,
passandosi una
cartellina con dei documenti pieni di numeri. Poco più
avanti un uomo sbraitava
contro qualcuno nelle cuffie wireless
e senza interrompere la tirata fece un gesto di saluto verso Stefano
che gli passava
accanto.
Al di là dell’open space,
un enorme tavolo ovale
accoglieva venti postazioni computer, ciascuna occupata da un impiegato
con
grosse cuffie sulla testa e un’espressione assorta e
concentrata. Televisori
ultrapiatti fissati alle pareti trasmettevano senza interruzione
notiziari
economici o mostravano l’andamento delle Borse e ogni tanto,
in mezzo ai
telefoni che squillavano e ai discorsi che si intrecciavano,
un’esclamazione si
levava più netta al di sopra del brusio, quasi subito
coperta da un’altra.
«Vendiamo subito!»
«Le azioni stanno
salendo!»
«Siamo a – 0,2!»
La sala dava su
corridoi e uffici, scanditi dalle solite pareti trasparenti al di
là delle
quali si scorgevano stanze arredate in modo elegante ed essenziale e
altre
persone indaffarate e ben vestite. La quarta parete, a sinistra, era
interamente di vetro e affacciava sull’esterno, offrendo una
vista magnifica
della città e del cielo azzurro. Stefano avanzava con passo
spedito,
distribuendo cenni di saluto e sorrisi e ringraziando mentalmente
l’aria
condizionata. Per essere maggio faceva un caldo infernale e lui non lo
sopportava.
«Dottor Ruggero, le
azioni della Power Corporation stanno salendo!»
esclamò un ragazzo biondo in
giacca e cravatta di non più di 25 o 26 anni, in stato di
visibile agitazione,
appena lo vide avvicinarsi. Era seduto a una delle postazioni al centro
del
lungo tavolo e quando Stefano gli passò accanto si
sollevò a metà, fin quasi ad
alzarsi, come se avesse voluto afferrarlo e trattenerlo. Poi le cuffie
che
indossava, attaccate al computer, lo strattonarono di nuovo
giù e lui ricadde
sulla sedia.
«Carlo, ti ho scritto
un’ e-mail… tre minuti fa, mentre salivo dal
parcheggio» rispose Stefano, dopo
aver lanciato una breve occhiata allo smartwatch che aveva al polso.
«Non hai
ancora controllato?»
Il ragazzo lo guardò a
bocca aperta per un attimo. Era un neoassunto ed era stato appena colto
in
fallo e Stefano sapeva bene quanto lui cosa poteva significare in un
posto come
la sede italiana della Prescott Investment Bank, uno degli istituti
bancari
anglo-americani più importanti del mondo. Bevve
l’ultimo sorso di caffè rimasto
nel monouso, studiando il ragazzo con una leggera curiosità
e un mezzo sorriso
a stento trattenuto.
«S-sì, dotto Ruggero…
Certo… Controllo subito… Mi scusi,
dottore» balbettò Carlo subito prima di
gettarsi sulla tastiera del computer e digitare furiosamente qualcosa.
Stefano gli diede una
pacca sulla spalla. «Non preoccuparti.»
Mentre si allontanava colse
una parolaccia a mezza voce dalla postazione di Carlo e il suo sorriso
si
allargò. Superò il tavolo ovale e
svoltò a destra. Entrò in un ambiente
decisamente più tranquillo, una stanza circolare occupata da
una grande
scrivania di vetro e acciaio sulla sinistra, un divanetto di pelle nera
a due
posti sulla destra e una pianta dall’aspetto ben curato in un
angolo. Il
plexiglass, però, era ovunque e gli dava una visuale
perfetta dell’agitazione
frenetica che regnava dall’altra parte.
“L’acquario”. Così una volta
aveva
sentito definire quel posto da una stagista burlona e non aveva potuto
fare a
meno di convenire con lei.
Una giovane donna mora
era seduta dietro la scrivania, ma all’arrivo di Stefano si
alzò. Sulla giacca
del completo beige che indossava una targhetta recitava “Sara
Landi, Back
Office”.
«Buongiorno, dottore»
esclamò con un tono squillante e un gran sorriso.
Stefano le rivolse un
cenno con la testa. «Buongiorno, Sara. Tutto bene il
week-end?»
«Bene, dottore, spero
anche il suo. Com’era Il lago dei cigni?»
Stefano fece un mezzo
sorriso mentre tirava fuori il tablet dalla tasca e gettava uno sguardo
al
display. Non era sorpreso che la segretaria se ne ricordasse: era stata
lei a
prenotare per suo conto tre biglietti alla Scala, in platea, mesi
prima.
«Troppo lungo, ma era
uno dei regali di compleanno per mia figlia. Ci teneva molto»
disse
semplicemente, come se questo sistemasse la questione. «E poi
le fa bene
distrarsi in questo periodo, è già in ansia per
il saggio di fine anno.»
«Ma mancano ancora un
paio di settimane, se ricordo bene.»
«Sì, ma sai com’è
fatta. Quei dati che ti avevo chiesto sono già pronti? Devo
capire cosa sta
succedendo alla Power Corporation e cosa ci conviene fare»
continuò, senza
smettere di guardare il tablet. Si sentiva addosso lo sguardo fisso di
Sara e
sapeva che stava facendo un sorriso che lui conosceva bene, quasi un
invito
muto e al tempo stesso una vaga presa in giro, perché lui
non lo coglieva mai,
quell’invito. Era stato così fin dal primo giorno
di lavoro di Sara e fin dal
primo giorno Stefano le aveva fatto capire, senza parole, di non essere
interessato. E quando lei iniziava a guardarlo in quel modo trovava
più
semplice ignorarla. Nulla avrebbe mai interferito con il suo lavoro o
il suo
matrimonio.
La ragazza gli passò
una cartellina. «Ho stampato tutto, così
può prendere appunti velocemente, se
vuole» rispose in tono compunto. «Sono arrivate due
telefonate stamattina, una
da Parigi e una da Bruxelles. Le ricordo anche che alle 9.15 ha un
appuntamento
telefonico con il CEO della casa madre di Londra per aggiornarlo sulla
riunione
di venerdì.»
«Richiama Bruxelles,
per favore, e passamela tra cinque minuti. Parigi ce la sbrighiamo dopo
la
Power Corporation.»
«Va bene, dottore.»
Sara tornò alla
scrivania. La sua voce era scivolata verso una leggera afflizione e
mentre
Stefano raggiungeva la porta bianca del suo ufficio, su cui campeggiava
la
targhetta “Dott. Stefano Ruggero, Trading manager”,
gli parve di sentire un sospiro.
Si richiuse la porta
alle spalle e sbuffò. L’ufficio era deliziosamente
fresco, grazie al cielo.
L’aria condizionata veniva accesa prima che arrivasse, anche
se l’impianto di
ultima generazione era silenzioso e non si percepiva neppure il
più lieve ronzio.
Gettò lo zainetto monospalla sul divano di pelle a destra e
attraversò la
stanza, percorrendo il pavimento di un bianco abbagliante. Sedette alla
scrivania di vetro e acciaio, poggiò il monouso del
caffè sul ripiano
immacolato e controllò lo smartphone. Rispose in fretta al
messaggio di un
collega che gli chiedeva di vedersi a pranzo, mentre ascoltava
distrattamente
il telefono suonare nella stanza accanto e poi la voce cortese e
distaccata di
Sara che rispondeva. Lasciò lo smartphone, aprì
la cartellina che gli aveva
consegnato la segretaria e aveva letto solo le prime colonne di una
tabella
piena di cifre quando il cordless alla sua sinistra iniziò a
squillare.
«Bruxelles» bofonchiò,
allungando la mano per afferrarlo. A volte aveva qualche dubbio sulla
professionalità di Sara, ma non poteva negare che nel suo
lavoro fosse precisa
ed efficiente come pochi altri. «Ci sono» disse,
subito dopo aver portato il
cordless all’orecchio.
«Mi scusi, dottore, ma
non ho ancora richiamato Bruxelles. È appena arrivata
un’altra telefonata.»
«Non sarà ancora
Massimo? Mi ha passato materiale vecchio sugli olandesi e si aspetta
che tessa
le sue lodi con il CEO per questo.»
«No, è un certo dottor
Enrico Falconeri. Dice che lei sa chi è e che sicuramente
avrebbe voluto essere
informato subito della telefonata. Cosa faccio, gliela passo?»
Stefano si era
immobilizzato. Aveva la sensazione che il suo cervello, che di solito
andava
sempre a mille, si fosse svuotato all’improvviso, come un
palloncino
schiacciato di botto tra due mani. Lo sguardo gli cadde su due
fotografie in
cornici d’argento di fronte a lui, sulla scrivania. La prima
era in bianco e
nero: Stefano indossava un completo elegante e abbracciava una giovane
donna
con un lungo abito e un bouquet di fiori tra le mani. Nella foto il
vestito di
lei poteva sembrare bianco, ma Stefano sapeva che era di un delicato
color
champagne. Nell’altra, a colori, una ragazzina era seduta sul
parapetto di un
canale, a Venezia: aveva i capelli scuri scarmigliati dal vento, gli
occhi
azzurri e un sorriso allegro, più simile
all’inizio di una risata. Era
l’autunno precedente. Stefano aveva fatto una battuta subito
prima di scattare
la foto e lei era stata colta nel momento in cui stava per scoppiare a
ridere.
Era la foto che lui amava più di qualsiasi altra.
L’espressione felice sul viso
minuto della ragazza lo faceva sentire bene, sicuro, forte, tutte le
volte che
la guardava.
«Dottor Ruggero? Le
passo la telefonata?»
La voce perplessa della
segretaria lo richiamò alla realtà. Si rese conto
che stava trattenendo il
fiato e che stringeva il cordless nella mano con tanta forza da sentire
dolore
alle dita. Gli girava la testa. Inspirò bruscamente e
allentò la presa sul telefono.
Mentre l’aria gli riempiva i polmoni, si sentì
meglio. Ce la poteva fare.
Lanciò un’occhiata verso la scrivania di Sara, al
di là della parete
trasparente dello studio: sedeva con le gambe accavallate e lo
osservava con le
sopracciglia folte incarcate.
«Sì. Va bene, passamela.»
Stefano si raddrizzò sulla poltrona girevole di morbida
pelle nera e si passò
la mano libera sulla cravatta, come per sistemarla, anche se era
perfettamente
a posto. «Bruxelles slitta tra dieci minuti. Non credo che
sarà necessario più
tempo.»
«Ok. È sulla uno»
rispose semplicemente Sara. Aveva ancora un tono curioso, ma non fece
domande.
«Grazie.»
Stefano abbassò il
cordless ed esitò, il dito sospeso sul numero 1 della
tastiera. Quell’istante
si dilatò all’infinito, come un elastico, mentre
il martellare del suo cuore
gli rimbombava cupo nelle orecchie. I secondi scivolavano via in fretta
uno
dopo l’altro, come i granelli di sabbia in una clessidra.
Smettila, si disse con
rabbia. Non essere
codardo. Non sei più un ragazzino. Affrontalo.
Premette il tasto di
colpo e riportò il telefono all’orecchio.
«Sì?» La sua voce suonò
fredda e distaccata. Ne fu sollevato.
Dall’altra parte ci fu
un silenzio lunghissimo o almeno così gli parve, al punto
che Stefano pensò –
sperò, forse – che nessuno avrebbe risposto.
«Stefano. Quanto tempo.»
La voce di Enrico lo raggiunse all’improvviso, come lo
schiocco di una frusta.
Stefano fece un sorriso
amaro, avvertendo una punta di familiare tristezza. Si
appoggiò all’indietro
contro lo schienale della poltrona e afferrò una penna
stilografica blu con la
mano sinistra. Aveva bisogno di stringere qualcosa, in quel momento.
«Sei
proprio tu. Credevo fosse uno scherzo o qualcosa del genere.»
«Spiacente di deluderti.»
«Dovremmo esserci
abituati, io e te, a deluderci a vicenda.»
Enrico rimase zitto per
alcuni secondi. «Hai ancora un pessimo senso
dell’umorismo» disse, con voca
calma, ma tagliente.
Stefano alzò le spalle.
«Che vuoi farci? Gli anni passano, i difetti
restano… Io sono un caso
disperato. Spero che a te vada meglio» rispose, ironico.
«Veniamo al punto,
Stefano. Ti ho chiamato per un motivo preciso: Edoardo sta male.
Già da qualche
anno il suo problema al cuore si è aggravato di nuovo e ha
fatto un altro
intervento. Due mesi fa gli hanno diagnosticato un cancro al polmone.
Ha già
metastasi allo stomaco e all’intestino. Il professore che lo
segue a Palermo
sconsiglia un’operazione. E dice che anche la chemio sarebbe
una sofferenza
inutile. Abbiamo ascoltato vari specialisti, ma sono tutti
più o meno
d’accordo. Pare che non ci sia più niente da
fare.»
Stefano rimase in
silenzio. Si concentrò sull’acquario che occupava
quasi tutta la parete
sinistra dell’ufficio: piccoli pesci dai colori vivaci
nuotavano pigri
nell’acqua cristallina che Sara si preoccupava di far pulire
scrupolosamente
tutte le settimane da un addetto, tra rocce, stelle marine ed alghe
fluttuanti.
Non sentiva nulla. Provò a scavare a fondo dentro di
sé, a scendere più che
poteva, in cerca di qualcosa che aveva sepolto tanto tempo prima. Nulla.
«Stefano? Ci sei
ancora?»
«Perché me lo stai
dicendo?» chiese Stefano per tutta risposta.
«È lui che ti ha chiesto di
chiamare, vero? Cosa si aspetta da me stavolta?» Non
riuscì a trattenere una
smorfia simile a un sorriso carico di amarezza. «Anche questo
non è cambiato.»
Dall’altra parte arrivò
un’ondata di gelo. «Sei il solito stronzo. Non ci
parliamo da quindici anni, ti
chiamo per dirti che Edoardo sta morendo e tu mi rispondi con queste
minchiate.»
«Cosa vuoi che ti dica?
Non è davvero mio padre, non lo è mai stato e tu
lo sai. Mi dispiace, ma… cosa
ti aspetti… Cosa…» Stefano si
interruppe. Non riusciva a parlare. Una rabbia
sorda gli riempiva lo stomaco, un fiotto caldo e bruciante e saliva a
bloccare
la gola, ma non era con Enrico che ce l’aveva. Era furioso
con se stesso, perché
dopo così tanto tempo, dopo tutto quello che era successo,
Enrico ed Edoardo
riuscivano ancora a fargli questo. A strizzargli il
cuore in una morsa
di rabbia, amarezza e rimpianto. Non se ne sarebbe mai liberato?
Respirò
profondamente e si prese qualche secondo per recuperare il controllo.
«Non
posso fare niente per lui. Mi dispiace, davvero, ma non so cosa dirti.
Volevi che
lo sapessi? Ok, adesso lo so: Edoardo sta per morire. Informazione
ricevuta.
Grazie di avermi avvisato.» Aggiunse, non senza lasciar
trapelare una leggera
ironia. Un’altra breve pausa, un altro respiro profondo.
«Se è tutto, ho una
telefonata importante che mi aspetta.»
«Vuole vederla»
aggiunse Enrico, quasi prima che Stefano terminasse di parlare.
«Vuole vedere
Vittoria.»
Fu un pugno allo
stomaco, forte e micidiale. La rabbia bollente che gli si contorceva
nello
stomaco si raffreddò di colpo, trasformandosi in ghiaccio
paralizzante.
Un’ondata di gelida angoscia gli serrò la gola e
la mano che rigirava la penna
tra le dita si bloccò. Questo cambiava tutto.
«Che cazzo c’entra
Vittoria?»
«Vuole conoscerla. È un
suo diritto, in fondo» rispose l’altro lentamente,
quasi seccato per essere
costretto a spiegare qualcosa di ovvio.
«Lei non ha niente a
che fare né con lui né con te» risposte
Stefano a denti stretti. Quella
sensazione di freddo panico era sempre più intensa, gli
chiudeva la gola, lo
soffocava.
«Ne sei sicuro?» chiese
Enrico a bassa voce. Stefano ebbe l’impressione di sentirlo
sorridere. «Vittoria
è una Falconeri. Puoi anche far finta che non sia
così, se lo preferisci, ma il
sangue non si cambia.»
«Sei l’ultima persona
al mondo che può darmi lezioni su questo.»
«Lo so» rispose Enrico,
con un tono basso e carico di tristezza che per un istante strinse
dolorosamente il petto di Stefano. I sentimenti di Enrico gli
risuonavano
dentro, come se fossero i suoi. Come se fossero ancora una cosa sola.
«Ma
Edoardo sta morendo. Gli avrei detto di no, se avessi potuto, non ti
avrei mai
chiamato. Non ho dimenticato il nostro accordo, ma sta morendo».
«Ti rendi conto che
parli della persona che ha rovinato la tua vita, vero?»
Ci fu una pausa. Poi
Enrico riprese a parlare con estrema calma, scandendo lentamente le
parole.
«Non si tratta di lui, di me… o di te. Anche
Vittoria ha il diritto di
conoscerlo. Non puoi negarglielo, Stefano, non puoi. Proprio tu, che
sai cosa
significa essere senza radici.»
Era un colpo basso,
accuratamente studiato per ferire, e se Stefano fosse stato
più giovane o meno
forte o se avesse avuto una vita diversa, se non fosse stato seduto nel
suo
ufficio elegante in quel momento, ai posti di comando, se non avesse
avuto quelle
fotografie davanti a sé, forse lo avrebbe spezzato. Invece
sentì soltanto un
dolore sordo, come una vecchia ferita mal rimarginata che urta contro
uno
spigolo, ma quasi non se ne accorse. Era completamente preso dal
pensiero di
cosa fare per impedire che accadesse quello che voleva Edoardo.
«Anche tu sei sempre il
solito stronzo» disse alla fine, gelido. Si mosse sulla sedia
e fece una pausa,
cercando di prendere tempo, di riflettere. «Claudia non
dirà mai di sì. È
inutile.»
«Claudia» mormorò
Enrico, pensieroso. Sospirò. «Non mi hai detto
niente di lei. Come sta?»
Stefano strinse
convulsamente la stilografica tra le dita. «Nemmeno Claudia
ti riguarda. Non
più.»
Si aspettava un insulto
e invece dall’altra parte ci fu un silenzio così
lungo da fargli credere che
Enrico avesse riagganciato. Poi sentì un respiro pesante.
«Quanta ostilità,
Stefano. Non è stato sempre così. Te lo
ricordi?»
La sua voce non era più
dura, tagliente, provocatoria, suonava solo profondamente triste.
Stefano gettò
la penna sulla scrivania si passò la mano sul viso chiudendo
le palpebre. Di
colpo avvertiva un’enorme stanchezza, come se avesse
sostenuto una lotta corpo
a corpo. E si sentiva uno stupido. Dopotutto, aveva sempre saputo,
dentro di
sé, che il passato sarebbe tornato, che si era solo illuso
di essersene
liberato per sempre, che avrebbe dovuto farci i conti. Tutto
ciò che sperava
era che toccasse soltanto a lui, che nessun altro ne fosse sfiorato.
Quella era
l’unica cosa che avesse il potere di spezzarlo davvero. Non
poteva permettere
che accadesse, non doveva accadere. Non per se stesso, ma per lei.
Lasciò
ricadere la mano e aprì gli occhi. La prima cosa che vide fu
la foto della
ragazza bruna, sorridente e felice, ma questa volta, a differenza di
tutte le
altre, guardarla non lo fece sentire affatto meglio.
Un’ondata di angoscia gli
avvolse il cuore.
«Sì» mormorò.
«Sì, me
lo ricordo.»
SPAZIO
AUTRICE
Ciao a tutte e tutti, grazie di essere arrivati fino a qui!
Il mondo segreto
è la prima storia originale che ho scritto. Prima mi ero
cimentata solo con qualche fanfiction. Ho sempre amato scrivere, per me
è praticamente un bisogno fisiologico, e ho iniziato a
buttare giù questa storia molti anni fa. Poi l'ho lasciata
per un po' di tempo, l'ho ripresa e riscritta quasi da capo. Quando ho
pubblicato il prologo ero emozionatissima.
Il mondo segreto
si svolge in più luoghi e su piani temporali diversi. Si
compone di sei parti, più un prologo e un epilogo, e
all'inizio di ogni parte e di ogni capitolo inserirò sempre
i luoghi e l'arco temporale in cui si svolgono gli eventi, per maggiore
chiarezza.
Non è certo una storia perfetta, anzi, ma ci ho messo tutta
me stessa. Sarei molto felice se oltre a leggerla e (spero) ad
apprezzarla vorreste lasciarmi un commento, anche breve, per farmi
sapere cosa ne pensate. Accetto con piacere anche le critiche e i
suggerimenti, perché ho una gran voglia di migliorare e solo
il vostro feedback può darmi una mano.
Grazie e buona lettura!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** PARTE PRIMA. Capitolo 1. Il mondo segreto ***
PARTE PRIMA
SICILIA,
ISOLA DI SANTO STEFANO
AGOSTO 1988
CAPITOLO 1
IL MONDO
SEGRETO
Stefano
spalancò le
braccia e si lasciò cadere all’indietro senza
esitazione, piombando di schiena
tra gli alti steli di grano pronto per essere raccolto.
«Mi annoio» annunciò.
«Andiamo a fare il
bagno» propose Claudia, alla sua sinistra. Era molto vicina a
lui e il bambino
riusciva a vederla anche se era immerso nel grano. Seduta con le
ginocchia
piegate davanti a sé, giocava a intrecciare steli di grano,
fiorellini di campo
e fili d’erba secchi e gialli che aveva raccolto quella
mattina, mentre
bighellonavano nei campi senza meta. Si gettò oltre le
spalle una delle due
treccine castano dorato che le era scivolata davanti e la infastidiva.
Stefano emise un verso
di disappunto. «Lo abbiamo fatto ieri»
mugugnò.
«A me piace. Facciamone
un altro» ribatté la bambina, ostinata. La sua
voce, però, era dolce come il
miele spalmato sul pane, la mattina a colazione, e Stefano, nel suo
nascondiglio in mezzo al grano, sentì le sue labbra
incurvarsi in un piccolo
sorriso.
«Anch’io voglio fare un
altro bagno. Fa caldo» intervenne pigramente Enrico. Sedeva
un po’ in disparte
con le braccia tese all’indietro, a metà strada
tra gli altri due bambini e le
biciclette che avevano gettato nel campo dopo aver pedalato per
un’ora sotto il
sole cocente, esausti e accaldati. Stefano non poteva vederlo, ma era
certo che
mentre parlava avesse lanciato un’occhiata rapida a Claudia.
Poteva indovinare
cosa faceva Enrico in ogni momento, a occhi chiusi.
Per un po’ nessuno
parlò. C’era un silenzio quasi assoluto. Non
tirava un alito di vento, la
risacca del mare sembrava arrivare da molto lontano e le cicale
frinivano
stancamente, senza entusiasmo, come spossate dal caldo. Il sole era una
palla
di fuoco alta e incandescente nel cielo di un azzurro limpido e chiaro.
Una
grossa ape si avvicinò a Stefano e svolazzò sul
suo viso, ronzando. Lui la
osservò per qualche istante, poi soffiò con forza
e la guardò sussultare e
allontanarsi, ondeggiando, forse in cerca di qualcosa di più
interessante. Gli
parve che fossero completamente soli sulla Terra. Soltanto loro tre e
un giorno
infinito d’estate. Fece un sorriso enorme.
«Io ho un’idea più
bella» disse, infrangendo la quiete.
«Che idea?» Indagò
Claudia con cautela. Sbirciò verso di lui con espressione
dubbiosa. Gli altri
due bambini avevano imparato da tempo che spesso le idee di Stefano
significavano una cosa sola: guai. E divertimento, risate, caos,
avventure e
scoperte, ma soprattutto un mucchio di guai.
Stefano si tirò su a
sedere di scatto e i suoi occhi di un azzurro intenso e splendente, che
irradiavano
una luce vivace sul viso sottile, incrociarono quelli color nocciola
della
bambina. «Facciamo un gioco. Anzi, no… una prova
di coraggio.»
Quelle parole caddero
nel silenzio come pietre sulla superficie immobile di uno stagno.
L’atmosfera
cambiò, attraversata da un lampo di energia. Stefano amava
quella sensazione
che avvertiva sempre quando una delle sue idee lo colpiva
all’improvviso, un
formicolio sulla pelle, un senso di attesa e di eccitazione che faceva
vibrare
l’aria, e sapeva che anche i suoi due amici la amavano. Solo
che ci mettevano
sempre un po’ a ricordarselo.
«Una prova di
coraggio?» ripeté Claudia, fissandolo a occhi
sgranati. Quella era una novità
assoluta. Fino ad allora avevano fatto giochi di ogni tipo, scherzi,
esplorazioni e perfino una caccia al tesoro, quasi tutte idee nate
dalla
fertile mente di Stefano, ma una prova di coraggio mai.
«E come facciamo?»
chiese Enrico, la fronte aggrottata. Lanciò
un’altra occhiata in direzione di
Claudia, poi tornò a concentrarsi su Stefano. Aveva gli
occhi azzurri, come il
suo amico. Era un po’ più alto e slanciato, aveva
capelli castani, la
carnagione pallida e lineamenti delicati che sembravano tracciati in
punta di
matita. Stefano era mingherlino e aveva capelli scuri e la pelle sempre
leggermente abbronzata. Quando Enrico lo guardava, a Stefano sembrava
sempre
che quegli occhi non si limitassero a incrociare i suoi, ma li
agganciassero,
come se il contatto visivo facesse vibrare qualcosa che correva tra
loro. Forse
era perché si conoscevano dalla nascita, eppure anche
Claudia faceva parte del
loro gruppetto da quando aveva iniziato a camminare, ma con lei non
succedeva.
«Le femmine non fanno
le prove di coraggio» aggiunse Enrico dopo un breve silenzio.
Claudia gli gettò
un’occhiata di fuoco. «Sì che le fanno!
E le vincono pure!»
Il bambino la fissò,
poi arrossì e abbassò gli occhi, come pentito di
quello che aveva detto.
«Tu non la fai, la
prova» intervenne Stefano. «La facciamo io e
lui.» Fece un cenno con il capo
verso l’amico.
Claudia si gonfiò come
un palloncino, le labbra serrate e gli occhi stretti per la rabbia.
«E io?!»
strillò, indignata. Stefano intuì che era meglio
spiegare tutto subito, prima
che lei si infuriasse sul serio e se ne andasse. Ogni tanto succedeva,
durante
un litigio, e se in un primo momento Enrico e Stefano dichiaravano con
solennità di stare benissimo anche loro due soli e di non
avere alcun bisogno
delle bambine, dopo un po’ erano sempre costretti a
constatare, pur senza
ammetterlo ad alta voce, che stare senza Claudia era come andarsene in
giro
senza una gamba. Così cercavano il modo di riavvicinarla,
coinvolgendola in un
gioco oppure offrendole qualcosa di buono da mangiare. Una volta
avevano messo
insieme i loro risparmi e per farsi perdonare le avevano comprato un
album di
figurine che desiderava. Lei metteva il broncio e li ignorava, ma non
resisteva
a lungo. Alla fine scoppiava a ridere e tornava di corsa da loro e
tutto era di
nuovo come prima.
«Tu sei il premio: dai
un bacio al vincitore» disse Stefano con un sorriso sghembo
sul viso.
Claudia rimase
interdetta, mentre Enrico, vicino a lei, spalancava la bocca per lo
stupore. «Scemo
sei? ‘Nu vasu?»
Aveva un’aria vagamente disgustata,
come se lui le avesse proposto di mangiare del fango.
Stefano annuì, sicuro.
«Sì. Uno vero. Sulla bocca.» Era da un
po’ che ci pensava e adesso che si era
presentata l’occasione non se la sarebbe fatta sfuggire. A
lui non sfuggiva mai
niente.
«Bleah!» commentò
Claudia. Scosse la testa. «Ma che premio
è?»
«È una cosa da grandi»
rispose Stefano con aria di superiorità. Guardò
Enrico. «Allora? Ci stai?»
Enrico era arrossito
fino alla punta dei capelli sentendo parlare di baci.
Trasalì. «Che prova vuoi
fare?»
«Andiamo alla torre»
rispose Stefano, evasivo. Non ci aveva ancora pensato nel dettaglio, in
realtà.
Avrebbe avuto un’idea più precisa quando fosse
stato lì.
Enrico guardò Claudia.
Lei aveva ancora gli occhi sgranati e una buffa espressione a
metà fra
l’incredulo e il disgusto, ma sembrava meno ostile di prima
all’idea. «Tu ci
stai?» balbettò.
Lei lo fissò per un
attimo, poi fece di sì con la testa. «Ci sto.
Però la prova la voglio fare
anche io.»
«E se vinci qual è il
premio?»
«Non vince» intervenne
Stefano, il tono spavaldo e canzonatorio. Claudia gli fece una
linguaccia, ma
quando incrociò il suo sguardo capì che non lo
pensava davvero. La stava sfidando. La cosa le piacque.
«Se vinco io, chi si
prende il bacio lo decido io.»
Enrico aprì la bocca
per dire qualcosa, ma non ne ebbe il tempo. Stefano era già
scattato in piedi e
stava spazzando via con la mano uno stelo di grano rimasto attaccato
alla
t-shirt di un rosso sbiadito.
«Prendiamo le
biciclette.»
****
Pedalare sotto
il sole
di mezzogiorno in una torrida mattina di agosto era come pedalare
sott’acqua. La strada che portava alla torre saracena
dell’isola era un
viottolo di campagna: partiva da una crepa nel muricciolo che
fiancheggiava la
litoranea, in un tratto di campagna abbandonata e adorna solo di
cespugli
spogli, erba secca, arbusti scheletrici e qualche fiore di campo
coraggioso,
che però piegava in fretta la testa sotto il sole
implacabile. Dopo qualche
minuto il viottolo iniziava a salire e da lì la pedalata si
faceva davvero
faticosa, ostacolata da buche e grosse pietre. Una volta Claudia ne
aveva presa
una con la ruota anteriore della bici, mentre scendevano a gran
velocità, e
aveva fatto un capitombolo memorabile. Era un miracolo che ne fosse
uscita solo
con le ginocchia sbucciate, un bernoccolo sulla fronte e uno scossone
alla
dignità.
Mentre si avvicinavano
alla meta, ansimanti e accaldati, il sole sembrava incendiare
l’aria sempre di
più e il caldo rendeva difficile respirare. Stefano sentiva
bruciare i muscoli
delle gambe, la gola secca come il deserto, il sudore che scorreva in
rivoli
fastidiosi lungo la schiena e gli faceva il solletico. Pedalavano in
fila
indiana, uno dietro l’altro, come sempre: Enrico davanti,
Stefano in mezzo e
per ultima Claudia, che arrancava sempre un po’ per via delle
gambe più corte e
della bici più piccola. In realtà Stefano era
quasi alla pari con Enrico e
avrebbe potuto superarlo senza difficoltà. Aveva 9 anni
appena compiuti, quasi
due in meno dell’amico che ne avrebbe fatti 11 a settembre,
ed era magro e
sottile, ma anche forte e veloce, molto più di quanto
sembrasse a prima vista.
A volte, durante le loro eterne scorribande per l’isola in
bicicletta, con la
pioggia e con il sole, con il freddo e con il caldo, Stefano superava
Enrico
distrattamente, senza rendersene conto, ma subito rallentava o si
fermava e si
girava a guardarlo con un’aria seria e limpida che diceva
senza parole: «Io ti
aspetto».
D’altronde era giusto
che fosse così, secondo lui. Enrico era il più
grande, dato che Claudia aveva 8
anni e ne avrebbe compiuti 9 solo a novembre, e per una sorta di tacito
accordo
tra loro era sempre stato il capo della loro piccola banda. A conti
fatti, era
quasi sempre Stefano a prendere le iniziative, a organizzare i giochi e
le
escursioni, a mettere tutti e tre nei pasticci e poi a tirarli fuori, a
decidere quando era ora della merenda e quando invece era il momento di
un
tuffo in mare. Prendeva il comando in modo spontaneo, naturale, quasi
inconsapevole, come quando oltrepassava Enrico pedalando. Poi,
all’improvviso,
se ne accorgeva. Lanciava un’occhiata guardinga
all’amico, preoccupato di
avergli sottratto ancora una volta il ruolo che avrebbe dovuto essere
suo e
faceva un passo indietro. Enrico, però, non se la prendeva
mai. Solo quando
giocavano a casa, il baglio
dei Falconeri di proprietà
del padre di Enrico, e vedeva Stefano assumere la guida del gruppo, si
rabbuiava. Quando erano fuori, invece, nella campagna, in spiaggia, nei
campi
di grano, alla torre o per le strade di Portosalvo, l’unico
centro abitato dell’isola,
sempre loro tre insieme, isolati dagli altri bambini, Enrico sorrideva
e
seguiva Stefano con entusiasmo e gli occhi che brillavano. Erano una
squadra e
Stefano aveva sempre pensato che in fondo quella faccenda del capo non
fosse
poi così importante. La nonna di Claudia, Amelia, li
osservava pedalare
insieme, uno dietro l’altro come gli anelli di una catena,
bisbigliare qualcosa
e poi scoppiare a ridere o chiamarsi a gran voce tra loro, e diceva che
sembrava che nascondessero chissà quale grande segreto. Un
mondo segreto, tutto
loro, inaccessibile a chiunque altro.
Finalmente la torre
apparve sulla sommità di una scogliera a picco sul mare. Era
una struttura
diroccata a pianta circolare, affondata tra ginestre, agavi e cespugli
di
gramigna, imponente e solitaria. La vecchia Amelia aveva raccontato ai
bambini
che era stata costruita tantissimo tempo prima per sorvegliare
l’arrivo di
pericolosi predoni dal mare e questo scatenava la fantasia di Stefano
più di
qualsiasi altra cosa. Era il suo posto preferito di tutta
l’isola. Il muro era
solcato da ciuffi d’erba e squarci simili a cicatrici nei
punti in cui le
vecchie pietre grigie, disposte in modo irregolare, quasi ammassate
semplicemente l’una sull’altra, erano cadute,
ammucchiandosi ai piedi della
torre. Tre gradini di pietra spezzati conducevano a una porta di legno
marcio
scardinata, appoggiata a chiudere l’ingresso alla torre e
ornata da un grosso
lucchetto penzolante, tutto arrugginito e ormai inutile. Sulla
sinistra, quasi
a ridosso della torre, sorgeva un boschetto di ulivi immerso nella
penombra e
nel frinire delle cicale: il posto ideale dove rinfrescarsi e fare
merenda dopo
aver giocato per ore sotto il sole.
Stefano saltò giù per
primo dalla bicicletta rossa, malconcia e arrugginita quanto il vecchio
lucchetto della torre, la gettò tra le erbacce e fece
più volte il giro della
torre, studiandola e riflettendo intensamente. Enrico e Claudia, dopo
essere
scesi dalle bici, se ne stavano fermi, vicini, e lo seguivano con gli
occhi.
Alla fine Stefano si fermò e li guardò con un
sorriso di trionfo che andava da
orecchio a orecchio.
«Ecco che cosa facciamo.»
****
Stefano era
sempre
quello che si lanciava per primo e quel giorno non faceva eccezione.
«Tu sei pazzo» aveva
sentenziato Enrico dopo che lui aveva finito di spiegare la prova agli
altri
due.
Claudia aveva annuito
con decisione. «Tra tutte quelle che hai pensato, questa
è la più…»
«La verità è che ve la
state facendo sotto» aveva esclamato Stefano allegramente.
«Vado io per primo e
vi faccio vedere.»
Così adesso si trovava
ai piedi di un grosso ulivo ritorto, sul lato della torre che dava
verso il
mare, i grossi rami in basso così curvi verso il terreno da
far pensare a
sottili fuscelli piegati dal vento. Gli altri due bambini erano a pochi
passi
di distanza e lo osservavano in religioso silenzio. Stefano
osservò i rami
bassi dell’albero, poi, con cautela, mise il piede destro su
quello che gli
sembrava il più grosso e il più resistente, si
attaccò con le mani a un ramo
più in alto e si tirò su. Attese un istante,
raccogliendo la concentrazione, e
ripeté il passaggio una seconda volta, poi una terza.
Salì fino a metà del
tronco senza difficoltà, poi si trovò su un ramo
più sottile degli altri che
ondeggiò paurosamente sotto il suo peso. Il bambino si
bloccò e serrò la presa
intorno al ramo a cui si teneva con le mani sottili. A terra
sentì che Claudia
ed Enrico trattenevano rumorosamente il fiato. Pian piano il ramo smise
di
ondeggiare e, quando si sentì di nuovo sicuro, Stefano fece
forza sul piede per
sollevarsi di nuovo.
Quando arrivò a un
punto in cui nessun appoggio gli sembrava convincente,
infilò il piede in una
rientranza del tronco, pregando che non ne spuntasse fuori nessun
animale per
aggredirlo. Ebbe fortuna, come spesso accadeva. Non successe nulla e
lui poté
issarsi quel tanto che bastava per raggiungere un ramo grosso e lungo
sul quale
si fermò a riprendere fiato dopo aver scostato le foglie che
gli sfioravano le
guance. Il cuore gli batteva forte, un rombo cupo e martellante nelle
orecchie,
ma sentiva di avere il controllo. Amava quella sensazione.
Non aveva raggiunto la
cima dell’ulivo, anche se mancava poco, ma non era quello
l’obiettivo. Davanti
a lui, sulla sinistra, c’era la finestra della torre: era
più simile a una
feritoia nella pietra, priva di vetri e chiusure di alcun genere. Prese
fiato,
gli occhi fissi sull’apertura nel muro, ignorando le
goccioline di sudore che
gli scivolavano sulla fronte, e iniziò ad avanzare sul ramo
con grande
lentezza, un passo alla volta, le mani saldamente agganciate al ramo
superiore,
come un circense impegnato in un gioco di abilità. Per
controllare dove metteva
i piedi era costretto a guardare in basso e la distanza di almeno
quattro metri
che lo separava da terra gli fece girare un po’ la testa, ma
solo per un
secondo. Le altezze non gli davano fastidio, anzi, lo elettrizzavano.
Un passo
dopo l’altro, un piede avanti all’altro, raggiunse
la fine del ramo. La
finestra si trovava un po’ più in alto, per cui
dovette staccare una mano dal
ramo a cui si aggrappava e appoggiarla con attenzione al bordo di
pietra intorno
all’apertura. Quando si sentì abbastanza sicuro,
staccò anche l’altra mano. Si
slanciò, trattenendo il fiato, e salì sul bordo.
Alle sue spalle, il ramo che
gli era servito da ponta ondeggiava lievemente.
Non appena ebbe i piedi
ben saldi sulla pietra, si lasciò scappare un sorriso di
trionfo. Da sotto
arrivavano le grida di entusiasmo di Enrico e Claudia, ma
l’impresa non era
ancora neppure a metà. Tenendosi con attenzione al bordo
dell’apertura, esaminò
la situazione. La finestra era stretta e se Stefano fosse stato appena
più
robusto avrebbe avuto difficoltà a passarci. Un tempo la
torre aveva avuto un
primo piano, oltre al pianoterra, poi il pavimento era crollato,
chissà come,
chissà quando. Ne restava solo un pezzo, uno spuntone di
pietra dai bordi
irregolari che sporgeva di una cinquantina di centimetri. Tra la
finestra e il
pezzo di pavimento sopravvissuto, il vuoto era colmato solo da alcune
assi di
legno che qualcuno doveva aver sistemato per poter passare da una parte
all’altra. Erano fissate da grossi chiodi arrugginiti, erano
palesemente molto
vecchie e poco stabili. Dagli spazi tra le assi si scorgeva il
pianoterra, cui
si accedeva dalla porta con il lucchetto. Era un ambiente circolare
pieno di
un’accozzaglia di oggetti vecchi e abbandonati, proprio come
la torre stessa:
mucchi di pietre, pezzi di legno, una sedia sfondata, due assi mezze
marce
tenute insieme da una corda e dei chiodi che sembravano quel che
restava di un
tavolo, reti da pesca rotte, una pentola priva di uno dei due manici,
una ruota
di bicicletta sgonfia, una pila di cassette simili a quelle usate per
trasportare la frutta, un secchio di un azzurro sbiadito, una lamiera
incrostata di ruggine e perfino un grammofono che cadeva a pezzi. Da
terra
partiva una rozza scala di pietre che sembravano quasi gettate alla
rinfusa
l’una sull’altra formando gradini alti e scoscesi.
Stefano lanciò
un’occhiata verso l’alto, tenendosi saldamente al
muro: una copertura di
fortuna composta di assi di legno chiudeva il tetto della torre. Dal
basso
arrivò un improvviso trambusto e lui guardò di
nuovo giù: Enrico e Claudia
avevano spalancato la porta di legno con gran fracasso e si erano
precipitati
dentro, il respiro affannoso, gli occhi che puntavano verso
l’altro,
cercandolo. Per poco Claudia non inciampò nel secchio
azzurro.
Stefano fece un respiro
profondo. Doveva restare concentrato. La parte più tosta era
proprio quella che
stava arrivando. Studiò con calma il percorso da seguire:
un’asse di legno,
larga non più di una quarantina di centimetri, che gli
sembrava meno marcia e
più resistente delle altre. Allargò le braccia e
immaginò di essere un uccello
sul punto di spiccare il volo, lasciare la terra, quella piccola isola,
e
salire su, su, su, sempre più in alto, sempre più
lontano, Santo Stefano sotto
di lui che si riduceva a un puntino quasi invisibile nel mare, verso
chissà
quali posti lontani e nuovi e straordinari.
Fece un passo avanti
sulla trave, poi un altro. Attese qualche istante, mentre il legno
ondeggiava e
scricchiolava sotto il suo peso. Qualcuno in basso, Enrico o Claudia,
cacciò un
verso di paura, ma non accadde nulla. Allora andò avanti,
piano, ma senza
esitazioni, prendendo respiri lenti e cauti, leggeri, nel timore che un
movimento troppo brusco gli facesse perdere l’equilibrio. La
tentazione di dare
un’occhiata nel vuoto che si spalancava sotto di lui era
fortissima, ma si
costrinse a dominarsi e a non staccare lo sguardo dal suo obiettivo:
uno
squarcio nella parete, dal lato opposto della finestra. Una volta
Claudia aveva
detto che sembrava che un gigante affamato avesse dato un morso alla
sommità
della torre saracena, staccandone una parte e lasciando quello strano
buco
irregolare. Sua nonna Amelia, invece, sosteneva che quel pezzo fosse
venuto giù
durante un terremoto, molti anni prima che i bambini nascessero. A loro
quella
spiegazione così banale non piaceva per niente e trovavano
molto più convincente
l’idea del gigante.
All’improvviso, una
fitta al polpaccio sinistro, a pochi passi dalla fine. La caviglia si
piegò e
il bambino si sbilanciò verso destra con un sussulto di
sorpresa che gli fece
uscire di colpo tutta l’aria dal petto. Claudia, di sotto,
strillò.
«Gesù, adesso muore!
Che diciamo a sua mamma se muore?!»
«Non muore, non muore»
rispose tranquillamente Enrico.
Fermo sulla trave, il
respiro affannoso, in attesa di riprendere il controllo, Stefano
sentì la
sicurezza nella voce di Enrico che lo raggiungeva e gli entrava dentro
come un
alito di coraggio. Enrico pensava che ce l’avrebbe fatta e
allora era così. Ce l’avrebbe
fatta. Era sempre così. Altrimenti lo
avrebbe deluso e questo era
inaccettabile. La fitta al polpaccio era già passata,
bruscamente come era
arrivata. Mosse un po’ la caviglia, ma il dolore non
tornò. Sembrava tutto a
posto. Era stato solo un crampo. Poggiò di nuovo il peso
sulla gamba sinistra,
con delicatezza, e di nuovo non accadde nulla. Stefano
sospirò di sollievo,
fece un passo avanti e un altro ancora e quando toccò con i
piedi il pezzo di
pavimento sopravvissuto fece un salto e lanciò un grido
liberatorio. Sotto di
lui, anche Enrico e Claudia urlavano di gioia e saltavano su e
giù.
«Ce l’ha fatta! Ce l’ha
fatta davvero!» esclamò Enrico.
«Torniamo fuori!»
Si lanciò attraverso la
porta malconcia con Claudia alle calcagna.
Non era ancora finita.
Stefano abbassò gli occhi e vide il suo piccolo pubblico
arrivare di corsa
sotto la torre. Gli fece un inchino e in risposta gli altri due
batterono le
mani entusiasti e lanciarono ovazioni. Poi iniziò a scendere
da una scala a
pioli di corda con i gradini fatti di pezzi di legno, agganciata a una
sporgenza della pietra. In alcuni punti la corda era sdrucita come se
qualcuno
avesse cercato di strapparla, magari lo stesso gigante che aveva
mangiato un
pezzo della torre per merenda, e alcuni pezzi di legno che formavano i
gradini
mancavano, costringendo chi saliva o scendeva a fare un salto di
parecchi
centimetri. I tre bambini, però, avevano fatto su e
giù su quella scala
infinite volte, quando andavano a giocare alla torre, e aveva sempre
retto
benissimo. Avrebbe retto anche questa volta.
Stefano mise il piede
sul gradino che segnava la metà della discesa e di colpo il
pezzo di legno si
spezzò, probabilmente troppo marcio per sostenere il suo
peso. Il bambino
scivolò verso il basso, mentre la paura gli strattonava con
violenza lo stomaco
e Claudia urlava. Poi sentì un’altra fitta di
dolore al polpaccio, ma non era
un crampo, stavolta. Enrico gridò «Accura,
Ste’!» con voce carica di
angoscia, poi la corda che Stefano stringeva nella mano sudata e
irritata si
strappò, incapace di reggerlo, dal momento che lui non
poteva poggiare i piedi
da nessuna parte per distribuire il peso. Tutto accadde così
in fretta che
quasi non ebbe il tempo di rendersene conto. Stefano
precipitò, mentre Claudia
strillava come da molto lontano, e una frazione di secondo
più tardi toccava
terra con un colpo secco.
Un lampo di dolore lo
attraversò da capo a piedi e per un tempo indefinito fu
incapace di vedere,
ascoltare, ragionare o perfino respirare. C’era solo dolore.
Le orecchie
ronzavano fortissimo, la testa pulsava come se qualcuno la colpisse
regolarmente con una pietra, la nausea gli squassava lo stomaco. Poi
riuscì a
prendere aria e gli sembrò di tornare lentamente alla vita.
Aprì gli occhi e si
ritrovò a fissare il cielo azzurro e sgombro. Il dolore si
era trasformato in
un rimbombo sordo e la nausea arrivava a ondate, mentre il ronzio nelle
orecchie scemava pian piano, ma era del tutto privo di forze. Braccia e
gambe
erano come tubi abbandonati, vuoti e inservibili. C’era
qualcuno accanto a lui.
Piano, cercò di girare la testa: Enrico e Claudia erano in
ginocchio nell’erba
e lo guardavano con due identiche espressioni terrorizzate. Gli rivolse
un
sorriso ammaccato, per fargli capire che non era poi così
grave. Claudia, che
aveva le mani a coppa sulla bocca, le abbassò e
spalancò gli occhi.
«È vivo!»
«Certo che è vivo!
Minchia, Stefano!» sbottò Enrico, la voce che
grondava sollievo.
Claudia sollevò tre
dita e le mostrò a Stefano. «Quante sono
queste?» domandò, serissima.
Stefano le fissò per un
momento. «Trentatré.» Gli
sfuggì una risata soffocata, ma il dolore aumentò
e
smise subito.
Enrico alzò gli occhi
al cielo. «Vai a prendergli la borraccia» disse a
Claudia. Lei scattò in piedi
e corse via, scomparendo dietro la torre. Stefano la seguì
con gli occhi finché
poté mentre l’altro continuava a parlare.
«Ti fa male qualcosa? Riesci a metterti
seduto?»
«Penso di sì.»
Sostenuto dall’amico,
si tirò su con cautela e si guardò. Era in
pessime condizioni: la maglietta era
sporca di terra e aveva uno strappo sul bordo, le braccia e le gambe
erano
graffiate e piene di macchie nere e sul polpaccio destro
c’era una scia di sangue.
Doveva essersi ferito mentre scivolava contro la parete della torre.
Claudia
tornò, trafelata, brandendo la borraccia bianca e nera che
Stefano attaccava
sempre alla bicicletta. Enrico la stappò, fece mandare
giù qualche sorso a
Stefano, poi usò un po’ d’acqua per
lavare il sangue dalla ferita. Si chinò per
esaminarla.
«Non sembra profonda,
però bisogna disinfettarla. Meglio tornare.»
Enrico lanciò un’occhiata alla
torre che incombeva su di loro. La scala di corda penzolava tristemente
lungo
il muro, ormai inservibile. Deglutì, poi abbassò
la testa.
Mentre lo aiutava ad
alzarsi in piedi, Stefano cercò di incontrare il suo
sguardo, ma l’amico teneva
il proprio ben fisso a terra. Lo aveva fatto arrabbiare. Aveva
esagerato, come
sempre, aveva voluto fare troppo e per colpa sua lui e Claudia non
potevano
fare la prova. Non aveva problemi a camminare, anche se la testa gli
girava un
po’ e la ferita bruciava. Adesso che lo shock per la caduta e
il dolore stavano
passando lentamente, si sentiva di nuovo elettrizzato, come se fosse
sul punto
di ricominciare la prova da capo.
Enrico strappò un lembo
di stoffa dalla sua maglietta a strisce e la legò sopra la
ferita, per bloccare
il sangue. «Ce la fai?» indagò.
Continuava a tenere l’amico per un braccio,
come se temesse di vederlo cadere da un momento all’altro, ma
ancora non lo
guardava.
Stefano annuì e si
staccò da lui. Si avviarono piano verso le biciclette
buttate nell’erba
dall’altro lato della torre. Claudia camminava strascicando i
piedi, facendo
più rumore del necessario. Enrico montò per primo
sulla sua bici nera, nuova e
scintillante come un gioiello accanto a quella vecchia e malridotta di
Stefano
o a quella polverosa di Claudia, con la vernice rosa e verde scrostata.
Stefano
lo vide lanciare un’ultima occhiata verso la torre dai
contorni quasi sfocati
nell’aria incandescente, sotto la luce del sole. Aveva
un’espressione incerta,
preoccupata, come se la torre gli lanciasse una sfida silenziosa che
lui
esitava a cogliere. Nel boschetto di ulivi si alzò il verso
di un picchio.
Enrico abbassò lo sguardo e lo puntò su Claudia,
che stava salendo sulla bici.
«Che c’è?» domandò
la
bambina quando si accorse che lui la fissava.
Enrico si riscosse, ma
non rispose. Fece girare la bicicletta con uno scatto e
iniziò la discesa che
li avrebbe portati giù dalla collina. Stefano si era mosso
appena un secondo
prima di lui, distrattamente, e si rese conto all’improvviso
che stava andando
per primo, come faceva sempre, ma in discesa era difficile fermarsi. Per
una
volta non fa niente, pensò, e continuò
a pedalare. Sentiva su di sé lo
sguardo di Enrico che gli perforava la schiena.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo 2. Il premio ***
CAPITOLO 2
IL PREMIO
Sicilia,
Isola di Santo Stefano
Agosto 1988
L’ora
di pranzo era
passata da un pezzo quando i tre bambini giunsero in vista della
proprietà
della famiglia di Enrico. Erano stanchi morti, sudati, sporchi di terra
e della
polvere delle strade di campagna e lungo il polpaccio di Stefano si era
formata
un’inquietante striscia di sangue secco. Stefano sapeva che
li aspettava una
sgridata, ma ormai erano abituati. Succedeva praticamente ogni giorno,
soprattutto quando non c’era scuola: uscivano con le
biciclette, perdevano il
senso del tempo, rientravano tardi, solo quando la fame si faceva
insopportabile, si beccavano un paio di sfuriate e il giorno dopo tutto
daccapo.
La casa dei Falconeri,
la famiglia di Enrico, era un baglio, una masseria fortificata che
risaliva al
Seicento. Era una grande costruzione in pietra con più di
venti stanze, bassa e
squadrata, sviluppata sue due piani e coronata da un tetto terrazzato.
Si
vedeva tutta l’isola di Santo Stefano, da lì
sopra, e spesso i tre bambini
salivano a giocare tra le lenzuola stese ad asciugare. Il cortile
centrale era
a forma quadrata, circondato da un ballatoio a cui si accedeva da due
scale di
pietra di fronte al cancello. Da lì si entrava in casa
attraverso alte
portefinestre. A destra si apriva la robusta porta
d’ingresso, poco meno antica
del baglio stesso, che però veniva usata raramente, se non
quando c’erano
ospiti: di solito tutti entravano e uscivano dalle portefinestre sul
ballatoio.
Il cortile era
attraversato da due viali perpendicolari tra loro che delimitavano
quattro
grandi aiuole fiorite e ben tenute. Nell’angolo a destra, in
fondo, un alto
mandorlo gettava la sua ombra sull’erba tenera sotto di
sé, e dal lato opposto
aranci e limoni si raggruppavano tra loro, vicini come bambini
spaventati. Al
centro del cortile, all’incrocio dei due viali,
c’era un vecchio pozzo di
pietra, chiuso da un coperchio di ferro pesantissimo. Stefano lo sapeva
bene:
una volta lui ed Enrico avevano provato a spostarlo insieme per
guardare nel
pozzo, ma non si era mosso di un millimetro.
Il baglio apparteneva
ai Falconeri da quando era stato costruito. Un tempo l’intera
isola era stata
di loro proprietà. Ora possedevano tutti i vigneti di Santo
Stefano: il
bisnonno di Enrico, cento anni prima, aveva iniziato a produrre vino e
suo
figlio aveva fondato l’azienda vinicola che ancora
apparteneva alla famiglia.
I bambini varcarono
l’alto cancello di ferro battuto che si apriva nel muro
esterno, spesso quasi
due metri, pedalando affannati. Stefano aveva la bocca così
secca che avrebbe
dato la sua bici per un sorso d’acqua, ma alla torre aveva
svuotato tutta la borraccia.
Il giardiniere, Michele, si dava da fare nell’aiuola di
sinistra, innaffiando,
strappando, potando e tentando di dare sollievo alle piante da
quell’arsura
implacabile che le spegneva.
«Ciao, Michele!» gridò
Stefano.
Il giardiniere gli era
simpatico, non li rimproverava mai e anzi cercava sempre di coprire i
loro guai.
Stefano non aveva un nonno, ma se avesse potuto sceglierne uno lo
avrebbe
voluto esattamente così, con i capelli grigi arruffati sulla
testa, un paio di
grossi baffi, la schiena incurvata e grosse mani piene di calli, tagli
e
macchie di terra che sapevano essere delicatissime quando Stefano era
piccolo e
se lo metteva a cavalluccio. Anche Enrico fece un cenno al vecchio e
lui
rispose chinando un po’ la testa e sollevandosi il
cappellaccio di paglia.
Sebbene Enrico avesse solo dieci anni, tutti i dipendenti del baglio lo
trattavano con deferenza e lo chiamavano “il
signorino” e spesso Stefano lo
prendeva in giro per questo. Quasi tutti i
dipendenti. Stefano aveva
appena messo i piedi a terra, grato di potersi finalmente riposare,
quando
sentì il pericolo piombargli addosso come una folata di
vento che annuncia
l’arrivo di un uragano. Rabbrividì.
«Eccoli! Eccoli,
finalmente! A quest’ora si torna? Disgraziati! Tutti i giorni
mi fanno scantari,
tutti i giorni!
Disgraziati siete!»
Amelia Scalìa, cuoca e
governante della casa, era comparsa sulla porta che dal cortile
conduceva alla
cucina. Era una donna bassa e robusta, con una crocchia di capelli
grigi
perfettamente in ordine, un abito estivo a fiori, un grembiule e
un’espressione
furiosa. Era la nonna materna di Claudia, che viveva con lei in due
stanze al
baglio da quando aveva tre anni e i suoi genitori erano morti in un
incidente
d’auto. Amelia aveva iniziato a lavorare per i Falconeri a
tredici anni, aveva
visto crescere Edoardo, il padre di Enrico, ed era lei a prendersi cura
dei tre
bambini. Soprattutto, era lei a preoccuparsi e infuriarsi quando
sparivano
sulle biciclette per intere giornate, nonostante le ripetute promesse
di non
allontanarsi troppo dai dintorni del baglio.
«Sempre in giro per la
campagna, come i cani randagi! Vai a sapere se sono finiti sotto una
macchina o
caduti in un fosso!» sbraitò Amelia. I lineamenti
morbidi e appesantiti
dall’età erano contratti per
l’irritazione. Li osservò con più
attenzione e
batté le mani tra loro con uno schiocco che fece sussultare
Claudia. «Guarda
come si sono conciati! Enrico! Che hai combinato per ridurre la
maglietta così?
Sembra che ti sei rotolato per terra!»
Stefano lanciò
un’occhiata alla maglia di Enrico, che a sua volta la stava
osservando con aria
perplessa, tutto rosso in viso: era sporca, piena di macchie scure e
strappata
lungo il bordo, dove aveva ricavato la benda di emergenza. Stefano
sollevò di
nuovo lo sguardo e vide Amelia che marciava verso di loro come un
bulldozer.
D’istinto indietreggiò, ancora a cavalcioni della
bici, spingendosi con i piedi,
ma la donna puntava su Claudia, che aveva gli occhi così
sgranati da sembrare
enormi. La afferrò per un braccio e la tirò
giù dalla bicicletta con gesti
bruschi, senza badare alle proteste della nipotina.
«Scinni,
forza! Stai diventando una selvaggia a forza di andare per le campagne!
Dovresti essere una signorina, ormai! Che direbbero i tuoi genitori se
ti
vedessero, eh?» Gli occhi le caddero su Stefano, al quale
scappava sempre da
ridere durante le interminabili, esagerate sfuriate di Amelia e
faticava a
trattenersi. La donna si accorse del sangue secco e del pezzo di stoffa
legato
intorno al polpaccio e strabuzzò gli occhi. «E tu
che facisti?»
«Niente. Ho fatto una
prova di coraggio» disse lui, sfrontato, a mo’ di
spiegazione, come se si
trattasse di un’occupazione banale e quotidiana per la
maggior parte delle
persone. Enrico arrossì ancora di più e
guardò verso Michele, come per dissociarsi
dal discorso.
Amelia rimase senza
parole per un attimo, poi batté di nuovo le mani
più forte di prima e alzò gli
occhi al cielo. «Una prova di coraggio! Ma sentitelo! La
prova di coraggio, ci
mancava! Viautri
delinquenti volete farmi morire! Scendi, ti devo sistemare prima che ti
vede
tua madre! E tu» accennò
bruscamente a Enrico, che sobbalzò e la guardò
con aria colpevole, «vai subito di sopra! Tuo padre ti sta
aspettando per il
pranzo. Sbrigati!» Enrico era già saltato
giù dalla bici prima che lei finisse
di parlare, lasciandola cadere a terra con noncuranza, e correva su per
la
scala di pietra. «Prima cambiati, però!»
gli urlò dietro Amelia quando era già
arrivato sul ballatoio, un istante prima che si fiondasse in casa
attraverso
una portafinestra.
La donna fece un
sospiro di esasperazione, mentre Claudia e Stefano scendevano dalle
bici. Le
lasciarono in mezzo al viale, accanto a quella di Enrico, e seguirono
Amelia in
cucina. Era uno stanzone seminterrato a cui si accedeva da una porta
affacciata
sul cortile, scendendo due alti scalini. Il pavimento e le pareti fino
a metà
altezza erano rivestite di piastrelle di ceramica multicolore e le
finestre
piccole e strette, simili a feritoie, lasciavano entrare la luce forte
del
primo pomeriggio estivo. I fornelli dovevano essere stati spenti da
poco,
perché il caldo era quasi insopportabile. Amelia
aiutò Stefano a sedersi sul
grande tavolo di legno al centro della stanza, vecchio e massiccio. Era
lì da
prima che lei iniziasse a lavorare al baglio e la superficie era
scalfita da
innumerevoli graffi, tagli e scanalature. Poi spedì Claudia
a prendere
disinfettante e cerotti nella loro camera, dietro la cucina, e
medicò la ferita
del bambino, che in verità era poco più di un
graffio. Mentre gli strofinava
con energia il disinfettante sulla gamba, Amelia continuava a
rimproverarlo.
«Meno male che tua
madre sta lavando i pavimenti di sopra, se no ti avrebbe tirato ‘nu
lisciabbussu
da farti girare la testa… lo sai com’è!
E avrebbe fatto bene!»
Stefano si morse il
labbro. Il bruciore era fortissimo, ma non voleva farsi sfuggire
neanche un
lamento. Intanto seguiva con gli occhi Claudia che girava per la cucina
tirando
fuori piatti e posate.
«Mai ubbidisci, mai! La
fai stare sempre in pensiero e ha già tante preoccupazioni,
poverina!» Amelia
aprì un cerotto e lo mise sulla ferita con un gesto irritato
e sbrigativo. «Si
sta sempre a spirniciari
per te, lavora per te, per farti studiare, farti andare via
da qua un
giorno, lontano da…» Stefano sussultò e
Amelia tacque di botto, come se si
fosse morsa la lingua. Guardò il bambino con un misto di
shock e spavento, poi
abbassò la testa e si mise ad armeggiare con il flacone del
disinfettante per
riavvitare il tappo. «Non ha il tempo di stare appresso alle
tue fantasie»
concluse in tono secco.
«Andare via?» ripeté
Stefano, sconcertato. «Via dove? Io non andrò mai
via da qua.»
La governante lo fissò
e per un attimo parve sul punto di rispondere qualcosa. In quel momento
dalle
scale di servizio che portavano ai piani superiori scese una delle
cameriere,
Clara, una signora magra e bionda sui quarant’anni.
«Il signorino Enrico
arrivò. Porto su il pranzo» disse in tono
sbrigativo.
Andò ai fornelli,
armeggiò per un po’ con piatti e pentole e
risalì in fretta tenendo tutto in
equilibrio con una tale abilità che Stefano, guardandola,
pensò che sulle travi
della torre se la sarebbe cavata ancora meglio di lui. Quando fu
sparita, nella
cucina scese di nuovo il silenzio, ma Amelia aveva cambiato idea. Non
aggiunse
altro. Fece scendere Stefano dal tavolo e lasciò i due
bambini a mangiare da
soli, mentre lei andava di sopra a controllare che in sala da pranzo
fosse
tutto a posto, non prima di averli invitati a non fare troppa
confusione e a
non scappare chissà dove, come al solito.
La calma non durò a
lungo. Stavano mangiando da pochi minuti, quando Stefano
tirò una delle
treccine di Claudia, che gli lanciò un pezzo di pane, a cui
lui rispose con un
tovagliolo appallottolato che cadde nel piatto delle verdure. Al che la
bambina, in mezzo alle risate soffocate, gli tirò un calcio
sotto il tavolo.
Stefano si spostò in fretta e riuscì a schivarlo
quasi completamente, ma la
punta della scarpa di Claudia gli sfiorò la ferita e la
risatina si trasformò
in un gemito di dolore che non poté né
cercò di trattenere. Quando era da solo
con Claudia non si preoccupava di queste cose. La prova alla torre non
lo aveva
stancato, anzi. Era solo un po’ indolenzito e ammaccato per
colpa della caduta,
ma non aveva nessuna voglia di riposare o starsene buono. Aveva addosso
una
sorta di frenesia. Sentiva di volere ancora qualcos’altro,
quel giorno, sebbene
non sapesse che cosa.
Prese una melanzana dal
suo piatto e si allungò per schiacciarla sulla faccia di
Claudia, che saltò
indietro strillando e ridendo. In quel momento Amelia riapparve sui
gradini
della porta, vide il caos sulla tavola e alzò gli occhi al
cielo. I bambini si
bloccarono e la guardarono, sospesi, aspettandosi che ricominciasse la
tirata,
ma questa volta la donna non disse nulla. Probabilmente era stanca di
rimbrotti, per quel giorno.
«Avete finito? Stefano,
sparecchia. Senza rompere niente. Lascia i piatti
nel lavandino, poi ci
penso io. Tu» fece un cenno alla nipote, impegnata a pulirsi
pezzetti di
melanzana dal viso, «vieni sul terrazzo, mi aiuti a piegare
le lenzuola. E dopo
andiamo a dare una sistemata in sala da pranzo, quando Enrico e il
signor
Falconeri hanno finito. Su, sbrigatevi.»
I bambini si
scambiarono un’occhiata mesta: il divertimento era finito,
almeno per ora.
Amelia cercava sempre il modo di separarli per un po’,
perché diceva che quando
passavano troppo insieme diventavano pericolosi. Claudia fece per
avviarsi
dietro la nonna, che era già uscita dalla cucina con il
solito passo svelto,
poi ci ripensò. Tornò indietro.
«Senti» cominciò,
incerta, «io…»
Mentre lo guardava
arrossì. Stefano, che la fissava con aria interrogativa,
pensò che le sue
guance sembravano due piccole mele autunnali con le fossette e
all’improvviso
provò una sensazione di calore al collo e al volto. Claudia
tentennava, poi la
voce spazientita di Amelia piombò fino a loro come uno
schiocco.
«Claudia!»
Lei si girò rapida
verso la porta, poi di nuovo verso Stefano. Era visibilmente indecisa.
Alla
fine il dovere – o forse la paura di altre sgridate
– ebbe la meglio. «A dopo»
disse a mezza voce e si avviò alla porta con passo pesante,
strascicando i
piedi, la testa china.
Rimasto solo, Stefano
sparecchiò in fretta la tavola, rimuginando sullo strano
comportamento di
Claudia. Che cosa aveva? Loro tre non facevano mai così
l’uno con l’altro, come
se non riuscissero a parlare. Si dicevano tutto apertamente e anche se
a volte
questo li faceva litigare, poi facevano pace. Come quella volta in cui
Enrico e
Stefano avevano accusato Claudia di aver preso il dolce più
grande da un
vassoio invece di dividerlo in tre parti uguali, come facevano sempre.
Chissà
cosa stava per dirgli.
Quando ebbe finito
gironzolò per un po’ senza meta, ma la cucina era
uno spazio troppo ristretto
per contenere quella frenesia che lo spingeva a muoversi di continuo.
Salì i
gradini e uscì nel cortile sotto il sole cocente e
abbagliante. Strizzò gli
occhi, schermandoli con la mano per guardarsi intorno. Il vecchio
Michele non
c’era più e i suoi attrezzi da giardino giacevano
abbandonati nell’aiuola.
Forse era andato a pranzo anche lui. Le tre biciclette erano ancora
dove le
avevano lasciate, distese nel viale. Di tanto in tanto un alito di
vento caldo
sollevava pianissimo le tende bianche delle portefinestre con un rumore
lieve,
come di vele che si gonfiavano. Tutto era silenzio e pace, eppure
Stefano non
riusciva a smettere di pensare di dover fare ancora qualcosa, dopo la
prova di
coraggio.
Considerò di riprendere
la bici e pedalare da solo per un po’, a tutta
velocità, magari esplorare
qualche posto nuovo – anche se ormai conosceva quasi tutta
l’isola palmo per
palmo – e poi mostrarlo a Enrico e Claudia. Sapeva,
però, che se fosse sparito di
nuovo per ore, per giunta da solo, Amelia si sarebbe arrabbiata di
nuovo e stavolta
anche sua madre. Sbuffò. Raccolse da terra una manciata di
pietruzze grigiastre
e cominciò a lanciarle una dopo l’altra, cercando
di colpire il centro esatto
di un’aiuola. Quando non c’era niente altro di
meglio da fare e non potevano
uscire, magari perché minacciava pioggia, lui ed Enrico
facevano spesso quel
gioco per passare il tempo. Claudia, invece, lo trovava noioso da
morire.
Era talmente
concentrato che all’inizio non badò a uno strano
formicolio alla nuca, come se qualcuno
lo stesse osservando. Poi sentì un brivido lungo la schiena.
Si fermò mentre
prendeva la mira per un lancio, la testa inclinata da un lato, un
occhio
chiuso, e a quel punto notò un’ombra
sull’erba. C’era qualcuno dietro di lui.
Si girò e i suoi occhi incrociarono quelli di Edoardo
Falconeri. Era una figura
imponente, alta e dalla corporatura leggermente robusta, sebbene non
fosse
grasso. Aveva gli occhi azzurri, identici a quelli di suo figlio (il
marchio
dei Falconeri: così diceva Amelia, perché quasi
tutti, nella famiglia, avevano
sempre avuto gli occhi di quel colore) e lineamenti forti, netti,
eleganti: il
naso lungo e dritto, gli zigomi alti, la bocca ben modellata, il
sorriso
affascinante, le mascelle ricoperte da un velo di barba ben curata.
Stefano
aveva sentito dire che aveva molto successo con le donne, anche se non
sapeva
esattamente cosa significasse o perché fosse una cosa di cui
vantarsi. Edoardo
Falconeri indossava camicia e pantaloni bianchi, come sempre in estate,
e
fumava un sigaro tenendolo sulla punta delle labbra. Doveva appena
essere sceso
dal ballatoio. Per un po’ rimase fermo, ricambiando lo
sguardo del bambino, poi
gli si avvicinò a passi lenti, quasi annoiati. Si tolse il
sigaro dalla bocca
ed emise una nuvoletta di fumo bianco.
«Lanci bene. Hai una
buona mira.» Il tono freddamente cortese era lo stesso che
Stefano gli sentiva
usare quasi sempre. «Bravo.»
«Lo so» rispose lui,
raddrizzandosi.
Non pensò di
ringraziare: era una lode meritata, in fondo, quindi non gli sembrava
necessario. Edoardo terrorizzava Claudia, che scappava quando lo
sentiva
arrivare, e perfino Enrico cercava sempre di evitarlo, se poteva, ma
Stefano
sapeva tenergli testa con uno strano miscuglio di coraggio e
impertinenza.
Tutti al baglio erano intimoriti dal signor Falconeri, dalla sua voce
gelida e
controllata, dalla sua rabbia silenziosa, ma affilata come la lama del
vecchio
rasoio con cui si faceva la barba. Enrico aveva raccontato a Stefano
che era un
cimelio di famiglia, appartenuto al nonno di Edoardo. Lui lo usava con
una
delicatezza inaspettata per quelle mani grandi e forti. Una volta
Enrico aveva
fatto intrufolare Stefano nella camera da letto di suo padre per
mostrarglielo,
ma erano riusciti a osservarlo solo per qualche istante, affascinati al
pensiero di avere tra le mani una cosa tanto antica, prima di sentire i
passi
di Amelia che si avvicinavano. Stefano avrebbe voluto nascondersi e
aspettare
che la governante andasse via, ma Enrico lo aveva costretto a scappare
di
corsa, tirandoselo dietro. Lei si sarebbe infuriata trovandoli con un
rasoio
affilato in mano, e ancora di più si sarebbe irritato il
padre di Enrico per
quella violazione.
Al baglio tutto era
scandito dai desideri del signor Falconeri e tutti si muovevano in
punta di
piedi nel timore di contrariarlo, tranne Stefano. Lui si ostinava ad
affrontarlo con una disinvoltura che non diventava mai mancanza di
rispetto. Eppure
quell’atteggiamento faceva arrabbiare Amelia, spaventava
Claudia e rendeva
Enrico stranamente silenzioso. Stefano sapeva sempre, in qualche modo
misterioso, fino a che punto poteva spingersi con Edoardo e sospettava
che in
fondo le sue risposte sicure e spavalde gli piacessero. Probabilmente
erano un
diversivo divertente per lui, abituato a essere trattato con deferenza
da tutta
l’isola.
Edoardo rivolse al
bambino un sorriso soddisfatto simile al ghigno di un gatto che si
scalda
davanti al fuoco in pieno inverno. «Che cumbinasti?»
Indicò la gamba fasciata
di Stefano con il sigaro che aveva in mano.
Il bambino alzò le
spalle. «Niente, è un graffio. Ho fatto una prova
di coraggio e sono caduto.»
Il signor Falconeri
continuava a fumare il suo sigaro con gesti morbidi, eleganti, e
Stefano li
seguiva con lo sguardo anche se sapeva – Amelia glielo aveva
ripetuto decine di
volte – che fissare era da maleducati.
«Una prova di
coraggio?» Edoardo accennò un altro sorriso.
«C’era anche Enrico? Si è fatto
male pure lui?»
Stefano ebbe
un’esitazione. «Sì, Enrico
c’era...» Tacque. Non voleva dire altro, aveva la
sensazione che sarebbe stato sbagliato, anche se non capiva
perché. Ma con
Edoardo Falconeri era inutile mentire. Sembrava che lui sapesse sempre
tutto di
quelli che aveva di fronte. Li scrutava con quegli occhi di cielo e un
sorriso
sardonico che tagliava in due e li sfidava silenziosamente a batterlo,
a dirgli
qualcosa che lui, in cuor suo, non avesse già capito, e da
molto tempo. Neanche
Stefano, con tutta la sua faccia tosta, era mai riuscito a ingannarlo.
«Enrico non ha fatto
nessuna prova di coraggio, vero?»
Edoardo continuava a
sorridere e a Stefano venne in mente che Claudia aveva più
paura di lui proprio
quando sorrideva. Restò in silenzio, pensando che il signor
Falconeri si
sarebbe arrabbiato, perché non rispondeva alle sue domande.
Invece lui rimase
calmo. D’altra parte, Stefano non ricordava di averlo mai
visto scomporsi per
qualcosa.
«Tranquillo, lo so che
non parli. Sei un bravo bambino, tu» disse Edoardo
lentamente. «Sei leale, sei
forte, sei coraggioso.» Mentre parlava gli si
avvicinò ancora un po’,
studiandolo con un’aria di vaga curiosità. Stefano
resse il suo sguardo senza
indietreggiare, anche se Edoardo era così vicino che quasi
incombeva su di lui
e doveva inclinare la testa per riuscire a vederlo in faccia.
«Cerca di far
diventare mio figlio un po’ più simile a te,
d’accordo?»
Stefano non rispose.
Era inquieto e avvertiva uno strano, confuso disagio che non sapeva
spiegare. A
Edoardo Falconeri non serviva un assenso per sapere che gli altri
avrebbero
fatto quello che diceva. Gli diede un buffetto sulla testa, si
girò e tornò da
dove era venuto, rientrando in casa da una delle portefinestre.
«Stefano! Stefano, dove
sei?»
Il bambino stava ancora
fissando il punto in cui Edoardo era scomparso, come ipnotizzato. Si
riscosse
sentendo la voce che lo chiamava. Era Claudia. D’istinto
sorrise, guardandosi
intorno, e la vide spuntare di corsa dalla cucina. Doveva essere scesa
dal
terrazzo sul tetto utilizzando le scale di servizio. Si
fermò un attimo a
prendere fiato, poi individuò Stefano e il suo viso si
illuminò come l’albero
di Natale quando Amelia accendeva la batteria di luci colorate. Stefano
la
salutò con la mano e lei gli corse incontro, le treccine che
saltavano su e giù
sulle spalle e la gonna del vestito di cotone azzurro che si gonfiava.
«Ti stavo cercando»
esclamò quando lo raggiunse, affannata. «Pensavo
che ti eri andato ad ammucciari
chissà dove.»
Stefano rise. Qualche
volta, raramente, capitava che si allontanasse senza gli altri due, per
qualche
esplorazione o gioco solitario. Ogni tanto ne avvertiva il bisogno.
Amelia non
si dava la pena di provare a cercarlo, sapeva che sarebbe stato inutile
se lui
non voleva farsi trovare. Gli mandava dietro Claudia, che partiva
correndo come
un razzo e poi, dieci minuti o mezz’ora dopo, tornava tenendo
il fuggitivo
saldamente per mano.
«Ti manda tua nonna?»
Lei scosse la testa con
forza e all’improvviso arrossì. «No. Si
è distratta a piegare le lenzuola e
sono scappata. Io… volevo… non hai avuto il tuo
premio» balbettò.
Stefano la fissò,
sconcertato. «Che premio?» Prima ancora di finire
la frase, di colpo capì.
Claudia fece un respiro
profondo, poi si sporse verso di lui con le mani dietro la schiena e lo
baciò
sull’angolo della bocca, quasi sulla guancia, come se fosse
stata indecisa fino
all’ultimo sulla direzione da prendere. Era accaldata e
Stefano, lì impalato,
seppe che avrebbe ricordato per sempre la sensazione delle sue labbra
sulla
pelle. La faccia gli andò a fuoco mentre si chiedeva come
avrebbe fatto a
guardarla ancora negli occhi dopo quello. Claudia gli
risparmiò quel momento
critico, perché di colpo si staccò, gli
voltò le spalle senza farsi vedere in
viso e corse via di nuovo, tuffandosi nella cucina come se avesse un
mostro
alle calcagna.
Stefano non si mosse.
Paralizzato dallo stupore, immaginava Claudia che saliva di nuovo su
per le
scale e tornava sul terrazzo ad aiutare la nonna prima che si
accorgesse della
fuga. Per la prima volta nella sua vita era rimasto senza parole.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo 3. La spina ***
CAPITOLO 3
LA SPINA
Sicilia,
Isola di Santo Stefano
Agosto 1988
Enrico
lasciò cadere a
terra la bicicletta e partì di corsa verso casa, mentre
Stefano e Claudia
restavano lì a farsi strigliare da Amelia. Il cuore gli
batteva fortissimo e aveva
le mani sudate. Quando era in giro e giocava con i due amici di solito
riusciva
a scordarsi di suo padre, ma poi tornava a casa ed era come
risvegliarsi da un
bel sogno e piombare nella realtà. I rimproveri della
governante erano stampati
a lettere di fuoco nella sua testa. Quanto era tardi? Da quanto tempo
suo padre
lo aspettava a tavola? Riusciva a immaginarlo, seduto al grande tavolo
di
quercia della sala da pranzo, un bicchiere di vino in una mano e
l’altra che
tamburellava sul tavolo apparecchiato, il viso che diventava sempre
più scuro.
Enrico salì la scala a
rotta di collo e si fiondò in salotto dalla portafinestra.
Era una stanza
grande, arredata con mobili di mogano dall’aria antica e
pesante: due enormi
vetrine piene di argenti e porcellane, un mobile bar in un angolo
carico di
bottiglie di liquore che Amelia aveva messo sotto chiave dopo aver
sorpreso i
bambini ad assaggiare il cognac, due consolle
dal ripiano in
marmo bianco venato di grigio e un tavolo basso, ovale, posizionato tra
due
divani ricoperti di damasco verde e oro al centro della stanza. Dal
soffitto
pendeva un enorme, elaborato lampadario in ferro battuto. Il colore
cupo dei
mobili contrastava con il pavimento di maioliche bianche decorate da
motivi
verdi e gialli. Al centro, in corrispondenza del tavolino ovale, le
piastrelle
componevano il disegno di una rosa dei venti. Nell’angolo
accanto alla
portafinestra c’era un pianoforte a coda.
Senza fermarsi a
prendere fiato, Enrico si slanciò attraverso la porta che
conduceva alla sala
da pranzo. Era grande e luminosa come il salotto e arredata nello
stesso stile.
Il lampadario a volute di ferro era identico e le maioliche avevano un
disegno
molto simile a quello del salotto, nei toni del blu e del giallo.
Edoardo
Falconeri era seduto a tavola, ma non beveva vino. Aveva
un’espressione
indecifrabile. Accanto al suo piatto ancora vuoto, sulla tovaglia di
damasco
bianco, c’era il solito sigaro che fumava sempre dopo i
pasti. Piombando a
tutta velocità nel silenzio della sala, il bambino si rese
conto di colpo del
baccano che stava facendo, ma riuscì a frenare solo quando
ebbe raggiunto il
suo posto, alla sinistra di suo padre.
«Scusa il ritardo,
papà» ansimò, ancora più
accaldato, sudato e rosso in viso di quando era sceso
dalla bici. Fece ancora più rumore mentre spostava la sedia,
poi urtò le posate
facendole tintinnare tra loro. Ogni minimo suono gli sembrava
amplificato, come
in uno stadio vuoto. Cercò di respirare, per calmarsi e
rallentare il battito
del cuore. Non osava guardare verso suo padre, che invece, ne era
certo, lo
stava fissando.
Edoardo rimase in
silenzio, immobile, per alcuni, lunghissimi secondi. A Enrico sembrava
di vederli
scorrere uno dopo l’altro come i granelli di sabbia in una
clessidra. Poi entrò
Clara.
«Posso portare il
pranzo, signor Falconeri?» domandò.
Lanciò uno sguardo rapido al bambino e per qualche
motivo serrò le labbra.
«Sì, grazie, Clara» fu
la sommessa, fredda risposta di Edoardo.
La cameriera uscì e
cadde di nuovo il silenzio. Enrico rimase perfettamente immobile,
cercando di
non muovere neanche un muscolo, il cuore che gli martellava sordo nelle
orecchie e non voleva saperne di placarsi, gli occhi fissi sulle due
portefinestre spalancate davanti a lui. Suo padre era così
silenzioso da
sembrare un fantasma. Enrico non si era aspettato
un’esplosione, sapeva che non
era da lui, eppure avrebbe preferito mille volte una sfuriata da far
tremare i
muri a quel nulla assordante che lo faceva sentire come se stesse
precipitando
in un pozzo. Gli parve che fosse passato un secolo quando finalmente
Clara
tornò con il primo, busiate
con il pesto alla
trapanese. Guardò il piatto pieno davanti a sé e
un’ondata di nausea gli colpì
lo stomaco. Non aveva la minima voglia di mangiare, ma non voleva
attirare
l’attenzione di suo padre. Doveva comportarsi normalmente. Si
costrinse a
prendere la forchetta e mandare giù il primo boccone,
nonostante avesse la gola
serrata. Intanto osservava i giochi colorati della luce calda del primo
pomeriggio che passava attraverso la brocca e i bicchieri di cristallo.
Chissà dov’erano
Claudia e Stefano, chissà cosa stavano facendo. Avrebbe
tanto voluto essere con
loro, con chiunque altro, in qualunque altro posto che non fosse
lì, con la
sensazione di soffocare mentre si sforzava di mandare giù
tutto in silenzio, di
ubbidire, di non sbagliare ancora. Il cuore martellava furiosamente,
come era
successo prima, alla torre saracena, quando aveva guardato dal basso la
sua
cima frastagliata e aveva pensato che non ce l’avrebbe mai
fatta, che non
avrebbe sostenuto nessuna prova di coraggio. Lo aveva capito subito,
anche se
aveva fatto finta di nulla. Ma era servito a qualcosa, poi? Quando
Stefano lo
guardava, Enrico aveva l’impressione che i suoi occhi lo
trapassassero da parte
a parte, come quelli di suo padre. Gli leggevano dentro, tutti e due.
Serrò tra
le dita il manico della forchetta.
Clara rientrò in sala
da pranzo e, sempre nel silenzio più assoluto, tolse i
piatti vuoti (con uno
sforzo enorme, Enrico era riuscito a finire tutto) e portò
il secondo: orata al
forno con patate e peperoni. Era una delle specialità di
Amelia, un piatto che preparava
sempre quando voleva fare buona impressione su qualche ospite, ed
emanava un
profumo delizioso. Eppure gli si rivoltò lo stomaco, di
nuovo. Per un attimo
pensò di chiedere il permesso di alzarsi, ma
scartò l’idea ancora prima di
formularla davvero. Non ne aveva il coraggio. Controvoglia, prese la
forchetta
che Clara gli aveva appena cambiato e cercò di mangiare.
Tenne gli occhi fissi
sul piatto mentre mandava giù un boccone dopo
l’altro quasi senza sentirne il
sapore, pensando solo che doveva finire, perché quando
avesse finito e anche
suo padre si fosse alzato lui sarebbe stato libero di correre via, a
cercare
Stefano, e respirare di nuovo. Qualche volta Amelia preparava anche un
dolce o
il gelato fatto in casa, ma Enrico pregò che quella volta
non ne avesse avuto
il tempo.
Poi, all’improvviso, la
voce di suo padre infranse il silenzio. Sebbene fosse bassa e calma,
irruppe
nei suoi pensieri come se avesse sfondato con un calcio la porta di una
stanza
chiusa.
«Sai, Enrico, quando
ero picciriddu
avevo qualche problema a
rispettare le regole. A fare quello che ci si aspettava da
me.» Appena iniziò a
parlare, Enrico si paralizzò, stringendo con forza la
forchetta fino a sentire
dolore. Ecco, il momento arrivato. «Mio padre ci teneva
moltissimo, voleva che
io imparassi a comportarmi come si addice a un Falconeri, ma io proprio
non
capivo perché fosse così importante. Anche io
facevo tardi a tavola e
dimenticavo di fare i compiti per andare in giro a giocare. Mio padre
mi
rimproverava per questo. Accadde una, due, tre volte, poi, la sera in
cui non
mi presentai in tempo a una cena con i suoi amici, ospiti importanti,
decise
che sarei andato a letto a stomaco vuoto. Così ho iniziato a
imparare.» Fece
una pausa. Parlava lentamente, senza usare parole in dialetto, ma con
un
accento piuttosto pesante. Nessuno avrebbe potuto ascoltarlo e non
capire che
era siciliano. Enrico respirava appena, cercando di diventare
invisibile. «Un
giorno, avevo circa la tua età, mi comprò un
canarino. Io pensai che fosse un
regalo. Ero contento, mi piaceva sentirlo cinguettare al mattino,
quando mi
svegliavo. Mi divertivo a dargli da mangiare. Lui disse che sarei stato
io a
prendermi cura del canarino, era una mia responsabilità.
All’inizio non capii
esattamente cosa significasse. Per qualche giorno svolsi il mio compito
con
precisione. Mi sentivo più grande, perché dovevo
occuparmi di un altro essere
vivente.
Poi, dopo un po’ di
tempo, iniziai a stancarmi. Dissi ad Amelia di controllare ogni giorno
che il
canarino avesse cibo e acqua, così, se un giorno avessi
dimenticato di
darglieli, ci avrebbe pensato lei. Quasi smisi di preoccuparmi del mio
canarino, finché una mattina mi accorsi che non cantava
più. Andai a guardare
nella sua gabbia e lo trovai morto.» Enrico guardò
suo padre, incapace di
trattenersi. Lui non ricambiò lo sguardo: fissava un punto
davanti a sé, preso
dal suo racconto, e andò avanti. «Mio padre aveva
saputo che avevo chiesto ad
Amelia di aiutarmi e le aveva proibito di occuparsi del canarino al
posto mio.
Io piansi e lo odiai per quello che aveva fatto, ma poi mi resi conto
che era
solo colpa mia. Non avevo capito che il canarino non era un regalo. Era
una
prova. E io avevo fallito. Capii che mio padre voleva farmi crescere,
perché se
non fossi cresciuto non sarei mai diventato un vero
Falconeri.» All’improvviso
Edoardo piantò gli occhi su Enrico e il bambino
sussultò come se lo avesse schiaffeggiato.
«Secondo te c’è riuscito?»
domandò con voce tagliente.
Enrico non si aspettava
di essere interpellato. Abbassò lo sguardo sul proprio
piatto, incapace di
sostenere a lungo quello del padre. Non sapeva cosa dire, ma qualcosa
gli suggeriva
che lui non voleva una risposta. Voleva qualcos’altro.
«Mi dispiace, papà, io…»
La sua voce bassa e
incerta fu interrotta dall’ingresso improvviso di Amelia.
«Sono venuta a vedere
se va tutto bene» disse con un sorriso un po’
forzato quando era ancora sulla
soglia, prima di entrare in sala da pranzo.
Andava sempre di corsa,
lei: parlava in fretta e si muoveva in fretta, e con precisione,
perché in
quella casa così grande e difficile da gestire tutto
dipendeva da lei. Era raro
vederla seduta a riposarsi. Avvicinandosi alla tavola, Amelia
guardò Enrico e
gli occhi castano chiaro, come quelli di Claudia, si spalancarono, per
poi
ridursi a due fessure subito dopo. Il bambino seguì la
direzione del suo
sguardo e si accorse con orrore che nella fretta di correre a pranzo
aveva
dimenticato di cambiarsi: indossava ancora la maglietta di quella
mattina,
sporca e strappata. Suo padre se ne era sicuramente accorto, non gli
sfuggiva
mai nulla. A volte lo rimproverava perché aveva una traccia
di inchiostro sulle
mani invisibile a chiunque altro. Ecco perché Clara lo aveva
guardato in quel
modo strano mentre serviva a tavola. Enrico deglutì e
lanciò un’occhiata di
scuse imploranti alla governante, ma lei voltò la testa con
uno scatto
irritato.
«Avete bisogno di
qualcosa?»
«No, grazie, Amelia. È
tutto perfetto, come al solito» rispose il signor Falconeri.
Tolse il
tovagliolo che stendeva sempre con cura sulle ginocchia, lasciandolo
cadere sul
tavolo, e si appoggiò all’indietro contro lo
schienale della sedia di legno,
imbottita e rivestita di un delicato damasco color crema.
«Dimmi, ti ricordi
del mio canarino?» aggiunse con tono quasi noncurante, ma
Enrico non si lasciò
ingannare. Conosceva quell’inflessione dura come il legno
della sedia, che ora
il bambino stringeva nervosamente tra le mani: aveva lasciato la
forchetta per
aggrapparsi a qualcosa di più solido.
Amelia fissò Edoardo
per un momento, poi lanciò un’occhiata a Enrico e
sul suo viso comparve un
lampo di consapevolezza. Abbassò la testa e lui non
riuscì a capire se fosse
dispiaciuta o ancora arrabbiata o tutte e due le cose.
«Sì, signor Falconeri.
Me lo ricordo» rispose a mezza voce. Esitò, come
se fosse sul punto di
aggiungere qualcosa, ma poi cambiò idea. «Se non
c’è altro, torno in cucina.»
Aveva un’espressione
dura, poco meno di quella del signor Falconeri. Enrico aveva capito da
qualche
anno che Amelia non aveva simpatia per suo padre e che i suoi metodi
non gli
piacevano, ma non poteva dire nulla a voce alta. Edoardo
inspirò, poi annuì. La
governante lanciò un’ultima occhiata ammonitrice a
Enrico e uscì dalla sala
pranzo e lui si trovò di nuovo da solo con suo padre.
Edoardo, però, non
riprese subito a parlare. Restò in silenzio per un tempo che
a Enrico parve
infinito, ma lui non si azzardò a infrangerlo. Sapeva che
non stava riflettendo
su come continuare, né voleva dare a lui il tempo di dire
qualcosa o chiedere
scusa. Lo stava mettendo alla prova, sfidandolo a resistere, sapendo
che il
bambino temeva i suoi silenzi molto più di una tremenda
sgridata. Enrico
strinse il bordo della sedia tra le dita, il corpo in tensione,
fissando dritto
davanti a sé, e si costrinse a resistere, ad aspettare, a
non deludere suo
padre, anche se gli mancava l’aria, anche se
l’unica cosa che avrebbe voluto
fare era correre via… La tentazione era così
forte che quasi faceva male. Per
un istante terribile fu sul punto di alzarsi, poi sentì di
nuovo la voce di suo
padre e fu come se un gancio lo tirasse indietro, inchiodandolo
dov’era.
«Tu ti scusi sempre,
Enrico. Sei un bambino educato. Il punto è che non
è abbastanza. Lo capisci?»
Sì, lo capiva. Non era
mai abbastanza, ma il problema era che non aveva idea di cosa fare per
esserlo.
Suo padre si aspettava che in qualche modo ci arrivasse da solo, ma per
quanto
ci riflettesse, per quanto ci provasse, tutto quello che faceva era
sempre
sbagliato. Si limitò ad annuire. Non aveva voglia di parlare
e comunque non
avrebbe avuto nulla di importante da dire.
«Rispondimi quando ti
parlo, per favore» aggiunse Edoardo, con voce appena
più dura.
Enrico trasalì e si
raddrizzò sulla sedia. «Sì.
Sì, papà» mormorò,
controvoglia. Ci fu un attimo di
silenzio, durante il quale sentì suo padre emettere un
sospiro lieve.
«Quando ero picciriddu
io… erano altri tempi. E ho sempre pensato che tu fossi
troppo lofiu
per quel genere di
lezioni» disse Edoardo. Enrico capì che si
riferiva alla storia del canarino.
«Però continui a non imparare.»
All’improvviso qualcosa
scattò dentro Enrico. «Io non sono
debole» si sentì protestare, come se si
osservasse dall’esterno.
«Allora dimostralo.
Smetti di farti trascinare. Dovrebbe essere Stefano a seguire te, non
il
contrario. Sei il più grande, sei mio figlio. E guarda in
che condizioni sei… È
questo il modo in cui Enrico Falconeri si presenta a tavola?»
«Mi dispiace, papà, ma
Stefano e Claudia…» Capì subito di aver
commesso un errore, ma era tardi.
La voce di suo padre
divenne di ghiaccio. «Non mi interessa cosa fanno gli altri. Tu
sei un
Falconeri, non loro.» Fece un respiro pesante, come per far
uscire la rabbia e
mantenere il solito controllo ferreo. Per qualche secondo rimase in
silenzio a
guardare nel vuoto con aria assente. Ancora una volta Enrico tacque
insieme a
lui. Sapeva che quando si estraniava in quel modo pensava a sua madre.
Poi
Edoardo riprese a parlare. Il tono divenne leggermente più
morbido, velato di
tristezza. «So che deve sembrarti molto severo, ma se non
capisci queste cose
adesso non ne capirai altre più importanti, in
futuro.» Si alzò, spingendo
indietro la sedia con un forte stridio sul pavimento, ed Enrico
trasalì.
Afferrò il sigaro e si avviò alla portafinestra,
ma il bambino riuscì comunque
a sentire le ultime parole che pronunciò. «Cerca
di non deludermi di nuovo.»
****
Quando suo padre uscì
sul ballatoio per fumare, fu come se qualcuno avesse aperto la porta di
una
gabbia. Enrico schizzò in piedi e corse fuori. Si
infilò nel corridoio, salì al
secondo piano, passando sotto le porte ad arco e scivolando sulle
maioliche colorate
del corridoio. Non incontrò nessuno. La casa sembrava
deserta, immersa in una
calda sonnolenza. Si tuffò nella sua stanza e poi nel
piccolo bagno. Si guardò
allo specchio: il viso era arrossato e l’azzurro degli occhi
sembrava più
intenso e luminoso del solito. Le sue spalle si irrigidirono quando
notò una
macchia di terra sulla guancia e pensò che suo padre
l’aveva vista, l’aveva
visto in quelle condizioni. Aprì al massimo il rubinetto e
si tuffò sotto
l’acqua fredda. Si strofinò il viso con forza,
cercando di lavare via la
macchia insieme a tutto quello che aveva tanto deluso suo padre, ancora
una
volta.
Non avrebbe mai avuto
il coraggio di raccontargli della prova che non aveva sostenuto,
dell’ansia che
gli aveva afferrato lo stomaco quando aveva capito cosa voleva fare
Stefano,
del sollievo quando avevano deciso di tornare a casa e lui aveva
realizzato che
non era obbligato a fare la prova, che aveva una scusa per evitarla.
Non perché
fosse troppo spaventato dall’altezza o avesse paura di cadere
o farsi male. Sì,
aveva paura di tutte queste cose, ma dentro di sé sentiva
confusamente che il
vero problema era un altro. Chiuse gli occhi, mentre l’acqua
gli scorreva sul
viso e lungo il collo, e immaginò se stesso salire sulla
torre, da solo. Senza
Stefano, forse anche senza Claudia. Se Stefano non ci fosse stato, se
non fosse
andato per primo anche questa volta, se non ci fosse stata nessuna
gara,
sentiva che ce l’avrebbe fatta. Non era andata
così, però. Suo padre non sapeva
nulla di tutto ciò, Enrico glielo avrebbe nascosto per
sempre, se avesse
potuto, eppure lo aveva guardato come se in qualche modo lo
sospettasse, come
se potesse vedere attraverso gli occhi del figlio cosa era successo e
sorridere
freddamente della sua debolezza. Eppure non era colpa di suo padre se
non era
salito sulla torre. O forse invece lo era?
Troppo confuso per
ragionare con lucidità, chiuse il rubinetto con forza.
Tornò in camera, si
strappò via la maglietta sporca e strappata e ne prese
un’altra da un cassetto.
Di solito dopo aver pranzato con suo padre andava a cercare Stefano, ma
in quel
momento non aveva alcuna voglia di stare con il suo amico. Avrebbe
parlato
della prova di coraggio ed Enrico non voleva pensarci ancora: lo poneva
davanti
a un dilemma che non era in grado di risolvere. Ma cosa avrebbe fatto,
senza
Stefano? Era così abituato a passare con lui il tempo libero
che quando per
qualche ragione si ritrovava da solo era come se gli mancasse un pezzo
di sé.
Sedette sul pavimento e si guardò intorno.
La sua camera non gli
piaceva. Era arredata con gli stessi mobili cupi e pesanti del resto
della
casa, appartenuti a suo padre da bambino e probabilmente, ancora prima,
al
padre di suo padre: un letto enorme alto e scomodo, una scrivania, una
piccola
libreria, un armadio, una cassapanca, un comodino e un mappamondo
nell’angolo
accanto alla finestra. Era ordinata e immacolata come le altre stanze
del
baglio e non sembrava la camera di un bambino, ma di un vecchio signore
che
passava le giornate sul balcone a guardare il mare, senza sporcare
niente e
senza mettere in disordine.
Enrico cercava di
passarci meno tempo possibile. Non aveva mai pensato di cambiare
qualcosa,
sapeva che suo padre non sarebbe stato d’accordo.
L’unico tocco personale erano
delle stelle e dei pianeti di plastica fluorescenti che una volta aveva
attaccato su una parete insieme a Stefano, fin dove erano riusciti ad
arrivare
salendo su una sedia. Al buio si illuminavano ed Enrico si addormentava
guardandole e ripensando a quel momento. Il caos, i giocattoli e tutte
le sue
cose erano destinate alla stanza accanto, chiamata “la stanza
dei giochi”, dove
lui passava la maggior parte del tempo quando era a casa, facendo i
compiti,
leggendo o giocando.
Chissà se Stefano aveva
voglia di vedere le costruzioni nuove che suo padre gli aveva comprato?
Enrico
esitò un momento. Non era sicuro di cosa volesse fare, ma
almeno poteva provare
a cercare Stefano. Si alzò e uscì sul balconcino
che affacciava sul cortile,
nell’aria calda e stagnante. Guardò in basso e
accanto a una delle aiuole vide
Stefano che parlava con suo padre. Si bloccò di colpo, come
se qualcuno gli
avesse rovesciato addosso una bacinella di acqua ghiacciata. Edoardo
fumava il
suo sigaro, dava le spalle alla casa e non poteva vederlo, mentre
Stefano era
rivolto verso il balcone e guardava Edoardo. Se avesse spostato gli
occhi
avrebbe potuto notare Enrico sul balconcino. Di cosa stavano parlando?
D’istinto Enrico si
acquattò sul pavimento di cotto, che bruciava per essere
esposto al sole tutto
il giorno, nascondendosi dietro due piante di rose. Sentiva che
c’era qualcosa
di strano in quella scena, ma non capiva che cosa. Per un po’
non accadde nulla
e Stefano ed Edoardo continuarono a parlare, le voci troppo basse
perché lui
potesse ascoltare. Poi Enrico vide suo padre sollevare la mano e dare
un
buffetto sulla testa dell’amico prima di voltarsi e tornare
in casa con il
sigaro ancora fumante tra le dita. Lo stomaco gli sussultò
come se qualcosa lo
avesse strattonato, poi scivolò verso il basso, piano e
inesorabilmente, sotto
le suole delle scarpe. Suo padre non aveva mai fatto quel gesto con
nessuno,
prima. Non lo aveva mai fatto con lui.
All’improvviso aveva la
nausea. Non aveva più voglia di giocare con le costruzioni.
Cercò di strisciare
all’indietro, allontanandosi senza alzarsi in piedi dalla
ringhiera panciuta,
tutta volute e ghirigori in ferro battuto. Non doveva assolutamente
farsi
vedere. Poi colse con la coda dell’occhio un movimento, uno
svolazzo azzurro.
Tornò al suo posto e guardò di nuovo
giù, nascosto tra le rose: era Claudia che
attraversava di corsa il cortile. Da dove era spuntata? Era sicuro di
non
averla vista, prima. La bambina raggiunse Stefano e i due parlottarono
per
qualche secondo. Enrico avrebbe voluto tornare dentro e buttarsi sul
letto e
fissare il soffitto senza fare niente, ma non riusciva a trascinarsi
via da lì.
Continuava a guardare, come in attesa. Aveva l’assurda
sensazione che stesse
per succedere qualcosa e che, qualunque cosa fosse, lui dovesse
vederla. Così
seguì con gli occhi Claudia che si alzava sulle punte dei
piedi per baciare
Stefano e poi si voltava e scappava via, infilandosi nella cucina a
tutta
velocità, la gonna azzurra che le si gonfiava intorno come
una nuvola di
zucchero filato.
Enrico restò immobile,
congelato. Poi sentì qualcosa di caldo sulla mano.
Abbassò gli occhi e vide un
rivolo di sangue che scorreva su un dito: senza rendersene conto aveva
serrato
la mano intorno allo stelo di una rosa e una spina gli si era
conficcata nella
carne. Enrico osservò la sottile linea rossa che scivolava
lungo il dito come
se fosse qualcosa che non lo riguardava, sebbene avvertisse il bruciore
della
ferita. Di scatto chiuse la mano a pugno, intrappolando la spina nella
carne,
spingendola ancora più dentro. Faceva male.
Si mosse piano all'indietro, restando acquattato per terra, e
rientrò in casa, a testa bassa, senza voltarsi.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Capitolo 4. Quello che non è tuo ***
CAPITOLO 4
QUELLO CHE
NON È TUO
Sicilia,
Isola di Santo Stefano
Agosto 1988
Con
l’avanzare del
pomeriggio il caldo iniziava pian piano ad attenuarsi e il baglio
tornava
lentamente alla vita dopo aver sonnecchiato pigro tra il pranzo e il
tramonto.
L’acciottolio di pentole e piatti nella cucina e lo
scalpiccio sempre più
frenetico annunciavano la preparazione della cena, mentre il vecchio
Michele si
affannava da un angolo all’altro del cortile approfittando
delle ultime ore di
luce senza il sole martellante sulla nuca per portare a termine il
lavoro della
giornata e in casa le cameriere preparavano la sala da pranzo per la
cena.
Stefano sapeva che sua madre doveva essere con loro, a disporre uno dei
servizi
di porcellana dei Falconeri – quello meno costoso e
importante, per tutti i
giorni – sulla tovaglia di damasco candido, con la precisione
rigorosa che
richiedeva il signor Falconeri. O forse era in cucina ad aiutare Amelia
a
cucinare, con Claudia che sgambettava dietro di loro. Sua madre non era
una
grande cuoca, in verità, ma una mano in più era
sempre meglio che una mano in meno,
diceva sempre Amelia.
Lui, però, non stava
cercando sua madre. Era abituato a passare anche intere giornate senza
vederla,
perché era sempre al lavoro. Cercava Enrico. Non lo aveva
più visto da quando
erano tornati dalla torre e lui era entrato in casa di corsa, trafelato
e con
la solita aria allarmata che gli veniva quando temeva di aver fatto
arrabbiare
suo padre. Senza di lui si stava annoiando. Forse, mentre tutti erano
occupati
con la cena, avrebbero potuto riprendere le bici e fare un ultimo
giretto prima
del buio, strappando un’altra ora di libertà,
un’altra ora fuori dalle mura
alte e spesse del baglio che a volte sembravano i confini di una
prigione.
Enrico, però, era
introvabile. Stefano aveva già fatto il giro della casa un
paio di volte,
chiamandolo a gran voce, senza vedere nemmeno la sua ombra. Nella
stanza dei
giochi al primo piano aveva trovato il castello che Enrico stava
costruendo con
i Lego nuovi che gli aveva regalato suo padre mezzo distrutto. I pezzi
erano sparpagliati
sul pavimento in tutte le direzioni, come se qualcuno lo avesse colpito
con
violenza. Stefano aveva osservato quel disastro per un po’,
fermo sulla soglia,
turbato, poi era scivolato via in silenzio con la sgradevole sensazione
di aver
visto per caso qualcosa che non avrebbe dovuto vedere.
Era possibile che
Enrico fosse andato da qualche parte senza di lui? Ma no, loro due
facevano
sempre tutto insieme. Claudia qualche volta non poteva seguirli, se sua
nonna
glielo proibiva o le affidava una faccenda da sbrigare, ma Enrico e
Stefano
erano inseparabili. Forse Edoardo lo aveva messo in punizione per aver
fatto
tardi a pranzo per la millesima volta? Forse, ma allora non avrebbe
dovuto starsene
in camera sua?
Mentre attraversava il
cortile, pensieroso, a testa bassa, all’improvviso
raddrizzò il collo, si fermò
per un momento, poi tornò sui suoi passi. C’era un
solo posto dove ancora non
aveva guardato. Davanti a lui, lungo il lato est del cortile,
c’era una porta
di ferro spessa, bassa e stretta che conduceva alle cantine.
Lì dentro c’erano
le bottiglie del vino Falconeri di Santo Stefano e poi botti antiche e
oggetti
legati alla produzione del vino ormai non più utilizzabili,
che però la
famiglia conservava da generazioni, come una specie di piccolo museo da
mostrare ad amici e visitatori. Di solito la porta era chiusa con una
chiave
conservata nello studio del dottor Falconeri e quello era un limite che
nemmeno
Stefano aveva mai pensato di superare. Infilarsi nello studio di
Edoardo per
sottrarre qualcosa era troppo anche per lui. Una volta lo aveva
proposto a
Enrico per finta e si era divertito a osservato la sua faccia sbiancare
di
colpo come se qualcuno gli avesse lanciato addosso un sacco di farina.
Stefano non
ricordava di aver mai riso così tanto come quel giorno.
Si accostò alla porta
della cantina e si rese conto che non era più chiusa a
chiave. Era solo
accostata. Possibile che Enrico fosse lì? Si
guardò intorno rapidamente per
controllare che nessuno lo vedesse, mise entrambe le mani sulla
superficie di
ferro scaldata dal sole e spinse, senza troppa forza, cercando di non
fare
rumore. La porta era pesante, ma sotto il suo peso si aprì
abbastanza
docilmente. Stefano scese con un salto tre gradini di pietra alti e
irregolari
e atterrò sul pavimento, poi si girò e
accostò di nuovo la porta dietro di sé,
perché sembrasse chiusa. Si ritrovò nella
penombra fresca e cupa di un ambiente
vasto. Fece qualche passo sul pavimento di pietra consunta dal tempo,
guardandosi intorno.
Prima di allora era
stato nella cantina solo un’altra volta: quando aveva cinque
anni il signor
Falconeri lo aveva portato con sé a fare un giro
lì sotto. Aggrappato alla mano
di Edoardo, Stefano aveva osservato con gli occhi sgranati le sale
grandi e buie
che si succedevano una dopo l’altra, le file di botti
incastrate all’interno di
strutture di legno antico addossate alle pareti dal pavimento fino al
soffitto
a volta, i vecchi attrezzi ancora perfettamente conservati,
l’enorme cisterna
dove in passato era tradizione che le giovani contadine pestassero
l’uva con i
piedi durante la vendemmia. Edoardo aveva girato una specie di piccola
chiave
in una delle botti e ne era uscito il vino, di un rosso cupo e pieno di
riflessi che avevano lasciato Stefano a bocca aperta. Poi ne aveva
fatto cadere
in un bicchiere alto e stretto e lo aveva avvicinato al bambino
perché lo
annusasse. A Stefano sembrava di poter sentire ancora quel profumo
dolce e
intenso, ma la cosa che ricordava più di tutte era la
sensazione della mano
grande e stranamente fredda di Edoardo Falconeri che stringeva la sua,
minuscola al confronto. Era l’unica volta in cui lo aveva
preso per mano e gli
aveva trasmesso un senso di sicurezza che dopo Stefano non aveva
più avvertito.
A volte gli mancava e avrebbe voluto provarlo ancora, ma respingeva
subito quel
pensiero, infastidito, come un’imperdonabile debolezza.
Attraversò lentamente
gli stanzoni deserti. La luce obliqua del tardo pomeriggio entrava da
finestre
orizzontali, lunghe e basse, poste quasi sotto il soffitto. Non
c’era traccia
di Enrico neppure lì. Arrivato all’ultima stanza,
per un attimo gli parve vuota
come le altre. Poi colse qualcosa con la coda dell’occhio,
una macchia di
colore fuori posto, e si bloccò. Eccolo. Enrico era in un
cantuccio profondo
immerso nella penombra, seduto per terra, contro il muro. Si era
cambiato la
maglietta e ora indossava una polo azzurra. Il viso era seminascosto
dalle
ombre.
«Enrico» esclamò
Stefano di getto. Il petto gli si riempì di sollievo. Lo
aveva trovato,
finalmente. Non lo aveva perso. «Ti stavo cercando. Ti ho
chiamato prima, non
hai sentito?» L’altro bambino non rispose. Un
silenzio strano e ostinato si
allungava tra loro. Stefano ebbe un attimo di esitazione, poi fece un
passo
avanti. «Enrico?»
«Che vuoi?» sbottò
Enrico, con un tono duro e aggressivo che Stefano non gli aveva mai
sentito
usare prima, con nessuno, tanto meno con lui. Lo colpì come
uno schiaffo e il
sollievo scivolò via in fretta. Trasalì, poi
rimase immobile, mentre una
sensazione di freddo innaturale gli avvolgeva il corpo. Doveva essere
successo
qualcosa di grave. Forse il signor Falconeri si era arrabbiato
così tanto con
suo figlio da togliergli la bicicletta e metterlo in punizione per il
resto
dell’estate. Magari gli aveva proibito di uscire dal baglio
ed Enrico sarebbe
stato costretto a restare tra quattro mura a finire i compiti delle
vacanze
fino all’inizio della scuola. Era una possibilità
spaventosa che giustificava
la rabbia di Enrico.
«Niente» rispose,
cauto. «Pensavo… Volevo sapere se ti va di fare un
giro. Amelia sta preparando
la cena e…»
«Non voglio andare da
nessuna parte. Vattinni.»
Stefano non si mosse.
Non gli passò per la testa neanche per un secondo di fare
come voleva Enrico.
Era chiaro che il suo amico non stava bene. Aveva qualcosa di strano,
non era soltanto
arrabbiato o triste, e non poteva lasciarlo così. Non gli
avrebbe voltato le
spalle.
«Chi fu?
Tuo padre si è
arrabbiato?»
Fu come se qualcosa
scattasse di colpo nella testa o nel cuore di Enrico. Si
alzò in piedi con un
unico movimento aggressivo e uscì dalla penombra a
fronteggiare Stefano. Adesso
era in piedi nel pulviscolo che danzava nel fascio di luce sotto la
finestra e
Stefano riusciva a vederlo meglio: stringeva i pugni, tremava, aveva il
respiro
affannoso come quando correva e una smorfia di rabbia gli deformava i
tratti
delicati del viso.
«Tu mio padre non lo
devi neanche nominare!» gridò e sembrò
che non si preoccupasse di chi poteva
sentirlo. «Non c’entri niente con lui! Niente,
hai capito?»
«Ma che cos’hai,
Enrico?» Stefano fece un passo indietro, ma non
perché avesse paura dell’altro
bambino. Se anche gli si fosse lanciato contro era sicuro di sapersela
cavare,
per quanto fare a botte con il suo migliore amico fosse un pensiero
assurdo. Il
problema era che Enrico non sembrava più la stessa persona
di quella mattina,
con cui Stefano aveva condiviso ogni giornata dalla nascita e di cui
conosceva
ogni espressione, ogni gesto, ogni movimento. Era un estraneo ed era
questo che
lo sgomentava.
Enrico serrò i pugni
ancora di più e prese un respiro corto e affannoso.
«Ti ho visto, prima. Nel
cortile. Con mio padre. Con Claudia» disse a denti stretti,
buttando fuori le
parole con rabbia, il viso alterato e pallidissimo che contrastava con
il
colore dei suoi occhi. «Non avevi il diritto di fare quello
che hai fatto!»
Stefano lo guardava,
calmo e concentrato. Più Enrico perdeva il controllo e
alzava la voce, più lui
diventava freddo. Non riuscì a capire se si riferisse al
fatto che aveva
parlato con Edoardo o al bacio di Claudia, ma non ebbe il tempo di
rifletterci
su. Enrico era un fiume in piena che straripa all’improvviso
e travolge tutto
quello che trova sulla sua strada.
«Tu non hai nessun
diritto, nessuno! Sei figlio di nessuno. Lascia stare mio padre
e…» Enrico
tacque di botto, come se gli si fosse mozzato il fiato. Per un attimo
fissò
Stefano in silenzio, mentre la rabbia cresceva, poi prese aria ed
esplose di
nuovo. «Lasciali stare, tutti e due! Tu prendi sempre quello
che non è tuo! Ti
prendi tutto! Vivi qui e non hai nessun motivo di starci! Dovresti
andartene, adesso!
Vattene, non ti voglio più vedere! Vattene!»
Stefano non aveva
sussultato mentre l’altro gli urlava contro, non aveva
cercato di parlare, non
aveva sbattuto le palpebre, quasi non aveva respirato. Quando scese il
silenzio
rimase ancora zitto e immobile a guardarlo negli occhi, cercando di
capire fino
in fondo quelle parole spaventose e incomprensibili che ancora
vibravano
nell’aria in mezzo a loro. Si rendeva conto che in quello che
era successo nel
cortile doveva esserci qualcosa di tremendamente sbagliato per Enrico,
ma cosa?
Avrebbe voluto chiederlo ad alta voce, ma sentiva un dolore nel petto
che
saliva e gli stringeva la gola in una morsa e quasi lo soffocava. Non
aveva mai
provato nulla del genere. Aveva la strana sensazione che la risposta a
quel
mistero fosse proprio accanto a lui, a portata di mano, che avrebbe
potuto
afferrarla da un momento all’altro, ma non riusciva a capire.
Era quella la
cosa peggiore. Non riusciva a parlare, respirare, stare lì
fermo un secondo di
più. Si voltò e corse via.
****
Il primo posto dove gli
venne in mente di rifugiarsi fu la stanza che divideva con sua madre.
Vivevano
lì da quando era nato lui e oltre ad Amelia e Claudia, che
avevano una stanza
identica accanto alla loro, erano gli unici ad abitare lì al
baglio. Tutti gli
altri dipendenti vivevano in paese, a Portosalvo, arrivavano la mattina
presto
e andavano via a ora di cena.
Quella stanza era il
posto più vicino a una casa che Stefano avesse mai avuto,
anche se capiva che
non era una vera casa. Apparteneva al signor Falconeri, come tutto il
resto, e
solo perché lui era molto legato ad Amelia, che lo aveva
cresciuto da bambino,
e affezionato a Stefano, lasciava che abitassero al baglio con la sua
famiglia.
Amelia, in verità, si era trasferita al baglio per fare la
domestica quando
aveva tredici anni e da allora era sempre vissuta lì, prima
da ragazza e poi con
suo marito, che prima di morire era stato il giardiniere dei Falconeri
insieme
al vecchio Michele. Quando i genitori di Claudia erano morti in un
incidente
d’auto, sei anni prima, e lei era rimasta sola, si era
trasferita al baglio per
stare con la nonna materna.
Stefano attraversò
precipitosamente il cortile, imboccò una porticina, percorse
un corridoio di
pietra e quasi buttò giù la porta della camera
aprendola con foga, poi la
sbatté alle sue spalle e si ritrovò da solo, nel
silenzio. I rumori dalla
cucina giungevano ovattati attraverso le spesse pareti di pietra.
Stefano restò
immobile per un attimo, a riprendere fiato e a cercare di calmarsi. Era
una
stanza grande, dal soffitto basso. Sua madre gli aveva detto che in
passato era
usata come dispensa. Il pavimento era di cotto, sbiadito dagli anni,
come in
tutti i locali accanto alla cucina, e i mobili provenivano dalle stanze
del
baglio. Erano pezzi ormai vecchi o poco pregiati che non trovavano
posto
nell’arredamento elegante della casa. Il grande letto di
legno a slitta dove
dormiva sua madre era nell’angolo a sinistra e quello di
Stefano, più piccolo,
nell’angolo a destra. Tra i due letti si apriva una finestra
lunga e stretta,
sotto la quale c’era un mobile di legno scuro che Stefano
usava come scrivania
per fare i compiti. Accanto alla porta, a destra, c’era un
tavolo rotondo che
un tempo era stato utilizzato nella cucina e dal lato opposto un grande
armadio
di mogano ad angolo, pieno di pompose decorazioni, che Stefano
detestava e che
oltre ai loro vestiti ospitava una parte della biancheria della casa:
tovaglie
di damasco, tovaglioli ricamati a mano ai tempi della nonna di Enrico,
asciugamani morbidi come il velluto, che Stefano aveva il divieto
assoluto di
toccare. A volte Amelia diceva alla madre di Stefano che tra un paio
d’anni al
massimo, quando lui fosse cresciuto, quell’unica stanza non
sarebbe più andata
bene per loro due. Lei non rispondeva, ma si accigliava e serrava le
labbra,
come per trattenere parole che non poteva far uscire.
A Stefano quella stanza
non era mai piaciuta. Non l’aveva mai sentita come casa sua.
Odiava quei mobili
vecchi e spaiati, dall’odore strano, imponenti, scuri e
così pesanti da non
poter essere spostati. Lì dentro si sentiva soffocare, come
se il grande
armadio e tutti gli altri mobili potessero cadergli addosso e
seppellirlo da un
momento all’altro. Però era anche
l’unico posto al baglio dove era sicuro di
non trovare sua madre a quell’ora e aveva bisogno di stare da
solo.
Attraversò la camera a
grandi passi, si buttò sul suo letto e rimase lì,
sprofondato tra i cuscini
altissimi e morbidi che profumavano di bucato fresco e dei mazzolini di
lavanda
che Amelia metteva negli armadi e nei cassetti della biancheria.
Fissò il cielo
fuori dalla finestra che si scuriva lentamente, passando
dall’azzurro brillante
a un trionfo di rosa, viola, giallo e arancione, e infine a un morbido
blu
punteggiato di stelle. Quando sentì la porta aprirsi non
aveva idea di quanto
tempo fosse passato, ma ormai era quasi buio. Non si mosse.
«Stefano, qua stai»
disse la voce stanca di sua madre. Ci fu un attimo di silenzio, poi la
porta fu
chiusa di nuovo e lui udì il tac
dell’interruttore. La luce gli ferì gli
occhi e dovette chiuderli per un momento, aspettando che si
abituassero.
«Perché non venisti a cena? Non hai mangiato
niente? Amelia mi disse che non ti
vede dalle quattro.»
Stefano continuava a
tacere. Non aveva nessuna voglia di parlare e se anche avesse voluto
rispondere
non avrebbe saputo da dove cominciare. Cadde di nuovo il silenzio.
Sentì che
sua madre sbuffava e mormorava qualcosa sul caldo infernale, poi
armeggiava con
la spazzola sul cassettone. Riusciva a immaginarla perfettamente,
occupata a
passarsi il pettine tra i capelli e poi a raccoglierli di nuovo con la
molla
che usava sempre, sollevandoli sul collo sudato. Raggiunse il letto e
sedette
accanto a lui.
«Che hai? Ti senti
bene?»
Il bambino si limitò a
scrollare le spalle. Sentiva gli occhi di sua madre addosso, ma non si
voltò.
«Va bene, allora vuol
dire che non hai fame» rispose lei in tono secco e
definitivo. Non era una
persona molto paziente, Stefano lo sapeva e non voleva farla
arrabbiare. Si
girò piano sul letto, si mise a sedere e la
guardò.
Maria Ruggero era
seduta con le braccia tese all’indietro, le gambe allungate
davanti a sé, e
fissava un punto sulla parete con aria assente. Era bellissima. Aveva
ventotto
anni ed era alta e formosa. I lunghi capelli neri e mossi, lucenti e
ondulati,
che le arrivavano alla vita, erano una chioma da regina. Sembravano
tessuti con
la seta. Grandi occhi scuri a mandorla, la pelle ambrata liscia e
luminosa,
quasi senza imperfezioni, e un naso imponente che forse era
l’unico difetto che
avesse, anche se a Stefano piaceva. Trovava che rendesse particolare il
profilo
di sua madre. Lui, comunque, non lo aveva ereditato: aveva un naso
sottile,
lungo e perfettamente diritto.
Non lo avrebbe mai
confessato a nessuno, perché gli sembrava una cosa da
bambini piccoli, ma gli
piaceva sbirciare sua madre di nascosto, senza che nemmeno lei se ne
accorgesse. Maria attirava l’attenzione come la luce attira
le falene. Quando
camminava in paese tutti si voltavano per seguirla con lo sguardo,
quasi
inconsapevoli, come ammaliati. Più che la sua bellezza,
Stefano aveva la
sensazione che a catturare gli altri fosse una specie di energia
strana,
magnetica, che emanava da lei. La sua presenza non poteva mai essere
ignorata,
eppure sembrava che a Maria non facesse né caldo
né freddo: si comportava come
se fosse invisibile e tutti quegli sguardi, soprattutto maschili, le
scivolavano addosso.
«C’è una bella
novità»
disse lei all’improvviso e Stefano trasalì per la
sorpresa. Sua madre non usava
quasi mai termini dialettali, ma aveva un accento piuttosto marcato,
Prese un
respiro profondo, senza distogliere lo sguardo dalla parete di fronte a
lei, e
continuò. «Ti ricordi zia Luisa, mia sorella
maggiore? Ti raccontai che abita a
Milano e lavora in una scuola elementare.»
Stefano annuì piano.
Non conosceva quella zia, che prima della sua nascita si era sposata e
si era
trasferita, ma in verità non aveva mai incontrato nessuno
della famiglia di sua
madre. Maria era nata in un paese in provincia di Palermo, di fronte
all’isola
di Santo Stefano, e lui sapeva vagamente che non era mai andata molto
d’accordo
con i suoi genitori. A sedici anni, senza terminare la scuola, aveva
trovato
lavoro come cameriera al baglio Falconeri grazie
all’interessamento di Amelia,
che conosceva la sua famiglia. I genitori non erano benestanti, suo
padre era
un operaio e sua madre casalinga. Era un buon lavoro per lei, magari in
attesa
di trovare qualcosa di meglio. Circa due anni dopo il suo arrivo al
baglio,
Maria era rimasta incinta. Una volta Stefano aveva origliato un
discorso tra
Amelia e Michele. Così aveva scoperto che i genitori di sua
madre avrebbero
voluto che lei “se ne sbarazzasse” o che lasciasse
il lavoro e sposasse un suo
vecchio fidanzato che la aspettava a casa. Maria si era rifiutata e da
allora
la famiglia aveva chiuso i rapporti con lei.
Quando al padre di
Stefano, era un mistero di cui soltanto Amelia sembrava essere a
conoscenza.
Stefano sospettava che sua madre avesse proibito alla governante di
dirgli
qualsiasi cosa, perché Amelia aveva le labbra serrate e non
si era mai lasciata
sfuggire neanche una sillaba. A volte, quando era piccolo, Stefano
aveva
chiesto a Maria di suo padre. Lei aveva sempre dato risposte che
risposte non
erano, evasive e generiche, e alla fine per farlo smettere sbottava:
«A che ti
serve tuo padre? Ci sono io, no?»
Con il tempo Stefano
aveva smesso di fare domande e gli era rimasta solo una vaga
curiosità che
diventava sempre più flebile, fin quasi a spegnersi del
tutto. In fondo non gli
era mai importato davvero. Gli sembrava impossibile sentire la mancanza
di qualcosa
che non aveva mai conosciuto. In paese ogni tanto si spettegolava
ancora sulla
faccenda, sebbene fossero passati tanti anni, quando non
c’era niente di nuovo
di cui parlare, ma a mezza voce, come nel timore di offendere qualcuno
di
importante. A Maria, comunque, non importava neppure delle chiacchiere,
proprio
come non le importava di essere seguita con gli occhi. Non parlava mai
del
passato o della sua famiglia e solo una volta aveva mostrato a Stefano
una foto
di lei con sua sorella quando avevano sedici e ventuno anni, custodita
in una
cassetta di ferro sotto il letto. Quella zia Luisa gli era sembrata una
copia
meno bella di sua madre.
«Mi chiamò qualche
giorno fa» continuò Maria. «E sai cosa
mi ha detto? Che puoi andare a stare da
lei.» Stefano sentì un colpo allo stomaco che gli
mozzò il fiato. La fissò con
gli occhi spalancati, incapace di parlare, mentre lo shock e
l’orrore gli
riempivano le viscere, ma lei parve non farci caso e andò
avanti con tono
forzatamente allegro e tranquillo. «È da un sacco
di tempo che glielo chiedevo,
ma fino a qualche settimana fa suo marito, zio Paolo, era disoccupato.
Aveva
perso il lavoro e non potevano prendere un bambino in casa, anche se
gli avevo
detto che avrei mandato dei soldi per te ogni mese. Adesso zio Paolo ha
trovato
un altro lavoro, fa il postino. E allora hanno detto di sì.
Parti domani.
Concetta te la ricordi? La merciaia che sta a Portosalvo? Domani deve
prendere
il traghetto per Palermo e tu viaggi con lei. Mi fa il favore di darti
un’occhiata. Io non posso lasciare il lavoro, lo sai. Ti
accompagno al porto
alle sette. A Palermo ti viene a prendere zia Luisa.»
Parlava in fretta, come
per non dargli il tempo di rendersi conto delle sue parole o fare
obiezioni.
Stefano aveva capito ben poco di quel fiume in piena se non il fatto
che doveva
andarsene e che sarebbe successo il giorno dopo. Che sua madre lo stava
mandando
via. Provava una crescente sensazione di panico, come quella volta,
quando
aveva quattro anni, in cui aveva messo un piede in una buca mentre
faceva il
bagno al mare e ci era caduto dentro ed Enrico lo aveva tirato fuori
prendendolo per un braccio mentre lui gridava e scalciava. A un certo
punto
Maria lo guardò, forse perché lui non diceva una
parola: aveva gli occhi pieni
di tristezza e un sorriso tirato che le increspava le labbra.
«Contento sei,
Stefano?»
«N-non voglio» balbettò
il bambino di getto. Gli sembrava di non avere aria nei polmoni e si
costrinse
a respirare. «Perché me ne devo andare? Non
voglio.»
Maria lo fissò ancora
per un momento, poi voltò la testa di nuovo e quella parodia
di un sorriso
svanì lentamente. «Milano ti piacerà
tanto, vedrai. È una città grande e
bellissima. Ci sono tante cose da fare e da vedere. Io non ci sono mai
stata e
tu invece andrai a viverci. Devi essere felice.»
Stefano non era felice
per niente. Sentiva solo il panico che cresceva, strizzandogli lo
stomaco,
serrandogli la gola. «No! Non ci vado!»
Vide sua madre
irrigidirsi appena. Sapeva che lui non era il tipo di bambino che si
lasciava
convincere soltanto da carezze e parole gentili e sapeva che continuare
a
provare era inutile. Emise un sospiro brusco e si alzò,
passandosi le mani
sulla gonna del vestito nero come per eliminare pieghe invisibili.
«Stefano, pi
favuri.»
«Ti prego, mamma!
Voglio restare qui con te, con Amelia, Enrico e
Claudia…» Stefano si bloccò
mentre le parole gli morivano sulle labbra. Non riuscì a
continuare. Maria gli
lanciò un’occhiata penetrante e la sua espressione
cambiò improvvisamente.
«È successo qualcosa,
oggi. Vero è?» domandò con voce
tagliente. Una breve pausa. Lui taceva, senza
sapere che cosa dire. «Stefano, rispondimi. Qualcuno ti disse
qualcosa? È stato
Edoardo?»
Nessuno al baglio si
riferiva al signor Falconeri con quella familiarità,
chiamandolo per nome,
neppure Amelia. Stefano provò uno strano malessere e
deglutì, cercando di
scacciarlo. Non doveva parlare e lo sapeva. Lui, Enrico e Claudia non
raccontavano mai agli adulti quello che succedeva tra loro, nel mondo
segreto.
Risolvevano tutto da soli. Sapeva anche, però, che sua madre
avrebbe capito
subito che mentiva. Non era mai riuscito a ingannarla: era troppo
intelligente,
l’unica persona in casa che sapesse tenergli testa, a parte
forse il signor
Falconeri.
«No» mormorò lentamente
e intanto rifletteva, cercando di decidere cosa doveva dire.
«Io… ho litigato
con Enrico.»
«Perché?»
Stefano aprì la bocca e
di colpo scoprì che non poteva più tenersi tutto
dentro. Si ritrovò a
raccontare a raffica ancora prima di rendersene conto. «Oggi
stavo giocando nel
cortile, lanciavo le pietre, ed è arrivato il signor
Falconeri e si è messo a parlare
con me ed Enrico ci ha visti e si è arrabbiato e mi ha detto
di andarmene. Ha
detto che non ho il diritto di stare qui.» Si interruppe,
senza fiato. Aveva
evitato per un pelo di raccontare anche del bacio. Il viso gli
andò a fuoco e
sentì che di nuovo gli mancava l’aria.
Inspirò, cercando di calmarsi.
Sua madre lo aveva
ascoltato senza battere ciglio, immobile, le braccia lungo i fianchi e
gli
occhi fissi su di lui. Quando tornò il silenzio fece uno
strano sospiro
tremante e a Stefano parve esausta.
«Stefano» disse in un
sussurro, portandosi le mani al volto come per nasconderlo. Scosse la
testa,
chiuse gli occhi, poi li riaprì. «Non dovrai
sentire mai più niente del genere.
Domani te ne vai.»
Stefano ebbe la
sensazione che una pietra enorme gli cadesse nello stomaco. Il tono
definitivo
di sua madre lo terrorizzò. «No! Lui è
mio amico, si aggiusterà tutto!»
«Certe cose non si
aggiustano. Quel bambino non potrà mai essere davvero tuo
amico.»
Lui aveva già aperto la
bocca per ribattere, ma si ritrovò senza parole. Era la cosa
peggiore che
avesse mai sentito, ancora peggio di quella storia di Milano. Se Enrico
Falconeri non poteva più essere suo amico, allora non
esisteva più niente e
niente aveva più senso. E poi arrivò la rabbia.
Scoppiò in lacrime,
vergognandosi da morire, perché lui non piangeva mai,
neanche quando cadeva per
due metri giù dalla torre saracena.
«Non
è vero! Non è vero, sei una bugiarda»
gridò,
fuori di sé. «Perché non può
essere mio amico? Perché?»
«Perché è tuo
fratello!» Maria esplose come un palloncino bucato con un
ago. «Edoardo è tuo
padre! Ma è come se non lo fossero, perché
quell’uomo non ti ha mai dato
niente, neanche il suo cognome! Soltanto la sua elemosina ti ha
dato!» Fece un
gesto con le braccia, indicando la stanza intorno a loro. «E
perché avrebbe
dovuto darti di più? Lui ci odia, anche se nemmeno
l’odio è capace di mostrare!
Ci dà la colpa di quello che è successo, pensa
che è stato per noi, per me e
per te, se…»
Di colpo si interruppe,
come se una lama le avesse mozzato le parole. Cadde un silenzio di
piombo.
L’acciottolio in cucina, dall’altra parte del muro,
sembrava lontanissimo.
Sembrò rendersi conto solo allora di cosa aveva detto, di
aver superato un
confine oltre il quale non si poteva tornare indietro, e il suo viso fu
stravolto dalla paura. Le scappò un gemito di orrore, mentre
si premeva
entrambe le mani sulla bocca, come per soffocarlo e ricacciare tutto
dentro, ma
era troppo tardi. Guardava il bambino tremando, spaventata, ma Stefano
rimase
stranamente calmo. Era stordito, come se qualcuno gli avesse tirato uno
schiaffo fortissimo, e al tempo stesso era lucido. Mentre ripensava
alle parole
di sua madre ogni tassello andò al suo posto. Adesso era
tutto spaventosamente
chiaro.
«Mi dispiace» sussurrò
Maria, le parole deformate da un singhiozzo. «Mi dispiace
tanto. Scusami.
Scusami, ti prego.» Anche lei non piangeva mai. Le sue
lacrime erano surreali
quanto tutto il resto. Ci fu un silenzio molto lungo.
«Perché ci odia?» chiese
Stefano con un filo di voce. Quella era l’unica cosa che non
aveva capito.
Maria singhiozzò
ancora. Si passò le mani sul viso per asciugare le lacrime,
poi respirò
profondamente e sedette di nuovo sul letto, accanto a Stefano.
Raccontò piano,
a bassa voce, come se avesse paura di parlare troppo forte, mentre il
bambino
ascoltava con gli occhi spalancati, e quando ebbe finito rimasero a
lungo in
silenzio tutti e due. Stefano non riusciva a parlare né a
pensare, la sua testa
si era svuotata, un po’ come quando era caduto dalla torre e
si era sentito un
bambolotto di pezza che precipitava verso terra, vuoto e inerte, senza
che
nulla potesse arrestare la caduta. Sembrava passata un secolo da
allora. Era un
momento che apparteneva alla vita di un’altra persona, una
vita che lui aveva
rubato, che non era mai stata davvero sua. O almeno così gli
parve.
«Adesso capisci perché
non puoi stare qui? Perché te ne devi andare?»
disse Maria all’improvviso, la
voce calma e dolce, eppure Stefano sobbalzò ugualmente.
«È meglio così. Edoardo
non sarà mai tuo padre. Sarai sempre l’autru,
per lui. Ed Enrico… quando
saprà tutto le cose tra voi cambieranno. Non
potrà più essere com’era prima.
È
un bravo bambino, ma… questa una cosa troppo grossa
è. E tu sai com’è Edoardo
con lui, lo vedi. Avrà sempre paura che tu gli porti via
quella briciola
d’affetto che suo padre è in grado di dargli. Non
c’è posto per te qui. Lo
capisci?»
Stefano cercò di dire
qualcosa, ma continuava ad avvertire quella sensazione di vuoto e di
stordimento. Non c’erano parole, non c’era
più nulla dentro di lui. Era come
cadere dalla torre, ancora e ancora, all’infinito. Fece un
mezzo cenno con la
testa, ma forse sua madre non lo vide, perché aveva ancora
gli occhi pieni di
lacrime.
«Stefano?» lo incalzò
in un sussurro.
Lui schiuse la labbra e
si costrinse a respirare, come aveva fatto quella mattina, quando si
era
ritrovato di colpo ai piedi della torre, ferito e confuso. Gli
sembrò il primo
respiro di una seconda vita.
«Sì. Ho capito.»
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** PARTE SECONDA. Capitolo 5. Una pessima idea ***
PARTE
SECONDA
MILANO-ISOLA
DI SANTO STEFANO
Giugno-luglio
2015
CAPITOLO 5
UNA PESSIMA
IDEA
Milano
Giugno 2015
Il sipario di
velluto
rosso calò dolcemente sul palcoscenico, nascondendo
l’orchestra alla vista del
pubblico che batteva le mani, in piedi, ma lo scroscio degli applausi
si udiva
ancora con forza. Era elettrizzante, una scarica di adrenalina nelle
vene,
pensò Vittoria Ruggero, in piedi accanto al suo pianoforte.
Aveva un sorriso
raggiante che le si era stampato in faccia da quando si era alzata,
insieme ai
suoi compagni, per ricevere l’applauso del pubblico, al
termine del saggio di
fine anno. Le facevano quasi male le guance, ma non riusciva a
smettere. Non
era il momento di avere una faccia seria.
Intorno a lei si erano
rotte le righe, infranto l’ordine rigoroso che regnava
sovrano in un’orchestra,
ed era esploso un caos che si mescolava al vociare e al chiasso al di
là del
sipario: i suoi compagni saltellavano, si abbracciavano, strillavano e
si
chiamavano l’un l’altro sgomitando per raggiungere
gli amici in mezzo alla
calca, un mare di nero agitato pronto a inghiottire Vittoria e
trascinarla via.
La “divisa” tradizionale del saggio era in nero:
completo con giacca e cravatta
per i ragazzi, abito per le ragazze (che al massimo poteva arrivare
appena
sopra il ginocchio). Ogni volta suscitava le proteste degli alunni, ma
nessuno
osava modificarla. Le tradizioni, al Conservatorio Giuseppe Verdi di
Milano,
avevano il loro peso. Vittoria sistemò e raccolse gli
spartiti, poi sfiorò per
un attimo la tastiera con affetto prima di abbassarne il coperchio.
All’improvviso qualcuno la circondò da dietro con
le braccia, facendola
trasalire.
«È andata!» le strillò
una voce nell’orecchio, così forte che Vittoria
pensò di aver perso un timpano.
Poi però sorrise ancora di più. Era Alessandra,
il violoncello migliore del suo
corso. Vittoria si girò, ancora con la sua amica attaccata
al collo, e ricambiò
l’abbraccio, mentre un’altra scarica di entusiasmo
le incendiava la pelle. La
folta chioma riccia e ramata di Alessandra le coprì gli
occhi e per un attimo
non vide più nulla.
«È andata!» strillò di
rimando.
«Non posso credere che
il quartetto sia filato così liscio! Avevo
un’ansia assurda!»
«Ma scherzi? Avete
fatto tremare tutto.»
Alessandra rise e alzò
gli occhi al cielo mentre si staccava da Vittoria. «La giusta
quantità di
ansia…»
«… fa solo bene
all’esibizione!» completò Vittoria con
un’occhiata di intesa, imitando la voce
snob e strascicata di Roberta Grandi, stimata docente di Armonia
musicale del
Conservatorio.
Alessandra rise ancora.
«A lei farebbe bene cambiare quel profumo atroce che si mette
sempre, mi stava
soffocando durante l’intervallo…
Eccola!» Si interruppe di botto vedendo
svolazzare in quel mare di nero la lunga sciarpa leggera di un azzurro
acceso che
la Grandi indossava tutti i giorni, in tutte le stagioni, senza alcuna
considerazione per la temperatura esterna. Le aveva fatto guadagnare il
soprannome di Fata Turchina, tramandato dagli studenti di generazione
in
generazione.
Vittoria sgranò gli
occhi. La Grandi aveva la spiacevole abitudine di elencarle tutti gli
errori
che aveva commesso durante le esibizioni subito dopo la fine di un
saggio e lei
proprio non lo sopportava. Era già abbastanza ansiosa per
conto suo. «Scappo!
Vado a cercare Daniela. Ci vediamo dopo.»
Si tuffò nella folla,
stringendo al petto gli spartiti. Era
all’estremità sinistra del palcoscenico e
arrivare dall’altra parte per raggiungere il gruppo del coro,
dove si trovava
Daniela, sarebbe stata un’impresa. Si infilò
dietro Massimo, un clarinettista
corpulento con i capelli lunghi legati in un codino anni Novanta e lo
usò come
spartiacque per fendere la calca. Era costretta a fermarsi di continuo
per
salutare qualcuno e fare i complimenti a qualcun altro e per due volte
fu
acciuffata e trascinata davanti alla fotocamera di un cellulare per
scattare un
selfie.
Finalmente raggiunse il
coro. Cercò di guardarsi intorno per individuare Daniela, ma
c’erano così tante
persone che premevano da ogni parte, compresi gli insegnanti che
assistevano al
saggio dietro le quinte e ora sciamavano sul palco, che riusciva appena
a
girarsi. Poi sentì qualcuno che le toccava il gomito.
Voltò la testa e incrociò
i grandi occhi verdi della sua amica. Era alta e formosa, con lunghi
capelli
scuri ondulati e un sorriso furbo che le accendeva il viso.
«Ehi!» esclamò
Vittoria, felice. Si abbracciarono con entusiasmo e quasi finirono
addosso a due
ragazze che stavano scattando una foto vicino a loro, ma erano troppo
su di
giri per preoccuparsene. «Com’è andata?
La voce ha retto?» chiese ansiosamente
Vittoria quando si separarono.
Daniela sbuffò e si
toccò la gola con una mano. Indossava un foulard sottile,
ovviamente nero. «Più
o meno.»
«Che sfiga prendersi il
mal di gola due giorni prima del saggio.»
«Sono contenta che sia
finita, così almeno non dovrò più
avere mia madre nelle orecchie che mi
rimprovera perché non mi sono coperta bene quando me lo
diceva lei» rispose
Daniela, seccata, e Vittoria fece un risolino. Sapeva che la sua amica
non
andava molto d’accordo con la madre.
«Allora di’ che è
andato tutto alla grande e che non sei mai stata meglio.»
«Ovvio. La mia voce è
perfetta, sto benissimo» disse Daniela con convinzione e
Vittoria rise. «Come
sono andati quegli accordi che non ti venivano, nel pezzo da
solista?»
Vittoria tornò seria ed
emise un verso di sconforto che andò perduto nella
confusione che le avvolgeva.
«Male. Sono sicura che se ne sono accorti tutti»
rispose in tono afflitto.
Aveva suonato il Notturno
Op. 9, No. 2 di Chopin. Era un
brano
complicato. Ci aveva lavorato sopra così tanto da bucare lo
spartito con la
matita a forza di appuntare note e farsi venire una tendinite a
settimana per
due mesi, eppure non era stato sufficiente. Un fastidio bruciante la
invase
mentre ci pensava e riuscì quasi a far evaporare
l’entusiasmo che aveva provato
subito dopo la fine del saggio, davanti agli applausi del pubblico e
alle
espressioni orgogliose dei genitori in terza fila. Fece un sospiro
pesante,
mentre Daniela le scoccava un’occhiataccia.
«Ma no, Vittoria… Non
cominciare con le solite storie. Sono genitori, non capiscono niente di
accordi
e armonia. Chi vuoi che conosca a menadito un Notturno di Chopin tra
loro?»
Tacque per un attimo e rifletté su qualcosa. «A
parte la madre di Sofia, ma lei
è una pianista che suona in tutto il mondo. È un
caso unico. Agli esami sarebbe
stato un casino, ma tanto hai preso il massimo dei voti anche
quest’anno.»
Vittoria rispondesse
con un cenno a qualcuno che la salutava da lontano, mentre si avviava
con
l’amica verso le quinte. «Ok, loro magari non se ne
sono accorti… a parte la
madre di Sofia» mugugnò, «ma la Grandi
sì. Quando ho finito mi ha guardata
malissimo. Ho fatto finta di andare in bagno e sono scappata, ma prima
o poi mi
prende» concluse, con lo stesso tono drammatico che avrebbe
usato se fosse
stata inseguita da un mostro assetato di sangue.
Daniela stava per
rispondere, ma in quel momento imboccarono la rientranza della parete
che
conduceva dietro le quinte, nascosta da un pannello di legno, e furono
risucchiate da un gruppo di ragazze del coro che stava brindando con
una
bottiglia di Spritz introdotta furtivamente nello zaino di Massimo il
clarinettista. Si scattarono un selfie mentre saltavano tutte insieme
con i
bicchieri di plastica in mano, poi arrivò il professore di
Composizione e le
ragazze si precipitarono ridacchiando nel corridoio dei camerini per
non farsi
beccare.
«Hai visto Marco?» chiese
Vittoria a Daniela, mentre mandava giù un ultimo sorso dalla
bottiglia prima di
passarla a Mia, una violoncellista alta e magra con un tatuaggio a
forma di
stella sulla scollatura. Vittoria sapeva che era finto.
«Era dalla parte degli
arpisti, prima. Starà chiacchierando con i suoi
amici.»
Vittoria aggrottò la
fronte. «Ma non ha amici tra gli arpisti. E poi eravamo
d’accordo che sarebbe
venuto a cercarmi alla fine» mormorò,
più a se stessa che alla sua amica.
Ora che tutti si
stavano riversando nei camerini, il corridoio era affollato e caotico.
Daniela
e Vittoria entrarono nel camerino che dividevano con Alessandra: una
stanza
minuscola e polverosa, dalle pareti grigiastre e scrostate. Sul ripiano
di
legno consunto sotto lo specchio fissato al muro avevano ammucchiato
tutte le
loro cose alla rinfusa: borse, giacche, trucchi, spazzole e mollette
per
capelli, spartiti, lo spray per la gola di Daniela, snack di vario
genere e una
lattina vuota di Coca Cola. Sembrava che fosse esplosa una bomba.
Alessandra
aveva già messo la giacca e si stava ritoccando il
lucidalabbra allo specchio.
Loro tre dividevano sempre il camerino ai saggi scolastici e ogni volta
lei era
la più veloce a finire di prepararsi, mentre Vittoria e
Daniela perdevano tempo
a chiacchierare e restavano indietro, facendo puntualmente arrabbiare
la madre
di Daniela.
Parlarono un po’ del
saggio e di quale ragazzo stesse meglio in giacca e cravatta, mentre
Alessandra
infilava le sue cose nel suo zainetto viola e Daniela si sistemava il
trucco.
Vittoria si sfilò le scarpe con il tacco che aveva indossato
solo per andare
dal camerino al palco e viceversa e le sostituì con un paio
di ballerine di
vernice con un fiocchetto bianco sul lato. Studiò il proprio
riflesso allo
specchio: i capelli lisci castano scuro erano un po’
arruffati dopo tutta
l’agitazione post saggio, le guance accaldate contrastavano
con il tono molto
chiaro del resto del viso e gli occhi azzurri erano luminosi per la
felicità.
Già sentiva la stanchezza arrivare lentamente, a mano a mano
che l’adrenalina
scivolava via. Si raddrizzò un po’ la gonna del
vestito nero al ginocchio di
taffetà, stretto in vita da una fascia.
«Ci vediamo domani sera
alla pizza di fine anno» esclamò Alessandra in
tono distratto. Afferrò una
trousse di ombretti dal ripiano e stava per metterla nello zainetto,
poi la
guardò meglio. «Ma questa è tua, Dani!
Scusa» La rimise giù. Vittoria trattenne
a stento una risata. Era sempre così: nel loro camerino,
dopo ogni saggio,
c’era un tale disordine che ciascuna finiva per prendere le
cose delle altre
senza rendersene conto e nei giorni successivi se le restituivano.
«Vi mando tutte
le foto di stasera nel gruppo. Ciao!» Mandò un
bacio veloce alle altre e uscì
in fretta. Vittoria ricambiò il bacio da lontano e Daniela
la salutò con la
mano.
Un attimo dopo,
qualcuno bussò e poi un ragazzo mise dentro la testa. Era
alto, con i capelli
tra il biondo scuro e il castano chiaro, aveva un bel sorriso e un
completo
nero che gli stava benissimo. Quasi tutti ragazzi
dell’orchestra, invece,
sembravano bambini travestiti da adulti.
«Ciao!» Cercò lo
sguardo di Vittoria nello specchio e il suo sorriso si
allargò. Lei sentì una
scarica elettrica in tutto il corpo, non molto diversa da quelle che
aveva
provato sul palco, e si voltò con il lucidalabbra sospeso a
mezz’aria e
un’espressione carica di aspettativa.
«Marco! Ce l’hai fatta!
Ma dov’eri finito?»
«Scusa, stavo facendo
qualche foto con i ragazzi. E poi c’era tanto di quel casino
che non sono
riuscito a trovarti.» Mentre parlava distolse lo sguardo da
lei e si toccò la
punta del naso con l’indice. Lo faceva spesso, era una specie
di tic. Vittoria
lo trovava adorabile.
«Io scappo, se mia
madre aspetta troppo diventa più isterica del
solito… lo sai» intervenne
Daniela, infilandosi il giubbotto di jeans. Si sollevò i
capelli per lasciarli
ricadere sulle spalle e guardò Vittoria con aria da martire.
«Ci sentiamo
domani?»
Vittoria annuì. Già
sapeva che avrebbero dovuto vedersi e restituirsi gli oggetti sbagliati
che
avevano preso. «Ti chiamo. Così decidiamo come
vestirci per la pizza.»
Quando Daniela fu
uscita, avvertì un lieve nervosismo che le saliva su per la
schiena. Guardò il
riflesso di Marco nello specchio, mentre giocherellava con il tubetto
del
lucidalabbra alla fragola: se ne stava in piedi, appoggiato alla porta
sottile
del camerino, una mano in tasca e l’altra impegnata con la
custodia del suo
violino. La fissava con un sorriso dolce e all’improvviso
Vittoria ebbe una
gran voglia di baciarlo, lì, immediatamente.
Ricambiò il sorriso, felice.
Richiuse il lucidalabbra senza metterlo e lo infilò nella
borsa. Si erano
baciati soltanto una volta, la settimana prima, quando erano andati al
cinema
insieme. Era stato il suo primo bacio. Per lui, che aveva sedici anni
(uno in
più di lei), sicuramente non lo era stato. Non ne sapeva
molto, ma Daniela le
aveva detto che ai ragazzi di solito non piaceva baciare le ragazze
quando
avevano il rossetto o il lucidalabbra. Nel dubbio, meglio non
rischiare.
Indossò il giubbotto di jeans, anche se faceva
già troppo caldo e lo aveva
portato solo perché sua madre aveva insistito. Poi raggiunse
Marco, lo baciò a
stampo, senza smettere di sorridere, alzandosi sulle punte dei piedi
per
raggiungerlo. Lui le mise a posto una ciocca di capelli dietro
l’orecchio e le
fece una linguaccia scherzosa. Uscirono tenendosi per mano e
chiacchierando del
saggio.
Alla fine del corridoio
dei camerini, ormai vuoto, un’uscita di servizio dava sul
cortile del convento
che ospitava il Conservatorio. Le famiglie dei ragazzi aspettavano
lì,
nell’aria calda e morbida della sera di giugno, in piccoli
gruppi in abiti
eleganti, ma erano già andati via quasi tutti. Le
bastò un’occhiata per
individuare i suoi genitori: erano verso il centro del cortile, un
po’ isolati
dagli altri. Avevano solo 36 anni e ovunque andassero, ai colloqui con
i
professori a scuola, ai saggi di musica, alle partite di tennis di
Vittoria,
erano sempre i genitori più giovani. Il fisico atletico e
slanciato di suo
padre, Stefano, fasciato da un completo blu scuro di Prada, spiccava
nettamente
in mezzo ai profili appesantiti degli altri padri e il taglio di
capelli corto
e la barba perfettamente curata lo facevano sembrare ancora
più giovane.
Accanto a lui Vittoria vide sua madre, Claudia, che gli parlava a bassa
voce,
con un’espressione seria. Non era molto alta e Vittoria in
questo aveva preso
da lei, ma a differenza di sua figlia, che era minuta e magra, Claudia
aveva un
corpo formoso e ben modellato, messo in risalto dal semplice tubino
azzurro
polvere con lo scollo asimmetrico.
Marco le tirò appena la
mano, attirando la sua attenzione. «Mi chiami
domani?»
«Sì, dopo Daniela.»
Lui sorrise con aria
rassegnata. «Ovvio» mormorò, ma Vittoria
sapeva che non se l’era presa. Era
abituato al fatto che Daniela avesse quasi sempre la precedenza,
soprattutto
quando si trattava di parlare di vestiti. «Stasera
Shibumi?»
Vittoria annuì. «Come
sempre.»
«Buon sushi, allora.
Salutami Claudia e Stefano» disse Marco, mentre si chinava
per baciarla
velocemente sulla guancia, vicinissimo all’angolo della
bocca. I genitori di
Vittoria preferivano che i suoi amici (e adesso anche Marco, che non
era
esattamente un amico) li chiamassero per nome e non “signor
Ruggero” e “signora
Ruggero”.
«Vogliono sottolineare
che sono più giovani rispetto alla media dei genitori.
È una roba da hipster»
aveva commentato Daniela, che aveva una cotta gigantesca per il padre
di
Vittoria e quando lo chiamava per nome usava un tono malizioso che
imbarazzava
da morire la sua amica.
«Ti ricordo sempre che
è mio padre» le diceva puntualmente, a denti
stretti, lanciandole
un’occhiataccia.
«Ciao, Vic» la salutò
Marco.
Le strinse la mano prima di lasciarla e avviarsi dalla sua famiglia.
Lei
lo seguì con gli occhi per qualche secondo, consapevole di
avere un sorriso
scemo stampato in faccia. Poi cercò di fare una faccia
normale e si incamminò
verso i suoi genitori. Erano ancora impegnati a parlottare tra loro in
modo un
po’ concitato. Quando la vide, sua madre si interruppe e
subito le sorrise, il
volto teso che si distendeva come un impasto su cui passa il
mattarello.
Vittoria sgranò gli occhi. C’era qualcosa che non
andava? Avrebbe voluto
chiederlo, ma suo padre la batté sul tempo quando lei era
ancora a qualche
passo di distanza.
«Prima che tu ce lo
chieda: no, non hai fatto schifo da
solista» disse con tono sicuro e
allegro. «Sappiamo che è inutile dirtelo, ma a noi
piacciono le cause perse.»
«E invece ho fatto
proprio schifo, stavolta.»
Lui rise e scosse
leggermente la testa. «Come non detto»
mormorò, poi si allungò per darle un
bacio sui capelli.
«Sai cosa voglio dire»
protestò lei, seccata. «Tutta l’ultima
parte…»
Automaticamente si
portò la mano al collo e iniziò a giocherellare
con il ciondolo d’oro bianco a
forma di farfalla che indossava. Glielo aveva regalato suo padre per il
suo
dodicesimo compleanno e da allora non lo aveva mai tolto. Era diventato
una
specie di porta fortuna. Quel pomeriggio, appena prima di uscire di
casa per
raggiungere il teatro, suo padre l’aveva toccata
all’improvviso sulla spalla,
catturando la sua attenzione mentre lei schizzava di qua e di
là in preda
all’agitazione, e le aveva mostrato la catenina con il
ciondolo che stringeva
in mano. Vittoria si era sfiorata il collo e con un sussulto si era
resa conto
che aveva dimenticato di metterla. Il pensiero di cosa sarebbe successo
se
avesse notato la sua assenza dopo essere uscita di casa
l’aveva fatta
impallidire. Suo padre le aveva rivolto un sorriso di comprensione e le
aveva
agganciato il ciondolo al collo, mentre lei bisbigliava un
ringraziamento
tremante. Le aveva letteralmente salvato la vita, oltre che il saggio
di fine
anno. Senza il suo ciondolo avrebbe sbagliato tutto, non solo gli
accordi
finali.
«Vittoria, non
cominciare» la interruppe Claudia, fissandola con espressione
a metà tra il
divertito e l’esasperato.
«Mamma, ho ragione! Non
sai come mi ha guardata la Grandi nell’intervallo,
praticamente non posso più
presentarmi a lezione o mi frigge nell’olio
bollente.»
«Non ci posso credere»
commentò Stefano, sempre con tono allegro, come se lei non
avesse detto nulla.
«Non hai neanche visto queste.» Le mise sotto il
naso un mazzo di peonie di un
rosa intenso e morbido, avvolte in carta bianca. Erano i suoi fiori
preferiti,
insieme alle rose gialle, ed era difficile trovarle. Per questo suo
padre,
qualche settimana prima di un saggio, le prenotava da un fioraio in
centro. Non
le aveva minimamente notate. Esitò un istante, poi prese il
mazzo e sorrise,
accostandolo al viso per annusarlo.
«Oh! Grazie, sono
perfette. Al contrario degli accordi che mi sono usciti
stasera.»
I suoi si lanciarono
uno sguardo significativo, una di quelle occhiate con cui erano capaci
di
comunicare qualsiasi cosa. A volte andavano avanti così per
moltissimo tempo,
vere e proprie conversazioni di sguardi che Vittoria trovava
esasperanti.
Stefano alzò le mani.
«Va bene, se dobbiamo
continuare almeno facciamolo mentre andiamo da Shibumi.»
****
Shibumi era il
loro
ristorante di sushi preferito, a dieci minuti di distanza dal
Conservatorio, in
pieno centro. Era tradizione che cenassero lì dopo i saggi,
ma ci andavano
spesso, ogni volta che c’era un’occasione speciale.
Era un appuntamento fisso
per l’anniversario di matrimonio di Stefano e Claudia: di
solito festeggiavano
loro due soli da qualche parte, ma la sera prima o la sera dopo
portavano la
figlia da Shibumi.
Il nome era una parola
giapponese che indicava una bellezza riservata, poco appariscente,
nascosta
dietro un aspetto esteriore comune e banale. Si adattava al posto alla
perfezione. L’ingresso del ristorante era una semplice porta
a vetri che dalla
strada mostrava soltanto una saletta con il banco della reception e il
guardaroba. Da lì un corridoio lungo e stretto portava alla
sala, affacciata su
un delizioso giardino interno in stile giapponese. Tutto era in bianco
e nero,
semplice e raffinato: il pavimento nero lucido, le pareti bianche con
ideogrammi neri dipinti che recitavano haiku,
i tavoli neri lisci e
levigati con panche e sedie in pelle bianca, il sushi bar di un bianco
acceso e
immacolato dietro il quale, a vista, lavoravano chef in divisa nera.
Lo staff ormai li
conosceva e ad accompagnarli al solito tavolo, il migliore della sala,
fu il maitre,
un ragazzo giovane, alto e magrissimo, con un completo nero.
Portò al tavolo un
vaso bianco rettangolare, di semplice ceramica bianca, per sistemare le
peonie.
Vittoria sfogliò rapidamente il menù digitale sul
telefono e si fermò alla
pagina del sushi vegetariano. Non mangiava carne né pesce
dalle elementari, ma
Shibumi faceva il miglior sushi vegetariano che avesse mai assaggiato.
Puntò
subito il dito sul maki con le zucchine, il suo preferito, e
mostrò il telefono
al maitre
con un gran sorriso.
Mentre il ragazzo
spiegava le novità del menù e annotava gli ordini
su un tablet, Vittoria notò
che i suoi genitori sembravano distratti. Durante il tragitto verso il
ristorante non avevano fatto che lanciarsi occhiate incomprensibili
senza dire
nemmeno una parola, mentre Vittoria spiegava nel dettaglio tutto quello
che era
andato male durante l’esibizione da solista, e già
questo l’aveva sconcertata.
In circostanze normali, quando lei faceva così la prendevano
sempre
affettuosamente in giro. Quella sera, invece, era convinta che non la
avessero
ascoltata affatto. Ora, a differenza di prima, evitavano di guardarsi o
di
guardare verso di lei. Stefano fissava il maitre
con l’aria di chi pensa
a tutt’altro, Claudia guardava fuori, in direzione del
giardino giapponese. Si
domandò se non avessero litigato, forse mentre aspettavano
che lei uscisse, nel
cortile del convento. Sarebbe stato molto strano, perché i
suoi non litigavano
mai. Erano una di quelle coppie che tutti definiscono perfette e non
per modo
di dire.
Quando il maitre
si allontanò, Vittoria pensò di chiedere
spiegazioni, ma in quel momento il
display del suo telefono posato sul tavolo accanto a lei si
illuminò: era un
messaggio di Marco. Passò un dito sul telefono per aprire il
messaggio e
proprio allora suo padre parlò.
«Dobbiamo dirti una
cosa.»
Vittoria sollevò gli
occhi e lo fissò: sul visto aveva un’espressione
seria che sembrava dirle “Non
si scappa.” Fece un mezzo sorriso. «Lo
sapevo.»
Lui aggrottò la fronte.
«Ah sì?» Aveva un tono leggero, ma era
evidente che era in tensione. Anche se
era bravo a nascondere queste cose, chi lo conosceva meglio, come sua
moglie e
sua figlia, di solito intuiva che c’era qualcosa che non
andava. In quel
momento il maitre tornò al tavolo con
l’acqua e il vino bianco. Mentre
li versava nei bicchieri, Stefano aspettò, appoggiato un
po’ rigidamente allo
schienale della sedia, e Claudia distolse lo sguardo dal giardino per
sorridere
al ragazzo in segno di ringraziamento. Quando furono di nuovo soli,
Vittoria
rispose.
«Vi siete scambiati
occhiate strane per tutta la strada.»
«Sei troppo sveglia,
ragazzina» commentò suo padre, accigliato, e lei
sorrise.
«Lo so.»
Il display del suo
telefono si illuminò di nuovo e Vittoria esitò. I
suoi genitori non volevano
che fosse sempre attaccata al cellulare durante i pasti, ma di solito
la
lasciavano fare, purché non esagerasse. Sfiorò il
display con l’indice e
guardò: Marco le aveva mandato la foto di una ratatouille
(era andato a cena in un ristorante francese con la sua famiglia) e nel
messaggio successivo le aveva inviato l’emoticon di un topo,
in allusione al
film della Disney. Sorrise e stava iniziando a digitare una risposta,
quando la
voce di suo padre la raggiunse di nuovo.
«Vittoria? È una cosa
importante.»
Lei sollevò la testa di
scatto, come se un campanello di allarme le suonasse nella testa.
Capì che
doveva essere successo davvero qualcosa di serio. Mentre fissava suo
padre
pensò che non poteva biasimare le sue amiche (e le madri
delle sue amiche e
praticamente tutto il genere femminile) se erano innamorate di lui:
aveva
lineamenti perfetti, eleganti e squadrati, il naso lungo e dritto, gli
occhi
dello stesso azzurro intenso di sua figlia e un sorriso che poteva
illuminare
una stanza. In quel momento aveva la fronte leggermente contratta, le
labbra
serrate, come se trattenesse qualcosa, e un’aria decisa nello
sguardo.
«Sì, scusa» mormorò.
Uscì in fretta dalla conversazione con Marco.
All’improvviso le venne un
pensiero orribile, così sconvolgente che le mozzò
il fiato. «Non devi partire
di nuovo, vero?»
Due anni prima, quando
lei aveva tredici anni, suo padre aveva cambiato lavoro e aveva
lasciato la sua
vecchia banca per un posto dirigenziale alla Prescott Investment Bank.
Poco
dopo, gli avevano chiesto di passare sei mesi a Londra, per
familiarizzare con
la nuova struttura, conoscere i vertici e seguire dei corsi di alta
specializzazione sui mercati internazionali. Stefano avrebbe potuto
benissimo
trasferirsi da solo, sebbene l’idea di lasciare Vittoria e
Claudia per tanto
tempo non gli piacesse, ma pian piano avevano iniziato a discutere
della
possibilità che loro due lo seguissero. All’inizio
a Vittoria era sembrata una
mezza tragedia: anche se si trattava solo di sei mesi, doveva lasciare
Milano,
frequentare una nuova scuola, non avrebbe visto i suoi amici per quella
che le
sembrava un’eternità e poi c’era il
problema delle lezioni al conservatorio.
Non ne perdeva mai una, neanche quando aveva la febbre. Alla fine,
però, aveva
acconsentito: si era resa conto che per suo padre sarebbe stato
importante averle
accanto in quel momento; l’idea di vivere a Londra per un
po’ non era poi così
male (anzi, a rifletterci bene era una bomba) e poi la sua famiglia
stava
uscendo da un periodo particolare e aveva bisogno di distrazioni.
Londra
sarebbe stata sicuramente sufficiente.
Si era rivelata una
esperienza intensa, ma stimolante: la scuola privata dove i suoi
l’avevano
iscritta per quei sei mesi era bella, andava d’accordo con i
nuovi compagni di
classe (al punto che scambiava ancora email con Julie, la sua compagna
di
banco) e avevano perfino trovato un eccellente insegnante di pianoforte
che le
facesse lezioni private, in modo che non restasse indietro una volta
tornata al
conservatorio. Era stato molto meno tremendo di quanto avesse
immaginato e al
rientro a Milano il suo inglese fluente le era fruttato un 10 in
pagella. L’idea
di rifarlo e di lasciare di nuovo tutto, però, le metteva
una certa nausea.
Suo padre parve
sorpreso e scosse il capo. «No, tranquilla. Non
c’è nessun trasferimento in
vista» disse subito e a Vittoria sembrò di tornare
a respirare. Afferrò il
bicchiere e mandò giù una sorsata
d’acqua, mentre lui continuava. «È
che…
stiamo pensando… Che ne dici di andare in Sicilia, questa
estate? A Santo
Stefano.»
Fu come cadere di colpo
dal letto. Vittoria lo fissò in silenzio, senza capire, il
bicchiere sospeso a
mezz’aria. Mandò giù l’acqua
lentamente. Santo Stefano era l’isoletta della
Sicilia dove erano nati i suoi genitori e dove, per quanto ne sapeva,
non
mettevano piede da prima che lei nascesse. Non avevano mai mostrato il
minimo
attaccamento per quel posto, anzi. Le rare volte in cui ne avevano
parlato con
lei erano sempre sembrati felici di essere andati via e non avevano mai
accennato alla possibilità di tornarci o di portarci la
figlia. E ora volevano
andare in vacanza lì, così
all’improvviso. Vittoria rimise giù il bicchiere,
sconcertata. Poteva capire che due ragazzi volessero lasciare un posto
minuscolo e sperduto che non offriva nessuna possibilità. La
loro vita a Milano
doveva essere lontana anni luce da quella che avevano condotto
sull’isola,
anche perché nessuno dei due proveniva da una famiglia
ricca. Capiva un po’
meno quel bisogno improvviso di tornarci senza una ragione valida.
«Ma… dobbiamo andare in
Costa Azzurra, quest’estate» riuscì a
tirare fuori a un certo punto. Non aveva
idea di che cosa dire. Suo padre aspettava una sua reazione, ma lei non
provava
nulla se non un’assoluta, completa sorpresa.
«Ad agosto» confermò
Stefano. Sembrò sollevato dal fatto che lei avesse detto
qualcosa, rompendo
quel silenzio pesante. «Ma a luglio ho un po’ di
ferie arretrate e non abbiamo
programmato nulla.»
Vittoria lo fissò a
bocca aperta. Tanto per fare qualcosa, prese il tovagliolo di stoffa e
se lo sistemò
sulle gambe, poi si schiarì la voce.
«Perché volete andarci? È successo
qualcosa?»
A quel punto sua madre
intervenne, come se non potesse più farne a meno.
«In effetti sì: Edoardo
Falconeri sta male.»
«Mio padre» precisò
Stefano un attimo dopo.
Vittoria trasalì. «So
chi è» mormorò, pensierosa. Il nome di
suo nonno era stato fatto pochissime
volte tra loro, poteva contarle sulle dita di una mano. Stefano non ne
parlava
volentieri. Davanti all’espressione di Vittoria, lui fece un
sospiro, esitò per
un secondo, poi si raddrizzò sulla sedia.
«Anni fa ha scoperto di
avere una cardiopatia piuttosto seria. Rischiava una forte riduzione
dell’aspettativa di vita, ma si è sottoposto a due
interventi ed è stato
abbastanza bene» spiegò, con calma.
«Negli ultimi anni la situazione si è
aggravata di nuovo. E ora ha scoperto di avere un cancro. Al polmone
sinistro.
Ha già delle metastasi. Non è operabile e non
reggerebbe la chemio. Ormai è
anziano e... Credo che non riesca più a lottare. Non gli
rimane molto da
vivere.»
Vittoria ascoltò in
silenzio, immobile sulla sedia, le mani strette in grembo.
Cercò di elaborare
tutte quelle informazioni catastrofiche. Suo padre le aveva ovviamente
fornito
un riassunto della storia, ma aveva capito l’essenziale:
Edoardo Falconeri
stava morendo. Suo nonno stava morendo. Abbassò gli occhi
sul raffinato piatto
rettangolare, smaltato di nero e affiancato da due splendide bacchette
dall’impugnatura intagliata che rappresentava un ramo di
ciliegio. Erano una
piccola opera d’arte. Cercò di capire come la
faceva sentire quella notizia.
Era triste, certo, dopotutto qualcuno era gravemente malato e stava per
morire,
ma sapeva che non lo era quanto avrebbe dovuto. Daniela stravedeva per
sua
nonna, la madre di suo padre, e andava molto più
d’accordo con lei che con i
suoi genitori. Se le fosse successo qualcosa, Vittoria era sicura che
la sua
amica sarebbe stata malissimo. Deglutì.
«Mi dispiace» disse, a
voce molto bassa. Claudia e Stefano la osservavano senza parlare, come
in
attesa di qualcosa, ma cosa credevano che potesse dire o fare?
Contrasse
nervosamente le dita sotto il tavolo. «Allora tu…
vuoi andare a trovarlo?»
chiese, rivolta a suo padre.
Lui non rispose subito.
Prima lanciò un’occhiata a Claudia, come se fosse
incerto sulla risposta. «Non
esattamente. Sai che i nostri rapporti non sono buoni.»
Vittoria inarcò le
sopracciglia. Era un eufemismo, a dir poco. Non sapeva molto di Santo
Stefano e
di Edoardo, ma sapeva che suo padre era nato da una relazione extra
coniugale
di suo nonno con una ragazza molto giovane che lavorava in casa sua.
Sapeva che
suo padre aveva lasciato l’isola da bambino, che Edoardo non
lo aveva mai
cercato né si era mai occupato di lui e che decisamente non
era stato un padre
da ricordare. Lo guardò con attenzione, cercando di capire
come si sentiva al
pensiero che Edoardo stesse morendo: appariva tranquillo, ma Vittoria
sapeva
che non significava nulla. Era un maestro nel controllo delle emozioni.
«Io non ho niente in
contrario a vederlo, ma il punto è un altro: lui vuole
conoscere te» continuò suo
padre. Non aggiunse “prima di andarsene per
sempre”, ma a Vittoria sembrò di
sentire quelle parole nelle orecchie ugualmente.
«Ma… non capisco. Non
si è mai preoccupato di me in tutti questi anni.»
Non riusciva neanche a
immaginarlo, suo nonno, se non come una versione più anziana
di suo padre: una
volta Claudia le aveva detto che c’era una buona somiglianza
tra loro, sebbene
Stefano avesse ereditato tutto il suo fascino dalla madre. Non sapeva
che
faccia avesse davvero o come suonasse la sua voce o come si sarebbe
comportato
con lei, che tipo di nonno potesse essere. Stare lì a
discutere della sua morte
incombente e del loro possibile incontro era surreale.
«Forse quando si è molto
vicini alla fine la prospettiva cambia» rispose sua madre con
voce dolce, come
se cercasse di indorare la pillola.
«Lo ha fatto anche con
me, una volta» aggiunse Stefano. «Non ci vedevamo
da molto tempo e
all’improvviso mi ha chiesto di tornare a Santo Stefano. Di
andare da lui.»
«Davvero? Ci sei andato?»
chiese Vittoria, confusa. Doveva essere successo prima che lei nascesse.
Lui ebbe un attimo di
esitazione. «Sì.»
«E ti sei pentito?»
Suo padre la osservò in
silenzio per un momento, poi fece un respiro lieve. «No, ma
questa è un’altra
storia. Io e tua madre ne abbiamo parlato e vorremmo che fossi tu a
decidere se
andare oppure no.»
Per la terza volta
quella sera Vittoria trasalì, scossa dalla sorpresa.
«Ne avete parlato? Da
quanto tempo lo sapete?»
Il suo telefono si
illuminò ancora una volta, ma lo ignorò. Fino ad
allora aveva pensato che suo
padre avesse appena ricevuto la notizia, ma adesso che ci rifletteva si
rendeva
conto che i suoi erano troppo a loro agio in quella strana
conversazione. Le
rare volte in cui lei aveva fatto domande sul loro passato le avevano
sempre
risposto controvoglia, a monosillabi, finché Vittoria aveva
capito e aveva
smesso di chiedere. Ora, invece, affrontavano l’argomento con
una
determinazione che non avevano mai avuto. Non erano felici di farle
quella
proposta, lo capiva, ma sembrava che non avessero dubbi su cosa fare o
dire.
Era come se ne avessero discusso tra loro prima di parlare con lei e
forse
anche a lungo.
Fu sua madre a
rispondere. «Da un mese, più o meno»
disse, esitante.
Vittoria sgranò gli
occhi. Eccome se ne avevano discusso. «E me lo dite soltanto
adesso?»
«Abbiamo pensato di
lasciar passare il saggio. Non volevamo che ti distraessi.»
Vittoria abbassò di
nuovo lo sguardo sul piatto. Doveva ammettere che era stato meglio non
avere
quel pensiero mentre sudava su Chopin, ma al tempo stesso non
poté fare a meno
di sentirsi un po’ ferita. Era abituata a essere coinvolta in
tutte le
discussioni importanti. Quando i suoi genitori le avevano detto del
trasferimento temporaneo a Londra, due anni prima, le avevano spiegato
che non
volevano sconvolgere la sua vita e che se fosse stata assolutamente
contraria sarebbe
rimasta a Milano insieme a Claudia. Ora stavano lasciando la decisione
a lei, ma
Vittoria avrebbe preferito partecipare alla discussione fin
dall’inizio. Non
era una bambina. E poi, di cosa avevano parlato i suoi genitori per un
mese
intero? C’era così tanto da dire sulla faccenda?
Strinse le labbra, sempre più
confusa.
«Ti ha chiamato
Edoardo? Avete parlato?» domandò a Stefano,
accigliata, più per prendere tempo
che per vera curiosità.
Suo padre restò in
silenzio per un attimo, immobile. Sembrava una statua di cera.
«No, mi ha
chiamato Enrico.»
Fu un’altra sorpresa.
Vittoria sollevò la testa di scatto e lo fissò
incredula. «Hai parlato con tuo
fratello?»
In realtà Enrico e
Stefano erano fratellastri, perché il primo era figlio della
moglie di Edoardo
Falconeri, ma quella parola non le piaceva. Le faceva venire in mente
Anastasia
e Genoveffa, con quegli orrendi abiti sgargianti e le piume ondeggianti
sulle
teste. In ogni caso, i loro rapporti erano inesistenti, come quelli tra
Stefano
e Edoardo, e se Enrico aveva chiamato suo fratello significava che la
situazione era davvero seria.
Lui assentì appena.
«Sì, ma… non credo che lo incontreremo.
In quel periodo avrà degli impegni di
lavoro fuori dall’isola. A Palermo, mi sembra.»
Parlava con tono
tranquillo, ma Vittoria si domandò se non fosse sollevato di
non dover
incontrare il fratello. Dopo così tanti anni di silenzio
sarebbe stato molto
difficile e strano. E lei cosa doveva fare? Sentì
l’ansia strisciarle su per la
schiena mentre rifletteva. Lasciò vagare per la sala lo
sguardo inquieto. Non
accontentare quello che poteva essere l’ultimo desiderio di
Edoardo sarebbe
stato crudele e forse lui non era una brava persona, ma era pur sempre
suo
nonno. Vittoria aveva sempre desiderato conoscere davvero la storia
della sua
famiglia. Più i suoi genitori erano reticenti e
più lei sentiva crescere la
curiosità. In passato si era detta che probabilmente non le
parlavano di tutto
perché era ancora troppo piccola, ma ormai aveva quindici
anni e tutti, dai
suoi professori ai suoi stessi genitori, le dicevano sempre quanto
fosse matura
per la sua età. Quando si trattava di quello,
però, Claudia e Stefano si
ostinavano a considerarla una bambina e negli ultimi tempi il loro
atteggiamento aveva iniziato a darle fastidio.
D’altro canto, proprio
il fatto che non sapesse praticamente nulla del passato dei genitori
sull’isola
la spingeva a essere cauta: sapeva soltanto che avevano un rapporto
complicato
tanto con l’isola quanto con Edoardo; la situazione tra
Enrico e Stefano, poi,
non era affatto migliore. Quando suo padre lo nominava, qualche volta
(di
sfuggita e solo se proprio non riusciva a evitarlo), Vittoria sentiva
il gelo
scendere su di loro. Non era affatto sicura che rimettere insieme tutti
questi
elementi senza sapere nei dettagli cosa era accaduto fosse una buona
idea.
Anzi, era sicuramente una pessima idea.
Eppure… e se quella
fosse stata la sua unica occasione di scoprire qualcosa? Il pensiero la
colpì
all’improvviso, facendola sussultare leggermente. Era
possibile che Edoardo
fosse disposto a rispondere alle sue domande? Magari, per ingraziarsi
la nipote
che non si era mai preoccupato di conoscere fin quasi alla morte,
l’avrebbe
ascoltata, avrebbe parlato con lei. E così Vittoria avrebbe
saputo tutta la
verità, finalmente. Ma se questo poteva significare mettere
in difficoltà i
suoi genitori, forse causare uno scontro in famiglia? Ne valeva la
pena? Le
sembrò di essere tirata in due direzioni opposte
contemporaneamente ed emise un
respiro breve e teso. Non era affatto piacevole.
«Tesoro, se non te la
senti lo capiamo. Non ci sarebbe nulla di strano» intervenne
all’improvviso sua
madre. «In fondo non li conosci affatto.»
Vittoria la guardò e
capì che i suoi dubbi doveva averli scritti in faccia,
perché Stefano e Claudia
la stavano fissando con molta attenzione, quasi guardinghi, come se
temessero
la sua risposta. Colpita, si mosse sulla sedia, a disagio. No, non
conosceva
affatto Edoardo ed Enrico, ed erano suo nonno e suo zio. Avrebbe
continuato a
giudicarli sulla base dell’opinione che ne avevano i suoi
genitori? Si rese
conto, studiando l’espressione di sua madre, che in
realtà loro volevano,
speravano, che gli desse ragione e che decidesse di non andare
sull’isola.
Perché?
«In effetti non so
quasi niente di loro» rispose, un po’ fredda.
Cadde il silenzio e per
un po’ nessuno ebbe voglia di infrangerlo. Poi Stefano
sospirò.
«Hai ragione. Io e la
mamma non ne parliamo volentieri, ma… ricordare certe cose
fa soltanto male.
Non serve a niente. Sono sicuro che lo capisci.»
Vittoria annuì
lentamente. «Sì… credo di
sì» mormorò, anche se non affatto
sicura di capire o
di essere d’accordo con suo padre.
«Nella vita bisogna
andare avanti» riprese Claudia. «Non ha senso
guardare indietro e noi non
vogliamo che tu diventi una persona che si guarda indietro.»
Vittoria inarcò le
sopracciglia. «Giusto. Però Edoardo è
mio nonno: non è così tanto indietro.»
Osservò la reazione dei suoi genitori e le parvero sorpresi.
Probabilmente si
erano aspettati qualcosa di diverso. Rimasero di nuovo in silenzio e
intanto
lei rifletteva, ascoltando il rumore rilassante di una piccola cascata
che
scendeva in un laghetto di ninfee, nel giardino. Qualcosa le diceva che
quelle
risposte vaghe e generiche erano tutto ciò che avrebbe mai
avuto da loro su
quella faccenda. A poco a poco si rasserenò, come se
l’acqua che scorreva
lavasse via l’incertezza. Quando suo padre di
schiarì la voce, tornò a
concentrare l’attenzione su di lui.
«Allora… che cosa vuoi
fare?» Il tono cauto faceva eco alla sua espressione.
«Noi accetteremo la tua
scelta, qualunque sia. Se vuoi prenderti qualche giorno per
pensarci…»
«No. Non serve.»
Vittoria tentennò per un istante appena, poi gli sorrise.
«Ho deciso.»
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Capitolo 6. Il giocatore ***
CAPITOLO 6
IL
GIOCATORE
Milano
Luglio 2015
Stefano non riusciva a
dormire. Era quasi l’una del mattino – aveva
continuato a guardare la sveglia
digitale sul comodino da quando era andato a letto – e lui
era sdraiato da più
di un’ora, immobile nella stessa posizione, a fissare il
controsoffitto
tempestato di faretti. Aveva la spiacevole impressione che stesse per
crollargli addosso.
Aveva fatto l’amore con
Claudia, quella sera. Di solito preferivano farlo la mattina presto,
quando
Stefano tornava dal footing al parco. Per cominciare bene la giornata,
scherzava sempre Claudia. Quella sera, però, lui aveva
sentito un bisogno così
impellente che gli era sembrato di scoppiare se non l’avesse
toccata, se non
fosse entrato dentro di lei. Quando l’aveva baciata e
l’aveva trascinata sul letto,
Claudia doveva aver percepito qualcosa di strano. Se ne era accorto
dall’insolita rigidità del corpo di lei tra le sue
braccia. Non aveva detto
nulla, però. Si era limitata a stringerlo più
forte, come per rassicurarlo.
Era stato un rapporto
breve e intenso e Stefano si era sentito meglio mentre premeva il corpo
contro
quello di sua moglie, come sempre. Quando facevano l’amore o
semplicemente erano
insieme da soli era come rompere un argine, abbassare una maschera. In
quei
momenti Stefano poteva essere davvero se stesso, senza dover nascondere
nulla a
nessuno, perché lei sapeva tutto di lui e lo conosceva
più in profondità di
quanto lo stesso Stefano avrebbe mai potuto conoscersi. Aveva posato la
fronte
su quella di Claudia, facendosi strada nel suo corpo con un unico
movimento
lento, il respiro di lei sulla sua bocca. Potrei morire
così, aveva
pensato con l’ultima briciola di lucidità, prima
di perdersi completamente.
Dopo, gli era sembrato
di sentirsi un dio, di poter affrontare qualunque cosa. Ma poi, quando
aveva
cercato di addormentarsi, aveva scoperto di non riuscire a chiudere gli
occhi e
smettere di fissare il soffitto su cui si disegnavano crepe immaginarie
che
avrebbero distrutto tutto. Come avrebbe potuto fermarle? Gli sembrava
di essere
sull’orlo di un precipizio, diviso a metà tra
l’istinto di tirarsi indietro e
l’assurda tentazione di lasciarsi cadere.
Una volta, ai tempi dell’università, i suoi amici
lo avevano sfidato a uscire con una ragazza
bellissima alla quale nessuno di loro osava avvicinarsi. Stefano aveva
riflettuto un momento: non ci teneva a fare la figura
dell’idiota davanti a
tutti, ma era piuttosto sicuro di potercela fare. E quando era sicuro
di
qualcosa, solitamente andava tutto alla grande. Aveva sorriso ai suoi
amici e
aveva accettato. Era successo prima di Claudia e ora non ricordava
nemmeno il
nome di quella ragazza, anche se lei gli aveva risposto di
sì e al secondo appuntamento
erano andati a letto insieme.
Invece ricordava
benissimo che mentre camminava verso di lei aveva provato una
sensazione molto
simile a quella che sentiva adesso: due mani che lo tiravano
contemporaneamente
in direzioni diverse. Poi quell’impulso che lo spingeva
sempre a lanciarsi
nelle sfide, come per provare ogni volta qualcosa a se stesso, aveva
preso il
sopravvento e Stefano aveva fatto gli ultimi passi verso la ragazza con
un’andatura lenta e tranquilla che l’aveva spinta
ad alzare lo sguardo su di
lui, curiosa. Forse nessuno le si era mai avvicinato con tanta
sicurezza e
forse era per questo che aveva accettato di prendere un
caffè insieme. Il
problema era che stavolta Stefano non poteva lanciarsi come aveva
sempre fatto
nella vita, perché non c’era di mezzo soltanto
lui. E perché aveva fatto una
promessa che doveva mantenere a qualsiasi prezzo.
All’improvviso non ne
poté più di stare fermo. Si alzò,
cercando di non fare rumore, anche se sapeva
che Claudia era sveglia quanto lui. Lo capiva dal ritmo del suo
respiro. Aprì
la porta, percorse metà del corridoio buio e davanti alla
porta chiusa della
stanza di Vittoria, sulla destra, si fermò. Aveva bisogno di
vederla. Sollevò
la mano e sfiorò la maniglia. Per un attimo fu sul punto di
abbassarla con
delicatezza, poi chiuse gli occhi, prese un respiro profondo, li
riaprì e
lasciò ricadere la mano. Non voleva rischiare di svegliarla.
Passò per il salotto
immerso nel buio e nel silenzio, con le ampie vetrate che affacciavano
sui
tetti del centro di Milano, ed entrò nella cucina, grande e
moderna, di un
bianco accecante che brillava nell’oscurità.
Girò intorno all’enorme isola al
centro della stanza, circondata da sgabelli, si versò un
bicchiere d’acqua e
dal touch screen del frigorifero smart selezionò tre cubetti
di ghiaccio che
scivolarono dolcemente nel bicchiere dal dispenser. Gli nacque un
sorriso lieve
sulle labbra mentre mandava giù un sorso di acqua
piacevolmente fresca. Avevano
comprato quel frigo qualche mese prima e Vittoria lo chiamava
“il maggiordomo”,
perché oltre a servire dal dispenser era programmato per
tenere conto dei
prodotti al suo interno e inviare una notifica quando qualcosa era in
scadenza
o stava per terminare. L’acqua fredda fu come una scossa e
gli parve di
sentirsi più lucido mentre usciva dalla cucina. Anche se
l’aria condizionata
era accesa e lui indossava solo i pantaloni di seta leggera del
pigiama, faceva
comunque un gran caldo. Sulla soglia della camera matrimoniale si
bloccò:
Claudia lo aspettava seduta sul letto, a gambe incrociate e decisamente
sveglia.
«Cosa c’è che non va?» gli
chiese a bruciapelo.
Stefano tentennò per un
attimo, incerto, mentre muoveva le spalle per allentare la tensione dei
muscoli
e prendere un po’ di tempo. Sapeva che sarebbe servito a
poco, perché la
conosceva troppo bene, ma tentò comunque di
tranquillizzarla. «Niente, non
riesco a dormire. Tutto qua.»
Claudia non rispose
subito, ma lui capì che non se l’era bevuta. I
silenzi tra loro erano sempre
pieni di parole. «Sei preoccupato, lo so» disse
lentamente. «E penso anche di
sapere il perché.»
Ecco, alla fine ci
erano arrivati. Stefano sospirò, buttò
giù quello che restava dell’acqua e
lasciò il bicchiere sul comò alto che occupava la
parete di fronte al letto.
Poi raggiunse Claudia e si lasciò cadere sulle lenzuola
aggrovigliate accanto a
lei. Mise i gomiti sulle ginocchia e intrecciò le mani
mentre rifletteva.
«Non so più se è una
buona idea.»
«Lo stai dicendo da
maggio. Ne abbiamo parlato un’infinità di
volte» rispose lei. La sua voce era
dolce e paziente, ma Stefano avvertiva l’esasperazione
agitarsi sotto le parole
e in fondo non poteva darle torto. Scosse piano la testa.
«Hai ragione, ma… Non
lo so. Qualcosa mi dice che stiamo facendo una cazzata
enorme» ammise,
frustrato. Si sentiva insicuro e odiava quella sensazione
così poco familiare
per lui. Era come saltare un gradino e avere all’improvviso
il vuoto sotto un
piede.
«Be’, partiamo domani.
Ormai è tardi, non ti sembra?» disse Claudia e lui
capì che stava sorridendo,
ma non rispose, lasciando cadere nel vuoto il tentativo di
sdrammatizzare.
Claudia rimase in silenzio per qualche istante, poi allungò
una mano e la mise
sul suo braccio. «Abbiamo pensato a tutto, Stefano. Non ci
sarà nessun
problema.»
Lui continuava a
tormentarsi le mani, fissando un punto nel buio dove si apriva la porta
della
cabina armadio. «Sì, ma Vittoria… Se
Edoardo dovesse…»
«Non potevamo dire di
no. Edoardo sarà pure quello che è, ma sta
morendo e ha il diritto di conoscere
sua nipote.»
A Stefano sfuggì un
sorriso storto, amaro, più simile a una smorfia. Che diritti
poteva mai avere
quell’uomo? Scosse appena la testa. Era surreale stare
lì a parlare di questo,
che di colpo aveva assunto importanza nelle loro vite.
«Dobbiamo pensare solo a
nostra figlia. Al diavolo Edoardo.»
«È a lei che stiamo
pensando: anche Vittoria ha il diritto di conoscerlo»
ribatté lei, decisa, poi
rimase zitta per un po’. Nonostante le sue parole era a
disagio e Stefano lo
percepiva, anche se la stanza era troppo buia per vedere bene il suo
viso. Fece
un respiro strano, incerto. «E poi… Enrico non ci
sarà» aggiunse in tono
piatto. «Penso che sia andato via proprio per non
incontrarci.» Di nuovo tacque
e Stefano non disse nulla, aspettando. Anche a lui era venuta in mente
quella
possibilità e lo faceva sentire stranamente triste.
«È assurdo, ma anche le
decisioni giuste che prende sono comunque sbagliate, in qualche
modo» concluse
Claudia. La voce era velata di una malinconia che faceva eco a quella
di lui.
Stefano chinò la testa
con aria stanca, come se all’improvviso fosse diventata
pesante. «Non possiamo
essere troppo severi con lui» mormorò. Tornare a
parlare di Edoardo e Enrico
dopo tanti anni, quando era arrivata la telefonata di suo fratello a
maggio,
era stato stranissimo. E anche se avevano passato le ultime settimane a
discuterne lo era ancora. Molto tempo prima avevano preso la decisione
di
tagliarli fuori dalle loro vite e aveva funzionato benissimo per anni.
Ora si
stavano mescolando di nuovo le carte. Lui era sempre stato un giocatore
d’azzardo (se non lo fosse stato, d’altronde, non
avrebbe mai potuto fare il
suo lavoro), ma non stavolta. Non quando c’era di mezzo sua
figlia.
«Lo so.» Il tono di
Claudia era ancora malinconico, ma sostenuto, come se non fosse
disposta a
concedere troppo. «So che non è stato facile per
Enrico, ma non lo è stato
neanche per noi.»
«A volte mi chiedo se
abbiamo fatto davvero tutto quello che potevamo, con lui»
disse Stefano
lentamente. «O se c’era qualcosa…
qualunque cosa… anche solo una frase, un
gesto, una parola che avrebbe potuto cambiare le cose.»
Claudia lo guardò e a
lui parve di sentire con chiarezza i suoi occhi penetranti addosso,
come se
potessero trovarlo e vederlo anche nel buio. «Io
l’ho pregato di ascoltarmi,
Stefano, e non una volta sola. Sai qual è stata la risposta.
Capisco quello che
ha passato, ma non credo che potrò mai perdonarlo.»
Stefano si girò verso
di lei e per un po’ osservò in silenzio i contorni
del suo viso, poi allungò
una mano e le accarezzò piano la guancia. «La
parte difficile non è perdonare
gli altri, ma se stessi.» Sentiva una tristezza pesante
gravargli addosso e spingerlo
verso il basso. In quel momento aveva bisogno di lei più che
di qualsiasi altra
cosa. Claudia mise la mano sulla sua e la strinse forte, premendosela
contro la
pelle come per sentire il tocco di lui ancora più in
profondità, sulla carne,
sulle ossa.
«Ci abbiamo provato.
Abbiamo fatto tutto il possibile. Abbiamo fatto del nostro
meglio» disse,
concentrata su Stefano, la voce sicura e decisa. Parlava come se non ci
fosse
niente al mondo in cui credeva di più e lui si
aggrappò alla sua sicurezza.
Claudia lo fissò intensamente ancora per un momento, in
silenzio, poi sul suo
viso serio si aprì un piccolo sorriso. «E tu sei
meraviglioso.»
Stefano le passò il
pollice lungo il profilo della mascella, premendo un po’
sulla pelle. Lei
chiuse gli occhi e sospirò. «Sei preoccupata per
la mia autostima?»
«Dico sul serio»
ribatté Claudia, ignorando il tentativo di sdrammatizzare.
«Dai il massimo,
ogni minuto di ogni giorno.» Il suo sorriso si era spento e
ora lo guardava di
nuovo con espressione seria. «Io lo vedo e ti amo sempre di
più per questo.»
Lui sostenne il suo
sguardo. Sapeva che non stava solo cercando di farlo stare meglio con
parole
vuote, che credeva davvero in quello che diceva. E non era una bugia,
in fondo.
Lui ci provava davvero a fare tutto come avrebbe dovuto fare, ma il
problema era
un altro. Fece un respiro secco e nervoso.
«Credi che potrà mai
essere sufficiente?» le domandò in un sussurro,
lasciando uscire tra i denti
quel pensiero che lo terrorizzava. Per un attimo pensò che
lei non avesse
sentito, ma poi Claudia aumentò la forza della stretta sulla
sua mano.
«Sì. Sì, lo è»
rispose,
a voce più alta e chiara, questa volta. Piegò
leggermente la testa, quasi
appoggiandosi a Stefano, e lui mise la fronte contro la sua. Chiuse gli
occhi,
mentre la familiare sensazione di assoluto benessere che associava
soltanto a
lei gli inondava le vene. Rimasero così a lungo e il resto
del mondo fu
dimenticato.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Capitolo 7. Fantasmi ***
CAPITOLO 7
FANTASMI
Sicilia,
Isola di Santo Stefano
Luglio 2015
Vittoria
sollevò le
palpebre e subito le richiuse di scatto quando la luce violenta del
sole le
ferì gli occhi. Rimase ferma, distesa nel letto in un
groviglio di lenzuola, la
pelle sudata e bruciante per il caldo, immersa in quello stato di
torpore e confusione
che segue il risveglio. A mano a mano che usciva dal sonno e acquisiva
consapevolezza della realtà, si rendeva conto che
c’era qualcosa di strano: il
materasso sotto di lei era più duro del solito, come se
fosse stato usato meno,
e il lenzuolo attorcigliato intorno al suo corpo aveva un profumo
nuovo,
diverso da quello che la accoglieva ogni mattina appena sveglia.
Riaprì gli
occhi con cautela, cercando di abituarsi piano alla luce, e quasi nello
stesso
momento ricordò. Non era nella sua stanza, a Milano, ma
nella camera per gli
ospiti della dépendance di Rosa e
Alberto, la coppia di amici dei suoi
genitori che si era offerta di ospitarli a Santo Stefano.
Sospirò, si stropicciò
gli occhi e si mise a sedere nel letto, guardandosi intorno. Le
persiane della
portafinestra che affacciava sul giardino erano abbassate solo a
metà e
lasciavano entrare la luce del mattino a fiotti densi e caldi. La sera
prima
doveva aver dimenticato di chiuderle. Era esausta, come se non avesse
chiuso
occhio. Il viaggio in auto da Milano a Civitavecchia, poi in traghetto
fino a
Palermo e da Palermo a Santo Stefano, era stato lungo e faticoso. La
sera prima
la stanchezza le era piombata addosso all’improvviso. Aveva
cenato a malapena,
poi aveva fatto una doccia e si era buttata sul letto senza neanche
aprire le valigie.
Il suo trolley viola se ne stava ben chiuso davanti
all’armadio e sembrava
rimproverarla silenziosamente.
Si stiracchiò,
allungando i muscoli contratti e ancora addormentati mentre scendeva
dal letto.
Alla stanchezza del viaggio si era sommata la tensione che era
cresciuta sempre
di più a mano a mano che si avvicinavano alla meta. Anche se
con lei i suoi genitori
si mostravano sempre sereni, erano diventati sempre più seri
e cupi. L’arrivo
sull’isola, però, era stato bello. Vittoria
l’aveva guardata avvicinarsi a poco
a poco dal ponte del traghetto, una sagoma di un azzurro polveroso e
dal
profilo frastagliato che si stagliava contro l’azzurro chiaro
e intenso del
cielo estivo e diventava sempre più netta e definita. Quando
il traghetto si
era avvicinato abbastanza aveva visto le coste alte e rocciose tagliate
da
piccole spiagge e calette sassose che si incuneavano come profonde
ferite nella
roccia. Portosalvo, l’unico porto e il principale centro
abitato dell’isola, si
era rivelato all’improvviso, quando il traghetto aveva fatto
una virata un po’
brusca verso est che aveva strappato a Vittoria un sussulto allo
stomaco: un
gruppo di case antiche dipinte a colori sbiaditi dal tempo (rosa,
azzurro,
giallo, verdino) strette tra loro come una nidiata di pulcini appena
nati,
addossate alle rocce e attraversate da stradine e viuzze in pendenza
che
sembravano precipitare verso il mare e ogni tanto, a sorpresa, si
aprivano su
uno slargo dove gli anziani sedevano in cerchio a chiacchierare.
Dal porto si
raggiungeva la polverosa piazza centrale percorrendo una strada che
dopo pochi
passi si trasformava in un vicolo e poi, dopo la piazza, si allargava
di nuovo.
Sulla piazza affacciavano una chiesa barocca dedicata al patrono
dell’isola,
una stazione di polizia che sembrava abbandonata e un bar
dall’aria antica con
tavolini e sedie colorate all’aperto. Dal 1950,
recitava l’insegna
appesa sulla porta a vetri. Nelle stradine strette e tortuose ogni
tanto
comparivano tra le case uno squarcio di mare e sole e le macchie
bianche delle
barche sulle onde.
Claudia e Stefano erano
scesi dal traghetto con due identiche espressioni di ghiaccio che si
erano
sciolte solo un pochino dopo aver visto Rosa e Alberto che li
aspettavano al
porto. Avevano sorriso appena davanti al calore e
all’entusiasmo della loro
accoglienza e Claudia era rimasta piuttosto rigida anche quando Rosa
l’aveva
stretta in un abbraccio energico. Si conoscevano dalla prima media,
erano
andate a scuola insieme ed erano state inseparabili fino a quando
Claudia aveva
abitato sull’isola. Dopo che lei si era trasferita, il loro
rapporto era
rimasto immutato. Anche se Claudia non tornava a Santo Stefano da tanti
anni,
avevano continuato a sentirsi quasi ogni giorno e a vedersi ogni volta
potevano. Rosa andava a trovarli spesso con Alberto, il suo compagno, e
un paio
di volte avevano anche fatto le vacanze insieme.
«Vittoria!» La voce di
sua madre le giunse attraverso la porta chiusa, scuotendola
definitivamente dal
sonno. Sentì che i passi si avvicinavano alla stanza, ma poi
si fermarono.
«Vittoria?»
«Sono sveglia, mamma»
borbottò lei a mezza voce, controvoglia.
«Ok, ti aspettiamo di
là.»
I passi si
allontanarono. Dal patio che girava intorno alla dépendance
proveniva un
saliscendi di voci, risate ed esclamazioni. Dovevano essere
già tutti in piedi.
Vittoria si costrinse ad alzarsi e ad aprire il trolley per tirare
fuori
vestiti e biancheria. Non aveva voglia di mettere tutto a posto,
così si limitò
a prendere quello che le serviva e a lasciare il resto per
metà nella valigia e
per metà sparpagliato sul letto. Ci avrebbe pensato dopo,
tanto i suoi erano
abituati al disordine che regnava in camera sua, a casa.
Aprì la porta, passò
accanto alla stanza matrimoniale e si infilò in bagno. La
casa di Alberto e Rosa
era immersa nella campagna, lontana dal centro abitato: un edificio di
pietra,
basso e squadrato, a cui si accedeva da un cancello incastonato tra due
alte
siepi che sottraevano la casa alla vista dalla strada. Lo circondava un
giardino mediterraneo dall’aria selvaggia: aranci, limoni,
palme, bouganville,
cespugli di erica, oleandri e mirto tra cui serpeggiavano due vialetti
di
pietra che si incrociavano e si allontanavano tracciando un arabesco
grigio in
mezzo ai colori vivaci dei fiori; nell’angolo est, un
pergolato di rose dava
ombra a due panchine e, dal lato opposto, c’era una piccola
vasca circolare con
una fontana zampillante. Sul retro della casa una grande terrazza, a
cui si
accedeva da uno dei viali tramite un cancelletto basso, si apriva a
picco sul
mare, offrendo una vista splendida sul versante nord-ovest
dell’isola.
Vittoria e i suoi
genitori si erano sistemati in quella che Rosa e Alberto chiamavano la dépendance
con una scherzosa aria di importanza, una piccola struttura
che in passato
era stata usata come granaio, stalla e deposito di attrezzi. Rosa
l’aveva
ristrutturata e trasformata in una specie di villino con due camere da
letto,
un bagno e un salottino con cucina a vista.
Vittoria fece una
rapida doccia, indossò un paio di shorts di jeans, una
maglietta azzurra con
inserti di pizzo bianco sulle spalle e sulle maniche, passò
una riga di
eyeliner sugli occhi e raccolse i capelli in una treccia alta sopra la
testa.
Mentre si infilava le All Star bianche sentì di nuovo la
voce di Claudia.
«Vittoria! È tardi!»
«Arrivo!»
Controllò velocemente
che il ciondolo con la farfalla fosse al suo posto (sentiva di averne
particolarmente bisogno, quella mattina) e attraversò la dépendance.
Come la casa principale, era arredata in bianco e in tutti i toni del
blu e
dell’azzurro. Appena arrivata Vittoria aveva pensato che i
mobili fossero molto
vecchi, a giudicare dal loro aspetto, ma poi sua madre, che era
laureata in
storia dell’arte e lavorava in una casa d’aste, le
aveva spiegato che era uno
stile particolare, che i mobili erano volutamente consumati e che era
considerato un arredamento molto raffinato. Ovunque c’erano
decorazioni che
rimandavano al mare: la rete da pesca decorata da conchiglie attaccata
a una
parete del salottino, l’enorme stella marina che fungeva da
centrotavola in
cucina, i pezzi di legno raccolti sulla spiaggia usati per costruire
mensole
fissate ai muri, i pesci stilizzati dipinti nel bagno. Uscì
sul patio e trovò i
suoi genitori a un tavolo rettangolare di ferro battuto insieme a Rosa
e
Alberto, che dovevano essere venuti a portare la colazione: su un
vassoio blu
al centro del tavolo c’erano caffè, tre tipi di
latte (normale, all’avena e
alla mandorla) e un piatto di cornetti.
«… buttare giù tutto e
rifare da zero. E poi c’è il problema della
manutenzione delle palme, che sono
state attaccate da un virus l’anno scorso» stava
dicendo Alberto, la voce che
si faceva più forte e chiara a mano a mano che Vittoria si
avvicinava. «In
certi momenti invidio chi vive in un bell’appartamento e non
ha tutte queste
preoccupazioni.»
«Perché non hai a che
fare con le beghe di condominio» ribatté Claudia
in tono eloquente.
«Buongiorno» disse
Vittoria, uscendo sul patio.
Alberto la guardò con
un gran sorriso. Rosa era coetanea di Claudia, mentre lui aveva 48
anni,
eppure, con i capelli sale e pepe sempre arruffati,
l’espressione quasi
invariabilmente allegra e uno spirito entusiasta che gli illuminava il
viso
sembrava un ragazzino intrappolato nel corpo di un uomo maturo.
«Ecco la Bella
Addormentata» la salutò, mentre si alzava per
cederle la sua sedia. Era così
alto e magro che quasi toccava il soffitto del patio con la testa.
Vittoria sedette in
mezzo ai genitori e Rosa, dall’altra parte del tavolo, le
allungò una tazza.
«Come stai? Hai dormito bene?»
Vittoria ricambiò
spontaneamente il suo sorriso aperto e giovale che si estendeva fino
agli occhi
di un verde intenso. «Abbastanza. È
che… il rumore del mare è bello, ma
all’inizio non riuscivo ad addormentarmi.»
Sua madre fece un
sorriso malinconico, abbassando gli occhi sulla tazza che stringeva tra
le
mani. «Pensa che da bambina non riuscivo a chiudere occhio se
non sentivo il
rumore delle onde.»
Rosa ebbe un attimo di
esitazione, poi si sistemò dietro l’orecchio una
ciocca scura sfuggita al suo
bob disordinato. «Bisogna solo addiccarisi.
Poi diventa rilassante.»
Vittoria aggrottò la
fronte, mentre si versava il caffè da un bricco di
porcellana blu. «Bisogna che?»
Non conosceva per
niente il siciliano, i suoi genitori non usavano mai termini dialettali
e non
avevano neppure la cadenza tipica della regione. Stefano, che aveva
lasciato
l’isola da bambino, l’aveva persa completamente.
Claudia ne conservava una
vaghissima traccia quando pronunciava alcune parole. Vittoria aveva
sempre
pensato che fossero bene attenti a non usare mai il siciliano neanche
per caso
e che quello fosse l’ennesimo modo per chiudere con il loro
passato sull’isola.
«Abituarsi» spiegò
Alberto, ridendo con leggerezza. «Se davvero volete ripartire
domenica non farà
in tempo ad abituarsi… né a imparare il
siciliano» aggiunse poi. «È solo
venerdì.» Era poggiato a uno dei pilastri che
sostenevano le arcate del portico
e si stava passando distrattamente la mano tra i capelli,
scompigliandoli
ancora di più. «Dovete restare un po’ di
più.»
Stefano e Claudia si
scambiarono uno sguardo sopra la spalla di Vittoria. I loro amici
avevano
sempre desiderato ospitarli sull’isola, per ricambiare le
numerose occasioni in
cui erano stati dai Ruggero a Milano. Però sapevano che
tornare a Santo Stefano
per loro era una specie di tabù, così non avevano
mai insistito più di tanto.
Ora che finalmente si era presentata l’occasione di averli a
casa loro, erano
raggianti e soprattutto Alberto non sembrava accettare di buon grado
che
andassero via così presto. La sera precedente aveva
già preso l’argomento due
volte, mentre cenavano nel giardino. Ogni volta Rosa era rimasta in
silenzio
per un po’, poi gli aveva scoccato un’occhiata
ammonitrice. Dopo un attimo di
confusione, lui aveva spostato la conversazione su altro con
un’aria contrita
che lo faceva somigliare più che mai a un bambino cresciuto
di botto e che
Vittoria aveva trovato molto comica.
Lei, però, sospettava
che i suoi tentativi fossero completamente inutili: i suoi genitori
avevano
pianificato il soggiorno a Santo Stefano quasi minuto per minuto, come
se avere
un piano di marcia ferreo e sapere sempre in anticipo, con esattezza,
cosa
sarebbe accaduto e quando sarebbe accaduto li tranquillizzasse. La
partenza era
fissata per domenica, in modo da trascorrere sull’isola solo
un week end: un
tempo breve, ma sufficientemente lungo da dare soddisfazione ai padroni
di casa
e accontentare l’entusiasmo di Alberto. Stefano aveva
telefonato al baglio già
due settimane prima per prendere appuntamento per venerdì
mattina e la sera
precedente aveva richiamato per avere conferma, ignorando Vittoria che
lo
fissava con le sopracciglia sollevate. Neanche quando organizzava un
viaggio di
lavoro a Londra o a New York era così nervoso. Sabato
sarebbero andati al mare
e domenica mattina avrebbero preso il traghetto per tornare a Palermo.
Vittoria
dubitava che anche una catastrofe naturale di qualche genere potesse
far
saltare il piano di fuga.
Suo padre si schiarì la
voce. «Ci piacerebbe, ma non posso lasciare il lavoro troppo
a lungo.»
«Io ti conosco da dieci
anni, ma ancora lo devo capire che lavoro fai» rispose
Alberto e tutti risero.
«Se lo capisci,
spiegalo anche a me» disse Stefano e Alberto gettò
indietro la testa e rise
ancora di più. Vittoria non poteva dargli torto, dato che
neanche lei capiva
nulla del lavoro di suo padre in banca e, sospettava, neppure sua
madre. Sapeva
vagamente che aveva a che fare con numeri e soldi, tantissimi soldi, e
azioni
da comprare e vendere al momento giusto per far guadagnare la banca, ma
era
tutto molto confuso. Le sembrava un mondo lontanissimo da quello reale.
«Comunque, se mai
cambiaste idea, l’invito è sempre valido. Potete
restare quanto volete»
aggiunse Alberto, soffocando uno sbadiglio.
Rosa si alzò. «Non
insistere» lo ammonì e gli lanciò
un’occhiata significativa. Alberto assunse di
nuovo la sua aria da ragazzino colto con le mani nel vasetto della
marmellata e
Vittoria dovette nascondere un sorriso divertito dietro la tazza.
«A che ora
avete appuntamento?» chiese Rosa, cambiando argomento.
Stefano sfiorò lo
schermo del telefono con un dito. «Tra
mezz’ora.»
«Allora è meglio se vi
lasciamo.» Rosa, rivolta al compagno, fece un segno con la
testa verso casa.
«Andiamo? Così scriviamo la lista della
spesa.»
Lui si raddrizzò e
assentì di malavoglia. «A pranzo grigliata di
pesce, che dite? Ci penso io»
aggiunse con un sorrisetto che gli fece guadagnare una smorfia da parte
di
Rosa. Lei era una frana in cucina, quindi era quasi sempre Alberto a
occuparsene. «E per Vittoria parmigiana di melanzane. Ricetta
segreta di mia
nonna, è una bomba.»
Vittoria gli rivolse un
gran sorriso. Adorava Alberto, la faceva sempre ridere. «Ci
sto.»
«Perfetto» esclamò
Rosa. Prese Alberto sottobraccio, poi guardò verso Claudia e
dopo un attimo le
sorrise. Vittoria si girò appena in tempo per vedere
l’espressione contratta di
sua madre distendersi subito in un sorriso teso, come in risposta a un
invito
silenzioso. «Ci vediamo dopo.»
Si allontanarono
attraverso il giardino, camminando vicini e scambiando qualche parola a
bassa
voce. Sembrava che Rosa stesse rimproverando Alberto. Lui rispose con
un
borbottio sommesso e un’alzata di spalle, poi disse qualcosa
e Rosa rise.
Intorno al tavolo, sul patio, era caduto il silenzio. Gli uccellini
cinguettavano nel giardino e un venticello caldo muoveva piano le
fronde degli
alberi. Vittoria osservò i suoi genitori, che la stavano
palesemente ignorando:
lui tamburellava con le dita sul tavolo, lei guardava verso il mare con
aria
distratta. Bevve un sorso del suo caffellatte con latte di avena e
moltissimo
caffè, come piaceva a lei. Non era latte con il
caffè, la prendeva sempre in
giro suo padre, era caffè con una goccia di latte. Si
schiarì sommessamente la
voce.
«Spero che abbiate
fatto testamento.»
Stefano fissò lo
sguardo su di lei, perplesso. «Come?»
«Sì, dato che stiamo
andando al patibolo.»
Lui parve sorpreso
ancora per un istante, poi le rivolse uno dei suoi sorrisi smaglianti
da
pubblicità di un dentista. Si mosse sulla sedia e si
sistemò il colletto aperto
della camicia di lino bianco. «No, è
che… È strano essere di nuovo qui.»
Vittoria annuì, questa volta seria. Lo capiva, ma non poteva
fare a meno di
cercare di sdrammatizzare. Era nella sua natura.
L’espressione di suo padre
divenne più attenta mentre si focalizzava su di lei.
«E tu? Non sei per niente
nervosa?»
Vittoria mandò giù
l’ultimo sorso e posò la tazza sul tavolo.
«Uhm… Un po’, ma più che
altro sono…
curiosa. Non so cosa aspettarmi esattamente.»
Stefano emise una mezza
risata tagliente, del tutto priva di allegria. «Non
aspettarti troppo» rispose,
lapidario. Vittoria sentì sua madre sussultare leggermente.
Guardò Stefano, un
po’ sorpresa, e per un lungo momento lui resse il suo
sguardo, immobile, poi
fece un respiro calmo, mentre quel sorriso sgradevole si spegneva.
«Scusami»
disse a bassa voce.
Vittoria strinse le
dita intorno al manico della tazza. «So che non vi va di
stare qui» mormorò con
sincerità, abbassando lo sguardo. «Mi
dispiace.»
«No, tesoro» ribatté
subito suo padre, deciso. «Abbiamo deciso noi di lasciare la
scelta a te.»
«Ok, però…» Vittoria
sospirò, mentre seguiva con un dito il profilo della
tovaglietta da colazione
di fronte a lei, in bambù bianco e azzurro. Il profumo dei
fiori riempiva
l’aria ed era così intenso da dare alla testa.
Chissà perché, le venne in mente
Marco, che era allergico al polline e avrebbe considerato quel giardino
adorabile una specie di piccolo inferno personale. Era un po’
che non lo
sentiva e pensarci le faceva male, così cercò di
concentrarsi sulla
discussione. «Tu hai tutte le ragioni del mondo per avercela
con Edoardo e non
pretendo che cambi qualcosa solo perché io gli
darò una possibilità. È
diverso.» Era lì per conoscere suo nonno e avere
qualche risposta alle sue
domande, ma non voleva rendere le cose troppo difficili ai genitori,
soprattutto a suo padre, che aveva già sofferto abbastanza
per colpa di
Edoardo. Avrebbe ottenuto quello che cercava senza coinvolgerli troppo
o almeno
così sperava. Stefano rimase in silenzio a osservarla per un
po’, poi fece un
mezzo sorriso vagamente malinconico.
«Sei diventata saggia.»
Vittoria ci rifletté su
un istante. Non aveva mai pensato a se stessa in quel modo.
“Saggia” era una
parola che suonava vecchia, da associare a un’anziana signora
con gli occhiali,
le rughe e il bastone per camminare. Era una parola da adulti,
però, e questo
le trasmise una piccola scarica di soddisfazione.
«Mi è spuntato un
capello bianco, stamattina. Sarà per questo»
esclamò, vivace, e i suoi genitori
risero di nuovo. Poi Stefano gettò un’occhiata al
telefono e si alzò.
«Dobbiamo andare»
disse, con la stessa malavoglia con cui si sarebbe alzato per andare
dal
dentista. Vittoria emise un piccolo sospiro. Neanche le sue battute
potevano
migliorare l’umore di suo padre in quel momento. Si
alzò a sua volta e guardò
Claudia. Lei non li avrebbe accompagnati al baglio, ne avevano
già parlato.
Aveva detto a Vittoria che avrebbe solo complicato le cose e in fondo a
lei non
dispiaceva: se doveva cercare di avvicinarsi al nonno e farsi dare
qualche
risposta, era meglio avere intorno un solo genitore invece di due. Le
rivolse
un sorriso luminoso e si sporse per darle un bacio sulla guancia.
«Andiamo a divertirci
senza di te» le disse in tono scherzoso.
Stefano fece una risata
brusca. «Sicuro. Sarà uno spasso.»
****
Seduta al posto
del
passeggero nella Mercedes di suo padre che sfrecciava lungo la
litoranea,
Vittoria distolse lo sguardo dalla campagna bruciata dal sole e
controllò il
telefono con cui stava giocherellando nervosamente senza rendersene
conto.
Accese il display con l’impronta digitale, poi fece un
sospiro breve e
scontento. Ancora nessun messaggio da Marco. Strinse le labbra. Era una
settimana che non le mandava neanche un’emoji e negli ultimi
messaggi vocali la
sua voce aveva un tono strano, a metà tra la freddezza e
l’allegria forzata.
Vittoria gli aveva inviato un messaggio di buongiorno, la mattina
precedente,
prima di salire sul traghetto a Palermo, che lui aveva visualizzato
senza
rispondere. Eppure fino a poco prima avevano avuto
l’abitudine di scriversi
quasi di continuo, per qualsiasi sciocchezza. Che diamine gli stava
succedendo?
Aveva anche controllato i social di Marco, ma non aveva trovato nulla
di
insolito. Doveva chiedere a Daniela se sapeva qualcosa.
«Tutto ok?»
La voce di suo padre la
riscosse. Sollevò la testa proprio mentre lui le lanciava
un’occhiata per poi
tornare a fissare la strada. «Tutto ok» rispose
meccanicamente. Non le andava
ancora di parlarne con i genitori, non prima di capire cosa stesse
succedendo.
Il silenzio che seguì
era carico di perplessità e lei non ne fu stupita. Suo padre
riusciva a
leggerla come un libro aperto. Lui però rispettò
la sua riservatezza e non
chiese altro. Vittoria guardò fuori, cercando di distrarsi.
A sinistra la
distesa azzurro scuro del mare era punteggiata di barche, pescherecci,
un yatch
solitario che filava in lontananza diretto verso lidi più
movimentati e
increspature bianche che i gabbiani sorvolavano pigramente. Sulla
destra la
campagna era scomparsa per lasciare posto a un vigneto che sembrava non
avere
confini. L’auto proseguiva e i filari di uva si succedevano
all’infinito.
«Sono questi i vigneti
dei Falconeri?»
«Sì» fu la risposta
neutra di suo padre dopo un attimo di pausa.
Vittoria inarcò le
sopracciglia. «Sono… molto grandi.»
«Parecchie persone
lavorano per loro, sull’isola. D’altronde non ci
sono molte alternative.»
Quando superarono i
vigneti tornò la campagna, intervallata dal giallo allegro
dei campi di grano
che contrastava con l’azzurro luminoso del cielo estivo, poi,
finalmente, dopo
una curva, apparve il profilo massiccio e squadrato di una struttura,
in cima a
una specie di collinetta. Vittoria capì subito che doveva
essere la casa dei
Falconeri. La osservò con curiosità e una leggera
soggezione mentre si
avvicinavano all’imponente cancello di ferro decorato da
viticci intrecciati.
Subito arrivò un ragazzo dalla pelle ambrata, con due grossi
guanti da lavoro,
che si precipitò ad aprire il cancello e li
salutò con un sorriso. Stefano gli
rivolse un cenno con la testa, poi parcheggiò
l’auto sotto una tettoia ornata
di piante rampicanti. Vittoria scese lentamente, guardandosi intorno:
l’enorme
cortile quadrato attraversato da due viali perpendicolari, al centro un
pozzo
che sembrava vecchio di qualche secolo, le aiuole ben tenute racchiuse
tra i
viali e in fondo due grandi ombrelloni bianchi quadrati che offrivano
tregua
dal sole a tavolini e sedie di ferro battuto. Seguì con lo
sguardo il ballatoio
di pietra che sembrava abbracciare il cortile, chiudendolo in una
morsa.
Deglutì.
«È qui che abitano?»
domandò a bassa voce.
«Sembra…»
Stava per dire che le
ricordava uno di quei resort extra lusso situati in edifici antichi che
si
vedevano sui dépliant delle agenzie di viaggio. Qualche anno
prima era stata in
un posto simile con i suoi.
«È un baglio, una
masseria fortificata. Le chiamano così, in
Sicilia» spiegò Stefano. «Questa
risale al Seicento.»
«Ed è sempre
appartenuta alla famiglia?» Vittoria guardò suo
padre, che si limitò a un breve
cenno affermativo del capo. Fece un sospiro di pura sorpresa. Non aveva
idea
che la famiglia di origine di suo padre fosse così antica.
Anche Stefano si
guardava intorno, ma gli occhiali da sole Armani nascondevano la sua
espressione. «È tutto uguale» disse poi,
con un filo di voce. «Non è cambiato
niente. Non cambia mai niente, qui.»
Vittoria non sapeva
bene che cosa rispondere. Non riusciva neppure a immaginare quanto
dovesse
essere strano per lui trovarsi in quella casa. Aprì la
bocca, pensando
vagamente di dirgli qualcosa, anche solo che capiva e le dispiaceva, ma
in quel
momento da una delle portefinestre che si affacciavano sul ballatoio
uscì una
donna. Per qualche istante li osservò da lontano, portandosi
una mano sugli
occhi per schermarli dalla luce intensa, poi scese in fretta la scala e
li
raggiunse. Aveva un passo sicuro che faceva pensare alla marcia di un
soldato
molto determinato.
«Dottor Ruggero? È un
piacere accoglierla qui. E tu devi essere Vittoria» disse con
voce alta e un
marcato accento siciliano, ancora prima di fermarsi. Tese subito la
mano,
offrendo una stretta breve e decisa che quasi lasciò un
po’ intorpidite le dita
della ragazza. «Ben arrivati. Sono Rosalia Scanno, mi occupo
della casa da
cinque anni. Parlammo al telefono» aggiunse, rivolta a
Stefano. Aveva una
corporatura minuta, indossava una semplice gonna blu e una camicia
bianca
leggera e i capelli neri erano raccolti in una coda bassa e ordinata.
Il viso
dall’espressione seria, magro e spigoloso, era marcato da un
imponente naso
aquilino e da rughe sottili, ma evidenti. Doveva avere
all’incirca cinquanta
anni.
Stefano intanto si era
sfilato gli occhiali e le aveva rivolto un sorriso.
«Sì, ricordo. Lieto di
conoscerla.»
Se Rosalia trovò
bizzarra quella totale mancanza di entusiasmo non lo diede a vedere:
mantenne
un’espressione neutra e andò avanti come se nulla
fosse. Vittoria sospettò che
non avrebbe avuto alcuna reazione neanche se suo padre si fosse messo a
fare
capriole nel bel mezzo del cortile.
«Accomodatevi» disse,
indicando la casa con un cenno della testa, e si incamminarono insieme.
Sulla
destra, in cima a tre gradini rivestiti di piastrelle di cotto,
c’era una porta
di ingresso di legno scuro, alta, massiccia e dall’aspetto
antico. Rosalia,
però, la superò senza fermarsi e li condusse su
per la scala di pietra, sulla
terrazza, poi li precedette in casa attraverso la stessa portafinestra
da cui
era uscita. Si ritrovarono in un ampio salotto fresco e luminoso.
«Non è cambiato niente»
mormorò Stefano, come se parlasse a se stesso, lanciando
tutto intorno
un’occhiata quasi esitante. «Né le
abitudini né… tutto il resto.»
Rosalia si era fermata.
Gli indirizzò uno sguardo perplesso.
«Come?»
Anche Vittoria guardava
suo padre, curiosa. Lui esitò, come rendendosi conto
all’improvviso di aver
detto a voce alta qualcosa che avrebbe dovuto essere soltanto pensato.
Poi
espirò e la sua espressione si distese appena.
«Voglio dire… L’arredamento è
identico
a quello che ricordo. E… non c’è mai
stata l’abitudine di usare la porta di
ingresso. Si entrava sempre dalla terrazza. Ed è ancora
così» disse in tono
incolore. «Sono cresciuto qui, da bambino»
aggiunse, rivolto a Rosalia, che lo
fissava ancora con le sopracciglia sottili un po’ inarcate,
l’unico tratto del
suo viso che lasciava trasparire un’emozione evidente.
«Lo so. Me lo dissero»
rispose la donna, dopo un attimo di imbarazzante silenzio. Vittoria si
domandò
cosa sapesse esattamente di suo padre. Sapeva che era l’altro
figlio di Edoardo
Falconeri? Prese nota mentalmente di chiederlo a Stefano appena
possibile.
«Vero è, questi mobili sono qui da
cinquant’anni. E la porta principale è
chiusa quasi sempre. Da quando sono qui non ho avuto nessuna buona
ragione per
cambiare questa abitudine.» Cadde di nuovo un silenzio
pesante. Rosalia
incrociò le mani davanti a sé e
accennò un sorriso freddo. «Posso offrirvi
qualcosa di fresco da bere?»
Stefano guardò
Vittoria, che scosse piano la testa, pensierosa. «No, grazie,
siamo a posto
così. Come sta… il signor Falconeri?»
chiese poi e lei ebbe l’impressione che
fosse una pura e semplice domanda di circostanza.
«Non ci sono stati
grandi cambiamenti, ultimamente. La sua
situazione…»
Vittoria smise quasi
subito di ascoltare, occupata a osservare l’eleganza antica
dei mobili e
dell’ambiente senza girare troppo la testa di qua e di
là per non sembrare una
turista. Era quello che si era aspettata di trovare e che si addiceva
perfettamente alla casa: i mobili massicci di legno scuro, le
tappezzerie verde
e oro, la rosa dei venti sul pavimento di maioliche così
lustre che avrebbe
potuto usarle per specchiarsi, l’enorme lampadario che
pendeva dal soffitto…
Poi gli occhi le caddero su qualcosa che catturò
completamente, inesorabilmente
tutta la sua attenzione: un pianoforte a coda nell’angolo
accanto alla
portafinestra. Era lucido e splendente, senza neppure un granello di
polvere,
come se qualcuno avesse appena terminato di spolverarlo con cura.
Gli si avvicinò
automaticamente, senza riflettere, come tirata da un filo invisibile.
Sul
leggio c’era uno spartito ingiallito e sgualcito, un
po’ strappato agli angoli.
Doveva essere piuttosto vecchio e preferì non toccarlo, ma
non poté trattenere
la tentazione di allungare un dito e passarlo sulla superficie liscia
del
pianoforte. Sfiorò il coperchio della tastiera, poi la
sollevò e la sua mano
scivolò sui tasti componendo gli accordi iniziali del Notturno
di Chopin
che aveva suonato da solista al saggio di fine anno. Lo ricordava alla
perfezione, perché aveva continuato a lavorarci anche dopo
il saggio, per
migliorare quello che era andato storto. Daniela aveva preso
l’abitudine
fastidiosa di dirle «Salutami Chopin» ogni volta
che si separavano o chiudevano
una telefonata.
«Vittoria?»
Fu come se qualcuno la
strattonasse con violenza. Trasalì e le sue dita si
contrassero sulla tastiera,
troncando la musica di colpo. Il silenzio suonò assordante
ora che le note non
riempivano più l’aria. Vittoria avvertì
un senso di vuoto familiare che le
stringeva lo stomaco. Le capitava ogni volta quando smetteva di
suonare. Sollevò
gli occhi e incrociò quelli di suo padre e Rosalia che la
fissavano.
«Vittoria» la chiamò di
nuovo Stefano, la voce bassa e priva di un’inclinazione
particolare, ma lei
intuì che era contrariato. «Non si toccano le cose
senza permesso.»
Lei tolse le mani dalla
tastiera, mentre sentiva un calore salire alle guance, e richiuse piano
il
coperchio. «Sì, mi dispiace»
borbottò e tornò sui suoi passi, a disagio.
Stefano
continuò a fissarla finché Vittoria non fu di
nuovo accanto a lui, poi distolse
gli occhi. Le parve che con quel semplice, banale gesto del capo lui
avesse
alzato un muro, chiudendola fuori. Doveva essere infastidito
perché lo stava
mettendo in imbarazzo, proprio lì, in casa di Edoardo.
«Brava sei» disse
Rosalia. Vittoria rispose con un mezzo sorriso. «Il
pianoforte era già qui
quando ho iniziato a lavorare in questa casa, ma non lo avevo mai
ascoltato.
Nessuno sa suonare, in famiglia. Credo che sia molto vecchio.»
Vittoria era tentata di
fare altre domande, ma suo padre intervenne. «Sarebbe meglio
andare. Siamo
attesi» disse, con un tono rigido e velato di ironia che
spinse Rosalia a
scoccargli uno sguardo indagatore.
«Certo» rispose subito.
«Da questa parte.» Si avviò verso una
porta che conduceva fuori dal salotto.
Quando ebbe girato le spalle, Vittoria guardò suo padre,
catturando il suo
sguardo, e bisbigliò “Scusa” quasi senza
voce, muovendo solo le labbra. Lui la
fissò per un momento, poi il suo volto accuratamente neutro
si aprì in un
sorriso debole, ma carico di affetto. Le circondò le spalle
con un braccio,
stringendola a sé.
«Non ti preoccupare»
mormorò e se la tirò dietro.
Dal salotto passarono
alla sala da pranzo, altrettanto vasta, luminosa e arredata nello
stesso stile,
poi in un lungo corridoio scandito da finestre che affacciavano
all’esterno del
baglio, sul mare di un colore intensissimo che faceva pensare
all’azzurro
tempera gettato sulla tela di un pittore, senza sfumature. Il pavimento
di
cotto e maioliche continuava ininterrotto, le pareti erano di un bianco
immacolato e piante ornamentali, alcune in vaso, altre che si
arrampicavano sui
muri, riempivano gli spazi vuoti tra le finestre. Vittoria camminava
cercando
istintivamente di non fare troppo rumore sulle piastrelle, come avrebbe
fatto
in un museo o qualcosa del genere.
«Questo posto è…»
sussurrò a suo padre, mentre passavano sotto
un’apertura ad arco e si avviavano
su per una scala. Non riuscì a finire la frase: gli occhi le
erano caduti sul
corrimano di ferro battuto decorato da ghirigori elaborati. Non
riusciva
neanche a immaginare quanto potesse costare una cosa del genere. Era
abituata
al lusso, dato che i suoi genitori erano più che benestanti,
eppure tutto
questo, tutto insieme, la lasciava comunque senza fiato.
«Lo so» fu la risposta
asciutta di Stefano.
Intanto avevano
svoltato a destra subito dopo la scala e dopo qualche metro Rosalia
finalmente
si fermò davanti a una porta. Era solo accostata e lasciava
uscire una lama di
luce forte e netta che tagliava la penombra del corridoio. Da dentro
giunse
come un tuono una voce roca e tesa, da anziano, che frantumò
la quiete e fece
trasalire Vittoria.
«Rosalia! Rosalia!»
La donna bussò due
volte in rapida successione, poi spinse la porta ed entrò.
La stanza era
quadrata, grande, inondata dalla luce che entrava a fiotti da una
portafinestra
spalancata. I mobili erano scuri e pesanti come tutti quelli che
Vittoria aveva
visto finora: un letto matrimoniale curiosamente alto, un armadio
imponente, un
cassettone lungo e stretto e due comodini ai lati del letto. Qua e
là si
scorgevano i segni distintivi della camera da letto di un malato: una
sedia a
rotelle in un angolo, confezioni di medicine ordinatamente disposte sul
cassettone, una flebo accanto al letto e un macchinario con un monitor
che
forse serviva per gli elettrocardiogrammi. Vittoria deglutì.
Non aveva mai
avuto a che fare con persone anziane o malate e vedere quegli oggetti
la
innervosiva un po’. In fondo, la portafinestra era
incorniciata da tende
bianche e svolazzanti e dava su una terrazza dove qualcuno sedeva di
spalle in
un’ampia poltrona di pelle, sotto un ombrellone bianco.
Rosalia guidò Stefano e
Vittoria verso la terrazza. Lei sentiva il braccio di suo padre intorno
alle
spalle irrigidirsi sempre di più e pensò di
dirgli qualcosa per
tranquillizzarlo, anche se non avrebbe saputo neanche da dove iniziare.
Poi,
mentre attraversavano la camera, colse un lampo di luce con la coda
dell’occhio. Si voltò in fretta, cercando di
capire cosa fosse prima che suo
padre la tirasse via con sé: era la cornice
d’argento di una fotografia. Riuscì
appena a intravedere un profilo femminile prima di passare oltre.
Uscirono
sulla terrazza e fu costretta a strizzare gli occhi, accecata dal sole
per un
momento.
«I suoi ospiti arrivarono,
signor Falconeri» disse Rosalia.
Vittoria sentì che suo
padre allentava lentamente la presa intorno alle sue spalle, fino a
lasciarla
andare del tutto, ma le rimase comunque attaccato e la seguì
mentre lei girava
intorno all’ombrellone, come per non perderla di vista. Lei
sentì un tuffo al
cuore e si ritrovò a muoversi lentamente, come se
all’improvviso i piedi
fossero diventati pesanti. Era il momento, stava per conoscerlo
davvero. Era lì
ed era tutto vero, eppure le sembrava di essere in un sogno e che da un
momento
all’altro si sarebbe riscossa, svegliandosi di soprassalto,
si sarebbe
ritrovata a casa, nel suo letto, e tutto sarebbe svanito.
Sbatté le palpebre,
ma era ancora lì, con suo padre che la tallonava come un
secondino con il
prigioniero. La poltrona di pelle era rivolta verso il mare e quando
lei
incontrò gli occhi di Edoardo Falconeri le sembrò
che lo riflettessero come due
specchi. Osservò il suo volto in silenzio.
I lineamenti erano
sfatti e deformati dalle rughe, ma si intuiva che in
gioventù dovevano essere
stati marcati e attraenti. I capelli erano brizzolati e perfettamente
in ordine
e il corpo rattrappito dava l’impressione di essere svuotato,
privo di sangue.
A quel pensiero macabro Vittoria sentì un fiotto di nausea e
si sforzò di
reprimerlo. Era chiaramente un uomo anziano e molto malato, eppure
sedeva più
eretto possibile, avvolto in un pigiama di seta grigio scuro e una
vestaglia
color rosso cupo che faceva pensare a un cardinale e sembrava troppo
pesante
per una caldissima giornata di luglio. Le mani pallide e affusolate
erano
ancorate ai braccioli della poltrona con decisione, come se Edoardo
pensasse di
potersi alzare, guarito e ringiovanito, da un momento
all’altro. Lui la fissò
immobile per qualche secondo, studiandola a sua volta. Solo il petto
magro di
alzava e si abbassava a un ritmo irregolare, lasciando uscire un
respiro roco e
pesante.
«Chi è stato?» domandò
con voce ansimante, ma imperiosa, e un accento siciliano
così marcato che
Vittoria faticò a capire le parole. «Chi
suonò il pianoforte?»
Calò un gelo immediato.
Vittoria lanciò un’occhiata a Rosalia, che era sul
punto di rispondere con
un’espressione titubante. «Io»
balbettò, a disagio. Si schiarì la gola.
«Sono
stata io.» Se Edoardo era arrabbiato, doveva prendersela con
lei. Lui, però, non
ebbe alcuna reazione apparente. Anzi, parve che
all’improvviso la risposta non
gli interessasse più. Poi le sue labbra esangui si aprirono
in un sorriso
simile a un ghigno.
«Vittoria» mormorò in
un soffio. «Tu sei, picciridda.»
Il suo sguardo si spostò su Stefano, che era rimasto in
piedi accanto a lei,
fermo e zitto, e anche questa volta non mostrò alcuna
emozione, come se non lo
avesse visto davvero.
A qualche passo da
loro, Rosalia si mosse appena. «Se non avete bisogno di
niente, vi lascio
soli.» Sembrava che non vedesse l’ora di andarsene.
Edoardo fece un breve
cenno con il capo e lei rientrò in casa, rivolgendo un
sorriso freddo a
Vittoria e a Stefano mentre passava. I suoi passi veloci svanirono in
fretta e
sul gruppetto scese un silenzio opprimente come la cappa di calore che
incombeva sul baglio. Sulla terrazza, fortunatamente, era mitigata dal
venticello fresco e piacevole che arrivava dal mare e doveva essere per
questo
che il vecchio sedeva lì fuori. Vittoria guardò
suo padre, sottraendosi
all’esame attento di Edoardo, senza sapere che cosa fare: il
suo viso era
impassibile, privo di espressione dietro gli occhiali da sole. Il tempo
passava, il nonno non le toglieva gli occhi di dosso e per un folle
attimo
pensò che le sarebbe sfuggita una risata isterica. Poi
Edoardo ruppe il
silenzio all’improvviso.
«Sei stata tu?» chiese
a bruciapelo. Lei ci mise un attimo a capire che parlava ancora del
pianoforte.
Annuì brevemente, preoccupata che il nonno si agitasse di
nuovo. Invece
l’espressione tesa del suo viso si rilassò.
«Allora non l’ho immaginato,
stavolta.» Il suo sguardo si appannò, mentre si
lasciava andare contro lo
schienale imbottito della poltrona. Per un po’ parve che la
sua mente fosse lontanissima
da lì. Forse erano le medicine a fargli
quell’effetto: Stefano le aveva
spiegato che la cura che stava seguendo era molto pesante, anche se
ormai era
solo un palliativo. Poi, di colpo, Edoardo puntò di nuovo
gli occhi su di lei.
«Non pensavo che saresti venuta. Che ti avrei visto, prima di
morire» disse,
continuando a fissarla con uno sguardo acuto che la metteva a disagio.
Era come
se la trapassasse da parte a parte. «Pensavo di non avere
più nemmeno questa
speranza.»
L’amarezza che
avvolgeva le sue parole la colpì. Strinse una mano a pugno,
ricambiando quello
sguardo azzurro che la trafiggeva, identico al suo, identico a quello
di suo
padre. Lo aveva ereditato da una persona che vedeva in quel momento per
la
prima volta. Prese aria.
«Era giusto farlo»
rispose, alzando le spalle.
Sul volto stanco di
Edoardo apparve un sorriso strano, obliquo, del tutto privo di gioia.
Poi fu
scosso da un sussulto e il sorriso si trasformò in una mezza
risata, breve e
secca, stroncata quasi subito da un forte colpo di tosse. Quando fu
passato, il
vecchio si raddrizzò di nuovo sulla poltrona, respirando
affannosamente.
«Se non sapessi di chi
sei figlia, non penserei che sei una Falconeri. In questa casa nessuno
ha mai
saputo cosa fosse giusto.»
Vittoria lanciò di
nuovo un’occhiata a Stefano, dubbiosa. Non aveva capito
l’osservazione del
nonno, ma il volto di suo padre non le rivelò nulla. Stefano
continuava a
guardare Edoardo con quella che sembrava soltanto indifferenza. Il
vecchio
seguì la direzione del suo sguardo e sorrise di nuovo con
aria sardonica verso
suo figlio.
«Come stai?» gli chiese
Stefano, il tono rigido, dopo una pausa che a Vittoria parve eterna.
Edoardo fece una
smorfia. «Lo vedi, come sto. Da quanto tempo non ci
incontriamo… Sei un uomo,
ormai. Ma io so tutto di te, di quello che hai fatto. Il lavoro, il
matrimonio…
Vittoria…» aggiunse, dopo una brevissima
esitazione. «Le voci corrono in fretta,
qui. Si dice che sei il dirigente più giovane che la tua
banca abbia mai avuto.
Ti faccio i miei complimenti. Devi essere molto fiero di te
stesso.»
Dalla sua posizione,
Edoardo guardava Stefano dal basso, eppure aveva l’aria di un
re che riceve uno
dei suoi vassalli, e le sue parole in apparenza gentili erano permeate
da
un’ironia sottile, ma evidente. Vittoria aggrottò
la fronte. In lui c’era qualcosa
di contraddittorio che non riusciva a capire. Perché mai
avrebbe dovuto
ironizzare sui successi di Stefano? Lui, però, non sembrava
toccato in alcun
modo. Osservò suo padre in silenzio per un attimo, poi fece
un mezzo sorriso,
mostrando i denti bianchi e perfetti.
«Smettila» disse
soltanto, tranquillo, come se fosse stanco di uno scherzo che andava
avanti da
troppo tempo. «Volevi lei, giusto?» Fece un cenno
verso Vittoria. «Adesso l’hai
vista.»
Lei provò l’istinto di
ritrarsi quando suo padre la indicò, ma si trattenne. Non
voleva peggiorare la
situazione. Si sentì gelare sotto il sole implacabile di
luglio. E si sentiva
una stupida. Non si era aspettata un incontro affettuoso, aveva sempre
saputo
che i rapporti tra suo padre e suo nonno erano glaciali, eppure essere
lì e
vedere tutto con i suoi occhi era diverso.
L’ostilità vibrava in mezzo a loro
come una cosa viva e tangibile e lei aveva la sensazione che ogni
singola
parola avesse un altro significato che non conosceva. Era soltanto la
spettatrice di una schermaglia carica di sottintesi e non le piaceva.
Edoardo emise un
sospiro roco e pesante che parve costargli una grande fatica.
«Non hai ancora
smesso di odiarmi. Grazie di avermela portata… anche se
forse lei mi odia
quanto te, con tutto quello che le avrai raccontato.»
«No» rispose lei
istintivamente. Scosse la testa. «Non ti conosco
nemmeno.» Si accorse che suo
padre la fissava, ma non ricambiò lo sguardo.
«Hai ragione» assentì
Edoardo, chinando la testa, «ma non è colpa mia se
andò così.»
Vittoria si morse il
labbro inferiore. Non era del tutto d’accordo. Suo padre
aveva chiuso i
rapporti con Edoardo e anche con Enrico, il suo fratellastro, ma loro
non lo
avevano mai considerato una parte della famiglia ed Edoardo non si era
mai
preoccupato di fargli da padre. Non gli aveva mai dato neppure dei
soldi e
Stefano aveva sempre fatto tutto da solo, contando su se stesso e sulla
sua
brillante intelligenza. Fu sul punto di ribattere, poi però
osservò il viso sfatto
e grigiastro di suo nonno, la sofferenza che piegava i suoi tratti
verso il
basso e annacquava l’azzurro degli occhi e
all’improvviso capì che non aveva
senso recriminare il passato a qualcuno che forse aveva ancora solo
qualche
settimana di vita davanti a sé. Fece un respiro profondo.
«Adesso sono qui.
Possiamo rimediare. Io… potrei tornare. Posso suonare un
po’ il pianoforte, se…
se ti fa piacere.» La voce le morì
sull’ultima sillaba, travolta dalla sua
stessa sorpresa. L’idea era nata ancora prima che se ne
rendesse conto, le
parole erano scivolate fuori prima che potesse riflettere.
Lasciò passare
qualche secondo, ma non sentì arrivare alcun pentimento.
Forse poteva essere
una buona idea, per conoscere un po’ il nonno e avere qualche
risposta alle sue
domande. E a lui avrebbe fatto sicuramente piacere. Dalla sua reazione,
quando
le aveva chiesto se era stata lei a suonare, le era sembrato che ci
tenesse
molto, a quel pianoforte. Accanto a lei sentì suo padre
irrigidirsi di colpo.
«Dobbiamo partire
domenica» disse subito, la voce calma, ma ferma.
Lei lo guardò. La stava
fissando con espressione seria e concentrata, gli occhi che mandavano
un unico
messaggio, forte e chiaro: no. Vittoria
cercò di riflettere velocemente.
Forse quella era l’unica possibilità che aveva di
raggiungere l’obiettivo per
cui era arrivata fino a lì. Non poteva perderla.
«Ma… solo per qualche
giorno. Non hai ancora delle ferie da recuperare?»
Stefano scosse la
testa, piano. «Vittoria, no. Non è il
caso.»
«Ma io voglio farlo.
Cioè, mi piacerebbe. Non è per questo che sono
qui, per conoscerlo?» Ebbe una
lieve esitazione e lanciò un’occhiata rapida a
Edoardo, ma non sembrava che li
stesse ascoltando: aveva di nuovo un’espressione assente,
persa in chissà quali
pensieri o ricordi.
«Lo hai conosciuto»
ribatté Stefano a denti stretti, la voce gelida.
«Direi che è sufficiente.»
Vittoria lo guardò
male. «Mi stai prendendo in giro? Non ci siamo detti neanche
due parole!»
Lui scosse di nuovo la
testa, senza cambiare espressione, e Vittoria pensò che
forse non la stava
nemmeno ascoltando, che sembrava aver chiuso la mente, rifiutando la
possibilità di accontentarla.
«Per favore, papà.»
Stefano aveva il
respiro teso e più veloce del normale. Il suo volto sembrava
scolpito nella
pietra tanto era impassibile, ma nei suoi occhi era ben visibile
un’ombra di
angoscia che ne oscurava la solita luminosità. A Vittoria
venne in mente una
superficie di cristallo che inizia pian piano a ricoprirsi di piccole
crepe per
poi esplodere e frantumarsi. Di colpo si sentì una stronza,
mentre il senso di
colpa si mescolava a quella scintilla di ribellione che la coglieva
davanti ai
silenzi dei suoi genitori sugli argomenti che non volevano affrontare
con lei.
Non voleva fare del male a suo padre, ma non era neppure disposta a
cedere. Se
avesse perso quell’occasione, avrebbe perso anche tutto il
resto. Mentre
Stefano la fissava con rabbia pensò che le avrebbe urlato
contro, anche se era
una cosa che suo padre non faceva mai. Invece emise un respiro brusco e
profondo, come se gettasse fuori qualcosa.
«Bene» sbottò a bassa
voce. «Bene.»
Si girò e rientrò in
casa a passo fermo. Lei fece per scattargli dietro, ma qualcosa si
strinse
intorno al suo polso, bloccandola dov’era: la mano secca e
rugosa di Edoardo,
incredibilmente forte e salda per un uomo così anziano e
malato. Edoardo cercò
gli occhi di lei con i propri e quando Vittoria li incrociò
vi scorse
un’espressione vacua.
«Lo sapevo» bisbigliò,
a voce così bassa che Vittoria riuscì appena a
udirla. «Sapevo che mi avresti
portato qualcosa di lei.»
Vittoria aggrottò la
fronte, ma in quel momento non aveva il tempo di chiedere spiegazioni o
riflettere su quelle parole, che forse non avevano neppure un senso.
Forse
Edoardo non sapeva cosa diceva, la mente annebbiata dalle medicine.
Ricambiò la
stretta della sua mano. «Tornerò domani, te lo
prometto.»
Liberò le dita e corse
dietro a suo padre, rifacendo il percorso a ritroso e sperando di
ricordare la
strada. Sulle scale incrociò una ragazza con una divisa da
cameriera azzurro
chiaro, un lampo di capelli scuri e un’espressione
stupefatta, che si tirò da
parte un istante prima di essere travolta.
«Scusa!» le gridò
Vittoria, scendendo in fretta i gradini. Ripercorse il corridoio con le
finestre che davano sul mare, la sala da pranzo, il salotto,
varcò la
portafinestra. Sulla terrazza strizzò gli occhi, colpiti
all’improvviso dal
sole: suo padre stava andando verso la macchina, sempre con passo fermo
e
risoluto.
«Papà!» chiamò, mentre
scendeva la scala del ballatoio. A quel punto lui si fermò,
a pochi passi
dall’auto, e rimase di spalle ad aspettarla.
«Papà, non ti
arrabbiare… Cerca di capire, ti prego» disse
Vittoria, affannata, non appena lo
ebbe raggiunto, nel mezzo del cortile. Stefano non si girò,
ma lei sapeva che
stava ascoltando. «Non posso andarmene così, non
ha senso… Voglio soltanto
conoscerlo un po’.»
«Non era questo il
patto» ribatté lui, ancora prima che Vittoria
finisse di parlare. Si voltò con
un movimento brusco. «L’accordo era che saremmo
venuti, ti avrebbe vista e ce
ne saremmo andati. Fine. Niente altro» disse lentamente,
scandendo le parole con
tono rigido. «Ma Edoardo se ne frega, ottiene quello che
vuole, come sempre.
Starà anche per morire, ma non è cambiato di una
virgola.»
«Non mi ha chiesto lui
di tornare, sono stata io che…»
«Ti sbagli, Vittoria!»
sbottò Stefano, esasperato. «Questo è
quello che Edoardo ti fa credere, di
essere tu che decidi, ma è lui che conduce il gioco.
Manipola le persone, le
sposta come le pedine su una scacchiera, lui…» Si
interruppe di colpo, rimase per
un istante a guardare Vittoria con il respiro affannoso, le labbra
strette, il
corpo teso per la rabbia, soffocando parole che non voleva o forse non
poteva
far uscire. Poi sembrò che una consapevolezza misteriosa lo
investisse
all’improvviso. Tirò un respiro profondo, scosse
la testa e si passò le mani
sul viso, come per recuperare il controllo. Ci fu un lungo silenzio.
Chiazze di
luce filtravano tra i rami degli alberi che ombreggiavano la tettoia
delle
auto, le cicale frinivano, un uccello lanciò un richiamo. Da
qualche parte
intorno al baglio, in lontananza, un cane abbaiava. Stefano
abbassò le mani.
«Tu non capisci» continuò, guardando
Vittoria con aria triste.
«Fammelo capire,
allora.»
Lui rimase in silenzio
ancora per un po’. Distolse gli occhi da lei e prese a
guardare un punto
indefinito, come per stabilire una distanza, tracciare un confine. Poi
parlò
lentamente, con calma, scegliendo le parole a una a una.
«Edoardo non è come
sembra. So che lo vedi come un povero vecchio debole, malato e
inoffensivo, ma
non lo è. Credimi. Ti farà del male, se
potrà» aggiunse con forza, puntando di
nuovo gli occhi su di lei e Vittoria trasalì. «Ti
farà del male per ferire me.»
Vittoria rimase ferma,
come bloccata dov’era, mentre un’ansia sottile le
riempiva velocemente lo
stomaco. Prese un respiro esitante, chiedendosi se davvero suo padre
non avesse
ragione, se non si stesse infilando in qualcosa di più
grande di lei. Serrò le
labbra. Aveva percepito qualcosa di strano in Edoardo, sebbene fosse
stata
insieme a lui solo per qualche minuto, ma la reazione di suo padre non
era un
po’ esagerata? E se fosse andata via in quel momento non
avrebbe mai potuto
farsi la sua opinione sul nonno e scoprire qualcosa sul misterioso
passato
della sua famiglia. Era stufa di lasciare che fossero i suoi genitori a
decidere
per lei su quella faccenda e se c’era il rischio che Edoardo
facesse lo stronzo,
forse valeva la pena correrlo. Cosa poteva succedere, dopotutto? Forse
suo
padre era ancora ferito per il modo in cui Edoardo lo aveva rifiutato
da
bambino e proiettava su di lei il suo timore, ma Edoardo non la
conosceva
nemmeno: cosa poteva farle? Strofinò la punta della scarpa
sul vialetto di
pietra.
«Sputa anche fiamme
dalle narici, per caso?»
Suo padre le lanciò
un’occhiataccia. «Sono serio, Vittoria.»
Lei sospirò ancora. «Ok,
allora… starò attenta. Promesso.»
Stefano la fissò per un
attimo e Vittoria capì che non aveva intenzione di mollare.
«È meglio che tu
non abbia a che fare con queste persone. Fidati di me.».
«Io mi fido di te,
vorrei solo… avere una possibilità.»
Non era certa che lui avesse compreso il
significato di quelle parole, anche se non avrebbe saputo cosa
aggiungere senza
dire troppo. Non poteva certo confessare il suo piano o si sarebbe
ritrovata su
un traghetto per Palermo prima di rendersene conto. Negli occhi di suo
padre,
però, comparve la consapevolezza, mescolata a una leggera
malinconia.
«Lo so. Lo capisco. Ma
lui rovinerà tutto» rispose Stefano con voce
triste, come se avesse già capito
che i suoi tentativi erano inutili e si preparasse ad affrontare
qualcosa di spiacevole.
«Se scappi allora
penserà davvero di poterlo fare. Non dargli questa
soddisfazione. Dimostragli
che sei più forte.»
Lui appariva sempre più
triste. «Ma non è così»
mormorò. Un angolo della sua bocca si sollevò in
una
specie di smorfia. «Io non sono il più forte.
Forse… forse c’è stato un momento
in cui lo ero, ma adesso, in un certo senso… mi sento di
nuovo un bambino.»
Vittoria lo studiò in
silenzio per un po’. «Mi dispiace,
papà» disse poi, a voce molto bassa. Non sapeva
cosa altro dire. Quello non era il solito atteggiamento di suo padre,
per
niente: lui era sempre coraggioso, forte e sfrontato e accoglieva le
sfide con
un sorriso, ma in quel momento sembrava che qualcosa dentro di lui si
fosse
sgonfiato. Se era l’effetto che gli faceva Edoardo, allora
Vittoria capiva
perché gli stesse alla larga.
Stefano scosse la
testa. «È questo posto… è
pieno di fantasmi.» Percorse con lo sguardo cupo il
baglio e il cortile, inondati dal sole e immersi in una quiete
immobile, come
se scorgesse davvero delle presenze affacciate fra le tende bianche
gonfiate da
una folata di vento improvvisa. Vittoria rabbrividì.
«Pensavo che ormai anche
Edoardo fosse un fantasma del passato, ma la verità
è che il passato può sempre
tornare.»
«Non è meglio
affrontarlo, allora?» chiese Vittoria, sollevando le
sopracciglia. «Sarebbe poi
così terribile?»
Suo
padre guardò
lontano ancora per un istante, poi spostò gli occhi su di
lei. Ci fu una pausa
silenziosa, mentre il cane continuava ad abbaiare, da qualche parte
nella
campagna intorno alla casa. «Non lo so. Preferisco non
scoprirlo.»
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Capitolo 8. Il filo spezzato ***
CAPITOLO 8
IL FILO
SOSPESO
Sicilia,
Isola di Santo Stefano
Luglio 2015
Vittoria
staccò le dita
dal pianoforte, mentre l’ultimo accordo di un brano tratto
dalla colonna sonora
della Città incantata si spegneva
nell’aria. Si sgranchì le mani. Mentre
riacquistava consapevolezza del mondo intorno a lei e del suo stesso
corpo si
accorse che aveva un crampo alla mano destra, un dolore sordo che
lentamente
diventava bruciante. Le succedeva spesso, quando
suonava così a lungo da
perdere la cognizione del tempo. Doveva essere seduta al piano da quasi
un’ora,
senza avvertire nulla se non le note che la circondavano e la
sensazione dei
tasti sotto le dita. Adesso, di colpo, sentiva tutto insieme: il dolore
che le
aggrediva la mano, molta sete, un po’ di fame e un gran
bisogno di sgranchirsi
le gambe. Era sempre così. Il ritorno alla realtà
non era piacevole.
Si alzò e fece qualche
passo nel salotto del baglio. Si avvicinò a una vetrina in
un angolo che
ospitava una collezione di porcellane dipinte: un giovanissimo
pescatore con un
pantalone rosso che trasportava una cesta di pesci, una lavandaia dal
sorriso
lezioso, due ninfe tra i fiori. Intanto eseguiva alcuni piccoli
esercizi di
stretching con la mano destra e il dolore si attutiva lentamente, ma
aveva
comunque bisogno di una pausa.
Era lunedì mattina ed
era il terzo giorno che trascorreva lì a suonare. Suo padre
la accompagnava
sempre e mentre lei era al piano lui lavorava. Quando poi Vittoria
saliva a
salutare Edoardo, la scortava sulla terrazza dove il vecchio passava le
giornate guardando il mare, come una silenziosa, impassibile guardia
del corpo.
In quei tre giorni, Vittoria era riuscita a scambiare qualche parola di
poco
conto con il nonno, ma nulla di più. Non era più
vicina al suo obiettivo di
quando si trovava a Milano. Edoardo stava troppo male per parlare a
lungo e la
presenza di suo padre era un ostacolo: non poteva fare domande scomode
davanti
a lui, che le evitava da quindici anni, con i suoi occhi attenti che le
perforavano la schiena. Vittoria era delusa e, da come suo padre la
guardava,
si rendeva conto che lui lo capiva, sebbene non facesse commenti.
Eppure, se
anche Edoardo fosse stato più in forze e Stefano non fosse
stato sempre
presente, doveva ammettere che non avrebbe saputo da dove cominciare.
Iniziava
a pensare che non sarebbe stato affatto semplice, che forse era
impossibile.
Con un sospiro passò nella sala da pranzo e uscì
sul ballatoio.
Stefano era seduto a un
tavolo circolare di ferro battuto che Rosalia aveva fatto portare
lì perché
avesse una postazione di lavoro. Aveva il Mac aperto davanti a
sé, scorreva un
grafico colorato con il mouse incorporato e intanto parlava al telefono
con
voce sommessa. Vittoria fece un mezzo sorriso. Le ferie per lui erano
sempre
state un concetto nebuloso: anche quando era in vacanza con la
famiglia, si
portava dietro il computer e il tablet e trovava il modo di lavorare un
po’. Le
era capitato spesso di alzarsi di notte per bere un bicchiere
d’acqua e
trovarlo al computer. Eppure non toglieva mai neanche
mezz’ora di tempo a lei e
a sua madre. Faceva in un’ora quello per cui i suoi colleghi
impiegavano giorni
e Vittoria non ricordava che le avesse mai detto di no quando lei gli
chiedeva
di guardare una serie tv insieme o di andare a mangiare un gelato. Si
avvicinò
al tavolo e Stefano le rivolse un sorriso rapido senza smettere di
parlare al
telefono.
«L’affare Durings era
praticamente già nostro. Sarà chiuso tra dieci
giorni al massimo e avremo
raggiunto gli obiettivi» disse con tono tranquillo. Una breve
pausa. «Sì,
Alessandra, ho sentito Patrick» continuò e la sua
voce cambiò appena,
impercettibilmente. Vittoria capì che stava parlando con
Alessandra De Angelis,
il CEO italiano della banca. Era una specie di grande capo ed era una
buona
amica di suo padre: si davano del tu, prendevano il caffè
insieme e
organizzavano cene con le rispettive famiglie. «Ma non so
quanto sia utile:
insomma, è il risk manager, ma ha deciso
che non vuole rischiare. È come
se un ristorante vegano mettesse bistecche sul menù: non sta
facendo quello che
dovrebbe fare.»
Un’altra pausa, un po’
più lunga, questa volta. Vittoria sedette di fronte a suo
padre. Sul tavolo
rivestito di maioliche bianche e rosse che tracciavano il disegno di
una grande
stella marina c’era un vassoio con un piatto di biscotti, una
caraffa di cristallo
piena di limonata e due bicchieri alti. «Il rischio
c’è sempre, ma è calcolato,
fino all’ultimo centesimo. E poi lo sai che per me la
prudenza è
sopravvalutata. Io credo nel fare la cosa giusta al momento giusto e
allora non
serve essere prudenti. Dobbiamo vendere e dobbiamo farlo
adesso.» Altra pausa.
Vittoria versò un po’ di limonata in uno dei
bicchieri di cristallo lavorato e
ne prese un sorso, poi fece una smorfia: non era più
deliziosamente fresca come
aveva sperato. «Certo, senz’altro. Ti richiamo
quando avrò guardato gli ultimi file
che mi ha mandato Patrick. A dopo.» Stefano chiuse la
telefonata, fece un
sospiro come per buttare fuori qualcosa e le sorrise di nuovo.
«Ehi, piccola.
Ti sei decisa a fare una pausa.»
«Anche tu avresti
bisogno di una pausa, mi sa.»
«Una connessione
decente, ecco di cosa ho bisogno. Questo posto è il mio
inferno personale. Non
riesco neanche a lavorare» ribatté lui in tono
secco, scorrendo il grafico sul
computer con il mouse.
Vittoria abbassò gli
occhi, mortificata. Per Stefano non c’era niente di peggio
che non poter
lavorare al massimo delle sue possibilità ed era colpa sua
se stava succedendo.
«Mi dispiace.»
Lui le lanciò
un’occhiata e il suo volto cambiò immediatamente.
«No, non ti preoccupare. Lo
sai che mi piacciono le sfide.»
Vittoria assentì.
Sapeva che stava cercando di rassicurarla e di solito sapeva sempre
come
riuscirci, ma questa volta era tutto così strano e
complicato. Guardò la caraffa
ricoperta da una leggera condensa.
«Da quanto tempo è qui
questa roba? Non l’hai nemmeno vista?» chiese,
ironica, accennando al vassoio.
I biscotti erano ancora tutti lì e il bicchiere di suo padre
sembrava intatto. Mentre
lavorava, Stefano dimenticava spesso la realtà e si isolava
completamente,
proprio come lei quando era al pianoforte. Lui scoccò
un’occhiata al vassoio
come se davvero lo notasse in quel momento per la prima volta, ma
invece di
ridere o di rispondere a tono, come avrebbe fatto normalmente, si
incupì.
«Erano i preferiti di
mia madre. I biscotti, intendo.»
Vittoria li fissò a sua
volta. Li aveva già assaggiati nei giorni precedenti: erano
a base di miele e
pistacchio, con una doratura croccante e un profumo che riempiva
l’aria. «Pensi
più spesso a lei da quando siamo qui?»
azzardò, un po’ incerta. Stefano non amava
parlare molto neanche di sua madre. Quando Vittoria chiedeva di lei gli
compariva una ruga tra le sopracciglia e gli occhi si riempivano di
tristezza.
Tra tutti gli argomenti del passato, però, era
l’unico che riuscisse ad affrontare
più liberamente, senza alzare un muro.
Lui rimase zitto per
qualche secondo, lo sguardo rivolto al cortile deserto e soleggiato.
C’era
sempre un’atmosfera immobile, in quella casa, sospesa nel
sole accecante e nel
caldo soffocante. Il baglio sembrava disabitato, addormentato sotto un
incantesimo.
«Mi sembra di vederla
ovunque» rispose Stefano, con tono calmo e controllato.
«Ho stampata nella
mente l’ultima immagine che ho di lei, quando sono partito,
da bambino. Era un
giorno d’estate come questo. Mi ha svegliato prestissimo,
quando il cielo era ancora
grigio, e mi ha accompagnato al porto. Qui tutti dormivano ancora e lei
mi
aveva detto che sarei andato via solo la sera prima, così
non ho potuto
salutare nessuno. Ma mia madre voleva così, credo. Pensava
che sarebbe stato
più facile per me. Mi ha abbracciato soltanto una volta,
così forte da farmi
male. Poi mi ha detto “Vai”. Non le è
uscita neanche una lacrima. Non piangeva
mai, ma io ho capito che in quel momento si tratteneva per me, per
darmi forza.
Allora mi sono costretto a imitarla, a non piangere, anche se avrei
tanto
voluto farlo. Sono salito sul traghetto con la signora che doveva
accompagnarmi
e sono rimasto sul ponte a guardarla fino a che il traghetto si
è allontanato
troppo e lei è diventata una macchia indistinta. Non si
è mai mossa, finché è
riuscita a vedermi. E dopo… non so perché, ma
ogni volta che pensavo a mia
madre la immaginavo ancora lì, ferma sul molo, a guardare
verso di me… le
braccia lungo i fianchi, i capelli neri lunghissimi sulle spalle e il
vestito
bianco.» Tacque, senza cambiare espressione. Sembrava perso
nei ricordi, come
se rivivesse quel momento che si svolgeva davanti ai suoi occhi di
nuovo,
proprio come lo aveva appena descritto. «Non l’ho
più rivista» aggiunse alla
fine.
Vittoria sentiva una
tristezza pesante che le era scivolata addosso e la avvolgeva come un
bozzolo.
Aveva sempre cercato di immaginare il dolore che doveva aver provato
suo padre
a essere strappato via di colpo, bambino, dalla sua casa, da sua madre,
dal
fratello-amico con cui era cresciuto per andare incontro a una vita
nuova e del
tutto sconosciuta. Non ci riusciva mai in modo soddisfacente.
L’ombra che
scorgeva negli occhi di suo padre quando ne parlavano restava qualcosa
di
insondabile per lei.
«È morta due anni dopo
che sei andato via, giusto?»
Stefano fece un breve
cenno di assenso. «Si è ammalata
all’improvviso e non è stato possibile fare
nulla. Volevo tornare, venire a trovarla, ma non me lo ha permesso. Ha
proibito
a sua sorella di riportarmi qui.» Fece una piccola pausa e
strinse le labbra.
«Quando mi ha mandato via, non lo ha saputo nessuno
finché non è stato troppo
tardi per impedirlo. Non so come abbia reagito Edoardo. Non gli
importava
chissà quanto di me, ma… sicuramente non gli
piace quando qualcosa che ritiene
che gli appartenga viene portata via sotto il suo naso.» Sul
suo viso si
disegnò un ghigno che scomparve quasi subito.
«Credo che mia madre… Credo che
avesse paura che se fossi tornato, anche solo una volta, Edoardo
avrebbe
preteso che restassi e dopo la sua morte chi avrebbe potuto fermarlo?
Pensava che
tutta questa situazione mi avrebbe rovinato la vita. E poi…
probabilmente, per
come era fatta lei, non voleva che la vedessi malata, così
diversa rispetto al
passato. Mi disse che era più felice pensando che io la
ricordavo come era
prima.»
«Secondo te aveva
ragione? Cioè, ha fatto bene a non farti tornare, neanche
per il suo funerale?»
indagò Vittoria con cautela. Non poteva immaginare niente di
peggio, ma non
voleva esprimere nessun giudizio. Avrebbe solo causato ulteriore
dispiacere a
suo padre.
Stefano espirò
lentamente, lo sguardo lontano. Alzò le spalle.
«Onestamente non lo so. Con il
tempo sono riuscito a capirla, a capire perché lo ha
fatto.» Le lanciò
un’occhiata rapidissima prima di proseguire. «Ma
all’epoca io… avrei voluto
solo abbracciarla di nuovo. Per un po’ di tempo sono stato
molto arrabbiato con
lei. Poi sono cresciuto. Sono diventato padre e… ho capito.
Vorrei solo averle
detto addio.»
Vittoria allungò la
mano sul tavolo e prese quella di lui e Stefano la strinse
automaticamente,
l’espressione ancora distante e pensierosa. Non era davvero
lì con lei, in quel
momento. Poi il suo telefono iniziò a vibrare. Lui si
riscosse, lo afferrò di malavoglia
e guardò il display.
«È Patrick. Devo
rispondere» mugugnò. «Scusa,
piccola.» Si alzò, portando il telefono
all’orecchio, e rispose in inglese, mentre si allontanava
lungo la terrazza dal
lato opposto rispetto alle scale che scendevano nel cortile.
Vittoria rimase ad
ascoltarlo per un po’, sorseggiando la limonata ormai tiepida
e mangiando un
biscotto. Suo padre aveva una pronuncia inglese perfetta, grazie ai
viaggi
frequenti a Londra e a New York per lavoro, e Vittoria aveva dovuto
sopportare
una valanga di battute delle sue amiche che parlavano di prendere
ripetizioni
di inglese da lui. Oltre che di matematica, dal momento che risolveva
problemi
ed esercizi semplicemente guardandoli. Alla fine era riuscita a
costringerle a
smettere. Avere genitori giovani e belli poteva essere un problema
enorme.
Giocherellò con il
telefono e scorse un po' le bacheche dei social e ogni tanto lanciava
uno
sguardo a suo padre, che era ancora al telefono, in piedi accanto alla
balaustra di pietra, e le dava di spalle. Sembrava che non dovesse
chiudere a
breve, così si alzò e tornò in
salotto. Sedette di nuovo sullo sgabello del
pianoforte e sfogliò con delicatezza gli spartiti ingialliti
e macchiati dal
tempo che aveva trovato sul leggio. In quei giorni aveva suonato quasi
sempre
brani presi da lì, perché immaginava che Edoardo
li conoscesse e gli facesse
piacere ascoltarli. Ogni tanto, però, faceva a modo suo e
suonava quello che le
passava per la testa, come la colonna sonora della Città
incantata.
Prese il telefono dalla
tasca e cercò uno spartito su Google, poi lo
sistemò sul leggio, sopra i vecchi
spartiti. Mosse le dita per riscaldarle, le posò con
leggerezza sui tasti,
prese un respiro profondo e attaccò le prime note del terzo
movimento della Sonata
n. 14 di Beethoven. Era un pezzo complicato, su cui aveva
iniziato a
lavorare dopo il saggio di fine anno, e le sembrava di essere ancora in
alto
mare. Suo malgrado, quando fosse tornata a scuola avrebbe chiesto
consiglio
alla Grandi sui passaggi che le venivano peggio.
Ogni volta che sedeva
al pianoforte a suonare le tornava in mente perché lo faceva
e perché non
avrebbe mai potuto smettere: solo quando le sue dita scorrevano sui
tasti
avvertiva quella sensazione, come un calore liquido che le scorreva
sulla
pelle, su tutto il corpo, simile a un milione di piccole scosse di
elettricità.
Era piacevole e al tempo stesso quasi doloroso. Aveva tentato
più volte di
spiegarlo alle persone che non suonavano, come i suoi genitori, ma
dalle loro
espressioni vacue capiva sempre di non esserci riuscita. Forse non era
una
sensazione che si potesse esprimere a voce. Solo la musica era in grado
di fargliela
provare ed era per questo che anche se a volte era esausta e faceva i
salti
mortali per conciliare il pianoforte con la scuola e il tennis e le
uscite con
le amiche e gli altri impegni, anche se a volte, dopo ore di lezione,
aveva
crampi così forti da dover mettere il ghiaccio sulle mani e
ancora non riusciva
a suonare come avrebbe desiderato e le veniva voglia di lanciare gli
spartiti
dalla finestra, alla fine tornava a sedersi sullo sgabello, dimenticava
tutto e
ricominciava.
Eccolo di nuovo, mentre
si sforzava sugli accordi velocissimi e ravvicinati di Beethoven simili
a una
cascata di note che si inseguivano, un po’ giocose e un
po’ arrabbiate: quel
brivido delizioso, tormentoso, che cresceva con la musica, le
percorreva il
corpo, le infuocava la pelle. Chiuse gli occhi quando arrivò
a un punto che
ricordava a memoria, eppure, stranamente, non riusciva a staccarsi
dalla realtà
come le accadeva sempre. Stavolta c’era qualcosa che la
teneva ancorata lì,
qualcosa che stonava e le faceva prudere la nuca, come se
all’improvviso stesse
premendo i tasti sbagliati, solo che non era così.
Aprì gli occhi e smise
di colpo di suonare: sulla soglia della portafinestra, a
metà strada tra
l’esterno e l’interno, come se fosse indeciso se
entrare o allontanarsi, c’era
qualcuno. Un uomo, che la fissava. Vittoria incrociò il suo
sguardo. Capì chi
fosse immediatamente, d’istinto, e il cuore le si
fermò nel petto. Aprì la
bocca per la sorpresa, ma non ne uscì alcun suono. Poi la
figura si voltò in
fretta e uscì di nuovo sulla terrazza, tornando da dove era
venuta. Lei rimase
lì seduta per qualche istante, paralizzata, le mani ancora
sulla tastiera e la
bocca spalancata. Balzò in piedi, afferrò il
telefono così rapidamente che per
poco non le sfuggì tra le dita e gli schizzò
dietro. Uscì fuori, lanciandosi
tra le tende bianche, si guardò intorno. L’uomo si
stava allontanando a passo
svelto verso sinistra, in direzione della scala di pietra che scendeva
nel
cortile. Dalla parte opposta arrivava, attutita, la voce di Stefano,
ancora al
telefono. Dopo un attimo di indecisione, Vittoria andò verso
le scale, avvicinandosi
all’uomo che si allontanava.
«Enrico!» Lui si fermò
bruscamente, come se lei gli avesse lanciato qualcosa, ma rimase di
spalle.
Vittoria accelerò il passo e lo raggiunse.
«Enrico?» disse di nuovo, a voce più
bassa, come per avere conferma della sua identità.
Passò forse qualche
secondo, poi lui si girò piano e finalmente Vittoria
riuscì a vederlo bene in
faccia. La prima cosa che la colpì fu che non somigliava per
niente a suo padre
o almeno non a una prima osservazione superficiale. Condividevano
soltanto gli
occhi azzurri, il colore dei Falconeri che avevano anche i suoi occhi.
Rispetto
a Stefano era più basso, anche se di poco, aveva una
carnagione più chiara e
lineamenti meno perfetti, ma delicati e gradevoli. I capelli erano di
un
morbido castano. Eppure, nonostante le differenze, si percepiva una
vaga
somiglianza. Forse era per il fisico snello e forte o il portamento
elegante o
quell’aria inconfondibile da uomo d’affari,
accentuata dal completo blu chiaro
con una camicia azzurra e una cravatta bordeaux a piccoli disegni.
Vittoria
aveva osservato abbastanza il guardaroba di suo padre da intuire che
l’abbigliamento di Enrico doveva essere molto costoso.
Fece un respiro
profondo, all’improvviso imbarazzata, mentre si fissavano a
vicenda, immobili.
E adesso? Non lo aveva mai visto prima, non lo conosceva per niente,
eppure lo
aveva inseguito e bloccato e doveva per forza far uscire qualcosa dalla
bocca.
Possibilmente qualcosa di intelligente.
«Sono Vittoria. La
figlia di Stefano.»
Il primo tentativo
poteva considerarsi fallito. Certo che era la figlia
di Stefano. Quante altre quindicenni avevano
l’opportunità di girare in casa
sua? Arrossì. Enrico la osservò senza parlare
ancora per un attimo, poi fece un
secco cenno di assenso.
«So chi sei.»
Cadde il silenzio.
Vittoria spostò il peso da un piede all’altro,
sempre più a disagio. Come
sempre quando era in difficoltà, prese a giocherellare con
il ciondolo a forma
di farfalla.
«Io… ehm… non sapevo
che… Non eri via per… lavoro?»
«Sono tornato prima.»
Enrico abbassò lo sguardo. Aveva le mani nelle tasche e la
postura rigida e
doveva essere un po’ strano anche per lui, incontrare per la
prima volta sua
nipote così all’improvviso. Per qualche misteriosa
ragione, quell’idea la
tranquillizzò. Gli rivolse un sorriso impacciato.
«Pensavo che vi sareste
fermati solo per il week end. È lunedì.»
Il tenue sorriso le si
congelò in fretta. Una volpe che avvista un cacciatore
avrebbe avuto più
entusiasmo dello zio nel trovarla lì. Il suo sguardo azzurro
era freddo come il
mare in pieno inverno e sembrava chiuso, come se una tenda fosse stata
tirata per
nasconderne le profondità.
«Ehm… Sì, ci fermiamo
qualche giorno in più. Sto… suonando qualcosa per
Edoardo» provò a spiegare,
anche se di colpo, senza motivo, le parve una cosa molto stupida.
Esitò,
cercando qualcosa da aggiungere. «Pensavo che gli avrebbe
fatto piacere e…»
«Cosa?» la interruppe
Enrico. La fissava con la fronte aggrottata e l’aria
perplessa, come se lei
parlasse in cinese. In effetti non era stata molto brava a spiegare la
situazione. Vittoria prese fiato e riprovò.
«Be’, io… Quando ha
saputo che suono il piano mi è sembrato felice,
così ho pensato…» Tacque,
mentre si rendeva conto che lui non la ascoltava più: i suoi
occhi avevano
catturato qualcosa alle spalle di lei ed erano diventati di pietra.
Prima che
Vittoria potesse girarsi per capire cosa succedeva, arrivò
una voce da dietro
di lei.
«Enrico.»
Era Stefano. Apparve
all’improvviso al fianco di Vittoria, silenzioso come un
gatto. Gettò
un’occhiata rapida e indecifrabile verso di lei, poi
spostò gli occhi sul
fratello e i due si studiarono in silenzio per qualche secondo. Suo
padre era
immobile, quasi una statua, eppure Vittoria aveva la sensazione che
fosse
pronto a scattare da un momento all’altro.
«Stefano» rispose
infine Enrico, il tono così gelido e distaccato che lei si
irrigidì a sua
volta. Mentre loro due se ne stavano lì a valutarsi a
vicenda, la colpì come
mai prima di allora la consapevolezza che non si vedevano da quindici
anni e
tutto quel tempo sembrava essersi solidificato tra loro, diventando un
muro
invalicabile. Spostò lo sguardo allarmato dall’uno
all’altro, attenta e
ansiosa. E se avessero iniziato a litigare? Sarebbe stata colpa sua,
soltanto
colpa sua, perché era stata lei a voler rimanere.
Poi suo padre parlò
ancora, tranquillo e controllato. «Che sorpresa. Non ci
aspettavamo di
vederti.»
«Riparto domani»
rispose subito Enrico e Vittoria pensò che lo avesse deciso
in quell’esatto
istante. Continuava a spostare lo sguardo dal padre allo zio, come se
seguisse
una partita di tennis. Nonostante i toni di ghiaccio e le espressioni
scure,
tra loro c’era qualcosa. Le parole che si scambiavano
sembravano viaggiare su
un filo sospeso e invisibile, almeno per lei. Era soltanto il legame di
sangue
che li univa, malgrado tutto, o c’era dell’altro?
All’improvviso sentì la mano
di suo padre sulla spalla, il braccio di lui che la stringeva con
fermezza.
«Buon viaggio, allora. Meglio
se andiamo, è tardi. Ciao, Enrico.» Se la
tirò dietro, piano, ma senza
esitazione.
Il filo sospeso si
spezzò.
Vittoria aprì la bocca,
sconcertata, e tentò di dire qualcosa, ma ancora una volta
le parole le
morirono in gola. Era troppo frastornata per reagire in qualche modo,
anche se
avrebbe voluto almeno salutare lo zio che aveva appena conosciuto. Era
successo
tutto troppo in fretta ed era stato tutto molto più strano e
imbarazzante di
quanto avesse mai immaginato. Era come un brutto sogno. Raggiunsero il
tavolo,
Stefano infilò il portatile nella borsa con gesti misurati,
ma determinati, e
la condusse verso le scale. Lei si voltò un attimo indietro
a guardare Enrico,
che era rimasto fermo e li seguiva con gli occhi: sembrava una statua
pietrificata sotto il sole.
«Papà… papà, non
è
tardi» provò a protestare debolmente, sebbene
sapesse che era inutile. Suo
padre stava soltanto scappando e nulla lo avrebbe fermato, ma lei non
sopportava di farsi trascinare via così, come una bambina,
senza una parola di
spiegazione. Lui non rispose e Vittoria pensò che forse non
l’aveva neanche
sentita.
Scesero
in cortile, salirono
in auto, Stefano mise in moto e un attimo dopo stavano già
sfrecciando a
velocità sostenuta lungo la strada, il baglio che si
allontanava rapidamente
dietro di loro. Vittoria si girò per lanciargli
un’ultima occhiata, come per
accertarsi che fosse davvero lì e che non fosse stato tutto
un sogno, poi
guardò suo padre: teneva gli occhi fissi sulla strada,
evitando accuratamente
di incontrare i suoi, perché sapeva che vi avrebbe letto
domande alle quali non
voleva rispondere. Non ci sarebbe stata nessuna spiegazione, neanche
questa
volta. Vittoria serrò le dita sul bordo del sedile del
passeggero e voltò la
testa di scatto per guardare fuori.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Capitolo 9. Un'anima in due corpi ***
CAPITOLO 9
UN’ANIMA IN
DUE CORPI
Sicilia,
Isola di Santo Stefano
Luglio 2015
Il viaggio di
ritorno
si svolse nel silenzio più assoluto. Stefano guidava con una
tensione appena
trattenuta sotto la superficie. Quando premette sul piccolo telecomando
che gli
aveva dato Alberto per aprire il cancello di casa, il beep
prolungato
fece sobbalzare Vittoria. Era completamente immersa nei suoi pensieri.
Riviveva
la scena a cui aveva appena assistito, cercando di comprenderla, ma si
rendeva
conto che le mancavano troppi pezzi. E avvertiva una sensazione di
vago,
indefinito fastidio a cui avrebbe voluto dare una voce, farla uscire,
darle un
nome e un significato, ma era bloccata da qualche parte dentro di lei.
Stava
diventando come i suoi, incapace di affrontare le cose?
Suo padre parcheggiò la
Mercedes accanto al portone d’ingresso e lei si aspettava che
saltasse subito
giù, per evitare un confronto. Invece rimase fermo a
guardare fuori dal
parabrezza per qualche istante, poi si sfilò gli occhiali da
sole e si passò le
mani sul viso, coprendo la sua espressione. Lasciò ricadere
le mani lentamente
e quando la guardò le parve che fosse molto stanco, anche se
calmo.
«Tutto bene?»
Fu colta di sorpresa.
Era lui quello turbato, doveva essere Vittoria a preoccuparsi per lui.
«Sì»
mormorò. «Tu?»
Ci fu un silenzio
talmente lungo che Vittoria pensò che non volesse
rispondere. Continuava a
guardare fuori con aria assente. «Deve sembrarti tutto
assurdo. E lo è» disse
infine, la voce che sembrava pronta a sfociare in una risata amara che
non
arrivò mai.
Vittoria si mosse sul
sedile di pelle color crema, morbida e profumata, che aveva sempre
paura di
sporcare. Voleva chiedere, indagare, capire, pretendere risposte, ma il
blocco
che percepiva dall’altra parte, in qualche modo, lo faceva
apparire sbagliato.
«No, è che… Mi dispiace
che non riusciate nemmeno a parlarvi.»
Quella breve scena tra
il padre e lo zio le era sembrata molto peggio della fredda, sottile
ostilità
che oscillava tra Stefano e Edoardo, quando il vecchio si rivolgeva al
figlio
con quel suo tono sardonico e Stefano rispondeva a monosillabi, come se
ogni
mezza frase gli costasse un enorme sforzo. Dopotutto, Edoardo si era
comportato
piuttosto male con lui e la rabbia di Stefano era giustificata. E poi
stava
morendo: c’era troppo poco tempo, risolvere il passato
sembrava molto più
difficile, oltre che inutile. Enrico e Stefano, invece, erano fratelli.
Vittoria
non poteva credere che quel legame fosse svanito del tutto, lasciandosi
dietro
loro due che si fronteggiavano quasi come nemici.
«Molto tempo fa, prima
che me ne andassi da qui, io e lui stavamo sempre insieme. Siamo
cresciuti
insieme» disse Stefano lentamente, l’aria
pensierosa. «Anche se eravamo molto
diversi, eravamo una cosa sola. Un’anima in due corpi. Ma poi
sono successe
delle cose. Ci siamo feriti a vicenda, tante, troppe volte.»
Vittoria trattenne il
fiato. «Ne vuoi parlare?» tentò, cauta.
Lui le lanciò
un’occhiata e per un attimo parve che cercasse di prendere
una decisione. Poi
distolse lo sguardo, rimise gli occhiali da sole e fu come se
quell’esile
spiraglio si richiudesse di colpo. «È una storia
lunga e noiosa. Un’altra
volta, magari.» Aprì lo sportello per scendere.
Vittoria lasciò uscire
l’aria e si slacciò la cintura di sicurezza. Aveva
capito perfettamente: la
discussione era chiusa, di nuovo. «Ok» disse in un
soffio, più a se stessa che
a suo padre.
Nella dépendance trovarono
Claudia seduta al tavolo della cucina, con il kindle in mano e
l’aria
distratta. Quando li vide entrare, sollevò la testa e
inarcò le sopracciglia.
«Già tornati? Com’è
andata?»
Vittoria fece per
rispondere, ma si accorse che non avrebbe saputo come spiegare quello
che era
successo, così richiuse la bocca e guardò suo
padre. Sedette pesantemente sul
piccolo divano del salotto.
Stefano posò le chiavi
della macchina sul tavolino con una lentezza studiata, come se volesse
prendere
tempo per stabilire come affrontare la cosa. «Bene»
fu la sua risposta, calma e
neutra. «Oggi abbiamo avuto compagnia.»
«Chi?»
Lui fissò Claudia per
un attimo. «Enrico.»
Lei non rispose subito,
ma la sua espressione cambiò impercettibilmente, come se si
sforzasse di non
lasciar trapelare tutta la sua sorpresa. Si guardarono senza parlare
per
qualche istante. Claudia emise un respiro e si raddrizzò
sulla sedia.
«Ma avevamo… non era
partito per lavoro?» chiese, cambiando bruscamente la frase
che aveva quasi
pronunciato.
«Era. È tornato
prima» spiegò Stefano, sempre con quel tono
incolore. «Non si aspettava che
fossimo ancora qui, comunque. Forse non ha avvisato Rosalia prima di
tornare,
altrimenti lei glielo avrebbe detto.» Mentre parlava,
tirò fuori il portatile
dalla borsa, probabilmente per rimettersi al lavoro. Claudia lo
osservava, le
braccia incrociate posate sul tavolo, il kindle dimenticato accanto a
una
bottiglia di acqua minerale mezza vuota.
«Avete parlato?»
Lui scosse la testa.
«Ha detto solo che riparte domani.»
A Vittoria suonò strano
come quando lo aveva detto Enrico, al baglio, poco prima.
Più ci pensava, più
era convinta che il suo piano originario non fosse quello: voleva
scappare
anche lui, come suo fratello. Prese il telecomando, imbronciata, accese
la tv e
fissò lo schermo senza interesse.
«Vado fuori a lavorare
un po’» disse suo padre, dopo qualche istante di
silenzio. Si chinò per baciare
Claudia sulle labbra.
Lei annuì. «Ok. Rosa e
Alberto sono andati a fare la spesa, più tardi li aiutiamo
con il pranzo.»
«Perfetto» commentò
Stefano automaticamente, ma Vittoria era sicura che non ascoltasse sul
serio.
Uscì sul patio e sedette al tavolo dove facevano colazione,
aprì il computer e
poco dopo il suo telefono squillò. Vittoria fece un sospiro,
lasciandosi andare
contro gli spessi cuscini blu che coprivano il divanetto di vimini
bianco. Sua
madre aveva ripreso il kindle in mano, ma non leggeva e fissava un
punto
indefinito, pensierosa.
«Sai che possiamo fare
domani?» disse all’improvviso. Vittoria si contorse
per guardarla con aria
dubbiosa. Aveva le gambe piegate di lato, sul divano, ed era seduta
tutta storta.
«Un giro in paese. Non l’hai ancora visto. Rosa mi
ha detto che hanno aperto un
sacco di negozi e ristoranti carini, per i turisti. Che ne
pensi?» Sua madre
incrociò il suo sguardo e davanti alla sua espressione
perplessa tirò fuori un
sorriso poco convinto. «E meglio non andare al baglio,
domani. Sai che per papà
è dura.»
Vittoria rifletté, in
sottofondo il vociare indistinto della televisione a basso volume e la
voce di
suo padre che parlava al telefono, sul patio.
«Tu non pensi che…»
azzardò, indecisa su come proseguire. Eravamo una
cosa sola. Un’anima in due
corpi. Fece una pausa e riprovò. «Non ti
sembra che dovrebbero parlarsi?
Non si guardavano neanche in faccia… È suo
fratello, mamma. Non è assurdo?»
Sua madre si mordeva il
labbro e sembrava incerta. Abbassò lo sguardo sul kindle,
passando un dito sul
display per accenderlo. «Tesoro, è una scelta di
papà. Se lui non se la sente…
Ma è meglio così. Credimi.»
Meglio così? Vittoria
aprì la bocca per ribattere, ma in quel momento Stefano
rientrò in casa, il
cellulare in mano e l’aria stanca. Le dispiacque vedere
l’espressione tirata
sul suo viso. Era stata una giornata pesante per lui e sembrava che non
fosse ancora
finita.
«Devo tornare a Milano»
annunciò con voce cupa. «Domani
c’è una riunione e Alessandra mi ha chiesto di
essere presente. Era lei, al telefono.»
Le spalle di Vittoria
si afflosciarono di colpo. Ecco, adesso anche suo padre aveva una scusa
perfetta per scappare.
«Devi andare per
forza?» chiese Claudia. «Non potreste farla online,
la riunione?»
Lui sospirò e scosse la
testa, mentre posava il cellulare sul ripiano della cucina.
«È per la Durings.
È importante. Alessandra me lo ha chiesto come favore
personale, vuole il mio
parere.»
Claudia assentì, l’aria
rassegnata. Non era certo la prima volta che il lavoro di Stefano si
infilava
nelle loro vacanze e non sarebbe stata neppure l’ultima. Lei
e Vittoria c’erano
abituate.
«Ok, allora… prenoto il
traghetto. Potremmo anche partire stasera… dubito che
troveremo dei posti,
però, in pieno luglio» disse, a bassa voce, come
riflettendo tra sé. Si alzò
per andare a prendere il suo telefono dalla borsa, su una sedia della
cucina, sulla
fronte una ruga sottile che le spuntava sempre tra le sopracciglia
quando era
concentrata su qualcosa.
Vittoria si raddrizzò
di scatto sul divano. «Potremmo? Partiamo
tutti e tre?»
Se fossero partiti
allora non sarebbero più tornati a Santo Stefano. Non
avrebbe avuto senso fare
su e giù in quel modo. I genitori si voltarono a guardarla
nello stesso
momento, come due nuotatori sincronizzati, poi si scambiarono
un’occhiata.
«Be’, noi… siamo
rimasti per qualche giorno, come avevamo deciso» rispose sua
madre, con calma.
Vittoria sollevò le
sopracciglia. «Non state usando il pretesto della riunione
per scappare, vero?»
domandò, ironica.
Claudia sbuffò una
mezza risata, anche se non sembrava affatto divertita. «Ma
no! Il piano era
questo, restare qualche giorno»
ripeté.
Vittoria rifletté in
silenzio per un istante. «Sì, ma… non
abbiamo mai deciso quanti giorni fossero
esattamente qualche giorno»
ribatté Vittoria con ostinazione. Un lieve
panico stava iniziando a crescerle nello stomaco. Andare via adesso
significava
abbandonare i suoi progetti senza aver ottenuto assolutamente nulla:
non poteva
succedere, sarebbe stata una beffa troppo grande arrivare
così vicino al
traguardo per essere costretta a fermarsi e tornare al punto di
partenza a mani
vuote. Doveva trovare il modo di impedirlo.
Sua madre sembrava
interdetta. «Ok, allora… quanti giorni sono
esattamente qualche giorno?»
«Io vorrei restare
ancora.»
Claudia alzò gli occhi
al cielo, poi li abbassò sul telefono che aveva tirato fuori
dalla borsa,
evitando di sostenere lo sguardo di sua figlia. «Non ti annoi
a stare in quella
casa? È una specie di tomba.»
Vittoria trasalì. Sua
madre non era stata affatto entusiasta di scoprire
dell’accordo che lei aveva
preso con Edoardo. Quando Vittoria le aveva detto che sarebbe tornata
al baglio
a suonare per il nonno e conoscerlo un po’, l’aveva
fissata come se avesse
appena annunciato di volersi tuffare in mare direttamente dalla
terrazza nel
giardino di Alberto e Rosa, poi aveva rivolto uno sguardo sconvolto a
Stefano.
Sembrava che non potesse credere che lui avesse accettato una simile
proposta. Si
erano allontanati per parlarne da soli, in giardino, mentre Vittoria
aspettava
nella dépendance camminando su e
giù nervosamente e spiandoli ogni tanto
attraverso le vetrate. Le era sembrato che la discussione fosse
piuttosto
accesa, ma poi erano rientrati e avevano tutti e due una faccia
abbastanza
normale. Claudia aveva detto che capiva e che era d’accordo,
purché papà la
accompagnasse.
Nonostante i sorrisi e
le parole rassicuranti, però, Vittoria aveva intuito
benissimo che i suoi
detestavano quella decisione e che se avessero fatto di testa loro
l’avrebbero presa,
infilata nel trolley e riportata a Milano. Adesso le parole di sua
madre
confermavano le sue impressioni. Per loro non c’era niente di
peggio che
tornare al passato e lei li stava obbligando a farlo. Si sentiva in
colpa, ma
non poteva andarsene: era a stento riuscita a parlare con il nonno,
aveva a
malapena intravisto lo zio e non sapeva assolutamente niente di
più di quando
era arrivata, tre giorni prima. Era ancora tutto un enorme mistero e se
avesse
perso quell’occasione forse non ce ne sarebbe mai stata
un’altra. Dopotutto,
Edoardo stava per morire. Annaspò, cercando in fretta una
soluzione, ma le
sembrava di avere la testa svuotata.
«Suono, mamma. Lo sai
che non mi annoio» riuscì a tirare fuori, ma
sembrava una scusa debolissima
perfino alle sue orecchie.
Lei stava per
replicare, sul viso un’aria esasperata, quando Stefano
intervenne. «No,
Claudia, aspetta. Va bene. Ha ragione» disse con tono stanco
e pesante. Alzò le
mani. Anche se Vittoria non poteva scorgere la sua espressione,
perché le dava
le spalle, sentì un soffio di speranza che le si accendeva
nel petto.
Claudia lo fissò, le
braccia rigidamente incrociate, lo sguardo duro. «Sei sicuro,
Stefano?»
Lui esitò, prese aria,
poi annuì una volta sola. Si passò una mano sulla
fronte, come per chiarirsi le
idee. «Facciamo così: voi restate. Io parto domani
mattina presto. Se tutto va
bene, torno mercoledì. E giovedì saremo di nuovo
al baglio» annunciò con voce
scura.
Vittoria sbuffò
silenziosamente: non avrebbero lasciato che ci andasse da sola e sua
madre
sembrava non avere intenzione di accompagnarla, ma non importava.
Almeno non
sarebbe stata costretta a ripartire così presto. Dopo una
pausa carica di
tensione, Claudia annuì a sua volta, gli occhi fissi in
quelli di Stefano, e a
Vittoria venne voglia di urlare per l’entusiasmo. Si morse il
labbro per
trattenersi. Sapeva che per i suoi accontentarla era un sacrificio, non
poteva
buttargli in faccia la sua soddisfazione.
Claudia aveva l’aria cupa e la stava fissando.
Quando Vittoria incrociò i suoi occhi, subito li
staccò da lei e guardò
altrove, l’espressione che diventava distante. Stefano,
invece, era occupato
con il suo telefono e aveva il viso abbassato. Vittoria emise un
sospiro lieve.
Aveva vinto, non sarebbe stata trascinata via come una bambina
capricciosa. Fece
un piccolo sorriso e afferrò il telecomando per alzare il
volume della
televisione.
«Ok, aspetterò il bodyguard,
così il mostro a tre teste che vive in cantina non
potrà mangiarmi.»
Suo padre accennò una
risata, ma gli uscì un suono strano, come se ridesse
controvoglia. «Più o meno»
rispose a bassa voce, mentre usciva di nuovo sul patio.
****
Il giorno
seguente
Stefano partì prestissimo. Vittoria percepì
vagamente che entrava piano nella
sua stanza, cercando di non svegliarla, si chinava su di lei e le
baciava la
guancia. Si era trattenuto un istante, mentre il profumo di cedro del
dopobarba
mescolato all’odore fresco e morbido della sua camicia le
riempiva il naso e la
barba cortissima le graffiava la pelle, come se volesse mandarle un
messaggio
muto. Poi si era ritratto ed era uscito silenziosamente.
Lei era scivolata di
nuovo nel sonno e si era svegliata molto più tardi, con il
sole già bollente
che inondava la stanza di luce, le lenzuola aggrovigliate e calciate
via come
sempre e un fiume di sudore che le scorreva lungo la schiena. La sua
camera alla
dépendance era deliziosa, con
un’intera parete dipinta di azzurro
polvere, i mobili aggraziati bianchi e blu, la testiera di ferro del
letto
decorata da motivi che imitavano le onde del mare e la portafinestra
che
affacciava sul giardino, ma sembrava un forno per le pizze. Alla dépendance
non
c’era l’aria condizionata e la sua stanza era la
più calda. Quella
matrimoniale, accanto alla sua, era molto più fresca e
ventilata.
Quando si alzò, scoprì
che sua madre non c’era: doveva essere andata a fare
colazione nella casa
principale con Rosa e Alberto. Fece una doccia veloce e mentre si
vestiva fece
partire un lungo e mesto messaggio vocale di Daniela in cui lei le
raccontava
di aver saputo che Marco stava uscendo con Maddalena,
un’arpista del loro anno
al conservatorio.
Vittoria si bloccò a
metà mentre si infilava le scarpe e rimase per un
po’ seduta sul letto,
immobile, osservando una mosca che ronzava nella stanza e cercando di
capire
cosa sentisse. La sconcertava il fatto di provare così poco
dispiacere, quando
invece avrebbe dovuto detestare Marco e quella snob presuntuosa di
Maddalena,
che non le era mai stata simpatica neanche prima. Ormai non sentiva
Marco da
tempo e aveva capito che tra loro non c’era più
niente, qualunque cosa ci fosse
prima. Non era neppure sicura che fossero mai stati davvero una coppia,
dato
che erano usciti insieme solo un paio di volte. Non le importava, non
come
avrebbe dovuto. Nei giorni in cui non si erano parlati si era resa
conto di
poter stare benissimo senza di lui e che tutta l’attrazione
che le era sembrato
di provare era gonfiata dalla curiosità e
dall’entusiasmo, perché non si era
mai vista con un ragazzo prima di allora. Eppure… lui
l’aveva baciata, le aveva
preso la mano al cinema ed era stata la prima volta che aveva pensato a
qualcuno in termini diversi dalla semplice amicizia. E lui
l’aveva sostituita
così in fretta.
Accigliata, finì di
vestirsi e raggiunse la casa principale. Entrò dalla
portafinestra della
cucina, dove Rosa e sua madre sedevano all’enorme tavolo
rettangolare di legno
bianco coperto di graffi e scanalature come quasi ogni altro mobile
della casa.
Parlavano fitto tra loro, ma appena Vittoria mise piede dentro tacquero
e
raddrizzarono di colpo le teste chine e vicine.
«Buongiorno!» esclamò
Rosa, la voce carica di energia, come se avesse mandato giù
almeno quattro
caffè. Solo Rosa poteva essere così al mattino,
mugugnò Vittoria tra sé e sé.
Lei, invece, era di umore intrattabile almeno fino a mezzogiorno, anche
quando
non riceveva messaggi deprimenti dalle amiche. «Stavo per
dire a tua madre di
mettere un po’ di musica a tutto volume per tirarti fuori dal
letto.»
«Sono in vacanza, hai
presente?» borbottò Vittoria. Andò alla
macchina del caffè per farsi un
cappuccino. Era così in confidenza con Alberto e Rosa che si
muoveva a casa loro come se fosse stata la propria, senza avvertire
nessun imbarazzo.
«Ehi, che succede?
Tutto ok?» chiese Claudia. Vittoria alzò la testa
e notò che la stava
osservando con aria perplessa. Cercò di distendere
l’espressione contratta del
viso, ma senza grande successo.
«Tutto ok» disse,
ignorando di proposito la prima domanda. Non le andava ancora di
raccontare in
giro il modo in cui era stata piantata. «È solo
che… il mare non mi fa dormire.
Non mi sono ancora abituata. Papà è andato,
vero?» chiese, cambiando bruscamente
argomento.
«Sì, Alberto lo ha
accompagnato al porto con la macchina prima di iniziare il solito giro
in bici»
rispose Claudia lentamente. Da come la fissava, Vittoria
capì che si era resa
conto che qualcosa non andava, ma fece finta di nulla. Per fortuna i
suoi
genitori non erano mai invadenti con lei e le lasciavano sempre lo
spazio di
cui aveva bisogno, forse perché erano molto più
vicini alla figlia per età
rispetto alla maggior parte dei genitori e la capivano meglio.
«Non ti ho detto che si
è rotta la sveglia? E Alberto non sa programmare la sua su
quel cellulare
preistorico che ha» intervenne Rosa di getto, rivolta a
Claudia, con tono
divertito. «Si è svegliato in tempo solo
perché mi ero alzata a bere un
bicchiere d’acqua…»
Mentre il latte e il
caffè scendevano insieme, gorgogliando, mescolati in una
schiuma morbida e
spessa, Vittoria sentì sua madre ridere e rispondere
qualcosa, ma smise ben
presto di ascoltare. Non riusciva a concentrarsi sulle loro parole. Era
distratta, come se un pensiero pressante, ma indefinito, richiamasse la
sua
attenzione. Come se avesse dimenticato di fare qualcosa di importante,
solo che
era abbastanza sicura di non avere nulla da fare e di non aver
dimenticato
niente. Non riusciva a capire cosa fosse. Di sicuro non era quello
scemo di
Marco. Quando la tazza fu piena, la prese e sedette a tavola, ancora
pensierosa.
«Che vuoi fare oggi?»
Si accorse a stento che
sua madre stava parlando con lei. Si sforzò di concentrarsi,
mentre dava un
morso a un biscotto. «Uhm… non lo so. Non volevate
fare un giro a Portosalvo?»
mormorò, ripescando distrattamente un ricordo del giorno
prima.
«Sì, però abbiamo
pensato di sistemare quella camera degli ospiti, di sopra. Ti ricordi?
Quella
da dipingere.» Vittoria annuì senza molto
interesse. Quando erano arrivati, i
padroni di casa gli avevano fatto fare un giro di tutte le stanze,
compresa una
vuota e abbandonata al secondo piano che doveva essere ritinteggiata.
Rosa
aveva detto di voler dipingere qualche disegno su una parete. Vittoria
non si
stupì che sua madre volesse partecipare: amava quel genere
di cose ed era molto
brava in tutte le attività artistiche e manuali. Non lo
faceva per ringraziare
Rosa dell’ospitalità, tra loro due non esistevano
certe formalità.
«Approfittiamo che
Alberto è libero stamattina, così ci porta i
secchi di vernice su dalla
cantina» aggiunse Rosa, impegnata a stendere un generoso
strato di marmellata
all’arancia su una fetta biscottata. «Devono pur
servire a qualcosa, questi
uomini.» Claudia fu scossa da un mezza risata, mentre mandava
giù un sorso di
caffè. Posò la tazza vuota e si
schiarì la voce. «In paese possiamo andarci
oggi pomeriggio. Che dite?» proseguì Rosa. Lei e
Alberto non nominavano mai
Portosalvo, ma usavano sempre quell’espressione:
“in paese”, come se fosse
l’unico e il solo, ed effettivamente era l’unico
centro abitato di una certa
grandezza sull’isola.
Claudia si rivolse alla
figlia. «Per me va bene. Tu che vuoi fare?»
Vittoria aveva appena preso
il secondo biscotto. Masticò pensierosa per qualche istante.
«Non lo so… Magari
mi unisco a voi.» E poi, all’improvviso, quel
pensiero misterioso che la
distraeva prese forma e la colpì come uno schiaffo. Fu una
sensazione molto
simile a quando, da bambina, suo padre la portava sulle macchinine
dell’autoscontro e un altro bambino le piombava addosso da
dietro, senza che
potesse vederlo, cogliendola di sorpresa e facendole saltare in gola il
cuore e
lo stomaco. Nella sua mente iniziò a delinearsi un piano, in
modo quasi
spontaneo. «Oppure… avevo pensato di andare al
mare. Da sola» si corresse,
lentamente.
«Ti sei già stufata di
stare con i vecchi, eh?» fu il commento allegro di Rosa.
Aveva finito la sua
fetta biscottata e ne aveva presa un’altra con espressione
vagamente colpevole.
Vittoria guardò sua
madre, indagando sulla sua reazione: la stava osservando un
po’ sorpresa, ma
non sembrava contraria. «Sei sicura?»
Lei annuì con energia.
«Ma sì… Vado alla Cala Saracena, qui
accanto. Mi porto il kindle, così leggo un
po’.»
«Stai rileggendo tutta
la saga di Harry Potter, vero?» intervenne Rosa, continuando
a spalmare
marmellata sulla fetta biscottata. Poi diede un bel morso che ne
portò via più
di metà. «Piace un sacco anche ad
Alberto.»
«Sì, lo so. Ne parliamo
sempre» rispose Vittoria con un sorriso debole. Era come
divisa in due: una
parte della sua mente lavorava sul piano, l’altra
metà cercava di concentrarsi
sul presente, seguire la conversazione e dare risposte sensate.
«E poi devo
leggere I Malavoglia per la scuola.»
«Ma sei in vacanza.»
«Dillo alla mia prof.
di Lettere.» Rosa rispose con una smorfia. Vittoria
guardò di nuovo Claudia.
«Allora, posso andare?»
Lei ci rifletté per un
momento, poi le sorrise. «Va bene. Basta che mi chiami, ogni
tanto, o mi mandi
un messaggio. Se poi cambi idea e vuoi compagnia, me lo dici e ti
raggiungo.»
Vittoria trattenne a
stento un enorme sorriso. Sarebbe stato bizzarro sembrare
così soddisfatta per
una semplice mattinata al mare. «Certo» disse
subito.
Mentre finiva di
sorseggiare il cappuccino e Rosa e Claudia parlavano di cosa dipingere
sulle
pareti della stanza per gli ospiti, i passi successivi del piano si
sviluppavano nella sua testa con una chiarezza sorprendente. Era come
se si
fosse svegliata con quell’idea sepolta da qualche parte, ma
già elaborata fin
nei minimi dettagli, e adesso si svelava tutta insieme e a lei non
restava che
metterla in pratica. Come se qualcuno gliel’avesse
bisbigliata all’orecchio
mentre dormiva. Finito il cappuccino, mise la tazza nella
lavastoviglie, poi
lanciò un’occhiata discreta dietro di
sé: Rosa e sua madre stavano parlando di
rulli, pennelli e gabbiani bianchi da dipingere su uno sfondo azzurro
polvere e
quando uscì dalla cucina non se ne accorsero nemmeno.
Attraversò il corridoio
lungo e stretto. Dopo tre giorni trascorsi lì conosceva la
casa. Sembrava
deserta e silenziosa, forse perché Alberto non era ancora
rientrato dal giro in
bici che faceva tutte le mattine. Ignorò diverse porte,
chiuse o spalancate, e
si diresse con sicurezza verso una porta a vetri scorrevole. La spinse,
cercando di non fare rumore, ed entrò nello studio di
Alberto. Di fronte c’era
una finestra aperta che lasciava entrare un alito di vento fresco e il
cinguettio degli uccellini sugli alberi del giardino. Sotto la finestra
stazionava un’ampia scrivania di mogano. Una libreria alta,
chiusa da pannelli
di vetro, occupava quasi tutta la parete di destra e proseguiva lungo
la parete
dietro la scrivania. Una seconda libreria identica, anch’essa
ad angolo, si
trovava sulla sinistra e a un certo punto si interrompeva per fare
spazio a una
pianta in vaso e a un divanetto di pelle a due posti.
Vittoria accostò la
porta alle sue spalle, poi avanzò piano, ringraziando
mentalmente il soffice
tappeto che copriva i suoi passi, aggirò le due alte sedie
di legno scuro
destinate ai visitatori ed esaminò la superficie della
scrivania. Era piuttosto
disordinata, ingombra di carte, faldoni, cartelline, pile di documenti,
penne
USB, mucchi di penne e un portatile chiuso. Alberto era un avvocato e
Rosa si
lamentava sempre del caos, chiedendosi come facesse a lavorare
lì dentro. Non
aveva tutti i torti, pensò Vittoria stringendo le labbra, ma
quello che cercava
doveva pur essere lì, da qualche parte. Doveva solo
trovarlo.
Spostò con cautela i
mucchi di documenti e le pile di cartelline e sbirciò al di
sotto, poi li
rimise giù, avendo cura di lasciarli esattamente come li
aveva trovati, sebbene
dubitasse che in quella confusione Alberto potesse accorgersi di
qualche cambiamento.
Aprì il primo cassetto della scrivania: solo penne e fogli
bianchi in attesa di
appunti. Lo richiuse in fretta, mentre scoccava un’occhiata
ansiosa alla porta,
e aprì il secondo: una serie di cartelline di plastica
rossa, su ciascuna di
esse un’etichetta bianca con un cognome, che probabilmente
riguardavano i
clienti di Alberto. Aprì il terzo cassetto.
Eccola lì: un’agenda telefonica
dalla copertina in pelle rossa, sbiadita e segnata dall’uso.
Vittoria aveva
ascoltato tante volte Rosa prendere in giro il suo compagno per quella
sua
abitudine “antica” di segnare i numeri di telefono
su un’agenda cartacea
nonostante la rubrica che aveva sul telefono (non uno smartphone, ma un
cellulare vecchio stile con i tasti fisici).
«Non riesco a farne a
meno», rispondeva lui, alzando le spalle, con il suo serafico
e invariabile
buon umore. «Se poi mi si rompe il cellulare, come faccio
senza i miei numeri?»
Vittoria sfogliò in
fretta l’agenda e quando trovò il numero che
voleva ebbe un sussulto di
trionfo. Era impossibile che Alberto non lo avesse. Prese il telefono
dalla
tasca e memorizzò il numero con pochi gesti rapidi, poi
richiuse l’agenda, la
ficcò di nuovo nel cassetto, lo richiuse e si
fiondò alla porta. Aveva appena
iniziato ad aprirla che si trovò davanti Alberto, apparso di
colpo dal nulla.
Sobbalzò, ma ebbe la prontezza di tirare fuori un sorriso.
«Ehilà!» esclamò lui,
gioviale.
Era in pantaloncini e t-shirt, aveva il viso arrossato e
l’aria
accaldata ed era talmente zuppo di sudore da dare
l’impressione di essersi
tuffato in mare. Vittoria inarcò un sopracciglio. Ammirava
la tenacia con cui
le persone come Alberto e suo padre praticavano sport tutto
l’anno, anche nei
mesi più caldi. Lei amava il tennis, ma da giugno in poi non
toccava più una
racchetta fino a settembre. Suo padre, invece, andava a correre ogni
giorno
alle sei, in inverno e in estate, perfino quando erano in vacanza.
Anche il
soggiorno sull’isola non faceva eccezione.
«Ciao! Stavo… Cercavo
una penna» disse Vittoria, con una voce che le parve troppo
squillante, ma
ormai era tardi. Forse era una scusa stupida, ma non le era venuto in
mente
altro.
Alberto, però, non
sembrò trovarci nulla di strano. Forse era troppo stremato
dalla pedalata sotto
il sole per ragionare lucidamente. La superò ed
entrò nello studio. «Fai pure,
ce ne sono fin troppe di penne, qui dentro. Ogni tanto ne perdo una e
poi ricompare
all’improvviso, nei posti più strani.»
Scrutò la superficie ingombra della
scrivania, cercando qualcosa. Poi fece un verso soddisfatto e si sporse
per
afferrare il caricabatterie del telefono, mezzo nascosto sotto un
faldone giallo.
«In realtà mi è venuto
in mente di averne vista una in un cassetto alla dépendance»
inventò
Vittoria con un’alzata di spalle.
«Ecco, vedi? Spuntano
fuori quando meno te lo aspetti» commentò Alberto.
Le passò di nuovo accanto
per andare alla porta e le diede un buffetto sui capelli.
«Vado a farmi una
doccia… Oggi sembrava di pedalare dentro una pentola di
acqua bollente.»
Vittoria fece una
smorfia. «Che orrore» mormorò e lui rise
mentre si allontanava lungo il
corridoio. Lei si lasciò sfuggire un respiro di sollievo.
Era fatta.
****
Claudia e Rosa erano
ancora in cucina a chiacchierare. Vittoria uscì passando dal
salotto, facendo
lo slalom tra i divani rivestiti di tappezzeria a fiori,
attraversò di corsa il
giardino già immerso nel caldo che saliva sempre di
più e tornò alla dépendance.
Doveva sbrigarsi. Si chiuse alle spalle la portafinestra del salottino,
si
appoggiò al vetro e si prese un momento per fare qualche
respiro profondo.
C’era un silenzio quasi assoluto, a parte il rumore del mare,
il cinguettio
degli uccellini e il frinire instancabile delle cicale. Le sembrava che
il
cuore le battesse nel petto con la forza di un tamburo che chiunque
avrebbe
potuto sentire, anche a un’enorme distanza.
Tirò fuori il telefono dalla tasca
mentre si allontanava dal vetro già tiepido sotto il sole,
aprì il numero che
aveva memorizzato in rubrica poco prima. Lo fissò per un
po’, chiedendosi che
diamine stesse facendo. Voleva andare fino in fondo, sul serio? E se
fosse
scoppiato un casino? I suoi si sarebbero incazzati a morte, stavolta.
Strinse
le labbra con forza, poi premette il tasto di chiamata. Si sentiva
strana, come
se non fosse lei a prendere quelle decisioni, a compiere quei gesti, ma
un’altra persona, e lei osservasse dall’esterno,
senza poter intervenire,
percorrendo una strada già tracciata. Qualcuno rispose al
terzo squillo.
«Baglio Falconeri»
disse una voce sottile dall’accento pesante che Vittoria
riconobbe
immediatamente. Era Rosalia. Sentì un tuffo al cuore.
«Ehm… Buongiorno, ehm…
Sto cercando il signor Falconeri. Enrico Falconeri» aggiunse
precipitosamente,
nel dubbio che Rosalia pensasse a Edoardo. «So che dovrebbe
partire stamattina,
ma forse… è ancora lì»
aggiunse. Aveva la voce un po’ affannosa, le parole che
quasi si accavallavano l’una sull’altra.
«Chi lo cerca?»
Non si era nemmeno
presentata. Sospirò e strinse il telefono tra le dita.
«Vittoria Ruggero.»
«Ah, tu sei, Vittoria.
Non ti avevo riconosciuta. Vado a controllare, un momento, per
favore.»
Vittoria restò in
attesa, impalata. Aveva telefonato quasi senza speranze, convinta che
ormai lo
zio avesse già preso il traghetto per Palermo. Non aveva
pensato che la sua
idea potesse concretizzarsi sul serio. Il panico le riempì
lo stomaco, un
fiotto caldo e bruciante, e per un attimo si chiese se non fosse
completamente
impazzita. Cosa voleva fare? Cosa pensava di ottenere?
Dall’altra parte il
silenzio si protraeva e faceva crescere la sua ansia ogni secondo di
più.
Immaginò Rosalia che faceva il giro della casa senza
riuscire a trovare Enrico.
Forse era già partito e lei non lo sapeva. Poteva essere
caduta la linea? E se
lui non avesse voluto rispondere? Che idea schifosa aveva era stata. Ma
come
diavolo le era venuta in mente? Fece per abbassare il telefono e
chiudere la
chiamata.
«Sì?»
Enrico rispose
all’improvviso, cogliendola alla sprovvista. Aveva un tono
freddo, controllato,
privo di emozioni, e lei non riuscì a capire se fosse felice
o seccato di
sentirla o se invece gli fosse del tutto indifferente. Prese un respiro
profondo.
«Ciao» esclamò
automaticamente, poi tacque. In realtà non sapeva bene che
cosa dire. Mosse
qualche passo tra il salottino e la cucina, controllando la
portafinestra con
la coda dell’occhio. Quando sua madre e Rosa iniziavano a
chiacchierare era
molto difficile che smettessero presto, quindi, almeno in teoria,
poteva stare
abbastanza tranquilla. «Non ero sicura di trovarti. Non
dovevi partire?»
Lui rimase in silenzio
per qualche istante. «Vado al porto tra
un’ora.» Ci fu un’altra pausa, ma
Vittoria ebbe la sensazione che fosse sul punto di aggiungere qualcosa
e
aspettò. «Cosa posso fare per te?»
Vittoria fece un altro
respiro profondo. «Ehm, allora. Mi chiedevo… se
prima di andare al porto potresti
passare a prendermi o… o magari mandare qualcuno. Mio padre
non c’è, è tornato
a Milano per una riunione di lavoro imprevista e… non
può accompagnarmi, ma io
vorrei venire lo stesso.»
Un altro silenzio.
Vittoria suppose che Enrico fosse impegnato a mettere ordine in quella
spiegazione un po’ disordinata. «Vuoi venire qui?
Da sola?» indagò, sempre con quella
voce indecifrabile.
«Io… Sì. Papà torna tra
un paio di giorni. Posso aspettare, certo, però…
vorrei venire anche oggi, se è
possibile.»
Silenzio. «Nessuno sa
che hai chiamato qui, vero?»
Vittoria esalò un
respiro lieve. «No, ma ho promesso a Edoardo che sarei venuta
tutti i giorni.
Non voglio che resti deluso.» Non aggiunse che probabilmente
il tempo che gli
rimaneva era così poco che anche un paio di giorni potevano
fare la differenza,
ma in qualche modo percepì che lo zio, dall’altra
parte, aveva avuto lo stesso
pensiero.
«Vittoria, io… Non so
se è il caso. A Stefano non farebbe piacere.»
Lei trattenne il fiato.
«In realtà pensavo di non dirglielo. Di non dirlo
a nessuno.»
«E cosa racconti a tua
madre?»
«Le ho detto che vado
al mare. Lei e Rosa saranno impegnate almeno per mezza giornata. Hai
presente
Cala Saracena, qui vicino? Ci arrivo in due minuti. Se vieni a
prendermi
possiamo vederci sulla strada principale… dove
c’è quel passaggio nel muro. Non
se ne accorgerà nessuno. Ma se non vuoi… non fa
niente. Vado al mare. Cioè, ci
vado davvero» aggiunse un attimo dopo e le parve di sentirlo
accennare un
sorriso. «Non voglio scombinare i tuoi programmi.»
«In realtà…» Enrico
esitò e lei rimase come sospesa, aspettando. «Non
c’è molto da scombinare.
Posso partire più tardi o domani.»
Per poco il telefono
non le cadde di mano. «Davvero?»
«Non ho ancora preso il
biglietto.»
«Non era un viaggio di
lavoro?» Vittoria si girò e fissò senza
vederlo l’orologio blu appeso alla
parete della cucina: era un’immagine stilizzata di un pesce
che le ricordava
Flounder del film La sirenetta. «Non
voglio crearti problemi.»
«Non è niente di
importante. Dovrei incontrare alcuni amici dell’Associazione
Vini Siciliani, ma
posso rimandare. È una cosa informale.» Fece una
pausa. «Hai ragione» continuò
lentamente, «da un momento all’altro
Edoardo…» Tacque di nuovo e lasciò la
frase in sospeso, ma Vittoria aveva intuito cosa stava per dire.
«Rosalia mi ha
detto che sta meglio quando ascolta il pianoforte. E poi è
felice di averti
conosciuta.»
Vittoria ascoltava
sconcertata. Aveva vinto davvero? Le sembrava troppo strano per
crederci. Aveva
temuto che Enrico rispondesse di no per evitare di creare tensioni con
Stefano.
Forse, le balenò all’improvviso come un lampo,
accettava per sfidarlo, per
dimostrare di non tenere in grande considerazione le preoccupazioni e i
divieti
del fratellastro. In fondo, lei non lo conosceva per niente, non aveva
idea di
cosa aspettarsi. Quel pensiero la bloccò per un attimo. Non
era così ansiosa di
trovare risposte alle sue domande da causare ulteriori scontri in
famiglia, ma
tentò di allontanare quel pensiero. Forse si stava
sbagliando e lo zio voleva
semplicemente accontentarla, non provocare una discussione con Stefano.
O forse
una bella litigata era proprio quello che ci voleva. E comunque, se
tutto fosse
andato secondo i piani, Stefano non l’avrebbe mai saputo. Era
abbastanza certa
che il personale del baglio avrebbe taciuto, se Enrico lo avesse
chiesto. E poi
aveva avuto l’impressione che Rosalia fosse abituata a
tollerare qualche
stranezza, in quella famiglia, e tutti gli altri facevano quello che
diceva
lei. Nessuno avrebbe mai rischiato di scatenare un casino.
«Sicuro che non è un
problema?» insisté, titubante.
«Sicuro. Stai
tranquilla» rispose lui con tono definitivo, ma leggermente
addolcito. «Tra
quanto ci vediamo?»
«Facciamo un quarto
d’ora?»
«Va bene. Ti do il mio
numero, nel caso avessi bisogno di contattarmi.»
«Ah, sì, giusto»
esclamò lei e corse a prendere un post-it e una penna da uno
dei cassetti della
cucina. Enrico dettò il numero, poi fece una breve pausa.
«Ci vediamo più tardi»
concluse. All’improvviso sembrò esitante e
Vittoria temette per un momento che
fosse pentito di aver accettato la sua richiesta. Pensò di
chiederglielo
esplicitamente, ma le mancò il coraggio. Il momento
passò.
«A dopo» si limitò a
rispondere, dubbiosa, poi chiuse la telefonata.
Memorizzò in fretta il
numero di Enrico sul cellulare e mentre correva a cambiarsi
sentì l’incertezza
gonfiarsi come un palloncino che aveva preso il posto dello stomaco.
Non aveva
idea di come sarebbe andata e l’aspettativa si mescolava al
timore di aver
fatto uno sbaglio. Durante la telefonata lo zio le era sembrato prima
perplesso, poi quasi convinto, poi di nuovo perplesso, come se appena
prima di
chiudere fosse stato sul punto di ripensarci, al punto che Vittoria si
domandò
se sarebbe venuto davvero o se alla fine si sarebbe tirato indietro.
Indossò un bikini e un
vestitino di jeans con una camicia di Sangallo bianca e
infilò nella borsa il
suo telo da spiaggia, la crema solare, il kindle e le infradito: se
Enrico non
si fosse presentato all’appuntamento sarebbe andata al mare,
come aveva detto a
sua madre. E poi, se Claudia fosse venuta a dare un’occhiata
nella sua stanza,
quella mattina, non doveva sospettare che lei non fosse davvero andata
in
spiaggia. Legò i capelli in una coda bassa con un foulard
colorato, afferrò gli
occhiali da sole e corse alla casa principale. Non entrò,
limitandosi ad
affacciarsi alla portafinestra della cucina: la stanza adesso era
vuota, ma
sentiva Rosa e Claudia ridere e parlare da qualche parte al piano di
sopra.
«Mamma, io vado!»
gridò, augurandosi che la sentissero. Non voleva essere
costretta a salire e
magari trattenuta per qualche motivo.
Ci fu un rumore di
passi sulle scale. «Ok, amore» disse Claudia.
«Tieni d’occhio il telefono, ti
mando un messaggio ogni tanto. Divertiti!»
«Ok, ok, ciao!»
Vittoria si era già
lanciata in giardino prima ancora di finire di rispondere. La
proprietà era
recintata da un muro di pietra antico in cui si apriva un cancelletto
laterale.
Da lì partiva un viale che attraversava un boschetto di
ulivi e si trasformava
in una stradina sterrata che scendeva alla spiaggia. La terra iniziava
a
confondersi con la sabbia e gli alberi si facevano più radi,
lasciando il posto
alle rocce che racchiudevano la piccola baia come una perla in una
conchiglia.
Vittoria c’era andata una volta, con Rosa e Claudia, per
mezza giornata. Si
erano sistemate all’ombra delle rocce e si erano godute il
silenzio e la
quiete, lontano dalla confusione dei bagnanti che affollavano
soprattutto i
lidi poco lontani da Portosalvo, dall’altro lato
dell’isola. Santo Stefano era
piccola e priva di attrattive a parte la bellezza naturale del luogo e
non
aveva mai attirato molti turisti, ma Alberto e Rosa avevano raccontato
che
negli ultimi anni erano aumentati. Cala Saracena, però, era
una baia minuscola
e scomoda da raggiungere, frequentata quasi solo dagli abitanti
dell’isola, ed
era sempre molto tranquilla.
Vittoria fece tutta la
strada quasi di corsa, temendo di arrivare in ritardo. Non voleva
dargli una buona
scusa per tornare indietro e rimangiarsi la parola. Quando
uscì dal boschetto
di ulivi, invece di andare a sinistra, verso la spiaggia,
svoltò a destra,
seguendo il muretto di vecchie pietre scalcinate fino a raggiungere la
strada
asfaltata. Il caldo era già quasi insopportabile. Sedette
sul muretto e
aspettò. Dopo un po’, quando ebbe ripreso fiato,
tirò fuori il telefono e gettò
un’occhiata al display: erano trascorsi esattamente
diciassette minuti dalla
fine della telefonata con lo zio. Una giovane coppia le
passò accanto tenendosi
per mano e parlando a bassa voce, diretta alla spiaggia.
Vittoria scacciò una
vespa che le ronzava intorno, strinse i lacci di una delle All Star
bianche che
aveva annodato male nella fretta di precipitarsi fuori,
sollevò gli occhiali da
sole sulla testa, ma il sole era troppo forte e dovette riabbassarli.
Venti
minuti. Enrico non le era sembrato il tipo di persona che fa tardi,
anzi. Il
cuore le sprofondò lentamente sotto le scarpe mentre
giocherellava con il
telefono, la testa bassa, l’aria triste.
Lo
sapevo,
pensò. Sì, una parte di lei
sospettava che sarebbe andata così, eppure quella punta di
delusione era più
amara di quanto si aspettasse. Si alzò svogliatamente,
spazzolandosi il retro
del miniabito di jeans per togliere la polvere del muro. Era sul punto
di
girare a sinistra, lungo il sentiero che scendeva verso il mare, quando
si
accorse di una macchina che si avvicinava: una BMW grigio scuro
metallizzato
dal profilo slanciato ed elegante. Non capiva niente di macchine, ma
riconosceva quel marchio, perché suo padre qualche anno
prima aveva avuto una
BMW prima di prendere l’attuale Mercedes. La macchina
accostò dolcemente e
silenziosamente vicino all’imbocco della stradina, come se
scivolasse sul
ghiaccio. Il guidatore abbassò il finestrino: era Enrico,
che la fissava da
dietro gli occhiali da sole. La sua espressione era nascosta, ma le
labbra
erano tirate in una sottile linea di tensione. Vittoria lo
guardò a bocca
aperta per qualche secondo, poi lui le fece un sorriso lieve, appena
accennato.
Vittoria ricambiò istintivamente. In due passi raggiunse la
BMW.
«Ce l’hai fatta»
esclamò e si accorse di esserne sinceramente felice.
«Sì, scusami, è
che…»
Enrico esitò e lasciò che la frase si spegnesse
senza concluderla. Guardò
davanti a sé e si sistemò gli occhiali sul viso,
come per accertarsi che
fossero ancora lì. «Salta su.»
Vittoria
montò in
macchina di slancio, il sorriso che si allargava sempre di
più.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** PARTE TERZA. Capitolo 10. Lo specchio ***
PARTE TERZA
ISOLA DI
SANTO STEFANO
Agosto-ottobre
1999
CAPITOLO 10
LO SPECCHIO
Isola di
Santo Stefano
Agosto 1999
Quando il
traghetto
entrò nel porto, Stefano gettò
un’occhiata all’orologio che gli zii gli aveva
regalato per il diploma, due anni prima: erano quasi le quattro del
pomeriggio
e lui era in ritardo di tre ore. Sul suo viso si disegnò un
sorriso di cupa
soddisfazione, mentre inforcava di nuovo gli occhiali da sole che aveva
sollevato sopra la testa.
Guardò
l’isola che si
avvicinava sempre di più. Ormai gli sembrava di poter
toccare terra allungando
il braccio. Era una calda giornata di inizio agosto e il sole, alto e
scintillante nel cielo terso, picchiava forte sul ponte del traghetto,
che
stava completando la manovra per entrare nel porto con la prua rivolta
verso il
mare. Stefano si era posizionato fuori fin dall’inizio del
viaggio, su uno
degli scomodi sedili di legno mezzo marcio, lo sguardo ostinatamente,
sfacciatamente fisso verso il punto dove sapeva che l’isola
sarebbe apparsa. Se
n’era andato proprio così, undici anni prima,
fermo sul ponte a guardare la sua
casa svanire lentamente nell’azzurro polveroso e sfumato
dell’orizzonte, ed era
così che voleva tornare, così che voleva vederla
ricomparire da quello stesso
azzurro.
Eccola
lì, bella come
una principessa del mare, con le casette colorate aggrappate alla
roccia, i
pendii aspri e scoscesi, la sonnolenta Portosalvo, le insenature
rocciose che
Stefano ricordava ancora alla perfezione, perché le aveva
tracciate in sogno tutte
le notti. Poi l’ultima, brusca virata del traghetto, lo
strattone allo stomaco
che annunciava il ritorno a casa. L’isola della sua infanzia,
dei ricordi più
dolci e degli incubi più tremendi. Ci tornava per la prima
volta da quel giorno
lontano in cui era stato costretto ad andare via di nascosto, quasi
scappando
per una colpa che non gli apparteneva. Ci tornava con la nonchalance
di
chi non ha nulla da perdere, perché tutto quello che un
tempo era stato suo lo
aveva già perso.
Il ponte per
l’attracco
iniziava ad abbassarsi. Stefano si alzò, si
caricò in spalla la piccola borsa
che aveva con sé e si avviò giù per le
ripide scalette di ferro con passo
svelto e sicuro. Quando mise piede a terra cercò dentro di
sé la traccia, anche
vaghissima, di una qualche emozione, ma scoprì con
soddisfazione che non ce
n’era nessuna. Il muro dietro cui le aveva intrappolate per
tutti quegli anni
era ormai troppo alto da scalare. D’altronde, tornava
sull’isola con una
missione da compiere, un unico scopo nella mente, e tutto il resto non
aveva
importanza. Non doveva averne. Crogiolarsi nei ricordi o nei rimpianti
non
faceva parte dei suoi piani.
Mentre usciva
dall’area
pedonale destinata allo sbarco, lo seguirono con lo sguardo,
nell’ordine, una
signora con un cagnolino al guinzaglio, una ragazza in coda per
imbarcarsi sul
prossimo traghetto con una sacca da campeggio in spalla e una donna
sulla
trentina al lavoro nel bar del porto. Lui se ne accorse, ma fece finta
di
nulla. Era abituato agli sguardi femminili e non gli facevano
né caldo né
freddo. Erano come acqua che scivola via sulla pelle già
bagnata. Si guardò
intorno, cercando la macchina che, secondo i patti, doveva essere
lì ad
aspettarlo. Non fu difficile identificarla: nel parcheggio adiacente
alla zona
di sbarco, a pochi metri da lui, c’era una vecchia Ford di un
rosso sbiadito e
polveroso, come se per anni e anni fosse stata lasciata esposta al sole
e alle
intemperie senza ricevere nessuna cura. Sul parabrezza,
all’interno, era stato
sistemato un foglio di carta con su scritto “Stefano
Ruggero” in uno
stampatello sgraziato.
Stefano si
avvicinò:
una figura giaceva distesa sul sedile reclinato del conducente, un
berretto a coprirne
il volto. Sbuffò e picchiò forte con la mano sul
vetro della macchina. La
figura sobbalzò come se avesse preso una scossa elettrica e
il berretto scivolò
via, rivelando il viso magro, spigoloso e lentigginoso di un ragazzo
che doveva
avere all’incirca la stessa età di Stefano. Si
guardò intorno con aria confusa
e quando notò Stefano sgranò gli occhi.
Cercò prima di abbassare il finestrino,
poi di aprire la portiera, agitato e imbrogliandosi con le sue stesse
mani,
mentre Stefano lo osservava con le sopracciglia inarcate. Finalmente il
ragazzo
riuscì a smontare dalla Ford.
«Stefano
Ruggero?»
domandò precipitosamente, la voce e lo sguardo ancora velati
dal sonno.
L’interpellato annuì brevemente e il ragazzo per
poco non scoppiò a ridere per
il sollievo. «Finalmente sei arrivato!» Si
passò una mano sul viso, forse
cercando di svegliarsi del tutto. «Pensavo che mi avevano
mandato qua pamparissi.»
«Per
scherzo?»
«E
certo! Dovevi arrivari
tre ore fa: all’una precisa, così mi era
stato detto» rispose il ragazzo e
all’improvviso assunse un’aria seria, come per
sottolineare che non era venuto
meno al compito affidatogli.
«Quindi
tu sei qui
dall’una?» si informò Stefano,
più per prendere tempo che per vera curiosità,
perché aveva già intuito la risposta. Il ragazzo
doveva essersi addormentato a
forza di aspettare qualcuno che non arrivava mai. «Mi
dispiace per il ritardo.
Volevo… mandare un messaggio.»
Il ragazzo lo
fissò
senza capire. «Un messaggio? E allora facevi prima a
telefonare, no?» disse,
sorridendo.
Stefano rimase
serio.
«Va be’, adesso sono arrivato. Andiamo.»
«Hai
solo questa?»
chiese il ragazzo, fissando la piccola borsa che Stefano stava
lanciando sul
sedile posteriore dell’auto.
«Solo
questa. Non ho intenzione
di fermarmi.»
Salirono in
macchina e
partirono. Stefano si accorse che il ragazzo gli lanciava occhiate
curiose di
continuo, credendo di non farsi notare, forse domandandosi
perché avesse
quell’espressione così distante e annoiata, come
se fosse venuto fin lì da Milano
tirato per un guinzaglio. Fece finta di nulla anche questa volta, come
con gli
sguardi femminili al porto.
«Lavori
per i
Falconeri?» indagò.
Voltò
la testa verso il
finestrino. La Ford era vecchia, ma proseguiva veloce lungo le stradine
in
salita e in discesa di Portosalvo, tra la casette con archi, scalette e
terrazze, le vecchie botteghe scure e profonde come grotte affiancate
da
pizzerie, ristorantini e nuovi negozi ampi e luminosi. Serrò
le labbra, facendo
forza contro il muro perché restasse su a contenere quello
che minacciava di
riversarsi fuori da un momento all’altro, riempirgli la mente
e farlo
impazzire. Era così assurdo essere di nuovo lì
che per un attimo si chiese se
non fosse solo un altro dei suoi sogni e affondò le unghie
nel palmo della
mano, per controllare. Faceva male.
«Giardiniere
e
tutto-fare. Nino Mancuso» si presentò il ragazzo
con un sorriso aperto.
Quel nome
evocò
qualcosa nella mente di Stefano, che si girò a osservarlo,
sorpreso. «Mancuso?
Ma allora sei parente di Michele?»
«Mio
nonno era. Se n’è
andato da cinque anni» rispose Nino, tornando serio di colpo.
Stefano ebbe un
piccolo
sussulto. Non ricordava che il vecchio Michele, il giardiniere sempre
sorridente e gentile che se lo metteva sulle ginocchia e gli offriva
caramelle
appiccicose tirate fuori dalle tasche, avesse un nipote. Quando era
bambino,
sull’isola, passava quasi tutto il suo tempo con Enrico e
Claudia e gli altri
bambini erano una nebulosa indistinta nei suoi ricordi.
Serrò le labbra ancora
di più, per non pensare troppo, mentre Nino continuava a
parlare.
«Mio
padre si era
aperto una bottega in paese e così il signor Falconeri ha
preso me. Non è per
sempre, eh… Prima o poi mi trovo qualcosa da fare. Ma per
adesso mi piace.
Famìa
proprio, oggi!» concluse,
sbuffando. Prese ad armeggiare per abbassare al massimo il finestrino,
senza
distogliere gli occhi dalla strada.
«Mi
dispiace per tuo
nonno. Era una brava persona» mormorò Stefano,
dopo qualche istante.
Nino
sembrò stupito.
«Ti ricordi di lui? E come fai?»
esclamò, scherzoso. «Mi hanno detto che te ne
sei andato da picciriddo.»
Stefano
tornò in fretta
a guardare fuori dal finestrino, sebbene avesse l’aria
distratta, come se
seguisse con gli occhi fantasmi invisibili a chiunque altro. Erano
usciti dal
paese e ora stavano attraversando la campagna martellata dal sole:
campi di
grano, boschetti di ulivi, agavi, mandorli, aranceti, limoneti. Poi, di
colpo,
iniziarono i vigneti senza fine dei Falconeri. Stefano
deglutì. «Ricordo
benissimo. Ricordo più di quanto vorrei.»
Finalmente apparve il profilo severo
e imponente del baglio. Stefano si irrigidì. Sembrava uscito
dritto dritto dai
suoi sogni o dai suoi peggiori incubi. Era davvero lì, era
sempre lì. Affondò
di nuovo le unghie nelle carne e il dolore, in qualche strano modo, gli
diede
sollievo. «Senti… come vanno le cose al baglio?
Stanno tutti bene?» indagò, lo
sguardo fisso sulla casa che si avvicinava.
Nino gli
scoccò
un’occhiata, poi alzò appena le spalle.
«Vanno bene… Stanno tutti bene. A parte
il signor Falconeri, ma questo già lo sai»
rispose. Era chiaro che non sapeva
bene che cosa dire. «Enrico fa
l’università. E sta sempre attaccato alla sua zita»
aggiunse, con un sorrisino che gli spuntava sulle labbra.
Stefano non
commentò e
continuò a guardare fuori, disinteressato. Le risposte non
gli sembravano
soddisfacenti. Ogni tanto, mentre si avvicinavano alla meta, era sul
punto di
dire qualcosa, fare altre domande, ma non sapeva neanche lui cosa
volesse sapere
davvero e se voleva saperlo davvero. Rimase in
silenzio, in preda alla
confusione, mentre varcavano il cancello di ferro del baglio, immobile
e quasi
senza respirare. Quando Nino spense il motore sul viale principale,
Stefano
scese lentamente dalla macchina, guardandosi intorno con gli occhi
stretti e il
viso contratto.
«Vuoi
che ti accompagno
di sopra?» gli chiese Nino, mentre richiudeva la portiera del
guidatore.
Stefano non si girò a guardarlo e si limitò a
scuotere la testa. «Non c’è
bisogno, grazie» rispose a denti stretti. Non c’era
la minima possibilità che
si perdesse in quella casa.
Il ragazzo
tentennò un
momento, ancora in piedi accanto alla Ford, come se non volesse
defilarsi
troppo presto. «Allora… io vado a mangiare, se non
ti serve niente. Ho una rica
che non ce la faccio più.»
Stefano
accennò un
mezzo sorriso. Probabilmente Nino era stato costretto a saltare il
pranzo,
vittima innocente del suo piano di farsi aspettare il più a
lungo possibile.
Annuì. «Vai, vai. Io sono a posto, grazie del
passaggio.»
Nino gli
lanciò ancora
un’occhiata dubbiosa, come se temesse di essere rimproverato
per aver
abbandonato un ospite in quel modo. Poi la fame sembrò avere
la meglio, così si
avviò a passo rapido in direzione della porta che conduceva
alla cucina.
Stefano lo notò a malapena, con la coda
dell’occhio. Era troppo preso a
osservare il cortile e la casa. Era tutto così uguale a come
lo aveva lasciato
da fargli pensare di essere appena andato via. Forse sua madre sarebbe
apparsa
da un momento all’altro sulla soglia della cucina, i lunghi
capelli neri
ondeggianti sulle spalle e uno dei suoi vestiti a fiori, una mano sugli
occhi
per schermarli dal sole, intenta a cercarla con lo sguardo nel timore
che fosse
finito chissà dove a combinare chissà cosa.
L’aveva vista così decine di volte
da bambino. Quando infine lo trovava, la sua fronte si distendeva,
l’espressione si rasserenava e sollevava l’altro
braccio per attirare la sua
attenzione mentre lo chiamava.
«Stefano!
Stefano!»
Sbatté
le palpebre,
lottando contro il dolore e la nostalgia che premevano contro il muro e
che lo
avrebbero soffocato se fossero stati liberati. No, non poteva essere
vero.
Nessuno lo stava chiamando, era solo uno scherzo della sua
immaginazione. Si
volse lentamente, lo stomaco annodato dall’ansia, chiedendosi
per un folle
attimo chi avrebbe visto. Forse il tempo si era davvero fermato, in
quel posto?
Non era sua madre, ma il tuffo al cuore fu quasi altrettanto violento
che se
avesse visto lei. In piedi, davanti a lui, c’era un ragazzo.
Poteva avere la
sua età o al massimo un paio d’anni di
più. I capelli castano chiaro erano
mossi da un venticello caldo e placido e gli occhi azzurri, che lo
fissavano
colmi di gravità, erano lo specchio dei suoi. Erano sempre
stati l’uno lo
specchio dell’altro, due metà di un intero che era
stato spezzato. Stefano
rimase lì a fissarlo per qualche istante, poi
abbassò piano gli occhiali da
sole.
«Enrico»
disse con un
filo di voce che quasi gli morì in gola. L’altro
ragazzo lo osservava con una
consapevolezza tale che di colpo capì, quasi senza ombra di
dubbio, che sapeva del
vero legame che li univa: sapeva che condividevano lo stesso padre. In
quegli
anni di esilio si era sempre domandato con angoscia se Enrico avesse
mai
scoperto la verità, quando e come potesse essere successo,
se Edoardo avesse
mai trovato il coraggio di ammetterla a voce alta. Non poteva avere la
certezza
che fosse stato lui a parlarne a Enrico, ma ora lui sapeva. Di questo
Stefano
fu assolutamente, totalmente, tremendamente certo. Sapeva e forse lo
odiava.
Deglutì, mentre quel pensiero atroce gli gelava il sangue
nelle vene.
Enrico
restò in
silenzio per un po’, pensieroso, forse cercando le parole
giuste per salutarlo
dopo undici anni. Poi parve arrendersi. «Sei in ritardo. Ti
aspettavamo ore fa»
disse semplicemente. Doveva essere arrivato alla conclusione che le
parole
giuste per una simile circostanza non esistevano.
Stefano
tirò fuori un
mezzo sorriso storto. «Lo so. Mi piace farmi
desiderare.»
Enrico
esitò, poi
abbassò la testa, come se annuisse tra sé, e un
accenno di sorriso apparve
anche sulle sue labbra. «Non sei cambiato.» Non era
una domanda. Stefano non fu
sorpreso di scoprire che si capivano ancora con uno sguardo, come
quando erano
bambini, come se gli undici anni che li separavano fossero svaniti in
un
soffio. Lo stupì, invece, rendersi conto che ne era felice.
«Neanche
tu sembri
cambiato. Mi fa piacere rivederti.»
«Anche
a me» rispose
Enrico a bassa voce, il suo solito sorriso timido che gli illuminava
lentamente
il volto.
Non sembrava che
ce
l’avesse con lui. Stefano provava l’impulso di
colmare con pochi passi la
distanza che li separava e abbracciarlo, ma si trattenne. Il ricordo
del loro
ultimo incontro, nella cantina del baglio, e delle parole affilate che
il
fratello gli aveva lanciato contro come coltelli, con precisione, per
ferire,
era ancora vivo dentro di lui. Non gli portava rancore, dopotutto erano
passati
tanti anni e nel frattempo lui aveva imparato a comprendere le ragioni
che lo avevano
spinto a comportarsi in quel modo. Non poteva neppure far finta di
nulla, però.
E l’ombra che scorgeva nello sguardo limpido di Enrico gli
faceva pensare che
anche lui avesse la stessa incertezza. E poi non aveva idea di come
Enrico
avrebbe potuto reagire a un gesto così forte e improvviso.
Non sapeva se fosse
felice o meno del loro legame di sangue. Così Stefano rimase
dov’era,
limitandosi a studiare con attenzione, curiosità e affetto
il viso dell’altro.
«Come
te la passi?»
domandò Enrico dopo una pausa. Sembrava vagamente
imbarazzato, come se non
sapesse bene cosa dire per riempire il silenzio. Era ancora timido come
quando
era bambino.
Stefano si
schiarì la
gola. «Bene… Sto bene, a Milano.»
«So
che fai Economia»
continuò l’altro ragazzo, poi esitò un
istante e aggiunse con tono leggermente
diverso. «Si parla spesso di te, in paese.»
Stefano si
irrigidì
appena. Se lo aspettava. Sapeva che zia Luisa aveva mantenuto i
contatti con
alcune vecchie conoscenze di Portosalvo e in un posto così
piccolo, dove non
succedeva quasi mai niente di interessante, le voci giravano in fretta
e si
stava sempre a spettegolare di qualcuno. Non riusciva a decidere se gli
facesse
piacere o meno. Gli dava un’amara soddisfazione il fatto che
Edoardo sapesse
quanto era brillante il figlio che lui aveva sempre respinto, che non
aveva mai
voluto riconoscere apertamente come suo, dandogli l’affetto e
le cure che gli
spettavano, ma quando incrociò lo sguardo di Enrico
notò che l’ombra sullo
sfondo azzurro si era incupita. Provò uno strano disagio.
«Parlano
sempre troppo,
qui» commentò e si rilassò un
po’ quando vide il fratello accennare un sorriso
di comprensione. Sicuramente anche lui era spesso al centro delle
chiacchiere
in paese. I Falconeri erano la famiglia più importante
dell’isola e uno dei
maggiori imprenditori di tutta la Sicilia. «Sì,
faccio Economia. A ottobre
inizio uno stage, in banca. Voglio lavorare nella finanza.»
Lo disse con tono
asciutto e sicuro, privo di ansia o incertezza, come se il suo futuro
fosse
scritto nella pietra e in effetti aveva davvero questa sensazione, a
volte.
Enrico contrasse
la
fronte. «Finanza? Sì…»
mormorò, pensieroso, lo sguardo lontano, come se
osservasse il futuro radioso del fratello che si stendeva davanti ai
suoi
occhi. «Riesco a immaginarti. Eri il migliore di tutta la
scuola in matematica.
E poi hai la faccia giusta.»
«La
faccia da stronzo,
vuoi dire?»
Enrico fece un
sorriso
sghembo. «Intendevo “faccia tosta”, ma se
te lo dici da solo…»
Stefano
ricambiò il
sorriso. Sentiva che entrambi si stavano rilassando, come se avessero
recuperato in fretta la familiarità che li univa in passato.
E sentiva un senso
di apertura da parte di Enrico. Per la prima volta da quando era
tornato
sull’isola, per la prima volta da quando aveva deciso che
sarebbe tornato, fu
sfiorato dall’idea che lì potesse esserci qualcosa
per lui. Che forse qualcosa
si poteva salvare. L’euforia lo riempì come acqua
versata in un vaso, ma cercò
di tenerla a bada.
«E tu
che cosa fai?»
«Giurisprudenza.
A
Palermo. Dovrei finire l’anno prossimo.»
«E
poi? Manderai avanti
la baracca?» chiese Stefano, percorrendo velocemente con lo
sguardo la casa e
il cortile.
Suo fratello non
se la
prese per quel modo irriverente di definire
l’attività che la sua famiglia
portava avanti da cento anni. Si era già riabituato al
sarcasmo lacerante di
Stefano. Alzò le spalle. «Qualcuno deve pur
farlo.» Attese per qualche secondo,
poi, dato che Stefano restava in silenzio e sembrava non avere nulla da
aggiungere, parlò di nuovo. «Ti sta aspettando
dentro. In salotto» disse, la
voce di colpo dura e fredda come i sassolini delle calette rocciose,
dove
andavano sempre a giocare da bambini, sotto le loro piccole mani,
quando il
sole non ci batteva sopra.
Stefano
espirò e annuì.
«Meglio che vada, allora. Non vorrei farlo aspettare
troppo» rispose, ironico.
«Quando
riparti?»
«Stasera.
Prendo
l’ultimo traghetto, quelle delle otto.»
«Scappi
via, insomma.»
Enrico lo aveva
detto
senza nessuna inflessione particolare, ma alle orecchie di Stefano
suonò come
un’accusa. Gli parve che in realtà volesse dire
“Mi lasci, insomma. Di nuovo.”
Si mosse sui piedi, a disagio. «Non ho motivo di
restare» rispose. Poi ebbe un
attimo di incertezza. C’era qualcosa che premeva con forza
dietro il muro
costruito con tanta cura e pazienza per imprigionare il passato e
consentirgli
di andare avanti, di sopravvivere senza la metà di se
stesso, e gli sembrava di
non riuscire a trattenerla. Era un fiume in piena che investiva una
diga con la
violenza di un uragano. Era il suo cuore che urlava per essere
ascoltato. Era
il vuoto nel suo petto che implorava di essere colmato. Prese aria,
cercando
disperatamente le parole giuste per farla uscire, qualunque cosa fosse.
«A meno
che… se ti va… Prima che me ne vada
potremmo… parlare un po’.»
Enrico lo
fissava con
aria grave e Stefano pensò che forse intuiva il suo tumulto
interiore.
Dopotutto, era la persona che lo conosceva di più al mondo.
Anche se non si
vedevano e non si parlavano da tanti anni, non pensava che questa
distanza
potesse effettivamente cambiare qualcosa tra loro: ciascuno dei due
aveva
incontrato l’anima dell’altro senza alcuna
barriera. Stefano parlava con i suoi
amici dell’università ogni giorno, eppure non
poteva dire lo stesso di nessuno
di loro. Niente, nemmeno un milione di anni, avrebbe mai potuto rompere
questo
legame.
Enrico
rifletté per un
po’, poi assentì piano. «Okay»
rispose e la sua voce aveva già perso la punta
di durezza di poco prima.
Stefano gli
rivolse un
sorriso cauto, ma speranzoso, e un cenno con la testa. Poi si
avviò,
oltrepassando il fratello, ed era già a metà
della scala di pietra che
conduceva sul terrazzo, quando si sentì chiamare di nuovo.
«Stefano?»
Si
voltò, dondolando in
equilibrio tra due scalini. «Sì?»
Enrico era fermo
dove
lo aveva lasciato e lo guardava con la fronte aggrottata.
«Sembra che sia
passata un’eternità» disse di getto, a
bassa voce, come se parlasse a se
stesso.
Stefano
allargò le
braccia, un sorriso malinconico sul viso. «O forse neanche un
giorno… Chi lo
sa. Ci vediamo dopo.» Salì le scale di corsa.
****
Era come se quel
piccolo mondo fosse intrappolato in una bolla al di fuori del tempo che
scorreva, pensò Stefano. Desiderò con forza che
fosse lo stesso anche per lui
ed Enrico, per quello che erano stati da bambini. Entrò in
casa dalla terrazza
come in un sogno, seguendo una musica bassa che riempiva
l’aria: era la voce
della Callas che cantava Oh mio babbino caro dalla Tosca
di
Puccini, una delle arie preferite di Edoardo. Erano infiniti i
pomeriggi della
sua infanzia in cui quelle parole si diffondevano nelle stanze
silenziose della
casa. Sulla soglia del salotto si fermò a osservare i mobili
scuri e pesanti
che sua madre lucidava ogni tre giorni, l’immenso lampadario
di ferro battuto
che veniva spolverato una volta a settimana, le maioliche dai colori
vivaci su
cui non si poteva camminare quando erano state appena
lavate… Deglutì per
mandare giù il nodo che gli serrava la gola e
guardò Edoardo.
Era di fronte a
lui, in
piedi accanto all’alto mobile bar di noce, un sigaro quasi
terminato tra le
dita e impeccabilmente vestito come al solito. Sul tavolino tra il
divano e le
poltrone era posizionato il vecchio giradischi che era appartenuto al
padre di
Edoardo e che lui aveva sempre amato usare, nonostante la casa avesse
un
impianto stereo moderno di ultima generazione. Sebbene Stefano non
avesse fatto
alcun rumore, Edoardo si girò appena mise piede nella stanza
e i loro sguardi
identici si incontrarono, mentre le ultime note della musica si
spegnevano
lentamente. Il giradischi emise un lieve ronzio, poi cadde il silenzio.
Stefano
osservò suo
padre per un lungo momento. Non era cambiato neppure lui. Non gli occhi
di un
azzurro intenso, non i lineamenti marcati e affascinanti appena segnati
dalle
rughe o il fisico alto e slanciato, non appesantito
dall’età, e neppure
l’atteggiamento da signorotto locale ottocentesco che aveva
ereditato dai suoi
antenati, dei quali erano appesi i ritratti in una galleria del primo
piano. Era
quasi identico a quando lo aveva visto l’ultima volta in quel
pomeriggio
lontano, nel cortile del baglio, il giorno in cui sua madre gli aveva
detto che
sarebbe partito. Anche se Stefano era cresciuto e ormai erano alla
stessa
altezza, aveva ancora l’impressione che Edoardo torreggiasse
su di lui, come
quando lo aveva scorto nel sole intenso di quel pomeriggio, mentre
lanciava
sassolini, e all’improvviso aveva visto la sua ombra
incombergli addosso come
una nuvola temporalesca.
«Finalmente»
disse
Edoardo.
Un sorriso
storto gli
si disegnò sul volto e Stefano fu convinto che avesse
percepito ogni suo
pensiero. Si odiò per essere ancora così
trasparente per lui, nonostante il
muro che avrebbe dovuto proteggerlo. Strinse i pugni per un attimo e si
accorse
che tutto il suo corpo era in tensione, pronto a saltare in avanti da
un
momento all’altro per uno scontro. Si impose di rilassarsi e
aprì lentamente le
dita contratte.
«Sì,
sì, lo so. Sono in
ritardo. Aspettare è una novità per te,
giusto?» iniziò con tono rilassato,
quasi casuale. «Però sei tu quello più
in ritardo tra noi due. Un ritardo di
vent’anni.»
Edoardo prese
una
boccata dal sigaro, poi chinò la testa come se annuisse,
senza smettere di
sorridere. «Non hai torto. Ma saresti venuto, se ti avessi
chiamato prima?»
domandò, puntandogli in faccia lo sguardo affilato che
Stefano aveva rivisto
moltissime volte, in quegli anni, nei suoi sogni. Si sentì
trapassare da parte
a parte e si irrigidì per contrastarlo.
«Vuoi
dire… se mi
avessi chiamato prima di scoprire che sei malato di cuore?
Probabilmente no»
ammise. Alzò le spalle. «Non volevo venire neanche
adesso, ma non mi piace
lasciare i conti in sospeso. Ho solo colto l’occasione per
chiuderli.» Quando
aveva ricevuto quell’assurda telefonata, circa quindici
giorni prima, aveva
deciso quasi subito che sarebbe tornato. Poi aveva passato il tempo che
lo
separava dalla partenza a tormentarsi giorno e notte, chiedendosi se
non avesse
commesso un enorme sbaglio. Sua madre non aveva forse fatto di tutto
per
tenerlo lontano dall’isola e da Edoardo? E adesso lui ci
tornava, e per cosa?
Per accontentare un uomo che non gli aveva mai fatto da padre? Non
aveva nessun
senso, eppure, in qualche modo, Stefano aveva sentito che una forza
misteriosa
lo tirava indietro e che forse Edoardo c’entrava solo in una
minima parte. Così
era tornato.
«Un’occasione
come
questa è difficile che si ripresenti»
concordò Edoardo. Sedette su una delle
poltrone, accavallò una gamba con eleganza e
passò il sigaro da una mano
all’altra. Fece cenno al figlio con la testa di sedersi, ma
Stefano rimase
dov’era. «Hai fatto bene ad
approfittarne» continuò, senza dar mostra di aver
notato la cosa. «Finalmente possiamo parlare. Sei
cresciuto» constatò, dopo un
attimo di silenzio, studiando il suo viso. «Come
stai?»
A Stefano
sfuggì quasi
una risata. Scosse il capo. «Non fingere un interesse che non
hai mai avuto»
rispose, gelido. Fece un passo avanti verso suo padre, che lo osservava
con
aria di leggera curiosità, come se leggesse un libro che non
lo convinceva fino
in fondo. «Vuoi parlare? Benissimo, parliamo. Tanto per
cominciare, risparmiati
le rivelazioni drammatiche: so tutto.»
Edoardo non
mostrò
alcuna emozione. Fumò in silenzio per qualche istante,
continuando a studiare
suo figlio senza cambiare espressione. «Te lo ha detto tua
madre, immagino»
mormorò con tono incolore.
Stefano
annuì
bruscamente. Non si fidava di lui. Era certo che Edoardo già
sapesse che lui sapeva,
ma non scopriva mai del tutto le sue carte e lasciava gli altri a
giocare al
buio. Era fatto così. Edoardo emise un sospiro lieve, mentre
si posava un dito
sulle labbra.
«Quando
mi ha mandato
via» confermò Stefano a bassa voce. «Tu
nemmeno questo mi avresti dato, vero?
Neanche la verità. Mi hai tenuto in questa casa come un
ospite. Divertirsi con
mia madre andava bene, prendersi le proprie responsabilità
un po’ meno. Il nome
dei Falconeri non si può sporcare, non ufficialmente,
almeno. La macchia deve
restare sotto il tappeto. Non importa che tutti lo sappiano, non
importa che la
gente ne parli. Quello che conta è che solo Enrico fosse tuo
figlio.» Stefano
espirò, buttando fuori l’aria e trattenendo a
stento una smorfia. «So tutto,
come vedi. E non ho bisogno di sapere altro.»
Edoardo aveva
ascoltato
in silenzio, senza battere ciglio né muovere un muscolo, gli
occhi fermi su
Stefano. Il sigaro tra le sue dita emetteva un filo di fumo sottile.
Quando lui
tacque, si allungò per scuotere leggermente il sigaro su un
elegante posacenere
di porcellana dipinta sul tavolino accanto alla poltrona. Si
raddrizzò, si
schiarì la gola e posò di nuovo il suo sguardo
freddo sul figlio.
«Hai
finito? Sei venuto
fino a qui solo per dire che non sei interessato ad
ascoltarmi?»
«Forse.
Che te ne
importa?»
Non era una
risposta
molto sensata, ma Stefano sentiva che il rancore lo avvolgeva,
strisciando
inarrestabile sopra, sotto, intorno al muro che avrebbe dovuto essere
la sua
difesa, che gli era sembrato così alto e solido e invece gli
si sgretolava tra
le dita, come le costruzioni di sabbia che faceva da bambino sulle
spiagge
dell’isola. Era inerme davanti a Edoardo. Era ancora un
bambino che riusciva a
sfidarlo, a tenergli testa, ma non a sconfiggerlo, e questo pensiero lo
faceva
tremare dalla rabbia. Quanto avrebbe desiderato afferrarlo, tirarlo su
da
quella poltrona e scrollarlo fino a far scivolare via quella odiosa
maschera di
indifferenza, ma era paralizzato.
«Ho
sempre pensato che
tua madre ti avesse raccontato tutto o che prima o poi ci saresti
arrivato da
solo. Sei un ragazzo sveglio, lo so. Lo sei sempre stato»
disse Edoardo,
tranquillo, come se parlasse del più e del meno.
«Non
la nominare.
Lasciala stare» rispose Stefano a denti stretti.
Edoardo
continuò come
se lui non avesse detto nulla. «Neanche a me piace lasciare i
conti in sospeso,
comunque. Mi opero tra quattro giorni. Potrei morire.» Gli
scoccò un’occhiata
rapidissima, poi abbassò lo sguardo. « Pare che ci
siano buone probabilità di
sopravvivenza, se supero l’operazione. Potrei vivere ancora
per diversi anni,
ma volevo rivederti comunque.» Guardò di nuovo
Stefano. Lui si costrinse a
restare impassibile, a non lasciar trapelare nulla, come faceva
Edoardo.
«Non
dovresti fumare»
commentò, rigido.
Edoardo
accennò un
sorriso divertito. «Lo so, ma non sono mai stato bravo a fare
quello che mi
viene detto… quello che è giusto fare. E nemmeno
tu.» Il suo sorriso si fece
più ampio, quasi soddisfatto. «Sei uguale a
me.»
Stefano
sentì un
brivido, mentre i pugni si contraevano per il nervosismo e una smorfia
gli
deformava il viso. «Ah, no… Io non sono per niente
uguale a te» ribatté con
decisione, sebbene nello stesso momento si sforzasse di non mettersi a
urlare.
Era sicuro di non avere niente in comune con l’uomo beffardo
che gli sedeva di
fronte a eccezione degli occhi e dei lineamenti eleganti e squadrati. Doveva
esserne sicuro. Era l’unico modo per non impazzire, ma
avrebbe preferito che
l’ansia non gli si insinuasse con tanta facilità
sotto la pelle, nella carne,
fin dentro le ossa. «E comunque, che importanza ha?
È Enrico tuo figlio,
giusto?» Dovette ingoiare il disagio di pronunciare quel nome
davanti a
Edoardo. Si domandò cosa stesse facendo, se lo stesse
aspettando davvero come
aveva promesso, diviso tra il desiderio di parlargli e il timore di
affrontare
la verità insieme, se si stesse tormentando per sapere di
cosa parlavano Edoardo
e Stefano in quel momento.
Edoardo
inclinò la
testa da un lato, un gesto che faceva spesso quando qualcosa lo
contrariava.
«Enrico…» mormorò e insieme
al nome di suo figlio emise un sospiro pesante. «È
un bravo ragazzo. Ma quando sento parlare di te… di quello
che fai… di quanto vai
bene all’università, delle ragazze che ti corrono
dietro… Mi fa piacere.»
Aveva ancora
quel
ghigno di soddisfazione che a Stefano faceva rivoltare lo stomaco.
Sapeva che
era sincero. Lui non diceva mai bugie, si limitava a tacere la
verità. Stefano
aveva sempre pensato che trovasse poco dignitoso inventare storie.
Quelle parole,
però, non lo rendevano affatto orgoglioso o felice, anzi.
Erano un coltello che
scavava un solco nel suo petto.
«Tu
non sai niente di
me» sbottò in tono di sfida, quasi derisorio.
«Non crederai che queste
stronzate significhino qualcosa. Non mi conosci, non ti sei mai
preoccupato di
farlo.»
Edoardo lo
fissò senza
parlare per qualche istante, poi inspirò piano e diede
un’altra boccata al suo
sigaro. «Non hai torto» ammise, la voce priva di
inflessioni, come se fosse una
constatazione priva di importanza. «Mi dispiace di questo,
credimi.» Stefano
rispose con una smorfia che Edoardo finse di ignorare. «So
che ormai è tardi,
però voglio almeno chiarire una cosa»
proseguì il vecchio. Adesso aveva un tono
leggermente più alto e fermo. Guardò Stefano
dritto negli occhi con espressione
determinata. «Io avrei voluto darti il mio cognome. Qualche
volta ci ho pensato
seriamente. Ma tua madre non avrebbe voluto… Sapevo che non
avrebbe voluto. E
poi… non potevo.»
Stefano contenne
a
stento una risata di scherno. «Certo, altrimenti avresti
dovuto ammettere
apertamente che cosa avevi fatto, davanti a tutti.»
«No»
rispose Edoardo,
tranquillo, senza staccare lo sguardo da quello del ragazzo.
«Quello che dice
la gente non ha nessuna importanza per me e tu mi conosci, lo sai. Non
potevo
farlo» ripeté, più lentamente,
scandendo le parole. Stefano fece per intervenire
di nuovo, ma lui continuò a parlare e glielo
impedì. «Se ci tenevi così tanto,
però, perché non ti sei rivolto alla legge? Il
tuo sangue è il mio sangue. Puoi
farlo ancora» aggiunse e a Stefano parve che lo sfidasse a
farlo sul serio.
Studiava suo figlio come se fosse in corso una partita a scacchi e lui
avesse
appena spostato una pedina in una posizione pericolosa per
l’altro con un
sorriso lieve sulle labbra.
«Perché
non me ne frega
niente di queste stronzate. Non lo volevo quando ero un ragazzino, il
tuo
dannato cognome, e non lo voglio adesso. Non voglio essere un
Falconeri» sbottò
Stefano. Non aveva mai detto quelle parole a voce alta, ma nel momento
in cui
le pronunciò fu certo che fosse la verità. No,
non voleva un simile cappio al
collo ed essere strangolato come era successo a suo fratello.
«E che
cosa vuoi,
allora?» chiese Edoardo a bruciapelo, quasi prima che Stefano
finisse di
parlare. Sembrava curioso.
Stefano fece un
passo
avanti e si ritrovò ancora più vicino a lui. Lo
osservò in silenzio, il respiro
appena affannoso. «Guardarti in faccia e dirti che non ho
bisogno di te.»
Sul viso di
Edoardo
comparve un’espressione leggermente divertita mentre si
allungava per spegnere
nel posacenere quello che restava del sigaro. Agitò piano la
mano per
disperdere il velo di fumo che lo avvolgeva, tornò ad
appoggiarsi contro lo
schienale della poltrona e sorrise.
«Sei
venuto fino a qui
solo per questo?» disse, il tono denso di ironia. Scosse la
testa con un
movimento quasi impercettibile. «Non ti credo, Stefano. Penso
che tu stia
cercando qualcosa, anche se forse non sai nemmeno tu che cosa
sia.»
Il ragazzo
sussultò e
sebbene si sforzasse di nasconderlo muovendosi sul posto, fu certo dal
lampo
nel suo sguardo che Edoardo se ne fosse accorto. Non gli sfuggiva mai
nulla. Il
suo stomaco era talmente serrato nella morsa della nausea che quasi non
riusciva a respirare. All’improvviso sentì la
necessità impellente di uscire da
lì, di allontanarsi da Edoardo e dalla sua espressione
sardonica che tagliava
in due. Si costrinse a prendere fiato.
«Quando
mia madre mi ha
mandato via, mi ha detto che qui non c’era niente per
me» disse lentamente, ma
senza esitare. Suo padre lo studiava immobile, con aria di vaga
curiosità, come
se avesse davanti un problema di scarso interesse. «E aveva
ragione, almeno per
quanto riguarda te. Il tuo egoismo uccide le persone che ti stanno
vicino. E
non è solo una metafora, giusto?» Suo padre non
ebbe alcuna reazione visibile,
ma Stefano era sicuro che se fosse stato una persona che si abbandonava
agli
eccessi si sarebbe alzato in piedi di scatto e avrebbe rovesciato la
poltrona
su cui era seduto e poi forse gli avrebbe dato un pugno. Stefano lo
avrebbe
preferito, ma Edoardo non si mosse e non emise un fiato mentre lui si
godeva
quel piccolo momento di meschino trionfo. Era l’unica cosa
che avrebbe mai
potuto ottenere, lì, da suo padre. «Questa farsa
è durata abbastanza» concluse
in tono secco e si girò per uscire.
La voce di
Edoardo lo
bloccò. «Se vuoi andartene, lascia almeno che ti
dica una cosa. Una soltanto.»
Stefano si fermò, senza voltarsi di nuovo a guardarlo.
Sarebbe dovuto uscire e
basta, lo sapeva, ma una parte di lui restava inchiodata lì
ad aspettare. «So
che tu sarai convinto del contrario, ma quando tua madre si
è ammalata… mi è
dispiaciuto. Molto. Ho fatto tutto quello che era possibile: medici,
cure. Non
è servito a niente.» Stefano ascoltava, immobile.
Chiuse gli occhi, cercando di
vedere con la mente l’ultimo periodo di vita di sua madre,
come aveva fatto
centinaia di volte in quegli anni, ma non ci riusciva molto bene. Maria
Ruggero
era stata una persona così forte e piena di vita che
immaginarla malata,
debole, morente, gli era quasi impossibile. Avrebbe voluto urlare con
tutto se
stesso a Edoardo che era tutto falso, che era un bugiardo, ma dentro di
sé
sentiva che era sincero. Questo gli faceva più male di
tutto, senza che ne
comprendesse il motivo. Ci fu una pausa lunghissima, poi Edoardo
mormorò
qualcosa con voce appena udibile. «Mi importava di
lei.»
Anche Stefano si
prese
una pausa. Inspirò ed espirò molte volte,
lentamente, cercando di mantenere il
controllo, perché non poteva sopportare che Edoardo vedesse
la sua fragilità.
L’avrebbe afferrata e l’avrebbe ritorta contro di
lui, come un’arma. Lottò con
il male che gli stringeva il petto e con il ricordo di sua madre,
andata via
così, senza che potesse rivederla un’ultima volta.
Poi, quando gli parve di
essere riuscito a ricacciare tutto dietro il muro di difesa, si
voltò di nuovo
verso Edoardo, perché potesse vedere il disprezzo sul suo
viso.
«Sì,
lo so» disse a
bassa voce. «Lo so che ti importava. E sai come lo so?
Perché tutti quelli a
cui tieni… va a finire che si rovinano la vita, in un modo o
in un altro.» Alzò
gli occhi sul padre e rimasero a fissarsi per chissà quanto
tempo. Poi Stefano
si mosse, voltandosi verso la porta. Ormai non aveva senso restare.
Aveva
finito, lì. «Spero che ce la farai.
Davvero» sussurrò appena prima di uscire
dal salotto.
Rifece
il percorso a
ritroso, senza fretta, ma senza esitazioni, pensando che molto
probabilmente
era l’ultima volta che attraversava quelle stanze, eppure
incapace di guardarle
bene per dirgli addio. Voleva solo uscire da quella casa e non tornarci
mai più.
Faceva troppo male. Quando uscì sul ballatoio,
all’aria aperta e alla luce
forte del sole d’estate, gli sembrò di respirare
meglio, di avere le idee più
chiare. Scese di slancio la scala di pietra e atterrò nel
cortile, chiedendosi
dove potesse essere Enrico. Non voleva tornare dentro, così
si disse che forse
avrebbe potuto chiedere a Nino di cercarlo e poi proporgli di fare un
giro da
qualche parte. Ovunque, purché non fosse tra quelle stanze.
Aveva la sensazione
che non sarebbero mai riusciti a parlare sotto il tetto di Edoardo. Poi
alzò
gli occhi e il suo cuore si fermò.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Capitolo 11. Sete ***
CAPITOLO 11
SETE
Isola di
Santo Stefano
Agosto 1999
Era come un
sogno che
all’improvviso, del tutto imprevedibilmente, usciva dal mondo
dell’ineffabile e
si concretizzava in carne, sangue e ossa davanti ai suoi occhi.
Era lei.
Stefano
sentì un tuffo
al cuore che gli mozzò il fiato e per molto tempo rimase
immobile a fissarla,
quasi annaspando. Cercava di far coincidere il ricordo che aveva di lei
da
bambina con la ragazza che gli stava di fronte e lo guardava con gli
occhi
spalancati e l’inizio di un sorriso incredulo. Era sempre
stata piccola per la
sua età e anche adesso non era molto alta. Il fisico era
minuto, leggermente
arrotondato da curve morbide, i capelli castano dorato, gli occhi
nocciola, il
viso dai tratti da elfo, con le labbra dalla forma a cuore e il naso un
po’
all’insù con una piccola cicatrice frutto di una
caduta quando aveva due anni.
A lei quel dettaglio non era mai piaciuto. Stefano lo aveva sempre
amato,
quando erano bambini, perché gli sembrava una cosa soltanto
sua, che nessun
altro aveva. Non era molto diversa dalla ragazza che Stefano aveva
immaginato e
visto nei suoi sogni in tutti quegli anni di lontananza.
«Sei
tu» disse
finalmente Claudia, la voce arrochita dall’emozione. Il
sorriso sbocciò come se
non potesse più contenerlo e le illuminò il viso
con quella luce particolare
che aveva sempre avuto e che sembrava venirle da dentro. Lui la
ricambiò quasi
senza accorgersene, in automatico.
«Ciao»
mormorò.
Fece mezzo passo
avanti, pensando vagamente di abbracciarla, ma poi soffocò
l’impulso e si
trattenne, come già era accaduto con Enrico. Non era sicuro
di poterlo fare.
Claudia, però, se n’era accorta e dopo solo un
attimo di esitazione colmò la
distanza tra loro e lo strinse a sé. Stefano rimase
impietrito. Prese aria, poi
sollevò le braccia e mentre ricambiava la stretta
sentì che lei era reale, era
davvero lì con lui, così vicina che poteva
sentire il suo profumo. Una calda
sensazione di benessere lo invase. Chiuse gli occhi, le ciocche di
capelli di
lei che gli sfioravano il viso con dolcezza. Gli sembrava di essere
sospeso in
una bolla insieme a Claudia. Lei abbassò le braccia e si
tirò lentamente
indietro, lanciandogli un’occhiata imbarazzata ma felice.
Rimasero in silenzio
per un po’ a studiarsi a vicenda, curiosi.
«Quando
sei arrivato?»
chiese infine Claudia.
Stefano si
schiarì la
gola e cercò di rimettere in ordine le idee. «Poco
fa. Ho fatto tardi» spiegò,
restando sul vago. All’improvviso il piano che gli era venuto
in mente a Milano
e che lì per lì gli era sembrato molto
intelligente, farsi aspettare solo per
infastidire Edoardo, gli parve sciocco e infantile. Strinse le labbra
come per
trattenerlo giù, sebbene non avesse pensato davvero di
parlarne con Claudia.
Lei
annuì, un po’
incerta. «Cavoli, è assurdo… Da quanto
tempo non ci vediamo» esclamò di getto.
Strofinò la suola della scarpa per terra, come per scaricare
la tensione.
«Senti… Dove vai, adesso? Hai qualcosa da
fare?»
Stefano
esitò. Si
guardò intorno. Doveva cercare Enrico per parlare, glielo
aveva promesso. «Io…
dovrei vedere Enrico. Prima ci siamo incrociati, ma non abbiamo avuto
tempo
di…» Lasciò la frase in sospeso. Lei
sembrò comprendere e annuì. «Volevamo
parlare un po’.»
«Certo»
disse lei
subito. Ebbe un attimo di esitazione, poi riprese con entusiasmo.
«Che ne dici
se prima andassimo a tampasiari
un po’? Solo io e te. Dai,
una mezz’oretta e torniamo. Lo troverai ancora qui.»
Stefano
sollevò le
sopracciglia. Prima che potesse decidere che cosa rispondere, sulla
porta della
cucina comparve Nino con un panino in mano. Li salutò con un
cenno.
«Ciao,
Claudia!»
Lei si
illuminò ancora
di più nel vederlo, come se fosse la risposta che non aveva
ancora ricevuto da
Stefano. «Ehi, Nino, ci presti la macchina? Facciamo un
giretto e te la
riportiamo. Mezz’ora al massimo» disse, impaziente.
La Ford rossa
polverosa
e ammaccata era ancora ferma dove l’aveva lasciata Nino,
sotto il sole che
batteva senza tregua. Lui aveva appena preso un grosso boccone e prima
di
riuscire a parlare ci mise un po’ di tempo. Claudia aspettava
continuando a
strofinare il piede sul vialetto. A Stefano faceva venire in mente un
uccellino
impaziente di prendere il volo. Finalmente Nino mandò
giù e fece uno dei suoi
sorrisi larghi e genuini.
«Certo.
Le chiavi sono
attaccate allo sportello.»
«Grazie!»
esclamò
Claudia, euforica.
Lanciò
uno sguardo
felice a Stefano, gli occhi che brillavano, e si avviò a
passo svelto verso la
macchina. Stefano alzò la mano per fare un cenno di saluto a
Nino e la seguì,
ma appena prima di aprire la portiera colse un movimento con la coda
dell’occhio,
sulla terrazza. Si voltò. Gli parve di vedere una figura
sulla portafinestra un
attimo prima che sparisse dietro le tende bianche e svolazzanti nella
brezza
bollente, sprofondando di nuovo nella penombra della casa. Si
accigliò ed ebbe
un attimo di incertezza. Poteva essere Enrico?
«Sali,
dai!»
La voce di
Claudia lo
riscosse. Era già al volante e si allungava per vedere cosa
stesse facendo lui.
Stefano sedette al posto del passeggero e chiuse lo sportello, ancora
pensieroso. Poi incrociò lo sguardo della ragazza e fu come
un colpo di spugna
che cancellava qualsiasi altra cosa. Era Claudia ed erano di nuovo
insieme. Era
meglio di qualsiasi cosa avesse mai sognato. Lei fece un sorriso enorme
mentre
metteva in moto e iniziava a fare manovra, agile e sicura.
«E
così volevi andare
via senza salutarmi» esclamò, con tono di finto
rimprovero.
Stefano
esitò. «Non
sapevo che fossi al baglio.»
Claudia guidava
veloce
e si stavano già allontanando dalla casa, che diventava
sempre più piccola alle
loro spalle. Stefano sentì che un peso gli scivolava via
dallo stomaco,
respirava meglio e non avvertiva più quel senso di nausea
che gli stringeva la
gola e gli faceva venire una mezza smorfia sul viso. Era stata
un’ottima idea
allontanarsi dal baglio. Stava per chiederle come mai si trovasse
lì, ma lei lo
prese in contropiede con un’altra domanda.
«Sempre
a Milano stai,
giusto?»
«Sì,
ma non abito più
con i miei zii. Divido casa con due amici
dell’università. Anche se
“casa” è
una parola grossa.» Claudia fece una risatina. «E
tu dove abiti?»
«A
Portosalvo. Anche io
sto con una mia amica, Rosa. Tu non l’hai mai incontrata, ci
siamo conosciute
dopo che…» Si interruppe di colpo, si morse il
labbro e per un attimo scese il
silenzio. Quando riprese a parlare aveva lo stesso tono tranquillo e
allegro di
prima. «In realtà più che
un’amica è una sorella. Studia per diventare
infermiera. Io al momento lavoro part-time in una libreria.»
Accennò un
sorriso. «Non te la puoi ricordare, ha aperto da qualche
anno, per i turisti.»
Fece una pausa mentre cambiava la marcia per affrontare una strada in
pendenza.
Il motore della Ford gemeva sommessamente e Stefano lanciò
uno sguardo
preoccupato al cruscotto, chiedendosi quante possibilità ci
fossero che li
lasciasse all’improvviso in mezzo alla strada. Claudia,
però, continuava a
guidare con sicurezza. «E vado
all’università. Faccio Storia
dell’arte.»
«A
Palermo?»
«Sì.
Non frequentante
sono, però. Prendere casa lì costava
troppo.» Stefano assentì, spostando lo
sguardo verso la campagna secca e ingiallita dal sole che sfilava
rapida fuori
dal finestrino completamente abbassato per far passare
l’aria. Ora
costeggiavano un campo di grano, le spighe alte e pronte per il
raccolto che
ondeggiavano pigre. Con un tuffo al cuore, gli parve di intuire dove lo
stesse
portando. Era uno di quei posti che non era mai riuscito a dimenticare
e non
sapeva decidere se fosse una cosa buona o no. Aprì appena la
bocca per dire
qualcosa, poi ci ripensò e tacque. Preferiva lasciar
decidere a lei. «Io invece
so già che cosa fai tu» continuò
Claudia con aria un po’ sorniona. «Lo sanno
tutti. Ottimi voti all’università, conquisterai il
mondo, eccetera.»
Lui
scoppiò a ridere,
scuotendo la testa. «Questo posto è davvero un
mortorio se io sono l’unica cosa
interessante di cui parlare. E comunque devo prima sopravvivere al
tirocinio
del terzo anno e poi potrò iniziare a pianificare la
conquista del mondo.»
Anche Claudia
ridacchiò. Aveva abbassato il finestrino e il vento le
scompigliava i capelli,
che le danzavano vivaci e dispettosi intorno alle guance.
Agitò una mano
impaziente per scostare una ciocca che le era finita sulla fronte,
quasi sugli
occhi, poi la rimise sul volante.
«Lo
sai che qui non
succede mai niente. Dove lo fai il tirocinio?»
«In
banca.»
«Mm…
In banca» ripeté
lei a bassa voce, quasi parlando tra sé e sé,
mentre ci pensava. Poi annuì.
«D’altronde eri fortissimo in matematica. Il
migliore di tutta la scuola. Gli
insegnanti volevano farti saltare un anno, ti ricordi?» Il
sorriso le si spense
piano sulle labbra e assunse un’espressione seria, quasi un
po’ solenne. «Ti ci
vedo.»
A Stefano quella
conversazione sembrava un déjà-vu.
Aveva parlato di quegli stessi
argomenti con Enrico poco prima e non doveva stupirlo, forse, che le
due
persone che lo avevano conosciuto meglio nella vita pensassero lo
stesso di
lui. Chissà che cosa si sarebbero detti, lui ed Enrico,
quando finalmente
fossero riusciti a parlare.
«Enrico
ha detto la
stessa cosa, quando ci siamo visti» mormorò di
getto, senza riflettere. Guardò
rapidamente verso Claudia, mentre un dubbio gli sorgeva nella mente:
lei sapeva
che Enrico era il suo fratellastro? Per un momento pensò di
chiederglielo e
basta. Non voleva mentirle o tacerle qualcosa, ma forse lanciare la
notizia
così, all’improvviso, sarebbe stato strano. Meglio
lasciare che venisse fuori
da sola. A un certo punto sarebbe successo per forza.
«Oh»
fu il commento di
Claudia. Non staccava gli occhi dalla strada e solo le sopracciglia un
po’
inarcate lasciavano intendere che qualcosa la turbava. «Non
torneremo tardi,
promesso. Così avrete tutto il tempo
di…» Esitò e la frase rimase in
sospeso, incompiuta.
Strinse con più forza le dita sul volante e si morse il
labbro inferiore. Una
lieve tensione si allungò tra loro per qualche istante.
«Non sei curioso di
sapere dove ti sto portando?» esclamò Claudia, con
voce più vivace. Stefano
ebbe la sensazione che volesse cambiare argomento con discrezione.
«Sarei
curioso se non
lo avessi già capito.» Si voltò appena
verso di lei e fece un sorriso
inclinato. «Ho riconosciuto la strada.»
Come se
l’avessero
evocata con le parole, la loro meta iniziò a emergere pian
piano, spiccando
sopra l’orizzonte. Stefano la osservò avvicinarsi
in silenzio, lacerato da un
groviglio di sentimenti contrastanti. Desiderava raggiungerla di corsa
e
restare lì per sempre, con Claudia, perché era
uno dei posti dove più era stato
felice in tutta la vita, e desiderava girarsi e scappare via, il
più lontano
possibile, perché faceva troppo male. Il fatto che Claudia
avesse pensato di
portarlo proprio lì lo riempiva di emozione.
Chissà che cosa stava provando
lei. La guardò e la sorprese a sorridere.
«Accidenti…
Volevo
lasciarti a bocca aperta» brontolò, ma si capiva
che era felice ugualmente.
Per un momento i
loro
sguardi si incrociarono, emozionati e carichi di aspettativa, poi
rimasero
entrambi in silenzio mentre Claudia parcheggiava la Ford in una
rientranza sul
ciglio della strada. Scesero e imboccarono un viottolo di campagna in
salita che
partiva accanto a un basso muretto scalcinato. Erano vicinissimi al
mare,
adesso. Mentre si inerpicavano tra i fiori di campo appassiti e
l’erba alta e
secca, affannati e accaldati, schivando buche e sassi, un venticello
caldo e
profumato di sale e di sole li accarezzava dolcemente, simile alla mano
morbida
e delicata di un’amante. Nessuno dei due disse una parola.
Stefano era preso
dai suoi pensieri e dal pensiero di lei e qualcosa gli diceva che per
Claudia
era lo stesso. Sembrava che avessero stabilito tacitamente che un
momento come
quello poteva esistere soltanto nel silenzio.
Giunsero sulla
cima
della scogliera e a Stefano parve di essere precipitato in uno dei suoi
sogni
misti a incubi che lo svegliavano di notte, di soprassalto, ansimante,
fradicio
di sudore e tormentato dal desiderio. Davanti a lui c’era la
torre saracena
della sua infanzia, dei giochi segreti, delle prove di coraggio, dei
racconti
di assalti e pirati, delle giornate d’estate trascorse in
bici con le altre due
parti di lui, Enrico e Claudia, che pedalavano al suo fianco o appena
dietro le
sue spalle: la pianta quadrata, la porta di legno marcio tenuta chiusa
per
miracolo dal vecchio lucchetto arrugginito, le pietre grigie sgretolate
che
giacevano nell’erba alta fino alle ginocchia, la ferita nella
parete mezza
franata, il tetto mezzo sfondato. Dietro la torre si intravedeva
l’ulivo
ritorto su cui si era arrampicato per l’ultima prova di
coraggio che aveva
fatto e a sinistra si stendeva il boschetto di ulivi, quieto e ombroso,
il
regno delle cicale che frinivano come impazzite. Stefano strinse i
pugni, travolto
da un’ondata di nostalgia così intensa che quasi
faticò a prendere aria.
«È
tutto uguale»
sussurrò, la voce turbata dall’emozione.
«Non è cambiato niente.»
In piedi accanto
a lui,
Claudia emise un respiro più forte del solito.
«Sì… e no.»
Era una risposta
curiosa. Stefano si voltò a guardarla e vide che sorrideva.
«È un miracolo che
non ci sia mai crollata addosso» aggiunse dopo un attimo di
silenzio, per
prendere tempo. Respirò profondamente, sentendo che
recuperava il controllo, e
ne fu sollevato. Quando ricominciò a parlare era di nuovo se
stesso. «Tua nonna
non aveva torto a proibirci di venire qui. Si arrabbiava tutti i
giorni… e noi
ci venivamo lo stesso» ammise, con un velo di senso di colpa
nella voce. Tacque
di nuovo, perché il pensiero di Amelia gli riempiva il
cuore, lasciandolo senza
fiato. Abbassò lo sguardo. «Mi è
dispiaciuto moltissimo quando ho saputo»
riprese, la voce bassa, ma ferma. Amelia era morta due anni prima e lui
lo
aveva saputo tramite sua zia e le sue vecchie amicizie
sull’isola. Era stata
una coltellata non meno profonda di quella che aveva provato alla morte
di sua
madre. «Avrei voluto fare qualcosa… chiamarti,
ma…»
Non
riuscì a finire la
frase e per un momento si disprezzò. Per quanto Claudia
sembrasse felice di
rivederlo, probabilmente il suo comportamento in quella circostanza
l’aveva
ferita. Anche se non si vedevano da anni, anche se lui aveva
un’altra vita lontano
da lì, Amelia era stata una delle colonne portanti della sua
infanzia e Claudia
forse si era aspettata qualcosa da lui, anche solo un patetico
telegramma.
Stefano, però, non ce l’aveva fatta. Era
l’unica occasione nella sua vita in
cui aveva pensato con assoluta convinzione di essere stato un codardo.
«Non
preoccuparti»
disse lei. Sembrava tranquilla. Stefano la fissò e si
accorse con stupore che
nei suoi occhi limpidi non c’era traccia di rancore, ma solo
una calma
malinconia. Claudia infilò le mani nelle tasche posteriori
della gonna di jeans
e cambiò posizione sulle gambe. «Voglio dire,
capisco perché non hai chiamato.»
Davvero? Stefano aggrottò la fronte. Neppure lui avrebbe
saputo spiegare perché
non avesse fatto nulla, anche se la tristezza gli aveva tolto il sonno
e la
fame per diversi giorni. Stava per chiederle cosa intendesse dire, ma
poi lei
continuò. «A me è dispiaciuto tanto per
tua madre. Mi trattava come una
figlia.» Stefano resse il suo sguardo per un po’,
poi annuì e tornò a guardare
verso la torre che si stagliava contro la luce del sole.
«Io… pensavo che ci
saremmo rivisti, al funerale… quando è
morta» aggiunse Claudia, il tono che si
faceva incerto. «Per questo non sono rimasta sorpresa quando
non hai chiamato
per la morte di mia nonna. Insomma, se non eri tornato per Maria,
allora… ho capito
che non saresti tornato mai. Che era finita.»
Le sue parole
caddero
come pietre nello stomaco di Stefano. Per qualche istante rimase in
silenzio ad
ascoltare il frinire impazzito delle cicale e lei aspettò,
immobile al suo
fianco, osservandolo con aria di gentile curiosità.
«Non
ha voluto» rispose
lui alla fine. Le parole gli parvero stranamente pesanti, impastate
nella sua
bocca. «Mia madre ha fatto promettere a sua sorella che non
sarei mai tornato
qui, per nessuna ragione. Nessuna. Anche quando si è
ammalata, ha continuato a
vietarglielo. Disse espressamente che lei… poteva benissimo
morire senza di me.
Mia zia non era d’accordo, ma ha rispettato il suo
desiderio.» Un sorriso amaro
e fugace apparve sulle sue labbra. «Mia madre è
sempre stata una persona che
sapeva imporsi, quando voleva.»
Tornò
il silenzio.
Claudia lo guardava, ma senza compassione, come lui aveva temuto. Aveva
negli
occhi l’espressione di chi sa cos’è la
perdita e sa che le parole e la
commiserazione non servono a nulla. Respirò profondamente,
gli afferrò la mano
all’improvviso e la strinse con dita fresche e forti. Stefano
sussultò, colto
di sorpresa, ma prima che potesse reagire in qualunque modo lei si era
già
staccata. Si allontanò e sedette sui gradini spezzati della
torre. Stefano
rimase paralizzato per un istante, poi la raggiunse a passi lenti e
sedette
accanto a lei.
«È
stata dura? Quando è
morta tua nonna, voglio dire.»
Claudia strinse
le
ginocchia al petto, circondandole con le braccia.
«Abbastanza, ma ero
preparata. A un certo punto ho capito che non poteva resistere ancora a
lungo.
Però ha continuato a lavorare fin quasi
all’ultimo, sai? Edoardo insisteva
perché si riposasse, le ha pagato le cure e le ha sempre
dato il suo stipendio
per intero fino all’ultimo centesimo, anche quando ormai lei
stava troppo male
per fare granché in casa. L’ho molto
apprezzato.» Stefano non fece commenti.
Sapeva che Amelia era sempre stata sacra per Edoardo. «Lei
però non ha voluto
fermarsi. Era fatta così.»
Stefano
chinò la testa,
sorridendo. «Ah, lo so. Ricordo benissimo come era
fatta.» Claudia non rispose
e, dopo aver aspettato per qualche secondo, lui sollevò gli
occhi, cercando
quelli di lei, e gli sembrò di leggervi quello che stava per
dire. Quel nocciola
aveva sempre avuto una strana qualità trasparente che lo
affascinava, come se
fosse possibile vedere attraverso il colore.
«Anche
io ricordo
benissimo il giorno in cui mi sono svegliata e tu non c’eri
più.»
La luce del sole
delineava in modo netto e preciso i contorni delle cose e mentre
reggeva lo
sguardo di Claudia lui si ritrovò a desiderare che tutto
potesse essere così,
chiaro, cristallino, senza ombre o spazi di incertezza, o almeno di
riuscire a
trasmetterle in silenzio quello che non riusciva a dire,
perché era troppo
difficile. Spostò lo sguardo verso il boschetto di ulivi.
«Enrico
come l’ha
presa?» indagò, con tono neutro.
Lei si
irrigidì e
Stefano intuì che quel nome, tirato fuori
all’improvviso, l’aveva colta alla
sprovvista. Claudia si schiarì la gola e cambiò
posizione. Allungò le gambe
tornite e abbronzate davanti a sé.
«Non
lo vidi per un
paio di giorni. Si chiuse nella sua stanza e non voleva vedere
né parlare con
nessuno. Non mangiava neanche, all’inizio. Amelia gli
preparava dei vassoi che
tornavano in cucina quasi intatti. Poi lei lo ha convinto a uscire.
Sapeva
sempre toccare le corde giuste per farlo uscire dal guscio, come diceva
lei.»
Stefano la sentì fare un piccolo sorriso. «Quando
si è deciso a uscire dalla
sua stanza, era diverso… più cupo, triste. Non lo
diceva apertamente, ma io
capivo che aspettava che tornassi, come i compagni di classe che si
trasferivano da qualche parte con la famiglia e poi tornavano per le
vacanze.
Ti mise da parte un regalo per Natale. Ti ricordi che Edoardo ogni
tanto gli
regalava qualcosa che era appartenuto a lui da bambino?»
Stefano
esitò, poi si
limitò a fare un cenno secco con il capo. Enrico gli aveva
mostrato tante volte
quei tesori con orgoglio, ma senza ostentazione. Li conservava in una
scatola
dentro l’armadio della sua stanza che tirava fuori e
maneggiava con cura.
Stefano osservava con curiosità quelle cose che venivano da
un tempo che gli
sembrava lontanissimo e gli aveva fatto un po’ male quando
aveva capito che
Enrico li avrebbe tenuti per sé, sebbene di solito
condividesse con lui tutto
quello che possedeva. Si era reso conto che erano speciali, ma non
aveva capito
quanto fino a che non aveva scoperto che Edoardo era anche suo padre.
Da allora
gli era capitato spesso di pensarci e di immaginare come sarebbe stato,
cosa
avrebbe provato se li avesse dati a lui. Quei piccoli oggetti vecchi e
malmessi
erano diventati uno dei tarli che più lo tormentavano.
«Scelse
una fionda e la
fece vedere solo a me» proseguì Claudia.
«Ma tu non tornasti, così la mise da
parte. Poi arrivò l’estate e a luglio ne scelse un
altro per il tuo compleanno,
un vecchio orologio da taschino. Era tutto ammaccato. Credo che
appartenesse al
padre o al nonno di Edoardo. E al Natale successivo una penna
stilografica. Ma
tu non tornavi. Dopo un po’ ha iniziato a capire e ha smesso
di aspettare.»
Stefano
sentì una
tristezza pesante come un grosso zaino da trekking che gli scivolava
sulle
spalle, gli si attaccava alla pelle, gli opprimeva il cuore e gli
tagliava il
petto. Chissà se Enrico aveva pensato di conservare per lui
i suoi tesori più
preziosi come l’ultimo e il più importante atto di
amicizia che potesse rivolgergli,
come ammenda per quello che gli aveva detto l’ultima volta
che si erano
parlati, nella cantina del baglio, o perché aveva iniziato a
intuire il vero
legame che li univa. Avrebbe voluto condividere questi pensieri con
Claudia ad
alta voce, perché era certo che lei avrebbe capito.
«Mi
dispiace. È mancato
molto anche a me.»
«Certo
che ti è
mancato» rispose lei con voce serena. Ci fu un istante di
silenzio, poi
aggiunse: «È tuo fratello.»
Per Stefano fu
un
calcio nello stomaco. Si girò di scatto verso di lei: lo
stava fissando con
aria di attesa, il corpo rigido. Tra gli occhi le era spuntata una ruga
sottile
che le veniva sempre quando era tesa e concentrata su qualcosa di
complicato,
ad esempio quando faceva i compiti di matematica, da bambina. Stefano
era a
corto di ossigeno e si sforzò di parlare, sebbene non avesse
la minima idea di
cosa dire.
«Lo
sai» mormorò con un
filo di voce. E per tutto il tempo da quando si erano ritrovati lui si
era
chiesto quale fosse il modo migliore per dirle una cosa così
enorme e
importante. Si sentì ridicolo.
«Da
anni.»
«Chi
te lo ha detto?»
«Amelia.»
Claudia fece
una piccola pausa, senza distogliere gli occhi da quelli di lui, come
se
temesse di perdere il contatto. «Aveva giurato a tua madre di
non parlarne mai,
soprattutto non con te, ma quando tu sei partito e lei è
morta… deve aver pensato…
che non avesse più tanta importanza. Un giorno mi ha
raccontato tutto. Era
passato più o meno un anno da quando eri andato via. Io
parlavo sempre di te,
la tormentavo con le mie domande. Non ne poteva
più.» Accennò un sorriso
nervoso e abbassò lo sguardo sulle sue scarpe da ginnastica
macchiate e
impolverate. «Mentre parlavamo, Enrico è entrato
nella stanza. Non ce ne siamo
accorte. Ha sentito tutto anche lui. Non è stato molto
sorpreso, però. Era come
se in qualche modo… se lo aspettasse.»
Stefano
unì le mani e
le strinse forte. Per un po’ non riuscì a dire
nulla e Claudia rispettò il suo
silenzio. Enrico sapeva. Sapeva tutto e forse lo odiava, eppure lo
aveva
guardato dritto negli occhi, poco prima, al baglio, e aveva accettato
di
parlare con lui. C’era ancora una speranza di rimettere
insieme i cocci o era
soltanto un’illusione? Che cosa doveva fare, adesso? Cosa
sarebbe successo tra
loro? Chiuse gli occhi, mentre gli risuonavano con forza nella testa le
parole
di sua madre quando gli aveva detto che sarebbe andato via,
l’ultima sera a
Santo Stefano.
Enrico…
quando saprà
tutto ti odierà anche lui.
«Non
è così che doveva
andare» disse all’improvviso, senza riflettere.
Claudia gli
lanciò
un’occhiata dubbiosa. «Che cosa?»
«Tutto
quanto. Dovevamo
stare insieme.»
«Vuoi
dire… noi tre?»
Stefano la
guardò
intensamente. «Sì. Noi tre e… io e
te.» Claudia si irrigidì visibilmente e
rimase in silenzio. Lui sapeva che avrebbe dovuto fermarsi, che stava
imboccando una direzione che non aveva previsto e su cui sentiva di non
avere
il controllo, ma non voleva. «In tutti questi anni non ho mai
smesso di
chiedermi come eri diventata e ora ho l’impressione che in
realtà non ci siamo
mai separati.»
Lei lo
fissò con aria
indecifrabile, poi si mosse, a disagio. «È solo
un’impressione, Stefano. Sono
passati tanti anni e sono successe tante cose…»
«Ci
racconteremo tutto.
Non siamo più costretti a separarci, non siamo
più bambini.»
Per la prima
volta da
quando aveva lasciato l’isola, undici anni prima,
pensò con decisione che sua
madre si fosse sbagliata quando gli aveva detto che non poteva restare
lì,
perché non avrebbe avuto mai niente. Forse c’era
ancora qualcosa per lui, sull’isola.
Forse poteva ritrovare Enrico e Claudia. Anche se il passato ormai era
perduto
e non era possibile tornare a quell’innocente spensieratezza,
forse avrebbero
potuto creare qualcosa di nuovo, di diverso. Meno perfetto, ma non meno
importante.
«Devo
dirti una cosa»
fece Claudia all’improvviso, rompendo le sue riflessioni. Lo
fissava con una
strana espressione, come se avesse in mano una bomba a orologeria che
non
vedeva l’ora di lanciare lontano, per liberarsene, ma al
tempo stesso temesse
di vederla esplodere. Per un attimo Stefano pensò che
volesse dirgli che non
aveva alcuna intenzione di recuperare il loro rapporto, che ormai era
passato
troppo tempo e lei era andata avanti. Lo stomaco gli
sprofondò sotto le scarpe.
Poi lei parlò di nuovo. «Sto con Enrico.»
Gli si
mozzò il fiato
per lo shock. Aprì la bocca, ma non riuscì a
emettere alcun suono. Si limitò a
fissarla. Aveva la sensazione che tutto gli girasse intorno molto
lentamente.
Passò un tempo indefinito, poi, quando la prima ondata di
sorpresa fu passata,
il primo pensiero coerente che il suo cervello riuscì a
balbettare fu che
avrebbe dovuto arrivarci da solo: l’aveva incontrata al
baglio e quale ragione
poteva avere di essere lì? Probabilmente doveva vedere
Enrico. E quando era
stato sul punto di chiederle cosa ci facesse al baglio, in macchina,
lei doveva
aver intuito la domanda che stava per arrivare e l’aveva
elusa senza dare
nell’occhio. Era stato così abbagliato da lei da
non rendersene conto.
Abbassò
gli occhi e
inspirò profondamente. Era una sorpresa, senza dubbio, ma in
fondo cosa c’era
di strano? Cosa aveva creduto? Che Enrico e Claudia avessero congelato
le loro
vite per aspettarlo, senza neanche sapere se sarebbe mai tornato? E
aspettare
che cosa, poi? Non si vedevano da secoli, erano cambiati, e loro due
avevano
continuato a crescere insieme, mentre lui imparava a vivere senza due
pezzi di
se stesso. Si costrinse a tirare fuori un sorriso e si
schiarì la voce.
«Da
quanto tempo?»
Claudia aveva la
fronte
contratta, divisa a metà tra l’ansia e la
curiosità di scoprire come avrebbe
reagito. «Cinque anni» rispose piano, quasi con
cautela, e Stefano avvertì uno
strattone allo stomaco.
«È
una cosa seria,
allora.»
«All’inizio
no… eravamo
ragazzini. Dopo che te ne sei andato, io e lui ci siamo avvicinati
sempre di
più. A un certo punto è stato quasi
inevitabile» spiegò lei, vagamente
accigliata.
«Sei
felice?» chiese
Stefano di botto. Si rese conto che gli sarebbe bastato soltanto
quello. Lei
parve sorpresa, poi alzò appena le spalle.
«Siamo
diversi, ma
stiamo bene insieme. Forse ci completiamo. Lui è uno
tranquillo, lo sai. Io…»
«No,
tu non sei mai
stata tranquilla» la interruppe Stefano con una risata
spontanea.
Anche Claudia
rise,
muovendo la testa, e il sole colpì i suoi capelli ramati,
accendendoli di
riflessi. Per un momento Stefano si incantò a osservarli.
«Per
niente! Ti ricordi
quella volta che io e te ci siamo messi a giocare a nascondino in casa
mentre
mia nonna lavava i pavimenti?»
«Cosa
assolutamente
proibita» aggiunse Stefano con tono eloquente.
Lei
annuì, senza
smettere di sorridere. «E per dei buoni motivi! Abbiamo
rovesciato il secchio
dell’acqua nella sala da pranzo, per colpa tua che mi correvi
dietro…»
«Eri tu
che mi
correvi dietro!»
«…
e la nonna è
inciampata nel secchio che rotolava per la stanza. Siamo scappati di
corsa,
mentre lei ci urlava dietro agitando le braccia»
continuò Claudia,
ridacchiando, due fossette profonde sulle guance che incorniciavano il
sorriso
aperto.
Stefano non
riusciva a
staccare gli occhi da lei, bevendo ogni singolo istante come un
assetato nel
deserto che trova una fonte d’acqua. «Qualcosa mi
dice che sei ancora una
peste, proprio come allora» disse con tono leggero, venato di
dolcezza.
Desiderava prolungare lo scherzo, restare lì, a ridere
insieme e a ricordare il
passato, per sempre.
Lei
annuì con esagerata
gravità. «Mi hai beccata» rispose,
divertita. Inclinò la testa verso di lui e
incrociò il suo sguardo e di colpo parve imbarazzata. Un
po’ dell’entusiasmo
scivolò via dal suo viso, mentre sollevava una mano per
infilarsi una ciocca di
capelli dietro l’orecchio. Stefano seguì il
movimento con lo sguardo,
osservando la pelle delicata del suo polso, e gli balenò
nella mente il
pensiero assurdo che avrebbe voluto baciarla.
«E sei
bella come lo
eri allora» mormorò, il fantasma
dell’ultima risata che ancora gli aleggiava
sulle labbra. Sapeva che non avrebbe dovuto dirlo, ma al tempo stesso
gli
sembrava così naturale, spontaneo. Qual era la parola che
aveva usato lei,
prima? Inevitabile.
Claudia
tornò seria
pian piano mentre si guardavano. Distolse lo sguardo, liberando quello
di lui,
e studiò le pieghe della gonna sulle ginocchia. Stefano
inspirò e si allontanò
appena da lei. Sentiva che il suo corpo lo spingeva verso quello di
Claudia,
come per ricongiungersi con il pezzo mancante che le aveva lasciato.
Gli sembrò
prudente mettere un po’ di spazio tra loro.
«Scusami»
disse, serio.
Quasi nello
stesso
momento, lei scosse precipitosamente la testa. Era arrossita.
«No, non fa
niente. È tutto un po’ streusu,
vero?» Fece uscire una
risatina breve e nervosa, ma pesante.
Stefano
esitò. Seguì
con gli occhi il volo di un gabbiano che si abbassava girando intorno
alla cima
della torre, mentre lottava con se stesso per trovare le parole giuste.
«Io… ho
sempre sentito che prima o poi, in qualche modo, ci saremmo ritrovati.
E anche
se le cose sono diverse da… Anche se non mi
aspettavo…» Si interruppe, strinse
le labbra. «Sono felice» ammise alla fine, come
fosse una confessione
liberatoria. «Più felice adesso di quanto sia mai
stato negli ultimi undici
anni. Tu ed Enrico siete sempre stati tutto, per me. E ora…
ci sei tu e sei…
esattamente come ti immaginavo.»
Per qualche
secondo ci
fu silenzio, poi Claudia bisbigliò: «Anche tu sei
come ti ho sempre
immaginato.»
Stefano
sentì il
respiro di lei che gli sfiorava la guancia. Qualcosa lo spinse a
volgere gli
occhi verso di lei, come se un comando invisibile lo privasse della
forza di
volontà. Claudia lo fissava intensamente, lo sguardo carico
in ugual misura di
gioia, paura, aspettativa. Erano vicinissimi. Anche lei si era spostata
impercettibilmente verso di lui. Il tempo si fermò mentre si
guardavano negli
occhi, immobili, quasi senza respirare, nel silenzio e nella solitudine
di quel
posto che apparteneva soltanto a loro, di quel momento che era soltanto
loro.
Il viso di Claudia era sempre più vicino. Stefano riusciva a
distinguere i
tocchi di verde e oro che illuminavano il nocciola delle sue iridi e
non
riusciva a capire se era lei ad andare verso di lui o se era lui a
spostarsi
verso di lei o se si stavano muovendo insieme, senza rendersene conto.
Percepiva la realtà in modo strano, come se fosse
lontanissima da lui. Gli
sembrava di non essere più neanche lì, seduto sui
gradini di pietra della torre
saracena, ma allora dov’era? Fluttuava senza peso e
l’unica cosa che lo teneva
agganciato al mondo, che gli impediva di dissolversi e sparire, era lo
sguardo
di Claudia. I loro respiri si mescolavano. Stefano piegò la
testa, mise la mano
sul viso di lei, chiuse gli occhi, la baciò.
Dopo un istante
o forse
dopo un secolo, si staccarono appena, senza allontanarsi, il fiato
corto, le
guance arrossate, l’espressione turbata.
«Che
stiamo facendo?»
sussurrò Claudia con voce roca, come se avesse pianto.
Stefano sentiva
la
testa leggera e tutto gli girava intorno. La sensazione di andare alla
deriva,
di scivolare via, era sempre più intensa. Strinse le dita
sul viso di lei,
cercando un appiglio.
«Non
lo so. Forse… è
meglio se…»
Non aveva la
minima
idea di cosa sarebbe stato meglio, ma Claudia non lo lasciò
finire. «Sì» annuì,
una parola che era un soffio.
E poi si stavano
baciando di nuovo. Stefano non capì chi avesse preso
l’iniziativa. Non riusciva
a pensare o a ragionare. Riusciva solo a sentire il corpo di Claudia
che
fremeva, stretto contro il suo, le labbra di lei che divoravano le sue,
i
capelli di lei che gli finivano sul viso, negli occhi, dappertutto, il
suo
odore leggermente salato, il suo gemito nelle orecchie. Il tempo si
dilatò in
un momento infinito e ricominciò ad avere un senso solo
quando Claudia gli mise
all’improvviso le mani sul petto e lo spinse via.
«No,
basta. Basta»
ansimò, senza fiato.
Si guardarono,
stravolti. Lei aveva le guance arrossate, il respiro affannoso, le
labbra
gonfie, i capelli in disordine. Sul suo viso balenò un lampo
di qualcosa, forse
di panico, pensò confusamente Stefano. Prima che potesse
ragionare lucidamente
lei emise un verso soffocato e scattò in piedi, andando
verso il boschetto di
ulivi. Stefano si alzò e la seguì. Sotto gli
alberi era una bolla di ombra e di
fresco. Il sole penetrava soltanto a chiazze tra i rami frondosi.
Lì il frinire
delle cicale era così forte che quasi copriva il rumore del
mare, i loro
respiri corti e nervosi e lo scricchiolio delle foglie e dei rami
caduti sotto
i loro piedi. Sembrava un altro mondo. Stefano la afferrò
per un braccio e la
costrinse a girarsi, poi la tirò a sé con un
gesto brusco. Claudia lo lasciò
fare senza opporsi. La guardò: la sete che riempiva i suoi
occhi era il
riflesso della sua. La baciò di nuovo, mentre lei gli
afferrava il bordo della
t-shirt per sollevarla.
****
Era pomeriggio
inoltrato, ma il sole era ancora forte e luccicava imperterrito
attraverso le
fronde. L’afa sembrava salire direttamente dal terreno, senza
accennare a
diminuire. Sdraiato sulla schiena, Stefano fissava le macchie di luce
nel verde
degli alberi. Aveva un unico pensiero che gli martellava la mente.
Prendi sempre
quello
che non è tuo.
Gli sembrava di
poter
impazzire da un momento all’altro.
Non poteva
incontrare
Enrico, come gli aveva promesso. Non avrebbe potuto guardarlo negli
occhi. Non
dopo quello. Non dopo quel giorno, forse mai più in questa
vita. Lui ne sarebbe
rimasto molto deluso, lo sapeva. Lo conosceva troppo bene. A meno che
non fosse
totalmente cambiato, e non gli era sembrato così, non lo
avrebbe dato a vedere.
Avrebbe nascosto la ferita dentro di sé, nel profondo, ma
chi lo conosceva
davvero lo avrebbe capito. Stefano lo avrebbe capito. Gli era successo
un’infinità di volte, quando erano bambini:
Edoardo era spesso duro con Enrico
e lui si chiudeva in se stesso per ore, a volte per giorni, prima di
ritrovare
il sorriso.
Sdraiata accanto
a lui,
Claudia si mosse improvvisamente e si alzò con un movimento
nervoso.
«Dobbiamo
andare» disse
in tono secco, la voce roca. Cominciò a sistemarsi la gonna
di jeans,
spiegazzata e macchiata di terriccio, e ad abbottonarsi la camicetta
rossa. I
capelli le ricadevano ai lati del viso come una cortina, nascondendo la
sua
espressione.
Stefano si
tirò su a
sedere. Sì, dovevano andare via. Non c’era niente
da fare, niente da dire. Claudia
doveva tornare da Enrico ed era l’unica cosa che sembrava
avere un senso, in
quel momento. Tutto doveva rientrare nei ranghi, come prima di quel
pomeriggio
assurdo, come se lui non fosse mai tornato sull’isola. Non
era il suo posto.
Era giusto così. Si alzò, recuperò la
t-shirt che era finita sulle grosse
radici nodose di un albero lì accanto, la scosse per
renderla più presentabile
e se la infilò.
«Mi
accompagni al
porto, per favore?»
Claudia stava
lottando
con i bottoncini della camicia, le mani che le tremavano visibilmente.
Sollevò
la testa di scatto e gli piantò gli occhi addosso con una
domanda muta.
Appariva spaventata e Stefano la capiva, perché aveva un
po’ di paura anche
lui. E se avessero perso di nuovo il controllo? Non poteva succedere di
nuovo,
non doveva succedere di nuovo. Doveva andare via, subito. Stefano si
schiarì la
voce e si passò una mano tra i capelli in disordine,
sperando di darsi una
sistemata.
«Non
posso restare»
aggiunse. «Non posso vederlo. Non ce la faccio.»
Era un codardo,
come
sempre quando si trattava del passato, ma non poteva fare altrimenti.
Lei lo
fissò ancora per un po’, senza dire nulla,
mordendosi il labbro superiore con
aria indecisa. Per un attimo Stefano pensò che avrebbe
cercato di convincerlo a
incontrare comunque suo fratello, ma poi lei sembrò prendere
una decisione.
Inspirò e annuì.
Non scambiarono
neanche
una parola per tutto il viaggio in auto e quando Claudia si
fermò nel
parcheggio del porto lui si trattenne a stento dal tirare un respiro di
sollievo. La fuga era lì, a portata di mano, come sempre. La
sua migliore
amica, la sua eterna compagna. Il mare sembrava attenderlo, pronto a
mettersi
ancora una volta tra lui, l’isola e quell’errore
spaventoso che gli gelava il
sangue nelle vene. Eppure i ricordi dei momenti nel boschetto, stretto
a
Claudia, non smettevano di riempirgli la mente. Afferrò la
sua borsa, che
fortunatamente aveva lasciato nella macchina di Nino quando era
arrivato al
baglio. Poi si bloccò. Adesso cosa avrebbe mai potuto dirle?
«Non
è presto?» chiese
Claudia, battendolo sul tempo. Lo guardò. «Il tuo
traghetto è alle sette, no?»
«Cambio
il biglietto.
Prendo il primo che c’è.»
Lei lo
fissò in
silenzio per qualche secondo, poi tornò a guardare fuori dal
parabrezza. Aveva
gli occhi rossi e lucidi e il labbro inferiore le tremava. Le succedeva
sempre
quando stava per piangere, da bambina, ed era ancora così.
Stefano non ce
la
faceva più. Aprì la portiera bruscamente.
«Ciao, Claudia» disse in fretta,
allontanando con tutte le sue forze il pensiero che poteva essere
l’ultima
volta che la vedeva, e richiuse la portiera prima che lei potesse
rispondere.
Qualcosa gli diceva che non sarebbe arrivata nessuna risposta, neanche
se fosse
rimasto lì ad aspettare per sempre.
Riuscì
per un pelo a
prendere il primo traghetto in partenza. Fece tutto in fretta, a testa
bassa,
gli occhiali da sole ben calati sul viso, e solo quando si
ritrovò sul ponte
del traghetto che iniziava a muoversi lentamente si accorse che fino ad
allora
aveva trattenuto il fiato. Credeva che si sarebbe sentito meglio non
appena
avesse preso ad allontanarsi, ma un peso gli gravava lo stomaco. Aveva
la
nausea, si sentiva soffocare. La verità era che il mare non
era mai stato
davvero una barriera. Si portava tutto dentro, ogni volta.
Avrebbe
voluto girare
le spalle a Santo Stefano, a Claudia, Enrico, Edoardo, ma anche
stavolta, come
undici anni prima, ne fu incapace e rimase in piedi, le mani serrate
intorno al
parapetto di ferro arrugginito e scivoloso, a guardare
l’isola allontanarsi,
diventare sempre più piccola e sfocata, una sagoma incerta
nell’azzurro intenso
del cielo estivo. Infine sparì.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Capitolo 12. Quannu la vita mia finisci e mori ***
CAPITOLO 12
Quannu
la vita mia finisci e mori
Sicilia, Isola
di Santo Stefano
Agosto 1999
Claudia
rallentò fin
quasi a guidare a passo d’uomo la vecchia Ford rossa di Nino
e varcò il
cancello di ferro battuto del baglio. Era pomeriggio inoltrato e il
caldo
accumulatosi nel corso dell’intera giornata sembrava
addensare l’aria. Quanto
tempo erano stati via esattamente lei e Stefano? Non ne aveva la minima
idea.
Aveva perso del tutto il senso del tempo. Ora le sembrava di muoversi
in un
sogno, la vista le si appannava e tutti i suoi movimenti erano
rallentati. Non
era più se stessa. Cosa era diventata?
Parcheggiò
la macchina
sotto la tettoia incandescente per il sole e scese lentamente,
combattendo un
improvviso capogiro. Prese un respiro profondo e l’aria calda
le riempì i
polmoni mentre si guardava intorno. Il cortile era deserto, a eccezione
della
cuoca, Anna Maria, seduta su uno sgabello appena fuori la porta ad arco
della
cucina. Pelava un mucchio di patate e intanto cantava a mezza voce.
Claudia
riconobbe le parole: era una vecchia canzone d’amore in
siciliano. Sua nonna
gliela cantava spesso, quando era bambina.
Mi votu e mi
rivotu
suspirannu
passu li
‘nteri
notti senza sonnu
e li biddizzi
tòi
vaiu cuntimplannu
li passu di la
notti
finu a ghiornu.
Pi tia non pozzu
n’ura arripusari
paci nun havi
chiù
s’afflittu cori.
Lu vo’
sapiri quannu
t’aju a lassari?
Quannu la vita
mia
finisci e mori.
Un brivido le
percorse
la schiena sudata. Anna Maria l’aveva vista e alzò
un braccio per salutarla da
lontano. Claudia rispose con un cenno debole della mano, cercando di
sorridere,
ma le venne fuori una specie di smorfia.
«Claudia!»
Si
voltò di scatto.
Enrico stava scendendo a passo svelto la scala del ballatoio con un
sorriso
ampio. Lei provò l’assurda tentazione di scappare,
ma fu solo per un attimo.
Recuperò il controllo, rimase dov’era e si
costrinse a trasformare la smorfia
in un sorriso più o meno accettabile. Non era affatto sicura
di aver avuto
successo, ma subito dopo il ragazzo le era accanto e le stringeva la
vita con
un braccio.
«Ti
stavo cercando,
dov’eri andata a finire?»
Le
stampò un bacio
delicato, a fior di labbra, sulla bocca. Claudia fece per tirarsi
indietro
istintivamente, ma ancora una volta riuscì a controllarsi e
bloccò il movimento
appena in tempo, evitando un gesto che sarebbe stato difficile da
spiegare. Un
fiotto di ansia le invase lo stomaco e quasi non sentì il
bacio di Enrico. Cosa
diamine le succedeva? Perché faceva così?
Perché era tutto sbagliato. Trasalì.
Aveva baciato Stefano, si era stretta a lui nell’erba alta
che le pungeva la
pelle, aveva sentito il sapore della sua pelle quando gli aveva baciato
una
spalla, lo aveva lasciato entrare di sé e adesso era
lì, con il braccio di
Enrico che le cingeva la vita e la bocca che premeva gentile sulla sua.
Sbagliato… Non
sarebbe mai riuscita a
cancellare quelle immagini dalla sua testa? Lì accanto Anna
Maria continuava a
cantare a bassa voce e a Claudia parve che le rispondesse. Quannu
la vita
mia finisci e mori… Fece un respiro e si
scostò di qualche centimetro
appena.
«Sono
andata a fare un
giro.»
Enrico non parve
troppo
interessato. Era evidente che aveva qualcosa da dirle.
«Hai
saputo? Stefano arrivò.
L’hai visto?»
Claudia non
seppe mai
come fosse riuscita a mantenere un’espressione accettabile in
quel momento. Era
assurdamente certa che tutto quello che era successo fosse scritto sul
suo viso
e che Enrico avrebbe scoperto la verità. Lo
fissò, spaventata, ma lui sembrava
tranquillo. La guardava con le sopracciglia un po’
aggrottate, forse perché lei
non rispondeva. Claudia deglutì, lottando contro la gola
secca e arida per dire
qualcosa.
«No…
Cioè, sì, l’ho
visto» disse con un filo di voce.
«Avete
parlato?»
Claudia
alzò le spalle.
Il panico stava diventando così forte che quasi le toglieva
la sensibilità e
non percepiva più la stretta del suo fidanzato intorno al
corpo. «Qualche
parola… Ci siamo salutati e basta. Andava di fretta, non
aveva molto tempo.»
«Davvero?»
Lei
annuì in fretta.
«Mi ha detto… doveva prendere il
traghetto.»
Un’espressione
di
assoluta sorpresa comparve sul volto di Enrico, sempre un po’
pallido, anche in
piena estate. La sua era una di quelle carnagioni delicate che non si
abbronzano mai e sotto il sole rischiano solo una scottatura. La
osservò come
se non riuscisse a capire. «È andato
via?»
Claudia strinse
le dita
di una mano a pugno, l’altra poggiata con delicatezza sul
braccio di Enrico.
«Penso di sì.»
Il disagio era
una
presenza viva e pulsante che le si attorcigliava su per la schiena e le
bloccava le braccia e le gambe. Se anche avesse voluto scappare via,
non ci
sarebbe riuscita. Stefano ed Enrico non si sarebbero rivisti, quel
giorno, per
colpa sua. Era una coltellata allo stomaco.
«Strano»
mormorò
Enrico. Abbassò gli occhi sulle pietruzze bianche e grigie
del cortile, la
fronte contratta. L’azzurro luminoso dei suoi occhi sembrava
essersi incupito.
«Dovevamo parlare. Ci siamo incontrati, stamattina, me lo ha
chiesto lui.»
Claudia sentiva
il
coltello rigirarsi nella pancia. La colpì
un’ondata di nausea mista a senso di
colpa e il bisogno quasi fisico di allontanarsi da lì, di
mettere spazio tra sé
ed Enrico, diventò impellente, simile a una
necessità vitale.
«Non
lo so, Enrico…
Forse ci ha ripensato.» Bugiarda. La
parola quasi le affiorò alle labbra
insieme alla nausea. Inghiottì e le rimandò
giù entrambe. «Mi dispiace»
aggiunse, la voce bassissima.
Enrico
raddrizzò la
testa. La sua espressione si era indurita, ma quando parlò
il suo tono era
neutro, indifferente. «Non fa niente. Probabilmente non ne
aveva voglia.»
Tacque per qualche secondo, mentre le accarezzava la schiena con la
mano, e a
Claudia parve che la sua delusione si comunicasse a lei attraverso quel
tocco
leggero. Il comportamento del fratello lo aveva ferito e lei lo
conosceva
troppo bene per non capirlo. «Allora… dove andiamo
a cena, stasera?» chiese lui
all’improvviso, cambiando bruscamente argomento. Lo faceva
sempre quando stava
male per qualcosa. «Non abbiamo ancora deciso»
disse e la guardò con un sorriso
incerto, ma dolce.
Claudia
sussultò. La
cena… Ne avevano parlato quella mattina, lei era andata al
baglio proprio per
quello, ma poi lo aveva completamente dimenticato. Strinse i denti e
provò a
immaginare di uscire con Enrico, passare tutta la sera con lui,
sedergli di fronte
al ristorante e mandare giù del cibo e sorridere davanti ai
suoi occhi
trasparenti come l’acqua di una piscina. Sentì che
le si rivoltavano le
viscere. No, non poteva farcela. Strinse il braccio di Enrico.
«Scusa,
ma… preferirei
lasciar perdere, oggi. Non mi sento bene.»
Lui la
scrutò con più
attenzione, aumentando la pressione della mano sulla schiena di lei.
«Che c’è?
Sembri nervosa.»
«Niente
di particolare.
Non lo so… Stanca sono. Solo questo. In settimana ho avuto
un sacco di lavoro.»
Enrico
annuì
lentamente. Una linea di preoccupazione gli solcava la fronte chiara.
«Ok,
allora posso venire da te e ce ne stiamo tranquilli. Guardiamo un film,
magari.»
Mentre parlava,
la
avvicinò a sé ancora di più e
accostò il viso al collo di lei. Posò le labbra
che sorridevano tra il mento e la gola, rafforzò la presa
intorno alla sua
vita. Claudia sentiva il suo desiderio che le scivolava sulla pelle.
Chiuse gli
occhi. Quando erano ragazzini e avevano appena iniziato a uscire
insieme,
usavano sempre la scusa di un film quando volevano vedersi per fare
sesso ed
era certa che lui non avesse usato a caso quella frase. Le sembrava di
soffocare. Sarebbe stato così da allora in poi? Come avrebbe
potuto
sopportarlo? Chiuse gli occhi.
«È
meglio che me ne
stia da sola. Mi devo allupiari
un po’» balbettò. Mise una
mano sulle spalle di Enrico, forti e ben definite per le nuotate che
faceva da
maggio a ottobre. Sembrava che cercasse di avvicinarlo a sé,
in realtà voleva
essere pronta a tirarsi indietro se fosse stato necessario. Non poteva
superare
un certo confine, non quel giorno, non di nuovo, non con lui. Non
poteva fargli
questo.
Lui iniziava a
percepire la sua tensione, ma forse la attribuì
semplicemente alla stanchezza o
a un lieve malessere, perché il suo sorriso contro il collo
di lei si allargò,
suscitandole un brivido. «Va bene, allora…
lasciamo stare le attività
stancanti. Solo per oggi» mormorò con voce roca.
Claudia si
irrigidì.
«Davvero, ho bisogno soltanto di una doccia rilassante e
andare a letto presto.
Recuperiamo la cena nei prossimi giorni. Te lo prometto»
disse, annaspando un
poco, e gli strinse la spalla.
Cercava di
rassicurare
lui e se stessa, ma sapeva di non essere altro che una bugiarda. Non
aveva la
più pallida idea di cosa sarebbe successo nei giorni
seguenti, ma doveva
assolutamente tranquillizzare Enrico. La cosa più
importante, in quel momento,
era che lui non sapesse di Stefano. Il pensiero di quanto si sarebbe
sentito
tradito, non solo dalla sua ragazza, ma anche dal fratellastro, le
rivoltava lo
stomaco più di tutto il resto.
Enrico si
ritrasse lentamente,
controvoglia, e annuì con un sospiro lieve. «Come
vuoi. Ti accompagno a casa.
Vado a prendere le chiavi della macchina.»
La
baciò rapidamente
sull’angolo della bocca e si allontanò.
****
Enrico
entrò in casa,
trovandola piacevolmente fresca e ombrosa dopo il sole abbagliante e il
caldo
opprimente del cortile. Andò a passo svelto nella sua
stanza, al secondo piano,
e prese le chiavi dalla scrivania, di fronte al balconcino aperto da
cui entrava
una brezza lenta e bollente. Faceva pensare al respiro di una fornace.
Al piano
di sotto, in salotto, trovò suo padre, in piedi accanto alla
portafinestra. Era
quasi avvolto nelle lunghe tende bianche che oscillavano pigre, come in
un
bozzolo. Era immobile e fissava intensamente qualcosa fuori, nel
cortile.
Enrico si avvicinò.
«Accompagno
Claudia a
casa» lo informò, mentre gli passava accanto in
fretta.
«Non
dovevate andare a
cena fuori?»
Le parole di
Edoardo
sembravano buttate lì, quasi con noncuranza, ma Enrico si
fermò prima di uscire
sulla terrazza. Guardò suo padre.
«Non
si sente molto
bene» rispose, con tono secco e neutro.
«Abbèru?»
commentò Edoardo, ironico.
Enrico iniziava
a
sentire la familiare sensazione di gelo che lo avvolgeva spesso quando
era in
presenza del padre. Strinse i denti, ma si sforzò di non far
trapelare troppo
il suo disagio.
«Cosa
c’è?»
Edoardo non
rispose
subito. Rimase in silenzio per qualche istante, continuando a guardare
fuori
con aria indecifrabile. Perplesso, Enrico seguì la direzione
del suo sguardo e
si ritrovò a fissare Claudia: era appoggiata alla Ford di
Nino, le braccia abbandonate
lungo i fianchi e un’espressione assente che lo
sconcertò. A cosa stava
pensando?
«Stefano
se ne andò»
aggiunse improvvisamente Edoardo, come se la risposta alla precedente
domanda
del figlio fosse quella.
Lui
tornò a guardare
suo padre, senza capire. «Lo so» disse, poi ebbe un
attimo di esitazione.
Trovava difficile dare voce alle sue sensazioni con Edoardo,
perché si
aspettava sempre che fossero svalutate o ridicolizzate.
«Ma… non so perché.
Avremmo dovuto parlare prima che prendesse il traghetto»
aggiunse, quasi senza
accorgersene, e subito dopo ne era già pentito. Non sapeva
se a suo padre
facesse piacere o meno che lui parlasse con Stefano, ma sospettava di
no.
Edoardo non
rispose
immediatamente neanche stavolta e si limitò ad assorbire la
notizia in
silenzio. O almeno così parve. Poi parlò di
nuovo. «Puoi chiederlo a Claudia, ‘u
pirchì.
Sono andati via insieme, un paio d’ore fa» disse
con tono tranquillo. Enrico
sentì uno strattone allo stomaco, come se avesse mancato un
gradino mentre
scendeva le scale. «Li ho visti da qui. Hanno preso la
macchina di Nino.» Fece
una breve pausa. «Forse è con lei che voleva
parlare.»
Enrico aveva
l’impressione che il suo cuore non battesse più.
Guardò di nuovo Claudia, come
se in quel modo potesse trovare una conferma o una negazione alle
parole del
padre. Stefano non aveva mantenuto la sua promessa. Non lo aveva
cercato, non
voleva parlargli. Aveva cercato Claudia, la sua Claudia. Erano stati
insieme. E
lei non gli aveva detto niente. Gli aveva mentito. Perché
gli aveva mentito?
Calmati,
pensò, con un sussulto. Non era
solo. Non poteva mostrare a suo padre quanto fosse confuso e ferito.
Non
abbassare mai le difese insieme a lui era la regola che gli permetteva
di
sopravvivere. Mantenne il viso impassibile, ma quando spostò
di nuovo lo
sguardo su Edoardo, l’espressione di suo padre, a
metà tra l’ironia e il
compatimento, gli disse che lui aveva capito. Allora gli
sembrò di odiarlo. Che
stupido era stato a fidarsi di Stefano. Serrò le mani a
pugno, voltò le spalle
a Edoardo e uscì a passo deciso, senza parlare. Non
c’era altro da dire.
****
Sicilia,
Isola di Santo Stefano
Ottobre
1999
«Sono
tornata!»
Claudia
trasalì quando
sentì la porta di casa che si apriva e distolse lo sguardo
assente dai libri
aperti davanti a sé, sul tavolo della cucina-soggiorno. Rosa
entrò trasportando
due buste della spesa, con le guance arrossate e il respiro affannato.
«Ciao»
disse.
Si
spaventò lei stessa
nel sentire quanto suonasse spenta la sua voce. Si schiarì
la gola
precipitosamente, sperando di non farsi notare, ma Rosa era ancora
troppo
trafelata per badare a qualsiasi cosa. Lasciò cadere le
buste sul pavimento e
la fissò.
«Ricordami
perché
cavolo abbiamo preso in affitto un appartamento al terzo piano senza
ascensore»
disse, esausta, la voce affaticata.
Claudia
inarcò le
sopracciglia. «Perché costava poco.»
Rosa la
fissò ancora
per un attimo, mentre nei suoi occhi balenava un lampo di
consapevolezza che
mise Claudia a disagio. Poi sbuffò e annuì.
«Ah, già.» Si sfilò piano il
giubbotto di jeans, mentre il respiro tornava alla
normalità. «Dopo il turno
sono passata al supermercato e ho preso l’occorrente per fare
la pizza. Perciò
ho fatto tardi. La facciamo in casa, che dici? Stamattina sentivo due
colleghe
che ne parlavano, in reparto, e mi è venuta
voglia.»
«Sì,
ok» assentì
Claudia, sforzandosi di sembrare allegra e tranquilla.
Afferrò la matita che
aveva lasciato scivolare giù dal libro, pensierosa, e
iniziò a giocherellarci.
Rosa
sbuffò. «Che
entusiasmo, Claudia. Datti una calmata…»
esclamò, ironica, da sopra la spalla,
mentre si lavava le mani nel lavandino della cucina.
Claudia
sgranò gli
occhi, stupita. Eppure credeva di aver avuto un tono abbastanza
normale, questa
volta. Il problema era Rosa, che la conosceva troppo bene ed era troppo
perspicace per farsi ingannare così facilmente. Si
raddrizzò sulla sedia e
scrollò la testa, come cercando di scuotersi.
«Scusami.
Non sono
dell’umore adatto per pensare alla pizza.»
«Lo
so» rispose Rosa
semplicemente e Claudia la guardò, sorpresa. Si era
aspettata un altro
rimbrotto ironico, perché di solito era così che
l’amica gestiva le cose. Rosa
si appoggiò al tavolo, di fronte a lei, e la
studiò con aria seria. «Lo vedo
che sei triste, ultimamente. Qualcosa non va. È
così da almeno un mese. Vorrei
aiutarti, ma non so come fare se non mi dici niente. È per
Enrico? Non mi hai
raccontato nemmeno cos’è successo con
lui.»
Claudia
abbassò gli
occhi e fissò la pagina del libro senza leggere nemmeno una
parola. Era tutto
il pomeriggio che cercava di preparare l’esame di critica
d’arte contemporanea,
ma era come leggere una lingua straniera e sconosciuta. Non riusciva a
concentrarsi e per capire una frase doveva leggerla tre volte. Di
questo passo
sarebbe stata miseramente bocciata. Anzi, era meglio non presentarsi
all’esame.
Restò in silenzio e Rosa aspettò per un
po’. Quando fu chiaro che non era in
arrivo nessuna spiegazione, Rosa emise un sospiro.
«Non
devi parlare per
forza, se non ti va, però… non pensi che sfogarti
ti farebbe bene?»
Claudia non
parlò,
ancora. Un nodo le ostruiva la gola e lasciò che il silenzio
riempisse lo
spazio tra loro come qualcosa di vivo e tangibile. Non riusciva a
guardare la
sua amica e intanto stringeva fortissimo la matita nella mano,
tormentata
dall’incertezza. Il problema non era nascondere le sue paure
a Rosa, aveva
sempre parlato di tutto con lei, ma se avesse dato voce a
ciò che la tormentava
lo avrebbe reso reale e questo la spaventava troppo. Non sapeva se
avrebbe
avuto la forza di affrontarlo. Fino a quando restava confinato dentro
di lei,
un pensiero martellante che le girava e rigirava nella testa in ogni
momento
della giornata, poteva sempre illudersi che il problema non esistesse.
Se
avesse parlato, sarebbe cambiato tutto. Eppure, sapeva anche che non
poteva
continuare così ancora per molto. Allora che cosa doveva
fare? Cosa?
Rosa si mosse.
«Ho
capito» mormorò con tono rassegnato. Claudia
avvertì che non era arrabbiata
oppure offesa, ma solo dispiaciuta per lei. All’improvviso
qualcosa scattò
dentro di lei.
«No,
Rosa, aspetta»
esclamò, angosciata. Si morse il labbro ricambiando lo
sguardo confuso della
sua amica. «Non è per te… Vorrei dirti
tutto, ma non riesco a… Ho paura che…
Non ho il coraggio» balbettò alla fine, alzando
appena le spalle come per
scusarsi.
Rosa sembrava
sinceramente sorpresa dalla sua agitazione. Scostò una sedia
dal tavolo con un
gesto energico e sedette accanto a lei, guardandola dritto in faccia
con
espressione franca. «Lo sai che mi puoi dire tutto. Prometto
che non
giudicherò. Tu non mi hai giudicato quando mi sono fatta
quel taglio di capelli
orrendo, l’anno scorso» aggiunse con voce un
po’ più leggera e un piccolo
sorriso.
Suo malgrado,
Claudia
lo ricambiò. Era tipico di Rosa sdrammatizzare e scherzare
su tutto. «È una
cosa grossa. Enorme» mormorò cercando
disperatamente le parole giuste. «Non so
nemmeno io come ho fatto a trovarmi in questa situazione.» Si
interruppe, la
voce troncata da un’ondata di panico che la travolse
all’improvviso. Poi guardò
Rosa, la sua espressione attenta e affettuosa, e di colpo
lasciò uscire fuori
quello che la tormentava. «Penso di essere
incinta.» Rosa restò immobile e
zitta. Solo un leggero contrarsi delle sopracciglia indicò
la sua sorpresa.
Forse non si aspettava una cosa del genere. In ogni caso, non disse
nulla e le
lasciò il tempo di cui Claudia aveva bisogno. Lei continuava
a tormentare la
matita con le mani. Prima o poi l’avrebbe spezzata.
Abbassò lo sguardo. «Ho un
ritardo di dieci giorni. E di solito sono regolare.»
Rosa
annuì con un gesto
lento e calmo. Inspirò profondamente. «Ecco
perché sembrava che avessi sempre
la testa su un altro pianeta» commentò sottovoce,
rivolta più a se stessa che a
Claudia. Si passò una mano tra i capelli, come per
sistemarli o forse per
tentare di schiarirsi le idee. Poi lanciò
un’occhiata veloce e indagatrice
verso l’amica. «Enrico lo sa?»
Claudia
sentì un colpo
alla pancia e si chiese ansiosamente se potesse essere un sintomo di
gravidanza. Scosse la testa. «No.»
«Be’,
per prima cosa
devi fare il test.» Mentre parlava, Rosa si mise a sedere
più dritta. Aveva
l’espressione risoluta che le veniva quando prendeva in mano
una situazione. «E
poi, se sei davvero incinta… Io penso che dovresti
dirglielo. So che vi siete
presi una pausa di riflessione, ma ha il diritto di saperlo.»
Claudia scuoteva
di
nuovo la testa. «Non è per questo»
sussurrò con voce soffocata. Sentiva che le
stava venendo da piangere e che la voce le si piegava sotto il peso
delle
parole che stava per pronunciare. «È
che… non so di chi è.» Si
portò una mano
alla bocca, come per fermarle, ma ormai era troppo tardi.
Questa volta
Rosa non
riuscì a nascondere lo stupore e spalancò gli
occhi di un verde intenso. Lei
diceva sempre che erano l’unica cosa bella che avesse e
puntualmente Claudia
protestava con forza.
«Cosa…»
mormorò. Si
interruppe e la fissò in silenzio, cercando di metabolizzare
la notizia, forse
per evitare di dire qualcosa di inappropriato. Quello proprio non se lo
aspettava e lo aveva scritto in faccia. «Chi è? Lo
conosco?» chiese di getto.
Subito dopo si tirò indietro sulla sedia e distolse lo
sguardo. «No, scusa, non
devi dirmelo per forza. Lascia perdere.»
«È
Stefano Ruggero»
rispose Claudia tutto d’un fiato, prima ancora che la sua
amica avesse finito
di parlare, ed ebbe la sensazione che una pietra le scivolasse via dal
petto.
Prese aria. Era sorpresa dallo scoprire che parlandone ad alta voce non
stava
affatto peggio, come aveva temuto, anzi: forse soltanto adesso avrebbe
potuto
iniziare a risolvere il problema.
Rosa ci mise
qualche
istante ad afferrare. «Il fratellastro di Enrico?»
domandò, incredula. Aveva
un’espressione così buffa che Claudia
faticò a reprimere una risata isterica.
Annuì. Rosa la fissò a bocca aperta ancora per un
po’, poi si lasciò andare contro
lo schienale della sedia, guardandosi intorno come per cercare una
spiegazione.
«Minchia, Claudia…»
«Lo
so, hai ragione»
sussurrò Claudia. Le guance le si bagnarono di lacrime che
non poteva più
trattenere e le sfuggì un singhiozzo. «Sono una
persona orribile.»
«No,
non è vero»
esclamò Rosa con forza, scattando di nuovo in avanti.
«È un casino, questo sì,
ma… capita a tutti di fare casini.» Le prese la
mano, fissandola intensamente,
e la strinse forte. «Quando è successo?»
Claudia si
asciugò le
guance e prese aria. «Ad agosto. Quando Stefano è
venuto per vedere Edoardo
prima che si operasse, ti ricordi?»
Rosa
assentì,
pensierosa, e Claudia non aggiunse altro. Non era necessario. Rimasero
in
silenzio per un po’, ascoltando il ticchettio
dell’orologio a parete e il
ronzio del vecchio frigorifero che si rompeva una volta al mese. Lo
chiamavano
“l’appuntamento”.
«Enrico
lo sa?» chiese
Rosa all’improvviso. «Perciò vi siete
presi questa pausa che non finisce più?»
«Non
lo so» mormorò
Claudia stancamente, passandosi una mano sulla fronte. Le sembrava
più calda
del solito. Poteva essere un sintomo di gravidanza anche quello? O era
solo
perché aveva pianto? L’angoscia le
strizzò lo stomaco. Stava impazzendo. Tirò
su col naso e si sforzò di parlare con chiarezza.
«Io non gliel’ho detto e non
so come avrebbe potuto scoprirlo. Non credo che lo sappia.
Però… dopo che è successo…
non è più stata la stessa cosa. Non riuscivo a
guardarlo in faccia, figurati
andare a letto con lui.» Rosa annuì, comprensiva.
«Ci siamo spartiti
sempre di più. Lui ha
capito che c’è qualcosa che non va, ma
forse… non lo so, magari pensa che sia
solo una fase. Stiamo insieme da sei anni ed è la prima
volta che ci
allontaniamo così» concluse con tono abbattuto.
«Ma in
questo periodo
vi state sentendo, no? A volte parlate al telefono.»
«Sì,
ma come se fossimo
amici, niente di più.» Claudia tacque e
fissò a lungo il ripiano del tavolo.
«Non so che devo fare, Rosa.»
Rosa non le
aveva mai
lasciato la mano. Adesso la strinse ancora più forte,
sporgendosi verso la sua
amica con un’espressione seria. «Sì che
lo sai: il test. Magari non sei incinta
ed è solo lo stress che ti ha fatto saltare il
ciclo.» Le diede un’ultima
stretta alla mano, poi si alzò e prese il giubbotto che
aveva lasciato su
un’altra sedia. «Vado a prenderlo subito. Ti devi
togliere questo pensiero.»
Per un momento
Claudia
pensò di fermarla, di ribattere che non se la sentiva, che
aveva il terrore di
affrontare la verità. E aveva paura sul serio, ma al tempo
stesso, stranamente,
si sentiva più leggera ed era quasi sollevata che qualcuno
prendesse quella
decisione per lei, che la spingesse sulla strada giusta. Era esausta,
come se
avesse corso per tutta l’isola. Guardò verso il
soffitto e si asciugò gli
occhi.
«Hai
una vaga idea di
quante chiacchiere faranno in paese quando ti vedranno andare in
farmacia a
comprare un test di gravidanza? Sconvolgerai tutta
Portosalvo.»
Rosa aveva
appena
indossato la giacca. Afferrò le chiavi dal mobile accanto
alla porta
d’ingresso, si girò a metà e
lanciò un’occhiata divertita in direzione
dell’amica. «Non potevi darmi una notizia
migliore.»
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Capitolo 13. Il richiamo ***
CAPITOLO 13
IL RICHIAMO
Sicilia,
Isola di Santo Stefano
Ottobre
1999
Mezz’ora
dopo, tre test
di gravidanza giacevano allineati sul tappeto liso davanti al divanetto
rosso
che separava la zona cucina dalla zona soggiorno. Claudia era seduta a
gambe
incrociate sul tappeto e li fissava tenendosi la testa tra le mani.
«A
quanto pare non era
lo stress» osservò Rosa a bassa voce dal divano,
rompendo il silenzio di tomba
che regnava ormai da parecchi minuti.
Claudia
pensò che forse
non era più riuscita a sopportarlo, proprio come lei. Non
rispose subito. Le
sembrava che la testa si fosse completamente svuotata. Sapeva che il
risultato
sarebbe stato quello, se lo sentiva dal primo giorno in cui aveva
iniziato a
sospettare. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma invece di
una risposta le
affiorò spontanea alle labbra una domanda.
«E
adesso che faccio?»
chiese con un filo di voce. Anche se non era stata un’enorme
sorpresa, anche se
dentro di sé aveva sempre sentito di aspettare un bambino,
avere la risposta lì
davanti, chiara e netta, inconfutabile, era comunque uno shock. Si
sentiva
paralizzata, come se si fosse tuffata di botto nell’acqua
gelida del mare in
pieno inverno.
Rosa fece un
respiro
pesante e rifletté per un momento. «Devi decidere
tu, Claudia. Ti posso dire
solo una cosa, questo sì: devi riflettere molto bene su
quello che fai, perché
se decidi di tenerlo, questa storia non riguarda più solo te
ed Enrico. E
Stefano» aggiunse poi, ripensandosi. Claudia emise un gemito
e lasciò sprofondare
il viso tra le mani.
L’enormità
di
quell’affermazione colpì Claudia come uno
schiaffo. Era sul punto di rimettere
quel poco che aveva mangiato a pranzo ed era abbastanza sicura che non
fosse
colpa della gravidanza.
«Ho
vent’anni» si
lasciò sfuggire, angosciata, la voce soffocata dalle mani
premute contro il
viso. Non aveva il coraggio di abbassarle. «Come cazzo
faccio? Maledizione!»
Per un attimo che durò un’eternità le
parve di annegare nella disperazione.
Rosa non
trovò nulla da
ribattere e lasciò che tornasse il silenzio per qualche
istante. Claudia si
disse che probabilmente stava cercando di immaginare di trovarsi nella
sua
situazione, incinta a vent’anni, da sola, senza un lavoro
fisso, senza aver terminato
gli studi, senza certezze, senza sapere nemmeno chi fosse il padre.
«Non
hai proprio idea
di chi possa essere?» azzardò Rosa, dopo un
po’ di tempo, come se le avesse
letto nel pensiero.
Claudia
alzò le spalle,
togliendo bruscamente le mani dal viso. Si ritrovò a
guardare di nuovo i test
di gravidanza, di nuovo quella risposta spaventosa che sembrava
gridarle in
faccia quanto era stata stupida e imprudente e fu tentata di coprirsi
nuovamente
gli occhi. Invece li spostò sulla parete di un bianco
sporco. «È difficile
dirlo. Sono stata insieme a Enrico fino al giorno prima che io e
Stefano…» Non
proseguì. Si morse il labbro con forza, riflettendo, quasi
assaporando il
dolore che sentiva di meritare. «Forse… Secondo me
è più probabile che sia di
Stefano. Perché io ed Enrico siamo sempre stati attenti,
abbiamo sempre preso
precauzioni. Non mi spiego come sia potuto succedere. Con Stefano non
sono
stata attenta. Non avevo il controllo, in quel momento.»
Sbuffò, asciugandosi
gli occhi ancora umidi e tirando su col naso. «Sono stata una
cretina. Sono una
brutta persona e sono una cretina.»
Rosa la
guardò male.
«Basta, Claudia. Non serve a niente insultarti da
sola.» Fece una piccola
pausa, mentre giocherellava con il bordo sfilacciato della tappezzeria
del
divano. «Non è una garanzia. Voglio dire, il fatto
che tu ed Enrico abbiate
sempre preso precauzioni. Può capitare un errore, una
distrazione, un
incidente» continuò, con tono professionale da
infermiera.
Claudia
sollevò le
sopracciglia. «E non ce ne siamo accorti?»
«Non
è impossibile.
Sono cose che capitano. O pensi che tutte le gravidanze siano sempre
programmate?» Claudia la fissò ancora per un
attimo, ma non poteva darle torto.
Distolse lo sguardo, pensierosa, il cuore che le sprofondava sempre
più sotto
le scarpe. Non aveva idea di cosa fosse meglio, di cose dovesse
augurarsi. Non
riusciva neanche a riflettere con lucidità.
«Magari… è più probabile che
sia di
Stefano, dal momento che con lui sicuramente non
sei stata attenta, ma
non puoi escludere che sia di Enrico» continuò
Rosa. Claudia sospirò. Sapeva
che la sua amica stava dicendo la verità. Era la semplice
voce del buonsenso.
Eppure non era convinta. Quella era la conseguenza della follia fatta
con
Stefano, ne era sicura, anche se non avrebbe saputo spiegare cosa la
spingesse
a pensarla così. «Queste sono solo chiacchiere,
comunque. Niente di scientifico
e affidabile» sentenziò Rosa in tono pratico.
«Se vuoi avere la certezza, devi
dirlo almeno a uno dei due e fare un test di
paternità.»
Claudia chiuse
un
attimo gli occhi, cercando riparo nel buio fresco e riposante dietro le
palpebre abbassate. Se avesse sentito un’altra volta la
parola “test” si
sarebbe messa a urlare. «Ma il bambino non è
ancora nato» obiettò. E non so
se nascerà mai, aggiunse in silenzio nella sua
testa. «Dovrei aspettare
di…» dovette costringersi a tirare fuori quella
parola. «… partorire, giusto?»
Rosa scosse il
capo.
«Oggi si può fare un test quando la gravidanza
è ancora in corso. È sicuro,
anche se costa un po’. Basta che uno dei due decida
di…» esitò, cercando la
parola giusta, «collaborare» concluse, a disagio.
Claudia
sentì una fitta
di panico che le rivoltava le viscere. «Non posso dirlo a
Enrico. Non ce la
faccio» protestò. Sentiva di nuovo le lacrime che
premevano per uscire e guardò
in alto, cercando di controllarsi, anche se la voce era già
più incrinata di
quanto avrebbe voluto. «Non posso dargli questo dolore. Ne ha
già passate
tante. Lui mi ama e Stefano è suo fratello. No»
scosse la testa con vigore.
«Non posso coinvolgerlo.»
Rosa la studiava
con
un’espressione di dubbio misto a compatimento.
«Claudia, potrebbe essere il
padre di tuo figlio: è già coinvolto.»
«Ho
detto di no.»
Rosa
sospirò e cambiò
posizione sul divano, appoggiandosi contro lo schienale.
«Chiama Stefano,
allora.»
«Certo,
così corre qui
e se incontra Enrico facciamo billèca»¹
rispose, sarcastica. «No.
Stefano deve assolutamente restare fuori da tutto questo. Ha la sua
vita
lontano da qui, l’università, il suo
futuro… Deve concentrarsi su quello.»
Rosa sembrava
sempre
più stupita. «Non li puoi lasciare fuori tutti e
due, Claudia. Devi avere una
risposta.»
All’improvviso
Claudia
non ne poté più. Si alzò in piedi di
scatto, così bruscamente che per un attimo
le girò la testa. «Sai che
c’è? Questo bambino è mio prima che di
chiunque
altro. Mio e basta. C’è solo
una cosa che devo fare se voglio rimediare
a questo… disastro.» Prese i test di gravidanza e
andò a gettarli nella
spazzatura, poi scomparve nella sua stanza, ignorando lo sguardo
preoccupato di
Rosa che seguiva i suoi movimenti. Si infilò la giacca,
prese la borsa e tornò
in salotto.
«Dove
vai?» si informò
Rosa con cautela, ancora sul divano nella stessa posizione. La
osservava come
se fosse una bomba a orologeria, in procinto di scoppiare da un momento
all’altro.
Claudia la
guardò. «Lo
sai dove sto andando» rispose con tono neutro.
Uscì.
****
Salì
sulla Fiat blu
scuro che Enrico le aveva regalato per il diploma due anni prima,
usata, ma in
buone condizioni. Strinse il volante tra le mani per un attimo e chiuse
gli
occhi, mentre i ricordi le riempivano la mente. Le sembrava di vedere
Enrico seduto
al suo fianco al posto del passeggero che le faceva lezione di guida,
quando
doveva prendere la patente. All’inizio Claudia era
così imbranata che
sobbalzava su tutte le stradine sperdute nella campagna di Santo
Stefano, ma
poi ci aveva preso gusto e nel giro di poche settimane era diventata
più brava
di lui, che aveva la patente già da un anno. Tutte le sue
prime volte
importanti erano state con Enrico. La prima volta che aveva fatto
l’amore, a
diciassette anni. Quella era stata la prima volta anche per lui. La
prima volta
che aveva guidato la macchina. Il primo viaggio da soli, un week end a
Catania,
per festeggiare il diploma di lei. La prima volta che aveva dato un
esame
all’università e lui era stato per tutto il tempo
alle sue spalle, per sostenerla.
Solo il primo bacio non era stato con Enrico. Era successo con Stefano,
l’ultimo giorno che lui aveva passato sull’isola,
nel cortile del baglio.
Ammesso che un incerto, lieve sfiorarsi delle labbra potesse essere
considerato
un bacio, ma quella era stata la prima volta che Claudia era stata
tanto vicina
a un altro essere umano.
Mise in moto con
un
sospiro e guidò con calma fino al baglio Falconeri. Quando
parcheggiò sotto la
tettoia, notò che la Volvo di Enrico (un regalo di suo
padre), non c’era. Scese
comunque e si diresse verso la casa. Appena entrata incontrò
una cameriera, che
le disse che Enrico era uscito da un’oretta per andare in
paese a incontrare
degli amici e non aveva detto quando sarebbe rientrato. Claudia decise
di
aspettarlo, ma rifiutò l’invito di prendere un
caffè in salotto e andò a
sedersi sulle scale della terrazza. Non sapeva se il signor Falconeri
fosse in
casa, ma voleva evitare di incontrarlo. Non era nello stato
d’animo adatto a
sostenere una conversazione normale, tanto meno con lo sguardo freddo e
penetrante di Edoardo puntato addosso. Le metteva sempre un certo
disagio.
Erano le cinque
del
pomeriggio e sebbene fosse ottobre inoltrato, lo strascico
dell’estate
siciliana si allungava sul principio dell’autunno, rendendo
le giornate ancora
luminose e calde. Per avere un cambiamento serio bisognava aspettare
almeno
novembre. Nessuno la disturbò, mentre se ne stava seduta
sulle scale a guardare
il cielo limpido. Ogni tanto qualcuno attraversava il cortile, la
cuoca, che si
fermò a salutarla e poi la spiò per un
po’ sulla soglia della cucina e il
giardiniere, che si limitò a farle un cenno da lontano
mentre trasportava gli
attrezzi da lavoro nella cantina. “La signorina
Claudia” non si vedeva al
baglio da qualche settimana e tutti sapevano che tra lei ed Enrico
c’era
qualcosa che non andava. Claudia era sicura che le chiacchiere, le
ipotesi e le
previsioni si fossero sprecate fin dall’inizio e le venne da
sorridere al
pensiero che quella sera, nella grande cucina di cui conosceva ancora a
memoria
ogni angolo dai tempi in cui ci passava interne giornate con sua nonna,
avrebbero avuto nuovo materiale per spettegolare.
Non dovette
aspettare
molto. L’aria non aveva ancora iniziato a rinfrescarsi quando
la Volvo grigio
metallizzato di Enrico varcò il cancello e si
fermò accanto alla sua Fiat.
Sentì un tuffo al cuore mentre si chiedeva che cosa stesse
pensando in quel momento,
scoprendo che era venuta da lui. Enrico rimase nell’abitacolo
della Volvo per
qualche istante, forse rimuginando sulla cosa, poi scese senza fretta,
lanciando occhiate calme intorno a sé. La sua bocca era una
linea sottile e
Claudia capì immediatamente che sotto l’apparente
tranquillità doveva essere
molto nervoso. Attraversò il cortile e quando vide Claudia,
ancora seduta sulle
scale, si bloccò. Dopo una brevissima esitazione, riprese a
camminare e la
raggiunse.
«Ciao»
disse, con voce
controllata.
Lei si
sforzò di tirare
fuori un sorriso. «Ehi.»
La
fissò in silenzio
per alcuni istanti, forse aspettando che lei aggiungesse qualcosa.
«Stai…
Aspettavi me? Perché non sei entrata in casa?»
Claudia
alzò le spalle.
«Mi andava di stare qui. È una bella
serata.»
Enrico
annuì, ma era
chiaro che era sorpreso da quell’improvvisata. Anche se in
quei due mesi di
pausa avevano sempre mantenuto i contatti, si erano incontrati
raramente e
soprattutto lei non era mai piombata al baglio così
all’improvviso, come faceva
quando stavano insieme. Era comprensibile che lui non sapesse cosa
aspettarsi.
«Sei
qui da molto?»
indagò, come se non sapesse bene che cosa dire.
«Ero al bar con Enzo e Diego,
in paese.» Fece una breve pausa. «Enzo ha una zita.»²
Claudia fece un
sorriso
tirato. «Ah, sì? E quanto durerà
stavolta?»
«Come
le altre volte:
poco» rispose Enrico. Ricambiò il sorriso e per un
attimo fu come se il legame
che ancora li univa vibrasse tra loro, splendente di luce. Rimasero in
silenzio
per un po’. Claudia era leggermente nervosa e non le sembrava
strano,
considerando quello che era venuta a fare, ma non avvertì
l’esigenza di
riempirlo immediatamente. Osservò Enrico per qualche
istante. L’aveva sempre
meravigliata che avesse un aspetto così virile pur avendo
lineamenti fini e
delicati.
«Come
vanno le cose?
Come sta tuo padre?» chiese poi, più per prendere
tempo che per riempire il
silenzio. Aveva il bisogno di sentirsi perfettamente calma e padrona di
sé
prima di affrontare argomenti più gravi.
Lui sembrava un
po’
incerto, come se le frasi banali che si stavano scambiando gli
suonassero
strane. Doveva aver intuito che Claudia era lì per qualcosa
di importante, ma
ebbe solo una piccola esitazione prima di rispondere.
«Meglio. La settimana
scorsa l’ho accompagnato a Palermo per il solito controllo.
Hanno confermato
che l’operazione è andata bene.»
«Sono
contenta.»
«Non
è tutto risolto,
ma se pensi che eravamo preparati al peggio…»
Enrico lasciò la frase in
sospeso, ma non era necessario che aggiungesse altro, non con lei:
Claudia
sapeva quanto fosse complicato il rapporto tra Enrico e suo padre. A
volte lei
detestava Edoardo, ma sapeva anche cosa significasse perdere
l’unica persona
con la quale si avesse ancora un legame familiare.
«Tu
come stai?» domandò
poi Enrico, cauto, quasi timoroso di ricevere una risposta che non gli
sarebbe
piaciuta.
Claudia dovette
riflettere prima di rispondere. In quel momento era una domanda
difficile per
lei, ma alla fine optò per la risposta più
semplice. «Sto bene. Tutto ok» disse
con voce tranquilla, eppure non riuscì a trattenere una
punta di incertezza che
colpì Enrico. Lui la fissò, confuso, ma non
indagò oltre.
«Entriamo?»
le propose.
«Beviamo qualcosa, magari.»
«No,
grazie, non mi va
nulla. La verità è che… non sono
venuta per una chiacchierata.» Claudia
raddrizzò la testa e lo guardò dritto negli
occhi, con la speranza che se fosse
apparsa sicura e determinata, allora sarebbe stata davvero sicura e
determinata
e il terrore che le invadeva le viscere tutte le volte che ripensava ai
tre
test di gravidanza positivi allineati sul tappeto sarebbe svanito.
«Ti devo
dire una cosa. Una cosa importante.»
Lui la scrutava
con
attenzione, come alla ricerca di un indizio. Distolse gli occhi e
guardò il
cortile vuoto per un attimo. «Lo immaginavo. Sempre diretta,
sei.» Accennò un
sorriso che si spense quasi subito, poi la guardò di nuovo.
«Dimmi.»
Claudia
cercò di
prendere un profondo respiro, di parlare con calma, ma
all’improvviso fu colta
dal panico e prima di bloccarsi buttò fuori le parole con
forza. «Sono
incinta.»
Cadde un
silenzio di
tomba. Per molto tempo lei udì soltanto il lieve stormire
del vento tra le
fronde del mandorlo e degli alberi di arance e limoni nel cortile e
l’acciottolio che proveniva dalla cucina e annunciava
l’inizio dei preparativi
per la cena. Enrico la fissava, immobile, con espressione
indecifrabile, come
se avesse indossato una maschera. Claudia si impose di sostenere il suo
sguardo
senza neanche sbattere le palpebre. Dopo una pausa che le
sembrò interminabile,
finalmente lui parlò.
«Sicura
sei?» chiese
con un filo di voce.
«Ho
fatto tre test di
gravidanza.»
La maschera sul
volto
di Enrico si crepò e lo shock lo invase. Rimase zitto ancora
per un po’,
probabilmente cercando di assimilare la notizia. Claudia gli
lasciò il tempo di
cui aveva bisogno. Anche lei ci aveva messo una decina di minuti a
realizzare che
cosa significasse davvero il risultato del primo test.
«Da
quanto lo sai?»
«Neanche
un’ora. Ho
fatto i test oggi pomeriggio. Io… lo sospettavo da un
po’ di tempo, in realtà,
ma… mi mancava il coraggio» confessò a
bassa voce e dall’espressione sul viso
di Enrico sentì che la capiva.
Il ragazzo si
mosse
lentamente, come se avesse le gambe pesanti, e sedette sui gradini
accanto a
lei. Fece un sospiro controllato, intrecciò le mani davanti
a sé e le strinse.
Claudia lo osservava ansiosamente. Non sembrava averla preso benissimo:
era pallido,
molto più del solito, e teso come la corda di un violino.
«Che
cosa… Che cosa
vuoi fare?» riuscì a chiederle, dopo una pausa, e
lei ebbe la sensazione che
avesse fatto molta fatica a tirare fuori quella domanda.
Un’ottima domanda.
Claudia si passò le mani sul viso.
«Non
ci ho ancora
pensato nel dettaglio, ma penso che… lo vorrei
tenere.» Nel momento in cui
quella frase le uscì dalle labbra, si rese conto di quanto
fosse vero. Non che
non avesse paura. Il pensiero di diventare madre a vent’anni,
di stringere tra
le braccia un minuscolo essere umano indifeso di cui avrebbe dovuto
aver cura,
una persona che sarebbe nata da lei e alla quale lei avrebbe dovuto
dedicare
tutta se stessa, anche sacrificando se stessa, era
come affacciarsi su
un baratro senza fondo. Eppure non riusciva a considerare
l’alternativa. Non
esisteva, un’alternativa. Più di ogni altra cosa,
voleva quel bambino e tutto
il resto… tutto il resto avrebbe imparato ad affrontarlo, da
sola o con qualcun
altro. «Sì, ne sono sicura»
ribadì, annuendo. Poi guardò Enrico.
«E… e tu?
Voglio dire, per te va bene?» balbettò, senza
sapere come formulare la domanda.
Lui continuava a
fissare davanti a sé, teso e distante. Prese aria,
aprì la bocca, espirò, prese
aria di nuovo. Dopo qualche tentativo, riuscì a mormorare:
«La decisione è tua,
Claudia. È il tuo corpo.»
Lei
sentì uno slancio
nei suoi confronti. Rimase a guardarlo per qualche secondo, un sorriso
che le
nasceva pian piano sulle labbra. Aveva sempre saputo che era un ragazzo
gentile, onesto, generoso, ma non aveva mai scoperto fino a che punto.
«È
vero. Però è anche
tuo figlio» aggiunse, dopo una breve riflessione. Ecco, era
fatta. L’aveva
detto. Dopo quelle parole, proseguire le parve più facile.
«Hai il diritto di
dire la tua.» Enrico sospirò appena, senza
muoversi. Claudia era convinta che in
quel momento fosse lontanissimo da lei, da lì.
Chissà a cosa pensava. «Sei
felice?» gli chiese a bruciapelo, sperando di scuoterlo.
Enrico
esitò. «Io… non
lo so. È così improvviso. Non riesco
a…» Si interruppe e si passò una mano
sul
viso, come se per scacciare qualcosa che lo tormentava.
«Scusami, non riesco a
riflettere.»
Claudia
annuì, seria.
«Ok, tranquillo, lo capisco. È normale essere
nervosi, no? Sono sotto shock
anche io, e me lo aspettavo da settimane.»
«Ho
paura» confessò
Enrico all’improvviso, di getto, cogliendola di sorpresa.
Claudia ebbe un
attimo
di incertezza, poi allungò la mano e prese quella inerte e
stranamente fredda
di lui. Non sapeva cosa stesse facendo esattamente. Seguiva il suo
istinto e
basta, senza avere la minima idea di dove l’avrebbe condotta.
«Anche io» mormorò.
«Cazzo, sto morendo di paura.»
Le
sfuggì una mezza
risata isterica. Mentre guardava il cortile inondato dai raggi del sole
che
iniziavano a declinare verso il tramonto, le venne in mente Amelia. Non
aveva
mai conosciuto sua madre, morta quando lei aveva appena un anno, ma sua
nonna
Amelia aveva rivestito quel ruolo così bene da non farle mai
sentire il vuoto.
Quando ripensava ai suoi genitori, Claudia provava un vago rimpianto,
più che
un’autentica tristezza: il rimpianto per qualcosa che era
perso per sempre e
che non avrebbe mai fatto parte della sua vita. Quando pensava alla
nonna,
invece, era come se una voragine le si aprisse nel petto, non riusciva
a
respirare. Di solito cercava di allontanare i ricordi, sperando che con
il
passare del tempo avrebbero fatto meno male e sarebbe riuscita a
riviverli con
serenità. Amelia era stata il pilastro della sua vita e
l’idea di essere per un
altro persona quello che la nonna era stata per lei la riempiva di
emozione e
di terrore in ugual misura. Il pensiero di Amelia le diede forza e la
spinta di
cui aveva bisogno per andare avanti. Strinse forte la mano di Enrico,
lo
sguardo abbassato sulle loro dita intrecciate come le loro vite.
«Però
ho un po’ meno
paura se penso che tu sei qui con me» aggiunse a bassa voce.
«E forse… credo
che l’amore sia questo.»
Le sue parole
scivolarono in un silenzio profondo e denso. Mentre aspettava la
reazione di
Enrico, Claudia si rese conto che non stava mentendo per salvare la
loro
storia. Non era una bugia, non del tutto, almeno. Da bambini, lei ed
Enrico
erano sempre stati parte di una cosa sola insieme a Stefano e dopo che
lui era
andato via, dopo che avevano perso un pezzo, si erano avvicinati sempre
di più,
stringendosi l’uno all’altra per colmare quel vuoto
che si allungava tra loro.
Nel tempo, Claudia aveva iniziato a sospettare che Enrico provasse
qualcosa di
più dell’amicizia per lei, che lo avesse sempre
provato. Era un sentimento
naturale, spontaneo. Faceva parte di lui, come gli occhi azzurri e il
sorriso
timido. Lo portava inciso in ogni espressione, ogni sguardo, ogni
gesto, ogni
parola. Giorno dopo giorno lei aveva ascoltato quel richiamo costante,
dolce,
gentile, e aveva ceduto.
«Ti ho
sempre amata» le
aveva bisbigliato Enrico all’orecchio, con un miscuglio di
incredulità, timore
e gioia, quando si erano baciati per la prima volta. Quel
“sempre” le era
rimasto dentro, come un solco scavato nel cuore.
Claudia
sollevò gli
occhi e scoprì che Enrico l’aveva osservata per
tutto il tempo, silenzioso,
quieto, attento come solo lui sapeva essere, e nei suoi occhi lesse la
risposta
che aspettava. Le parole non servivano. Di slancio gli prese il volto
tra le mani,
lo tirò a sé, chiuse gli occhi e lo
baciò.
NOTE.
1. Un macello.
2. Fidanzata.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** PARTE QUARTA. Capitolo 14. Nato con loro ***
PARTE QUARTA
SICILIA, ISOLA
DI SANTO STEFANO
Luglio 2015
CAPITOLO 14
NATO CON
LORO
«Grazie
di essere
venuto a prendermi» disse Vittoria.
Lanciò
un’occhiata
rapida e curiosa allo zio, poi tornò a guardare fuori dal
finestrino dell’auto.
Era un po’ strana, quella situazione. La BMW scorreva
così silenziosamente e
velocemente sulla strada da sembrare ferma, se non fosse stato per la
vista
della campagna che scorreva via in fretta oltre il parabrezza. I vetri
oscurati
chiusi e l’aria condizionata in azione rendevano
l’ambiente ovattato, come
separato dalla realtà esterna arroventata dal sole, quasi
irreale. All’inizio
nessuno dei due aveva parlato, ma poi Vittoria aveva sentito il bisogno
di
rompere quel silenzio pesante.
«Figurati»
rispose
Enrico a mezza voce. Gli occhiali da sole nascondevano ancora la sua
espressione e sembrava ben attento a non guardare mai in direzione
della
nipote.
«Sicuro
che non sia
stato un problema rimandare il tuo viaggio?»
Enrico
cambiò la marcia
con un movimento fluido e controllato e rispose dopo qualche istante.
«Sicuro.»
Vittoria gli
lanciò
un’ultima occhiata. «Ok, bene»
mormorò e non aggiunse altro per il resto del
viaggio. Se a lui non andava di parlare, non voleva certo forzarlo.
Arrivati al
baglio,
Enrico aprì il cancello di ferro con un piccolo telecomando,
parcheggiò la
macchina sotto la tettoia ed entrambi scesero in silenzio. Lui
ignorò la porta
d’ingresso e la scortò su per le scale del
ballatoio. Vittoria si accigliò
mentre saliva i gradini.
«Non
le chiudete mai, le
portefinestre?» domandò all’improvviso,
curiosa.
Enrico era
così
raccolto in se stesso che ci mise un attimo ad afferrare il senso della
domanda. Aggrottò la fronte, sfilandosi finalmente gli
occhiali da sole, ma
ancora non la guardava. «D’estate no. Fa
già abbastanza caldo senza chiudere
tutto.»
«Ma…
non avete paura
che entri qualcuno?»
Lui
accennò un sorriso,
mentre giocherellava con i Ray-ban. «Il cancello di solito
è chiuso. E poi chi
dovrebbe entrare? Qui si conoscono tutti. Non c’è
nessun pericolo.»
«Sembra
terribile»
commentò Vittoria a voce molto bassa. Il sorriso di Enrico
si allargò appena,
ma non disse nulla. Lei lanciò un’occhiata al
pianoforte chiuso che la
aspettava, come tutte le mattine. «Posso salutare
Edoardo?»
«Certo.
Ti accompagno.»
Chissà
cosa avrebbe
detto Edoardo vedendola lì da sola. Se avesse fatto qualche
battuta tagliente,
come accadeva spesso, avrebbe messo in difficoltà Enrico ed
era l’ultima cosa
che lei voleva. D’altra parte, neppure incontrare il nonno da
sola era un’idea
particolarmente invitante. Forse le avrebbe fornito la
possibilità di fargli
qualche domanda, ed era quello che desiderava, ma non poteva negare che
la cosa
la innervosisse un po’. Quando arrivarono in cima alle scale,
al primo piano,
Enrico si fermò e Vittoria capì che non avrebbe
proseguito insieme a lei.
«Tu
non vieni?» chiese,
incerta se esserne sollevata o meno.
Enrico
conservò
un’espressione neutra, ma quando rispose la sua voce aveva un
tono definitivo.
«Ho del lavoro da fare. Ci vediamo più
tardi.»
Vittoria
annuì. Le
parve che lui volesse dire qualcos’altro, ma forse si era
sbagliata o forse lo
zio ci aveva ripensato, perché continuò lungo il
corridoio a sinistra, dopo
averle rivolto un mezzo sorriso gentile e freddo, senza aggiungere
nulla.
Vittoria fece un
sospiro leggero e svoltò a destra. La porta della stanza del
nonno era
socchiusa, come sempre, perché da fuori la sua voce si
sentisse, se Edoardo fosse
stato solo e avesse chiamato. Bussò piano, poi spinse la
porta ed entrò. Sapeva
che lo avrebbe trovato seduto sulla sua poltrona di pelle, in terrazza,
sotto
l’ombrellone bianco di forma quadrata, circondato da piante e
fiori profumati e
da un panorama mozzafiato in tutti i toni dell’azzurro e del
blu. Chissà se
riusciva comunque a goderne nelle sue condizioni.
Attraversando la
stanza, che a quanto le aveva detto una volta Rosalia era una delle
più
luminose e calde della casa, le cadde l’occhio sulla
fotografia in cornice
d’argento sul cassettone. Si fermò. Quella foto
attirava sempre il suo sguardo,
ma fino ad allora non era mai entrata in quella stanza senza suo padre
che la
tallonava con espressione tempestosa e non l’aveva mai
osservata bene. Prese la
foto con delicatezza. Era in bianco e nero e la cornice era molto
più pesante e
spessa di quanto avesse immaginato. Guardò verso la
terrazza: Edoardo era lì,
in poltrona, le spalle rivolte verso la stanza, come ogni mattina
quando lei
saliva a salutarlo e a scambiare le poche chiacchiere che lui riusciva
a
sostenere. Stava peggiorando piuttosto rapidamente. Di solito
c’era sempre
l’infermiera o almeno una cameriera accanto a lui, ma
dovevano essersi
allontanate un momento.
Vittoria
abbassò di
nuovo lo sguardo sulla fotografia: una ragazza con un vestito chiaro e
lunghi
capelli sciolti sulle spalle sedeva su uno scoglio, vicino al mare, lo
sguardo timido
rivolto verso l’obiettivo, le ginocchia tra le braccia e un
sorriso dolce sul
viso dai tratti armoniosi e delicati. Chissà chi era.
Pensierosa, si rigirò la
fotografia tra le mani e scoprì che sul retro, ingiallito
dal tempo, qualcuno
aveva scritto una data. Giugno 1974. Vittoria
rifletté, ma non le diceva
nulla. D’altronde, non sapeva niente della famiglia.
Rimise a posto
la
fotografia e uscì in terrazza. In quel momento, Edoardo fu
colto da un eccesso
di tosse. Sul tavolino di ferro battuto accanto alla poltrona
c’erano una
brocca di cristallo lavorato piena d’acqua, un bicchiere e
quello che sembrava
un flacone di gocce. Vittoria versò in fretta
dell’acqua nel bicchiere e lo
porse al nonno, che continuava a tossire con violenza, ripiegato su se
stesso
come se fosse sul punto di spezzarsi. Lui sollevò appena la
testa, incrociando
per un attimo lo sguardo spaventato di Vittoria, prese il bicchiere con
una
mano tremante e bevve lentamente, a piccoli sorsi. Lei rimase in piedi
a
osservarlo con ansia. Quando il bicchiere fu vuoto, lo riprese con
delicatezza
dalla mano secca e grinzosa del vecchio e aspettò. Si chiese
se non fosse il
caso di chiamare l’infermiera. Edoardo, però,
sembrava essersi ripreso. Aveva
poggiato la testa all’indietro, contro la poltrona, e
respirava a fatica come
sempre, ma l’attacco era passato. Guardò sua
nipote e abbozzò un sorriso
stanco.
«Grazie,
picciridda»¹
mormorò con voce roca e debole.
«Come
stai?» Vittoria
rimise il bicchiere sul tavolino e sedette sulla sedia di ferro vicino
alla
poltrona, coordinata con il tavolino, che di solito era riservata
all’infermiera.
Edoardo
lasciò andare
un sospiro pesante e sibilante. «Peggio di ieri… e
meglio di domani.»
«Mi
dispiace.»
Rimasero in
silenzio
per un po’. Edoardo aveva chiuso gli occhi e lei si chiese se
non fosse
scivolato nel sonno. Era un’altra cosa che gli capitava
spesso, insieme a
quegli attacchi di tosse terribile che quasi lo soffocavano e lo
lasciavano
stremato. Poi il nonno parlò, all’improvviso,
facendola sobbalzare per la
sorpresa.
«Stefano?»
Vittoria strinse
tra le
mani i braccioli lavorati della sedia e cercò di farsi
passare lo spavento.
«Uhm… Papà non
c’è, oggi. Sono venuta da sola» disse,
cauta. Era meglio restare
sul vago. Il nonno non chiese altro, ma emise una mezza risata simile a
un
latrato, gli occhi ancora chiusi.
«Già
scappò, eh?»
Vittoria
rifletté. Non
sapeva cosa fosse meglio dire e, come le capitava spesso quando parlava
con
Edoardo, avvertiva un senso di disagio. Anche se non lo conosceva bene,
era
sicura di una cosa: la sua presenza era tutto fuorché
rassicurante.
«Non
è contento di
stare qui. Siamo venuti perché gliel’ho chiesto
io… E siamo rimasti perché
gliel’ho chiesto io. Volevo conoscerti.»
«Farebbe
qualsiasi cosa
per te» commentò Edoardo con uno strano tono.
«Sarai rimasta delusa, ora che mi
hai conosciuto.» Aprì gli occhi di scatto e li
puntò sulla nipote. Erano fermi,
profondi e azzurri come quelli dei suoi figli. Come quelli di Vittoria.
«O
forse no… Stefano ti avrà parlato così
male di me che non ti aspettavi niente.»
Vittoria
capì che la
stava mettendo alla prova e che, per quanto ostentasse la solita
indifferenza
sardonica, la risposta che lei avrebbe dato gli interessava parecchio.
Ricambiò
lo sguardo acuto del nonno con decisione.
«Veramente
non parliamo
mai di voi. Di te ed Enrico, intendo.»
Edoardo la
fissò ancora
per qualche momento, poi distolse lo sguardo e lo rivolse verso il
mare. Da lì
sembrava vicinissimo. Vittoria aveva sempre l’impressione di
poterlo toccare
semplicemente allungando la mano.
«E
bravo Stefano…
Perché complicarsi la vita, in fondo?»
mormorò il nonno con tono ironico. A lei
parve che parlasse con se stesso.
«Che
vuoi dire?»
domandò ugualmente, curiosa.
Lui non rispose,
preso
dai suoi pensieri. «Loro hanno sempre pensato che fosse tutta
colpa mia» disse
invece, all’improvviso.
Loro? Alludeva
ai suoi
figli? Probabilmente sì, eppure nella sua voce non
c’era la minima traccia di
rimorso, dispiacere o affetto. Non era sarcastico, ma la sua voce era
fredda e
controllata, come se fosse una questione di scarsa importanza. E
comunque che
razza di risposta era?
«E lo
è? È colpa tua?»
insisté Vittoria a bassa voce, la fronte corrugata,
scrutando il viso del nonno
e cercando di capirci qualcosa. Non era affatto sicura della piega che
la
conversazione stava prendendo, ma era la prima occasione che aveva modo
di
parlare con lui in solitudine. Non poteva fare altro che seguirla e
sperare che
la conducesse da qualche parte.
Edoardo emise un
respiro roco, breve e sibilante, che fece rabbrividire Vittoria. Quando
gli era
vicina, si rendeva conto davvero di quanto fosse malato. «Le
persone pensano
quello che vogliono pensare. Quello che li ha divisi…
è nato con loro o forse
anche prima di loro. Non serviva che mi mettessi in mezzo io.»
«Cosa?
Cos’è stato a separarli?»
Edoardo
sospirò. Doveva
essere molto stanco. Abbassò un attimo le palpebre, come se
fossero troppo
pesanti per tenerle su. «Più di una cosa, ma
quella davvero importante una sola
è. Quando due fratelli si innamorano della stessa donna
è così che va a finire.»
Vittoria non
riuscì a
dare subito un senso a quella frase, che rimase a girarle nella testa
per un
po’ di tempo, mentre lei cercava affannosamente di
afferrarla. La stessa donna?
Ma quando? Stefano ed Enrico avevano trascorso separati la maggior
parte delle
loro vite. Suo padre era tornato sull’isola solo una volta,
quando aveva circa
vent’anni, quando Edoardo aveva scoperto di essere malato,
quando Stefano aveva
rivisto la mamma. Fu uno schiaffo. D’istinto
sollevò una mano e se la posò
sulla guancia accaldata. Guardò il nonno senza vederlo,
sprofondata nei suoi
pensieri. Era vero? Era possibile? Edoardo mentiva? O parlava a caso,
con i
pesanti farmaci che gli offuscavano la mente e la malattia che gli
logorava il
corpo e lo spirito?
D’impulso
Vittoria aprì
la bocca per chiedere qualcosa senza neanche sapere che cosa, quando
Edoardo
ricominciò a tossire, questa volta con violenza maggiore di
prima. Era un altro
attacco. Si piegò su se stesso e rantolò,
sforzandosi di respirare, il viso
congestionato che si deformava per la sofferenza. Doveva chiamare
aiuto.
Qualunque altro pensiero le volò via dalla mente.
Scattò in piedi, corse verso
la portafinestra e per un attimo il sole la accecò e quasi
andò a sbattere
contro l’infermiera, che stava uscendo a passo svelto sulla
terrazza: una donna
sui 45 anni, un po’ in sovrappeso, con una coda di capelli
biondo scuro e un
semplice completo da lavoro.
«Sta
male!» ansimò
Vittoria, saltando bruscamente all’indietro per non
intralciarla, e subito si
sentì una cretina totale. Si vedeva benissimo che Edoardo
stava male.
La donna gli si
era
avvicinata rapidamente. Lanciò uno sguardo al vecchio, prese
dal tavolino il
flacone delle gocce e ne versò alcune nel bicchiere, poi
aggiunse dell’acqua.
Non la guardò nemmeno, concentrata com’era.
«Ci
penso io» disse
soltanto. Vittoria ebbe un attimo di esitazione, ma in fondo a cosa
sarebbe
servito restare lì? Annuì,
indietreggiò di un passo, senza staccare gli occhi
dal nonno, che ancora annaspava piegato in due. Poi abbassò
la testa e rientrò
in casa.
****
Vittoria
trascorse
quello che restava della mattina con la testa in una specie di nebbia.
Più che
suonare, strimpellò distrattamente sulla tastiera del
pianoforte con dei
risultati così agghiaccianti che immaginò tutti
gli abitanti della casa
tapparsi le orecchie per l’orrore. Se la Grandi
l’avesse ascoltata, avrebbe
chiesto la sua immediata espulsione dal Conservatorio. Lei stessa,
però, si
ascoltò a malapena.
Alle undici e un
quarto
Rosalia le portò un vassoio con una brocca di limonata
fresca fatta in casa e i
soliti biscotti con mandorle e pistacchi. Vittoria la
ringraziò, sedette sul
divano e rimase a fissare il vassoio per un tempo indefinito. Non aveva
alcuna
voglia di mangiare. Non aveva mai avuto meno fame in tutta la sua vita.
Desiderava soltanto capire. Enrico, però, continuava a
sfuggirle e il nonno… Si
alzò in piedi e prese a gironzolare irrequieta per il
salotto. La sua mente era
un turbine, un vortice confuso di date ed eventi che lei cercava di
incastrare
in un puzzle che le restituisse un’immagine dotata di senso,
ma con scarsi
risultati. In fondo, era poi così importante? Se anche le
parole del nonno fossero
state vere, doveva essere successo molto tempo prima, prima che i suoi
genitori
si incontrassero di nuovo e si innamorassero. Era una cosa del passato,
ormai
morta e sepolta.
Era
così importante?
Vittoria
aggrottò la
fronte, fermandosi davanti a una vetrinetta per osservare il proprio
riflesso
alterato dalle smerigliature e dalle incisioni delicate sul vetro. No,
decise
all’improvviso, il fatto in sé non era poi
così importante. Certo, un po’ strano
lo era, non poteva negarlo, ma senza dubbio avrebbe spiegato molte
cose. E lei
era venuta lì proprio per quello: trovare risposte.
Pensierosa,
mosse
qualche altro passo nella stanza, poi quasi senza rendersene conto
uscì dal
salotto. Salì automaticamente le scale e in cima si
fermò. Lanciò una mezza
occhiata indecisa a destra, verso la camera di Edoardo. Le avevano
detto che si
era ripreso dall’attacco e ora stava dormendo, quindi era
inutile tornare da
lui. Girò a sinistra, percorse un tratto di corridoio,
oltrepassando una pianta
ornamentale in un elaborato vaso di terracotta e una natura morta
appesa al
muro, poi svoltò ancora a sinistra. Si trovò
davanti una doppia porta
accostata. Sapeva dove conduceva, anche se non l’aveva mai
varcata. Una volta
aveva sbagliato strada mentre cercava il bagno e aveva incontrato una
cameriera
giovane e simpatica, Antonia, che l’aveva indirizzata dalla
parte giusta dopo
averle spiegato che quella doppia porta conduceva nello studio di
Enrico
Falconeri. Lì davanti Vittoria si fermò,
trattenendo un po’ il fiato quasi
senza accorgersene. Sollevò la mano e bussò
pianissimo, come se non fosse certa
di volersi far sentire all’interno. Nessuno rispose. Spinse
appena la porta ed
entrò.
Dal corridoio
fresco e
in penombra si ritrovò immersa nella luce calda e intensa
del mattino che
scolpiva ogni cosa con una nitidezza accecante. Davanti a lei
c’era una specie
di salottino. Due divani in pelle di un bianco immacolato erano
disposti a L al
centro della stanza e tra essi stazionava un tavolino basso di ferro
battuto
con il ripiano di cristallo lucente. Lungo le pareti erano disposti
mobili
scuri, lucidi e pesanti, in linea con l’arredamento del resto
del baglio, e una
pianta rampicante saliva sulla parete nell’angolo accanto al
balconcino,
esattamente di fronte alla porta.
Vittoria fece
qualche
passo nella stanza, gettando uno sguardo veloce oltre i vetri aperti e
le tende
bianche: sotto c’era il cortile del baglio. Sulla destra, il
salottino
comunicava con lo studio vero e proprio. In precedenza, forse,
c’era stata una
parete divisoria, poi abbattuta per creare un unico vasto spazio. Al
centro
dello studio si stagliava come una regina una massiccia scrivania di
mogano, la
più grande che Vittoria avesse mai visto. Aveva il tipico
aspetto dei mobili
antichi, ma conservati con estrema cura, la superficie consunta e
intaccata
levigata da uno spesso strato di morbida cera. A destra della scrivania
un
altro balconcino affacciava sul cortile e alle sue spalle su ergeva
un’imponente libreria.
Vittoria fece il
giro
della scrivania, stando ben attenta a camminare sul tappeto soffice per
attutire il rumore dei passi, si avvicinò alla libreria per
osservarla meglio.
Se mai fosse caduta addosso a qualcuno lo avrebbe ridotto in poltiglia.
Era
carica di volumi dalle copertine rigide e scure, faldoni, schedari. Non
sembrava nulla di interessante e Vittoria le girò presto le
spalle. Non poteva
perdere troppo tempo. Con un sospiro, si girò verso la
scrivania e abbracciò
l’intero ambiente con lo sguardo, accigliata. Niente. Non
c’era niente. Ma in
fondo cosa stava cercando, esattamente? Che ci faceva lì?
Era solo uno studio.
Non c’era niente di personale, lo stile della casa lo
inglobava completamente.
Non le diceva un bel niente di Enrico e del passato. Abbassò
gli occhi sulla
superficie perfettamente in ordine della scrivania, senza neppure un
foglio
fuori posto o una penna di traverso. Di colpo si rese conto che cercare
qualcosa lì era inutile, qualunque fosse la cosa che aveva
pensato di trovare.
Sei una scema, si disse,
serrando i pugni. Che
te ne frega?
Era meglio
uscire,
prima che qualcuno entrasse e la beccasse a curiosare tra le cose di
Enrico.
Sarebbe stato atrocemente imbarazzante. In quel momento gli occhi le
caddero
sull’unica cosa fuori posto in tutta la stanza. Sulla parete
a sinistra, dal
lato opposto al balconcino, c’era un secrétaire²
e uno dei suoi
minuscoli cassettini non era ben chiuso come gli altri, ma leggermente
aperto,
come se fosse un cassetto che veniva aperto spesso e che non ci si
preoccupava
di richiudere con troppa cura. Si avvicinò a passo svelto,
lo aprì e sbirciò
dentro il suo contenuto: un oggetto che le parve una piccola fionda, un
semplice rametto d’albero con due punte e un elastico
consunto dall’uso; un
orologio d’oro dall’aspetto antico, fragile, che a
giudicare dalle dimensioni
era fatto per essere portato in una tasca; una penna stilografica
profilata in
argento.
Vittoria
aggrottò la
fronte, perplessa, studiando quel curioso assortimento di oggetti
diversi al
quale non riusciva a dare un senso. Forse nemmeno c’era, un
senso, e lei se ne
stava lì a perdere tempo guardando delle stupide, vecchie
cose dimenticate lì
dentro da chissà quanto tempo. Rimise a posto il cassetto
senza chiuderlo del
tutto, lasciandolo come lo aveva trovato, e si lanciò nel
salottino. Era a
pochi passi dalla doppia porta quando questa si aprì
all’improvviso ed entrò
Enrico. Vittoria si bloccò di colpo, come se qualcuno
l’avesse afferrata e
tirata con forza per un braccio, e non riuscì a impedirsi di
trasalire.
«Oh,
no, non di nuovo»
sbottò a mezza voce, spontaneamente, e subito dopo si morse
il labbro. Era la
stessa identica situazione di quella mattina, solo che al posto di
Alberto
c’era Enrico.
Lui
inarcò appena le
sopracciglia, fissandola. «Come?»
domandò con tono educato.
Lei scosse la
testa.
«Ehm… No, niente» borbottò
precipitosamente, poi tacque di botto, incapace di
trovare una scusa accettabile per spiegare come mai stesse curiosando
lì dentro.
Si maledisse in silenzio. Come le era venuto in mente di ficcarsi in
quella
situazione? Che figuraccia.
Enrico non disse
nulla.
Indossava ancora il completo di lino beige e la camicia bianca di
quando era
venuta a prenderla e sembrava pronto per un servizio di moda estiva. A
Vittoria
sembrava che suo padre e suo zio avessero poco in comune, ma una cosa
sicuramente c’era: un’eleganza spontanea, quasi
distratta, nel vestire. Pensò a
Edoardo, al suo aspetto sempre impeccabile nonostante fosse nella fase
terminale di una malattia lunga e dolorosa. Si domandò se
non avessero
ereditato entrambi quella caratteristica da lui, o se forse non
l’avessero
assorbita inconsapevolmente quando lo osservavano da bambini.
«Posso
fare qualcosa
per te?» le chiese Enrico, con il solito tono cortese e
distaccato. Non la
guardava negli occhi, ma fissava un punto appena dietro la sua testa.
Vittoria
represse l’impulso insensato di voltarsi per vedere cosa
catturava la sua attenzione.
«No…
grazie. Ero salita
per sapere come sta Edoardo, ma poi mi sono ricordata che sta dormendo
e così…»
Annaspò, ma non le veniva in mente nessuna motivazione
ragionevole. Alla fine
si arrese. «Ho pensato di fare un giro»
confessò, le spalle che si
afflosciavano appena. Era la cosa più vicina alla
verità che fosse riuscita a
pensare.
Lui,
però, non sembrò
perplesso o infastidito. Si limitò ad annuire, lanciando
un’occhiata allo
studio, come se stesse valutando la stanza per capire cosa ci trovasse
lei. Per
un folle attimo a Vittoria scappò da ridere e dovette
lottare per trattenersi.
«Capisco. Fai pure. Anche se dubito che qui dentro ci sia
qualcosa di
interessante per te. A meno che tu non abbia una segreta passione per i
dati
sulla produzione vinicola di Santo Stefano dal 1950 a oggi.»
Questa volta
Vittoria
lasciò uscire un sorriso liberatorio. «In
realtà sono più interessata a quella
prima del 1950.»
Lo zio la
osservò per
un attimo, poi anche le sue labbra si incurvarono appena.
«Quella la
conserviamo giù in cantina, mi dispiace» le
rispose a tono e Vittoria fece una
risatina nervosa. Le parve che un lampo sottile scorresse tra loro,
rapidissimo, per poi spegnersi di colpo. «Se vuoi un libro ti
consiglio di
guardare in biblioteca.»
Vittoria
sgranò gli
occhi. «Avete una biblioteca?» Quello era troppo
anche per i Falconeri.
«Sì.
Non hai fatto un
giro della casa quando sei arrivata?» Vittoria scosse il
capo. Lui la guardò in
silenzio per un secondo, negli occhi, questa volta. «Vuoi
farlo adesso?»
«Possiamo?»
«Certo.»
«Non
hai da fare?»
Lui stava
già aprendo
la doppia porta, poi si fece da parte per lasciarla passare.
«Non
preoccuparti.»
****
Il baglio era
anche più
grande di quanto Vittoria avesse immaginato. Lo zio le
mostrò la biblioteca,
che occupava un ambiente pari al salotto del primo piano, una stanza
attrezzata
per la ginnastica con tapis-roulant, pesi, panche per gli addominali e
un punching
ball, quattro camere per gli ospiti immacolate che
profumavano come stanze
di un albergo di lusso, un solarium con ombrellone, tavoli e sdraio
affacciato
sul mare, un salottino interamente occupato da una collezione di
porcellane
cinesi che (ne era sicura) avrebbe fatto la gioia di sua madre
(«Era una
passione di mia nonna. La madre di Edoardo» le
spiegò Enrico), bagni con appliques
di cristallo alle pareti e pile di soffici asciugamani sulle superfici
di
marmo. Tramite le scale di servizio interne diedero anche
un’occhiata alla
cucina. Lungo la strada incontrarono Rosalia, che inarcò le
sopracciglia
vedendo quella strana coppia, ma si limitò a fare un cenno
con la testa e ad
allontanarsi senza commenti.
Vittoria
osservò tutto
con attenzione e curiosità. Era molto diverso da casa sua.
L’appartamento in
cui viveva con i genitori a Milano, in centro, era pieno di mobili
moderni e
opere d’arte contemporanea che sua madre adorava. Era quello
il suo campo di
specializzazione. Ci aveva anche scritto sopra la sua tesi di
dottorato. A
Vittoria piaceva casa sua, ma trovava il baglio più
affascinante. Quello era un
lusso antico, con una lunga storia alle spalle, e quella storia era la
storia
della sua famiglia, di tutte le persone che, una dopo
l’altra, un matrimonio
dopo l’altro, avevano portato fino alla sua nascita. Quel
pensiero la colpì
allora per la prima volta, con forza. Era sempre stata abituata a
pensare di
essere senza radici, come i suoi genitori, o meglio, che le sue radici
non
andassero più in profondità di quelle che avevano
impiantato i suoi quando
avevano lasciato Santo Stefano per cambiare vita. Aveva creduto che il
suo
mondo iniziasse e finisse con loro. Gironzolando per le stanze del
baglio, il
naso all’insù per guardare i soffitti dipinti a
motivi naturali, capì che in
realtà non era così. C’era qualcosa di
emozionante nello sfiorare con un dito
un panciuto vaso Ming bianco a fiori blu e pensare che in qualche modo
quell’oggetto era anche parte di lei.
Camminavano per
lo più
in silenzio. Enrico la guidava, apriva la porta di una stanza, le dava
qualche
breve informazione e aspettava tranquillo che lei facesse un giro, poi
la
lasciava uscire per prima, richiudeva la porta e passavano alla stanza
successiva. Vittoria gli lanciava ogni tanto un’occhiata
curiosa di soppiatto
che lui non notava o che forse fingeva di non notare. Era un
po’ delusa: stava
scoprendo la casa, ma lui restava un enigma.
Quando due
fratelli
si innamorano della stessa donna…
La frase di
Edoardo non
smetteva di ronzarle nella testa.
L’ultima
tappa della
visita furono le cantine, una lunga fila di stanzoni dal soffitto a
volta a cui
si accedeva dal cortile, tramite una porticina di ferro. Strutture di
legno
alte fino al soffitto ospitavano un numero indefinito di bottiglie di
vino. File
ordinate di botti antiche così grandi che Vittoria sarebbe
riuscita a infilarci
tutto il suo guardaroba, comprese le scarpe, e forse anche i trucchi,
erano
affiancate da attrezzi e macchinari dall’aspetto vissuto di
cui non capì la
funzione. Lo zio le disse che avevano tutti a che fare con i vecchi
metodi di
produzione del vino e che ormai non erano più utilizzati, ma
avevano un valore
storico. Aggiunse poi che lì sotto c’era solo una
parte della produzione
Falconeri. Il lavoro vero e proprio non si svolgeva al baglio, ma nella
cantina, non molto distante da lì. Dopo un attimo di
esitazione, aggiunse che
se lei fosse stata curiosa di vederla, una volta l’avrebbe
portata a visitarla.
«Grazie
del giro. Mi è
piaciuto» disse Vittoria. Erano ancora nelle cantine, al
centro di una di
quelle enormi stanze in cui risuonava un’eco che, insieme
all’umidità, al
fresco e alla penombra, faceva pensare a una grotta nel profondo di una
montagna. Diede un’ultima occhiata intorno a sé,
poi si voltò per uscire e lo
zio, che le stava accanto con le mani nelle tasche, la
seguì. «Questa casa
sembra un museo.»
«Alcuni
bagli lo sono
diventati, in Sicilia. Oppure si sono trasformati in bed and breakfast
o ristoranti
di lusso. Edoardo non avrebbe mai permesso una cosa del genere qui,
nella casa
che i Falconeri abitano da generazioni.» A Vittoria
sembrò di cogliere un velo
di sarcasmo nelle sue parole, ma quando lo fissò la sua
espressione era
distaccata come sempre. «Il primo nucleo del baglio risale
alla fine del Seicento.
Fino ad allora la famiglia aveva vissuto in una palazzina in paese che
poi crollò
durante un terremoto.»
Rimasero in
silenzio
mentre raggiungevano la porticina di ferro. Enrico la fece passare per
prima
anche questa volta, poi richiuse la porta alle loro spalle con uno
sferragliare
pesante. Vittoria sbatté gli occhi e si mise una mano sulla
fronte, cercando di
riabituarsi alla luce accecante del sole.
«Va
tutto bene?» Si
voltò e vide che Enrico la stava osservando, una mano ancora
sulla maniglia
della porta. «Mi sembravi un po’ strana,
prima.»
Vittoria fece un
sorriso debole. Certo che doveva essergli sembrata un po’
strana: l’aveva
sorpresa a curiosare nel suo studio. «Sì,
è che… ero con Edoardo quando è stato
male. È stato brutto» mormorò.
«Non ho mai visto nessuno così.»
«Mi
dispiace. Queste
crisi stanno diventando più frequenti.»
Si avviarono
insieme
nel cortile, camminando lentamente e senza una meta precisa. Un paio di
grosse
api gli svolazzarono intorno per un po’, ronzando, prima di
dirigersi verso i
fiori in una delle aiuole. Vittoria inspirò l’aria
calda e profumata e si sentì
bene, rilassata e serena come raramente le capitava quando era al
baglio.
«Sai»
disse Enrico
all’improvviso, «quando ho una brutta giornata di
solito faccio due cose:
prendo la barca e vado a nuotare al largo oppure vado da
Calogero.» Sollevò il
polso sinistro e gettò un’occhiata
all’orologio luccicante sotto il sole.
«Considerando l’ora, direi che è meglio
optare per Calogero.»
«Chi
è Calogero?»
Enrico sorrise
in quel
suo modo discreto e chinò la testa, come per nascondere la
sua espressione
prima che lei potesse leggervi la risposta. «Lo
vedrai.»
«Ma
tu… non vai più dai
tuoi amici? L’Associazione Vini Siciliani?»
«Un’altra
volta.»
Vittoria
inarcò le
sopracciglia. «L’incontro è
saltato?»
Il sorriso di
Enrico si
allargò. «Qualcosa del genere. Andiamo.»
NOTE.
1. Piccolina.
2.
Mobile antico in uso nel
Settecento e nell’Ottocento, composto da cassetti, nicchie e
un piano
ribaltabile.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 16 *** Capitolo 15. Un affare complicato ***
CAPITOLO 15
UN AFFARE
COMPLICATO
Sicilia,
Isola di Santo Stefano
Luglio 2015
Calogero si rivelò
essere un ristorante sulla spiaggia. Da un lato affacciava sulla
litoranea che
costeggiava il mare e serpeggiava intorno all’isola
abbracciandone l’intero
perimetro, dall’altro su una breve striscia di sabbia e
sassi. Era l’unica
spiaggia di Santo Stefano che Vittoria aveva visto fino ad allora che
non fosse
completamente rocciosa. Il ristorante era una struttura di legno bassa,
su un
solo piano, dipinta di un giallo e un azzurro allegri e intensi. Dava
l’impressione di essere un posto semplice, ma quella
vicinanza al mare lo
rendeva spettacolare. Dalla strada Enrico condusse la sua BMW nel
parcheggio
adiacente al ristorante, sotto una tettoia che proteggeva le auto dal
sole
cocente.
«È il miglior
ristorante di pesce di tutta l’isola. E anche fuori da Santo
Stefano. Ho
provato tanti posti, ma Calogero unico è»
spiegò Enrico. Spense piano il
motore.
Vittoria aprì la
portiera, un po’ esitante. Un ristorante di pesce? E adesso
cosa avrebbe dovuto
fare? Valutò in fretta le sue possibilità e
scoprì che ce n’era soltanto una.
Non voleva rovinare quel pranzo per niente al mondo, ma non poteva
neanche nascondere
il cibo nel tovagliolo e gettarlo via. Si morse il labbro per un attimo.
«Wow. È molto bello.
Non vedo l’ora di assaggiare il suo…
menù vegetariano.» Forse avrebbe potuto
trovare un modo migliore per dirlo, ma ormai era fatta.
Enrico si bloccò mentre
scendeva dalla macchina, metà dentro e metà
fuori, una mano ancora sul volante
e l’altra sulla portiera spalancata. La fissò. Non
sembrava arrabbiato o
seccato. La sua espressione, mezza nascosta dagli immancabili Rayban,
era
difficile da leggere. Vittoria gli fece un sorriso tenue di scuse e
intanto
desiderava che l’asfalto bollente del parcheggio si aprisse
all’istante e la
inghiottisse. Aveva rovinato tutto. Era andata così bene
fino a quel momento.
Lui ci mise qualche istante a riordinare le idee e quando
parlò la sua voce
suonò incolore.
«Avrei dovuto
chiedertelo.»
Lei fece un gesto
noncurante con la mano. «Non c’è
problema. Avranno un’insalata, no?»
«Hanno un menù
vegetariano» rispose lo zio, chiudendo la portiera. Si
incamminarono verso
l’ingresso. «Calogero è un
tradizionalista, per quanto riguarda la cucina. È
stato suo nonno, un altro Calogero, a creare questo posto. Ma si
è adeguato ai
tempi.» Parlava a testa bassa, senza incrociare lo sguardo di
Vittoria. Lei si
chiese se ci fosse rimasto così male. Non le sembrava tanto
grave, eppure era
cambiato qualcosa nell’aria, tra di loro. «Da
quanto sei vegetariana?» le
domandò lui all’improvviso, dopo una pausa.
«Da quando avevo nove
anni e uno dei miei insegnanti ha fatto vedere alla classe un video
sugli
allevamenti di animali intensivi» spiegò Vittoria,
mentre salivano due gradini
e varcavano l’ingresso del ristorante. Sulla porta a due
battenti di legno
bianco stazionava l’insegna “Da
Calogero”, una scritta gialla su sfondo
azzurro. Più avanti un’altra porta, a vetri
smerigliati, dava accesso alla
sala.
Enrico contorse il viso
in una smorfia. «Non mi sembra una grande idea.»
«Non lo è sembrata
neanche a molti genitori» fu il neutro commento di Vittoria.
Dopo aver visto il
documentario, non aveva dormito per settimane, tormentata dalle
immagini
sanguinarie e violente. Ebbe la sensazione che lo zio stesse per
scoppiare a
ridere, poi qualcuno si avvicinò a passo svelto.
«Dottor Falconeri, qua
siete! Che piacere! Buongiorno!»
Era un uomo tra i
sessanta e i settanta, che aveva parlato con un accento siciliano anche
più
pesante di quello di Edoardo, come se masticasse e storcesse le parole
nella
bocca. Era basso, con la pancia prominente sotto il grembiule bianco
legato in
vita e un’espressione gioviale negli occhi scuri, sotto un
ciuffo di capelli
sale e pepe.
Enrico gli sorrise.
«Buongiorno, Calogero. Come stai?»
«Non c’è male, dottore,
non c’è male! Un po’ di sticchiara,¹
ma non ci possiamo lamentare.»
Enrico ebbe un momento
di esitazione, poi accennò con la testa verso Vittoria.
«Ti presento mia
nipote, Vittoria.»
Il vecchio fece una
faccia buffa, come se avesse mancato un gradino scendendo le scale e
all’improvviso si fosse trovato il vuoto sotto i piedi.
Sarebbe stato meno
sorpreso se Enrico avesse detto che era un’aliena appena
arrivata da Marte.
Vittoria represse una mezza risata, abbassando lo sguardo, ma al tempo
stesso
un velo di fredda inquietudine le sfiorò la schiena. La sua
famiglia era un
affare complicato anche per gli altri e lei non ne sapeva praticamente
nulla.
Si domandò se andare al baglio da sola, parlare con lo zio,
essere qui da sola
con lui non fosse tutto un gigantesco errore.
«Un onore è, signorina»
la salutò Calogero, riprendendosi in fretta. Le sorrise e
accennò un inchino
scherzoso. «Il solito tavolo, dottore?»
«Sì, grazie.»
«Accomodatevi, prego.»
Li guidò attraverso la
sala, piena di tavoli di legno bianco rivestiti da tovaglie di carta
svolazzanti bianche e blu, quasi tutti occupati. Le pareti erano
decorate da
disegni a colori vivaci e, guardando meglio, Vittoria capì
che rappresentano la
vita sottomarina: coralli, alghe ondeggianti, pesci di varie forme,
colori e
dimensioni e perfino una grotta debolmente illuminata da un fascio di
luce che
proveniva dalla superficie dell’acqua. Erano bellissimi. Si
sarebbe fermata
volentieri a osservarli meglio, ma Calogero si muoveva con una
rapidità e
un’agilità sorprendenti, schivando i tavoli e i
camerieri di passaggio come in
una corsa a ostacoli, e fu costretta ad affrettarsi. Varcarono una
porta
finestra e uscirono su una terrazza che affacciava direttamente sulla
spiaggia.
Era coperta da una tettoia e circondata da una bassa ringhiera gialla
nella
quale si apriva un cancelletto. Da lì, dopo pochi gradini,
si scendeva sulla
sabbia. La distesa di mare e cielo davanti a loro mozzava il fiato.
Calogero li
scortò a un tavolo per due in un angolo piacevolmente
ventilato. Sollevò i bicchieri
messi a rovescio sulla tovaglia con un unico movimento fluido.
«Vi raggiungo subito»
disse, prima di allontanarsi con la stessa velocità.
Vittoria sedette
lentamente, senza smettere di guardarsi intorno. «Che
posto» mormorò, più a se
stessa che allo zio. Le venne in mente lo struggente romanticismo che
quella
terrazza avrebbe avuto al tramonto, con il suono dolce delle onde, il
profumo
di salsedine e la brezza carezzevole sul volto.
«Sono contento che ti
piaccia» rispose Enrico.
Vittoria fu colpita
all’improvviso da un’idea.
«Allora… Tu… Vieni qui con la tua
fidanzata?» chiese
e subito dopo fu tentata di insultarsi da sola per quella goffaggine.
Non
sapeva nulla della vita privata di Enrico. Non si era mai azzardata a
fare
domande ai suoi genitori su un argomento così bizzarro, ma
la conversazione di
quella mattina con il nonno e quell’idea assurda che le aveva
suggerito (Quando
due fratelli si innamorano della stessa donna…) le
aveva fatto venire
voglia di indagare. Lui si sarebbe offeso per una tale mancanza di
discrezione?
In fondo si conoscevano a stento, lei non aveva alcun diritto di
impicciarsi.
Sentì le guance andare a fuoco e fissò la
tovaglia, cercando di apparire
normale.
Enrico si era sollevato
gli occhiali da sole sulla testa, finalmente. La guardò con
aria sorpresa, ma
non sembrava irritato. «Fidanzata? Chi te lo ha
detto?» Prese il menù, che era
sul tavolo in mezzo a loro, e glielo porse con uno dei suoi soliti
gesti
misurati. Sembrava sempre che non volesse occupare più
spazio del necessario o
attirare l’attenzione. «Tieni. A me non serve, lo
conosco a memoria.»
Vittoria afferrò il
cartoncino e lo fissò senza vedere niente.
«Ehm… Non lo so, devo averlo
sentito… Forse da qualcuno al baglio»
balbettò. Meglio restare sul generico.
«Non c’è nessuna
fidanzata, al momento. E comunque, di solito vengo qui da
solo.»
«Ah.» Vittoria strinse
il menù tra le dita. Per un folle attimo pensò di
chiedergli spiegazioni su
quello che le aveva detto Edoardo. Immaginò
l’espressione che avrebbe visto sul
viso di Enrico, le balbettanti spiegazioni che lei avrebbe cercato di
tirare
fuori, l’imbarazzo che si sarebbe aperto tra loro come una
voragine e avrebbe
inghiottito qualsiasi possibilità di stabilire un contatto,
creare un legame,
ricucire il filo spezzato. Non avrebbe fatto altro che danneggiare
irrimediabilmente la situazione. Era troppo presto. Meglio aspettare e
forse,
prima o poi, l’occasione sarebbe arrivata. Batté
precipitosamente in ritirata.
«Scusami, io… Non sono affari miei.»
La postura di Enrico
era rigida, ma le sorrise e Vittoria capì che non era
infastidito. «Non c’è
problema. Non ti preoccupare.»
Furono salvati da
Calogero, che scelse il momento perfetto per raggiungerli brandendo un
piccolo
blocco per appunti e una matita. A quanto pareva, non si era ancora
adeguato ai
tempi abbastanza da prendere nota delle ordinazioni su un tablet.
«Pronti siete? Se
permettete, oggi consiglio i calamari ripieni. Li fece mia
moglie» proclamò con
orgoglio. Vittoria gli sorrise.
«Lascio fare a te. Mi
fido» rispose Enrico e il vecchio quasi si gonfiò
come un palloncino pronto a
balzare in volo.
«Benissimo, dottore!
Anche per voi, signorina? Vi garantisco che sono talmente freschi che
fanno
svegliare pure i morti, con rispetto parlando.»
Il sorriso di Vittoria
si trasformò in una mezza risata nervosa mentre lanciava
un’occhiata divertita
a Enrico. «Meno male che sono viva, allora, perché
dovrò accontentarmi del menù
vegetariano.»
Calogero ci rimase un
po’ male. Si voltò verso Enrico, in cerca di
conferma, e lo zio alzò appena le
spalle, la bocca distesa in un sorriso. Anche stavolta il vecchio si
riprese
immediatamente.
«Non vi preoccupate,
signorina, la nostra pasta alla norma è la migliore di tutta
la Sicilia.»
«Confermo» disse Enrico
a bassa voce, l’ombra del sorriso ancora sul volto.
Allungò la mano e strinse
delicatamente lo stelo del bicchiere da vino tra le dita.
«L’ho provata.»
Il proprietario del
ristorante chinò leggermente la testa, raggiante.
«È un onore, dottore. Vi
faccio anche una bella caponatina che non vi farà
rimpiangere i calamari,
promesso, signorina.» Calogero prese nota delle ordinazioni e
si allontanò dopo
aver concluso con deferenza: «Vi servo subito.»
Vittoria lo seguì con
gli occhi. Al tavolo scese un breve silenzio e stava già
pensando a come
romperlo prima che annegassero entrambi nell’imbarazzo,
quando lo zio parlò,
cogliendola di sorpresa.
«Sei sveglia.»
Si voltò e si accorse
che la stava osservando. Ci mise un attimo a capire che era un
complimento.
«Grazie» mormorò con un sorriso incerto.
Enrico si mosse sulla
sedia, cambiando posizione. «Ti starai annoiando un bel
po’, qui. Tutto il
giorno al baglio, senza nessuno della tua età, sempre a
suonare il pianoforte.»
«Io vivo per il
pianoforte.»
Arrivò una ragazza
minuta e sorridente con una brocca d’acqua e una bottiglia di
Falconeri bianco.
Restarono in silenzio mentre lei riempiva i bicchieri.
«Ti piace così tanto?»
continuò Enrico, dopo che la cameriera se ne fu andata.
Vittoria bevve un sorso
d’acqua (a lei la cameriera non aveva versato il vino) e
annuì. «Ho iniziato a
cinque anni. Mamma e papà hanno capito che non scherzavo
vedendo che suonavo i
mobili di casa come se avessero una tastiera.» Enrico
accennò un sorriso tirato.
«A nove anni sono entrata al conservatorio. Non ho mai smesso
di suonare,
neanche a Londra.»
Lui inarcò le
sopracciglia. «Londra?» ripeté, la
sorpresa evidente sul suo viso.
«Sì… Due anni fa siamo
stati a Londra per sei mesi, non lo sapevi?» chiese Vittoria
di getto e subito
dopo si rese conto che era una domanda sciocca. Era molto improbabile
che
Enrico sapesse qualcosa di loro al di là delle informazioni
più basilari. La
rispettiva ignoranza sulle loro esistenze sembrava l’unico
legame che li unisse
al momento. Lui non mostrò alcuna reazione particolare,
limitandosi a scuotere
la testa. Vittoria gli raccontò brevemente di Londra. Mentre
parlava, aveva la
sensazione che lo zio fosse distratto: i suoi occhi azzurri fissavano
il mare,
ma sembravano vuoti, spenti, come se non vedessero nulla. Tuttavia,
quando finì
di spiegare Enrico spostò lo sguardo su di lei e Vittoria
capì che invece aveva
ascoltato ogni singola parola.
«Deve essere stato
difficile per te. Andare a Londra, voglio dire. Insomma, anche se solo
per sei
mesi, mi sembra un grosso cambiamento per una ragazzina.»
Aveva parlato con una
strana gravità, come se discutessero di questioni di enorme
importanza.
Vittoria rifletté per
qualche secondo e intanto mandò giù un sorso
d’acqua. Le domande dello zio non
le davano fastidio: aveva modi delicati, anche se forse un
po’ freddi, che
sembravano attenuare qualsiasi cosa dicesse o facesse. Tuttavia, non
era sicura
di aver voglia di affrontare l’argomento a cui si stavano
avvicinando. Era una
cosa molto personale, che riguardava strettamente lei e i suoi
genitori,
soltanto loro tre, come era sempre stato. Probabilmente Stefano e
Claudia non
avrebbero voluto che lei ne parlasse con Enrico, dal momento che non
c’era più
alcuna confidenza tra loro, eppure neanche l’idea di
mentirgli le piaceva. Se
davvero voleva tentare di costruire un ponte tra loro non avrebbe fatto
meglio
a essere onesta? Deglutì nervosamente.
«Be’.... Mamma voleva andare
con papà, ma ovviamente non potevano lasciarmi a Milano da
sola» rispose piano,
ancora incerta su cosa fare. Decise di lasciarsi guidare
dall’istinto del
momento e di smettere di pensare. «E poi…
è capitato in un momento in cui…
forse ne avevamo bisogno.»
Esitò un attimo ed era
sul punto di raccontare tutto, ma poi, all’improvviso,
qualcosa nell’atmosfera
e nell’espressione di Enrico cambiò. Si
raddrizzò sulla sedia, distanziandosi
appena da Vittoria, prese il suo bicchiere di vino e tornò a
guardare verso il
mare. Si era allontanato di nuovo.
«Che cosa ti piacerebbe
fare da grande? La concertista?» chiese in tono leggero, dopo
una pausa. Quel
repentino cambio di argomento la stupì. Mentre lo osservava,
capì in qualche
modo che Enrico doveva aver percepito il suo disagio e aveva smesso di
fare
domande per non metterla in difficoltà. Un caldo senso di
gratitudine le riempì
il cuore. Sorrise.
«Magari. Non so se ne
sarò in grado. Mi piacerebbe anche solo insegnare
musica» rispose Vittoria,
quasi senza badare a ciò che diceva. Era ancora impegnata a
riflettere sul
comportamento gentile dello zio. Prima che potesse aggiungere altro,
Calogero
si avvicinò al tavolo con i loro piatti e per qualche minuto
fu troppo
impegnata con la sua pasta alla norma, che emanava un profumo
celestiale, per
continuare la conversazione. Dopo il secondo boccone, decise che
Calogero
poteva rivaleggiare senza problemi con il suo ristorante preferito del
momento
a Milano, dove aveva festeggiato il suo ultimo compleanno con le
amiche. Mandò
giù, si pulì la bocca con il tovagliolo e disse
con voce solenne: «Ho fatto
decisamente bene a venire in Sicilia.»
Enrico aveva piluccato
un boccone dal suo piatto con scarso entusiasmo, come se non avesse
alcuna
voglia di mangiare. «Altrimenti ti saresti persa
Calogero» mormorò, leggermente
divertito.
«Altrimenti non avrei
conosciuto te. E Edoardo.»
Enrico tornò serio
lentamente. Bevve un altro sorso di vino, abbandonano i calamari
ripieni che
non aveva quasi toccato, poi riabbassò il calice, ma invece
di metterlo giù lo
agitò piano in senso circolare, osservandolo. Aveva quella
sua espressione accuratamente
neutra che faceva pensare a una spessa passata di vernice bianca su una
parete
colorata, come per nascondere qualcosa. Vittoria pensò per
la prima volta che
forse stava iniziando a conoscerlo.
«Edoardo non è una
persona facile» rispose lo zio a bassa voce.
«No, è vero. Me ne sono
accorta. Però volevo sapere com’era. È
per questo che sono venuta. Non so
niente di voi, non so niente di… E poi
pensavo…» Vittoria abbassò le mani in
grembo e strinse automaticamente tra le dita il tovagliolo di stoffa
azzurro
che aveva disteso sulle gambe. Inspirò. «Speravo
che papà… che tu e lui… che
magari potreste riavvicinarvi» concluse con un filo di voce,
quasi come se
sperasse che le sue parole si disperdessero nell’aria calda
senza arrivare allo
zio. Non era affatto sicura di come lui avrebbe potuto prenderla.
«Con Edoardo
forse è troppo tardi, ormai.» Tenne lo sguardo
fisso sul suo piatto, decorato
con arabeschi bianchi su sfondo azzurro. Non aveva il coraggio di
sbirciare la
reazione di Enrico. Dall’altra parte del tavolo arrivava un
silenzio assoluto.
«Scusa» sbottò. «Magari non ti
va di parlarne.»
«Perché pensi questo?»
le chiese lui, tranquillo.
Lei non poté più
resistere e lo guardò. Enrico continuava a muovere la
forchetta nel piatto
quasi intatto, lo sguardo assente. «Papà non ne
parla. Mai. E neanche mamma. È
che io… Non so com’è avere un fratello,
ma non credo che tutta questa
situazione tra voi sia giusta» disse, quasi senza prendere
fiato, e la facilità
con cui la verità era scivolata fuori la sorprese.
Nonostante la difficoltà
dell’argomento e il fatto che fossero due estranei, parlare
con lui le sembrava
stranamente semplice, forse per via del suo modo di fare gentile e
discreto.
Qualsiasi disagio provasse, svaniva pian piano quando lo fissava negli
occhi.
Si sentiva in qualche modo al sicuro, a differenza dei momenti che
passava con
il nonno, nei quali aveva sempre la sensazione di camminare sul filo
del
rasoio.
«Forse lo avrai, prima
o poi. Un fratello o una sorella.»
Quel commento la
sconcertò per qualche istante. Ecco che lo zio si
allontanava di nuovo, come se
cercasse di evitare la curva pericolosa di una strada. Vittoria
abbassò di
nuovo lo sguardo sul suo piatto.
«È molto difficile che
succeda.» Prese un respiro profondo e parlò di
getto, con la sensazione di
lasciar andare un peso. «Mamma ha avuto due aborti
spontanei.»
Gli occhi di lui
saettarono in direzione di Vittoria. «Davvero?»
chiese, la voce bassissima.
Vittoria annuì. Sfiorò
il suo bicchiere d’acqua, seguendone il bordo con il dito.
«La prima volta che
è successo avevo sette anni. È stata dura, ma poi
si è ripresa. Dopo un po’ ci
hanno riprovato, ma è andata male di nuovo. Ed è
stato peggio della prima
volta. Un anno dopo, più o meno, papà
è stato assunto alla Prescott e ha
iniziato a parlare dei sei mesi che avrebbe dovuto passare a Londra.
È anche
per questo che io e mamma siamo andate con lui. Avevamo bisogno
di… non so…
qualcosa» concluse, incapace di definire con chiarezza
l’atmosfera che riempiva
la loro casa in quel periodo, lo sguardo triste e assente di sua madre,
la
frustrazione nascosta di suo padre, il senso di vuoto che era rimasto
addosso a
tutti e tre e sembrava non dover passare mai.
All’inizio Vittoria
aveva creduto che i suoi genitori ci avrebbero riprovato una terza
volta,
perché desideravano un altro figlio più di
qualsiasi altra cosa, ma poi, con il
tempo, aveva capito che probabilmente non sarebbe mai successo e
insieme al
dispiacere non aveva potuto fare a meno di avvertire anche un
po’ di colpevole
sollievo. Un terzo fallimento sarebbe stato così tremendo
che lei non poteva
neppure immaginarlo.
«Londra è arrivata al
momento giusto» aggiunse poi con un’alzata di
spalle. «Ha fatto bene a tutti.»
Enrico rimase in
silenzio per un po’, gli occhi agganciati a quelli di
Vittoria. «Mi dispiace»
mormorò. «Non lo sapevo.»
«Magari era destino che
andasse così. E forse era destino anche che tu e
papà vi allontanaste.»
Un sorriso affilato
tagliò in due il volto dello zio. «Non ne ho idea,
Vittoria. Sono l’ultima
persona al mondo che può esprimere pareri sul senso della
vita e cose del
genere. Io non so niente.»
Vittoria lo fissò, un
po’ interdetta dall’amarezza che sentiva nella sua
voce. Rimase in silenzio per
qualche istante. «Be’, io ne so meno di
te» mormorò, incerta. In quel momento
il telefono nella sua tasca vibrò. Lo tirò fuori,
sbirciò il display e sentì un
tuffo al cuore: era suo padre.
«Scusami, devo
rispondere» borbottò. Schizzò in piedi,
passò in fretta tra i tavoli schivando
un cameriere di passaggio carico di piatti sporchi. Raggiunse il
cancelletto
che dava sulla spiaggia. Sta’ calma. Non rovinare
tutto, si disse
nervosamente, augurandosi di essere abbastanza lontano
perché Enrico non la
sentisse. Inspirò mentre scorreva il dito sul display, poi
si portò il telefono
all’orecchio.
«Papà?»
«Amore, ciao!» Dai
rumori in sottofondo, Vittoria capì che suo padre doveva
essere in strada.
«Tutto bene? Cosa c’è che non
va?»
Vittoria chiuse un
attimo gli occhi. Se n’era accorto in due secondi netti.
Avevano appena battuto
un record. A volte apprezzava che suo padre fosse così
attento da riuscire a
capire cosa le passava per la testa semplicemente con uno sguardo o dal
suo
tono di voce, come in quel momento: le risparmiava qualche fastidiosa
spiegazione. Altre volte lo detestava, perché la faceva
sentire come se non
esistesse un posto in cui avrebbe potuto nascondersi.
«Niente, perché?»
«Hai una voce strana.»
«No, è tutto ok»
rispose Vittoria, sforzandosi di accennare un sorriso. Era rivolta
verso il
mare e sentiva lo sguardo di Enrico sulla schiena, ma non si
girò. Era sicura
che avesse capito che era al telefono con suo padre. «Sono in
spiaggia, alla
Cala Saracena.»
«Brava, piccola. E
mamma dov’è?» disse Stefano, ora
leggermente distratto. Forse stava
attraversando la strada, perché il suono di clacson in
sottofondo si era fatto
più intenso.
«A casa con Rosa.
Stanno dipingendo una stanza o qualcosa del genere.»
Le parve di sentirlo
sorridere. Lo immaginò mentre camminava per le strade
affollate di milanesi e
di turisti, con il solito passo svelto e sicuro che dava
l’impressione di poter
superare qualsiasi ostacolo, addosso un completo impeccabile nonostante
il
caldo asfissiante, il solito zainetto di Armani sulla spalla e il
cellulare
all’orecchio, l’espressione costantemente
concentrata, come se non spegnesse
mai il cervello. Era lontanissimo da lei e da quella tranquilla
terrazza sulla
spiaggia.
«Sempre la stessa,
mamma. Sai, ho pranzato da SvelToast.»
«Ah, sì, quello che fa
un toast in tre minuti» esclamò Vittoria. Era un
locale minuscolo, con più
clienti di quanti potesse contenerne e un grosso cronometro sul bancone
che
misurava il tempo. Allo scadere esatto dei tre minuti previsti, e a
volte anche
un po’ prima, il tizio dietro il bancone ci batteva una mano
sopra e con
l’altra porgeva al cliente di turno un toast fragrante e
delizioso. Lo avevano
scoperto per caso durante un giro di shopping natalizio ed era
diventato subito
uno dei loro posti preferiti.
«Proprio lui. Ho visto
che hanno ancora quel toast che ti piace tanto, quello con formaggio e
olio al
tartufo, però il mese prossimo cambia tutto il
menù. Dobbiamo tornarci prima
che lo tolgano.»
Vittoria emise un verso
di disappunto, ma ascoltava suo padre solo a metà. Per il
resto continuava a
pensare a Enrico alle sue spalle e batteva un piede per terra, ansiosa
di
chiudere la telefonata il prima possibile. Temeva che più
avesse parlato, più sarebbe
aumentato il rischio di farsi scoprire in qualche modo.
Visualizzò la faccia
che avrebbe fatto Stefano se avesse saputo dov’era lei in
quel momento e con
chi e al pensiero provò una piccola ondata di nausea.
«Ah, davvero? Peccato…
Sicuro, ci torniamo.»
Ci fu una breve pausa,
poi, dato che Vittoria non aggiungeva altro, suo padre riprese a
parlare.
«Spero che non ti annoierai troppo in questi
giorni.»
Lei scosse la testa,
senza riuscire a trattenere un sorriso che per fortuna lui non poteva
vedere.
«No, tranquillo. Mi sono trovata qualcosa da fare.»
«Ottimo» commentò
Stefano e questa volta Vittoria fu sicura che l’avesse
ascoltata a malapena.
«Devo andare. Ci sentiamo stasera.»
Il sorriso di Vittoria
si allargò per il sollievo. «Ok. Ciao,
papà, buona giornata.»
«Ciao, piccola.»
Chiuse la chiamata,
quasi euforica. Ce l’aveva fatta. Il suo segreto era al
sicuro, almeno per ora.
Era piuttosto sorpresa di essersela cavata così bene. Di
solito non raccontava
bugie ai suoi genitori, in parte perché le sue richieste
erano quasi sempre
ragionevoli e non riceveva mai un diniego, in parte perché
Claudia e Stefano
preferivano sempre parlare con lei e trovare un punto
d’incontro piuttosto che
scegliere la strada autoritaria. Solo quando faceva domande su Santo
Stefano e
sul loro passato tiravano fuori quella irritante, irragionevole
fermezza. Si
sentiva un po’ in colpa per avergli mentito, ma in fondo non
le sembrava una
bugia così grave: non faceva nulla di pericoloso o illegale,
stava
semplicemente pranzando con lo zio. E i suoi genitori non giudicavano
lucidamente quella faccenda, erano troppo prevenuti.
Si girò e tornò al
tavolo con passo svelto ed energico. Sorrise a Enrico mentre si sedeva
di nuovo
al suo posto. «Scusa» esclamò, allegra,
ma poi incrociò lo sguardo di lui e il
sorriso si congelò. Capì all’istante,
seppure con una certa confusione, che era
cambiato qualcosa.
«Tranquilla» rispose
Enrico. Incrociò le mani di fronte a sé,
all’altezza del mento, e la fissò.
«Cosa vorresti sapere?»
NOTE.
1. Vago malessere
causato da un abbassamento della pressione sanguigna.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=4073376
|