Il mondo segreto

di Cathy Holland
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** PARTE PRIMA. Capitolo 1. Il mondo segreto ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. Il premio ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3. La spina ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4. Quello che non è tuo ***
Capitolo 6: *** PARTE SECONDA. Capitolo 5. Una pessima idea ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6. Il giocatore ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7. Fantasmi ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8. Il filo spezzato ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9. Un'anima in due corpi ***
Capitolo 11: *** PARTE TERZA. Capitolo 10. Lo specchio ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11. Sete ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12. Quannu la vita mia finisci e mori ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13. Il richiamo ***
Capitolo 15: *** PARTE QUARTA. Capitolo 14. Nato con loro ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15. Un affare complicato ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

 

Milano
Maggio 2015 

Stefano mandò giù un sorso di caffè dal bicchierino di plastica monouso, mentre seguiva con lo sguardo i numeri luminosi che indicavano il piano, sul display nella parete, a mano a mano che l’ascensore saliva. A destra e a sinistra le pareti erano di un vetro immacolato, tanto che avrebbe potuto usarle come uno specchio e darsi una controllata, se non fosse già stato certo di non averne bisogno. Alle sue spalle, una terza parete trasparente mostrava il parcheggio alberato ai piedi dell’edificio, in basso, gli altri due grattacieli che lo affiancavano e sullo sfondo Milano, avvolta in una lieve, morbida foschia.
A Stefano, però, il panorama interessava poco, innanzitutto perché lavorava in quel grattacielo da due anni e ormai la vista aveva smesso di stupirlo, ma anche perché tendeva a evitare le distrazioni. La sua mente girava in continuazione, simile a una di quelle ruote per i porcellini d’India, come diceva a volte sua moglie per prenderlo in giro. Aveva delineato una scaletta precisa della giornata già quella mattina presto, durante il footing al parco, come ogni giorno alle sei. In verità, nel suo lavoro non sempre scorreva tutto liscio e regolare. Anzi, quasi mai. Gli imprevisti si verificavano praticamente ogni giorno e fare programmi era molto difficile, ma Stefano calcolava anche quelli e raramente lo coglievano di sorpresa. Se non ne fosse stato capace, dopotutto, non avrebbe mai lavorato in quel grattacielo.
L’ascensore iniziò a rallentare piano e si fermò con un morbido strattone. Stefano si sistemò meglio sulla spalla lo zainetto nero di Armani e abbassò per un attimo lo sguardo sui gemelli d’argento smaltati d’azzurro. Erano abbinati alla camicia azzurro chiaro e davano un tocco di luce al completo blu scuro che indossava. Si udì un suono lieve, poi una fredda voce femminile annunciò: «Settantacinquesimo piano». La porta automatica dell’ascensore si aprì, scivolando dolcemente e silenziosamente, su uno spazio già occupato da diverse persone in attesa. Sebbene fossero appena le otto del mattino, lì dentro erano già tutti in piena attività. Sulla destra c’era un altro ascensore.
La maggior parte degli uomini e delle donne, tutti in completo elegante, salutò Stefano con cordialità, qualcuno con un semplice «Ciao, Stefano», altri con un più formale «Buongiorno, dottor Ruggero» o un cenno del capo. Lui rispose a tutti con un sorriso e batté con la mano sulla spalla di un collega mentre fendeva la piccola folla con passo sicuro e rapido. Passò accanto a una signora sulla quarantina in tailleur pantalone verde scuro che nel vederselo davanti spalancò gli occhi, poi sollevò una mano per sistemarsi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e si girò un po’, cercando di seguirlo con lo sguardo senza attirare l’attenzione. Stefano se ne accorse a malapena.
Attraversò il pianerottolo, dalle pareti trasparenti come quelle dell’ascensore e il pavimento di marmo candido, e imboccò il corridoio di fronte a sé. Sbucò in un vasto open space affollato di persone che parlavano e camminavano rapidamente, invaso da un chiacchiericcio simile a un rombo costante, dal suono di telefoni che squillavano e dal ronzio di stampanti in funzione. Lo spazio era suddiviso in cubicoli dalle pareti di plexiglass, ciascuno dotato di una scrivania e di un computer, che a Stefano facevano sempre venire in mente le cellette di un alveare fremente di attività. In un angolo due donne e un uomo discutevano con voce sommessa, passandosi una cartellina con dei documenti pieni di numeri. Poco più avanti un uomo sbraitava contro qualcuno nelle cuffie wireless e senza interrompere la tirata fece un gesto di saluto verso Stefano che gli passava accanto.
Al di là dell’open space, un enorme tavolo ovale accoglieva venti postazioni computer, ciascuna occupata da un impiegato con grosse cuffie sulla testa e un’espressione assorta e concentrata. Televisori ultrapiatti fissati alle pareti trasmettevano senza interruzione notiziari economici o mostravano l’andamento delle Borse e ogni tanto, in mezzo ai telefoni che squillavano e ai discorsi che si intrecciavano, un’esclamazione si levava più netta al di sopra del brusio, quasi subito coperta da un’altra.
«Vendiamo subito!»
«Le azioni stanno salendo!»
«Siamo a – 0,2!»
La sala dava su corridoi e uffici, scanditi dalle solite pareti trasparenti al di là delle quali si scorgevano stanze arredate in modo elegante ed essenziale e altre persone indaffarate e ben vestite. La quarta parete, a sinistra, era interamente di vetro e affacciava sull’esterno, offrendo una vista magnifica della città e del cielo azzurro. Stefano avanzava con passo spedito, distribuendo cenni di saluto e sorrisi e ringraziando mentalmente l’aria condizionata. Per essere maggio faceva un caldo infernale e lui non lo sopportava.
«Dottor Ruggero, le azioni della Power Corporation stanno salendo!» esclamò un ragazzo biondo in giacca e cravatta di non più di 25 o 26 anni, in stato di visibile agitazione, appena lo vide avvicinarsi. Era seduto a una delle postazioni al centro del lungo tavolo e quando Stefano gli passò accanto si sollevò a metà, fin quasi ad alzarsi, come se avesse voluto afferrarlo e trattenerlo. Poi le cuffie che indossava, attaccate al computer, lo strattonarono di nuovo giù e lui ricadde sulla sedia.
«Carlo, ti ho scritto un’ e-mail… tre minuti fa, mentre salivo dal parcheggio» rispose Stefano, dopo aver lanciato una breve occhiata allo smartwatch che aveva al polso. «Non hai ancora controllato?»
Il ragazzo lo guardò a bocca aperta per un attimo. Era un neoassunto ed era stato appena colto in fallo e Stefano sapeva bene quanto lui cosa poteva significare in un posto come la sede italiana della Prescott Investment Bank, uno degli istituti bancari anglo-americani più importanti del mondo. Bevve l’ultimo sorso di caffè rimasto nel monouso, studiando il ragazzo con una leggera curiosità e un mezzo sorriso a stento trattenuto.
«S-sì, dotto Ruggero… Certo… Controllo subito… Mi scusi, dottore» balbettò Carlo subito prima di gettarsi sulla tastiera del computer e digitare furiosamente qualcosa.
Stefano gli diede una pacca sulla spalla. «Non preoccuparti.»
Mentre si allontanava colse una parolaccia a mezza voce dalla postazione di Carlo e il suo sorriso si allargò. Superò il tavolo ovale e svoltò a destra. Entrò in un ambiente decisamente più tranquillo, una stanza circolare occupata da una grande scrivania di vetro e acciaio sulla sinistra, un divanetto di pelle nera a due posti sulla destra e una pianta dall’aspetto ben curato in un angolo. Il plexiglass, però, era ovunque e gli dava una visuale perfetta dell’agitazione frenetica che regnava dall’altra parte. “L’acquario”. Così una volta aveva sentito definire quel posto da una stagista burlona e non aveva potuto fare a meno di convenire con lei.
Una giovane donna mora era seduta dietro la scrivania, ma all’arrivo di Stefano si alzò. Sulla giacca del completo beige che indossava una targhetta recitava “Sara Landi, Back Office”.
«Buongiorno, dottore» esclamò con un tono squillante e un gran sorriso.
Stefano le rivolse un cenno con la testa. «Buongiorno, Sara. Tutto bene il week-end?»
«Bene, dottore, spero anche il suo. Com’era Il lago dei cigni
Stefano fece un mezzo sorriso mentre tirava fuori il tablet dalla tasca e gettava uno sguardo al display. Non era sorpreso che la segretaria se ne ricordasse: era stata lei a prenotare per suo conto tre biglietti alla Scala, in platea, mesi prima.
«Troppo lungo, ma era uno dei regali di compleanno per mia figlia. Ci teneva molto» disse semplicemente, come se questo sistemasse la questione. «E poi le fa bene distrarsi in questo periodo, è già in ansia per il saggio di fine anno.»
«Ma mancano ancora un paio di settimane, se ricordo bene.»
«Sì, ma sai com’è fatta. Quei dati che ti avevo chiesto sono già pronti? Devo capire cosa sta succedendo alla Power Corporation e cosa ci conviene fare» continuò, senza smettere di guardare il tablet. Si sentiva addosso lo sguardo fisso di Sara e sapeva che stava facendo un sorriso che lui conosceva bene, quasi un invito muto e al tempo stesso una vaga presa in giro, perché lui non lo coglieva mai, quell’invito. Era stato così fin dal primo giorno di lavoro di Sara e fin dal primo giorno Stefano le aveva fatto capire, senza parole, di non essere interessato. E quando lei iniziava a guardarlo in quel modo trovava più semplice ignorarla. Nulla avrebbe mai interferito con il suo lavoro o il suo matrimonio.
La ragazza gli passò una cartellina. «Ho stampato tutto, così può prendere appunti velocemente, se vuole» rispose in tono compunto. «Sono arrivate due telefonate stamattina, una da Parigi e una da Bruxelles. Le ricordo anche che alle 9.15 ha un appuntamento telefonico con il CEO della casa madre di Londra per aggiornarlo sulla riunione di venerdì.»
«Richiama Bruxelles, per favore, e passamela tra cinque minuti. Parigi ce la sbrighiamo dopo la Power Corporation.»
«Va bene, dottore.»
Sara tornò alla scrivania. La sua voce era scivolata verso una leggera afflizione e mentre Stefano raggiungeva la porta bianca del suo ufficio, su cui campeggiava la targhetta “Dott. Stefano Ruggero, Trading manager”, gli parve di sentire un sospiro.
Si richiuse la porta alle spalle e sbuffò. L’ufficio era deliziosamente fresco, grazie al cielo. L’aria condizionata veniva accesa prima che arrivasse, anche se l’impianto di ultima generazione era silenzioso e non si percepiva neppure il più lieve ronzio. Gettò lo zainetto monospalla sul divano di pelle a destra e attraversò la stanza, percorrendo il pavimento di un bianco abbagliante. Sedette alla scrivania di vetro e acciaio, poggiò il monouso del caffè sul ripiano immacolato e controllò lo smartphone. Rispose in fretta al messaggio di un collega che gli chiedeva di vedersi a pranzo, mentre ascoltava distrattamente il telefono suonare nella stanza accanto e poi la voce cortese e distaccata di Sara che rispondeva. Lasciò lo smartphone, aprì la cartellina che gli aveva consegnato la segretaria e aveva letto solo le prime colonne di una tabella piena di cifre quando il cordless alla sua sinistra iniziò a squillare.
«Bruxelles» bofonchiò, allungando la mano per afferrarlo. A volte aveva qualche dubbio sulla professionalità di Sara, ma non poteva negare che nel suo lavoro fosse precisa ed efficiente come pochi altri. «Ci sono» disse, subito dopo aver portato il cordless all’orecchio.
«Mi scusi, dottore, ma non ho ancora richiamato Bruxelles. È appena arrivata un’altra telefonata.»
«Non sarà ancora Massimo? Mi ha passato materiale vecchio sugli olandesi e si aspetta che tessa le sue lodi con il CEO per questo.»
«No, è un certo dottor Enrico Falconeri. Dice che lei sa chi è e che sicuramente avrebbe voluto essere informato subito della telefonata. Cosa faccio, gliela passo?»
Stefano si era immobilizzato. Aveva la sensazione che il suo cervello, che di solito andava sempre a mille, si fosse svuotato all’improvviso, come un palloncino schiacciato di botto tra due mani. Lo sguardo gli cadde su due fotografie in cornici d’argento di fronte a lui, sulla scrivania. La prima era in bianco e nero: Stefano indossava un completo elegante e abbracciava una giovane donna con un lungo abito e un bouquet di fiori tra le mani. Nella foto il vestito di lei poteva sembrare bianco, ma Stefano sapeva che era di un delicato color champagne. Nell’altra, a colori, una ragazzina era seduta sul parapetto di un canale, a Venezia: aveva i capelli scuri scarmigliati dal vento, gli occhi azzurri e un sorriso allegro, più simile all’inizio di una risata. Era l’autunno precedente. Stefano aveva fatto una battuta subito prima di scattare la foto e lei era stata colta nel momento in cui stava per scoppiare a ridere. Era la foto che lui amava più di qualsiasi altra. L’espressione felice sul viso minuto della ragazza lo faceva sentire bene, sicuro, forte, tutte le volte che la guardava.
«Dottor Ruggero? Le passo la telefonata?»
La voce perplessa della segretaria lo richiamò alla realtà. Si rese conto che stava trattenendo il fiato e che stringeva il cordless nella mano con tanta forza da sentire dolore alle dita. Gli girava la testa. Inspirò bruscamente e allentò la presa sul telefono. Mentre l’aria gli riempiva i polmoni, si sentì meglio. Ce la poteva fare. Lanciò un’occhiata verso la scrivania di Sara, al di là della parete trasparente dello studio: sedeva con le gambe accavallate e lo osservava con le sopracciglia folte incarcate.
«Sì. Va bene, passamela.» Stefano si raddrizzò sulla poltrona girevole di morbida pelle nera e si passò la mano libera sulla cravatta, come per sistemarla, anche se era perfettamente a posto. «Bruxelles slitta tra dieci minuti. Non credo che sarà necessario più tempo.»
«Ok. È sulla uno» rispose semplicemente Sara. Aveva ancora un tono curioso, ma non fece domande.
«Grazie.»
Stefano abbassò il cordless ed esitò, il dito sospeso sul numero 1 della tastiera. Quell’istante si dilatò all’infinito, come un elastico, mentre il martellare del suo cuore gli rimbombava cupo nelle orecchie. I secondi scivolavano via in fretta uno dopo l’altro, come i granelli di sabbia in una clessidra.

Smettila, si disse con rabbia. Non essere codardo. Non sei più un ragazzino. Affrontalo.
Premette il tasto di colpo e riportò il telefono all’orecchio.
«Sì?» La sua voce suonò fredda e distaccata. Ne fu sollevato.
Dall’altra parte ci fu un silenzio lunghissimo o almeno così gli parve, al punto che Stefano pensò – sperò, forse – che nessuno avrebbe risposto.
«Stefano. Quanto tempo.» La voce di Enrico lo raggiunse all’improvviso, come lo schiocco di una frusta.
Stefano fece un sorriso amaro, avvertendo una punta di familiare tristezza. Si appoggiò all’indietro contro lo schienale della poltrona e afferrò una penna stilografica blu con la mano sinistra. Aveva bisogno di stringere qualcosa, in quel momento. «Sei proprio tu. Credevo fosse uno scherzo o qualcosa del genere.»
«Spiacente di deluderti.»
«Dovremmo esserci abituati, io e te, a deluderci a vicenda.»
Enrico rimase zitto per alcuni secondi. «Hai ancora un pessimo senso dell’umorismo» disse, con voca calma, ma tagliente.
Stefano alzò le spalle. «Che vuoi farci? Gli anni passano, i difetti restano… Io sono un caso disperato. Spero che a te vada meglio» rispose, ironico.
«Veniamo al punto, Stefano. Ti ho chiamato per un motivo preciso: Edoardo sta male. Già da qualche anno il suo problema al cuore si è aggravato di nuovo e ha fatto un altro intervento. Due mesi fa gli hanno diagnosticato un cancro al polmone. Ha già metastasi allo stomaco e all’intestino. Il professore che lo segue a Palermo sconsiglia un’operazione. E dice che anche la chemio sarebbe una sofferenza inutile. Abbiamo ascoltato vari specialisti, ma sono tutti più o meno d’accordo. Pare che non ci sia più niente da fare.»
Stefano rimase in silenzio. Si concentrò sull’acquario che occupava quasi tutta la parete sinistra dell’ufficio: piccoli pesci dai colori vivaci nuotavano pigri nell’acqua cristallina che Sara si preoccupava di far pulire scrupolosamente tutte le settimane da un addetto, tra rocce, stelle marine ed alghe fluttuanti. Non sentiva nulla. Provò a scavare a fondo dentro di sé, a scendere più che poteva, in cerca di qualcosa che aveva sepolto tanto tempo prima. Nulla.
«Stefano? Ci sei ancora?»
«Perché me lo stai dicendo?» chiese Stefano per tutta risposta. «È lui che ti ha chiesto di chiamare, vero? Cosa si aspetta da me stavolta?» Non riuscì a trattenere una smorfia simile a un sorriso carico di amarezza. «Anche questo non è cambiato.»
Dall’altra parte arrivò un’ondata di gelo. «Sei il solito stronzo. Non ci parliamo da quindici anni, ti chiamo per dirti che Edoardo sta morendo e tu mi rispondi con queste minchiate.»
«Cosa vuoi che ti dica? Non è davvero mio padre, non lo è mai stato e tu lo sai. Mi dispiace, ma… cosa ti aspetti… Cosa…» Stefano si interruppe. Non riusciva a parlare. Una rabbia sorda gli riempiva lo stomaco, un fiotto caldo e bruciante e saliva a bloccare la gola, ma non era con Enrico che ce l’aveva. Era furioso con se stesso, perché dopo così tanto tempo, dopo tutto quello che era successo, Enrico ed Edoardo riuscivano ancora a fargli questo. A strizzargli il cuore in una morsa di rabbia, amarezza e rimpianto. Non se ne sarebbe mai liberato? Respirò profondamente e si prese qualche secondo per recuperare il controllo. «Non posso fare niente per lui. Mi dispiace, davvero, ma non so cosa dirti. Volevi che lo sapessi? Ok, adesso lo so: Edoardo sta per morire. Informazione ricevuta. Grazie di avermi avvisato.» Aggiunse, non senza lasciar trapelare una leggera ironia. Un’altra breve pausa, un altro respiro profondo. «Se è tutto, ho una telefonata importante che mi aspetta.»
«Vuole vederla» aggiunse Enrico, quasi prima che Stefano terminasse di parlare. «Vuole vedere Vittoria.»
Fu un pugno allo stomaco, forte e micidiale. La rabbia bollente che gli si contorceva nello stomaco si raffreddò di colpo, trasformandosi in ghiaccio paralizzante. Un’ondata di gelida angoscia gli serrò la gola e la mano che rigirava la penna tra le dita si bloccò. Questo cambiava tutto.
«Che cazzo c’entra Vittoria?»
«Vuole conoscerla. È un suo diritto, in fondo» rispose l’altro lentamente, quasi seccato per essere costretto a spiegare qualcosa di ovvio.
«Lei non ha niente a che fare né con lui né con te» risposte Stefano a denti stretti. Quella sensazione di freddo panico era sempre più intensa, gli chiudeva la gola, lo soffocava.
«Ne sei sicuro?» chiese Enrico a bassa voce. Stefano ebbe l’impressione di sentirlo sorridere. «Vittoria è una Falconeri. Puoi anche far finta che non sia così, se lo preferisci, ma il sangue non si cambia.»
«Sei l’ultima persona al mondo che può darmi lezioni su questo.»
«Lo so» rispose Enrico, con un tono basso e carico di tristezza che per un istante strinse dolorosamente il petto di Stefano. I sentimenti di Enrico gli risuonavano dentro, come se fossero i suoi. Come se fossero ancora una cosa sola. «Ma Edoardo sta morendo. Gli avrei detto di no, se avessi potuto, non ti avrei mai chiamato. Non ho dimenticato il nostro accordo, ma sta morendo».
«Ti rendi conto che parli della persona che ha rovinato la tua vita, vero?»
Ci fu una pausa. Poi Enrico riprese a parlare con estrema calma, scandendo lentamente le parole. «Non si tratta di lui, di me… o di te. Anche Vittoria ha il diritto di conoscerlo. Non puoi negarglielo, Stefano, non puoi. Proprio tu, che sai cosa significa essere senza radici.»
Era un colpo basso, accuratamente studiato per ferire, e se Stefano fosse stato più giovane o meno forte o se avesse avuto una vita diversa, se non fosse stato seduto nel suo ufficio elegante in quel momento, ai posti di comando, se non avesse avuto quelle fotografie davanti a sé, forse lo avrebbe spezzato. Invece sentì soltanto un dolore sordo, come una vecchia ferita mal rimarginata che urta contro uno spigolo, ma quasi non se ne accorse. Era completamente preso dal pensiero di cosa fare per impedire che accadesse quello che voleva Edoardo.
«Anche tu sei sempre il solito stronzo» disse alla fine, gelido. Si mosse sulla sedia e fece una pausa, cercando di prendere tempo, di riflettere. «Claudia non dirà mai di sì. È inutile.»
«Claudia» mormorò Enrico, pensieroso. Sospirò. «Non mi hai detto niente di lei. Come sta?»
Stefano strinse convulsamente la stilografica tra le dita. «Nemmeno Claudia ti riguarda. Non più.»
Si aspettava un insulto e invece dall’altra parte ci fu un silenzio così lungo da fargli credere che Enrico avesse riagganciato. Poi sentì un respiro pesante. «Quanta ostilità, Stefano. Non è stato sempre così. Te lo ricordi?»
La sua voce non era più dura, tagliente, provocatoria, suonava solo profondamente triste. Stefano gettò la penna sulla scrivania si passò la mano sul viso chiudendo le palpebre. Di colpo avvertiva un’enorme stanchezza, come se avesse sostenuto una lotta corpo a corpo. E si sentiva uno stupido. Dopotutto, aveva sempre saputo, dentro di sé, che il passato sarebbe tornato, che si era solo illuso di essersene liberato per sempre, che avrebbe dovuto farci i conti. Tutto ciò che sperava era che toccasse soltanto a lui, che nessun altro ne fosse sfiorato. Quella era l’unica cosa che avesse il potere di spezzarlo davvero. Non poteva permettere che accadesse, non doveva accadere. Non per se stesso, ma per lei. Lasciò ricadere la mano e aprì gli occhi. La prima cosa che vide fu la foto della ragazza bruna, sorridente e felice, ma questa volta, a differenza di tutte le altre, guardarla non lo fece sentire affatto meglio. Un’ondata di angoscia gli avvolse il cuore.
«Sì» mormorò. «Sì, me lo ricordo.»

SPAZIO AUTRICE 
Ciao a tutte e tutti, grazie di essere arrivati fino a qui! 
Il mondo segreto è la prima storia originale che ho scritto. Prima mi ero cimentata solo con qualche fanfiction. Ho sempre amato scrivere, per me è praticamente un bisogno fisiologico, e ho iniziato a buttare giù questa storia molti anni fa. Poi l'ho lasciata per un po' di tempo, l'ho ripresa e riscritta quasi da capo. Quando ho pubblicato il prologo ero emozionatissima. 
Il mondo segreto si svolge in più luoghi e su piani temporali diversi. Si compone di sei parti, più un prologo e un epilogo, e all'inizio di ogni parte e di ogni capitolo inserirò sempre i luoghi e l'arco temporale in cui si svolgono gli eventi, per maggiore chiarezza.
Non è certo una storia perfetta, anzi, ma ci ho messo tutta me stessa. Sarei molto felice se oltre a leggerla e (spero) ad apprezzarla vorreste lasciarmi un commento, anche breve, per farmi sapere cosa ne pensate. Accetto con piacere anche le critiche e i suggerimenti, perché ho una gran voglia di migliorare e solo il vostro feedback può darmi una mano. 
Grazie e buona lettura!

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Capitolo 2
*** PARTE PRIMA. Capitolo 1. Il mondo segreto ***


PARTE PRIMA

SICILIA, ISOLA DI SANTO STEFANO

AGOSTO 1988

 
 

CAPITOLO 1

IL MONDO SEGRETO

 

Stefano spalancò le braccia e si lasciò cadere all’indietro senza esitazione, piombando di schiena tra gli alti steli di grano pronto per essere raccolto.
«Mi annoio» annunciò.
«Andiamo a fare il bagno» propose Claudia, alla sua sinistra. Era molto vicina a lui e il bambino riusciva a vederla anche se era immerso nel grano. Seduta con le ginocchia piegate davanti a sé, giocava a intrecciare steli di grano, fiorellini di campo e fili d’erba secchi e gialli che aveva raccolto quella mattina, mentre bighellonavano nei campi senza meta. Si gettò oltre le spalle una delle due treccine castano dorato che le era scivolata davanti e la infastidiva.
Stefano emise un verso di disappunto. «Lo abbiamo fatto ieri» mugugnò.
«A me piace. Facciamone un altro» ribatté la bambina, ostinata. La sua voce, però, era dolce come il miele spalmato sul pane, la mattina a colazione, e Stefano, nel suo nascondiglio in mezzo al grano, sentì le sue labbra incurvarsi in un piccolo sorriso.
«Anch’io voglio fare un altro bagno. Fa caldo» intervenne pigramente Enrico. Sedeva un po’ in disparte con le braccia tese all’indietro, a metà strada tra gli altri due bambini e le biciclette che avevano gettato nel campo dopo aver pedalato per un’ora sotto il sole cocente, esausti e accaldati. Stefano non poteva vederlo, ma era certo che mentre parlava avesse lanciato un’occhiata rapida a Claudia. Poteva indovinare cosa faceva Enrico in ogni momento, a occhi chiusi.
Per un po’ nessuno parlò. C’era un silenzio quasi assoluto. Non tirava un alito di vento, la risacca del mare sembrava arrivare da molto lontano e le cicale frinivano stancamente, senza entusiasmo, come spossate dal caldo. Il sole era una palla di fuoco alta e incandescente nel cielo di un azzurro limpido e chiaro. Una grossa ape si avvicinò a Stefano e svolazzò sul suo viso, ronzando. Lui la osservò per qualche istante, poi soffiò con forza e la guardò sussultare e allontanarsi, ondeggiando, forse in cerca di qualcosa di più interessante. Gli parve che fossero completamente soli sulla Terra. Soltanto loro tre e un giorno infinito d’estate. Fece un sorriso enorme.
«Io ho un’idea più bella» disse, infrangendo la quiete.
«Che idea?» Indagò Claudia con cautela. Sbirciò verso di lui con espressione dubbiosa. Gli altri due bambini avevano imparato da tempo che spesso le idee di Stefano significavano una cosa sola: guai. E divertimento, risate, caos, avventure e scoperte, ma soprattutto un mucchio di guai.
Stefano si tirò su a sedere di scatto e i suoi occhi di un azzurro intenso e splendente, che irradiavano una luce vivace sul viso sottile, incrociarono quelli color nocciola della bambina. «Facciamo un gioco. Anzi, no… una prova di coraggio.»
Quelle parole caddero nel silenzio come pietre sulla superficie immobile di uno stagno. L’atmosfera cambiò, attraversata da un lampo di energia. Stefano amava quella sensazione che avvertiva sempre quando una delle sue idee lo colpiva all’improvviso, un formicolio sulla pelle, un senso di attesa e di eccitazione che faceva vibrare l’aria, e sapeva che anche i suoi due amici la amavano. Solo che ci mettevano sempre un po’ a ricordarselo.
«Una prova di coraggio?» ripeté Claudia, fissandolo a occhi sgranati. Quella era una novità assoluta. Fino ad allora avevano fatto giochi di ogni tipo, scherzi, esplorazioni e perfino una caccia al tesoro, quasi tutte idee nate dalla fertile mente di Stefano, ma una prova di coraggio mai.
«E come facciamo?» chiese Enrico, la fronte aggrottata. Lanciò un’altra occhiata in direzione di Claudia, poi tornò a concentrarsi su Stefano. Aveva gli occhi azzurri, come il suo amico. Era un po’ più alto e slanciato, aveva capelli castani, la carnagione pallida e lineamenti delicati che sembravano tracciati in punta di matita. Stefano era mingherlino e aveva capelli scuri e la pelle sempre leggermente abbronzata. Quando Enrico lo guardava, a Stefano sembrava sempre che quegli occhi non si limitassero a incrociare i suoi, ma li agganciassero, come se il contatto visivo facesse vibrare qualcosa che correva tra loro. Forse era perché si conoscevano dalla nascita, eppure anche Claudia faceva parte del loro gruppetto da quando aveva iniziato a camminare, ma con lei non succedeva.
«Le femmine non fanno le prove di coraggio» aggiunse Enrico dopo un breve silenzio.
Claudia gli gettò un’occhiata di fuoco. «Sì che le fanno! E le vincono pure!»
Il bambino la fissò, poi arrossì e abbassò gli occhi, come pentito di quello che aveva detto.
«Tu non la fai, la prova» intervenne Stefano. «La facciamo io e lui.» Fece un cenno con il capo verso l’amico.
Claudia si gonfiò come un palloncino, le labbra serrate e gli occhi stretti per la rabbia. «E io?!» strillò, indignata. Stefano intuì che era meglio spiegare tutto subito, prima che lei si infuriasse sul serio e se ne andasse. Ogni tanto succedeva, durante un litigio, e se in un primo momento Enrico e Stefano dichiaravano con solennità di stare benissimo anche loro due soli e di non avere alcun bisogno delle bambine, dopo un po’ erano sempre costretti a constatare, pur senza ammetterlo ad alta voce, che stare senza Claudia era come andarsene in giro senza una gamba. Così cercavano il modo di riavvicinarla, coinvolgendola in un gioco oppure offrendole qualcosa di buono da mangiare. Una volta avevano messo insieme i loro risparmi e per farsi perdonare le avevano comprato un album di figurine che desiderava. Lei metteva il broncio e li ignorava, ma non resisteva a lungo. Alla fine scoppiava a ridere e tornava di corsa da loro e tutto era di nuovo come prima.
«Tu sei il premio: dai un bacio al vincitore» disse Stefano con un sorriso sghembo sul viso.
Claudia rimase interdetta, mentre Enrico, vicino a lei, spalancava la bocca per lo stupore. «Scemo sei? ‘Nu vasu[1] Aveva un’aria vagamente disgustata, come se lui le avesse proposto di mangiare del fango.
Stefano annuì, sicuro. «Sì. Uno vero. Sulla bocca.» Era da un po’ che ci pensava e adesso che si era presentata l’occasione non se la sarebbe fatta sfuggire. A lui non sfuggiva mai niente.
«Bleah!» commentò Claudia. Scosse la testa. «Ma che premio è?»
«È una cosa da grandi» rispose Stefano con aria di superiorità. Guardò Enrico. «Allora? Ci stai?»
Enrico era arrossito fino alla punta dei capelli sentendo parlare di baci. Trasalì. «Che prova vuoi fare?»
«Andiamo alla torre» rispose Stefano, evasivo. Non ci aveva ancora pensato nel dettaglio, in realtà. Avrebbe avuto un’idea più precisa quando fosse stato lì.
Enrico guardò Claudia. Lei aveva ancora gli occhi sgranati e una buffa espressione a metà fra l’incredulo e il disgusto, ma sembrava meno ostile di prima all’idea. «Tu ci stai?» balbettò.
Lei lo fissò per un attimo, poi fece di sì con la testa. «Ci sto. Però la prova la voglio fare anche io.»
«E se vinci qual è il premio?»
«Non vince» intervenne Stefano, il tono spavaldo e canzonatorio. Claudia gli fece una linguaccia, ma quando incrociò il suo sguardo capì che non lo pensava davvero. La stava sfidando. La cosa le piacque.
«Se vinco io, chi si prende il bacio lo decido io.»
Enrico aprì la bocca per dire qualcosa, ma non ne ebbe il tempo. Stefano era già scattato in piedi e stava spazzando via con la mano uno stelo di grano rimasto attaccato alla t-shirt di un rosso sbiadito.
«Prendiamo le biciclette.»

 

****

 

Pedalare sotto il sole di mezzogiorno in una torrida mattina di agosto era come pedalare sott’acqua. La strada che portava alla torre saracena dell’isola era un viottolo di campagna: partiva da una crepa nel muricciolo che fiancheggiava la litoranea, in un tratto di campagna abbandonata e adorna solo di cespugli spogli, erba secca, arbusti scheletrici e qualche fiore di campo coraggioso, che però piegava in fretta la testa sotto il sole implacabile. Dopo qualche minuto il viottolo iniziava a salire e da lì la pedalata si faceva davvero faticosa, ostacolata da buche e grosse pietre. Una volta Claudia ne aveva presa una con la ruota anteriore della bici, mentre scendevano a gran velocità, e aveva fatto un capitombolo memorabile. Era un miracolo che ne fosse uscita solo con le ginocchia sbucciate, un bernoccolo sulla fronte e uno scossone alla dignità.
Mentre si avvicinavano alla meta, ansimanti e accaldati, il sole sembrava incendiare l’aria sempre di più e il caldo rendeva difficile respirare. Stefano sentiva bruciare i muscoli delle gambe, la gola secca come il deserto, il sudore che scorreva in rivoli fastidiosi lungo la schiena e gli faceva il solletico. Pedalavano in fila indiana, uno dietro l’altro, come sempre: Enrico davanti, Stefano in mezzo e per ultima Claudia, che arrancava sempre un po’ per via delle gambe più corte e della bici più piccola. In realtà Stefano era quasi alla pari con Enrico e avrebbe potuto superarlo senza difficoltà. Aveva 9 anni appena compiuti, quasi due in meno dell’amico che ne avrebbe fatti 11 a settembre, ed era magro e sottile, ma anche forte e veloce, molto più di quanto sembrasse a prima vista. A volte, durante le loro eterne scorribande per l’isola in bicicletta, con la pioggia e con il sole, con il freddo e con il caldo, Stefano superava Enrico distrattamente, senza rendersene conto, ma subito rallentava o si fermava e si girava a guardarlo con un’aria seria e limpida che diceva senza parole: «Io ti aspetto».
D’altronde era giusto che fosse così, secondo lui. Enrico era il più grande, dato che Claudia aveva 8 anni e ne avrebbe compiuti 9 solo a novembre, e per una sorta di tacito accordo tra loro era sempre stato il capo della loro piccola banda. A conti fatti, era quasi sempre Stefano a prendere le iniziative, a organizzare i giochi e le escursioni, a mettere tutti e tre nei pasticci e poi a tirarli fuori, a decidere quando era ora della merenda e quando invece era il momento di un tuffo in mare. Prendeva il comando in modo spontaneo, naturale, quasi inconsapevole, come quando oltrepassava Enrico pedalando. Poi, all’improvviso, se ne accorgeva. Lanciava un’occhiata guardinga all’amico, preoccupato di avergli sottratto ancora una volta il ruolo che avrebbe dovuto essere suo e faceva un passo indietro. Enrico, però, non se la prendeva mai. Solo quando giocavano a casa, il baglio[2] dei Falconeri di proprietà del padre di Enrico, e vedeva Stefano assumere la guida del gruppo, si rabbuiava. Quando erano fuori, invece, nella campagna, in spiaggia, nei campi di grano, alla torre o per le strade di Portosalvo, l’unico centro abitato dell’isola, sempre loro tre insieme, isolati dagli altri bambini, Enrico sorrideva e seguiva Stefano con entusiasmo e gli occhi che brillavano. Erano una squadra e Stefano aveva sempre pensato che in fondo quella faccenda del capo non fosse poi così importante. La nonna di Claudia, Amelia, li osservava pedalare insieme, uno dietro l’altro come gli anelli di una catena, bisbigliare qualcosa e poi scoppiare a ridere o chiamarsi a gran voce tra loro, e diceva che sembrava che nascondessero chissà quale grande segreto. Un mondo segreto, tutto loro, inaccessibile a chiunque altro.
Finalmente la torre apparve sulla sommità di una scogliera a picco sul mare. Era una struttura diroccata a pianta circolare, affondata tra ginestre, agavi e cespugli di gramigna, imponente e solitaria. La vecchia Amelia aveva raccontato ai bambini che era stata costruita tantissimo tempo prima per sorvegliare l’arrivo di pericolosi predoni dal mare e questo scatenava la fantasia di Stefano più di qualsiasi altra cosa. Era il suo posto preferito di tutta l’isola. Il muro era solcato da ciuffi d’erba e squarci simili a cicatrici nei punti in cui le vecchie pietre grigie, disposte in modo irregolare, quasi ammassate semplicemente l’una sull’altra, erano cadute, ammucchiandosi ai piedi della torre. Tre gradini di pietra spezzati conducevano a una porta di legno marcio scardinata, appoggiata a chiudere l’ingresso alla torre e ornata da un grosso lucchetto penzolante, tutto arrugginito e ormai inutile. Sulla sinistra, quasi a ridosso della torre, sorgeva un boschetto di ulivi immerso nella penombra e nel frinire delle cicale: il posto ideale dove rinfrescarsi e fare merenda dopo aver giocato per ore sotto il sole.
Stefano saltò giù per primo dalla bicicletta rossa, malconcia e arrugginita quanto il vecchio lucchetto della torre, la gettò tra le erbacce e fece più volte il giro della torre, studiandola e riflettendo intensamente. Enrico e Claudia, dopo essere scesi dalle bici, se ne stavano fermi, vicini, e lo seguivano con gli occhi. Alla fine Stefano si fermò e li guardò con un sorriso di trionfo che andava da orecchio a orecchio.
«Ecco che cosa facciamo.»

 

****

 

Stefano era sempre quello che si lanciava per primo e quel giorno non faceva eccezione.
«Tu sei pazzo» aveva sentenziato Enrico dopo che lui aveva finito di spiegare la prova agli altri due.
Claudia aveva annuito con decisione. «Tra tutte quelle che hai pensato, questa è la più…»
«La verità è che ve la state facendo sotto» aveva esclamato Stefano allegramente. «Vado io per primo e vi faccio vedere.»
Così adesso si trovava ai piedi di un grosso ulivo ritorto, sul lato della torre che dava verso il mare, i grossi rami in basso così curvi verso il terreno da far pensare a sottili fuscelli piegati dal vento. Gli altri due bambini erano a pochi passi di distanza e lo osservavano in religioso silenzio. Stefano osservò i rami bassi dell’albero, poi, con cautela, mise il piede destro su quello che gli sembrava il più grosso e il più resistente, si attaccò con le mani a un ramo più in alto e si tirò su. Attese un istante, raccogliendo la concentrazione, e ripeté il passaggio una seconda volta, poi una terza. Salì fino a metà del tronco senza difficoltà, poi si trovò su un ramo più sottile degli altri che ondeggiò paurosamente sotto il suo peso. Il bambino si bloccò e serrò la presa intorno al ramo a cui si teneva con le mani sottili. A terra sentì che Claudia ed Enrico trattenevano rumorosamente il fiato. Pian piano il ramo smise di ondeggiare e, quando si sentì di nuovo sicuro, Stefano fece forza sul piede per sollevarsi di nuovo.
Quando arrivò a un punto in cui nessun appoggio gli sembrava convincente, infilò il piede in una rientranza del tronco, pregando che non ne spuntasse fuori nessun animale per aggredirlo. Ebbe fortuna, come spesso accadeva. Non successe nulla e lui poté issarsi quel tanto che bastava per raggiungere un ramo grosso e lungo sul quale si fermò a riprendere fiato dopo aver scostato le foglie che gli sfioravano le guance. Il cuore gli batteva forte, un rombo cupo e martellante nelle orecchie, ma sentiva di avere il controllo. Amava quella sensazione.
Non aveva raggiunto la cima dell’ulivo, anche se mancava poco, ma non era quello l’obiettivo. Davanti a lui, sulla sinistra, c’era la finestra della torre: era più simile a una feritoia nella pietra, priva di vetri e chiusure di alcun genere. Prese fiato, gli occhi fissi sull’apertura nel muro, ignorando le goccioline di sudore che gli scivolavano sulla fronte, e iniziò ad avanzare sul ramo con grande lentezza, un passo alla volta, le mani saldamente agganciate al ramo superiore, come un circense impegnato in un gioco di abilità. Per controllare dove metteva i piedi era costretto a guardare in basso e la distanza di almeno quattro metri che lo separava da terra gli fece girare un po’ la testa, ma solo per un secondo. Le altezze non gli davano fastidio, anzi, lo elettrizzavano. Un passo dopo l’altro, un piede avanti all’altro, raggiunse la fine del ramo. La finestra si trovava un po’ più in alto, per cui dovette staccare una mano dal ramo a cui si aggrappava e appoggiarla con attenzione al bordo di pietra intorno all’apertura. Quando si sentì abbastanza sicuro, staccò anche l’altra mano. Si slanciò, trattenendo il fiato, e salì sul bordo. Alle sue spalle, il ramo che gli era servito da ponta ondeggiava lievemente.
Non appena ebbe i piedi ben saldi sulla pietra, si lasciò scappare un sorriso di trionfo. Da sotto arrivavano le grida di entusiasmo di Enrico e Claudia, ma l’impresa non era ancora neppure a metà. Tenendosi con attenzione al bordo dell’apertura, esaminò la situazione. La finestra era stretta e se Stefano fosse stato appena più robusto avrebbe avuto difficoltà a passarci. Un tempo la torre aveva avuto un primo piano, oltre al pianoterra, poi il pavimento era crollato, chissà come, chissà quando. Ne restava solo un pezzo, uno spuntone di pietra dai bordi irregolari che sporgeva di una cinquantina di centimetri. Tra la finestra e il pezzo di pavimento sopravvissuto, il vuoto era colmato solo da alcune assi di legno che qualcuno doveva aver sistemato per poter passare da una parte all’altra. Erano fissate da grossi chiodi arrugginiti, erano palesemente molto vecchie e poco stabili. Dagli spazi tra le assi si scorgeva il pianoterra, cui si accedeva dalla porta con il lucchetto. Era un ambiente circolare pieno di un’accozzaglia di oggetti vecchi e abbandonati, proprio come la torre stessa: mucchi di pietre, pezzi di legno, una sedia sfondata, due assi mezze marce tenute insieme da una corda e dei chiodi che sembravano quel che restava di un tavolo, reti da pesca rotte, una pentola priva di uno dei due manici, una ruota di bicicletta sgonfia, una pila di cassette simili a quelle usate per trasportare la frutta, un secchio di un azzurro sbiadito, una lamiera incrostata di ruggine e perfino un grammofono che cadeva a pezzi. Da terra partiva una rozza scala di pietre che sembravano quasi gettate alla rinfusa l’una sull’altra formando gradini alti e scoscesi.
Stefano lanciò un’occhiata verso l’alto, tenendosi saldamente al muro: una copertura di fortuna composta di assi di legno chiudeva il tetto della torre. Dal basso arrivò un improvviso trambusto e lui guardò di nuovo giù: Enrico e Claudia avevano spalancato la porta di legno con gran fracasso e si erano precipitati dentro, il respiro affannoso, gli occhi che puntavano verso l’altro, cercandolo. Per poco Claudia non inciampò nel secchio azzurro.
Stefano fece un respiro profondo. Doveva restare concentrato. La parte più tosta era proprio quella che stava arrivando. Studiò con calma il percorso da seguire: un’asse di legno, larga non più di una quarantina di centimetri, che gli sembrava meno marcia e più resistente delle altre. Allargò le braccia e immaginò di essere un uccello sul punto di spiccare il volo, lasciare la terra, quella piccola isola, e salire su, su, su, sempre più in alto, sempre più lontano, Santo Stefano sotto di lui che si riduceva a un puntino quasi invisibile nel mare, verso chissà quali posti lontani e nuovi e straordinari.
Fece un passo avanti sulla trave, poi un altro. Attese qualche istante, mentre il legno ondeggiava e scricchiolava sotto il suo peso. Qualcuno in basso, Enrico o Claudia, cacciò un verso di paura, ma non accadde nulla. Allora andò avanti, piano, ma senza esitazioni, prendendo respiri lenti e cauti, leggeri, nel timore che un movimento troppo brusco gli facesse perdere l’equilibrio. La tentazione di dare un’occhiata nel vuoto che si spalancava sotto di lui era fortissima, ma si costrinse a dominarsi e a non staccare lo sguardo dal suo obiettivo: uno squarcio nella parete, dal lato opposto della finestra. Una volta Claudia aveva detto che sembrava che un gigante affamato avesse dato un morso alla sommità della torre saracena, staccandone una parte e lasciando quello strano buco irregolare. Sua nonna Amelia, invece, sosteneva che quel pezzo fosse venuto giù durante un terremoto, molti anni prima che i bambini nascessero. A loro quella spiegazione così banale non piaceva per niente e trovavano molto più convincente l’idea del gigante.
All’improvviso, una fitta al polpaccio sinistro, a pochi passi dalla fine. La caviglia si piegò e il bambino si sbilanciò verso destra con un sussulto di sorpresa che gli fece uscire di colpo tutta l’aria dal petto. Claudia, di sotto, strillò.
«Gesù, adesso muore! Che diciamo a sua mamma se muore?!»
«Non muore, non muore» rispose tranquillamente Enrico.
Fermo sulla trave, il respiro affannoso, in attesa di riprendere il controllo, Stefano sentì la sicurezza nella voce di Enrico che lo raggiungeva e gli entrava dentro come un alito di coraggio. Enrico pensava che ce l’avrebbe fatta e allora era così. Ce l’avrebbe fatta. Era sempre così. Altrimenti lo avrebbe deluso e questo era inaccettabile. La fitta al polpaccio era già passata, bruscamente come era arrivata. Mosse un po’ la caviglia, ma il dolore non tornò. Sembrava tutto a posto. Era stato solo un crampo. Poggiò di nuovo il peso sulla gamba sinistra, con delicatezza, e di nuovo non accadde nulla. Stefano sospirò di sollievo, fece un passo avanti e un altro ancora e quando toccò con i piedi il pezzo di pavimento sopravvissuto fece un salto e lanciò un grido liberatorio. Sotto di lui, anche Enrico e Claudia urlavano di gioia e saltavano su e giù.
«Ce l’ha fatta! Ce l’ha fatta davvero!» esclamò Enrico. «Torniamo fuori!»
Si lanciò attraverso la porta malconcia con Claudia alle calcagna.
Non era ancora finita. Stefano abbassò gli occhi e vide il suo piccolo pubblico arrivare di corsa sotto la torre. Gli fece un inchino e in risposta gli altri due batterono le mani entusiasti e lanciarono ovazioni. Poi iniziò a scendere da una scala a pioli di corda con i gradini fatti di pezzi di legno, agganciata a una sporgenza della pietra. In alcuni punti la corda era sdrucita come se qualcuno avesse cercato di strapparla, magari lo stesso gigante che aveva mangiato un pezzo della torre per merenda, e alcuni pezzi di legno che formavano i gradini mancavano, costringendo chi saliva o scendeva a fare un salto di parecchi centimetri. I tre bambini, però, avevano fatto su e giù su quella scala infinite volte, quando andavano a giocare alla torre, e aveva sempre retto benissimo. Avrebbe retto anche questa volta.
Stefano mise il piede sul gradino che segnava la metà della discesa e di colpo il pezzo di legno si spezzò, probabilmente troppo marcio per sostenere il suo peso. Il bambino scivolò verso il basso, mentre la paura gli strattonava con violenza lo stomaco e Claudia urlava. Poi sentì un’altra fitta di dolore al polpaccio, ma non era un crampo, stavolta. Enrico gridò «Accura[3], Ste’!» con voce carica di angoscia, poi la corda che Stefano stringeva nella mano sudata e irritata si strappò, incapace di reggerlo, dal momento che lui non poteva poggiare i piedi da nessuna parte per distribuire il peso. Tutto accadde così in fretta che quasi non ebbe il tempo di rendersene conto. Stefano precipitò, mentre Claudia strillava come da molto lontano, e una frazione di secondo più tardi toccava terra con un colpo secco.
Un lampo di dolore lo attraversò da capo a piedi e per un tempo indefinito fu incapace di vedere, ascoltare, ragionare o perfino respirare. C’era solo dolore. Le orecchie ronzavano fortissimo, la testa pulsava come se qualcuno la colpisse regolarmente con una pietra, la nausea gli squassava lo stomaco. Poi riuscì a prendere aria e gli sembrò di tornare lentamente alla vita.
Aprì gli occhi e si ritrovò a fissare il cielo azzurro e sgombro. Il dolore si era trasformato in un rimbombo sordo e la nausea arrivava a ondate, mentre il ronzio nelle orecchie scemava pian piano, ma era del tutto privo di forze. Braccia e gambe erano come tubi abbandonati, vuoti e inservibili. C’era qualcuno accanto a lui. Piano, cercò di girare la testa: Enrico e Claudia erano in ginocchio nell’erba e lo guardavano con due identiche espressioni terrorizzate. Gli rivolse un sorriso ammaccato, per fargli capire che non era poi così grave. Claudia, che aveva le mani a coppa sulla bocca, le abbassò e spalancò gli occhi.
«È vivo!»
«Certo che è vivo! Minchia, Stefano!» sbottò Enrico, la voce che grondava sollievo.
Claudia sollevò tre dita e le mostrò a Stefano. «Quante sono queste?» domandò, serissima.
Stefano le fissò per un momento. «Trentatré.» Gli sfuggì una risata soffocata, ma il dolore aumentò e smise subito.
Enrico alzò gli occhi al cielo. «Vai a prendergli la borraccia» disse a Claudia. Lei scattò in piedi e corse via, scomparendo dietro la torre. Stefano la seguì con gli occhi finché poté mentre l’altro continuava a parlare. «Ti fa male qualcosa? Riesci a metterti seduto?»
«Penso di sì.»
Sostenuto dall’amico, si tirò su con cautela e si guardò. Era in pessime condizioni: la maglietta era sporca di terra e aveva uno strappo sul bordo, le braccia e le gambe erano graffiate e piene di macchie nere e sul polpaccio destro c’era una scia di sangue. Doveva essersi ferito mentre scivolava contro la parete della torre. Claudia tornò, trafelata, brandendo la borraccia bianca e nera che Stefano attaccava sempre alla bicicletta. Enrico la stappò, fece mandare giù qualche sorso a Stefano, poi usò un po’ d’acqua per lavare il sangue dalla ferita. Si chinò per esaminarla.
«Non sembra profonda, però bisogna disinfettarla. Meglio tornare.» Enrico lanciò un’occhiata alla torre che incombeva su di loro. La scala di corda penzolava tristemente lungo il muro, ormai inservibile. Deglutì, poi abbassò la testa.
Mentre lo aiutava ad alzarsi in piedi, Stefano cercò di incontrare il suo sguardo, ma l’amico teneva il proprio ben fisso a terra. Lo aveva fatto arrabbiare. Aveva esagerato, come sempre, aveva voluto fare troppo e per colpa sua lui e Claudia non potevano fare la prova. Non aveva problemi a camminare, anche se la testa gli girava un po’ e la ferita bruciava. Adesso che lo shock per la caduta e il dolore stavano passando lentamente, si sentiva di nuovo elettrizzato, come se fosse sul punto di ricominciare la prova da capo.
Enrico strappò un lembo di stoffa dalla sua maglietta a strisce e la legò sopra la ferita, per bloccare il sangue. «Ce la fai?» indagò. Continuava a tenere l’amico per un braccio, come se temesse di vederlo cadere da un momento all’altro, ma ancora non lo guardava.
Stefano annuì e si staccò da lui. Si avviarono piano verso le biciclette buttate nell’erba dall’altro lato della torre. Claudia camminava strascicando i piedi, facendo più rumore del necessario. Enrico montò per primo sulla sua bici nera, nuova e scintillante come un gioiello accanto a quella vecchia e malridotta di Stefano o a quella polverosa di Claudia, con la vernice rosa e verde scrostata. Stefano lo vide lanciare un’ultima occhiata verso la torre dai contorni quasi sfocati nell’aria incandescente, sotto la luce del sole. Aveva un’espressione incerta, preoccupata, come se la torre gli lanciasse una sfida silenziosa che lui esitava a cogliere. Nel boschetto di ulivi si alzò il verso di un picchio. Enrico abbassò lo sguardo e lo puntò su Claudia, che stava salendo sulla bici.
«Che c’è?» domandò la bambina quando si accorse che lui la fissava.
Enrico si riscosse, ma non rispose. Fece girare la bicicletta con uno scatto e iniziò la discesa che li avrebbe portati giù dalla collina. Stefano si era mosso appena un secondo prima di lui, distrattamente, e si rese conto all’improvviso che stava andando per primo, come faceva sempre, ma in discesa era difficile fermarsi. Per una volta non fa niente, pensò, e continuò a pedalare. Sentiva su di sé lo sguardo di Enrico che gli perforava la schiena.



[1] Un bacio? 

[2] In Sicilia, una sorta di masseria fortificata risalente al periodo feudale.

[3] Attento!

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Capitolo 3
*** Capitolo 2. Il premio ***


CAPITOLO 2
IL PREMIO

 

Sicilia, Isola di Santo Stefano
Agosto 1988

 

L’ora di pranzo era passata da un pezzo quando i tre bambini giunsero in vista della proprietà della famiglia di Enrico. Erano stanchi morti, sudati, sporchi di terra e della polvere delle strade di campagna e lungo il polpaccio di Stefano si era formata un’inquietante striscia di sangue secco. Stefano sapeva che li aspettava una sgridata, ma ormai erano abituati. Succedeva praticamente ogni giorno, soprattutto quando non c’era scuola: uscivano con le biciclette, perdevano il senso del tempo, rientravano tardi, solo quando la fame si faceva insopportabile, si beccavano un paio di sfuriate e il giorno dopo tutto daccapo.
La casa dei Falconeri, la famiglia di Enrico, era un baglio, una masseria fortificata che risaliva al Seicento. Era una grande costruzione in pietra con più di venti stanze, bassa e squadrata, sviluppata sue due piani e coronata da un tetto terrazzato. Si vedeva tutta l’isola di Santo Stefano, da lì sopra, e spesso i tre bambini salivano a giocare tra le lenzuola stese ad asciugare. Il cortile centrale era a forma quadrata, circondato da un ballatoio a cui si accedeva da due scale di pietra di fronte al cancello. Da lì si entrava in casa attraverso alte portefinestre. A destra si apriva la robusta porta d’ingresso, poco meno antica del baglio stesso, che però veniva usata raramente, se non quando c’erano ospiti: di solito tutti entravano e uscivano dalle portefinestre sul ballatoio.
Il cortile era attraversato da due viali perpendicolari tra loro che delimitavano quattro grandi aiuole fiorite e ben tenute. Nell’angolo a destra, in fondo, un alto mandorlo gettava la sua ombra sull’erba tenera sotto di sé, e dal lato opposto aranci e limoni si raggruppavano tra loro, vicini come bambini spaventati. Al centro del cortile, all’incrocio dei due viali, c’era un vecchio pozzo di pietra, chiuso da un coperchio di ferro pesantissimo. Stefano lo sapeva bene: una volta lui ed Enrico avevano provato a spostarlo insieme per guardare nel pozzo, ma non si era mosso di un millimetro.
Il baglio apparteneva ai Falconeri da quando era stato costruito. Un tempo l’intera isola era stata di loro proprietà. Ora possedevano tutti i vigneti di Santo Stefano: il bisnonno di Enrico, cento anni prima, aveva iniziato a produrre vino e suo figlio aveva fondato l’azienda vinicola che ancora apparteneva alla famiglia.
I bambini varcarono l’alto cancello di ferro battuto che si apriva nel muro esterno, spesso quasi due metri, pedalando affannati. Stefano aveva la bocca così secca che avrebbe dato la sua bici per un sorso d’acqua, ma alla torre aveva svuotato tutta la borraccia. Il giardiniere, Michele, si dava da fare nell’aiuola di sinistra, innaffiando, strappando, potando e tentando di dare sollievo alle piante da quell’arsura implacabile che le spegneva.
«Ciao, Michele!» gridò Stefano.
Il giardiniere gli era simpatico, non li rimproverava mai e anzi cercava sempre di coprire i loro guai. Stefano non aveva un nonno, ma se avesse potuto sceglierne uno lo avrebbe voluto esattamente così, con i capelli grigi arruffati sulla testa, un paio di grossi baffi, la schiena incurvata e grosse mani piene di calli, tagli e macchie di terra che sapevano essere delicatissime quando Stefano era piccolo e se lo metteva a cavalluccio. Anche Enrico fece un cenno al vecchio e lui rispose chinando un po’ la testa e sollevandosi il cappellaccio di paglia. Sebbene Enrico avesse solo dieci anni, tutti i dipendenti del baglio lo trattavano con deferenza e lo chiamavano “il signorino” e spesso Stefano lo prendeva in giro per questo. Quasi tutti i dipendenti. Stefano aveva appena messo i piedi a terra, grato di potersi finalmente riposare, quando sentì il pericolo piombargli addosso come una folata di vento che annuncia l’arrivo di un uragano. Rabbrividì.
«Eccoli! Eccoli, finalmente! A quest’ora si torna? Disgraziati! Tutti i giorni mi fanno scantari[1], tutti i giorni! Disgraziati siete!»
Amelia Scalìa, cuoca e governante della casa, era comparsa sulla porta che dal cortile conduceva alla cucina. Era una donna bassa e robusta, con una crocchia di capelli grigi perfettamente in ordine, un abito estivo a fiori, un grembiule e un’espressione furiosa. Era la nonna materna di Claudia, che viveva con lei in due stanze al baglio da quando aveva tre anni e i suoi genitori erano morti in un incidente d’auto. Amelia aveva iniziato a lavorare per i Falconeri a tredici anni, aveva visto crescere Edoardo, il padre di Enrico, ed era lei a prendersi cura dei tre bambini. Soprattutto, era lei a preoccuparsi e infuriarsi quando sparivano sulle biciclette per intere giornate, nonostante le ripetute promesse di non allontanarsi troppo dai dintorni del baglio.
«Sempre in giro per la campagna, come i cani randagi! Vai a sapere se sono finiti sotto una macchina o caduti in un fosso!» sbraitò Amelia. I lineamenti morbidi e appesantiti dall’età erano contratti per l’irritazione. Li osservò con più attenzione e batté le mani tra loro con uno schiocco che fece sussultare Claudia. «Guarda come si sono conciati! Enrico! Che hai combinato per ridurre la maglietta così? Sembra che ti sei rotolato per terra!»
Stefano lanciò un’occhiata alla maglia di Enrico, che a sua volta la stava osservando con aria perplessa, tutto rosso in viso: era sporca, piena di macchie scure e strappata lungo il bordo, dove aveva ricavato la benda di emergenza. Stefano sollevò di nuovo lo sguardo e vide Amelia che marciava verso di loro come un bulldozer. D’istinto indietreggiò, ancora a cavalcioni della bici, spingendosi con i piedi, ma la donna puntava su Claudia, che aveva gli occhi così sgranati da sembrare enormi. La afferrò per un braccio e la tirò giù dalla bicicletta con gesti bruschi, senza badare alle proteste della nipotina.
«Scinni[2], forza! Stai diventando una selvaggia a forza di andare per le campagne! Dovresti essere una signorina, ormai! Che direbbero i tuoi genitori se ti vedessero, eh?» Gli occhi le caddero su Stefano, al quale scappava sempre da ridere durante le interminabili, esagerate sfuriate di Amelia e faticava a trattenersi. La donna si accorse del sangue secco e del pezzo di stoffa legato intorno al polpaccio e strabuzzò gli occhi. «E tu che facisti[3]
«Niente. Ho fatto una prova di coraggio» disse lui, sfrontato, a mo’ di spiegazione, come se si trattasse di un’occupazione banale e quotidiana per la maggior parte delle persone. Enrico arrossì ancora di più e guardò verso Michele, come per dissociarsi dal discorso.
Amelia rimase senza parole per un attimo, poi batté di nuovo le mani più forte di prima e alzò gli occhi al cielo. «Una prova di coraggio! Ma sentitelo! La prova di coraggio, ci mancava! Viautri[4] delinquenti volete farmi morire! Scendi, ti devo sistemare prima che ti vede tua madre! E tu» accennò bruscamente a Enrico, che sobbalzò e la guardò con aria colpevole, «vai subito di sopra! Tuo padre ti sta aspettando per il pranzo. Sbrigati!» Enrico era già saltato giù dalla bici prima che lei finisse di parlare, lasciandola cadere a terra con noncuranza, e correva su per la scala di pietra. «Prima cambiati, però!» gli urlò dietro Amelia quando era già arrivato sul ballatoio, un istante prima che si fiondasse in casa attraverso una portafinestra.
La donna fece un sospiro di esasperazione, mentre Claudia e Stefano scendevano dalle bici. Le lasciarono in mezzo al viale, accanto a quella di Enrico, e seguirono Amelia in cucina. Era uno stanzone seminterrato a cui si accedeva da una porta affacciata sul cortile, scendendo due alti scalini. Il pavimento e le pareti fino a metà altezza erano rivestite di piastrelle di ceramica multicolore e le finestre piccole e strette, simili a feritoie, lasciavano entrare la luce forte del primo pomeriggio estivo. I fornelli dovevano essere stati spenti da poco, perché il caldo era quasi insopportabile. Amelia aiutò Stefano a sedersi sul grande tavolo di legno al centro della stanza, vecchio e massiccio. Era lì da prima che lei iniziasse a lavorare al baglio e la superficie era scalfita da innumerevoli graffi, tagli e scanalature. Poi spedì Claudia a prendere disinfettante e cerotti nella loro camera, dietro la cucina, e medicò la ferita del bambino, che in verità era poco più di un graffio. Mentre gli strofinava con energia il disinfettante sulla gamba, Amelia continuava a rimproverarlo.
«Meno male che tua madre sta lavando i pavimenti di sopra, se no ti avrebbe tirato ‘nu lisciabbussu[5] da farti girare la testa… lo sai com’è! E avrebbe fatto bene!»
Stefano si morse il labbro. Il bruciore era fortissimo, ma non voleva farsi sfuggire neanche un lamento. Intanto seguiva con gli occhi Claudia che girava per la cucina tirando fuori piatti e posate.
«Mai ubbidisci, mai! La fai stare sempre in pensiero e ha già tante preoccupazioni, poverina!» Amelia aprì un cerotto e lo mise sulla ferita con un gesto irritato e sbrigativo. «Si sta sempre a spirniciari[6] per te, lavora per te, per farti studiare, farti andare via da qua un giorno, lontano da…» Stefano sussultò e Amelia tacque di botto, come se si fosse morsa la lingua. Guardò il bambino con un misto di shock e spavento, poi abbassò la testa e si mise ad armeggiare con il flacone del disinfettante per riavvitare il tappo. «Non ha il tempo di stare appresso alle tue fantasie» concluse in tono secco.
«Andare via?» ripeté Stefano, sconcertato. «Via dove? Io non andrò mai via da qua.»
La governante lo fissò e per un attimo parve sul punto di rispondere qualcosa. In quel momento dalle scale di servizio che portavano ai piani superiori scese una delle cameriere, Clara, una signora magra e bionda sui quarant’anni.
«Il signorino Enrico arrivò. Porto su il pranzo» disse in tono sbrigativo.
Andò ai fornelli, armeggiò per un po’ con piatti e pentole e risalì in fretta tenendo tutto in equilibrio con una tale abilità che Stefano, guardandola, pensò che sulle travi della torre se la sarebbe cavata ancora meglio di lui. Quando fu sparita, nella cucina scese di nuovo il silenzio, ma Amelia aveva cambiato idea. Non aggiunse altro. Fece scendere Stefano dal tavolo e lasciò i due bambini a mangiare da soli, mentre lei andava di sopra a controllare che in sala da pranzo fosse tutto a posto, non prima di averli invitati a non fare troppa confusione e a non scappare chissà dove, come al solito.
La calma non durò a lungo. Stavano mangiando da pochi minuti, quando Stefano tirò una delle treccine di Claudia, che gli lanciò un pezzo di pane, a cui lui rispose con un tovagliolo appallottolato che cadde nel piatto delle verdure. Al che la bambina, in mezzo alle risate soffocate, gli tirò un calcio sotto il tavolo. Stefano si spostò in fretta e riuscì a schivarlo quasi completamente, ma la punta della scarpa di Claudia gli sfiorò la ferita e la risatina si trasformò in un gemito di dolore che non poté né cercò di trattenere. Quando era da solo con Claudia non si preoccupava di queste cose. La prova alla torre non lo aveva stancato, anzi. Era solo un po’ indolenzito e ammaccato per colpa della caduta, ma non aveva nessuna voglia di riposare o starsene buono. Aveva addosso una sorta di frenesia. Sentiva di volere ancora qualcos’altro, quel giorno, sebbene non sapesse che cosa.
Prese una melanzana dal suo piatto e si allungò per schiacciarla sulla faccia di Claudia, che saltò indietro strillando e ridendo. In quel momento Amelia riapparve sui gradini della porta, vide il caos sulla tavola e alzò gli occhi al cielo. I bambini si bloccarono e la guardarono, sospesi, aspettandosi che ricominciasse la tirata, ma questa volta la donna non disse nulla. Probabilmente era stanca di rimbrotti, per quel giorno.
«Avete finito? Stefano, sparecchia. Senza rompere niente. Lascia i piatti nel lavandino, poi ci penso io. Tu» fece un cenno alla nipote, impegnata a pulirsi pezzetti di melanzana dal viso, «vieni sul terrazzo, mi aiuti a piegare le lenzuola. E dopo andiamo a dare una sistemata in sala da pranzo, quando Enrico e il signor Falconeri hanno finito. Su, sbrigatevi.»
I bambini si scambiarono un’occhiata mesta: il divertimento era finito, almeno per ora. Amelia cercava sempre il modo di separarli per un po’, perché diceva che quando passavano troppo insieme diventavano pericolosi. Claudia fece per avviarsi dietro la nonna, che era già uscita dalla cucina con il solito passo svelto, poi ci ripensò. Tornò indietro.
«Senti» cominciò, incerta, «io…»
Mentre lo guardava arrossì. Stefano, che la fissava con aria interrogativa, pensò che le sue guance sembravano due piccole mele autunnali con le fossette e all’improvviso provò una sensazione di calore al collo e al volto. Claudia tentennava, poi la voce spazientita di Amelia piombò fino a loro come uno schiocco.
«Claudia!»
Lei si girò rapida verso la porta, poi di nuovo verso Stefano. Era visibilmente indecisa. Alla fine il dovere – o forse la paura di altre sgridate – ebbe la meglio. «A dopo» disse a mezza voce e si avviò alla porta con passo pesante, strascicando i piedi, la testa china.
Rimasto solo, Stefano sparecchiò in fretta la tavola, rimuginando sullo strano comportamento di Claudia. Che cosa aveva? Loro tre non facevano mai così l’uno con l’altro, come se non riuscissero a parlare. Si dicevano tutto apertamente e anche se a volte questo li faceva litigare, poi facevano pace. Come quella volta in cui Enrico e Stefano avevano accusato Claudia di aver preso il dolce più grande da un vassoio invece di dividerlo in tre parti uguali, come facevano sempre. Chissà cosa stava per dirgli.
Quando ebbe finito gironzolò per un po’ senza meta, ma la cucina era uno spazio troppo ristretto per contenere quella frenesia che lo spingeva a muoversi di continuo. Salì i gradini e uscì nel cortile sotto il sole cocente e abbagliante. Strizzò gli occhi, schermandoli con la mano per guardarsi intorno. Il vecchio Michele non c’era più e i suoi attrezzi da giardino giacevano abbandonati nell’aiuola. Forse era andato a pranzo anche lui. Le tre biciclette erano ancora dove le avevano lasciate, distese nel viale. Di tanto in tanto un alito di vento caldo sollevava pianissimo le tende bianche delle portefinestre con un rumore lieve, come di vele che si gonfiavano. Tutto era silenzio e pace, eppure Stefano non riusciva a smettere di pensare di dover fare ancora qualcosa, dopo la prova di coraggio.
Considerò di riprendere la bici e pedalare da solo per un po’, a tutta velocità, magari esplorare qualche posto nuovo – anche se ormai conosceva quasi tutta l’isola palmo per palmo – e poi mostrarlo a Enrico e Claudia. Sapeva, però, che se fosse sparito di nuovo per ore, per giunta da solo, Amelia si sarebbe arrabbiata di nuovo e stavolta anche sua madre. Sbuffò. Raccolse da terra una manciata di pietruzze grigiastre e cominciò a lanciarle una dopo l’altra, cercando di colpire il centro esatto di un’aiuola. Quando non c’era niente altro di meglio da fare e non potevano uscire, magari perché minacciava pioggia, lui ed Enrico facevano spesso quel gioco per passare il tempo. Claudia, invece, lo trovava noioso da morire.
Era talmente concentrato che all’inizio non badò a uno strano formicolio alla nuca, come se qualcuno lo stesse osservando. Poi sentì un brivido lungo la schiena. Si fermò mentre prendeva la mira per un lancio, la testa inclinata da un lato, un occhio chiuso, e a quel punto notò un’ombra sull’erba. C’era qualcuno dietro di lui. Si girò e i suoi occhi incrociarono quelli di Edoardo Falconeri. Era una figura imponente, alta e dalla corporatura leggermente robusta, sebbene non fosse grasso. Aveva gli occhi azzurri, identici a quelli di suo figlio (il marchio dei Falconeri: così diceva Amelia, perché quasi tutti, nella famiglia, avevano sempre avuto gli occhi di quel colore) e lineamenti forti, netti, eleganti: il naso lungo e dritto, gli zigomi alti, la bocca ben modellata, il sorriso affascinante, le mascelle ricoperte da un velo di barba ben curata. Stefano aveva sentito dire che aveva molto successo con le donne, anche se non sapeva esattamente cosa significasse o perché fosse una cosa di cui vantarsi. Edoardo Falconeri indossava camicia e pantaloni bianchi, come sempre in estate, e fumava un sigaro tenendolo sulla punta delle labbra. Doveva appena essere sceso dal ballatoio. Per un po’ rimase fermo, ricambiando lo sguardo del bambino, poi gli si avvicinò a passi lenti, quasi annoiati. Si tolse il sigaro dalla bocca ed emise una nuvoletta di fumo bianco.
«Lanci bene. Hai una buona mira.» Il tono freddamente cortese era lo stesso che Stefano gli sentiva usare quasi sempre. «Bravo.»
«Lo so» rispose lui, raddrizzandosi.
Non pensò di ringraziare: era una lode meritata, in fondo, quindi non gli sembrava necessario. Edoardo terrorizzava Claudia, che scappava quando lo sentiva arrivare, e perfino Enrico cercava sempre di evitarlo, se poteva, ma Stefano sapeva tenergli testa con uno strano miscuglio di coraggio e impertinenza. Tutti al baglio erano intimoriti dal signor Falconeri, dalla sua voce gelida e controllata, dalla sua rabbia silenziosa, ma affilata come la lama del vecchio rasoio con cui si faceva la barba. Enrico aveva raccontato a Stefano che era un cimelio di famiglia, appartenuto al nonno di Edoardo. Lui lo usava con una delicatezza inaspettata per quelle mani grandi e forti. Una volta Enrico aveva fatto intrufolare Stefano nella camera da letto di suo padre per mostrarglielo, ma erano riusciti a osservarlo solo per qualche istante, affascinati al pensiero di avere tra le mani una cosa tanto antica, prima di sentire i passi di Amelia che si avvicinavano. Stefano avrebbe voluto nascondersi e aspettare che la governante andasse via, ma Enrico lo aveva costretto a scappare di corsa, tirandoselo dietro. Lei si sarebbe infuriata trovandoli con un rasoio affilato in mano, e ancora di più si sarebbe irritato il padre di Enrico per quella violazione.
Al baglio tutto era scandito dai desideri del signor Falconeri e tutti si muovevano in punta di piedi nel timore di contrariarlo, tranne Stefano. Lui si ostinava ad affrontarlo con una disinvoltura che non diventava mai mancanza di rispetto. Eppure quell’atteggiamento faceva arrabbiare Amelia, spaventava Claudia e rendeva Enrico stranamente silenzioso. Stefano sapeva sempre, in qualche modo misterioso, fino a che punto poteva spingersi con Edoardo e sospettava che in fondo le sue risposte sicure e spavalde gli piacessero. Probabilmente erano un diversivo divertente per lui, abituato a essere trattato con deferenza da tutta l’isola.
Edoardo rivolse al bambino un sorriso soddisfatto simile al ghigno di un gatto che si scalda davanti al fuoco in pieno inverno. «Che cumbinasti[7]?» Indicò la gamba fasciata di Stefano con il sigaro che aveva in mano.
Il bambino alzò le spalle. «Niente, è un graffio. Ho fatto una prova di coraggio e sono caduto.»
Il signor Falconeri continuava a fumare il suo sigaro con gesti morbidi, eleganti, e Stefano li seguiva con lo sguardo anche se sapeva – Amelia glielo aveva ripetuto decine di volte – che fissare era da maleducati.
«Una prova di coraggio?» Edoardo accennò un altro sorriso. «C’era anche Enrico? Si è fatto male pure lui?»
Stefano ebbe un’esitazione. «Sì, Enrico c’era...» Tacque. Non voleva dire altro, aveva la sensazione che sarebbe stato sbagliato, anche se non capiva perché. Ma con Edoardo Falconeri era inutile mentire. Sembrava che lui sapesse sempre tutto di quelli che aveva di fronte. Li scrutava con quegli occhi di cielo e un sorriso sardonico che tagliava in due e li sfidava silenziosamente a batterlo, a dirgli qualcosa che lui, in cuor suo, non avesse già capito, e da molto tempo. Neanche Stefano, con tutta la sua faccia tosta, era mai riuscito a ingannarlo.
«Enrico non ha fatto nessuna prova di coraggio, vero?»
Edoardo continuava a sorridere e a Stefano venne in mente che Claudia aveva più paura di lui proprio quando sorrideva. Restò in silenzio, pensando che il signor Falconeri si sarebbe arrabbiato, perché non rispondeva alle sue domande. Invece lui rimase calmo. D’altra parte, Stefano non ricordava di averlo mai visto scomporsi per qualcosa.
«Tranquillo, lo so che non parli. Sei un bravo bambino, tu» disse Edoardo lentamente. «Sei leale, sei forte, sei coraggioso.» Mentre parlava gli si avvicinò ancora un po’, studiandolo con un’aria di vaga curiosità. Stefano resse il suo sguardo senza indietreggiare, anche se Edoardo era così vicino che quasi incombeva su di lui e doveva inclinare la testa per riuscire a vederlo in faccia. «Cerca di far diventare mio figlio un po’ più simile a te, d’accordo?»
Stefano non rispose. Era inquieto e avvertiva uno strano, confuso disagio che non sapeva spiegare. A Edoardo Falconeri non serviva un assenso per sapere che gli altri avrebbero fatto quello che diceva. Gli diede un buffetto sulla testa, si girò e tornò da dove era venuto, rientrando in casa da una delle portefinestre.
«Stefano! Stefano, dove sei?»
Il bambino stava ancora fissando il punto in cui Edoardo era scomparso, come ipnotizzato. Si riscosse sentendo la voce che lo chiamava. Era Claudia. D’istinto sorrise, guardandosi intorno, e la vide spuntare di corsa dalla cucina. Doveva essere scesa dal terrazzo sul tetto utilizzando le scale di servizio. Si fermò un attimo a prendere fiato, poi individuò Stefano e il suo viso si illuminò come l’albero di Natale quando Amelia accendeva la batteria di luci colorate. Stefano la salutò con la mano e lei gli corse incontro, le treccine che saltavano su e giù sulle spalle e la gonna del vestito di cotone azzurro che si gonfiava.
«Ti stavo cercando» esclamò quando lo raggiunse, affannata. «Pensavo che ti eri andato ad ammucciari[8] chissà dove.»
Stefano rise. Qualche volta, raramente, capitava che si allontanasse senza gli altri due, per qualche esplorazione o gioco solitario. Ogni tanto ne avvertiva il bisogno. Amelia non si dava la pena di provare a cercarlo, sapeva che sarebbe stato inutile se lui non voleva farsi trovare. Gli mandava dietro Claudia, che partiva correndo come un razzo e poi, dieci minuti o mezz’ora dopo, tornava tenendo il fuggitivo saldamente per mano.
«Ti manda tua nonna?»
Lei scosse la testa con forza e all’improvviso arrossì. «No. Si è distratta a piegare le lenzuola e sono scappata. Io… volevo… non hai avuto il tuo premio» balbettò.
Stefano la fissò, sconcertato. «Che premio?» Prima ancora di finire la frase, di colpo capì.
Claudia fece un respiro profondo, poi si sporse verso di lui con le mani dietro la schiena e lo baciò sull’angolo della bocca, quasi sulla guancia, come se fosse stata indecisa fino all’ultimo sulla direzione da prendere. Era accaldata e Stefano, lì impalato, seppe che avrebbe ricordato per sempre la sensazione delle sue labbra sulla pelle. La faccia gli andò a fuoco mentre si chiedeva come avrebbe fatto a guardarla ancora negli occhi dopo quello. Claudia gli risparmiò quel momento critico, perché di colpo si staccò, gli voltò le spalle senza farsi vedere in viso e corse via di nuovo, tuffandosi nella cucina come se avesse un mostro alle calcagna.
Stefano non si mosse. Paralizzato dallo stupore, immaginava Claudia che saliva di nuovo su per le scale e tornava sul terrazzo ad aiutare la nonna prima che si accorgesse della fuga. Per la prima volta nella sua vita era rimasto senza parole.



[1] Spaventare.
[2] Scendi.
[3] Che hai fatto?
[4] Voi.
[5] Schiaffo.
[6] Tormentarsi per risolvere un problema.
[7] Che hai combinato?
[8] Nascondere.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3. La spina ***


CAPITOLO 3
LA SPINA

 

Sicilia, Isola di Santo Stefano
Agosto 1988

 

 Enrico lasciò cadere a terra la bicicletta e partì di corsa verso casa, mentre Stefano e Claudia restavano lì a farsi strigliare da Amelia. Il cuore gli batteva fortissimo e aveva le mani sudate. Quando era in giro e giocava con i due amici di solito riusciva a scordarsi di suo padre, ma poi tornava a casa ed era come risvegliarsi da un bel sogno e piombare nella realtà. I rimproveri della governante erano stampati a lettere di fuoco nella sua testa. Quanto era tardi? Da quanto tempo suo padre lo aspettava a tavola? Riusciva a immaginarlo, seduto al grande tavolo di quercia della sala da pranzo, un bicchiere di vino in una mano e l’altra che tamburellava sul tavolo apparecchiato, il viso che diventava sempre più scuro.
Enrico salì la scala a rotta di collo e si fiondò in salotto dalla portafinestra. Era una stanza grande, arredata con mobili di mogano dall’aria antica e pesante: due enormi vetrine piene di argenti e porcellane, un mobile bar in un angolo carico di bottiglie di liquore che Amelia aveva messo sotto chiave dopo aver sorpreso i bambini ad assaggiare il cognac, due consolle dal ripiano in marmo bianco venato di grigio e un tavolo basso, ovale, posizionato tra due divani ricoperti di damasco verde e oro al centro della stanza. Dal soffitto pendeva un enorme, elaborato lampadario in ferro battuto. Il colore cupo dei mobili contrastava con il pavimento di maioliche bianche decorate da motivi verdi e gialli. Al centro, in corrispondenza del tavolino ovale, le piastrelle componevano il disegno di una rosa dei venti. Nell’angolo accanto alla portafinestra c’era un pianoforte a coda.
Senza fermarsi a prendere fiato, Enrico si slanciò attraverso la porta che conduceva alla sala da pranzo. Era grande e luminosa come il salotto e arredata nello stesso stile. Il lampadario a volute di ferro era identico e le maioliche avevano un disegno molto simile a quello del salotto, nei toni del blu e del giallo. Edoardo Falconeri era seduto a tavola, ma non beveva vino. Aveva un’espressione indecifrabile. Accanto al suo piatto ancora vuoto, sulla tovaglia di damasco bianco, c’era il solito sigaro che fumava sempre dopo i pasti. Piombando a tutta velocità nel silenzio della sala, il bambino si rese conto di colpo del baccano che stava facendo, ma riuscì a frenare solo quando ebbe raggiunto il suo posto, alla sinistra di suo padre.
«Scusa il ritardo, papà» ansimò, ancora più accaldato, sudato e rosso in viso di quando era sceso dalla bici. Fece ancora più rumore mentre spostava la sedia, poi urtò le posate facendole tintinnare tra loro. Ogni minimo suono gli sembrava amplificato, come in uno stadio vuoto. Cercò di respirare, per calmarsi e rallentare il battito del cuore. Non osava guardare verso suo padre, che invece, ne era certo, lo stava fissando.
Edoardo rimase in silenzio, immobile, per alcuni, lunghissimi secondi. A Enrico sembrava di vederli scorrere uno dopo l’altro come i granelli di sabbia in una clessidra. Poi entrò Clara.
«Posso portare il pranzo, signor Falconeri?» domandò. Lanciò uno sguardo rapido al bambino e per qualche motivo serrò le labbra.
«Sì, grazie, Clara» fu la sommessa, fredda risposta di Edoardo.
La cameriera uscì e cadde di nuovo il silenzio. Enrico rimase perfettamente immobile, cercando di non muovere neanche un muscolo, il cuore che gli martellava sordo nelle orecchie e non voleva saperne di placarsi, gli occhi fissi sulle due portefinestre spalancate davanti a lui. Suo padre era così silenzioso da sembrare un fantasma. Enrico non si era aspettato un’esplosione, sapeva che non era da lui, eppure avrebbe preferito mille volte una sfuriata da far tremare i muri a quel nulla assordante che lo faceva sentire come se stesse precipitando in un pozzo. Gli parve che fosse passato un secolo quando finalmente Clara tornò con il primo, busiate[1] con il pesto alla trapanese. Guardò il piatto pieno davanti a sé e un’ondata di nausea gli colpì lo stomaco. Non aveva la minima voglia di mangiare, ma non voleva attirare l’attenzione di suo padre. Doveva comportarsi normalmente. Si costrinse a prendere la forchetta e mandare giù il primo boccone, nonostante avesse la gola serrata. Intanto osservava i giochi colorati della luce calda del primo pomeriggio che passava attraverso la brocca e i bicchieri di cristallo.
Chissà dov’erano Claudia e Stefano, chissà cosa stavano facendo. Avrebbe tanto voluto essere con loro, con chiunque altro, in qualunque altro posto che non fosse lì, con la sensazione di soffocare mentre si sforzava di mandare giù tutto in silenzio, di ubbidire, di non sbagliare ancora. Il cuore martellava furiosamente, come era successo prima, alla torre saracena, quando aveva guardato dal basso la sua cima frastagliata e aveva pensato che non ce l’avrebbe mai fatta, che non avrebbe sostenuto nessuna prova di coraggio. Lo aveva capito subito, anche se aveva fatto finta di nulla. Ma era servito a qualcosa, poi? Quando Stefano lo guardava, Enrico aveva l’impressione che i suoi occhi lo trapassassero da parte a parte, come quelli di suo padre. Gli leggevano dentro, tutti e due. Serrò tra le dita il manico della forchetta.
Clara rientrò in sala da pranzo e, sempre nel silenzio più assoluto, tolse i piatti vuoti (con uno sforzo enorme, Enrico era riuscito a finire tutto) e portò il secondo: orata al forno con patate e peperoni. Era una delle specialità di Amelia, un piatto che preparava sempre quando voleva fare buona impressione su qualche ospite, ed emanava un profumo delizioso. Eppure gli si rivoltò lo stomaco, di nuovo. Per un attimo pensò di chiedere il permesso di alzarsi, ma scartò l’idea ancora prima di formularla davvero. Non ne aveva il coraggio. Controvoglia, prese la forchetta che Clara gli aveva appena cambiato e cercò di mangiare. Tenne gli occhi fissi sul piatto mentre mandava giù un boccone dopo l’altro quasi senza sentirne il sapore, pensando solo che doveva finire, perché quando avesse finito e anche suo padre si fosse alzato lui sarebbe stato libero di correre via, a cercare Stefano, e respirare di nuovo. Qualche volta Amelia preparava anche un dolce o il gelato fatto in casa, ma Enrico pregò che quella volta non ne avesse avuto il tempo.
Poi, all’improvviso, la voce di suo padre infranse il silenzio. Sebbene fosse bassa e calma, irruppe nei suoi pensieri come se avesse sfondato con un calcio la porta di una stanza chiusa.
«Sai, Enrico, quando ero picciriddu[2] avevo qualche problema a rispettare le regole. A fare quello che ci si aspettava da me.» Appena iniziò a parlare, Enrico si paralizzò, stringendo con forza la forchetta fino a sentire dolore. Ecco, il momento arrivato. «Mio padre ci teneva moltissimo, voleva che io imparassi a comportarmi come si addice a un Falconeri, ma io proprio non capivo perché fosse così importante. Anche io facevo tardi a tavola e dimenticavo di fare i compiti per andare in giro a giocare. Mio padre mi rimproverava per questo. Accadde una, due, tre volte, poi, la sera in cui non mi presentai in tempo a una cena con i suoi amici, ospiti importanti, decise che sarei andato a letto a stomaco vuoto. Così ho iniziato a imparare.» Fece una pausa. Parlava lentamente, senza usare parole in dialetto, ma con un accento piuttosto pesante. Nessuno avrebbe potuto ascoltarlo e non capire che era siciliano. Enrico respirava appena, cercando di diventare invisibile. «Un giorno, avevo circa la tua età, mi comprò un canarino. Io pensai che fosse un regalo. Ero contento, mi piaceva sentirlo cinguettare al mattino, quando mi svegliavo. Mi divertivo a dargli da mangiare. Lui disse che sarei stato io a prendermi cura del canarino, era una mia responsabilità. All’inizio non capii esattamente cosa significasse. Per qualche giorno svolsi il mio compito con precisione. Mi sentivo più grande, perché dovevo occuparmi di un altro essere vivente.
Poi, dopo un po’ di tempo, iniziai a stancarmi. Dissi ad Amelia di controllare ogni giorno che il canarino avesse cibo e acqua, così, se un giorno avessi dimenticato di darglieli, ci avrebbe pensato lei. Quasi smisi di preoccuparmi del mio canarino, finché una mattina mi accorsi che non cantava più. Andai a guardare nella sua gabbia e lo trovai morto.» Enrico guardò suo padre, incapace di trattenersi. Lui non ricambiò lo sguardo: fissava un punto davanti a sé, preso dal suo racconto, e andò avanti. «Mio padre aveva saputo che avevo chiesto ad Amelia di aiutarmi e le aveva proibito di occuparsi del canarino al posto mio. Io piansi e lo odiai per quello che aveva fatto, ma poi mi resi conto che era solo colpa mia. Non avevo capito che il canarino non era un regalo. Era una prova. E io avevo fallito. Capii che mio padre voleva farmi crescere, perché se non fossi cresciuto non sarei mai diventato un vero Falconeri.» All’improvviso Edoardo piantò gli occhi su Enrico e il bambino sussultò come se lo avesse schiaffeggiato. «Secondo te c’è riuscito?» domandò con voce tagliente.
Enrico non si aspettava di essere interpellato. Abbassò lo sguardo sul proprio piatto, incapace di sostenere a lungo quello del padre. Non sapeva cosa dire, ma qualcosa gli suggeriva che lui non voleva una risposta. Voleva qualcos’altro. «Mi dispiace, papà, io…»
La sua voce bassa e incerta fu interrotta dall’ingresso improvviso di Amelia.
«Sono venuta a vedere se va tutto bene» disse con un sorriso un po’ forzato quando era ancora sulla soglia, prima di entrare in sala da pranzo.
Andava sempre di corsa, lei: parlava in fretta e si muoveva in fretta, e con precisione, perché in quella casa così grande e difficile da gestire tutto dipendeva da lei. Era raro vederla seduta a riposarsi. Avvicinandosi alla tavola, Amelia guardò Enrico e gli occhi castano chiaro, come quelli di Claudia, si spalancarono, per poi ridursi a due fessure subito dopo. Il bambino seguì la direzione del suo sguardo e si accorse con orrore che nella fretta di correre a pranzo aveva dimenticato di cambiarsi: indossava ancora la maglietta di quella mattina, sporca e strappata. Suo padre se ne era sicuramente accorto, non gli sfuggiva mai nulla. A volte lo rimproverava perché aveva una traccia di inchiostro sulle mani invisibile a chiunque altro. Ecco perché Clara lo aveva guardato in quel modo strano mentre serviva a tavola. Enrico deglutì e lanciò un’occhiata di scuse imploranti alla governante, ma lei voltò la testa con uno scatto irritato.
«Avete bisogno di qualcosa?»
«No, grazie, Amelia. È tutto perfetto, come al solito» rispose il signor Falconeri. Tolse il tovagliolo che stendeva sempre con cura sulle ginocchia, lasciandolo cadere sul tavolo, e si appoggiò all’indietro contro lo schienale della sedia di legno, imbottita e rivestita di un delicato damasco color crema. «Dimmi, ti ricordi del mio canarino?» aggiunse con tono quasi noncurante, ma Enrico non si lasciò ingannare. Conosceva quell’inflessione dura come il legno della sedia, che ora il bambino stringeva nervosamente tra le mani: aveva lasciato la forchetta per aggrapparsi a qualcosa di più solido.
Amelia fissò Edoardo per un momento, poi lanciò un’occhiata a Enrico e sul suo viso comparve un lampo di consapevolezza. Abbassò la testa e lui non riuscì a capire se fosse dispiaciuta o ancora arrabbiata o tutte e due le cose. «Sì, signor Falconeri. Me lo ricordo» rispose a mezza voce. Esitò, come se fosse sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi cambiò idea. «Se non c’è altro, torno in cucina.»
Aveva un’espressione dura, poco meno di quella del signor Falconeri. Enrico aveva capito da qualche anno che Amelia non aveva simpatia per suo padre e che i suoi metodi non gli piacevano, ma non poteva dire nulla a voce alta. Edoardo inspirò, poi annuì. La governante lanciò un’ultima occhiata ammonitrice a Enrico e uscì dalla sala pranzo e lui si trovò di nuovo da solo con suo padre.
Edoardo, però, non riprese subito a parlare. Restò in silenzio per un tempo che a Enrico parve infinito, ma lui non si azzardò a infrangerlo. Sapeva che non stava riflettendo su come continuare, né voleva dare a lui il tempo di dire qualcosa o chiedere scusa. Lo stava mettendo alla prova, sfidandolo a resistere, sapendo che il bambino temeva i suoi silenzi molto più di una tremenda sgridata. Enrico strinse il bordo della sedia tra le dita, il corpo in tensione, fissando dritto davanti a sé, e si costrinse a resistere, ad aspettare, a non deludere suo padre, anche se gli mancava l’aria, anche se l’unica cosa che avrebbe voluto fare era correre via… La tentazione era così forte che quasi faceva male. Per un istante terribile fu sul punto di alzarsi, poi sentì di nuovo la voce di suo padre e fu come se un gancio lo tirasse indietro, inchiodandolo dov’era.
«Tu ti scusi sempre, Enrico. Sei un bambino educato. Il punto è che non è abbastanza. Lo capisci?»
Sì, lo capiva. Non era mai abbastanza, ma il problema era che non aveva idea di cosa fare per esserlo. Suo padre si aspettava che in qualche modo ci arrivasse da solo, ma per quanto ci riflettesse, per quanto ci provasse, tutto quello che faceva era sempre sbagliato. Si limitò ad annuire. Non aveva voglia di parlare e comunque non avrebbe avuto nulla di importante da dire.
«Rispondimi quando ti parlo, per favore» aggiunse Edoardo, con voce appena più dura.
Enrico trasalì e si raddrizzò sulla sedia. «Sì. Sì, papà» mormorò, controvoglia. Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale sentì suo padre emettere un sospiro lieve.
«Quando ero picciriddu io… erano altri tempi. E ho sempre pensato che tu fossi troppo lofiu[3] per quel genere di lezioni» disse Edoardo. Enrico capì che si riferiva alla storia del canarino. «Però continui a non imparare.»
All’improvviso qualcosa scattò dentro Enrico. «Io non sono debole» si sentì protestare, come se si osservasse dall’esterno.
«Allora dimostralo. Smetti di farti trascinare. Dovrebbe essere Stefano a seguire te, non il contrario. Sei il più grande, sei mio figlio. E guarda in che condizioni sei… È questo il modo in cui Enrico Falconeri si presenta a tavola?»
«Mi dispiace, papà, ma Stefano e Claudia…» Capì subito di aver commesso un errore, ma era tardi.
La voce di suo padre divenne di ghiaccio. «Non mi interessa cosa fanno gli altri. Tu sei un Falconeri, non loro.» Fece un respiro pesante, come per far uscire la rabbia e mantenere il solito controllo ferreo. Per qualche secondo rimase in silenzio a guardare nel vuoto con aria assente. Ancora una volta Enrico tacque insieme a lui. Sapeva che quando si estraniava in quel modo pensava a sua madre. Poi Edoardo riprese a parlare. Il tono divenne leggermente più morbido, velato di tristezza. «So che deve sembrarti molto severo, ma se non capisci queste cose adesso non ne capirai altre più importanti, in futuro.» Si alzò, spingendo indietro la sedia con un forte stridio sul pavimento, ed Enrico trasalì. Afferrò il sigaro e si avviò alla portafinestra, ma il bambino riuscì comunque a sentire le ultime parole che pronunciò. «Cerca di non deludermi di nuovo.»

 

****

 
Quando suo padre uscì sul ballatoio per fumare, fu come se qualcuno avesse aperto la porta di una gabbia. Enrico schizzò in piedi e corse fuori. Si infilò nel corridoio, salì al secondo piano, passando sotto le porte ad arco e scivolando sulle maioliche colorate del corridoio. Non incontrò nessuno. La casa sembrava deserta, immersa in una calda sonnolenza. Si tuffò nella sua stanza e poi nel piccolo bagno. Si guardò allo specchio: il viso era arrossato e l’azzurro degli occhi sembrava più intenso e luminoso del solito. Le sue spalle si irrigidirono quando notò una macchia di terra sulla guancia e pensò che suo padre l’aveva vista, l’aveva visto in quelle condizioni. Aprì al massimo il rubinetto e si tuffò sotto l’acqua fredda. Si strofinò il viso con forza, cercando di lavare via la macchia insieme a tutto quello che aveva tanto deluso suo padre, ancora una volta.
Non avrebbe mai avuto il coraggio di raccontargli della prova che non aveva sostenuto, dell’ansia che gli aveva afferrato lo stomaco quando aveva capito cosa voleva fare Stefano, del sollievo quando avevano deciso di tornare a casa e lui aveva realizzato che non era obbligato a fare la prova, che aveva una scusa per evitarla. Non perché fosse troppo spaventato dall’altezza o avesse paura di cadere o farsi male. Sì, aveva paura di tutte queste cose, ma dentro di sé sentiva confusamente che il vero problema era un altro. Chiuse gli occhi, mentre l’acqua gli scorreva sul viso e lungo il collo, e immaginò se stesso salire sulla torre, da solo. Senza Stefano, forse anche senza Claudia. Se Stefano non ci fosse stato, se non fosse andato per primo anche questa volta, se non ci fosse stata nessuna gara, sentiva che ce l’avrebbe fatta. Non era andata così, però. Suo padre non sapeva nulla di tutto ciò, Enrico glielo avrebbe nascosto per sempre, se avesse potuto, eppure lo aveva guardato come se in qualche modo lo sospettasse, come se potesse vedere attraverso gli occhi del figlio cosa era successo e sorridere freddamente della sua debolezza. Eppure non era colpa di suo padre se non era salito sulla torre. O forse invece lo era?
Troppo confuso per ragionare con lucidità, chiuse il rubinetto con forza. Tornò in camera, si strappò via la maglietta sporca e strappata e ne prese un’altra da un cassetto. Di solito dopo aver pranzato con suo padre andava a cercare Stefano, ma in quel momento non aveva alcuna voglia di stare con il suo amico. Avrebbe parlato della prova di coraggio ed Enrico non voleva pensarci ancora: lo poneva davanti a un dilemma che non era in grado di risolvere. Ma cosa avrebbe fatto, senza Stefano? Era così abituato a passare con lui il tempo libero che quando per qualche ragione si ritrovava da solo era come se gli mancasse un pezzo di sé. Sedette sul pavimento e si guardò intorno.
La sua camera non gli piaceva. Era arredata con gli stessi mobili cupi e pesanti del resto della casa, appartenuti a suo padre da bambino e probabilmente, ancora prima, al padre di suo padre: un letto enorme alto e scomodo, una scrivania, una piccola libreria, un armadio, una cassapanca, un comodino e un mappamondo nell’angolo accanto alla finestra. Era ordinata e immacolata come le altre stanze del baglio e non sembrava la camera di un bambino, ma di un vecchio signore che passava le giornate sul balcone a guardare il mare, senza sporcare niente e senza mettere in disordine.
Enrico cercava di passarci meno tempo possibile. Non aveva mai pensato di cambiare qualcosa, sapeva che suo padre non sarebbe stato d’accordo. L’unico tocco personale erano delle stelle e dei pianeti di plastica fluorescenti che una volta aveva attaccato su una parete insieme a Stefano, fin dove erano riusciti ad arrivare salendo su una sedia. Al buio si illuminavano ed Enrico si addormentava guardandole e ripensando a quel momento. Il caos, i giocattoli e tutte le sue cose erano destinate alla stanza accanto, chiamata “la stanza dei giochi”, dove lui passava la maggior parte del tempo quando era a casa, facendo i compiti, leggendo o giocando.
Chissà se Stefano aveva voglia di vedere le costruzioni nuove che suo padre gli aveva comprato? Enrico esitò un momento. Non era sicuro di cosa volesse fare, ma almeno poteva provare a cercare Stefano. Si alzò e uscì sul balconcino che affacciava sul cortile, nell’aria calda e stagnante. Guardò in basso e accanto a una delle aiuole vide Stefano che parlava con suo padre. Si bloccò di colpo, come se qualcuno gli avesse rovesciato addosso una bacinella di acqua ghiacciata. Edoardo fumava il suo sigaro, dava le spalle alla casa e non poteva vederlo, mentre Stefano era rivolto verso il balcone e guardava Edoardo. Se avesse spostato gli occhi avrebbe potuto notare Enrico sul balconcino. Di cosa stavano parlando?
D’istinto Enrico si acquattò sul pavimento di cotto, che bruciava per essere esposto al sole tutto il giorno, nascondendosi dietro due piante di rose. Sentiva che c’era qualcosa di strano in quella scena, ma non capiva che cosa. Per un po’ non accadde nulla e Stefano ed Edoardo continuarono a parlare, le voci troppo basse perché lui potesse ascoltare. Poi Enrico vide suo padre sollevare la mano e dare un buffetto sulla testa dell’amico prima di voltarsi e tornare in casa con il sigaro ancora fumante tra le dita. Lo stomaco gli sussultò come se qualcosa lo avesse strattonato, poi scivolò verso il basso, piano e inesorabilmente, sotto le suole delle scarpe. Suo padre non aveva mai fatto quel gesto con nessuno, prima. Non lo aveva mai fatto con lui.
All’improvviso aveva la nausea. Non aveva più voglia di giocare con le costruzioni. Cercò di strisciare all’indietro, allontanandosi senza alzarsi in piedi dalla ringhiera panciuta, tutta volute e ghirigori in ferro battuto. Non doveva assolutamente farsi vedere. Poi colse con la coda dell’occhio un movimento, uno svolazzo azzurro. Tornò al suo posto e guardò di nuovo giù, nascosto tra le rose: era Claudia che attraversava di corsa il cortile. Da dove era spuntata? Era sicuro di non averla vista, prima. La bambina raggiunse Stefano e i due parlottarono per qualche secondo. Enrico avrebbe voluto tornare dentro e buttarsi sul letto e fissare il soffitto senza fare niente, ma non riusciva a trascinarsi via da lì. Continuava a guardare, come in attesa. Aveva l’assurda sensazione che stesse per succedere qualcosa e che, qualunque cosa fosse, lui dovesse vederla. Così seguì con gli occhi Claudia che si alzava sulle punte dei piedi per baciare Stefano e poi si voltava e scappava via, infilandosi nella cucina a tutta velocità, la gonna azzurra che le si gonfiava intorno come una nuvola di zucchero filato.
Enrico restò immobile, congelato. Poi sentì qualcosa di caldo sulla mano. Abbassò gli occhi e vide un rivolo di sangue che scorreva su un dito: senza rendersene conto aveva serrato la mano intorno allo stelo di una rosa e una spina gli si era conficcata nella carne. Enrico osservò la sottile linea rossa che scivolava lungo il dito come se fosse qualcosa che non lo riguardava, sebbene avvertisse il bruciore della ferita. Di scatto chiuse la mano a pugno, intrappolando la spina nella carne, spingendola ancora più dentro. Faceva male. 
Si mosse piano all'indietro, restando acquattato per terra, e rientrò in casa, a testa bassa, senza voltarsi.






[1] Un formato di pasta tipico della Sicilia e in particolare di Trapani, simile ai fusilli.

[2] Piccolo.

[3] Debole.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4. Quello che non è tuo ***


CAPITOLO 4
QUELLO CHE NON È TUO

 

Sicilia, Isola di Santo Stefano
Agosto 1988

 

 Con l’avanzare del pomeriggio il caldo iniziava pian piano ad attenuarsi e il baglio tornava lentamente alla vita dopo aver sonnecchiato pigro tra il pranzo e il tramonto. L’acciottolio di pentole e piatti nella cucina e lo scalpiccio sempre più frenetico annunciavano la preparazione della cena, mentre il vecchio Michele si affannava da un angolo all’altro del cortile approfittando delle ultime ore di luce senza il sole martellante sulla nuca per portare a termine il lavoro della giornata e in casa le cameriere preparavano la sala da pranzo per la cena. Stefano sapeva che sua madre doveva essere con loro, a disporre uno dei servizi di porcellana dei Falconeri – quello meno costoso e importante, per tutti i giorni – sulla tovaglia di damasco candido, con la precisione rigorosa che richiedeva il signor Falconeri. O forse era in cucina ad aiutare Amelia a cucinare, con Claudia che sgambettava dietro di loro. Sua madre non era una grande cuoca, in verità, ma una mano in più era sempre meglio che una mano in meno, diceva sempre Amelia.
Lui, però, non stava cercando sua madre. Era abituato a passare anche intere giornate senza vederla, perché era sempre al lavoro. Cercava Enrico. Non lo aveva più visto da quando erano tornati dalla torre e lui era entrato in casa di corsa, trafelato e con la solita aria allarmata che gli veniva quando temeva di aver fatto arrabbiare suo padre. Senza di lui si stava annoiando. Forse, mentre tutti erano occupati con la cena, avrebbero potuto riprendere le bici e fare un ultimo giretto prima del buio, strappando un’altra ora di libertà, un’altra ora fuori dalle mura alte e spesse del baglio che a volte sembravano i confini di una prigione.
Enrico, però, era introvabile. Stefano aveva già fatto il giro della casa un paio di volte, chiamandolo a gran voce, senza vedere nemmeno la sua ombra. Nella stanza dei giochi al primo piano aveva trovato il castello che Enrico stava costruendo con i Lego nuovi che gli aveva regalato suo padre mezzo distrutto. I pezzi erano sparpagliati sul pavimento in tutte le direzioni, come se qualcuno lo avesse colpito con violenza. Stefano aveva osservato quel disastro per un po’, fermo sulla soglia, turbato, poi era scivolato via in silenzio con la sgradevole sensazione di aver visto per caso qualcosa che non avrebbe dovuto vedere.
Era possibile che Enrico fosse andato da qualche parte senza di lui? Ma no, loro due facevano sempre tutto insieme. Claudia qualche volta non poteva seguirli, se sua nonna glielo proibiva o le affidava una faccenda da sbrigare, ma Enrico e Stefano erano inseparabili. Forse Edoardo lo aveva messo in punizione per aver fatto tardi a pranzo per la millesima volta? Forse, ma allora non avrebbe dovuto starsene in camera sua?
Mentre attraversava il cortile, pensieroso, a testa bassa, all’improvviso raddrizzò il collo, si fermò per un momento, poi tornò sui suoi passi. C’era un solo posto dove ancora non aveva guardato. Davanti a lui, lungo il lato est del cortile, c’era una porta di ferro spessa, bassa e stretta che conduceva alle cantine. Lì dentro c’erano le bottiglie del vino Falconeri di Santo Stefano e poi botti antiche e oggetti legati alla produzione del vino ormai non più utilizzabili, che però la famiglia conservava da generazioni, come una specie di piccolo museo da mostrare ad amici e visitatori. Di solito la porta era chiusa con una chiave conservata nello studio del dottor Falconeri e quello era un limite che nemmeno Stefano aveva mai pensato di superare. Infilarsi nello studio di Edoardo per sottrarre qualcosa era troppo anche per lui. Una volta lo aveva proposto a Enrico per finta e si era divertito a osservato la sua faccia sbiancare di colpo come se qualcuno gli avesse lanciato addosso un sacco di farina. Stefano non ricordava di aver mai riso così tanto come quel giorno.
Si accostò alla porta della cantina e si rese conto che non era più chiusa a chiave. Era solo accostata. Possibile che Enrico fosse lì? Si guardò intorno rapidamente per controllare che nessuno lo vedesse, mise entrambe le mani sulla superficie di ferro scaldata dal sole e spinse, senza troppa forza, cercando di non fare rumore. La porta era pesante, ma sotto il suo peso si aprì abbastanza docilmente. Stefano scese con un salto tre gradini di pietra alti e irregolari e atterrò sul pavimento, poi si girò e accostò di nuovo la porta dietro di sé, perché sembrasse chiusa. Si ritrovò nella penombra fresca e cupa di un ambiente vasto. Fece qualche passo sul pavimento di pietra consunta dal tempo, guardandosi intorno.
Prima di allora era stato nella cantina solo un’altra volta: quando aveva cinque anni il signor Falconeri lo aveva portato con sé a fare un giro lì sotto. Aggrappato alla mano di Edoardo, Stefano aveva osservato con gli occhi sgranati le sale grandi e buie che si succedevano una dopo l’altra, le file di botti incastrate all’interno di strutture di legno antico addossate alle pareti dal pavimento fino al soffitto a volta, i vecchi attrezzi ancora perfettamente conservati, l’enorme cisterna dove in passato era tradizione che le giovani contadine pestassero l’uva con i piedi durante la vendemmia. Edoardo aveva girato una specie di piccola chiave in una delle botti e ne era uscito il vino, di un rosso cupo e pieno di riflessi che avevano lasciato Stefano a bocca aperta. Poi ne aveva fatto cadere in un bicchiere alto e stretto e lo aveva avvicinato al bambino perché lo annusasse. A Stefano sembrava di poter sentire ancora quel profumo dolce e intenso, ma la cosa che ricordava più di tutte era la sensazione della mano grande e stranamente fredda di Edoardo Falconeri che stringeva la sua, minuscola al confronto. Era l’unica volta in cui lo aveva preso per mano e gli aveva trasmesso un senso di sicurezza che dopo Stefano non aveva più avvertito. A volte gli mancava e avrebbe voluto provarlo ancora, ma respingeva subito quel pensiero, infastidito, come un’imperdonabile debolezza.
Attraversò lentamente gli stanzoni deserti. La luce obliqua del tardo pomeriggio entrava da finestre orizzontali, lunghe e basse, poste quasi sotto il soffitto. Non c’era traccia di Enrico neppure lì. Arrivato all’ultima stanza, per un attimo gli parve vuota come le altre. Poi colse qualcosa con la coda dell’occhio, una macchia di colore fuori posto, e si bloccò. Eccolo. Enrico era in un cantuccio profondo immerso nella penombra, seduto per terra, contro il muro. Si era cambiato la maglietta e ora indossava una polo azzurra. Il viso era seminascosto dalle ombre.
«Enrico» esclamò Stefano di getto. Il petto gli si riempì di sollievo. Lo aveva trovato, finalmente. Non lo aveva perso. «Ti stavo cercando. Ti ho chiamato prima, non hai sentito?» L’altro bambino non rispose. Un silenzio strano e ostinato si allungava tra loro. Stefano ebbe un attimo di esitazione, poi fece un passo avanti. «Enrico?»
«Che vuoi?» sbottò Enrico, con un tono duro e aggressivo che Stefano non gli aveva mai sentito usare prima, con nessuno, tanto meno con lui. Lo colpì come uno schiaffo e il sollievo scivolò via in fretta. Trasalì, poi rimase immobile, mentre una sensazione di freddo innaturale gli avvolgeva il corpo. Doveva essere successo qualcosa di grave. Forse il signor Falconeri si era arrabbiato così tanto con suo figlio da togliergli la bicicletta e metterlo in punizione per il resto dell’estate. Magari gli aveva proibito di uscire dal baglio ed Enrico sarebbe stato costretto a restare tra quattro mura a finire i compiti delle vacanze fino all’inizio della scuola. Era una possibilità spaventosa che giustificava la rabbia di Enrico.
«Niente» rispose, cauto. «Pensavo… Volevo sapere se ti va di fare un giro. Amelia sta preparando la cena e…»
«Non voglio andare da nessuna parte. Vattinni.[1]»
Stefano non si mosse. Non gli passò per la testa neanche per un secondo di fare come voleva Enrico. Era chiaro che il suo amico non stava bene. Aveva qualcosa di strano, non era soltanto arrabbiato o triste, e non poteva lasciarlo così. Non gli avrebbe voltato le spalle.
«Chi fu?[2] Tuo padre si è arrabbiato?»
Fu come se qualcosa scattasse di colpo nella testa o nel cuore di Enrico. Si alzò in piedi con un unico movimento aggressivo e uscì dalla penombra a fronteggiare Stefano. Adesso era in piedi nel pulviscolo che danzava nel fascio di luce sotto la finestra e Stefano riusciva a vederlo meglio: stringeva i pugni, tremava, aveva il respiro affannoso come quando correva e una smorfia di rabbia gli deformava i tratti delicati del viso.
«Tu mio padre non lo devi neanche nominare!» gridò e sembrò che non si preoccupasse di chi poteva sentirlo. «Non c’entri niente con lui! Niente, hai capito?»
«Ma che cos’hai, Enrico?» Stefano fece un passo indietro, ma non perché avesse paura dell’altro bambino. Se anche gli si fosse lanciato contro era sicuro di sapersela cavare, per quanto fare a botte con il suo migliore amico fosse un pensiero assurdo. Il problema era che Enrico non sembrava più la stessa persona di quella mattina, con cui Stefano aveva condiviso ogni giornata dalla nascita e di cui conosceva ogni espressione, ogni gesto, ogni movimento. Era un estraneo ed era questo che lo sgomentava.
Enrico serrò i pugni ancora di più e prese un respiro corto e affannoso. «Ti ho visto, prima. Nel cortile. Con mio padre. Con Claudia» disse a denti stretti, buttando fuori le parole con rabbia, il viso alterato e pallidissimo che contrastava con il colore dei suoi occhi. «Non avevi il diritto di fare quello che hai fatto!»
Stefano lo guardava, calmo e concentrato. Più Enrico perdeva il controllo e alzava la voce, più lui diventava freddo. Non riuscì a capire se si riferisse al fatto che aveva parlato con Edoardo o al bacio di Claudia, ma non ebbe il tempo di rifletterci su. Enrico era un fiume in piena che straripa all’improvviso e travolge tutto quello che trova sulla sua strada.
«Tu non hai nessun diritto, nessuno! Sei figlio di nessuno. Lascia stare mio padre e…» Enrico tacque di botto, come se gli si fosse mozzato il fiato. Per un attimo fissò Stefano in silenzio, mentre la rabbia cresceva, poi prese aria ed esplose di nuovo. «Lasciali stare, tutti e due! Tu prendi sempre quello che non è tuo! Ti prendi tutto! Vivi qui e non hai nessun motivo di starci! Dovresti andartene, adesso! Vattene, non ti voglio più vedere! Vattene!»
Stefano non aveva sussultato mentre l’altro gli urlava contro, non aveva cercato di parlare, non aveva sbattuto le palpebre, quasi non aveva respirato. Quando scese il silenzio rimase ancora zitto e immobile a guardarlo negli occhi, cercando di capire fino in fondo quelle parole spaventose e incomprensibili che ancora vibravano nell’aria in mezzo a loro. Si rendeva conto che in quello che era successo nel cortile doveva esserci qualcosa di tremendamente sbagliato per Enrico, ma cosa? Avrebbe voluto chiederlo ad alta voce, ma sentiva un dolore nel petto che saliva e gli stringeva la gola in una morsa e quasi lo soffocava. Non aveva mai provato nulla del genere. Aveva la strana sensazione che la risposta a quel mistero fosse proprio accanto a lui, a portata di mano, che avrebbe potuto afferrarla da un momento all’altro, ma non riusciva a capire. Era quella la cosa peggiore. Non riusciva a parlare, respirare, stare lì fermo un secondo di più. Si voltò e corse via.

 

****

 
Il primo posto dove gli venne in mente di rifugiarsi fu la stanza che divideva con sua madre. Vivevano lì da quando era nato lui e oltre ad Amelia e Claudia, che avevano una stanza identica accanto alla loro, erano gli unici ad abitare lì al baglio. Tutti gli altri dipendenti vivevano in paese, a Portosalvo, arrivavano la mattina presto e andavano via a ora di cena.
Quella stanza era il posto più vicino a una casa che Stefano avesse mai avuto, anche se capiva che non era una vera casa. Apparteneva al signor Falconeri, come tutto il resto, e solo perché lui era molto legato ad Amelia, che lo aveva cresciuto da bambino, e affezionato a Stefano, lasciava che abitassero al baglio con la sua famiglia. Amelia, in verità, si era trasferita al baglio per fare la domestica quando aveva tredici anni e da allora era sempre vissuta lì, prima da ragazza e poi con suo marito, che prima di morire era stato il giardiniere dei Falconeri insieme al vecchio Michele. Quando i genitori di Claudia erano morti in un incidente d’auto, sei anni prima, e lei era rimasta sola, si era trasferita al baglio per stare con la nonna materna.
Stefano attraversò precipitosamente il cortile, imboccò una porticina, percorse un corridoio di pietra e quasi buttò giù la porta della camera aprendola con foga, poi la sbatté alle sue spalle e si ritrovò da solo, nel silenzio. I rumori dalla cucina giungevano ovattati attraverso le spesse pareti di pietra. Stefano restò immobile per un attimo, a riprendere fiato e a cercare di calmarsi. Era una stanza grande, dal soffitto basso. Sua madre gli aveva detto che in passato era usata come dispensa. Il pavimento era di cotto, sbiadito dagli anni, come in tutti i locali accanto alla cucina, e i mobili provenivano dalle stanze del baglio. Erano pezzi ormai vecchi o poco pregiati che non trovavano posto nell’arredamento elegante della casa. Il grande letto di legno a slitta dove dormiva sua madre era nell’angolo a sinistra e quello di Stefano, più piccolo, nell’angolo a destra. Tra i due letti si apriva una finestra lunga e stretta, sotto la quale c’era un mobile di legno scuro che Stefano usava come scrivania per fare i compiti. Accanto alla porta, a destra, c’era un tavolo rotondo che un tempo era stato utilizzato nella cucina e dal lato opposto un grande armadio di mogano ad angolo, pieno di pompose decorazioni, che Stefano detestava e che oltre ai loro vestiti ospitava una parte della biancheria della casa: tovaglie di damasco, tovaglioli ricamati a mano ai tempi della nonna di Enrico, asciugamani morbidi come il velluto, che Stefano aveva il divieto assoluto di toccare. A volte Amelia diceva alla madre di Stefano che tra un paio d’anni al massimo, quando lui fosse cresciuto, quell’unica stanza non sarebbe più andata bene per loro due. Lei non rispondeva, ma si accigliava e serrava le labbra, come per trattenere parole che non poteva far uscire.
A Stefano quella stanza non era mai piaciuta. Non l’aveva mai sentita come casa sua. Odiava quei mobili vecchi e spaiati, dall’odore strano, imponenti, scuri e così pesanti da non poter essere spostati. Lì dentro si sentiva soffocare, come se il grande armadio e tutti gli altri mobili potessero cadergli addosso e seppellirlo da un momento all’altro. Però era anche l’unico posto al baglio dove era sicuro di non trovare sua madre a quell’ora e aveva bisogno di stare da solo.
Attraversò la camera a grandi passi, si buttò sul suo letto e rimase lì, sprofondato tra i cuscini altissimi e morbidi che profumavano di bucato fresco e dei mazzolini di lavanda che Amelia metteva negli armadi e nei cassetti della biancheria. Fissò il cielo fuori dalla finestra che si scuriva lentamente, passando dall’azzurro brillante a un trionfo di rosa, viola, giallo e arancione, e infine a un morbido blu punteggiato di stelle. Quando sentì la porta aprirsi non aveva idea di quanto tempo fosse passato, ma ormai era quasi buio. Non si mosse.
«Stefano, qua stai» disse la voce stanca di sua madre. Ci fu un attimo di silenzio, poi la porta fu chiusa di nuovo e lui udì il tac dell’interruttore. La luce gli ferì gli occhi e dovette chiuderli per un momento, aspettando che si abituassero. «Perché non venisti a cena? Non hai mangiato niente? Amelia mi disse che non ti vede dalle quattro.»
Stefano continuava a tacere. Non aveva nessuna voglia di parlare e se anche avesse voluto rispondere non avrebbe saputo da dove cominciare. Cadde di nuovo il silenzio. Sentì che sua madre sbuffava e mormorava qualcosa sul caldo infernale, poi armeggiava con la spazzola sul cassettone. Riusciva a immaginarla perfettamente, occupata a passarsi il pettine tra i capelli e poi a raccoglierli di nuovo con la molla che usava sempre, sollevandoli sul collo sudato. Raggiunse il letto e sedette accanto a lui.
«Che hai? Ti senti bene?»
Il bambino si limitò a scrollare le spalle. Sentiva gli occhi di sua madre addosso, ma non si voltò.
«Va bene, allora vuol dire che non hai fame» rispose lei in tono secco e definitivo. Non era una persona molto paziente, Stefano lo sapeva e non voleva farla arrabbiare. Si girò piano sul letto, si mise a sedere e la guardò.
Maria Ruggero era seduta con le braccia tese all’indietro, le gambe allungate davanti a sé, e fissava un punto sulla parete con aria assente. Era bellissima. Aveva ventotto anni ed era alta e formosa. I lunghi capelli neri e mossi, lucenti e ondulati, che le arrivavano alla vita, erano una chioma da regina. Sembravano tessuti con la seta. Grandi occhi scuri a mandorla, la pelle ambrata liscia e luminosa, quasi senza imperfezioni, e un naso imponente che forse era l’unico difetto che avesse, anche se a Stefano piaceva. Trovava che rendesse particolare il profilo di sua madre. Lui, comunque, non lo aveva ereditato: aveva un naso sottile, lungo e perfettamente diritto.
Non lo avrebbe mai confessato a nessuno, perché gli sembrava una cosa da bambini piccoli, ma gli piaceva sbirciare sua madre di nascosto, senza che nemmeno lei se ne accorgesse. Maria attirava l’attenzione come la luce attira le falene. Quando camminava in paese tutti si voltavano per seguirla con lo sguardo, quasi inconsapevoli, come ammaliati. Più che la sua bellezza, Stefano aveva la sensazione che a catturare gli altri fosse una specie di energia strana, magnetica, che emanava da lei. La sua presenza non poteva mai essere ignorata, eppure sembrava che a Maria non facesse né caldo né freddo: si comportava come se fosse invisibile e tutti quegli sguardi, soprattutto maschili, le scivolavano addosso.
«C’è una bella novità» disse lei all’improvviso e Stefano trasalì per la sorpresa. Sua madre non usava quasi mai termini dialettali, ma aveva un accento piuttosto marcato, Prese un respiro profondo, senza distogliere lo sguardo dalla parete di fronte a lei, e continuò. «Ti ricordi zia Luisa, mia sorella maggiore? Ti raccontai che abita a Milano e lavora in una scuola elementare.»
Stefano annuì piano. Non conosceva quella zia, che prima della sua nascita si era sposata e si era trasferita, ma in verità non aveva mai incontrato nessuno della famiglia di sua madre. Maria era nata in un paese in provincia di Palermo, di fronte all’isola di Santo Stefano, e lui sapeva vagamente che non era mai andata molto d’accordo con i suoi genitori. A sedici anni, senza terminare la scuola, aveva trovato lavoro come cameriera al baglio Falconeri grazie all’interessamento di Amelia, che conosceva la sua famiglia. I genitori non erano benestanti, suo padre era un operaio e sua madre casalinga. Era un buon lavoro per lei, magari in attesa di trovare qualcosa di meglio. Circa due anni dopo il suo arrivo al baglio, Maria era rimasta incinta. Una volta Stefano aveva origliato un discorso tra Amelia e Michele. Così aveva scoperto che i genitori di sua madre avrebbero voluto che lei “se ne sbarazzasse” o che lasciasse il lavoro e sposasse un suo vecchio fidanzato che la aspettava a casa. Maria si era rifiutata e da allora la famiglia aveva chiuso i rapporti con lei.
Quando al padre di Stefano, era un mistero di cui soltanto Amelia sembrava essere a conoscenza. Stefano sospettava che sua madre avesse proibito alla governante di dirgli qualsiasi cosa, perché Amelia aveva le labbra serrate e non si era mai lasciata sfuggire neanche una sillaba. A volte, quando era piccolo, Stefano aveva chiesto a Maria di suo padre. Lei aveva sempre dato risposte che risposte non erano, evasive e generiche, e alla fine per farlo smettere sbottava: «A che ti serve tuo padre? Ci sono io, no?»
Con il tempo Stefano aveva smesso di fare domande e gli era rimasta solo una vaga curiosità che diventava sempre più flebile, fin quasi a spegnersi del tutto. In fondo non gli era mai importato davvero. Gli sembrava impossibile sentire la mancanza di qualcosa che non aveva mai conosciuto. In paese ogni tanto si spettegolava ancora sulla faccenda, sebbene fossero passati tanti anni, quando non c’era niente di nuovo di cui parlare, ma a mezza voce, come nel timore di offendere qualcuno di importante. A Maria, comunque, non importava neppure delle chiacchiere, proprio come non le importava di essere seguita con gli occhi. Non parlava mai del passato o della sua famiglia e solo una volta aveva mostrato a Stefano una foto di lei con sua sorella quando avevano sedici e ventuno anni, custodita in una cassetta di ferro sotto il letto. Quella zia Luisa gli era sembrata una copia meno bella di sua madre.
«Mi chiamò qualche giorno fa» continuò Maria. «E sai cosa mi ha detto? Che puoi andare a stare da lei.» Stefano sentì un colpo allo stomaco che gli mozzò il fiato. La fissò con gli occhi spalancati, incapace di parlare, mentre lo shock e l’orrore gli riempivano le viscere, ma lei parve non farci caso e andò avanti con tono forzatamente allegro e tranquillo. «È da un sacco di tempo che glielo chiedevo, ma fino a qualche settimana fa suo marito, zio Paolo, era disoccupato. Aveva perso il lavoro e non potevano prendere un bambino in casa, anche se gli avevo detto che avrei mandato dei soldi per te ogni mese. Adesso zio Paolo ha trovato un altro lavoro, fa il postino. E allora hanno detto di sì. Parti domani. Concetta te la ricordi? La merciaia che sta a Portosalvo? Domani deve prendere il traghetto per Palermo e tu viaggi con lei. Mi fa il favore di darti un’occhiata. Io non posso lasciare il lavoro, lo sai. Ti accompagno al porto alle sette. A Palermo ti viene a prendere zia Luisa.»
Parlava in fretta, come per non dargli il tempo di rendersi conto delle sue parole o fare obiezioni. Stefano aveva capito ben poco di quel fiume in piena se non il fatto che doveva andarsene e che sarebbe successo il giorno dopo. Che sua madre lo stava mandando via. Provava una crescente sensazione di panico, come quella volta, quando aveva quattro anni, in cui aveva messo un piede in una buca mentre faceva il bagno al mare e ci era caduto dentro ed Enrico lo aveva tirato fuori prendendolo per un braccio mentre lui gridava e scalciava. A un certo punto Maria lo guardò, forse perché lui non diceva una parola: aveva gli occhi pieni di tristezza e un sorriso tirato che le increspava le labbra.
«Contento sei, Stefano?»
«N-non voglio» balbettò il bambino di getto. Gli sembrava di non avere aria nei polmoni e si costrinse a respirare. «Perché me ne devo andare? Non voglio.»
Maria lo fissò ancora per un momento, poi voltò la testa di nuovo e quella parodia di un sorriso svanì lentamente. «Milano ti piacerà tanto, vedrai. È una città grande e bellissima. Ci sono tante cose da fare e da vedere. Io non ci sono mai stata e tu invece andrai a viverci. Devi essere felice.»
Stefano non era felice per niente. Sentiva solo il panico che cresceva, strizzandogli lo stomaco, serrandogli la gola. «No! Non ci vado!»
Vide sua madre irrigidirsi appena. Sapeva che lui non era il tipo di bambino che si lasciava convincere soltanto da carezze e parole gentili e sapeva che continuare a provare era inutile. Emise un sospiro brusco e si alzò, passandosi le mani sulla gonna del vestito nero come per eliminare pieghe invisibili. «Stefano, pi favuri[3]
«Ti prego, mamma! Voglio restare qui con te, con Amelia, Enrico e Claudia…» Stefano si bloccò mentre le parole gli morivano sulle labbra. Non riuscì a continuare. Maria gli lanciò un’occhiata penetrante e la sua espressione cambiò improvvisamente.
«È successo qualcosa, oggi. Vero è?» domandò con voce tagliente. Una breve pausa. Lui taceva, senza sapere che cosa dire. «Stefano, rispondimi. Qualcuno ti disse qualcosa? È stato Edoardo?»
Nessuno al baglio si riferiva al signor Falconeri con quella familiarità, chiamandolo per nome, neppure Amelia. Stefano provò uno strano malessere e deglutì, cercando di scacciarlo. Non doveva parlare e lo sapeva. Lui, Enrico e Claudia non raccontavano mai agli adulti quello che succedeva tra loro, nel mondo segreto. Risolvevano tutto da soli. Sapeva anche, però, che sua madre avrebbe capito subito che mentiva. Non era mai riuscito a ingannarla: era troppo intelligente, l’unica persona in casa che sapesse tenergli testa, a parte forse il signor Falconeri.
«No» mormorò lentamente e intanto rifletteva, cercando di decidere cosa doveva dire. «Io… ho litigato con Enrico.»
«Perché?»
Stefano aprì la bocca e di colpo scoprì che non poteva più tenersi tutto dentro. Si ritrovò a raccontare a raffica ancora prima di rendersene conto. «Oggi stavo giocando nel cortile, lanciavo le pietre, ed è arrivato il signor Falconeri e si è messo a parlare con me ed Enrico ci ha visti e si è arrabbiato e mi ha detto di andarmene. Ha detto che non ho il diritto di stare qui.» Si interruppe, senza fiato. Aveva evitato per un pelo di raccontare anche del bacio. Il viso gli andò a fuoco e sentì che di nuovo gli mancava l’aria. Inspirò, cercando di calmarsi.
Sua madre lo aveva ascoltato senza battere ciglio, immobile, le braccia lungo i fianchi e gli occhi fissi su di lui. Quando tornò il silenzio fece uno strano sospiro tremante e a Stefano parve esausta.
«Stefano» disse in un sussurro, portandosi le mani al volto come per nasconderlo. Scosse la testa, chiuse gli occhi, poi li riaprì. «Non dovrai sentire mai più niente del genere. Domani te ne vai.»
Stefano ebbe la sensazione che una pietra enorme gli cadesse nello stomaco. Il tono definitivo di sua madre lo terrorizzò. «No! Lui è mio amico, si aggiusterà tutto!»
«Certe cose non si aggiustano. Quel bambino non potrà mai essere davvero tuo amico.»
Lui aveva già aperto la bocca per ribattere, ma si ritrovò senza parole. Era la cosa peggiore che avesse mai sentito, ancora peggio di quella storia di Milano. Se Enrico Falconeri non poteva più essere suo amico, allora non esisteva più niente e niente aveva più senso. E poi arrivò la rabbia. Scoppiò in lacrime, vergognandosi da morire, perché lui non piangeva mai, neanche quando cadeva per due metri giù dalla torre saracena. «Non è vero! Non è vero, sei una bugiarda» gridò, fuori di sé. «Perché non può essere mio amico? Perché
«Perché è tuo fratello!» Maria esplose come un palloncino bucato con un ago. «Edoardo è tuo padre! Ma è come se non lo fossero, perché quell’uomo non ti ha mai dato niente, neanche il suo cognome! Soltanto la sua elemosina ti ha dato!» Fece un gesto con le braccia, indicando la stanza intorno a loro. «E perché avrebbe dovuto darti di più? Lui ci odia, anche se nemmeno l’odio è capace di mostrare! Ci dà la colpa di quello che è successo, pensa che è stato per noi, per me e per te, se…»
Di colpo si interruppe, come se una lama le avesse mozzato le parole. Cadde un silenzio di piombo. L’acciottolio in cucina, dall’altra parte del muro, sembrava lontanissimo. Sembrò rendersi conto solo allora di cosa aveva detto, di aver superato un confine oltre il quale non si poteva tornare indietro, e il suo viso fu stravolto dalla paura. Le scappò un gemito di orrore, mentre si premeva entrambe le mani sulla bocca, come per soffocarlo e ricacciare tutto dentro, ma era troppo tardi. Guardava il bambino tremando, spaventata, ma Stefano rimase stranamente calmo. Era stordito, come se qualcuno gli avesse tirato uno schiaffo fortissimo, e al tempo stesso era lucido. Mentre ripensava alle parole di sua madre ogni tassello andò al suo posto. Adesso era tutto spaventosamente chiaro.
«Mi dispiace» sussurrò Maria, le parole deformate da un singhiozzo. «Mi dispiace tanto. Scusami. Scusami, ti prego.» Anche lei non piangeva mai. Le sue lacrime erano surreali quanto tutto il resto. Ci fu un silenzio molto lungo.
«Perché ci odia?» chiese Stefano con un filo di voce. Quella era l’unica cosa che non aveva capito.
Maria singhiozzò ancora. Si passò le mani sul viso per asciugare le lacrime, poi respirò profondamente e sedette di nuovo sul letto, accanto a Stefano. Raccontò piano, a bassa voce, come se avesse paura di parlare troppo forte, mentre il bambino ascoltava con gli occhi spalancati, e quando ebbe finito rimasero a lungo in silenzio tutti e due. Stefano non riusciva a parlare né a pensare, la sua testa si era svuotata, un po’ come quando era caduto dalla torre e si era sentito un bambolotto di pezza che precipitava verso terra, vuoto e inerte, senza che nulla potesse arrestare la caduta. Sembrava passata un secolo da allora. Era un momento che apparteneva alla vita di un’altra persona, una vita che lui aveva rubato, che non era mai stata davvero sua. O almeno così gli parve.
«Adesso capisci perché non puoi stare qui? Perché te ne devi andare?» disse Maria all’improvviso, la voce calma e dolce, eppure Stefano sobbalzò ugualmente. «È meglio così. Edoardo non sarà mai tuo padre. Sarai sempre l’autru,[4] per lui. Ed Enrico… quando saprà tutto le cose tra voi cambieranno. Non potrà più essere com’era prima. È un bravo bambino, ma… questa una cosa troppo grossa è. E tu sai com’è Edoardo con lui, lo vedi. Avrà sempre paura che tu gli porti via quella briciola d’affetto che suo padre è in grado di dargli. Non c’è posto per te qui. Lo capisci?»
Stefano cercò di dire qualcosa, ma continuava ad avvertire quella sensazione di vuoto e di stordimento. Non c’erano parole, non c’era più nulla dentro di lui. Era come cadere dalla torre, ancora e ancora, all’infinito. Fece un mezzo cenno con la testa, ma forse sua madre non lo vide, perché aveva ancora gli occhi pieni di lacrime.
«Stefano?» lo incalzò in un sussurro.
Lui schiuse la labbra e si costrinse a respirare, come aveva fatto quella mattina, quando si era ritrovato di colpo ai piedi della torre, ferito e confuso. Gli sembrò il primo respiro di una seconda vita.
«Sì. Ho capito.»  




[1] Vattene.

[2] Cos'è successo?

[3] Per favore.

[4]  L'altro.

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Capitolo 6
*** PARTE SECONDA. Capitolo 5. Una pessima idea ***


PARTE SECONDA
MILANO-ISOLA DI SANTO STEFANO
Giugno-luglio 2015

 
 

 

CAPITOLO 5

UNA PESSIMA IDEA

 

Milano

Giugno 2015

 
 

Il sipario di velluto rosso calò dolcemente sul palcoscenico, nascondendo l’orchestra alla vista del pubblico che batteva le mani, in piedi, ma lo scroscio degli applausi si udiva ancora con forza. Era elettrizzante, una scarica di adrenalina nelle vene, pensò Vittoria Ruggero, in piedi accanto al suo pianoforte. Aveva un sorriso raggiante che le si era stampato in faccia da quando si era alzata, insieme ai suoi compagni, per ricevere l’applauso del pubblico, al termine del saggio di fine anno. Le facevano quasi male le guance, ma non riusciva a smettere. Non era il momento di avere una faccia seria.
Intorno a lei si erano rotte le righe, infranto l’ordine rigoroso che regnava sovrano in un’orchestra, ed era esploso un caos che si mescolava al vociare e al chiasso al di là del sipario: i suoi compagni saltellavano, si abbracciavano, strillavano e si chiamavano l’un l’altro sgomitando per raggiungere gli amici in mezzo alla calca, un mare di nero agitato pronto a inghiottire Vittoria e trascinarla via. La “divisa” tradizionale del saggio era in nero: completo con giacca e cravatta per i ragazzi, abito per le ragazze (che al massimo poteva arrivare appena sopra il ginocchio). Ogni volta suscitava le proteste degli alunni, ma nessuno osava modificarla. Le tradizioni, al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, avevano il loro peso. Vittoria sistemò e raccolse gli spartiti, poi sfiorò per un attimo la tastiera con affetto prima di abbassarne il coperchio. All’improvviso qualcuno la circondò da dietro con le braccia, facendola trasalire.
«È andata!» le strillò una voce nell’orecchio, così forte che Vittoria pensò di aver perso un timpano. Poi però sorrise ancora di più. Era Alessandra, il violoncello migliore del suo corso. Vittoria si girò, ancora con la sua amica attaccata al collo, e ricambiò l’abbraccio, mentre un’altra scarica di entusiasmo le incendiava la pelle. La folta chioma riccia e ramata di Alessandra le coprì gli occhi e per un attimo non vide più nulla.
«È andata!» strillò di rimando.
«Non posso credere che il quartetto sia filato così liscio! Avevo un’ansia assurda!»
«Ma scherzi? Avete fatto tremare tutto.»
Alessandra rise e alzò gli occhi al cielo mentre si staccava da Vittoria. «La giusta quantità di ansia…»
«… fa solo bene all’esibizione!» completò Vittoria con un’occhiata di intesa, imitando la voce snob e strascicata di Roberta Grandi, stimata docente di Armonia musicale del Conservatorio.
Alessandra rise ancora. «A lei farebbe bene cambiare quel profumo atroce che si mette sempre, mi stava soffocando durante l’intervallo… Eccola!» Si interruppe di botto vedendo svolazzare in quel mare di nero la lunga sciarpa leggera di un azzurro acceso che la Grandi indossava tutti i giorni, in tutte le stagioni, senza alcuna considerazione per la temperatura esterna. Le aveva fatto guadagnare il soprannome di Fata Turchina, tramandato dagli studenti di generazione in generazione.
Vittoria sgranò gli occhi. La Grandi aveva la spiacevole abitudine di elencarle tutti gli errori che aveva commesso durante le esibizioni subito dopo la fine di un saggio e lei proprio non lo sopportava. Era già abbastanza ansiosa per conto suo. «Scappo! Vado a cercare Daniela. Ci vediamo dopo.»
Si tuffò nella folla, stringendo al petto gli spartiti. Era all’estremità sinistra del palcoscenico e arrivare dall’altra parte per raggiungere il gruppo del coro, dove si trovava Daniela, sarebbe stata un’impresa. Si infilò dietro Massimo, un clarinettista corpulento con i capelli lunghi legati in un codino anni Novanta e lo usò come spartiacque per fendere la calca. Era costretta a fermarsi di continuo per salutare qualcuno e fare i complimenti a qualcun altro e per due volte fu acciuffata e trascinata davanti alla fotocamera di un cellulare per scattare un selfie.
Finalmente raggiunse il coro. Cercò di guardarsi intorno per individuare Daniela, ma c’erano così tante persone che premevano da ogni parte, compresi gli insegnanti che assistevano al saggio dietro le quinte e ora sciamavano sul palco, che riusciva appena a girarsi. Poi sentì qualcuno che le toccava il gomito. Voltò la testa e incrociò i grandi occhi verdi della sua amica. Era alta e formosa, con lunghi capelli scuri ondulati e un sorriso furbo che le accendeva il viso.
«Ehi!» esclamò Vittoria, felice. Si abbracciarono con entusiasmo e quasi finirono addosso a due ragazze che stavano scattando una foto vicino a loro, ma erano troppo su di giri per preoccuparsene. «Com’è andata? La voce ha retto?» chiese ansiosamente Vittoria quando si separarono.
Daniela sbuffò e si toccò la gola con una mano. Indossava un foulard sottile, ovviamente nero. «Più o meno.»
«Che sfiga prendersi il mal di gola due giorni prima del saggio.»
«Sono contenta che sia finita, così almeno non dovrò più avere mia madre nelle orecchie che mi rimprovera perché non mi sono coperta bene quando me lo diceva lei» rispose Daniela, seccata, e Vittoria fece un risolino. Sapeva che la sua amica non andava molto d’accordo con la madre.
«Allora di’ che è andato tutto alla grande e che non sei mai stata meglio.»
«Ovvio. La mia voce è perfetta, sto benissimo» disse Daniela con convinzione e Vittoria rise. «Come sono andati quegli accordi che non ti venivano, nel pezzo da solista?»
Vittoria tornò seria ed emise un verso di sconforto che andò perduto nella confusione che le avvolgeva. «Male. Sono sicura che se ne sono accorti tutti» rispose in tono afflitto.
Aveva suonato il Notturno Op. 9, No. 2[1] di Chopin. Era un brano complicato. Ci aveva lavorato sopra così tanto da bucare lo spartito con la matita a forza di appuntare note e farsi venire una tendinite a settimana per due mesi, eppure non era stato sufficiente. Un fastidio bruciante la invase mentre ci pensava e riuscì quasi a far evaporare l’entusiasmo che aveva provato subito dopo la fine del saggio, davanti agli applausi del pubblico e alle espressioni orgogliose dei genitori in terza fila. Fece un sospiro pesante, mentre Daniela le scoccava un’occhiataccia.
«Ma no, Vittoria… Non cominciare con le solite storie. Sono genitori, non capiscono niente di accordi e armonia. Chi vuoi che conosca a menadito un Notturno di Chopin tra loro?» Tacque per un attimo e rifletté su qualcosa. «A parte la madre di Sofia, ma lei è una pianista che suona in tutto il mondo. È un caso unico. Agli esami sarebbe stato un casino, ma tanto hai preso il massimo dei voti anche quest’anno.»
Vittoria rispondesse con un cenno a qualcuno che la salutava da lontano, mentre si avviava con l’amica verso le quinte. «Ok, loro magari non se ne sono accorti… a parte la madre di Sofia» mugugnò, «ma la Grandi sì. Quando ho finito mi ha guardata malissimo. Ho fatto finta di andare in bagno e sono scappata, ma prima o poi mi prende» concluse, con lo stesso tono drammatico che avrebbe usato se fosse stata inseguita da un mostro assetato di sangue.
Daniela stava per rispondere, ma in quel momento imboccarono la rientranza della parete che conduceva dietro le quinte, nascosta da un pannello di legno, e furono risucchiate da un gruppo di ragazze del coro che stava brindando con una bottiglia di Spritz introdotta furtivamente nello zaino di Massimo il clarinettista. Si scattarono un selfie mentre saltavano tutte insieme con i bicchieri di plastica in mano, poi arrivò il professore di Composizione e le ragazze si precipitarono ridacchiando nel corridoio dei camerini per non farsi beccare.
«Hai visto Marco?» chiese Vittoria a Daniela, mentre mandava giù un ultimo sorso dalla bottiglia prima di passarla a Mia, una violoncellista alta e magra con un tatuaggio a forma di stella sulla scollatura. Vittoria sapeva che era finto.
«Era dalla parte degli arpisti, prima. Starà chiacchierando con i suoi amici.»
Vittoria aggrottò la fronte. «Ma non ha amici tra gli arpisti. E poi eravamo d’accordo che sarebbe venuto a cercarmi alla fine» mormorò, più a se stessa che alla sua amica.
Ora che tutti si stavano riversando nei camerini, il corridoio era affollato e caotico. Daniela e Vittoria entrarono nel camerino che dividevano con Alessandra: una stanza minuscola e polverosa, dalle pareti grigiastre e scrostate. Sul ripiano di legno consunto sotto lo specchio fissato al muro avevano ammucchiato tutte le loro cose alla rinfusa: borse, giacche, trucchi, spazzole e mollette per capelli, spartiti, lo spray per la gola di Daniela, snack di vario genere e una lattina vuota di Coca Cola. Sembrava che fosse esplosa una bomba. Alessandra aveva già messo la giacca e si stava ritoccando il lucidalabbra allo specchio. Loro tre dividevano sempre il camerino ai saggi scolastici e ogni volta lei era la più veloce a finire di prepararsi, mentre Vittoria e Daniela perdevano tempo a chiacchierare e restavano indietro, facendo puntualmente arrabbiare la madre di Daniela.
Parlarono un po’ del saggio e di quale ragazzo stesse meglio in giacca e cravatta, mentre Alessandra infilava le sue cose nel suo zainetto viola e Daniela si sistemava il trucco. Vittoria si sfilò le scarpe con il tacco che aveva indossato solo per andare dal camerino al palco e viceversa e le sostituì con un paio di ballerine di vernice con un fiocchetto bianco sul lato. Studiò il proprio riflesso allo specchio: i capelli lisci castano scuro erano un po’ arruffati dopo tutta l’agitazione post saggio, le guance accaldate contrastavano con il tono molto chiaro del resto del viso e gli occhi azzurri erano luminosi per la felicità. Già sentiva la stanchezza arrivare lentamente, a mano a mano che l’adrenalina scivolava via. Si raddrizzò un po’ la gonna del vestito nero al ginocchio di taffetà, stretto in vita da una fascia.
«Ci vediamo domani sera alla pizza di fine anno» esclamò Alessandra in tono distratto. Afferrò una trousse di ombretti dal ripiano e stava per metterla nello zainetto, poi la guardò meglio. «Ma questa è tua, Dani! Scusa» La rimise giù. Vittoria trattenne a stento una risata. Era sempre così: nel loro camerino, dopo ogni saggio, c’era un tale disordine che ciascuna finiva per prendere le cose delle altre senza rendersene conto e nei giorni successivi se le restituivano. «Vi mando tutte le foto di stasera nel gruppo. Ciao!» Mandò un bacio veloce alle altre e uscì in fretta. Vittoria ricambiò il bacio da lontano e Daniela la salutò con la mano.
Un attimo dopo, qualcuno bussò e poi un ragazzo mise dentro la testa. Era alto, con i capelli tra il biondo scuro e il castano chiaro, aveva un bel sorriso e un completo nero che gli stava benissimo. Quasi tutti ragazzi dell’orchestra, invece, sembravano bambini travestiti da adulti.
«Ciao!» Cercò lo sguardo di Vittoria nello specchio e il suo sorriso si allargò. Lei sentì una scarica elettrica in tutto il corpo, non molto diversa da quelle che aveva provato sul palco, e si voltò con il lucidalabbra sospeso a mezz’aria e un’espressione carica di aspettativa.
«Marco! Ce l’hai fatta! Ma dov’eri finito?»
«Scusa, stavo facendo qualche foto con i ragazzi. E poi c’era tanto di quel casino che non sono riuscito a trovarti.» Mentre parlava distolse lo sguardo da lei e si toccò la punta del naso con l’indice. Lo faceva spesso, era una specie di tic. Vittoria lo trovava adorabile.
«Io scappo, se mia madre aspetta troppo diventa più isterica del solito… lo sai» intervenne Daniela, infilandosi il giubbotto di jeans. Si sollevò i capelli per lasciarli ricadere sulle spalle e guardò Vittoria con aria da martire. «Ci sentiamo domani?»
Vittoria annuì. Già sapeva che avrebbero dovuto vedersi e restituirsi gli oggetti sbagliati che avevano preso. «Ti chiamo. Così decidiamo come vestirci per la pizza.»
Quando Daniela fu uscita, avvertì un lieve nervosismo che le saliva su per la schiena. Guardò il riflesso di Marco nello specchio, mentre giocherellava con il tubetto del lucidalabbra alla fragola: se ne stava in piedi, appoggiato alla porta sottile del camerino, una mano in tasca e l’altra impegnata con la custodia del suo violino. La fissava con un sorriso dolce e all’improvviso Vittoria ebbe una gran voglia di baciarlo, lì, immediatamente. Ricambiò il sorriso, felice. Richiuse il lucidalabbra senza metterlo e lo infilò nella borsa. Si erano baciati soltanto una volta, la settimana prima, quando erano andati al cinema insieme. Era stato il suo primo bacio. Per lui, che aveva sedici anni (uno in più di lei), sicuramente non lo era stato. Non ne sapeva molto, ma Daniela le aveva detto che ai ragazzi di solito non piaceva baciare le ragazze quando avevano il rossetto o il lucidalabbra. Nel dubbio, meglio non rischiare. Indossò il giubbotto di jeans, anche se faceva già troppo caldo e lo aveva portato solo perché sua madre aveva insistito. Poi raggiunse Marco, lo baciò a stampo, senza smettere di sorridere, alzandosi sulle punte dei piedi per raggiungerlo. Lui le mise a posto una ciocca di capelli dietro l’orecchio e le fece una linguaccia scherzosa. Uscirono tenendosi per mano e chiacchierando del saggio.
Alla fine del corridoio dei camerini, ormai vuoto, un’uscita di servizio dava sul cortile del convento che ospitava il Conservatorio. Le famiglie dei ragazzi aspettavano lì, nell’aria calda e morbida della sera di giugno, in piccoli gruppi in abiti eleganti, ma erano già andati via quasi tutti. Le bastò un’occhiata per individuare i suoi genitori: erano verso il centro del cortile, un po’ isolati dagli altri. Avevano solo 36 anni e ovunque andassero, ai colloqui con i professori a scuola, ai saggi di musica, alle partite di tennis di Vittoria, erano sempre i genitori più giovani. Il fisico atletico e slanciato di suo padre, Stefano, fasciato da un completo blu scuro di Prada, spiccava nettamente in mezzo ai profili appesantiti degli altri padri e il taglio di capelli corto e la barba perfettamente curata lo facevano sembrare ancora più giovane. Accanto a lui Vittoria vide sua madre, Claudia, che gli parlava a bassa voce, con un’espressione seria. Non era molto alta e Vittoria in questo aveva preso da lei, ma a differenza di sua figlia, che era minuta e magra, Claudia aveva un corpo formoso e ben modellato, messo in risalto dal semplice tubino azzurro polvere con lo scollo asimmetrico.
Marco le tirò appena la mano, attirando la sua attenzione. «Mi chiami domani?»
«Sì, dopo Daniela.»
Lui sorrise con aria rassegnata. «Ovvio» mormorò, ma Vittoria sapeva che non se l’era presa. Era abituato al fatto che Daniela avesse quasi sempre la precedenza, soprattutto quando si trattava di parlare di vestiti. «Stasera Shibumi?»
Vittoria annuì. «Come sempre.»
«Buon sushi, allora. Salutami Claudia e Stefano» disse Marco, mentre si chinava per baciarla velocemente sulla guancia, vicinissimo all’angolo della bocca. I genitori di Vittoria preferivano che i suoi amici (e adesso anche Marco, che non era esattamente un amico) li chiamassero per nome e non “signor Ruggero” e “signora Ruggero”.
«Vogliono sottolineare che sono più giovani rispetto alla media dei genitori. È una roba da hipster» aveva commentato Daniela, che aveva una cotta gigantesca per il padre di Vittoria e quando lo chiamava per nome usava un tono malizioso che imbarazzava da morire la sua amica.
«Ti ricordo sempre che è mio padre» le diceva puntualmente, a denti stretti, lanciandole un’occhiataccia.
«Ciao, Vic» la salutò Marco. 
Le strinse la mano prima di lasciarla e avviarsi dalla sua famiglia. Lei lo seguì con gli occhi per qualche secondo, consapevole di avere un sorriso scemo stampato in faccia. Poi cercò di fare una faccia normale e si incamminò verso i suoi genitori. Erano ancora impegnati a parlottare tra loro in modo un po’ concitato. Quando la vide, sua madre si interruppe e subito le sorrise, il volto teso che si distendeva come un impasto su cui passa il mattarello. Vittoria sgranò gli occhi. C’era qualcosa che non andava? Avrebbe voluto chiederlo, ma suo padre la batté sul tempo quando lei era ancora a qualche passo di distanza.
«Prima che tu ce lo chieda: no, non hai fatto schifo da solista» disse con tono sicuro e allegro. «Sappiamo che è inutile dirtelo, ma a noi piacciono le cause perse.»
«E invece ho fatto proprio schifo, stavolta.»
Lui rise e scosse leggermente la testa. «Come non detto» mormorò, poi si allungò per darle un bacio sui capelli.
«Sai cosa voglio dire» protestò lei, seccata. «Tutta l’ultima parte…»
Automaticamente si portò la mano al collo e iniziò a giocherellare con il ciondolo d’oro bianco a forma di farfalla che indossava. Glielo aveva regalato suo padre per il suo dodicesimo compleanno e da allora non lo aveva mai tolto. Era diventato una specie di porta fortuna. Quel pomeriggio, appena prima di uscire di casa per raggiungere il teatro, suo padre l’aveva toccata all’improvviso sulla spalla, catturando la sua attenzione mentre lei schizzava di qua e di là in preda all’agitazione, e le aveva mostrato la catenina con il ciondolo che stringeva in mano. Vittoria si era sfiorata il collo e con un sussulto si era resa conto che aveva dimenticato di metterla. Il pensiero di cosa sarebbe successo se avesse notato la sua assenza dopo essere uscita di casa l’aveva fatta impallidire. Suo padre le aveva rivolto un sorriso di comprensione e le aveva agganciato il ciondolo al collo, mentre lei bisbigliava un ringraziamento tremante. Le aveva letteralmente salvato la vita, oltre che il saggio di fine anno. Senza il suo ciondolo avrebbe sbagliato tutto, non solo gli accordi finali.
«Vittoria, non cominciare» la interruppe Claudia, fissandola con espressione a metà tra il divertito e l’esasperato.
«Mamma, ho ragione! Non sai come mi ha guardata la Grandi nell’intervallo, praticamente non posso più presentarmi a lezione o mi frigge nell’olio bollente.»
«Non ci posso credere» commentò Stefano, sempre con tono allegro, come se lei non avesse detto nulla. «Non hai neanche visto queste.» Le mise sotto il naso un mazzo di peonie di un rosa intenso e morbido, avvolte in carta bianca. Erano i suoi fiori preferiti, insieme alle rose gialle, ed era difficile trovarle. Per questo suo padre, qualche settimana prima di un saggio, le prenotava da un fioraio in centro. Non le aveva minimamente notate. Esitò un istante, poi prese il mazzo e sorrise, accostandolo al viso per annusarlo.
«Oh! Grazie, sono perfette. Al contrario degli accordi che mi sono usciti stasera.»
I suoi si lanciarono uno sguardo significativo, una di quelle occhiate con cui erano capaci di comunicare qualsiasi cosa. A volte andavano avanti così per moltissimo tempo, vere e proprie conversazioni di sguardi che Vittoria trovava esasperanti. Stefano alzò le mani.
«Va bene, se dobbiamo continuare almeno facciamolo mentre andiamo da Shibumi.»

 

****

 

Shibumi era il loro ristorante di sushi preferito, a dieci minuti di distanza dal Conservatorio, in pieno centro. Era tradizione che cenassero lì dopo i saggi, ma ci andavano spesso, ogni volta che c’era un’occasione speciale. Era un appuntamento fisso per l’anniversario di matrimonio di Stefano e Claudia: di solito festeggiavano loro due soli da qualche parte, ma la sera prima o la sera dopo portavano la figlia da Shibumi.
Il nome era una parola giapponese che indicava una bellezza riservata, poco appariscente, nascosta dietro un aspetto esteriore comune e banale. Si adattava al posto alla perfezione. L’ingresso del ristorante era una semplice porta a vetri che dalla strada mostrava soltanto una saletta con il banco della reception e il guardaroba. Da lì un corridoio lungo e stretto portava alla sala, affacciata su un delizioso giardino interno in stile giapponese. Tutto era in bianco e nero, semplice e raffinato: il pavimento nero lucido, le pareti bianche con ideogrammi neri dipinti che recitavano haiku,[2] i tavoli neri lisci e levigati con panche e sedie in pelle bianca, il sushi bar di un bianco acceso e immacolato dietro il quale, a vista, lavoravano chef in divisa nera.
Lo staff ormai li conosceva e ad accompagnarli al solito tavolo, il migliore della sala, fu il maitre, un ragazzo giovane, alto e magrissimo, con un completo nero. Portò al tavolo un vaso bianco rettangolare, di semplice ceramica bianca, per sistemare le peonie. Vittoria sfogliò rapidamente il menù digitale sul telefono e si fermò alla pagina del sushi vegetariano. Non mangiava carne né pesce dalle elementari, ma Shibumi faceva il miglior sushi vegetariano che avesse mai assaggiato. Puntò subito il dito sul maki con le zucchine, il suo preferito, e mostrò il telefono al maitre con un gran sorriso.
Mentre il ragazzo spiegava le novità del menù e annotava gli ordini su un tablet, Vittoria notò che i suoi genitori sembravano distratti. Durante il tragitto verso il ristorante non avevano fatto che lanciarsi occhiate incomprensibili senza dire nemmeno una parola, mentre Vittoria spiegava nel dettaglio tutto quello che era andato male durante l’esibizione da solista, e già questo l’aveva sconcertata. In circostanze normali, quando lei faceva così la prendevano sempre affettuosamente in giro. Quella sera, invece, era convinta che non la avessero ascoltata affatto. Ora, a differenza di prima, evitavano di guardarsi o di guardare verso di lei. Stefano fissava il maitre con l’aria di chi pensa a tutt’altro, Claudia guardava fuori, in direzione del giardino giapponese. Si domandò se non avessero litigato, forse mentre aspettavano che lei uscisse, nel cortile del convento. Sarebbe stato molto strano, perché i suoi non litigavano mai. Erano una di quelle coppie che tutti definiscono perfette e non per modo di dire.
Quando il maitre si allontanò, Vittoria pensò di chiedere spiegazioni, ma in quel momento il display del suo telefono posato sul tavolo accanto a lei si illuminò: era un messaggio di Marco. Passò un dito sul telefono per aprire il messaggio e proprio allora suo padre parlò.
«Dobbiamo dirti una cosa.»
Vittoria sollevò gli occhi e lo fissò: sul visto aveva un’espressione seria che sembrava dirle “Non si scappa.” Fece un mezzo sorriso. «Lo sapevo.»
Lui aggrottò la fronte. «Ah sì?» Aveva un tono leggero, ma era evidente che era in tensione. Anche se era bravo a nascondere queste cose, chi lo conosceva meglio, come sua moglie e sua figlia, di solito intuiva che c’era qualcosa che non andava. In quel momento il maitre tornò al tavolo con l’acqua e il vino bianco. Mentre li versava nei bicchieri, Stefano aspettò, appoggiato un po’ rigidamente allo schienale della sedia, e Claudia distolse lo sguardo dal giardino per sorridere al ragazzo in segno di ringraziamento. Quando furono di nuovo soli, Vittoria rispose.
«Vi siete scambiati occhiate strane per tutta la strada.»
«Sei troppo sveglia, ragazzina» commentò suo padre, accigliato, e lei sorrise.
«Lo so.»
Il display del suo telefono si illuminò di nuovo e Vittoria esitò. I suoi genitori non volevano che fosse sempre attaccata al cellulare durante i pasti, ma di solito la lasciavano fare, purché non esagerasse. Sfiorò il display con l’indice e guardò: Marco le aveva mandato la foto di una ratatouille[3] (era andato a cena in un ristorante francese con la sua famiglia) e nel messaggio successivo le aveva inviato l’emoticon di un topo, in allusione al film della Disney. Sorrise e stava iniziando a digitare una risposta, quando la voce di suo padre la raggiunse di nuovo.
«Vittoria? È una cosa importante.»
Lei sollevò la testa di scatto, come se un campanello di allarme le suonasse nella testa. Capì che doveva essere successo davvero qualcosa di serio. Mentre fissava suo padre pensò che non poteva biasimare le sue amiche (e le madri delle sue amiche e praticamente tutto il genere femminile) se erano innamorate di lui: aveva lineamenti perfetti, eleganti e squadrati, il naso lungo e dritto, gli occhi dello stesso azzurro intenso di sua figlia e un sorriso che poteva illuminare una stanza. In quel momento aveva la fronte leggermente contratta, le labbra serrate, come se trattenesse qualcosa, e un’aria decisa nello sguardo.
«Sì, scusa» mormorò. Uscì in fretta dalla conversazione con Marco. All’improvviso le venne un pensiero orribile, così sconvolgente che le mozzò il fiato. «Non devi partire di nuovo, vero?»
Due anni prima, quando lei aveva tredici anni, suo padre aveva cambiato lavoro e aveva lasciato la sua vecchia banca per un posto dirigenziale alla Prescott Investment Bank. Poco dopo, gli avevano chiesto di passare sei mesi a Londra, per familiarizzare con la nuova struttura, conoscere i vertici e seguire dei corsi di alta specializzazione sui mercati internazionali. Stefano avrebbe potuto benissimo trasferirsi da solo, sebbene l’idea di lasciare Vittoria e Claudia per tanto tempo non gli piacesse, ma pian piano avevano iniziato a discutere della possibilità che loro due lo seguissero. All’inizio a Vittoria era sembrata una mezza tragedia: anche se si trattava solo di sei mesi, doveva lasciare Milano, frequentare una nuova scuola, non avrebbe visto i suoi amici per quella che le sembrava un’eternità e poi c’era il problema delle lezioni al conservatorio. Non ne perdeva mai una, neanche quando aveva la febbre. Alla fine, però, aveva acconsentito: si era resa conto che per suo padre sarebbe stato importante averle accanto in quel momento; l’idea di vivere a Londra per un po’ non era poi così male (anzi, a rifletterci bene era una bomba) e poi la sua famiglia stava uscendo da un periodo particolare e aveva bisogno di distrazioni. Londra sarebbe stata sicuramente sufficiente.
Si era rivelata una esperienza intensa, ma stimolante: la scuola privata dove i suoi l’avevano iscritta per quei sei mesi era bella, andava d’accordo con i nuovi compagni di classe (al punto che scambiava ancora email con Julie, la sua compagna di banco) e avevano perfino trovato un eccellente insegnante di pianoforte che le facesse lezioni private, in modo che non restasse indietro una volta tornata al conservatorio. Era stato molto meno tremendo di quanto avesse immaginato e al rientro a Milano il suo inglese fluente le era fruttato un 10 in pagella. L’idea di rifarlo e di lasciare di nuovo tutto, però, le metteva una certa nausea.
Suo padre parve sorpreso e scosse il capo. «No, tranquilla. Non c’è nessun trasferimento in vista» disse subito e a Vittoria sembrò di tornare a respirare. Afferrò il bicchiere e mandò giù una sorsata d’acqua, mentre lui continuava. «È che… stiamo pensando… Che ne dici di andare in Sicilia, questa estate? A Santo Stefano.»
Fu come cadere di colpo dal letto. Vittoria lo fissò in silenzio, senza capire, il bicchiere sospeso a mezz’aria. Mandò giù l’acqua lentamente. Santo Stefano era l’isoletta della Sicilia dove erano nati i suoi genitori e dove, per quanto ne sapeva, non mettevano piede da prima che lei nascesse. Non avevano mai mostrato il minimo attaccamento per quel posto, anzi. Le rare volte in cui ne avevano parlato con lei erano sempre sembrati felici di essere andati via e non avevano mai accennato alla possibilità di tornarci o di portarci la figlia. E ora volevano andare in vacanza lì, così all’improvviso. Vittoria rimise giù il bicchiere, sconcertata. Poteva capire che due ragazzi volessero lasciare un posto minuscolo e sperduto che non offriva nessuna possibilità. La loro vita a Milano doveva essere lontana anni luce da quella che avevano condotto sull’isola, anche perché nessuno dei due proveniva da una famiglia ricca. Capiva un po’ meno quel bisogno improvviso di tornarci senza una ragione valida.
«Ma… dobbiamo andare in Costa Azzurra, quest’estate» riuscì a tirare fuori a un certo punto. Non aveva idea di che cosa dire. Suo padre aspettava una sua reazione, ma lei non provava nulla se non un’assoluta, completa sorpresa.
«Ad agosto» confermò Stefano. Sembrò sollevato dal fatto che lei avesse detto qualcosa, rompendo quel silenzio pesante. «Ma a luglio ho un po’ di ferie arretrate e non abbiamo programmato nulla.»
Vittoria lo fissò a bocca aperta. Tanto per fare qualcosa, prese il tovagliolo di stoffa e se lo sistemò sulle gambe, poi si schiarì la voce. «Perché volete andarci? È successo qualcosa?»
A quel punto sua madre intervenne, come se non potesse più farne a meno. «In effetti sì: Edoardo Falconeri sta male.»
«Mio padre» precisò Stefano un attimo dopo.
Vittoria trasalì. «So chi è» mormorò, pensierosa. Il nome di suo nonno era stato fatto pochissime volte tra loro, poteva contarle sulle dita di una mano. Stefano non ne parlava volentieri. Davanti all’espressione di Vittoria, lui fece un sospiro, esitò per un secondo, poi si raddrizzò sulla sedia.
«Anni fa ha scoperto di avere una cardiopatia piuttosto seria. Rischiava una forte riduzione dell’aspettativa di vita, ma si è sottoposto a due interventi ed è stato abbastanza bene» spiegò, con calma. «Negli ultimi anni la situazione si è aggravata di nuovo. E ora ha scoperto di avere un cancro. Al polmone sinistro. Ha già delle metastasi. Non è operabile e non reggerebbe la chemio. Ormai è anziano e... Credo che non riesca più a lottare. Non gli rimane molto da vivere.»
Vittoria ascoltò in silenzio, immobile sulla sedia, le mani strette in grembo. Cercò di elaborare tutte quelle informazioni catastrofiche. Suo padre le aveva ovviamente fornito un riassunto della storia, ma aveva capito l’essenziale: Edoardo Falconeri stava morendo. Suo nonno stava morendo. Abbassò gli occhi sul raffinato piatto rettangolare, smaltato di nero e affiancato da due splendide bacchette dall’impugnatura intagliata che rappresentava un ramo di ciliegio. Erano una piccola opera d’arte. Cercò di capire come la faceva sentire quella notizia. Era triste, certo, dopotutto qualcuno era gravemente malato e stava per morire, ma sapeva che non lo era quanto avrebbe dovuto. Daniela stravedeva per sua nonna, la madre di suo padre, e andava molto più d’accordo con lei che con i suoi genitori. Se le fosse successo qualcosa, Vittoria era sicura che la sua amica sarebbe stata malissimo. Deglutì.
«Mi dispiace» disse, a voce molto bassa. Claudia e Stefano la osservavano senza parlare, come in attesa di qualcosa, ma cosa credevano che potesse dire o fare? Contrasse nervosamente le dita sotto il tavolo. «Allora tu… vuoi andare a trovarlo?» chiese, rivolta a suo padre.
Lui non rispose subito. Prima lanciò un’occhiata a Claudia, come se fosse incerto sulla risposta. «Non esattamente. Sai che i nostri rapporti non sono buoni.»
Vittoria inarcò le sopracciglia. Era un eufemismo, a dir poco. Non sapeva molto di Santo Stefano e di Edoardo, ma sapeva che suo padre era nato da una relazione extra coniugale di suo nonno con una ragazza molto giovane che lavorava in casa sua. Sapeva che suo padre aveva lasciato l’isola da bambino, che Edoardo non lo aveva mai cercato né si era mai occupato di lui e che decisamente non era stato un padre da ricordare. Lo guardò con attenzione, cercando di capire come si sentiva al pensiero che Edoardo stesse morendo: appariva tranquillo, ma Vittoria sapeva che non significava nulla. Era un maestro nel controllo delle emozioni.
«Io non ho niente in contrario a vederlo, ma il punto è un altro: lui vuole conoscere te» continuò suo padre. Non aggiunse “prima di andarsene per sempre”, ma a Vittoria sembrò di sentire quelle parole nelle orecchie ugualmente.
«Ma… non capisco. Non si è mai preoccupato di me in tutti questi anni.»
Non riusciva neanche a immaginarlo, suo nonno, se non come una versione più anziana di suo padre: una volta Claudia le aveva detto che c’era una buona somiglianza tra loro, sebbene Stefano avesse ereditato tutto il suo fascino dalla madre. Non sapeva che faccia avesse davvero o come suonasse la sua voce o come si sarebbe comportato con lei, che tipo di nonno potesse essere. Stare lì a discutere della sua morte incombente e del loro possibile incontro era surreale.
«Forse quando si è molto vicini alla fine la prospettiva cambia» rispose sua madre con voce dolce, come se cercasse di indorare la pillola.
«Lo ha fatto anche con me, una volta» aggiunse Stefano. «Non ci vedevamo da molto tempo e all’improvviso mi ha chiesto di tornare a Santo Stefano. Di andare da lui.»
«Davvero? Ci sei andato?» chiese Vittoria, confusa. Doveva essere successo prima che lei nascesse.
Lui ebbe un attimo di esitazione. «Sì.»
«E ti sei pentito?»
Suo padre la osservò in silenzio per un momento, poi fece un respiro lieve. «No, ma questa è un’altra storia. Io e tua madre ne abbiamo parlato e vorremmo che fossi tu a decidere se andare oppure no.»
Per la terza volta quella sera Vittoria trasalì, scossa dalla sorpresa. «Ne avete parlato? Da quanto tempo lo sapete?»
Il suo telefono si illuminò ancora una volta, ma lo ignorò. Fino ad allora aveva pensato che suo padre avesse appena ricevuto la notizia, ma adesso che ci rifletteva si rendeva conto che i suoi erano troppo a loro agio in quella strana conversazione. Le rare volte in cui lei aveva fatto domande sul loro passato le avevano sempre risposto controvoglia, a monosillabi, finché Vittoria aveva capito e aveva smesso di chiedere. Ora, invece, affrontavano l’argomento con una determinazione che non avevano mai avuto. Non erano felici di farle quella proposta, lo capiva, ma sembrava che non avessero dubbi su cosa fare o dire. Era come se ne avessero discusso tra loro prima di parlare con lei e forse anche a lungo.
Fu sua madre a rispondere. «Da un mese, più o meno» disse, esitante.
Vittoria sgranò gli occhi. Eccome se ne avevano discusso. «E me lo dite soltanto adesso?»
«Abbiamo pensato di lasciar passare il saggio. Non volevamo che ti distraessi.»
Vittoria abbassò di nuovo lo sguardo sul piatto. Doveva ammettere che era stato meglio non avere quel pensiero mentre sudava su Chopin, ma al tempo stesso non poté fare a meno di sentirsi un po’ ferita. Era abituata a essere coinvolta in tutte le discussioni importanti. Quando i suoi genitori le avevano detto del trasferimento temporaneo a Londra, due anni prima, le avevano spiegato che non volevano sconvolgere la sua vita e che se fosse stata assolutamente contraria sarebbe rimasta a Milano insieme a Claudia. Ora stavano lasciando la decisione a lei, ma Vittoria avrebbe preferito partecipare alla discussione fin dall’inizio. Non era una bambina. E poi, di cosa avevano parlato i suoi genitori per un mese intero? C’era così tanto da dire sulla faccenda? Strinse le labbra, sempre più confusa.
«Ti ha chiamato Edoardo? Avete parlato?» domandò a Stefano, accigliata, più per prendere tempo che per vera curiosità.
Suo padre restò in silenzio per un attimo, immobile. Sembrava una statua di cera. «No, mi ha chiamato Enrico.»
Fu un’altra sorpresa. Vittoria sollevò la testa di scatto e lo fissò incredula. «Hai parlato con tuo fratello?»
In realtà Enrico e Stefano erano fratellastri, perché il primo era figlio della moglie di Edoardo Falconeri, ma quella parola non le piaceva. Le faceva venire in mente Anastasia e Genoveffa, con quegli orrendi abiti sgargianti e le piume ondeggianti sulle teste. In ogni caso, i loro rapporti erano inesistenti, come quelli tra Stefano e Edoardo, e se Enrico aveva chiamato suo fratello significava che la situazione era davvero seria.
Lui assentì appena. «Sì, ma… non credo che lo incontreremo. In quel periodo avrà degli impegni di lavoro fuori dall’isola. A Palermo, mi sembra.»
Parlava con tono tranquillo, ma Vittoria si domandò se non fosse sollevato di non dover incontrare il fratello. Dopo così tanti anni di silenzio sarebbe stato molto difficile e strano. E lei cosa doveva fare? Sentì l’ansia strisciarle su per la schiena mentre rifletteva. Lasciò vagare per la sala lo sguardo inquieto. Non accontentare quello che poteva essere l’ultimo desiderio di Edoardo sarebbe stato crudele e forse lui non era una brava persona, ma era pur sempre suo nonno. Vittoria aveva sempre desiderato conoscere davvero la storia della sua famiglia. Più i suoi genitori erano reticenti e più lei sentiva crescere la curiosità. In passato si era detta che probabilmente non le parlavano di tutto perché era ancora troppo piccola, ma ormai aveva quindici anni e tutti, dai suoi professori ai suoi stessi genitori, le dicevano sempre quanto fosse matura per la sua età. Quando si trattava di quello, però, Claudia e Stefano si ostinavano a considerarla una bambina e negli ultimi tempi il loro atteggiamento aveva iniziato a darle fastidio.
D’altro canto, proprio il fatto che non sapesse praticamente nulla del passato dei genitori sull’isola la spingeva a essere cauta: sapeva soltanto che avevano un rapporto complicato tanto con l’isola quanto con Edoardo; la situazione tra Enrico e Stefano, poi, non era affatto migliore. Quando suo padre lo nominava, qualche volta (di sfuggita e solo se proprio non riusciva a evitarlo), Vittoria sentiva il gelo scendere su di loro. Non era affatto sicura che rimettere insieme tutti questi elementi senza sapere nei dettagli cosa era accaduto fosse una buona idea. Anzi, era sicuramente una pessima idea.
Eppure… e se quella fosse stata la sua unica occasione di scoprire qualcosa? Il pensiero la colpì all’improvviso, facendola sussultare leggermente. Era possibile che Edoardo fosse disposto a rispondere alle sue domande? Magari, per ingraziarsi la nipote che non si era mai preoccupato di conoscere fin quasi alla morte, l’avrebbe ascoltata, avrebbe parlato con lei. E così Vittoria avrebbe saputo tutta la verità, finalmente. Ma se questo poteva significare mettere in difficoltà i suoi genitori, forse causare uno scontro in famiglia? Ne valeva la pena? Le sembrò di essere tirata in due direzioni opposte contemporaneamente ed emise un respiro breve e teso. Non era affatto piacevole.
«Tesoro, se non te la senti lo capiamo. Non ci sarebbe nulla di strano» intervenne all’improvviso sua madre. «In fondo non li conosci affatto.»
Vittoria la guardò e capì che i suoi dubbi doveva averli scritti in faccia, perché Stefano e Claudia la stavano fissando con molta attenzione, quasi guardinghi, come se temessero la sua risposta. Colpita, si mosse sulla sedia, a disagio. No, non conosceva affatto Edoardo ed Enrico, ed erano suo nonno e suo zio. Avrebbe continuato a giudicarli sulla base dell’opinione che ne avevano i suoi genitori? Si rese conto, studiando l’espressione di sua madre, che in realtà loro volevano, speravano, che gli desse ragione e che decidesse di non andare sull’isola. Perché?
«In effetti non so quasi niente di loro» rispose, un po’ fredda.
Cadde il silenzio e per un po’ nessuno ebbe voglia di infrangerlo. Poi Stefano sospirò.
«Hai ragione. Io e la mamma non ne parliamo volentieri, ma… ricordare certe cose fa soltanto male. Non serve a niente. Sono sicuro che lo capisci.»
Vittoria annuì lentamente. «Sì… credo di sì» mormorò, anche se non affatto sicura di capire o di essere d’accordo con suo padre.
«Nella vita bisogna andare avanti» riprese Claudia. «Non ha senso guardare indietro e noi non vogliamo che tu diventi una persona che si guarda indietro.»
Vittoria inarcò le sopracciglia. «Giusto. Però Edoardo è mio nonno: non è così tanto indietro.» Osservò la reazione dei suoi genitori e le parvero sorpresi. Probabilmente si erano aspettati qualcosa di diverso. Rimasero di nuovo in silenzio e intanto lei rifletteva, ascoltando il rumore rilassante di una piccola cascata che scendeva in un laghetto di ninfee, nel giardino. Qualcosa le diceva che quelle risposte vaghe e generiche erano tutto ciò che avrebbe mai avuto da loro su quella faccenda. A poco a poco si rasserenò, come se l’acqua che scorreva lavasse via l’incertezza. Quando suo padre di schiarì la voce, tornò a concentrare l’attenzione su di lui.
«Allora… che cosa vuoi fare?» Il tono cauto faceva eco alla sua espressione. «Noi accetteremo la tua scelta, qualunque sia. Se vuoi prenderti qualche giorno per pensarci…»
«No. Non serve.» Vittoria tentennò per un istante appena, poi gli sorrise. «Ho deciso.»

 

 



[1] Qui.

[2] Brevissima poesia giapponese.

[3] Piatto della cucina francese a base di verdure.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6. Il giocatore ***


CAPITOLO 6
IL GIOCATORE

 

Milano

Luglio 2015

 
Stefano non riusciva a dormire. Era quasi l’una del mattino – aveva continuato a guardare la sveglia digitale sul comodino da quando era andato a letto – e lui era sdraiato da più di un’ora, immobile nella stessa posizione, a fissare il controsoffitto tempestato di faretti. Aveva la spiacevole impressione che stesse per crollargli addosso.
Aveva fatto l’amore con Claudia, quella sera. Di solito preferivano farlo la mattina presto, quando Stefano tornava dal footing al parco. Per cominciare bene la giornata, scherzava sempre Claudia. Quella sera, però, lui aveva sentito un bisogno così impellente che gli era sembrato di scoppiare se non l’avesse toccata, se non fosse entrato dentro di lei. Quando l’aveva baciata e l’aveva trascinata sul letto, Claudia doveva aver percepito qualcosa di strano. Se ne era accorto dall’insolita rigidità del corpo di lei tra le sue braccia. Non aveva detto nulla, però. Si era limitata a stringerlo più forte, come per rassicurarlo.
Era stato un rapporto breve e intenso e Stefano si era sentito meglio mentre premeva il corpo contro quello di sua moglie, come sempre. Quando facevano l’amore o semplicemente erano insieme da soli era come rompere un argine, abbassare una maschera. In quei momenti Stefano poteva essere davvero se stesso, senza dover nascondere nulla a nessuno, perché lei sapeva tutto di lui e lo conosceva più in profondità di quanto lo stesso Stefano avrebbe mai potuto conoscersi. Aveva posato la fronte su quella di Claudia, facendosi strada nel suo corpo con un unico movimento lento, il respiro di lei sulla sua bocca. Potrei morire così, aveva pensato con l’ultima briciola di lucidità, prima di perdersi completamente.
Dopo, gli era sembrato di sentirsi un dio, di poter affrontare qualunque cosa. Ma poi, quando aveva cercato di addormentarsi, aveva scoperto di non riuscire a chiudere gli occhi e smettere di fissare il soffitto su cui si disegnavano crepe immaginarie che avrebbero distrutto tutto. Come avrebbe potuto fermarle? Gli sembrava di essere sull’orlo di un precipizio, diviso a metà tra l’istinto di tirarsi indietro e l’assurda tentazione di lasciarsi cadere.
Una volta, ai tempi dell’università, i suoi amici lo avevano sfidato a uscire con una ragazza bellissima alla quale nessuno di loro osava avvicinarsi. Stefano aveva riflettuto un momento: non ci teneva a fare la figura dell’idiota davanti a tutti, ma era piuttosto sicuro di potercela fare. E quando era sicuro di qualcosa, solitamente andava tutto alla grande. Aveva sorriso ai suoi amici e aveva accettato. Era successo prima di Claudia e ora non ricordava nemmeno il nome di quella ragazza, anche se lei gli aveva risposto di sì e al secondo appuntamento erano andati a letto insieme.
Invece ricordava benissimo che mentre camminava verso di lei aveva provato una sensazione molto simile a quella che sentiva adesso: due mani che lo tiravano contemporaneamente in direzioni diverse. Poi quell’impulso che lo spingeva sempre a lanciarsi nelle sfide, come per provare ogni volta qualcosa a se stesso, aveva preso il sopravvento e Stefano aveva fatto gli ultimi passi verso la ragazza con un’andatura lenta e tranquilla che l’aveva spinta ad alzare lo sguardo su di lui, curiosa. Forse nessuno le si era mai avvicinato con tanta sicurezza e forse era per questo che aveva accettato di prendere un caffè insieme. Il problema era che stavolta Stefano non poteva lanciarsi come aveva sempre fatto nella vita, perché non c’era di mezzo soltanto lui. E perché aveva fatto una promessa che doveva mantenere a qualsiasi prezzo.
All’improvviso non ne poté più di stare fermo. Si alzò, cercando di non fare rumore, anche se sapeva che Claudia era sveglia quanto lui. Lo capiva dal ritmo del suo respiro. Aprì la porta, percorse metà del corridoio buio e davanti alla porta chiusa della stanza di Vittoria, sulla destra, si fermò. Aveva bisogno di vederla. Sollevò la mano e sfiorò la maniglia. Per un attimo fu sul punto di abbassarla con delicatezza, poi chiuse gli occhi, prese un respiro profondo, li riaprì e lasciò ricadere la mano. Non voleva rischiare di svegliarla.
Passò per il salotto immerso nel buio e nel silenzio, con le ampie vetrate che affacciavano sui tetti del centro di Milano, ed entrò nella cucina, grande e moderna, di un bianco accecante che brillava nell’oscurità. Girò intorno all’enorme isola al centro della stanza, circondata da sgabelli, si versò un bicchiere d’acqua e dal touch screen del frigorifero smart selezionò tre cubetti di ghiaccio che scivolarono dolcemente nel bicchiere dal dispenser. Gli nacque un sorriso lieve sulle labbra mentre mandava giù un sorso di acqua piacevolmente fresca. Avevano comprato quel frigo qualche mese prima e Vittoria lo chiamava “il maggiordomo”, perché oltre a servire dal dispenser era programmato per tenere conto dei prodotti al suo interno e inviare una notifica quando qualcosa era in scadenza o stava per terminare. L’acqua fredda fu come una scossa e gli parve di sentirsi più lucido mentre usciva dalla cucina. Anche se l’aria condizionata era accesa e lui indossava solo i pantaloni di seta leggera del pigiama, faceva comunque un gran caldo. Sulla soglia della camera matrimoniale si bloccò: Claudia lo aspettava seduta sul letto, a gambe incrociate e decisamente sveglia.
«Cosa c’è che non va?» gli chiese a bruciapelo.
Stefano tentennò per un attimo, incerto, mentre muoveva le spalle per allentare la tensione dei muscoli e prendere un po’ di tempo. Sapeva che sarebbe servito a poco, perché la conosceva troppo bene, ma tentò comunque di tranquillizzarla. «Niente, non riesco a dormire. Tutto qua.»
Claudia non rispose subito, ma lui capì che non se l’era bevuta. I silenzi tra loro erano sempre pieni di parole. «Sei preoccupato, lo so» disse lentamente. «E penso anche di sapere il perché.»
Ecco, alla fine ci erano arrivati. Stefano sospirò, buttò giù quello che restava dell’acqua e lasciò il bicchiere sul comò alto che occupava la parete di fronte al letto. Poi raggiunse Claudia e si lasciò cadere sulle lenzuola aggrovigliate accanto a lei. Mise i gomiti sulle ginocchia e intrecciò le mani mentre rifletteva.
«Non so più se è una buona idea.»
«Lo stai dicendo da maggio. Ne abbiamo parlato un’infinità di volte» rispose lei. La sua voce era dolce e paziente, ma Stefano avvertiva l’esasperazione agitarsi sotto le parole e in fondo non poteva darle torto. Scosse piano la testa.
«Hai ragione, ma… Non lo so. Qualcosa mi dice che stiamo facendo una cazzata enorme» ammise, frustrato. Si sentiva insicuro e odiava quella sensazione così poco familiare per lui. Era come saltare un gradino e avere all’improvviso il vuoto sotto un piede.
«Be’, partiamo domani. Ormai è tardi, non ti sembra?» disse Claudia e lui capì che stava sorridendo, ma non rispose, lasciando cadere nel vuoto il tentativo di sdrammatizzare. Claudia rimase in silenzio per qualche istante, poi allungò una mano e la mise sul suo braccio. «Abbiamo pensato a tutto, Stefano. Non ci sarà nessun problema.»
Lui continuava a tormentarsi le mani, fissando un punto nel buio dove si apriva la porta della cabina armadio. «Sì, ma Vittoria… Se Edoardo dovesse…»
«Non potevamo dire di no. Edoardo sarà pure quello che è, ma sta morendo e ha il diritto di conoscere sua nipote.»
A Stefano sfuggì un sorriso storto, amaro, più simile a una smorfia. Che diritti poteva mai avere quell’uomo? Scosse appena la testa. Era surreale stare lì a parlare di questo, che di colpo aveva assunto importanza nelle loro vite. «Dobbiamo pensare solo a nostra figlia. Al diavolo Edoardo.»
«È a lei che stiamo pensando: anche Vittoria ha il diritto di conoscerlo» ribatté lei, decisa, poi rimase zitta per un po’. Nonostante le sue parole era a disagio e Stefano lo percepiva, anche se la stanza era troppo buia per vedere bene il suo viso. Fece un respiro strano, incerto. «E poi… Enrico non ci sarà» aggiunse in tono piatto. «Penso che sia andato via proprio per non incontrarci.» Di nuovo tacque e Stefano non disse nulla, aspettando. Anche a lui era venuta in mente quella possibilità e lo faceva sentire stranamente triste. «È assurdo, ma anche le decisioni giuste che prende sono comunque sbagliate, in qualche modo» concluse Claudia. La voce era velata di una malinconia che faceva eco a quella di lui.
Stefano chinò la testa con aria stanca, come se all’improvviso fosse diventata pesante. «Non possiamo essere troppo severi con lui» mormorò. Tornare a parlare di Edoardo e Enrico dopo tanti anni, quando era arrivata la telefonata di suo fratello a maggio, era stato stranissimo. E anche se avevano passato le ultime settimane a discuterne lo era ancora. Molto tempo prima avevano preso la decisione di tagliarli fuori dalle loro vite e aveva funzionato benissimo per anni. Ora si stavano mescolando di nuovo le carte. Lui era sempre stato un giocatore d’azzardo (se non lo fosse stato, d’altronde, non avrebbe mai potuto fare il suo lavoro), ma non stavolta. Non quando c’era di mezzo sua figlia.
«Lo so.» Il tono di Claudia era ancora malinconico, ma sostenuto, come se non fosse disposta a concedere troppo. «So che non è stato facile per Enrico, ma non lo è stato neanche per noi.»
«A volte mi chiedo se abbiamo fatto davvero tutto quello che potevamo, con lui» disse Stefano lentamente. «O se c’era qualcosa… qualunque cosa… anche solo una frase, un gesto, una parola che avrebbe potuto cambiare le cose.»
Claudia lo guardò e a lui parve di sentire con chiarezza i suoi occhi penetranti addosso, come se potessero trovarlo e vederlo anche nel buio. «Io l’ho pregato di ascoltarmi, Stefano, e non una volta sola. Sai qual è stata la risposta. Capisco quello che ha passato, ma non credo che potrò mai perdonarlo.»
Stefano si girò verso di lei e per un po’ osservò in silenzio i contorni del suo viso, poi allungò una mano e le accarezzò piano la guancia. «La parte difficile non è perdonare gli altri, ma se stessi.» Sentiva una tristezza pesante gravargli addosso e spingerlo verso il basso. In quel momento aveva bisogno di lei più che di qualsiasi altra cosa. Claudia mise la mano sulla sua e la strinse forte, premendosela contro la pelle come per sentire il tocco di lui ancora più in profondità, sulla carne, sulle ossa.
«Ci abbiamo provato. Abbiamo fatto tutto il possibile. Abbiamo fatto del nostro meglio» disse, concentrata su Stefano, la voce sicura e decisa. Parlava come se non ci fosse niente al mondo in cui credeva di più e lui si aggrappò alla sua sicurezza. Claudia lo fissò intensamente ancora per un momento, in silenzio, poi sul suo viso serio si aprì un piccolo sorriso. «E tu sei meraviglioso.»
Stefano le passò il pollice lungo il profilo della mascella, premendo un po’ sulla pelle. Lei chiuse gli occhi e sospirò. «Sei preoccupata per la mia autostima?»
«Dico sul serio» ribatté Claudia, ignorando il tentativo di sdrammatizzare. «Dai il massimo, ogni minuto di ogni giorno.» Il suo sorriso si era spento e ora lo guardava di nuovo con espressione seria. «Io lo vedo e ti amo sempre di più per questo.»
Lui sostenne il suo sguardo. Sapeva che non stava solo cercando di farlo stare meglio con parole vuote, che credeva davvero in quello che diceva. E non era una bugia, in fondo. Lui ci provava davvero a fare tutto come avrebbe dovuto fare, ma il problema era un altro. Fece un respiro secco e nervoso.
«Credi che potrà mai essere sufficiente?» le domandò in un sussurro, lasciando uscire tra i denti quel pensiero che lo terrorizzava. Per un attimo pensò che lei non avesse sentito, ma poi Claudia aumentò la forza della stretta sulla sua mano.
«Sì. Sì, lo è» rispose, a voce più alta e chiara, questa volta. Piegò leggermente la testa, quasi appoggiandosi a Stefano, e lui mise la fronte contro la sua. Chiuse gli occhi, mentre la familiare sensazione di assoluto benessere che associava soltanto a lei gli inondava le vene. Rimasero così a lungo e il resto del mondo fu dimenticato.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7. Fantasmi ***


CAPITOLO 7
FANTASMI

 

 

Sicilia, Isola di Santo Stefano
Luglio 2015

 

 

Vittoria sollevò le palpebre e subito le richiuse di scatto quando la luce violenta del sole le ferì gli occhi. Rimase ferma, distesa nel letto in un groviglio di lenzuola, la pelle sudata e bruciante per il caldo, immersa in quello stato di torpore e confusione che segue il risveglio. A mano a mano che usciva dal sonno e acquisiva consapevolezza della realtà, si rendeva conto che c’era qualcosa di strano: il materasso sotto di lei era più duro del solito, come se fosse stato usato meno, e il lenzuolo attorcigliato intorno al suo corpo aveva un profumo nuovo, diverso da quello che la accoglieva ogni mattina appena sveglia. Riaprì gli occhi con cautela, cercando di abituarsi piano alla luce, e quasi nello stesso momento ricordò. Non era nella sua stanza, a Milano, ma nella camera per gli ospiti della dépendance di Rosa e Alberto, la coppia di amici dei suoi genitori che si era offerta di ospitarli a Santo Stefano.
Sospirò, si stropicciò gli occhi e si mise a sedere nel letto, guardandosi intorno. Le persiane della portafinestra che affacciava sul giardino erano abbassate solo a metà e lasciavano entrare la luce del mattino a fiotti densi e caldi. La sera prima doveva aver dimenticato di chiuderle. Era esausta, come se non avesse chiuso occhio. Il viaggio in auto da Milano a Civitavecchia, poi in traghetto fino a Palermo e da Palermo a Santo Stefano, era stato lungo e faticoso. La sera prima la stanchezza le era piombata addosso all’improvviso. Aveva cenato a malapena, poi aveva fatto una doccia e si era buttata sul letto senza neanche aprire le valigie. Il suo trolley viola se ne stava ben chiuso davanti all’armadio e sembrava rimproverarla silenziosamente.
Si stiracchiò, allungando i muscoli contratti e ancora addormentati mentre scendeva dal letto. Alla stanchezza del viaggio si era sommata la tensione che era cresciuta sempre di più a mano a mano che si avvicinavano alla meta. Anche se con lei i suoi genitori si mostravano sempre sereni, erano diventati sempre più seri e cupi. L’arrivo sull’isola, però, era stato bello. Vittoria l’aveva guardata avvicinarsi a poco a poco dal ponte del traghetto, una sagoma di un azzurro polveroso e dal profilo frastagliato che si stagliava contro l’azzurro chiaro e intenso del cielo estivo e diventava sempre più netta e definita. Quando il traghetto si era avvicinato abbastanza aveva visto le coste alte e rocciose tagliate da piccole spiagge e calette sassose che si incuneavano come profonde ferite nella roccia. Portosalvo, l’unico porto e il principale centro abitato dell’isola, si era rivelato all’improvviso, quando il traghetto aveva fatto una virata un po’ brusca verso est che aveva strappato a Vittoria un sussulto allo stomaco: un gruppo di case antiche dipinte a colori sbiaditi dal tempo (rosa, azzurro, giallo, verdino) strette tra loro come una nidiata di pulcini appena nati, addossate alle rocce e attraversate da stradine e viuzze in pendenza che sembravano precipitare verso il mare e ogni tanto, a sorpresa, si aprivano su uno slargo dove gli anziani sedevano in cerchio a chiacchierare.
Dal porto si raggiungeva la polverosa piazza centrale percorrendo una strada che dopo pochi passi si trasformava in un vicolo e poi, dopo la piazza, si allargava di nuovo. Sulla piazza affacciavano una chiesa barocca dedicata al patrono dell’isola, una stazione di polizia che sembrava abbandonata e un bar dall’aria antica con tavolini e sedie colorate all’aperto. Dal 1950, recitava l’insegna appesa sulla porta a vetri. Nelle stradine strette e tortuose ogni tanto comparivano tra le case uno squarcio di mare e sole e le macchie bianche delle barche sulle onde.
Claudia e Stefano erano scesi dal traghetto con due identiche espressioni di ghiaccio che si erano sciolte solo un pochino dopo aver visto Rosa e Alberto che li aspettavano al porto. Avevano sorriso appena davanti al calore e all’entusiasmo della loro accoglienza e Claudia era rimasta piuttosto rigida anche quando Rosa l’aveva stretta in un abbraccio energico. Si conoscevano dalla prima media, erano andate a scuola insieme ed erano state inseparabili fino a quando Claudia aveva abitato sull’isola. Dopo che lei si era trasferita, il loro rapporto era rimasto immutato. Anche se Claudia non tornava a Santo Stefano da tanti anni, avevano continuato a sentirsi quasi ogni giorno e a vedersi ogni volta potevano. Rosa andava a trovarli spesso con Alberto, il suo compagno, e un paio di volte avevano anche fatto le vacanze insieme.
«Vittoria!» La voce di sua madre le giunse attraverso la porta chiusa, scuotendola definitivamente dal sonno. Sentì che i passi si avvicinavano alla stanza, ma poi si fermarono. «Vittoria?»
«Sono sveglia, mamma» borbottò lei a mezza voce, controvoglia.
«Ok, ti aspettiamo di là.»
I passi si allontanarono. Dal patio che girava intorno alla dépendance proveniva un saliscendi di voci, risate ed esclamazioni. Dovevano essere già tutti in piedi. Vittoria si costrinse ad alzarsi e ad aprire il trolley per tirare fuori vestiti e biancheria. Non aveva voglia di mettere tutto a posto, così si limitò a prendere quello che le serviva e a lasciare il resto per metà nella valigia e per metà sparpagliato sul letto. Ci avrebbe pensato dopo, tanto i suoi erano abituati al disordine che regnava in camera sua, a casa. Aprì la porta, passò accanto alla stanza matrimoniale e si infilò in bagno. La casa di Alberto e Rosa era immersa nella campagna, lontana dal centro abitato: un edificio di pietra, basso e squadrato, a cui si accedeva da un cancello incastonato tra due alte siepi che sottraevano la casa alla vista dalla strada. Lo circondava un giardino mediterraneo dall’aria selvaggia: aranci, limoni, palme, bouganville, cespugli di erica, oleandri e mirto tra cui serpeggiavano due vialetti di pietra che si incrociavano e si allontanavano tracciando un arabesco grigio in mezzo ai colori vivaci dei fiori; nell’angolo est, un pergolato di rose dava ombra a due panchine e, dal lato opposto, c’era una piccola vasca circolare con una fontana zampillante. Sul retro della casa una grande terrazza, a cui si accedeva da uno dei viali tramite un cancelletto basso, si apriva a picco sul mare, offrendo una vista splendida sul versante nord-ovest dell’isola.
Vittoria e i suoi genitori si erano sistemati in quella che Rosa e Alberto chiamavano la dépendance con una scherzosa aria di importanza, una piccola struttura che in passato era stata usata come granaio, stalla e deposito di attrezzi. Rosa l’aveva ristrutturata e trasformata in una specie di villino con due camere da letto, un bagno e un salottino con cucina a vista.
Vittoria fece una rapida doccia, indossò un paio di shorts di jeans, una maglietta azzurra con inserti di pizzo bianco sulle spalle e sulle maniche, passò una riga di eyeliner sugli occhi e raccolse i capelli in una treccia alta sopra la testa. Mentre si infilava le All Star bianche sentì di nuovo la voce di Claudia.
«Vittoria! È tardi!»
«Arrivo!»
Controllò velocemente che il ciondolo con la farfalla fosse al suo posto (sentiva di averne particolarmente bisogno, quella mattina) e attraversò la dépendance. Come la casa principale, era arredata in bianco e in tutti i toni del blu e dell’azzurro. Appena arrivata Vittoria aveva pensato che i mobili fossero molto vecchi, a giudicare dal loro aspetto, ma poi sua madre, che era laureata in storia dell’arte e lavorava in una casa d’aste, le aveva spiegato che era uno stile particolare, che i mobili erano volutamente consumati e che era considerato un arredamento molto raffinato. Ovunque c’erano decorazioni che rimandavano al mare: la rete da pesca decorata da conchiglie attaccata a una parete del salottino, l’enorme stella marina che fungeva da centrotavola in cucina, i pezzi di legno raccolti sulla spiaggia usati per costruire mensole fissate ai muri, i pesci stilizzati dipinti nel bagno. Uscì sul patio e trovò i suoi genitori a un tavolo rettangolare di ferro battuto insieme a Rosa e Alberto, che dovevano essere venuti a portare la colazione: su un vassoio blu al centro del tavolo c’erano caffè, tre tipi di latte (normale, all’avena e alla mandorla) e un piatto di cornetti.
«… buttare giù tutto e rifare da zero. E poi c’è il problema della manutenzione delle palme, che sono state attaccate da un virus l’anno scorso» stava dicendo Alberto, la voce che si faceva più forte e chiara a mano a mano che Vittoria si avvicinava. «In certi momenti invidio chi vive in un bell’appartamento e non ha tutte queste preoccupazioni.»
«Perché non hai a che fare con le beghe di condominio» ribatté Claudia in tono eloquente.
«Buongiorno» disse Vittoria, uscendo sul patio.
Alberto la guardò con un gran sorriso. Rosa era coetanea di Claudia, mentre lui aveva 48 anni, eppure, con i capelli sale e pepe sempre arruffati, l’espressione quasi invariabilmente allegra e uno spirito entusiasta che gli illuminava il viso sembrava un ragazzino intrappolato nel corpo di un uomo maturo. «Ecco la Bella Addormentata» la salutò, mentre si alzava per cederle la sua sedia. Era così alto e magro che quasi toccava il soffitto del patio con la testa.
Vittoria sedette in mezzo ai genitori e Rosa, dall’altra parte del tavolo, le allungò una tazza. «Come stai? Hai dormito bene?»
Vittoria ricambiò spontaneamente il suo sorriso aperto e giovale che si estendeva fino agli occhi di un verde intenso. «Abbastanza. È che… il rumore del mare è bello, ma all’inizio non riuscivo ad addormentarmi.»
Sua madre fece un sorriso malinconico, abbassando gli occhi sulla tazza che stringeva tra le mani. «Pensa che da bambina non riuscivo a chiudere occhio se non sentivo il rumore delle onde.»
Rosa ebbe un attimo di esitazione, poi si sistemò dietro l’orecchio una ciocca scura sfuggita al suo bob disordinato. «Bisogna solo addiccarisi.[1] Poi diventa rilassante.»
Vittoria aggrottò la fronte, mentre si versava il caffè da un bricco di porcellana blu. «Bisogna che
Non conosceva per niente il siciliano, i suoi genitori non usavano mai termini dialettali e non avevano neppure la cadenza tipica della regione. Stefano, che aveva lasciato l’isola da bambino, l’aveva persa completamente. Claudia ne conservava una vaghissima traccia quando pronunciava alcune parole. Vittoria aveva sempre pensato che fossero bene attenti a non usare mai il siciliano neanche per caso e che quello fosse l’ennesimo modo per chiudere con il loro passato sull’isola.
«Abituarsi» spiegò Alberto, ridendo con leggerezza. «Se davvero volete ripartire domenica non farà in tempo ad abituarsi… né a imparare il siciliano» aggiunse poi. «È solo venerdì.» Era poggiato a uno dei pilastri che sostenevano le arcate del portico e si stava passando distrattamente la mano tra i capelli, scompigliandoli ancora di più. «Dovete restare un po’ di più.»
Stefano e Claudia si scambiarono uno sguardo sopra la spalla di Vittoria. I loro amici avevano sempre desiderato ospitarli sull’isola, per ricambiare le numerose occasioni in cui erano stati dai Ruggero a Milano. Però sapevano che tornare a Santo Stefano per loro era una specie di tabù, così non avevano mai insistito più di tanto. Ora che finalmente si era presentata l’occasione di averli a casa loro, erano raggianti e soprattutto Alberto non sembrava accettare di buon grado che andassero via così presto. La sera precedente aveva già preso l’argomento due volte, mentre cenavano nel giardino. Ogni volta Rosa era rimasta in silenzio per un po’, poi gli aveva scoccato un’occhiata ammonitrice. Dopo un attimo di confusione, lui aveva spostato la conversazione su altro con un’aria contrita che lo faceva somigliare più che mai a un bambino cresciuto di botto e che Vittoria aveva trovato molto comica.
Lei, però, sospettava che i suoi tentativi fossero completamente inutili: i suoi genitori avevano pianificato il soggiorno a Santo Stefano quasi minuto per minuto, come se avere un piano di marcia ferreo e sapere sempre in anticipo, con esattezza, cosa sarebbe accaduto e quando sarebbe accaduto li tranquillizzasse. La partenza era fissata per domenica, in modo da trascorrere sull’isola solo un week end: un tempo breve, ma sufficientemente lungo da dare soddisfazione ai padroni di casa e accontentare l’entusiasmo di Alberto. Stefano aveva telefonato al baglio già due settimane prima per prendere appuntamento per venerdì mattina e la sera precedente aveva richiamato per avere conferma, ignorando Vittoria che lo fissava con le sopracciglia sollevate. Neanche quando organizzava un viaggio di lavoro a Londra o a New York era così nervoso. Sabato sarebbero andati al mare e domenica mattina avrebbero preso il traghetto per tornare a Palermo. Vittoria dubitava che anche una catastrofe naturale di qualche genere potesse far saltare il piano di fuga.
Suo padre si schiarì la voce. «Ci piacerebbe, ma non posso lasciare il lavoro troppo a lungo.»
«Io ti conosco da dieci anni, ma ancora lo devo capire che lavoro fai» rispose Alberto e tutti risero.
«Se lo capisci, spiegalo anche a me» disse Stefano e Alberto gettò indietro la testa e rise ancora di più. Vittoria non poteva dargli torto, dato che neanche lei capiva nulla del lavoro di suo padre in banca e, sospettava, neppure sua madre. Sapeva vagamente che aveva a che fare con numeri e soldi, tantissimi soldi, e azioni da comprare e vendere al momento giusto per far guadagnare la banca, ma era tutto molto confuso. Le sembrava un mondo lontanissimo da quello reale.
«Comunque, se mai cambiaste idea, l’invito è sempre valido. Potete restare quanto volete» aggiunse Alberto, soffocando uno sbadiglio.
Rosa si alzò. «Non insistere» lo ammonì e gli lanciò un’occhiata significativa. Alberto assunse di nuovo la sua aria da ragazzino colto con le mani nel vasetto della marmellata e Vittoria dovette nascondere un sorriso divertito dietro la tazza. «A che ora avete appuntamento?» chiese Rosa, cambiando argomento.
Stefano sfiorò lo schermo del telefono con un dito. «Tra mezz’ora.»
«Allora è meglio se vi lasciamo.» Rosa, rivolta al compagno, fece un segno con la testa verso casa. «Andiamo? Così scriviamo la lista della spesa.»
Lui si raddrizzò e assentì di malavoglia. «A pranzo grigliata di pesce, che dite? Ci penso io» aggiunse con un sorrisetto che gli fece guadagnare una smorfia da parte di Rosa. Lei era una frana in cucina, quindi era quasi sempre Alberto a occuparsene. «E per Vittoria parmigiana di melanzane. Ricetta segreta di mia nonna, è una bomba.»
Vittoria gli rivolse un gran sorriso. Adorava Alberto, la faceva sempre ridere. «Ci sto.»
«Perfetto» esclamò Rosa. Prese Alberto sottobraccio, poi guardò verso Claudia e dopo un attimo le sorrise. Vittoria si girò appena in tempo per vedere l’espressione contratta di sua madre distendersi subito in un sorriso teso, come in risposta a un invito silenzioso. «Ci vediamo dopo.»
Si allontanarono attraverso il giardino, camminando vicini e scambiando qualche parola a bassa voce. Sembrava che Rosa stesse rimproverando Alberto. Lui rispose con un borbottio sommesso e un’alzata di spalle, poi disse qualcosa e Rosa rise. Intorno al tavolo, sul patio, era caduto il silenzio. Gli uccellini cinguettavano nel giardino e un venticello caldo muoveva piano le fronde degli alberi. Vittoria osservò i suoi genitori, che la stavano palesemente ignorando: lui tamburellava con le dita sul tavolo, lei guardava verso il mare con aria distratta. Bevve un sorso del suo caffellatte con latte di avena e moltissimo caffè, come piaceva a lei. Non era latte con il caffè, la prendeva sempre in giro suo padre, era caffè con una goccia di latte. Si schiarì sommessamente la voce.
«Spero che abbiate fatto testamento.»
Stefano fissò lo sguardo su di lei, perplesso. «Come?»
«Sì, dato che stiamo andando al patibolo.»
Lui parve sorpreso ancora per un istante, poi le rivolse uno dei suoi sorrisi smaglianti da pubblicità di un dentista. Si mosse sulla sedia e si sistemò il colletto aperto della camicia di lino bianco. «No, è che… È strano essere di nuovo qui.» Vittoria annuì, questa volta seria. Lo capiva, ma non poteva fare a meno di cercare di sdrammatizzare. Era nella sua natura. L’espressione di suo padre divenne più attenta mentre si focalizzava su di lei. «E tu? Non sei per niente nervosa?»
Vittoria mandò giù l’ultimo sorso e posò la tazza sul tavolo. «Uhm… Un po’, ma più che altro sono… curiosa. Non so cosa aspettarmi esattamente.»
Stefano emise una mezza risata tagliente, del tutto priva di allegria. «Non aspettarti troppo» rispose, lapidario. Vittoria sentì sua madre sussultare leggermente. Guardò Stefano, un po’ sorpresa, e per un lungo momento lui resse il suo sguardo, immobile, poi fece un respiro calmo, mentre quel sorriso sgradevole si spegneva. «Scusami» disse a bassa voce.
Vittoria strinse le dita intorno al manico della tazza. «So che non vi va di stare qui» mormorò con sincerità, abbassando lo sguardo. «Mi dispiace.»
«No, tesoro» ribatté subito suo padre, deciso. «Abbiamo deciso noi di lasciare la scelta a te.»
«Ok, però…» Vittoria sospirò, mentre seguiva con un dito il profilo della tovaglietta da colazione di fronte a lei, in bambù bianco e azzurro. Il profumo dei fiori riempiva l’aria ed era così intenso da dare alla testa. Chissà perché, le venne in mente Marco, che era allergico al polline e avrebbe considerato quel giardino adorabile una specie di piccolo inferno personale. Era un po’ che non lo sentiva e pensarci le faceva male, così cercò di concentrarsi sulla discussione. «Tu hai tutte le ragioni del mondo per avercela con Edoardo e non pretendo che cambi qualcosa solo perché io gli darò una possibilità. È diverso.» Era lì per conoscere suo nonno e avere qualche risposta alle sue domande, ma non voleva rendere le cose troppo difficili ai genitori, soprattutto a suo padre, che aveva già sofferto abbastanza per colpa di Edoardo. Avrebbe ottenuto quello che cercava senza coinvolgerli troppo o almeno così sperava. Stefano rimase in silenzio a osservarla per un po’, poi fece un mezzo sorriso vagamente malinconico.
«Sei diventata saggia.»
Vittoria ci rifletté su un istante. Non aveva mai pensato a se stessa in quel modo. “Saggia” era una parola che suonava vecchia, da associare a un’anziana signora con gli occhiali, le rughe e il bastone per camminare. Era una parola da adulti, però, e questo le trasmise una piccola scarica di soddisfazione.
«Mi è spuntato un capello bianco, stamattina. Sarà per questo» esclamò, vivace, e i suoi genitori risero di nuovo. Poi Stefano gettò un’occhiata al telefono e si alzò.
«Dobbiamo andare» disse, con la stessa malavoglia con cui si sarebbe alzato per andare dal dentista. Vittoria emise un piccolo sospiro. Neanche le sue battute potevano migliorare l’umore di suo padre in quel momento. Si alzò a sua volta e guardò Claudia. Lei non li avrebbe accompagnati al baglio, ne avevano già parlato. Aveva detto a Vittoria che avrebbe solo complicato le cose e in fondo a lei non dispiaceva: se doveva cercare di avvicinarsi al nonno e farsi dare qualche risposta, era meglio avere intorno un solo genitore invece di due. Le rivolse un sorriso luminoso e si sporse per darle un bacio sulla guancia.
«Andiamo a divertirci senza di te» le disse in tono scherzoso.
Stefano fece una risata brusca. «Sicuro. Sarà uno spasso.»

 

****

 

Seduta al posto del passeggero nella Mercedes di suo padre che sfrecciava lungo la litoranea, Vittoria distolse lo sguardo dalla campagna bruciata dal sole e controllò il telefono con cui stava giocherellando nervosamente senza rendersene conto. Accese il display con l’impronta digitale, poi fece un sospiro breve e scontento. Ancora nessun messaggio da Marco. Strinse le labbra. Era una settimana che non le mandava neanche un’emoji e negli ultimi messaggi vocali la sua voce aveva un tono strano, a metà tra la freddezza e l’allegria forzata. Vittoria gli aveva inviato un messaggio di buongiorno, la mattina precedente, prima di salire sul traghetto a Palermo, che lui aveva visualizzato senza rispondere. Eppure fino a poco prima avevano avuto l’abitudine di scriversi quasi di continuo, per qualsiasi sciocchezza. Che diamine gli stava succedendo? Aveva anche controllato i social di Marco, ma non aveva trovato nulla di insolito. Doveva chiedere a Daniela se sapeva qualcosa.
«Tutto ok?»
La voce di suo padre la riscosse. Sollevò la testa proprio mentre lui le lanciava un’occhiata per poi tornare a fissare la strada. «Tutto ok» rispose meccanicamente. Non le andava ancora di parlarne con i genitori, non prima di capire cosa stesse succedendo.
Il silenzio che seguì era carico di perplessità e lei non ne fu stupita. Suo padre riusciva a leggerla come un libro aperto. Lui però rispettò la sua riservatezza e non chiese altro. Vittoria guardò fuori, cercando di distrarsi. A sinistra la distesa azzurro scuro del mare era punteggiata di barche, pescherecci, un yatch solitario che filava in lontananza diretto verso lidi più movimentati e increspature bianche che i gabbiani sorvolavano pigramente. Sulla destra la campagna era scomparsa per lasciare posto a un vigneto che sembrava non avere confini. L’auto proseguiva e i filari di uva si succedevano all’infinito.
«Sono questi i vigneti dei Falconeri?»
«Sì» fu la risposta neutra di suo padre dopo un attimo di pausa.
Vittoria inarcò le sopracciglia. «Sono… molto grandi.»
«Parecchie persone lavorano per loro, sull’isola. D’altronde non ci sono molte alternative.»
Quando superarono i vigneti tornò la campagna, intervallata dal giallo allegro dei campi di grano che contrastava con l’azzurro luminoso del cielo estivo, poi, finalmente, dopo una curva, apparve il profilo massiccio e squadrato di una struttura, in cima a una specie di collinetta. Vittoria capì subito che doveva essere la casa dei Falconeri. La osservò con curiosità e una leggera soggezione mentre si avvicinavano all’imponente cancello di ferro decorato da viticci intrecciati. Subito arrivò un ragazzo dalla pelle ambrata, con due grossi guanti da lavoro, che si precipitò ad aprire il cancello e li salutò con un sorriso. Stefano gli rivolse un cenno con la testa, poi parcheggiò l’auto sotto una tettoia ornata di piante rampicanti. Vittoria scese lentamente, guardandosi intorno: l’enorme cortile quadrato attraversato da due viali perpendicolari, al centro un pozzo che sembrava vecchio di qualche secolo, le aiuole ben tenute racchiuse tra i viali e in fondo due grandi ombrelloni bianchi quadrati che offrivano tregua dal sole a tavolini e sedie di ferro battuto. Seguì con lo sguardo il ballatoio di pietra che sembrava abbracciare il cortile, chiudendolo in una morsa. Deglutì.
«È qui che abitano?» domandò a bassa voce. «Sembra…»
Stava per dire che le ricordava uno di quei resort extra lusso situati in edifici antichi che si vedevano sui dépliant delle agenzie di viaggio. Qualche anno prima era stata in un posto simile con i suoi.
«È un baglio, una masseria fortificata. Le chiamano così, in Sicilia» spiegò Stefano. «Questa risale al Seicento.»
«Ed è sempre appartenuta alla famiglia?» Vittoria guardò suo padre, che si limitò a un breve cenno affermativo del capo. Fece un sospiro di pura sorpresa. Non aveva idea che la famiglia di origine di suo padre fosse così antica.
Anche Stefano si guardava intorno, ma gli occhiali da sole Armani nascondevano la sua espressione. «È tutto uguale» disse poi, con un filo di voce. «Non è cambiato niente. Non cambia mai niente, qui.»
Vittoria non sapeva bene che cosa rispondere. Non riusciva neppure a immaginare quanto dovesse essere strano per lui trovarsi in quella casa. Aprì la bocca, pensando vagamente di dirgli qualcosa, anche solo che capiva e le dispiaceva, ma in quel momento da una delle portefinestre che si affacciavano sul ballatoio uscì una donna. Per qualche istante li osservò da lontano, portandosi una mano sugli occhi per schermarli dalla luce intensa, poi scese in fretta la scala e li raggiunse. Aveva un passo sicuro che faceva pensare alla marcia di un soldato molto determinato.
«Dottor Ruggero? È un piacere accoglierla qui. E tu devi essere Vittoria» disse con voce alta e un marcato accento siciliano, ancora prima di fermarsi. Tese subito la mano, offrendo una stretta breve e decisa che quasi lasciò un po’ intorpidite le dita della ragazza. «Ben arrivati. Sono Rosalia Scanno, mi occupo della casa da cinque anni. Parlammo al telefono» aggiunse, rivolta a Stefano. Aveva una corporatura minuta, indossava una semplice gonna blu e una camicia bianca leggera e i capelli neri erano raccolti in una coda bassa e ordinata. Il viso dall’espressione seria, magro e spigoloso, era marcato da un imponente naso aquilino e da rughe sottili, ma evidenti. Doveva avere all’incirca cinquanta anni.
Stefano intanto si era sfilato gli occhiali e le aveva rivolto un sorriso. «Sì, ricordo. Lieto di conoscerla.»
Se Rosalia trovò bizzarra quella totale mancanza di entusiasmo non lo diede a vedere: mantenne un’espressione neutra e andò avanti come se nulla fosse. Vittoria sospettò che non avrebbe avuto alcuna reazione neanche se suo padre si fosse messo a fare capriole nel bel mezzo del cortile.
«Accomodatevi» disse, indicando la casa con un cenno della testa, e si incamminarono insieme. Sulla destra, in cima a tre gradini rivestiti di piastrelle di cotto, c’era una porta di ingresso di legno scuro, alta, massiccia e dall’aspetto antico. Rosalia, però, la superò senza fermarsi e li condusse su per la scala di pietra, sulla terrazza, poi li precedette in casa attraverso la stessa portafinestra da cui era uscita. Si ritrovarono in un ampio salotto fresco e luminoso.
«Non è cambiato niente» mormorò Stefano, come se parlasse a se stesso, lanciando tutto intorno un’occhiata quasi esitante. «Né le abitudini né… tutto il resto.»
Rosalia si era fermata. Gli indirizzò uno sguardo perplesso. «Come?»
Anche Vittoria guardava suo padre, curiosa. Lui esitò, come rendendosi conto all’improvviso di aver detto a voce alta qualcosa che avrebbe dovuto essere soltanto pensato. Poi espirò e la sua espressione si distese appena. «Voglio dire… L’arredamento è identico a quello che ricordo. E… non c’è mai stata l’abitudine di usare la porta di ingresso. Si entrava sempre dalla terrazza. Ed è ancora così» disse in tono incolore. «Sono cresciuto qui, da bambino» aggiunse, rivolto a Rosalia, che lo fissava ancora con le sopracciglia sottili un po’ inarcate, l’unico tratto del suo viso che lasciava trasparire un’emozione evidente.
«Lo so. Me lo dissero» rispose la donna, dopo un attimo di imbarazzante silenzio. Vittoria si domandò cosa sapesse esattamente di suo padre. Sapeva che era l’altro figlio di Edoardo Falconeri? Prese nota mentalmente di chiederlo a Stefano appena possibile. «Vero è, questi mobili sono qui da cinquant’anni. E la porta principale è chiusa quasi sempre. Da quando sono qui non ho avuto nessuna buona ragione per cambiare questa abitudine.» Cadde di nuovo un silenzio pesante. Rosalia incrociò le mani davanti a sé e accennò un sorriso freddo. «Posso offrirvi qualcosa di fresco da bere?»
Stefano guardò Vittoria, che scosse piano la testa, pensierosa. «No, grazie, siamo a posto così. Come sta… il signor Falconeri?» chiese poi e lei ebbe l’impressione che fosse una pura e semplice domanda di circostanza.
«Non ci sono stati grandi cambiamenti, ultimamente. La sua situazione…»
Vittoria smise quasi subito di ascoltare, occupata a osservare l’eleganza antica dei mobili e dell’ambiente senza girare troppo la testa di qua e di là per non sembrare una turista. Era quello che si era aspettata di trovare e che si addiceva perfettamente alla casa: i mobili massicci di legno scuro, le tappezzerie verde e oro, la rosa dei venti sul pavimento di maioliche così lustre che avrebbe potuto usarle per specchiarsi, l’enorme lampadario che pendeva dal soffitto… Poi gli occhi le caddero su qualcosa che catturò completamente, inesorabilmente tutta la sua attenzione: un pianoforte a coda nell’angolo accanto alla portafinestra. Era lucido e splendente, senza neppure un granello di polvere, come se qualcuno avesse appena terminato di spolverarlo con cura.
Gli si avvicinò automaticamente, senza riflettere, come tirata da un filo invisibile. Sul leggio c’era uno spartito ingiallito e sgualcito, un po’ strappato agli angoli. Doveva essere piuttosto vecchio e preferì non toccarlo, ma non poté trattenere la tentazione di allungare un dito e passarlo sulla superficie liscia del pianoforte. Sfiorò il coperchio della tastiera, poi la sollevò e la sua mano scivolò sui tasti componendo gli accordi iniziali del Notturno di Chopin che aveva suonato da solista al saggio di fine anno. Lo ricordava alla perfezione, perché aveva continuato a lavorarci anche dopo il saggio, per migliorare quello che era andato storto. Daniela aveva preso l’abitudine fastidiosa di dirle «Salutami Chopin» ogni volta che si separavano o chiudevano una telefonata.
«Vittoria?»
Fu come se qualcuno la strattonasse con violenza. Trasalì e le sue dita si contrassero sulla tastiera, troncando la musica di colpo. Il silenzio suonò assordante ora che le note non riempivano più l’aria. Vittoria avvertì un senso di vuoto familiare che le stringeva lo stomaco. Le capitava ogni volta quando smetteva di suonare. Sollevò gli occhi e incrociò quelli di suo padre e Rosalia che la fissavano.
«Vittoria» la chiamò di nuovo Stefano, la voce bassa e priva di un’inclinazione particolare, ma lei intuì che era contrariato. «Non si toccano le cose senza permesso.»
Lei tolse le mani dalla tastiera, mentre sentiva un calore salire alle guance, e richiuse piano il coperchio. «Sì, mi dispiace» borbottò e tornò sui suoi passi, a disagio. Stefano continuò a fissarla finché Vittoria non fu di nuovo accanto a lui, poi distolse gli occhi. Le parve che con quel semplice, banale gesto del capo lui avesse alzato un muro, chiudendola fuori. Doveva essere infastidito perché lo stava mettendo in imbarazzo, proprio lì, in casa di Edoardo.
«Brava sei» disse Rosalia. Vittoria rispose con un mezzo sorriso. «Il pianoforte era già qui quando ho iniziato a lavorare in questa casa, ma non lo avevo mai ascoltato. Nessuno sa suonare, in famiglia. Credo che sia molto vecchio.»
Vittoria era tentata di fare altre domande, ma suo padre intervenne. «Sarebbe meglio andare. Siamo attesi» disse, con un tono rigido e velato di ironia che spinse Rosalia a scoccargli uno sguardo indagatore.
«Certo» rispose subito. «Da questa parte.» Si avviò verso una porta che conduceva fuori dal salotto. Quando ebbe girato le spalle, Vittoria guardò suo padre, catturando il suo sguardo, e bisbigliò “Scusa” quasi senza voce, muovendo solo le labbra. Lui la fissò per un momento, poi il suo volto accuratamente neutro si aprì in un sorriso debole, ma carico di affetto. Le circondò le spalle con un braccio, stringendola a sé.
«Non ti preoccupare» mormorò e se la tirò dietro.
Dal salotto passarono alla sala da pranzo, altrettanto vasta, luminosa e arredata nello stesso stile, poi in un lungo corridoio scandito da finestre che affacciavano all’esterno del baglio, sul mare di un colore intensissimo che faceva pensare all’azzurro tempera gettato sulla tela di un pittore, senza sfumature. Il pavimento di cotto e maioliche continuava ininterrotto, le pareti erano di un bianco immacolato e piante ornamentali, alcune in vaso, altre che si arrampicavano sui muri, riempivano gli spazi vuoti tra le finestre. Vittoria camminava cercando istintivamente di non fare troppo rumore sulle piastrelle, come avrebbe fatto in un museo o qualcosa del genere.
«Questo posto è…» sussurrò a suo padre, mentre passavano sotto un’apertura ad arco e si avviavano su per una scala. Non riuscì a finire la frase: gli occhi le erano caduti sul corrimano di ferro battuto decorato da ghirigori elaborati. Non riusciva neanche a immaginare quanto potesse costare una cosa del genere. Era abituata al lusso, dato che i suoi genitori erano più che benestanti, eppure tutto questo, tutto insieme, la lasciava comunque senza fiato.
«Lo so» fu la risposta asciutta di Stefano.
Intanto avevano svoltato a destra subito dopo la scala e dopo qualche metro Rosalia finalmente si fermò davanti a una porta. Era solo accostata e lasciava uscire una lama di luce forte e netta che tagliava la penombra del corridoio. Da dentro giunse come un tuono una voce roca e tesa, da anziano, che frantumò la quiete e fece trasalire Vittoria.
«Rosalia! Rosalia!»
La donna bussò due volte in rapida successione, poi spinse la porta ed entrò. La stanza era quadrata, grande, inondata dalla luce che entrava a fiotti da una portafinestra spalancata. I mobili erano scuri e pesanti come tutti quelli che Vittoria aveva visto finora: un letto matrimoniale curiosamente alto, un armadio imponente, un cassettone lungo e stretto e due comodini ai lati del letto. Qua e là si scorgevano i segni distintivi della camera da letto di un malato: una sedia a rotelle in un angolo, confezioni di medicine ordinatamente disposte sul cassettone, una flebo accanto al letto e un macchinario con un monitor che forse serviva per gli elettrocardiogrammi. Vittoria deglutì. Non aveva mai avuto a che fare con persone anziane o malate e vedere quegli oggetti la innervosiva un po’. In fondo, la portafinestra era incorniciata da tende bianche e svolazzanti e dava su una terrazza dove qualcuno sedeva di spalle in un’ampia poltrona di pelle, sotto un ombrellone bianco.
Rosalia guidò Stefano e Vittoria verso la terrazza. Lei sentiva il braccio di suo padre intorno alle spalle irrigidirsi sempre di più e pensò di dirgli qualcosa per tranquillizzarlo, anche se non avrebbe saputo neanche da dove iniziare. Poi, mentre attraversavano la camera, colse un lampo di luce con la coda dell’occhio. Si voltò in fretta, cercando di capire cosa fosse prima che suo padre la tirasse via con sé: era la cornice d’argento di una fotografia. Riuscì appena a intravedere un profilo femminile prima di passare oltre. Uscirono sulla terrazza e fu costretta a strizzare gli occhi, accecata dal sole per un momento.
«I suoi ospiti arrivarono, signor Falconeri» disse Rosalia.
Vittoria sentì che suo padre allentava lentamente la presa intorno alle sue spalle, fino a lasciarla andare del tutto, ma le rimase comunque attaccato e la seguì mentre lei girava intorno all’ombrellone, come per non perderla di vista. Lei sentì un tuffo al cuore e si ritrovò a muoversi lentamente, come se all’improvviso i piedi fossero diventati pesanti. Era il momento, stava per conoscerlo davvero. Era lì ed era tutto vero, eppure le sembrava di essere in un sogno e che da un momento all’altro si sarebbe riscossa, svegliandosi di soprassalto, si sarebbe ritrovata a casa, nel suo letto, e tutto sarebbe svanito. Sbatté le palpebre, ma era ancora lì, con suo padre che la tallonava come un secondino con il prigioniero. La poltrona di pelle era rivolta verso il mare e quando lei incontrò gli occhi di Edoardo Falconeri le sembrò che lo riflettessero come due specchi. Osservò il suo volto in silenzio.
I lineamenti erano sfatti e deformati dalle rughe, ma si intuiva che in gioventù dovevano essere stati marcati e attraenti. I capelli erano brizzolati e perfettamente in ordine e il corpo rattrappito dava l’impressione di essere svuotato, privo di sangue. A quel pensiero macabro Vittoria sentì un fiotto di nausea e si sforzò di reprimerlo. Era chiaramente un uomo anziano e molto malato, eppure sedeva più eretto possibile, avvolto in un pigiama di seta grigio scuro e una vestaglia color rosso cupo che faceva pensare a un cardinale e sembrava troppo pesante per una caldissima giornata di luglio. Le mani pallide e affusolate erano ancorate ai braccioli della poltrona con decisione, come se Edoardo pensasse di potersi alzare, guarito e ringiovanito, da un momento all’altro. Lui la fissò immobile per qualche secondo, studiandola a sua volta. Solo il petto magro di alzava e si abbassava a un ritmo irregolare, lasciando uscire un respiro roco e pesante.
«Chi è stato?» domandò con voce ansimante, ma imperiosa, e un accento siciliano così marcato che Vittoria faticò a capire le parole. «Chi suonò il pianoforte?»
Calò un gelo immediato. Vittoria lanciò un’occhiata a Rosalia, che era sul punto di rispondere con un’espressione titubante. «Io» balbettò, a disagio. Si schiarì la gola. «Sono stata io.» Se Edoardo era arrabbiato, doveva prendersela con lei. Lui, però, non ebbe alcuna reazione apparente. Anzi, parve che all’improvviso la risposta non gli interessasse più. Poi le sue labbra esangui si aprirono in un sorriso simile a un ghigno.
«Vittoria» mormorò in un soffio. «Tu sei, picciridda.»[2] Il suo sguardo si spostò su Stefano, che era rimasto in piedi accanto a lei, fermo e zitto, e anche questa volta non mostrò alcuna emozione, come se non lo avesse visto davvero.
A qualche passo da loro, Rosalia si mosse appena. «Se non avete bisogno di niente, vi lascio soli.» Sembrava che non vedesse l’ora di andarsene.
Edoardo fece un breve cenno con il capo e lei rientrò in casa, rivolgendo un sorriso freddo a Vittoria e a Stefano mentre passava. I suoi passi veloci svanirono in fretta e sul gruppetto scese un silenzio opprimente come la cappa di calore che incombeva sul baglio. Sulla terrazza, fortunatamente, era mitigata dal venticello fresco e piacevole che arrivava dal mare e doveva essere per questo che il vecchio sedeva lì fuori. Vittoria guardò suo padre, sottraendosi all’esame attento di Edoardo, senza sapere che cosa fare: il suo viso era impassibile, privo di espressione dietro gli occhiali da sole. Il tempo passava, il nonno non le toglieva gli occhi di dosso e per un folle attimo pensò che le sarebbe sfuggita una risata isterica. Poi Edoardo ruppe il silenzio all’improvviso.
«Sei stata tu?» chiese a bruciapelo. Lei ci mise un attimo a capire che parlava ancora del pianoforte. Annuì brevemente, preoccupata che il nonno si agitasse di nuovo. Invece l’espressione tesa del suo viso si rilassò. «Allora non l’ho immaginato, stavolta.» Il suo sguardo si appannò, mentre si lasciava andare contro lo schienale imbottito della poltrona. Per un po’ parve che la sua mente fosse lontanissima da lì. Forse erano le medicine a fargli quell’effetto: Stefano le aveva spiegato che la cura che stava seguendo era molto pesante, anche se ormai era solo un palliativo. Poi, di colpo, Edoardo puntò di nuovo gli occhi su di lei. «Non pensavo che saresti venuta. Che ti avrei visto, prima di morire» disse, continuando a fissarla con uno sguardo acuto che la metteva a disagio. Era come se la trapassasse da parte a parte. «Pensavo di non avere più nemmeno questa speranza.»
L’amarezza che avvolgeva le sue parole la colpì. Strinse una mano a pugno, ricambiando quello sguardo azzurro che la trafiggeva, identico al suo, identico a quello di suo padre. Lo aveva ereditato da una persona che vedeva in quel momento per la prima volta. Prese aria.
«Era giusto farlo» rispose, alzando le spalle.
Sul volto stanco di Edoardo apparve un sorriso strano, obliquo, del tutto privo di gioia. Poi fu scosso da un sussulto e il sorriso si trasformò in una mezza risata, breve e secca, stroncata quasi subito da un forte colpo di tosse. Quando fu passato, il vecchio si raddrizzò di nuovo sulla poltrona, respirando affannosamente.
«Se non sapessi di chi sei figlia, non penserei che sei una Falconeri. In questa casa nessuno ha mai saputo cosa fosse giusto.»
Vittoria lanciò di nuovo un’occhiata a Stefano, dubbiosa. Non aveva capito l’osservazione del nonno, ma il volto di suo padre non le rivelò nulla. Stefano continuava a guardare Edoardo con quella che sembrava soltanto indifferenza. Il vecchio seguì la direzione del suo sguardo e sorrise di nuovo con aria sardonica verso suo figlio.
«Come stai?» gli chiese Stefano, il tono rigido, dopo una pausa che a Vittoria parve eterna.
Edoardo fece una smorfia. «Lo vedi, come sto. Da quanto tempo non ci incontriamo… Sei un uomo, ormai. Ma io so tutto di te, di quello che hai fatto. Il lavoro, il matrimonio… Vittoria…» aggiunse, dopo una brevissima esitazione. «Le voci corrono in fretta, qui. Si dice che sei il dirigente più giovane che la tua banca abbia mai avuto. Ti faccio i miei complimenti. Devi essere molto fiero di te stesso.»
Dalla sua posizione, Edoardo guardava Stefano dal basso, eppure aveva l’aria di un re che riceve uno dei suoi vassalli, e le sue parole in apparenza gentili erano permeate da un’ironia sottile, ma evidente. Vittoria aggrottò la fronte. In lui c’era qualcosa di contraddittorio che non riusciva a capire. Perché mai avrebbe dovuto ironizzare sui successi di Stefano? Lui, però, non sembrava toccato in alcun modo. Osservò suo padre in silenzio per un attimo, poi fece un mezzo sorriso, mostrando i denti bianchi e perfetti.
«Smettila» disse soltanto, tranquillo, come se fosse stanco di uno scherzo che andava avanti da troppo tempo. «Volevi lei, giusto?» Fece un cenno verso Vittoria. «Adesso l’hai vista.»
Lei provò l’istinto di ritrarsi quando suo padre la indicò, ma si trattenne. Non voleva peggiorare la situazione. Si sentì gelare sotto il sole implacabile di luglio. E si sentiva una stupida. Non si era aspettata un incontro affettuoso, aveva sempre saputo che i rapporti tra suo padre e suo nonno erano glaciali, eppure essere lì e vedere tutto con i suoi occhi era diverso. L’ostilità vibrava in mezzo a loro come una cosa viva e tangibile e lei aveva la sensazione che ogni singola parola avesse un altro significato che non conosceva. Era soltanto la spettatrice di una schermaglia carica di sottintesi e non le piaceva.
Edoardo emise un sospiro roco e pesante che parve costargli una grande fatica. «Non hai ancora smesso di odiarmi. Grazie di avermela portata… anche se forse lei mi odia quanto te, con tutto quello che le avrai raccontato.»
«No» rispose lei istintivamente. Scosse la testa. «Non ti conosco nemmeno.» Si accorse che suo padre la fissava, ma non ricambiò lo sguardo.
«Hai ragione» assentì Edoardo, chinando la testa, «ma non è colpa mia se andò così.»
Vittoria si morse il labbro inferiore. Non era del tutto d’accordo. Suo padre aveva chiuso i rapporti con Edoardo e anche con Enrico, il suo fratellastro, ma loro non lo avevano mai considerato una parte della famiglia ed Edoardo non si era mai preoccupato di fargli da padre. Non gli aveva mai dato neppure dei soldi e Stefano aveva sempre fatto tutto da solo, contando su se stesso e sulla sua brillante intelligenza. Fu sul punto di ribattere, poi però osservò il viso sfatto e grigiastro di suo nonno, la sofferenza che piegava i suoi tratti verso il basso e annacquava l’azzurro degli occhi e all’improvviso capì che non aveva senso recriminare il passato a qualcuno che forse aveva ancora solo qualche settimana di vita davanti a sé. Fece un respiro profondo.
«Adesso sono qui. Possiamo rimediare. Io… potrei tornare. Posso suonare un po’ il pianoforte, se… se ti fa piacere.» La voce le morì sull’ultima sillaba, travolta dalla sua stessa sorpresa. L’idea era nata ancora prima che se ne rendesse conto, le parole erano scivolate fuori prima che potesse riflettere. Lasciò passare qualche secondo, ma non sentì arrivare alcun pentimento. Forse poteva essere una buona idea, per conoscere un po’ il nonno e avere qualche risposta alle sue domande. E a lui avrebbe fatto sicuramente piacere. Dalla sua reazione, quando le aveva chiesto se era stata lei a suonare, le era sembrato che ci tenesse molto, a quel pianoforte. Accanto a lei sentì suo padre irrigidirsi di colpo.
«Dobbiamo partire domenica» disse subito, la voce calma, ma ferma.
Lei lo guardò. La stava fissando con espressione seria e concentrata, gli occhi che mandavano un unico messaggio, forte e chiaro: no. Vittoria cercò di riflettere velocemente. Forse quella era l’unica possibilità che aveva di raggiungere l’obiettivo per cui era arrivata fino a lì. Non poteva perderla.
«Ma… solo per qualche giorno. Non hai ancora delle ferie da recuperare?»
Stefano scosse la testa, piano. «Vittoria, no. Non è il caso.»
«Ma io voglio farlo. Cioè, mi piacerebbe. Non è per questo che sono qui, per conoscerlo?» Ebbe una lieve esitazione e lanciò un’occhiata rapida a Edoardo, ma non sembrava che li stesse ascoltando: aveva di nuovo un’espressione assente, persa in chissà quali pensieri o ricordi.
«Lo hai conosciuto» ribatté Stefano a denti stretti, la voce gelida. «Direi che è sufficiente.»
Vittoria lo guardò male. «Mi stai prendendo in giro? Non ci siamo detti neanche due parole!»
Lui scosse di nuovo la testa, senza cambiare espressione, e Vittoria pensò che forse non la stava nemmeno ascoltando, che sembrava aver chiuso la mente, rifiutando la possibilità di accontentarla.
«Per favore, papà.»
Stefano aveva il respiro teso e più veloce del normale. Il suo volto sembrava scolpito nella pietra tanto era impassibile, ma nei suoi occhi era ben visibile un’ombra di angoscia che ne oscurava la solita luminosità. A Vittoria venne in mente una superficie di cristallo che inizia pian piano a ricoprirsi di piccole crepe per poi esplodere e frantumarsi. Di colpo si sentì una stronza, mentre il senso di colpa si mescolava a quella scintilla di ribellione che la coglieva davanti ai silenzi dei suoi genitori sugli argomenti che non volevano affrontare con lei. Non voleva fare del male a suo padre, ma non era neppure disposta a cedere. Se avesse perso quell’occasione, avrebbe perso anche tutto il resto. Mentre Stefano la fissava con rabbia pensò che le avrebbe urlato contro, anche se era una cosa che suo padre non faceva mai. Invece emise un respiro brusco e profondo, come se gettasse fuori qualcosa.
«Bene» sbottò a bassa voce. «Bene.»
Si girò e rientrò in casa a passo fermo. Lei fece per scattargli dietro, ma qualcosa si strinse intorno al suo polso, bloccandola dov’era: la mano secca e rugosa di Edoardo, incredibilmente forte e salda per un uomo così anziano e malato. Edoardo cercò gli occhi di lei con i propri e quando Vittoria li incrociò vi scorse un’espressione vacua.
«Lo sapevo» bisbigliò, a voce così bassa che Vittoria riuscì appena a udirla. «Sapevo che mi avresti portato qualcosa di lei.»
Vittoria aggrottò la fronte, ma in quel momento non aveva il tempo di chiedere spiegazioni o riflettere su quelle parole, che forse non avevano neppure un senso. Forse Edoardo non sapeva cosa diceva, la mente annebbiata dalle medicine. Ricambiò la stretta della sua mano. «Tornerò domani, te lo prometto.»
Liberò le dita e corse dietro a suo padre, rifacendo il percorso a ritroso e sperando di ricordare la strada. Sulle scale incrociò una ragazza con una divisa da cameriera azzurro chiaro, un lampo di capelli scuri e un’espressione stupefatta, che si tirò da parte un istante prima di essere travolta.
«Scusa!» le gridò Vittoria, scendendo in fretta i gradini. Ripercorse il corridoio con le finestre che davano sul mare, la sala da pranzo, il salotto, varcò la portafinestra. Sulla terrazza strizzò gli occhi, colpiti all’improvviso dal sole: suo padre stava andando verso la macchina, sempre con passo fermo e risoluto.
«Papà!» chiamò, mentre scendeva la scala del ballatoio. A quel punto lui si fermò, a pochi passi dall’auto, e rimase di spalle ad aspettarla.
«Papà, non ti arrabbiare… Cerca di capire, ti prego» disse Vittoria, affannata, non appena lo ebbe raggiunto, nel mezzo del cortile. Stefano non si girò, ma lei sapeva che stava ascoltando. «Non posso andarmene così, non ha senso… Voglio soltanto conoscerlo un po’.»
«Non era questo il patto» ribatté lui, ancora prima che Vittoria finisse di parlare. Si voltò con un movimento brusco. «L’accordo era che saremmo venuti, ti avrebbe vista e ce ne saremmo andati. Fine. Niente altro» disse lentamente, scandendo le parole con tono rigido. «Ma Edoardo se ne frega, ottiene quello che vuole, come sempre. Starà anche per morire, ma non è cambiato di una virgola.»
«Non mi ha chiesto lui di tornare, sono stata io che…»
«Ti sbagli, Vittoria!» sbottò Stefano, esasperato. «Questo è quello che Edoardo ti fa credere, di essere tu che decidi, ma è lui che conduce il gioco. Manipola le persone, le sposta come le pedine su una scacchiera, lui…» Si interruppe di colpo, rimase per un istante a guardare Vittoria con il respiro affannoso, le labbra strette, il corpo teso per la rabbia, soffocando parole che non voleva o forse non poteva far uscire. Poi sembrò che una consapevolezza misteriosa lo investisse all’improvviso. Tirò un respiro profondo, scosse la testa e si passò le mani sul viso, come per recuperare il controllo. Ci fu un lungo silenzio. Chiazze di luce filtravano tra i rami degli alberi che ombreggiavano la tettoia delle auto, le cicale frinivano, un uccello lanciò un richiamo. Da qualche parte intorno al baglio, in lontananza, un cane abbaiava. Stefano abbassò le mani. «Tu non capisci» continuò, guardando Vittoria con aria triste.
«Fammelo capire, allora.»
Lui rimase in silenzio ancora per un po’. Distolse gli occhi da lei e prese a guardare un punto indefinito, come per stabilire una distanza, tracciare un confine. Poi parlò lentamente, con calma, scegliendo le parole a una a una. «Edoardo non è come sembra. So che lo vedi come un povero vecchio debole, malato e inoffensivo, ma non lo è. Credimi. Ti farà del male, se potrà» aggiunse con forza, puntando di nuovo gli occhi su di lei e Vittoria trasalì. «Ti farà del male per ferire me.»
Vittoria rimase ferma, come bloccata dov’era, mentre un’ansia sottile le riempiva velocemente lo stomaco. Prese un respiro esitante, chiedendosi se davvero suo padre non avesse ragione, se non si stesse infilando in qualcosa di più grande di lei. Serrò le labbra. Aveva percepito qualcosa di strano in Edoardo, sebbene fosse stata insieme a lui solo per qualche minuto, ma la reazione di suo padre non era un po’ esagerata? E se fosse andata via in quel momento non avrebbe mai potuto farsi la sua opinione sul nonno e scoprire qualcosa sul misterioso passato della sua famiglia. Era stufa di lasciare che fossero i suoi genitori a decidere per lei su quella faccenda e se c’era il rischio che Edoardo facesse lo stronzo, forse valeva la pena correrlo. Cosa poteva succedere, dopotutto? Forse suo padre era ancora ferito per il modo in cui Edoardo lo aveva rifiutato da bambino e proiettava su di lei il suo timore, ma Edoardo non la conosceva nemmeno: cosa poteva farle? Strofinò la punta della scarpa sul vialetto di pietra.
«Sputa anche fiamme dalle narici, per caso?»
Suo padre le lanciò un’occhiataccia. «Sono serio, Vittoria.»
Lei sospirò ancora. «Ok, allora… starò attenta. Promesso.»
Stefano la fissò per un attimo e Vittoria capì che non aveva intenzione di mollare. «È meglio che tu non abbia a che fare con queste persone. Fidati di me.».
«Io mi fido di te, vorrei solo… avere una possibilità.» Non era certa che lui avesse compreso il significato di quelle parole, anche se non avrebbe saputo cosa aggiungere senza dire troppo. Non poteva certo confessare il suo piano o si sarebbe ritrovata su un traghetto per Palermo prima di rendersene conto. Negli occhi di suo padre, però, comparve la consapevolezza, mescolata a una leggera malinconia.
«Lo so. Lo capisco. Ma lui rovinerà tutto» rispose Stefano con voce triste, come se avesse già capito che i suoi tentativi erano inutili e si preparasse ad affrontare qualcosa di spiacevole.
«Se scappi allora penserà davvero di poterlo fare. Non dargli questa soddisfazione. Dimostragli che sei più forte.»
Lui appariva sempre più triste. «Ma non è così» mormorò. Un angolo della sua bocca si sollevò in una specie di smorfia. «Io non sono il più forte. Forse… forse c’è stato un momento in cui lo ero, ma adesso, in un certo senso… mi sento di nuovo un bambino.»
Vittoria lo studiò in silenzio per un po’. «Mi dispiace, papà» disse poi, a voce molto bassa. Non sapeva cosa altro dire. Quello non era il solito atteggiamento di suo padre, per niente: lui era sempre coraggioso, forte e sfrontato e accoglieva le sfide con un sorriso, ma in quel momento sembrava che qualcosa dentro di lui si fosse sgonfiato. Se era l’effetto che gli faceva Edoardo, allora Vittoria capiva perché gli stesse alla larga.
Stefano scosse la testa. «È questo posto… è pieno di fantasmi.» Percorse con lo sguardo cupo il baglio e il cortile, inondati dal sole e immersi in una quiete immobile, come se scorgesse davvero delle presenze affacciate fra le tende bianche gonfiate da una folata di vento improvvisa. Vittoria rabbrividì. «Pensavo che ormai anche Edoardo fosse un fantasma del passato, ma la verità è che il passato può sempre tornare.»
«Non è meglio affrontarlo, allora?» chiese Vittoria, sollevando le sopracciglia. «Sarebbe poi così terribile?»

Suo padre guardò lontano ancora per un istante, poi spostò gli occhi su di lei. Ci fu una pausa silenziosa, mentre il cane continuava ad abbaiare, da qualche parte nella campagna intorno alla casa. «Non lo so. Preferisco non scoprirlo.»

 



[1] Abituarsi.

[2] Piccolina.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8. Il filo spezzato ***


CAPITOLO 8
IL FILO SOSPESO

 

Sicilia, Isola di Santo Stefano
Luglio 2015

 

Vittoria staccò le dita dal pianoforte, mentre l’ultimo accordo di un brano tratto dalla colonna sonora della Città incantata si spegneva nell’aria. Si sgranchì le mani. Mentre riacquistava consapevolezza del mondo intorno a lei e del suo stesso corpo si accorse che aveva un crampo alla mano destra, un dolore sordo che lentamente diventava bruciante. Le succedeva spesso, quando suonava così a lungo da perdere la cognizione del tempo. Doveva essere seduta al piano da quasi un’ora, senza avvertire nulla se non le note che la circondavano e la sensazione dei tasti sotto le dita. Adesso, di colpo, sentiva tutto insieme: il dolore che le aggrediva la mano, molta sete, un po’ di fame e un gran bisogno di sgranchirsi le gambe. Era sempre così. Il ritorno alla realtà non era piacevole.
Si alzò e fece qualche passo nel salotto del baglio. Si avvicinò a una vetrina in un angolo che ospitava una collezione di porcellane dipinte: un giovanissimo pescatore con un pantalone rosso che trasportava una cesta di pesci, una lavandaia dal sorriso lezioso, due ninfe tra i fiori. Intanto eseguiva alcuni piccoli esercizi di stretching con la mano destra e il dolore si attutiva lentamente, ma aveva comunque bisogno di una pausa.
Era lunedì mattina ed era il terzo giorno che trascorreva lì a suonare. Suo padre la accompagnava sempre e mentre lei era al piano lui lavorava. Quando poi Vittoria saliva a salutare Edoardo, la scortava sulla terrazza dove il vecchio passava le giornate guardando il mare, come una silenziosa, impassibile guardia del corpo. In quei tre giorni, Vittoria era riuscita a scambiare qualche parola di poco conto con il nonno, ma nulla di più. Non era più vicina al suo obiettivo di quando si trovava a Milano. Edoardo stava troppo male per parlare a lungo e la presenza di suo padre era un ostacolo: non poteva fare domande scomode davanti a lui, che le evitava da quindici anni, con i suoi occhi attenti che le perforavano la schiena. Vittoria era delusa e, da come suo padre la guardava, si rendeva conto che lui lo capiva, sebbene non facesse commenti. Eppure, se anche Edoardo fosse stato più in forze e Stefano non fosse stato sempre presente, doveva ammettere che non avrebbe saputo da dove cominciare. Iniziava a pensare che non sarebbe stato affatto semplice, che forse era impossibile. Con un sospiro passò nella sala da pranzo e uscì sul ballatoio.
Stefano era seduto a un tavolo circolare di ferro battuto che Rosalia aveva fatto portare lì perché avesse una postazione di lavoro. Aveva il Mac aperto davanti a sé, scorreva un grafico colorato con il mouse incorporato e intanto parlava al telefono con voce sommessa. Vittoria fece un mezzo sorriso. Le ferie per lui erano sempre state un concetto nebuloso: anche quando era in vacanza con la famiglia, si portava dietro il computer e il tablet e trovava il modo di lavorare un po’. Le era capitato spesso di alzarsi di notte per bere un bicchiere d’acqua e trovarlo al computer. Eppure non toglieva mai neanche mezz’ora di tempo a lei e a sua madre. Faceva in un’ora quello per cui i suoi colleghi impiegavano giorni e Vittoria non ricordava che le avesse mai detto di no quando lei gli chiedeva di guardare una serie tv insieme o di andare a mangiare un gelato. Si avvicinò al tavolo e Stefano le rivolse un sorriso rapido senza smettere di parlare al telefono.
«L’affare Durings era praticamente già nostro. Sarà chiuso tra dieci giorni al massimo e avremo raggiunto gli obiettivi» disse con tono tranquillo. Una breve pausa. «Sì, Alessandra, ho sentito Patrick» continuò e la sua voce cambiò appena, impercettibilmente. Vittoria capì che stava parlando con Alessandra De Angelis, il CEO italiano della banca. Era una specie di grande capo ed era una buona amica di suo padre: si davano del tu, prendevano il caffè insieme e organizzavano cene con le rispettive famiglie. «Ma non so quanto sia utile: insomma, è il risk manager, ma ha deciso che non vuole rischiare. È come se un ristorante vegano mettesse bistecche sul menù: non sta facendo quello che dovrebbe fare.»
Un’altra pausa, un po’ più lunga, questa volta. Vittoria sedette di fronte a suo padre. Sul tavolo rivestito di maioliche bianche e rosse che tracciavano il disegno di una grande stella marina c’era un vassoio con un piatto di biscotti, una caraffa di cristallo piena di limonata e due bicchieri alti. «Il rischio c’è sempre, ma è calcolato, fino all’ultimo centesimo. E poi lo sai che per me la prudenza è sopravvalutata. Io credo nel fare la cosa giusta al momento giusto e allora non serve essere prudenti. Dobbiamo vendere e dobbiamo farlo adesso.» Altra pausa. Vittoria versò un po’ di limonata in uno dei bicchieri di cristallo lavorato e ne prese un sorso, poi fece una smorfia: non era più deliziosamente fresca come aveva sperato. «Certo, senz’altro. Ti richiamo quando avrò guardato gli ultimi file che mi ha mandato Patrick. A dopo.» Stefano chiuse la telefonata, fece un sospiro come per buttare fuori qualcosa e le sorrise di nuovo. «Ehi, piccola. Ti sei decisa a fare una pausa.»
«Anche tu avresti bisogno di una pausa, mi sa.»
«Una connessione decente, ecco di cosa ho bisogno. Questo posto è il mio inferno personale. Non riesco neanche a lavorare» ribatté lui in tono secco, scorrendo il grafico sul computer con il mouse.
Vittoria abbassò gli occhi, mortificata. Per Stefano non c’era niente di peggio che non poter lavorare al massimo delle sue possibilità ed era colpa sua se stava succedendo. «Mi dispiace.»
Lui le lanciò un’occhiata e il suo volto cambiò immediatamente. «No, non ti preoccupare. Lo sai che mi piacciono le sfide.»
Vittoria assentì. Sapeva che stava cercando di rassicurarla e di solito sapeva sempre come riuscirci, ma questa volta era tutto così strano e complicato. Guardò la caraffa ricoperta da una leggera condensa.
«Da quanto tempo è qui questa roba? Non l’hai nemmeno vista?» chiese, ironica, accennando al vassoio. I biscotti erano ancora tutti lì e il bicchiere di suo padre sembrava intatto. Mentre lavorava, Stefano dimenticava spesso la realtà e si isolava completamente, proprio come lei quando era al pianoforte. Lui scoccò un’occhiata al vassoio come se davvero lo notasse in quel momento per la prima volta, ma invece di ridere o di rispondere a tono, come avrebbe fatto normalmente, si incupì.
«Erano i preferiti di mia madre. I biscotti, intendo.»
Vittoria li fissò a sua volta. Li aveva già assaggiati nei giorni precedenti: erano a base di miele e pistacchio, con una doratura croccante e un profumo che riempiva l’aria. «Pensi più spesso a lei da quando siamo qui?» azzardò, un po’ incerta. Stefano non amava parlare molto neanche di sua madre. Quando Vittoria chiedeva di lei gli compariva una ruga tra le sopracciglia e gli occhi si riempivano di tristezza. Tra tutti gli argomenti del passato, però, era l’unico che riuscisse ad affrontare più liberamente, senza alzare un muro.
Lui rimase zitto per qualche secondo, lo sguardo rivolto al cortile deserto e soleggiato. C’era sempre un’atmosfera immobile, in quella casa, sospesa nel sole accecante e nel caldo soffocante. Il baglio sembrava disabitato, addormentato sotto un incantesimo.
«Mi sembra di vederla ovunque» rispose Stefano, con tono calmo e controllato. «Ho stampata nella mente l’ultima immagine che ho di lei, quando sono partito, da bambino. Era un giorno d’estate come questo. Mi ha svegliato prestissimo, quando il cielo era ancora grigio, e mi ha accompagnato al porto. Qui tutti dormivano ancora e lei mi aveva detto che sarei andato via solo la sera prima, così non ho potuto salutare nessuno. Ma mia madre voleva così, credo. Pensava che sarebbe stato più facile per me. Mi ha abbracciato soltanto una volta, così forte da farmi male. Poi mi ha detto “Vai”. Non le è uscita neanche una lacrima. Non piangeva mai, ma io ho capito che in quel momento si tratteneva per me, per darmi forza. Allora mi sono costretto a imitarla, a non piangere, anche se avrei tanto voluto farlo. Sono salito sul traghetto con la signora che doveva accompagnarmi e sono rimasto sul ponte a guardarla fino a che il traghetto si è allontanato troppo e lei è diventata una macchia indistinta. Non si è mai mossa, finché è riuscita a vedermi. E dopo… non so perché, ma ogni volta che pensavo a mia madre la immaginavo ancora lì, ferma sul molo, a guardare verso di me… le braccia lungo i fianchi, i capelli neri lunghissimi sulle spalle e il vestito bianco.» Tacque, senza cambiare espressione. Sembrava perso nei ricordi, come se rivivesse quel momento che si svolgeva davanti ai suoi occhi di nuovo, proprio come lo aveva appena descritto. «Non l’ho più rivista» aggiunse alla fine.
Vittoria sentiva una tristezza pesante che le era scivolata addosso e la avvolgeva come un bozzolo. Aveva sempre cercato di immaginare il dolore che doveva aver provato suo padre a essere strappato via di colpo, bambino, dalla sua casa, da sua madre, dal fratello-amico con cui era cresciuto per andare incontro a una vita nuova e del tutto sconosciuta. Non ci riusciva mai in modo soddisfacente. L’ombra che scorgeva negli occhi di suo padre quando ne parlavano restava qualcosa di insondabile per lei.
«È morta due anni dopo che sei andato via, giusto?»
Stefano fece un breve cenno di assenso. «Si è ammalata all’improvviso e non è stato possibile fare nulla. Volevo tornare, venire a trovarla, ma non me lo ha permesso. Ha proibito a sua sorella di riportarmi qui.» Fece una piccola pausa e strinse le labbra. «Quando mi ha mandato via, non lo ha saputo nessuno finché non è stato troppo tardi per impedirlo. Non so come abbia reagito Edoardo. Non gli importava chissà quanto di me, ma… sicuramente non gli piace quando qualcosa che ritiene che gli appartenga viene portata via sotto il suo naso.» Sul suo viso si disegnò un ghigno che scomparve quasi subito. «Credo che mia madre… Credo che avesse paura che se fossi tornato, anche solo una volta, Edoardo avrebbe preteso che restassi e dopo la sua morte chi avrebbe potuto fermarlo? Pensava che tutta questa situazione mi avrebbe rovinato la vita. E poi… probabilmente, per come era fatta lei, non voleva che la vedessi malata, così diversa rispetto al passato. Mi disse che era più felice pensando che io la ricordavo come era prima.»
«Secondo te aveva ragione? Cioè, ha fatto bene a non farti tornare, neanche per il suo funerale?» indagò Vittoria con cautela. Non poteva immaginare niente di peggio, ma non voleva esprimere nessun giudizio. Avrebbe solo causato ulteriore dispiacere a suo padre.
Stefano espirò lentamente, lo sguardo lontano. Alzò le spalle. «Onestamente non lo so. Con il tempo sono riuscito a capirla, a capire perché lo ha fatto.» Le lanciò un’occhiata rapidissima prima di proseguire. «Ma all’epoca io… avrei voluto solo abbracciarla di nuovo. Per un po’ di tempo sono stato molto arrabbiato con lei. Poi sono cresciuto. Sono diventato padre e… ho capito. Vorrei solo averle detto addio.»
Vittoria allungò la mano sul tavolo e prese quella di lui e Stefano la strinse automaticamente, l’espressione ancora distante e pensierosa. Non era davvero lì con lei, in quel momento. Poi il suo telefono iniziò a vibrare. Lui si riscosse, lo afferrò di malavoglia e guardò il display.
«È Patrick. Devo rispondere» mugugnò. «Scusa, piccola.» Si alzò, portando il telefono all’orecchio, e rispose in inglese, mentre si allontanava lungo la terrazza dal lato opposto rispetto alle scale che scendevano nel cortile.
Vittoria rimase ad ascoltarlo per un po’, sorseggiando la limonata ormai tiepida e mangiando un biscotto. Suo padre aveva una pronuncia inglese perfetta, grazie ai viaggi frequenti a Londra e a New York per lavoro, e Vittoria aveva dovuto sopportare una valanga di battute delle sue amiche che parlavano di prendere ripetizioni di inglese da lui. Oltre che di matematica, dal momento che risolveva problemi ed esercizi semplicemente guardandoli. Alla fine era riuscita a costringerle a smettere. Avere genitori giovani e belli poteva essere un problema enorme.
Giocherellò con il telefono e scorse un po' le bacheche dei social e ogni tanto lanciava uno sguardo a suo padre, che era ancora al telefono, in piedi accanto alla balaustra di pietra, e le dava di spalle. Sembrava che non dovesse chiudere a breve, così si alzò e tornò in salotto. Sedette di nuovo sullo sgabello del pianoforte e sfogliò con delicatezza gli spartiti ingialliti e macchiati dal tempo che aveva trovato sul leggio. In quei giorni aveva suonato quasi sempre brani presi da lì, perché immaginava che Edoardo li conoscesse e gli facesse piacere ascoltarli. Ogni tanto, però, faceva a modo suo e suonava quello che le passava per la testa, come la colonna sonora della Città incantata.
Prese il telefono dalla tasca e cercò uno spartito su Google, poi lo sistemò sul leggio, sopra i vecchi spartiti. Mosse le dita per riscaldarle, le posò con leggerezza sui tasti, prese un respiro profondo e attaccò le prime note del terzo movimento della Sonata n. 14 di Beethoven. Era un pezzo complicato, su cui aveva iniziato a lavorare dopo il saggio di fine anno, e le sembrava di essere ancora in alto mare. Suo malgrado, quando fosse tornata a scuola avrebbe chiesto consiglio alla Grandi sui passaggi che le venivano peggio.
Ogni volta che sedeva al pianoforte a suonare le tornava in mente perché lo faceva e perché non avrebbe mai potuto smettere: solo quando le sue dita scorrevano sui tasti avvertiva quella sensazione, come un calore liquido che le scorreva sulla pelle, su tutto il corpo, simile a un milione di piccole scosse di elettricità. Era piacevole e al tempo stesso quasi doloroso. Aveva tentato più volte di spiegarlo alle persone che non suonavano, come i suoi genitori, ma dalle loro espressioni vacue capiva sempre di non esserci riuscita. Forse non era una sensazione che si potesse esprimere a voce. Solo la musica era in grado di fargliela provare ed era per questo che anche se a volte era esausta e faceva i salti mortali per conciliare il pianoforte con la scuola e il tennis e le uscite con le amiche e gli altri impegni, anche se a volte, dopo ore di lezione, aveva crampi così forti da dover mettere il ghiaccio sulle mani e ancora non riusciva a suonare come avrebbe desiderato e le veniva voglia di lanciare gli spartiti dalla finestra, alla fine tornava a sedersi sullo sgabello, dimenticava tutto e ricominciava.
Eccolo di nuovo, mentre si sforzava sugli accordi velocissimi e ravvicinati di Beethoven simili a una cascata di note che si inseguivano, un po’ giocose e un po’ arrabbiate: quel brivido delizioso, tormentoso, che cresceva con la musica, le percorreva il corpo, le infuocava la pelle. Chiuse gli occhi quando arrivò a un punto che ricordava a memoria, eppure, stranamente, non riusciva a staccarsi dalla realtà come le accadeva sempre. Stavolta c’era qualcosa che la teneva ancorata lì, qualcosa che stonava e le faceva prudere la nuca, come se all’improvviso stesse premendo i tasti sbagliati, solo che non era così.
Aprì gli occhi e smise di colpo di suonare: sulla soglia della portafinestra, a metà strada tra l’esterno e l’interno, come se fosse indeciso se entrare o allontanarsi, c’era qualcuno. Un uomo, che la fissava. Vittoria incrociò il suo sguardo. Capì chi fosse immediatamente, d’istinto, e il cuore le si fermò nel petto. Aprì la bocca per la sorpresa, ma non ne uscì alcun suono. Poi la figura si voltò in fretta e uscì di nuovo sulla terrazza, tornando da dove era venuta. Lei rimase lì seduta per qualche istante, paralizzata, le mani ancora sulla tastiera e la bocca spalancata. Balzò in piedi, afferrò il telefono così rapidamente che per poco non le sfuggì tra le dita e gli schizzò dietro. Uscì fuori, lanciandosi tra le tende bianche, si guardò intorno. L’uomo si stava allontanando a passo svelto verso sinistra, in direzione della scala di pietra che scendeva nel cortile. Dalla parte opposta arrivava, attutita, la voce di Stefano, ancora al telefono. Dopo un attimo di indecisione, Vittoria andò verso le scale, avvicinandosi all’uomo che si allontanava.
«Enrico!» Lui si fermò bruscamente, come se lei gli avesse lanciato qualcosa, ma rimase di spalle. Vittoria accelerò il passo e lo raggiunse. «Enrico?» disse di nuovo, a voce più bassa, come per avere conferma della sua identità.
Passò forse qualche secondo, poi lui si girò piano e finalmente Vittoria riuscì a vederlo bene in faccia. La prima cosa che la colpì fu che non somigliava per niente a suo padre o almeno non a una prima osservazione superficiale. Condividevano soltanto gli occhi azzurri, il colore dei Falconeri che avevano anche i suoi occhi. Rispetto a Stefano era più basso, anche se di poco, aveva una carnagione più chiara e lineamenti meno perfetti, ma delicati e gradevoli. I capelli erano di un morbido castano. Eppure, nonostante le differenze, si percepiva una vaga somiglianza. Forse era per il fisico snello e forte o il portamento elegante o quell’aria inconfondibile da uomo d’affari, accentuata dal completo blu chiaro con una camicia azzurra e una cravatta bordeaux a piccoli disegni. Vittoria aveva osservato abbastanza il guardaroba di suo padre da intuire che l’abbigliamento di Enrico doveva essere molto costoso.
Fece un respiro profondo, all’improvviso imbarazzata, mentre si fissavano a vicenda, immobili. E adesso? Non lo aveva mai visto prima, non lo conosceva per niente, eppure lo aveva inseguito e bloccato e doveva per forza far uscire qualcosa dalla bocca. Possibilmente qualcosa di intelligente.
«Sono Vittoria. La figlia di Stefano.»
Il primo tentativo poteva considerarsi fallito. Certo che era la figlia di Stefano. Quante altre quindicenni avevano l’opportunità di girare in casa sua? Arrossì. Enrico la osservò senza parlare ancora per un attimo, poi fece un secco cenno di assenso.
«So chi sei.»
Cadde il silenzio. Vittoria spostò il peso da un piede all’altro, sempre più a disagio. Come sempre quando era in difficoltà, prese a giocherellare con il ciondolo a forma di farfalla.
«Io… ehm… non sapevo che… Non eri via per… lavoro?»
«Sono tornato prima.» Enrico abbassò lo sguardo. Aveva le mani nelle tasche e la postura rigida e doveva essere un po’ strano anche per lui, incontrare per la prima volta sua nipote così all’improvviso. Per qualche misteriosa ragione, quell’idea la tranquillizzò. Gli rivolse un sorriso impacciato. «Pensavo che vi sareste fermati solo per il week end. È lunedì.»
Il tenue sorriso le si congelò in fretta. Una volpe che avvista un cacciatore avrebbe avuto più entusiasmo dello zio nel trovarla lì. Il suo sguardo azzurro era freddo come il mare in pieno inverno e sembrava chiuso, come se una tenda fosse stata tirata per nasconderne le profondità.
«Ehm… Sì, ci fermiamo qualche giorno in più. Sto… suonando qualcosa per Edoardo» provò a spiegare, anche se di colpo, senza motivo, le parve una cosa molto stupida. Esitò, cercando qualcosa da aggiungere. «Pensavo che gli avrebbe fatto piacere e…»
«Cosa?» la interruppe Enrico. La fissava con la fronte aggrottata e l’aria perplessa, come se lei parlasse in cinese. In effetti non era stata molto brava a spiegare la situazione. Vittoria prese fiato e riprovò.
«Be’, io… Quando ha saputo che suono il piano mi è sembrato felice, così ho pensato…» Tacque, mentre si rendeva conto che lui non la ascoltava più: i suoi occhi avevano catturato qualcosa alle spalle di lei ed erano diventati di pietra. Prima che Vittoria potesse girarsi per capire cosa succedeva, arrivò una voce da dietro di lei.
«Enrico.»
Era Stefano. Apparve all’improvviso al fianco di Vittoria, silenzioso come un gatto. Gettò un’occhiata rapida e indecifrabile verso di lei, poi spostò gli occhi sul fratello e i due si studiarono in silenzio per qualche secondo. Suo padre era immobile, quasi una statua, eppure Vittoria aveva la sensazione che fosse pronto a scattare da un momento all’altro.
«Stefano» rispose infine Enrico, il tono così gelido e distaccato che lei si irrigidì a sua volta. Mentre loro due se ne stavano lì a valutarsi a vicenda, la colpì come mai prima di allora la consapevolezza che non si vedevano da quindici anni e tutto quel tempo sembrava essersi solidificato tra loro, diventando un muro invalicabile. Spostò lo sguardo allarmato dall’uno all’altro, attenta e ansiosa. E se avessero iniziato a litigare? Sarebbe stata colpa sua, soltanto colpa sua, perché era stata lei a voler rimanere.
Poi suo padre parlò ancora, tranquillo e controllato. «Che sorpresa. Non ci aspettavamo di vederti.»
«Riparto domani» rispose subito Enrico e Vittoria pensò che lo avesse deciso in quell’esatto istante. Continuava a spostare lo sguardo dal padre allo zio, come se seguisse una partita di tennis. Nonostante i toni di ghiaccio e le espressioni scure, tra loro c’era qualcosa. Le parole che si scambiavano sembravano viaggiare su un filo sospeso e invisibile, almeno per lei. Era soltanto il legame di sangue che li univa, malgrado tutto, o c’era dell’altro? All’improvviso sentì la mano di suo padre sulla spalla, il braccio di lui che la stringeva con fermezza.
«Buon viaggio, allora. Meglio se andiamo, è tardi. Ciao, Enrico.» Se la tirò dietro, piano, ma senza esitazione.
Il filo sospeso si spezzò.
Vittoria aprì la bocca, sconcertata, e tentò di dire qualcosa, ma ancora una volta le parole le morirono in gola. Era troppo frastornata per reagire in qualche modo, anche se avrebbe voluto almeno salutare lo zio che aveva appena conosciuto. Era successo tutto troppo in fretta ed era stato tutto molto più strano e imbarazzante di quanto avesse mai immaginato. Era come un brutto sogno. Raggiunsero il tavolo, Stefano infilò il portatile nella borsa con gesti misurati, ma determinati, e la condusse verso le scale. Lei si voltò un attimo indietro a guardare Enrico, che era rimasto fermo e li seguiva con gli occhi: sembrava una statua pietrificata sotto il sole.
«Papà… papà, non è tardi» provò a protestare debolmente, sebbene sapesse che era inutile. Suo padre stava soltanto scappando e nulla lo avrebbe fermato, ma lei non sopportava di farsi trascinare via così, come una bambina, senza una parola di spiegazione. Lui non rispose e Vittoria pensò che forse non l’aveva neanche sentita.

Scesero in cortile, salirono in auto, Stefano mise in moto e un attimo dopo stavano già sfrecciando a velocità sostenuta lungo la strada, il baglio che si allontanava rapidamente dietro di loro. Vittoria si girò per lanciargli un’ultima occhiata, come per accertarsi che fosse davvero lì e che non fosse stato tutto un sogno, poi guardò suo padre: teneva gli occhi fissi sulla strada, evitando accuratamente di incontrare i suoi, perché sapeva che vi avrebbe letto domande alle quali non voleva rispondere. Non ci sarebbe stata nessuna spiegazione, neanche questa volta. Vittoria serrò le dita sul bordo del sedile del passeggero e voltò la testa di scatto per guardare fuori.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9. Un'anima in due corpi ***


CAPITOLO 9
UN’ANIMA IN DUE CORPI

 

Sicilia, Isola di Santo Stefano
Luglio 2015

 

Il viaggio di ritorno si svolse nel silenzio più assoluto. Stefano guidava con una tensione appena trattenuta sotto la superficie. Quando premette sul piccolo telecomando che gli aveva dato Alberto per aprire il cancello di casa, il beep prolungato fece sobbalzare Vittoria. Era completamente immersa nei suoi pensieri. Riviveva la scena a cui aveva appena assistito, cercando di comprenderla, ma si rendeva conto che le mancavano troppi pezzi. E avvertiva una sensazione di vago, indefinito fastidio a cui avrebbe voluto dare una voce, farla uscire, darle un nome e un significato, ma era bloccata da qualche parte dentro di lei. Stava diventando come i suoi, incapace di affrontare le cose? 
Suo padre parcheggiò la Mercedes accanto al portone d’ingresso e lei si aspettava che saltasse subito giù, per evitare un confronto. Invece rimase fermo a guardare fuori dal parabrezza per qualche istante, poi si sfilò gli occhiali da sole e si passò le mani sul viso, coprendo la sua espressione. Lasciò ricadere le mani lentamente e quando la guardò le parve che fosse molto stanco, anche se calmo.
«Tutto bene?»
Fu colta di sorpresa. Era lui quello turbato, doveva essere Vittoria a preoccuparsi per lui. «Sì» mormorò. «Tu?»
Ci fu un silenzio talmente lungo che Vittoria pensò che non volesse rispondere. Continuava a guardare fuori con aria assente. «Deve sembrarti tutto assurdo. E lo è» disse infine, la voce che sembrava pronta a sfociare in una risata amara che non arrivò mai.
Vittoria si mosse sul sedile di pelle color crema, morbida e profumata, che aveva sempre paura di sporcare. Voleva chiedere, indagare, capire, pretendere risposte, ma il blocco che percepiva dall’altra parte, in qualche modo, lo faceva apparire sbagliato.
«No, è che… Mi dispiace che non riusciate nemmeno a parlarvi.»
Quella breve scena tra il padre e lo zio le era sembrata molto peggio della fredda, sottile ostilità che oscillava tra Stefano e Edoardo, quando il vecchio si rivolgeva al figlio con quel suo tono sardonico e Stefano rispondeva a monosillabi, come se ogni mezza frase gli costasse un enorme sforzo. Dopotutto, Edoardo si era comportato piuttosto male con lui e la rabbia di Stefano era giustificata. E poi stava morendo: c’era troppo poco tempo, risolvere il passato sembrava molto più difficile, oltre che inutile. Enrico e Stefano, invece, erano fratelli. Vittoria non poteva credere che quel legame fosse svanito del tutto, lasciandosi dietro loro due che si fronteggiavano quasi come nemici.
«Molto tempo fa, prima che me ne andassi da qui, io e lui stavamo sempre insieme. Siamo cresciuti insieme» disse Stefano lentamente, l’aria pensierosa. «Anche se eravamo molto diversi, eravamo una cosa sola. Un’anima in due corpi. Ma poi sono successe delle cose. Ci siamo feriti a vicenda, tante, troppe volte.»
Vittoria trattenne il fiato. «Ne vuoi parlare?» tentò, cauta.
Lui le lanciò un’occhiata e per un attimo parve che cercasse di prendere una decisione. Poi distolse lo sguardo, rimise gli occhiali da sole e fu come se quell’esile spiraglio si richiudesse di colpo. «È una storia lunga e noiosa. Un’altra volta, magari.» Aprì lo sportello per scendere.
Vittoria lasciò uscire l’aria e si slacciò la cintura di sicurezza. Aveva capito perfettamente: la discussione era chiusa, di nuovo. «Ok» disse in un soffio, più a se stessa che a suo padre.
Nella dépendance trovarono Claudia seduta al tavolo della cucina, con il kindle in mano e l’aria distratta. Quando li vide entrare, sollevò la testa e inarcò le sopracciglia.
«Già tornati? Com’è andata?»
Vittoria fece per rispondere, ma si accorse che non avrebbe saputo come spiegare quello che era successo, così richiuse la bocca e guardò suo padre. Sedette pesantemente sul piccolo divano del salotto.
Stefano posò le chiavi della macchina sul tavolino con una lentezza studiata, come se volesse prendere tempo per stabilire come affrontare la cosa. «Bene» fu la sua risposta, calma e neutra. «Oggi abbiamo avuto compagnia.»
«Chi?»
Lui fissò Claudia per un attimo. «Enrico.»
Lei non rispose subito, ma la sua espressione cambiò impercettibilmente, come se si sforzasse di non lasciar trapelare tutta la sua sorpresa. Si guardarono senza parlare per qualche istante. Claudia emise un respiro e si raddrizzò sulla sedia.
«Ma avevamo… non era partito per lavoro?» chiese, cambiando bruscamente la frase che aveva quasi pronunciato.
«Era. È tornato prima» spiegò Stefano, sempre con quel tono incolore. «Non si aspettava che fossimo ancora qui, comunque. Forse non ha avvisato Rosalia prima di tornare, altrimenti lei glielo avrebbe detto.» Mentre parlava, tirò fuori il portatile dalla borsa, probabilmente per rimettersi al lavoro. Claudia lo osservava, le braccia incrociate posate sul tavolo, il kindle dimenticato accanto a una bottiglia di acqua minerale mezza vuota.
«Avete parlato?»
Lui scosse la testa. «Ha detto solo che riparte domani.»
A Vittoria suonò strano come quando lo aveva detto Enrico, al baglio, poco prima. Più ci pensava, più era convinta che il suo piano originario non fosse quello: voleva scappare anche lui, come suo fratello. Prese il telecomando, imbronciata, accese la tv e fissò lo schermo senza interesse.
«Vado fuori a lavorare un po’» disse suo padre, dopo qualche istante di silenzio. Si chinò per baciare Claudia sulle labbra.
Lei annuì. «Ok. Rosa e Alberto sono andati a fare la spesa, più tardi li aiutiamo con il pranzo.»
«Perfetto» commentò Stefano automaticamente, ma Vittoria era sicura che non ascoltasse sul serio. Uscì sul patio e sedette al tavolo dove facevano colazione, aprì il computer e poco dopo il suo telefono squillò. Vittoria fece un sospiro, lasciandosi andare contro gli spessi cuscini blu che coprivano il divanetto di vimini bianco. Sua madre aveva ripreso il kindle in mano, ma non leggeva e fissava un punto indefinito, pensierosa.
«Sai che possiamo fare domani?» disse all’improvviso. Vittoria si contorse per guardarla con aria dubbiosa. Aveva le gambe piegate di lato, sul divano, ed era seduta tutta storta. «Un giro in paese. Non l’hai ancora visto. Rosa mi ha detto che hanno aperto un sacco di negozi e ristoranti carini, per i turisti. Che ne pensi?» Sua madre incrociò il suo sguardo e davanti alla sua espressione perplessa tirò fuori un sorriso poco convinto. «E meglio non andare al baglio, domani. Sai che per papà è dura.»
Vittoria rifletté, in sottofondo il vociare indistinto della televisione a basso volume e la voce di suo padre che parlava al telefono, sul patio.
«Tu non pensi che…» azzardò, indecisa su come proseguire. Eravamo una cosa sola. Un’anima in due corpi. Fece una pausa e riprovò. «Non ti sembra che dovrebbero parlarsi? Non si guardavano neanche in faccia… È suo fratello, mamma. Non è assurdo?»
Sua madre si mordeva il labbro e sembrava incerta. Abbassò lo sguardo sul kindle, passando un dito sul display per accenderlo. «Tesoro, è una scelta di papà. Se lui non se la sente… Ma è meglio così. Credimi.»
Meglio così? Vittoria aprì la bocca per ribattere, ma in quel momento Stefano rientrò in casa, il cellulare in mano e l’aria stanca. Le dispiacque vedere l’espressione tirata sul suo viso. Era stata una giornata pesante per lui e sembrava che non fosse ancora finita.
«Devo tornare a Milano» annunciò con voce cupa. «Domani c’è una riunione e Alessandra mi ha chiesto di essere presente. Era lei, al telefono.»
Le spalle di Vittoria si afflosciarono di colpo. Ecco, adesso anche suo padre aveva una scusa perfetta per scappare.
«Devi andare per forza?» chiese Claudia. «Non potreste farla online, la riunione?»
Lui sospirò e scosse la testa, mentre posava il cellulare sul ripiano della cucina. «È per la Durings. È importante. Alessandra me lo ha chiesto come favore personale, vuole il mio parere.»
Claudia assentì, l’aria rassegnata. Non era certo la prima volta che il lavoro di Stefano si infilava nelle loro vacanze e non sarebbe stata neppure l’ultima. Lei e Vittoria c’erano abituate.
«Ok, allora… prenoto il traghetto. Potremmo anche partire stasera… dubito che troveremo dei posti, però, in pieno luglio» disse, a bassa voce, come riflettendo tra sé. Si alzò per andare a prendere il suo telefono dalla borsa, su una sedia della cucina, sulla fronte una ruga sottile che le spuntava sempre tra le sopracciglia quando era concentrata su qualcosa.
Vittoria si raddrizzò di scatto sul divano. «Potremmo? Partiamo tutti e tre?»
Se fossero partiti allora non sarebbero più tornati a Santo Stefano. Non avrebbe avuto senso fare su e giù in quel modo. I genitori si voltarono a guardarla nello stesso momento, come due nuotatori sincronizzati, poi si scambiarono un’occhiata.
«Be’, noi… siamo rimasti per qualche giorno, come avevamo deciso» rispose sua madre, con calma.
Vittoria sollevò le sopracciglia. «Non state usando il pretesto della riunione per scappare, vero?» domandò, ironica.
Claudia sbuffò una mezza risata, anche se non sembrava affatto divertita. «Ma no! Il piano era questo, restare qualche giorno» ripeté.
Vittoria rifletté in silenzio per un istante. «Sì, ma… non abbiamo mai deciso quanti giorni fossero esattamente qualche giorno» ribatté Vittoria con ostinazione. Un lieve panico stava iniziando a crescerle nello stomaco. Andare via adesso significava abbandonare i suoi progetti senza aver ottenuto assolutamente nulla: non poteva succedere, sarebbe stata una beffa troppo grande arrivare così vicino al traguardo per essere costretta a fermarsi e tornare al punto di partenza a mani vuote. Doveva trovare il modo di impedirlo.
Sua madre sembrava interdetta. «Ok, allora… quanti giorni sono esattamente qualche giorno
«Io vorrei restare ancora.»
Claudia alzò gli occhi al cielo, poi li abbassò sul telefono che aveva tirato fuori dalla borsa, evitando di sostenere lo sguardo di sua figlia. «Non ti annoi a stare in quella casa? È una specie di tomba.»
Vittoria trasalì. Sua madre non era stata affatto entusiasta di scoprire dell’accordo che lei aveva preso con Edoardo. Quando Vittoria le aveva detto che sarebbe tornata al baglio a suonare per il nonno e conoscerlo un po’, l’aveva fissata come se avesse appena annunciato di volersi tuffare in mare direttamente dalla terrazza nel giardino di Alberto e Rosa, poi aveva rivolto uno sguardo sconvolto a Stefano. Sembrava che non potesse credere che lui avesse accettato una simile proposta. Si erano allontanati per parlarne da soli, in giardino, mentre Vittoria aspettava nella dépendance camminando su e giù nervosamente e spiandoli ogni tanto attraverso le vetrate. Le era sembrato che la discussione fosse piuttosto accesa, ma poi erano rientrati e avevano tutti e due una faccia abbastanza normale. Claudia aveva detto che capiva e che era d’accordo, purché papà la accompagnasse.
Nonostante i sorrisi e le parole rassicuranti, però, Vittoria aveva intuito benissimo che i suoi detestavano quella decisione e che se avessero fatto di testa loro l’avrebbero presa, infilata nel trolley e riportata a Milano. Adesso le parole di sua madre confermavano le sue impressioni. Per loro non c’era niente di peggio che tornare al passato e lei li stava obbligando a farlo. Si sentiva in colpa, ma non poteva andarsene: era a stento riuscita a parlare con il nonno, aveva a malapena intravisto lo zio e non sapeva assolutamente niente di più di quando era arrivata, tre giorni prima. Era ancora tutto un enorme mistero e se avesse perso quell’occasione forse non ce ne sarebbe mai stata un’altra. Dopotutto, Edoardo stava per morire. Annaspò, cercando in fretta una soluzione, ma le sembrava di avere la testa svuotata.
«Suono, mamma. Lo sai che non mi annoio» riuscì a tirare fuori, ma sembrava una scusa debolissima perfino alle sue orecchie.
Lei stava per replicare, sul viso un’aria esasperata, quando Stefano intervenne. «No, Claudia, aspetta. Va bene. Ha ragione» disse con tono stanco e pesante. Alzò le mani. Anche se Vittoria non poteva scorgere la sua espressione, perché le dava le spalle, sentì un soffio di speranza che le si accendeva nel petto.
Claudia lo fissò, le braccia rigidamente incrociate, lo sguardo duro. «Sei sicuro, Stefano?»
Lui esitò, prese aria, poi annuì una volta sola. Si passò una mano sulla fronte, come per chiarirsi le idee. «Facciamo così: voi restate. Io parto domani mattina presto. Se tutto va bene, torno mercoledì. E giovedì saremo di nuovo al baglio» annunciò con voce scura.
Vittoria sbuffò silenziosamente: non avrebbero lasciato che ci andasse da sola e sua madre sembrava non avere intenzione di accompagnarla, ma non importava. Almeno non sarebbe stata costretta a ripartire così presto. Dopo una pausa carica di tensione, Claudia annuì a sua volta, gli occhi fissi in quelli di Stefano, e a Vittoria venne voglia di urlare per l’entusiasmo. Si morse il labbro per trattenersi. Sapeva che per i suoi accontentarla era un sacrificio, non poteva buttargli in faccia la sua soddisfazione. 
Claudia aveva l’aria cupa e la stava fissando. Quando Vittoria incrociò i suoi occhi, subito li staccò da lei e guardò altrove, l’espressione che diventava distante. Stefano, invece, era occupato con il suo telefono e aveva il viso abbassato. Vittoria emise un sospiro lieve. Aveva vinto, non sarebbe stata trascinata via come una bambina capricciosa. Fece un piccolo sorriso e afferrò il telecomando per alzare il volume della televisione.
«Ok, aspetterò il bodyguard, così il mostro a tre teste che vive in cantina non potrà mangiarmi.»
Suo padre accennò una risata, ma gli uscì un suono strano, come se ridesse controvoglia. «Più o meno» rispose a bassa voce, mentre usciva di nuovo sul patio.

 

****
 

Il giorno seguente Stefano partì prestissimo. Vittoria percepì vagamente che entrava piano nella sua stanza, cercando di non svegliarla, si chinava su di lei e le baciava la guancia. Si era trattenuto un istante, mentre il profumo di cedro del dopobarba mescolato all’odore fresco e morbido della sua camicia le riempiva il naso e la barba cortissima le graffiava la pelle, come se volesse mandarle un messaggio muto. Poi si era ritratto ed era uscito silenziosamente.
Lei era scivolata di nuovo nel sonno e si era svegliata molto più tardi, con il sole già bollente che inondava la stanza di luce, le lenzuola aggrovigliate e calciate via come sempre e un fiume di sudore che le scorreva lungo la schiena. La sua camera alla dépendance era deliziosa, con un’intera parete dipinta di azzurro polvere, i mobili aggraziati bianchi e blu, la testiera di ferro del letto decorata da motivi che imitavano le onde del mare e la portafinestra che affacciava sul giardino, ma sembrava un forno per le pizze. Alla dépendance non c’era l’aria condizionata e la sua stanza era la più calda. Quella matrimoniale, accanto alla sua, era molto più fresca e ventilata.
Quando si alzò, scoprì che sua madre non c’era: doveva essere andata a fare colazione nella casa principale con Rosa e Alberto. Fece una doccia veloce e mentre si vestiva fece partire un lungo e mesto messaggio vocale di Daniela in cui lei le raccontava di aver saputo che Marco stava uscendo con Maddalena, un’arpista del loro anno al conservatorio.
Vittoria si bloccò a metà mentre si infilava le scarpe e rimase per un po’ seduta sul letto, immobile, osservando una mosca che ronzava nella stanza e cercando di capire cosa sentisse. La sconcertava il fatto di provare così poco dispiacere, quando invece avrebbe dovuto detestare Marco e quella snob presuntuosa di Maddalena, che non le era mai stata simpatica neanche prima. Ormai non sentiva Marco da tempo e aveva capito che tra loro non c’era più niente, qualunque cosa ci fosse prima. Non era neppure sicura che fossero mai stati davvero una coppia, dato che erano usciti insieme solo un paio di volte. Non le importava, non come avrebbe dovuto. Nei giorni in cui non si erano parlati si era resa conto di poter stare benissimo senza di lui e che tutta l’attrazione che le era sembrato di provare era gonfiata dalla curiosità e dall’entusiasmo, perché non si era mai vista con un ragazzo prima di allora. Eppure… lui l’aveva baciata, le aveva preso la mano al cinema ed era stata la prima volta che aveva pensato a qualcuno in termini diversi dalla semplice amicizia. E lui l’aveva sostituita così in fretta.
Accigliata, finì di vestirsi e raggiunse la casa principale. Entrò dalla portafinestra della cucina, dove Rosa e sua madre sedevano all’enorme tavolo rettangolare di legno bianco coperto di graffi e scanalature come quasi ogni altro mobile della casa. Parlavano fitto tra loro, ma appena Vittoria mise piede dentro tacquero e raddrizzarono di colpo le teste chine e vicine.
«Buongiorno!» esclamò Rosa, la voce carica di energia, come se avesse mandato giù almeno quattro caffè. Solo Rosa poteva essere così al mattino, mugugnò Vittoria tra sé e sé. Lei, invece, era di umore intrattabile almeno fino a mezzogiorno, anche quando non riceveva messaggi deprimenti dalle amiche. «Stavo per dire a tua madre di mettere un po’ di musica a tutto volume per tirarti fuori dal letto.»
«Sono in vacanza, hai presente?» borbottò Vittoria. Andò alla macchina del caffè per farsi un cappuccino. Era così in confidenza con Alberto e Rosa che si muoveva a casa loro come se fosse stata la propria, senza avvertire nessun imbarazzo.
«Ehi, che succede? Tutto ok?» chiese Claudia. Vittoria alzò la testa e notò che la stava osservando con aria perplessa. Cercò di distendere l’espressione contratta del viso, ma senza grande successo.
«Tutto ok» disse, ignorando di proposito la prima domanda. Non le andava ancora di raccontare in giro il modo in cui era stata piantata. «È solo che… il mare non mi fa dormire. Non mi sono ancora abituata. Papà è andato, vero?» chiese, cambiando bruscamente argomento.
«Sì, Alberto lo ha accompagnato al porto con la macchina prima di iniziare il solito giro in bici» rispose Claudia lentamente. Da come la fissava, Vittoria capì che si era resa conto che qualcosa non andava, ma fece finta di nulla. Per fortuna i suoi genitori non erano mai invadenti con lei e le lasciavano sempre lo spazio di cui aveva bisogno, forse perché erano molto più vicini alla figlia per età rispetto alla maggior parte dei genitori e la capivano meglio.
«Non ti ho detto che si è rotta la sveglia? E Alberto non sa programmare la sua su quel cellulare preistorico che ha» intervenne Rosa di getto, rivolta a Claudia, con tono divertito. «Si è svegliato in tempo solo perché mi ero alzata a bere un bicchiere d’acqua…»
Mentre il latte e il caffè scendevano insieme, gorgogliando, mescolati in una schiuma morbida e spessa, Vittoria sentì sua madre ridere e rispondere qualcosa, ma smise ben presto di ascoltare. Non riusciva a concentrarsi sulle loro parole. Era distratta, come se un pensiero pressante, ma indefinito, richiamasse la sua attenzione. Come se avesse dimenticato di fare qualcosa di importante, solo che era abbastanza sicura di non avere nulla da fare e di non aver dimenticato niente. Non riusciva a capire cosa fosse. Di sicuro non era quello scemo di Marco. Quando la tazza fu piena, la prese e sedette a tavola, ancora pensierosa.
«Che vuoi fare oggi?»
Si accorse a stento che sua madre stava parlando con lei. Si sforzò di concentrarsi, mentre dava un morso a un biscotto. «Uhm… non lo so. Non volevate fare un giro a Portosalvo?» mormorò, ripescando distrattamente un ricordo del giorno prima.
«Sì, però abbiamo pensato di sistemare quella camera degli ospiti, di sopra. Ti ricordi? Quella da dipingere.» Vittoria annuì senza molto interesse. Quando erano arrivati, i padroni di casa gli avevano fatto fare un giro di tutte le stanze, compresa una vuota e abbandonata al secondo piano che doveva essere ritinteggiata. Rosa aveva detto di voler dipingere qualche disegno su una parete. Vittoria non si stupì che sua madre volesse partecipare: amava quel genere di cose ed era molto brava in tutte le attività artistiche e manuali. Non lo faceva per ringraziare Rosa dell’ospitalità, tra loro due non esistevano certe formalità.
«Approfittiamo che Alberto è libero stamattina, così ci porta i secchi di vernice su dalla cantina» aggiunse Rosa, impegnata a stendere un generoso strato di marmellata all’arancia su una fetta biscottata. «Devono pur servire a qualcosa, questi uomini.» Claudia fu scossa da un mezza risata, mentre mandava giù un sorso di caffè. Posò la tazza vuota e si schiarì la voce. «In paese possiamo andarci oggi pomeriggio. Che dite?» proseguì Rosa. Lei e Alberto non nominavano mai Portosalvo, ma usavano sempre quell’espressione: “in paese”, come se fosse l’unico e il solo, ed effettivamente era l’unico centro abitato di una certa grandezza sull’isola.
Claudia si rivolse alla figlia. «Per me va bene. Tu che vuoi fare?»
Vittoria aveva appena preso il secondo biscotto. Masticò pensierosa per qualche istante. «Non lo so… Magari mi unisco a voi.» E poi, all’improvviso, quel pensiero misterioso che la distraeva prese forma e la colpì come uno schiaffo. Fu una sensazione molto simile a quando, da bambina, suo padre la portava sulle macchinine dell’autoscontro e un altro bambino le piombava addosso da dietro, senza che potesse vederlo, cogliendola di sorpresa e facendole saltare in gola il cuore e lo stomaco. Nella sua mente iniziò a delinearsi un piano, in modo quasi spontaneo. «Oppure… avevo pensato di andare al mare. Da sola» si corresse, lentamente.
«Ti sei già stufata di stare con i vecchi, eh?» fu il commento allegro di Rosa. Aveva finito la sua fetta biscottata e ne aveva presa un’altra con espressione vagamente colpevole.
Vittoria guardò sua madre, indagando sulla sua reazione: la stava osservando un po’ sorpresa, ma non sembrava contraria. «Sei sicura?»
Lei annuì con energia. «Ma sì… Vado alla Cala Saracena, qui accanto. Mi porto il kindle, così leggo un po’.»
«Stai rileggendo tutta la saga di Harry Potter, vero?» intervenne Rosa, continuando a spalmare marmellata sulla fetta biscottata. Poi diede un bel morso che ne portò via più di metà. «Piace un sacco anche ad Alberto.»
«Sì, lo so. Ne parliamo sempre» rispose Vittoria con un sorriso debole. Era come divisa in due: una parte della sua mente lavorava sul piano, l’altra metà cercava di concentrarsi sul presente, seguire la conversazione e dare risposte sensate. «E poi devo leggere I Malavoglia per la scuola.»
«Ma sei in vacanza.»
«Dillo alla mia prof. di Lettere.» Rosa rispose con una smorfia. Vittoria guardò di nuovo Claudia. «Allora, posso andare?»
Lei ci rifletté per un momento, poi le sorrise. «Va bene. Basta che mi chiami, ogni tanto, o mi mandi un messaggio. Se poi cambi idea e vuoi compagnia, me lo dici e ti raggiungo.»
Vittoria trattenne a stento un enorme sorriso. Sarebbe stato bizzarro sembrare così soddisfatta per una semplice mattinata al mare. «Certo» disse subito.
Mentre finiva di sorseggiare il cappuccino e Rosa e Claudia parlavano di cosa dipingere sulle pareti della stanza per gli ospiti, i passi successivi del piano si sviluppavano nella sua testa con una chiarezza sorprendente. Era come se si fosse svegliata con quell’idea sepolta da qualche parte, ma già elaborata fin nei minimi dettagli, e adesso si svelava tutta insieme e a lei non restava che metterla in pratica. Come se qualcuno gliel’avesse bisbigliata all’orecchio mentre dormiva. Finito il cappuccino, mise la tazza nella lavastoviglie, poi lanciò un’occhiata discreta dietro di sé: Rosa e sua madre stavano parlando di rulli, pennelli e gabbiani bianchi da dipingere su uno sfondo azzurro polvere e quando uscì dalla cucina non se ne accorsero nemmeno.
Attraversò il corridoio lungo e stretto. Dopo tre giorni trascorsi lì conosceva la casa. Sembrava deserta e silenziosa, forse perché Alberto non era ancora rientrato dal giro in bici che faceva tutte le mattine. Ignorò diverse porte, chiuse o spalancate, e si diresse con sicurezza verso una porta a vetri scorrevole. La spinse, cercando di non fare rumore, ed entrò nello studio di Alberto. Di fronte c’era una finestra aperta che lasciava entrare un alito di vento fresco e il cinguettio degli uccellini sugli alberi del giardino. Sotto la finestra stazionava un’ampia scrivania di mogano. Una libreria alta, chiusa da pannelli di vetro, occupava quasi tutta la parete di destra e proseguiva lungo la parete dietro la scrivania. Una seconda libreria identica, anch’essa ad angolo, si trovava sulla sinistra e a un certo punto si interrompeva per fare spazio a una pianta in vaso e a un divanetto di pelle a due posti.
Vittoria accostò la porta alle sue spalle, poi avanzò piano, ringraziando mentalmente il soffice tappeto che copriva i suoi passi, aggirò le due alte sedie di legno scuro destinate ai visitatori ed esaminò la superficie della scrivania. Era piuttosto disordinata, ingombra di carte, faldoni, cartelline, pile di documenti, penne USB, mucchi di penne e un portatile chiuso. Alberto era un avvocato e Rosa si lamentava sempre del caos, chiedendosi come facesse a lavorare lì dentro. Non aveva tutti i torti, pensò Vittoria stringendo le labbra, ma quello che cercava doveva pur essere lì, da qualche parte. Doveva solo trovarlo.
Spostò con cautela i mucchi di documenti e le pile di cartelline e sbirciò al di sotto, poi li rimise giù, avendo cura di lasciarli esattamente come li aveva trovati, sebbene dubitasse che in quella confusione Alberto potesse accorgersi di qualche cambiamento. Aprì il primo cassetto della scrivania: solo penne e fogli bianchi in attesa di appunti. Lo richiuse in fretta, mentre scoccava un’occhiata ansiosa alla porta, e aprì il secondo: una serie di cartelline di plastica rossa, su ciascuna di esse un’etichetta bianca con un cognome, che probabilmente riguardavano i clienti di Alberto. Aprì il terzo cassetto. 
Eccola lì: un’agenda telefonica dalla copertina in pelle rossa, sbiadita e segnata dall’uso. Vittoria aveva ascoltato tante volte Rosa prendere in giro il suo compagno per quella sua abitudine “antica” di segnare i numeri di telefono su un’agenda cartacea nonostante la rubrica che aveva sul telefono (non uno smartphone, ma un cellulare vecchio stile con i tasti fisici).
«Non riesco a farne a meno», rispondeva lui, alzando le spalle, con il suo serafico e invariabile buon umore. «Se poi mi si rompe il cellulare, come faccio senza i miei numeri?»
Vittoria sfogliò in fretta l’agenda e quando trovò il numero che voleva ebbe un sussulto di trionfo. Era impossibile che Alberto non lo avesse. Prese il telefono dalla tasca e memorizzò il numero con pochi gesti rapidi, poi richiuse l’agenda, la ficcò di nuovo nel cassetto, lo richiuse e si fiondò alla porta. Aveva appena iniziato ad aprirla che si trovò davanti Alberto, apparso di colpo dal nulla. Sobbalzò, ma ebbe la prontezza di tirare fuori un sorriso.
«Ehilà!» esclamò lui, gioviale. 
Era in pantaloncini e t-shirt, aveva il viso arrossato e l’aria accaldata ed era talmente zuppo di sudore da dare l’impressione di essersi tuffato in mare. Vittoria inarcò un sopracciglio. Ammirava la tenacia con cui le persone come Alberto e suo padre praticavano sport tutto l’anno, anche nei mesi più caldi. Lei amava il tennis, ma da giugno in poi non toccava più una racchetta fino a settembre. Suo padre, invece, andava a correre ogni giorno alle sei, in inverno e in estate, perfino quando erano in vacanza. Anche il soggiorno sull’isola non faceva eccezione.
«Ciao! Stavo… Cercavo una penna» disse Vittoria, con una voce che le parve troppo squillante, ma ormai era tardi. Forse era una scusa stupida, ma non le era venuto in mente altro.
Alberto, però, non sembrò trovarci nulla di strano. Forse era troppo stremato dalla pedalata sotto il sole per ragionare lucidamente. La superò ed entrò nello studio. «Fai pure, ce ne sono fin troppe di penne, qui dentro. Ogni tanto ne perdo una e poi ricompare all’improvviso, nei posti più strani.» Scrutò la superficie ingombra della scrivania, cercando qualcosa. Poi fece un verso soddisfatto e si sporse per afferrare il caricabatterie del telefono, mezzo nascosto sotto un faldone giallo.
«In realtà mi è venuto in mente di averne vista una in un cassetto alla dépendance» inventò Vittoria con un’alzata di spalle.
«Ecco, vedi? Spuntano fuori quando meno te lo aspetti» commentò Alberto. Le passò di nuovo accanto per andare alla porta e le diede un buffetto sui capelli. «Vado a farmi una doccia… Oggi sembrava di pedalare dentro una pentola di acqua bollente.»
Vittoria fece una smorfia. «Che orrore» mormorò e lui rise mentre si allontanava lungo il corridoio. Lei si lasciò sfuggire un respiro di sollievo. Era fatta.

****

 
Claudia e Rosa erano ancora in cucina a chiacchierare. Vittoria uscì passando dal salotto, facendo lo slalom tra i divani rivestiti di tappezzeria a fiori, attraversò di corsa il giardino già immerso nel caldo che saliva sempre di più e tornò alla dépendance. Doveva sbrigarsi. Si chiuse alle spalle la portafinestra del salottino, si appoggiò al vetro e si prese un momento per fare qualche respiro profondo. C’era un silenzio quasi assoluto, a parte il rumore del mare, il cinguettio degli uccellini e il frinire instancabile delle cicale. Le sembrava che il cuore le battesse nel petto con la forza di un tamburo che chiunque avrebbe potuto sentire, anche a un’enorme distanza. 
Tirò fuori il telefono dalla tasca mentre si allontanava dal vetro già tiepido sotto il sole, aprì il numero che aveva memorizzato in rubrica poco prima. Lo fissò per un po’, chiedendosi che diamine stesse facendo. Voleva andare fino in fondo, sul serio? E se fosse scoppiato un casino? I suoi si sarebbero incazzati a morte, stavolta. Strinse le labbra con forza, poi premette il tasto di chiamata. Si sentiva strana, come se non fosse lei a prendere quelle decisioni, a compiere quei gesti, ma un’altra persona, e lei osservasse dall’esterno, senza poter intervenire, percorrendo una strada già tracciata. Qualcuno rispose al terzo squillo.
«Baglio Falconeri» disse una voce sottile dall’accento pesante che Vittoria riconobbe immediatamente. Era Rosalia. Sentì un tuffo al cuore.
«Ehm… Buongiorno, ehm… Sto cercando il signor Falconeri. Enrico Falconeri» aggiunse precipitosamente, nel dubbio che Rosalia pensasse a Edoardo. «So che dovrebbe partire stamattina, ma forse… è ancora lì» aggiunse. Aveva la voce un po’ affannosa, le parole che quasi si accavallavano l’una sull’altra.
«Chi lo cerca?»
Non si era nemmeno presentata. Sospirò e strinse il telefono tra le dita. «Vittoria Ruggero.»
«Ah, tu sei, Vittoria. Non ti avevo riconosciuta. Vado a controllare, un momento, per favore.»
Vittoria restò in attesa, impalata. Aveva telefonato quasi senza speranze, convinta che ormai lo zio avesse già preso il traghetto per Palermo. Non aveva pensato che la sua idea potesse concretizzarsi sul serio. Il panico le riempì lo stomaco, un fiotto caldo e bruciante, e per un attimo si chiese se non fosse completamente impazzita. Cosa voleva fare? Cosa pensava di ottenere? Dall’altra parte il silenzio si protraeva e faceva crescere la sua ansia ogni secondo di più. Immaginò Rosalia che faceva il giro della casa senza riuscire a trovare Enrico. Forse era già partito e lei non lo sapeva. Poteva essere caduta la linea? E se lui non avesse voluto rispondere? Che idea schifosa aveva era stata. Ma come diavolo le era venuta in mente? Fece per abbassare il telefono e chiudere la chiamata.
«Sì?»
Enrico rispose all’improvviso, cogliendola alla sprovvista. Aveva un tono freddo, controllato, privo di emozioni, e lei non riuscì a capire se fosse felice o seccato di sentirla o se invece gli fosse del tutto indifferente. Prese un respiro profondo.
«Ciao» esclamò automaticamente, poi tacque. In realtà non sapeva bene che cosa dire. Mosse qualche passo tra il salottino e la cucina, controllando la portafinestra con la coda dell’occhio. Quando sua madre e Rosa iniziavano a chiacchierare era molto difficile che smettessero presto, quindi, almeno in teoria, poteva stare abbastanza tranquilla. «Non ero sicura di trovarti. Non dovevi partire?»
Lui rimase in silenzio per qualche istante. «Vado al porto tra un’ora.» Ci fu un’altra pausa, ma Vittoria ebbe la sensazione che fosse sul punto di aggiungere qualcosa e aspettò. «Cosa posso fare per te?»
Vittoria fece un altro respiro profondo. «Ehm, allora. Mi chiedevo… se prima di andare al porto potresti passare a prendermi o… o magari mandare qualcuno. Mio padre non c’è, è tornato a Milano per una riunione di lavoro imprevista e… non può accompagnarmi, ma io vorrei venire lo stesso.»
Un altro silenzio. Vittoria suppose che Enrico fosse impegnato a mettere ordine in quella spiegazione un po’ disordinata. «Vuoi venire qui? Da sola?» indagò, sempre con quella voce indecifrabile.
«Io… Sì. Papà torna tra un paio di giorni. Posso aspettare, certo, però… vorrei venire anche oggi, se è possibile.»
Silenzio. «Nessuno sa che hai chiamato qui, vero?»
Vittoria esalò un respiro lieve. «No, ma ho promesso a Edoardo che sarei venuta tutti i giorni. Non voglio che resti deluso.» Non aggiunse che probabilmente il tempo che gli rimaneva era così poco che anche un paio di giorni potevano fare la differenza, ma in qualche modo percepì che lo zio, dall’altra parte, aveva avuto lo stesso pensiero.
«Vittoria, io… Non so se è il caso. A Stefano non farebbe piacere.»
Lei trattenne il fiato. «In realtà pensavo di non dirglielo. Di non dirlo a nessuno.»
«E cosa racconti a tua madre?»
«Le ho detto che vado al mare. Lei e Rosa saranno impegnate almeno per mezza giornata. Hai presente Cala Saracena, qui vicino? Ci arrivo in due minuti. Se vieni a prendermi possiamo vederci sulla strada principale… dove c’è quel passaggio nel muro. Non se ne accorgerà nessuno. Ma se non vuoi… non fa niente. Vado al mare. Cioè, ci vado davvero» aggiunse un attimo dopo e le parve di sentirlo accennare un sorriso. «Non voglio scombinare i tuoi programmi.»
«In realtà…» Enrico esitò e lei rimase come sospesa, aspettando. «Non c’è molto da scombinare. Posso partire più tardi o domani.»
Per poco il telefono non le cadde di mano. «Davvero?»
«Non ho ancora preso il biglietto.»
«Non era un viaggio di lavoro?» Vittoria si girò e fissò senza vederlo l’orologio blu appeso alla parete della cucina: era un’immagine stilizzata di un pesce che le ricordava Flounder del film La sirenetta. «Non voglio crearti problemi.»
«Non è niente di importante. Dovrei incontrare alcuni amici dell’Associazione Vini Siciliani, ma posso rimandare. È una cosa informale.» Fece una pausa. «Hai ragione» continuò lentamente, «da un momento all’altro Edoardo…» Tacque di nuovo e lasciò la frase in sospeso, ma Vittoria aveva intuito cosa stava per dire. «Rosalia mi ha detto che sta meglio quando ascolta il pianoforte. E poi è felice di averti conosciuta.»
Vittoria ascoltava sconcertata. Aveva vinto davvero? Le sembrava troppo strano per crederci. Aveva temuto che Enrico rispondesse di no per evitare di creare tensioni con Stefano. Forse, le balenò all’improvviso come un lampo, accettava per sfidarlo, per dimostrare di non tenere in grande considerazione le preoccupazioni e i divieti del fratellastro. In fondo, lei non lo conosceva per niente, non aveva idea di cosa aspettarsi. Quel pensiero la bloccò per un attimo. Non era così ansiosa di trovare risposte alle sue domande da causare ulteriori scontri in famiglia, ma tentò di allontanare quel pensiero. Forse si stava sbagliando e lo zio voleva semplicemente accontentarla, non provocare una discussione con Stefano. O forse una bella litigata era proprio quello che ci voleva. E comunque, se tutto fosse andato secondo i piani, Stefano non l’avrebbe mai saputo. Era abbastanza certa che il personale del baglio avrebbe taciuto, se Enrico lo avesse chiesto. E poi aveva avuto l’impressione che Rosalia fosse abituata a tollerare qualche stranezza, in quella famiglia, e tutti gli altri facevano quello che diceva lei. Nessuno avrebbe mai rischiato di scatenare un casino.
«Sicuro che non è un problema?» insisté, titubante.
«Sicuro. Stai tranquilla» rispose lui con tono definitivo, ma leggermente addolcito. «Tra quanto ci vediamo?»
«Facciamo un quarto d’ora?»
«Va bene. Ti do il mio numero, nel caso avessi bisogno di contattarmi.»
«Ah, sì, giusto» esclamò lei e corse a prendere un post-it e una penna da uno dei cassetti della cucina. Enrico dettò il numero, poi fece una breve pausa.
«Ci vediamo più tardi» concluse. All’improvviso sembrò esitante e Vittoria temette per un momento che fosse pentito di aver accettato la sua richiesta. Pensò di chiederglielo esplicitamente, ma le mancò il coraggio. Il momento passò.
«A dopo» si limitò a rispondere, dubbiosa, poi chiuse la telefonata.
Memorizzò in fretta il numero di Enrico sul cellulare e mentre correva a cambiarsi sentì l’incertezza gonfiarsi come un palloncino che aveva preso il posto dello stomaco. Non aveva idea di come sarebbe andata e l’aspettativa si mescolava al timore di aver fatto uno sbaglio. Durante la telefonata lo zio le era sembrato prima perplesso, poi quasi convinto, poi di nuovo perplesso, come se appena prima di chiudere fosse stato sul punto di ripensarci, al punto che Vittoria si domandò se sarebbe venuto davvero o se alla fine si sarebbe tirato indietro.
Indossò un bikini e un vestitino di jeans con una camicia di Sangallo bianca e infilò nella borsa il suo telo da spiaggia, la crema solare, il kindle e le infradito: se Enrico non si fosse presentato all’appuntamento sarebbe andata al mare, come aveva detto a sua madre. E poi, se Claudia fosse venuta a dare un’occhiata nella sua stanza, quella mattina, non doveva sospettare che lei non fosse davvero andata in spiaggia. Legò i capelli in una coda bassa con un foulard colorato, afferrò gli occhiali da sole e corse alla casa principale. Non entrò, limitandosi ad affacciarsi alla portafinestra della cucina: la stanza adesso era vuota, ma sentiva Rosa e Claudia ridere e parlare da qualche parte al piano di sopra.
«Mamma, io vado!» gridò, augurandosi che la sentissero. Non voleva essere costretta a salire e magari trattenuta per qualche motivo.
Ci fu un rumore di passi sulle scale. «Ok, amore» disse Claudia. «Tieni d’occhio il telefono, ti mando un messaggio ogni tanto. Divertiti!»
«Ok, ok, ciao!»
Vittoria si era già lanciata in giardino prima ancora di finire di rispondere. La proprietà era recintata da un muro di pietra antico in cui si apriva un cancelletto laterale. Da lì partiva un viale che attraversava un boschetto di ulivi e si trasformava in una stradina sterrata che scendeva alla spiaggia. La terra iniziava a confondersi con la sabbia e gli alberi si facevano più radi, lasciando il posto alle rocce che racchiudevano la piccola baia come una perla in una conchiglia. Vittoria c’era andata una volta, con Rosa e Claudia, per mezza giornata. Si erano sistemate all’ombra delle rocce e si erano godute il silenzio e la quiete, lontano dalla confusione dei bagnanti che affollavano soprattutto i lidi poco lontani da Portosalvo, dall’altro lato dell’isola. Santo Stefano era piccola e priva di attrattive a parte la bellezza naturale del luogo e non aveva mai attirato molti turisti, ma Alberto e Rosa avevano raccontato che negli ultimi anni erano aumentati. Cala Saracena, però, era una baia minuscola e scomoda da raggiungere, frequentata quasi solo dagli abitanti dell’isola, ed era sempre molto tranquilla.
Vittoria fece tutta la strada quasi di corsa, temendo di arrivare in ritardo. Non voleva dargli una buona scusa per tornare indietro e rimangiarsi la parola. Quando uscì dal boschetto di ulivi, invece di andare a sinistra, verso la spiaggia, svoltò a destra, seguendo il muretto di vecchie pietre scalcinate fino a raggiungere la strada asfaltata. Il caldo era già quasi insopportabile. Sedette sul muretto e aspettò. Dopo un po’, quando ebbe ripreso fiato, tirò fuori il telefono e gettò un’occhiata al display: erano trascorsi esattamente diciassette minuti dalla fine della telefonata con lo zio. Una giovane coppia le passò accanto tenendosi per mano e parlando a bassa voce, diretta alla spiaggia. 
Vittoria scacciò una vespa che le ronzava intorno, strinse i lacci di una delle All Star bianche che aveva annodato male nella fretta di precipitarsi fuori, sollevò gli occhiali da sole sulla testa, ma il sole era troppo forte e dovette riabbassarli. Venti minuti. Enrico non le era sembrato il tipo di persona che fa tardi, anzi. Il cuore le sprofondò lentamente sotto le scarpe mentre giocherellava con il telefono, la testa bassa, l’aria triste.

Lo sapevo, pensò. Sì, una parte di lei sospettava che sarebbe andata così, eppure quella punta di delusione era più amara di quanto si aspettasse. Si alzò svogliatamente, spazzolandosi il retro del miniabito di jeans per togliere la polvere del muro. Era sul punto di girare a sinistra, lungo il sentiero che scendeva verso il mare, quando si accorse di una macchina che si avvicinava: una BMW grigio scuro metallizzato dal profilo slanciato ed elegante. Non capiva niente di macchine, ma riconosceva quel marchio, perché suo padre qualche anno prima aveva avuto una BMW prima di prendere l’attuale Mercedes. La macchina accostò dolcemente e silenziosamente vicino all’imbocco della stradina, come se scivolasse sul ghiaccio. Il guidatore abbassò il finestrino: era Enrico, che la fissava da dietro gli occhiali da sole. La sua espressione era nascosta, ma le labbra erano tirate in una sottile linea di tensione. Vittoria lo guardò a bocca aperta per qualche secondo, poi lui le fece un sorriso lieve, appena accennato. Vittoria ricambiò istintivamente. In due passi raggiunse la BMW.
«Ce l’hai fatta» esclamò e si accorse di esserne sinceramente felice.
«Sì, scusami, è che…» Enrico esitò e lasciò che la frase si spegnesse senza concluderla. Guardò davanti a sé e si sistemò gli occhiali sul viso, come per accertarsi che fossero ancora lì. «Salta su.»

Vittoria montò in macchina di slancio, il sorriso che si allargava sempre di più.

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Capitolo 11
*** PARTE TERZA. Capitolo 10. Lo specchio ***


PARTE TERZA

ISOLA DI SANTO STEFANO

Agosto-ottobre 1999

 

 

CAPITOLO 10

LO SPECCHIO

 

 

Isola di Santo Stefano

Agosto 1999

 

 

Quando il traghetto entrò nel porto, Stefano gettò un’occhiata all’orologio che gli zii gli aveva regalato per il diploma, due anni prima: erano quasi le quattro del pomeriggio e lui era in ritardo di tre ore. Sul suo viso si disegnò un sorriso di cupa soddisfazione, mentre inforcava di nuovo gli occhiali da sole che aveva sollevato sopra la testa.

Guardò l’isola che si avvicinava sempre di più. Ormai gli sembrava di poter toccare terra allungando il braccio. Era una calda giornata di inizio agosto e il sole, alto e scintillante nel cielo terso, picchiava forte sul ponte del traghetto, che stava completando la manovra per entrare nel porto con la prua rivolta verso il mare. Stefano si era posizionato fuori fin dall’inizio del viaggio, su uno degli scomodi sedili di legno mezzo marcio, lo sguardo ostinatamente, sfacciatamente fisso verso il punto dove sapeva che l’isola sarebbe apparsa. Se n’era andato proprio così, undici anni prima, fermo sul ponte a guardare la sua casa svanire lentamente nell’azzurro polveroso e sfumato dell’orizzonte, ed era così che voleva tornare, così che voleva vederla ricomparire da quello stesso azzurro.

Eccola lì, bella come una principessa del mare, con le casette colorate aggrappate alla roccia, i pendii aspri e scoscesi, la sonnolenta Portosalvo, le insenature rocciose che Stefano ricordava ancora alla perfezione, perché le aveva tracciate in sogno tutte le notti. Poi l’ultima, brusca virata del traghetto, lo strattone allo stomaco che annunciava il ritorno a casa. L’isola della sua infanzia, dei ricordi più dolci e degli incubi più tremendi. Ci tornava per la prima volta da quel giorno lontano in cui era stato costretto ad andare via di nascosto, quasi scappando per una colpa che non gli apparteneva. Ci tornava con la nonchalance di chi non ha nulla da perdere, perché tutto quello che un tempo era stato suo lo aveva già perso.

Il ponte per l’attracco iniziava ad abbassarsi. Stefano si alzò, si caricò in spalla la piccola borsa che aveva con sé e si avviò giù per le ripide scalette di ferro con passo svelto e sicuro. Quando mise piede a terra cercò dentro di sé la traccia, anche vaghissima, di una qualche emozione, ma scoprì con soddisfazione che non ce n’era nessuna. Il muro dietro cui le aveva intrappolate per tutti quegli anni era ormai troppo alto da scalare. D’altronde, tornava sull’isola con una missione da compiere, un unico scopo nella mente, e tutto il resto non aveva importanza. Non doveva averne. Crogiolarsi nei ricordi o nei rimpianti non faceva parte dei suoi piani.

Mentre usciva dall’area pedonale destinata allo sbarco, lo seguirono con lo sguardo, nell’ordine, una signora con un cagnolino al guinzaglio, una ragazza in coda per imbarcarsi sul prossimo traghetto con una sacca da campeggio in spalla e una donna sulla trentina al lavoro nel bar del porto. Lui se ne accorse, ma fece finta di nulla. Era abituato agli sguardi femminili e non gli facevano né caldo né freddo. Erano come acqua che scivola via sulla pelle già bagnata. Si guardò intorno, cercando la macchina che, secondo i patti, doveva essere lì ad aspettarlo. Non fu difficile identificarla: nel parcheggio adiacente alla zona di sbarco, a pochi metri da lui, c’era una vecchia Ford di un rosso sbiadito e polveroso, come se per anni e anni fosse stata lasciata esposta al sole e alle intemperie senza ricevere nessuna cura. Sul parabrezza, all’interno, era stato sistemato un foglio di carta con su scritto “Stefano Ruggero” in uno stampatello sgraziato.

Stefano si avvicinò: una figura giaceva distesa sul sedile reclinato del conducente, un berretto a coprirne il volto. Sbuffò e picchiò forte con la mano sul vetro della macchina. La figura sobbalzò come se avesse preso una scossa elettrica e il berretto scivolò via, rivelando il viso magro, spigoloso e lentigginoso di un ragazzo che doveva avere all’incirca la stessa età di Stefano. Si guardò intorno con aria confusa e quando notò Stefano sgranò gli occhi. Cercò prima di abbassare il finestrino, poi di aprire la portiera, agitato e imbrogliandosi con le sue stesse mani, mentre Stefano lo osservava con le sopracciglia inarcate. Finalmente il ragazzo riuscì a smontare dalla Ford.

«Stefano Ruggero?» domandò precipitosamente, la voce e lo sguardo ancora velati dal sonno. L’interpellato annuì brevemente e il ragazzo per poco non scoppiò a ridere per il sollievo. «Finalmente sei arrivato!» Si passò una mano sul viso, forse cercando di svegliarsi del tutto. «Pensavo che mi avevano mandato qua pamparissi.[1]»

«Per scherzo?»

«E certo! Dovevi arrivari tre ore fa: all’una precisa, così mi era stato detto» rispose il ragazzo e all’improvviso assunse un’aria seria, come per sottolineare che non era venuto meno al compito affidatogli.

«Quindi tu sei qui dall’una?» si informò Stefano, più per prendere tempo che per vera curiosità, perché aveva già intuito la risposta. Il ragazzo doveva essersi addormentato a forza di aspettare qualcuno che non arrivava mai. «Mi dispiace per il ritardo. Volevo… mandare un messaggio.»

Il ragazzo lo fissò senza capire. «Un messaggio? E allora facevi prima a telefonare, no?» disse, sorridendo.

Stefano rimase serio. «Va be’, adesso sono arrivato. Andiamo.»

«Hai solo questa?» chiese il ragazzo, fissando la piccola borsa che Stefano stava lanciando sul sedile posteriore dell’auto.

«Solo questa. Non ho intenzione di fermarmi.»

Salirono in macchina e partirono. Stefano si accorse che il ragazzo gli lanciava occhiate curiose di continuo, credendo di non farsi notare, forse domandandosi perché avesse quell’espressione così distante e annoiata, come se fosse venuto fin lì da Milano tirato per un guinzaglio. Fece finta di nulla anche questa volta, come con gli sguardi femminili al porto.

«Lavori per i Falconeri?» indagò.

Voltò la testa verso il finestrino. La Ford era vecchia, ma proseguiva veloce lungo le stradine in salita e in discesa di Portosalvo, tra la casette con archi, scalette e terrazze, le vecchie botteghe scure e profonde come grotte affiancate da pizzerie, ristorantini e nuovi negozi ampi e luminosi. Serrò le labbra, facendo forza contro il muro perché restasse su a contenere quello che minacciava di riversarsi fuori da un momento all’altro, riempirgli la mente e farlo impazzire. Era così assurdo essere di nuovo lì che per un attimo si chiese se non fosse solo un altro dei suoi sogni e affondò le unghie nel palmo della mano, per controllare. Faceva male.

«Giardiniere e tutto-fare. Nino Mancuso» si presentò il ragazzo con un sorriso aperto.

Quel nome evocò qualcosa nella mente di Stefano, che si girò a osservarlo, sorpreso. «Mancuso? Ma allora sei parente di Michele?»

«Mio nonno era. Se n’è andato da cinque anni» rispose Nino, tornando serio di colpo.

Stefano ebbe un piccolo sussulto. Non ricordava che il vecchio Michele, il giardiniere sempre sorridente e gentile che se lo metteva sulle ginocchia e gli offriva caramelle appiccicose tirate fuori dalle tasche, avesse un nipote. Quando era bambino, sull’isola, passava quasi tutto il suo tempo con Enrico e Claudia e gli altri bambini erano una nebulosa indistinta nei suoi ricordi. Serrò le labbra ancora di più, per non pensare troppo, mentre Nino continuava a parlare.

«Mio padre si era aperto una bottega in paese e così il signor Falconeri ha preso me. Non è per sempre, eh… Prima o poi mi trovo qualcosa da fare. Ma per adesso mi piace. Famìa[2] proprio, oggi!» concluse, sbuffando. Prese ad armeggiare per abbassare al massimo il finestrino, senza distogliere gli occhi dalla strada.

«Mi dispiace per tuo nonno. Era una brava persona» mormorò Stefano, dopo qualche istante.

Nino sembrò stupito. «Ti ricordi di lui? E come fai?» esclamò, scherzoso. «Mi hanno detto che te ne sei andato da picciriddo.[3]»

Stefano tornò in fretta a guardare fuori dal finestrino, sebbene avesse l’aria distratta, come se seguisse con gli occhi fantasmi invisibili a chiunque altro. Erano usciti dal paese e ora stavano attraversando la campagna martellata dal sole: campi di grano, boschetti di ulivi, agavi, mandorli, aranceti, limoneti. Poi, di colpo, iniziarono i vigneti senza fine dei Falconeri. Stefano deglutì. «Ricordo benissimo. Ricordo più di quanto vorrei.» Finalmente apparve il profilo severo e imponente del baglio. Stefano si irrigidì. Sembrava uscito dritto dritto dai suoi sogni o dai suoi peggiori incubi. Era davvero lì, era sempre lì. Affondò di nuovo le unghie nelle carne e il dolore, in qualche strano modo, gli diede sollievo. «Senti… come vanno le cose al baglio? Stanno tutti bene?» indagò, lo sguardo fisso sulla casa che si avvicinava.

Nino gli scoccò un’occhiata, poi alzò appena le spalle. «Vanno bene… Stanno tutti bene. A parte il signor Falconeri, ma questo già lo sai» rispose. Era chiaro che non sapeva bene che cosa dire. «Enrico fa l’università. E sta sempre attaccato alla sua zita[4]» aggiunse, con un sorrisino che gli spuntava sulle labbra.

Stefano non commentò e continuò a guardare fuori, disinteressato. Le risposte non gli sembravano soddisfacenti. Ogni tanto, mentre si avvicinavano alla meta, era sul punto di dire qualcosa, fare altre domande, ma non sapeva neanche lui cosa volesse sapere davvero e se voleva saperlo davvero. Rimase in silenzio, in preda alla confusione, mentre varcavano il cancello di ferro del baglio, immobile e quasi senza respirare. Quando Nino spense il motore sul viale principale, Stefano scese lentamente dalla macchina, guardandosi intorno con gli occhi stretti e il viso contratto.

«Vuoi che ti accompagno di sopra?» gli chiese Nino, mentre richiudeva la portiera del guidatore. Stefano non si girò a guardarlo e si limitò a scuotere la testa. «Non c’è bisogno, grazie» rispose a denti stretti. Non c’era la minima possibilità che si perdesse in quella casa.

Il ragazzo tentennò un momento, ancora in piedi accanto alla Ford, come se non volesse defilarsi troppo presto. «Allora… io vado a mangiare, se non ti serve niente. Ho una rica[5] che non ce la faccio più.»

Stefano accennò un mezzo sorriso. Probabilmente Nino era stato costretto a saltare il pranzo, vittima innocente del suo piano di farsi aspettare il più a lungo possibile. Annuì. «Vai, vai. Io sono a posto, grazie del passaggio.»

Nino gli lanciò ancora un’occhiata dubbiosa, come se temesse di essere rimproverato per aver abbandonato un ospite in quel modo. Poi la fame sembrò avere la meglio, così si avviò a passo rapido in direzione della porta che conduceva alla cucina. Stefano lo notò a malapena, con la coda dell’occhio. Era troppo preso a osservare il cortile e la casa. Era tutto così uguale a come lo aveva lasciato da fargli pensare di essere appena andato via. Forse sua madre sarebbe apparsa da un momento all’altro sulla soglia della cucina, i lunghi capelli neri ondeggianti sulle spalle e uno dei suoi vestiti a fiori, una mano sugli occhi per schermarli dal sole, intenta a cercarla con lo sguardo nel timore che fosse finito chissà dove a combinare chissà cosa. L’aveva vista così decine di volte da bambino. Quando infine lo trovava, la sua fronte si distendeva, l’espressione si rasserenava e sollevava l’altro braccio per attirare la sua attenzione mentre lo chiamava.

«Stefano! Stefano!»

Sbatté le palpebre, lottando contro il dolore e la nostalgia che premevano contro il muro e che lo avrebbero soffocato se fossero stati liberati. No, non poteva essere vero. Nessuno lo stava chiamando, era solo uno scherzo della sua immaginazione. Si volse lentamente, lo stomaco annodato dall’ansia, chiedendosi per un folle attimo chi avrebbe visto. Forse il tempo si era davvero fermato, in quel posto? Non era sua madre, ma il tuffo al cuore fu quasi altrettanto violento che se avesse visto lei. In piedi, davanti a lui, c’era un ragazzo. Poteva avere la sua età o al massimo un paio d’anni di più. I capelli castano chiaro erano mossi da un venticello caldo e placido e gli occhi azzurri, che lo fissavano colmi di gravità, erano lo specchio dei suoi. Erano sempre stati l’uno lo specchio dell’altro, due metà di un intero che era stato spezzato. Stefano rimase lì a fissarlo per qualche istante, poi abbassò piano gli occhiali da sole.

«Enrico» disse con un filo di voce che quasi gli morì in gola. L’altro ragazzo lo osservava con una consapevolezza tale che di colpo capì, quasi senza ombra di dubbio, che sapeva del vero legame che li univa: sapeva che condividevano lo stesso padre. In quegli anni di esilio si era sempre domandato con angoscia se Enrico avesse mai scoperto la verità, quando e come potesse essere successo, se Edoardo avesse mai trovato il coraggio di ammetterla a voce alta. Non poteva avere la certezza che fosse stato lui a parlarne a Enrico, ma ora lui sapeva. Di questo Stefano fu assolutamente, totalmente, tremendamente certo. Sapeva e forse lo odiava. Deglutì, mentre quel pensiero atroce gli gelava il sangue nelle vene.

Enrico restò in silenzio per un po’, pensieroso, forse cercando le parole giuste per salutarlo dopo undici anni. Poi parve arrendersi. «Sei in ritardo. Ti aspettavamo ore fa» disse semplicemente. Doveva essere arrivato alla conclusione che le parole giuste per una simile circostanza non esistevano.

Stefano tirò fuori un mezzo sorriso storto. «Lo so. Mi piace farmi desiderare.»

Enrico esitò, poi abbassò la testa, come se annuisse tra sé, e un accenno di sorriso apparve anche sulle sue labbra. «Non sei cambiato.» Non era una domanda. Stefano non fu sorpreso di scoprire che si capivano ancora con uno sguardo, come quando erano bambini, come se gli undici anni che li separavano fossero svaniti in un soffio. Lo stupì, invece, rendersi conto che ne era felice.

«Neanche tu sembri cambiato. Mi fa piacere rivederti.»

«Anche a me» rispose Enrico a bassa voce, il suo solito sorriso timido che gli illuminava lentamente il volto.

Non sembrava che ce l’avesse con lui. Stefano provava l’impulso di colmare con pochi passi la distanza che li separava e abbracciarlo, ma si trattenne. Il ricordo del loro ultimo incontro, nella cantina del baglio, e delle parole affilate che il fratello gli aveva lanciato contro come coltelli, con precisione, per ferire, era ancora vivo dentro di lui. Non gli portava rancore, dopotutto erano passati tanti anni e nel frattempo lui aveva imparato a comprendere le ragioni che lo avevano spinto a comportarsi in quel modo. Non poteva neppure far finta di nulla, però. E l’ombra che scorgeva nello sguardo limpido di Enrico gli faceva pensare che anche lui avesse la stessa incertezza. E poi non aveva idea di come Enrico avrebbe potuto reagire a un gesto così forte e improvviso. Non sapeva se fosse felice o meno del loro legame di sangue. Così Stefano rimase dov’era, limitandosi a studiare con attenzione, curiosità e affetto il viso dell’altro.

«Come te la passi?» domandò Enrico dopo una pausa. Sembrava vagamente imbarazzato, come se non sapesse bene cosa dire per riempire il silenzio. Era ancora timido come quando era bambino.

Stefano si schiarì la gola. «Bene… Sto bene, a Milano.»

«So che fai Economia» continuò l’altro ragazzo, poi esitò un istante e aggiunse con tono leggermente diverso. «Si parla spesso di te, in paese.»

Stefano si irrigidì appena. Se lo aspettava. Sapeva che zia Luisa aveva mantenuto i contatti con alcune vecchie conoscenze di Portosalvo e in un posto così piccolo, dove non succedeva quasi mai niente di interessante, le voci giravano in fretta e si stava sempre a spettegolare di qualcuno. Non riusciva a decidere se gli facesse piacere o meno. Gli dava un’amara soddisfazione il fatto che Edoardo sapesse quanto era brillante il figlio che lui aveva sempre respinto, che non aveva mai voluto riconoscere apertamente come suo, dandogli l’affetto e le cure che gli spettavano, ma quando incrociò lo sguardo di Enrico notò che l’ombra sullo sfondo azzurro si era incupita. Provò uno strano disagio.

«Parlano sempre troppo, qui» commentò e si rilassò un po’ quando vide il fratello accennare un sorriso di comprensione. Sicuramente anche lui era spesso al centro delle chiacchiere in paese. I Falconeri erano la famiglia più importante dell’isola e uno dei maggiori imprenditori di tutta la Sicilia. «Sì, faccio Economia. A ottobre inizio uno stage, in banca. Voglio lavorare nella finanza.» Lo disse con tono asciutto e sicuro, privo di ansia o incertezza, come se il suo futuro fosse scritto nella pietra e in effetti aveva davvero questa sensazione, a volte.

Enrico contrasse la fronte. «Finanza? Sì…» mormorò, pensieroso, lo sguardo lontano, come se osservasse il futuro radioso del fratello che si stendeva davanti ai suoi occhi. «Riesco a immaginarti. Eri il migliore di tutta la scuola in matematica. E poi hai la faccia giusta.»

«La faccia da stronzo, vuoi dire?»

Enrico fece un sorriso sghembo. «Intendevo “faccia tosta”, ma se te lo dici da solo…»

Stefano ricambiò il sorriso. Sentiva che entrambi si stavano rilassando, come se avessero recuperato in fretta la familiarità che li univa in passato. E sentiva un senso di apertura da parte di Enrico. Per la prima volta da quando era tornato sull’isola, per la prima volta da quando aveva deciso che sarebbe tornato, fu sfiorato dall’idea che lì potesse esserci qualcosa per lui. Che forse qualcosa si poteva salvare. L’euforia lo riempì come acqua versata in un vaso, ma cercò di tenerla a bada.

«E tu che cosa fai?»

«Giurisprudenza. A Palermo. Dovrei finire l’anno prossimo.»

«E poi? Manderai avanti la baracca?» chiese Stefano, percorrendo velocemente con lo sguardo la casa e il cortile.

Suo fratello non se la prese per quel modo irriverente di definire l’attività che la sua famiglia portava avanti da cento anni. Si era già riabituato al sarcasmo lacerante di Stefano. Alzò le spalle. «Qualcuno deve pur farlo.» Attese per qualche secondo, poi, dato che Stefano restava in silenzio e sembrava non avere nulla da aggiungere, parlò di nuovo. «Ti sta aspettando dentro. In salotto» disse, la voce di colpo dura e fredda come i sassolini delle calette rocciose, dove andavano sempre a giocare da bambini, sotto le loro piccole mani, quando il sole non ci batteva sopra.

Stefano espirò e annuì. «Meglio che vada, allora. Non vorrei farlo aspettare troppo» rispose, ironico.

«Quando riparti?»

«Stasera. Prendo l’ultimo traghetto, quelle delle otto.»

«Scappi via, insomma.»

Enrico lo aveva detto senza nessuna inflessione particolare, ma alle orecchie di Stefano suonò come un’accusa. Gli parve che in realtà volesse dire “Mi lasci, insomma. Di nuovo.” Si mosse sui piedi, a disagio. «Non ho motivo di restare» rispose. Poi ebbe un attimo di incertezza. C’era qualcosa che premeva con forza dietro il muro costruito con tanta cura e pazienza per imprigionare il passato e consentirgli di andare avanti, di sopravvivere senza la metà di se stesso, e gli sembrava di non riuscire a trattenerla. Era un fiume in piena che investiva una diga con la violenza di un uragano. Era il suo cuore che urlava per essere ascoltato. Era il vuoto nel suo petto che implorava di essere colmato. Prese aria, cercando disperatamente le parole giuste per farla uscire, qualunque cosa fosse. «A meno che… se ti va… Prima che me ne vada potremmo… parlare un po’.»

Enrico lo fissava con aria grave e Stefano pensò che forse intuiva il suo tumulto interiore. Dopotutto, era la persona che lo conosceva di più al mondo. Anche se non si vedevano e non si parlavano da tanti anni, non pensava che questa distanza potesse effettivamente cambiare qualcosa tra loro: ciascuno dei due aveva incontrato l’anima dell’altro senza alcuna barriera. Stefano parlava con i suoi amici dell’università ogni giorno, eppure non poteva dire lo stesso di nessuno di loro. Niente, nemmeno un milione di anni, avrebbe mai potuto rompere questo legame.

Enrico rifletté per un po’, poi assentì piano. «Okay» rispose e la sua voce aveva già perso la punta di durezza di poco prima. 

Stefano gli rivolse un sorriso cauto, ma speranzoso, e un cenno con la testa. Poi si avviò, oltrepassando il fratello, ed era già a metà della scala di pietra che conduceva sul terrazzo, quando si sentì chiamare di nuovo.

«Stefano?»

Si voltò, dondolando in equilibrio tra due scalini. «Sì?»

Enrico era fermo dove lo aveva lasciato e lo guardava con la fronte aggrottata. «Sembra che sia passata un’eternità» disse di getto, a bassa voce, come se parlasse a se stesso.

Stefano allargò le braccia, un sorriso malinconico sul viso. «O forse neanche un giorno… Chi lo sa. Ci vediamo dopo.» Salì le scale di corsa.

 

 

****

 

 

Era come se quel piccolo mondo fosse intrappolato in una bolla al di fuori del tempo che scorreva, pensò Stefano. Desiderò con forza che fosse lo stesso anche per lui ed Enrico, per quello che erano stati da bambini. Entrò in casa dalla terrazza come in un sogno, seguendo una musica bassa che riempiva l’aria: era la voce della Callas che cantava Oh mio babbino caro dalla Tosca di Puccini, una delle arie preferite di Edoardo. Erano infiniti i pomeriggi della sua infanzia in cui quelle parole si diffondevano nelle stanze silenziose della casa. Sulla soglia del salotto si fermò a osservare i mobili scuri e pesanti che sua madre lucidava ogni tre giorni, l’immenso lampadario di ferro battuto che veniva spolverato una volta a settimana, le maioliche dai colori vivaci su cui non si poteva camminare quando erano state appena lavate… Deglutì per mandare giù il nodo che gli serrava la gola e guardò Edoardo.

Era di fronte a lui, in piedi accanto all’alto mobile bar di noce, un sigaro quasi terminato tra le dita e impeccabilmente vestito come al solito. Sul tavolino tra il divano e le poltrone era posizionato il vecchio giradischi che era appartenuto al padre di Edoardo e che lui aveva sempre amato usare, nonostante la casa avesse un impianto stereo moderno di ultima generazione. Sebbene Stefano non avesse fatto alcun rumore, Edoardo si girò appena mise piede nella stanza e i loro sguardi identici si incontrarono, mentre le ultime note della musica si spegnevano lentamente. Il giradischi emise un lieve ronzio, poi cadde il silenzio.

Stefano osservò suo padre per un lungo momento. Non era cambiato neppure lui. Non gli occhi di un azzurro intenso, non i lineamenti marcati e affascinanti appena segnati dalle rughe o il fisico alto e slanciato, non appesantito dall’età, e neppure l’atteggiamento da signorotto locale ottocentesco che aveva ereditato dai suoi antenati, dei quali erano appesi i ritratti in una galleria del primo piano. Era quasi identico a quando lo aveva visto l’ultima volta in quel pomeriggio lontano, nel cortile del baglio, il giorno in cui sua madre gli aveva detto che sarebbe partito. Anche se Stefano era cresciuto e ormai erano alla stessa altezza, aveva ancora l’impressione che Edoardo torreggiasse su di lui, come quando lo aveva scorto nel sole intenso di quel pomeriggio, mentre lanciava sassolini, e all’improvviso aveva visto la sua ombra incombergli addosso come una nuvola temporalesca.

«Finalmente» disse Edoardo.

Un sorriso storto gli si disegnò sul volto e Stefano fu convinto che avesse percepito ogni suo pensiero. Si odiò per essere ancora così trasparente per lui, nonostante il muro che avrebbe dovuto proteggerlo. Strinse i pugni per un attimo e si accorse che tutto il suo corpo era in tensione, pronto a saltare in avanti da un momento all’altro per uno scontro. Si impose di rilassarsi e aprì lentamente le dita contratte.

«Sì, sì, lo so. Sono in ritardo. Aspettare è una novità per te, giusto?» iniziò con tono rilassato, quasi casuale. «Però sei tu quello più in ritardo tra noi due. Un ritardo di vent’anni.»

Edoardo prese una boccata dal sigaro, poi chinò la testa come se annuisse, senza smettere di sorridere. «Non hai torto. Ma saresti venuto, se ti avessi chiamato prima?» domandò, puntandogli in faccia lo sguardo affilato che Stefano aveva rivisto moltissime volte, in quegli anni, nei suoi sogni. Si sentì trapassare da parte a parte e si irrigidì per contrastarlo.

«Vuoi dire… se mi avessi chiamato prima di scoprire che sei malato di cuore? Probabilmente no» ammise. Alzò le spalle. «Non volevo venire neanche adesso, ma non mi piace lasciare i conti in sospeso. Ho solo colto l’occasione per chiuderli.» Quando aveva ricevuto quell’assurda telefonata, circa quindici giorni prima, aveva deciso quasi subito che sarebbe tornato. Poi aveva passato il tempo che lo separava dalla partenza a tormentarsi giorno e notte, chiedendosi se non avesse commesso un enorme sbaglio. Sua madre non aveva forse fatto di tutto per tenerlo lontano dall’isola e da Edoardo? E adesso lui ci tornava, e per cosa? Per accontentare un uomo che non gli aveva mai fatto da padre? Non aveva nessun senso, eppure, in qualche modo, Stefano aveva sentito che una forza misteriosa lo tirava indietro e che forse Edoardo c’entrava solo in una minima parte. Così era tornato.

«Un’occasione come questa è difficile che si ripresenti» concordò Edoardo. Sedette su una delle poltrone, accavallò una gamba con eleganza e passò il sigaro da una mano all’altra. Fece cenno al figlio con la testa di sedersi, ma Stefano rimase dov’era. «Hai fatto bene ad approfittarne» continuò, senza dar mostra di aver notato la cosa. «Finalmente possiamo parlare. Sei cresciuto» constatò, dopo un attimo di silenzio, studiando il suo viso. «Come stai?»

A Stefano sfuggì quasi una risata. Scosse il capo. «Non fingere un interesse che non hai mai avuto» rispose, gelido. Fece un passo avanti verso suo padre, che lo osservava con aria di leggera curiosità, come se leggesse un libro che non lo convinceva fino in fondo. «Vuoi parlare? Benissimo, parliamo. Tanto per cominciare, risparmiati le rivelazioni drammatiche: so tutto.»

Edoardo non mostrò alcuna emozione. Fumò in silenzio per qualche istante, continuando a studiare suo figlio senza cambiare espressione. «Te lo ha detto tua madre, immagino» mormorò con tono incolore.

Stefano annuì bruscamente. Non si fidava di lui. Era certo che Edoardo già sapesse che lui sapeva, ma non scopriva mai del tutto le sue carte e lasciava gli altri a giocare al buio. Era fatto così. Edoardo emise un sospiro lieve, mentre si posava un dito sulle labbra.

«Quando mi ha mandato via» confermò Stefano a bassa voce. «Tu nemmeno questo mi avresti dato, vero? Neanche la verità. Mi hai tenuto in questa casa come un ospite. Divertirsi con mia madre andava bene, prendersi le proprie responsabilità un po’ meno. Il nome dei Falconeri non si può sporcare, non ufficialmente, almeno. La macchia deve restare sotto il tappeto. Non importa che tutti lo sappiano, non importa che la gente ne parli. Quello che conta è che solo Enrico fosse tuo figlio.» Stefano espirò, buttando fuori l’aria e trattenendo a stento una smorfia. «So tutto, come vedi. E non ho bisogno di sapere altro.»

Edoardo aveva ascoltato in silenzio, senza battere ciglio né muovere un muscolo, gli occhi fermi su Stefano. Il sigaro tra le sue dita emetteva un filo di fumo sottile. Quando lui tacque, si allungò per scuotere leggermente il sigaro su un elegante posacenere di porcellana dipinta sul tavolino accanto alla poltrona. Si raddrizzò, si schiarì la gola e posò di nuovo il suo sguardo freddo sul figlio.

«Hai finito? Sei venuto fino a qui solo per dire che non sei interessato ad ascoltarmi?»

«Forse. Che te ne importa?»

Non era una risposta molto sensata, ma Stefano sentiva che il rancore lo avvolgeva, strisciando inarrestabile sopra, sotto, intorno al muro che avrebbe dovuto essere la sua difesa, che gli era sembrato così alto e solido e invece gli si sgretolava tra le dita, come le costruzioni di sabbia che faceva da bambino sulle spiagge dell’isola. Era inerme davanti a Edoardo. Era ancora un bambino che riusciva a sfidarlo, a tenergli testa, ma non a sconfiggerlo, e questo pensiero lo faceva tremare dalla rabbia. Quanto avrebbe desiderato afferrarlo, tirarlo su da quella poltrona e scrollarlo fino a far scivolare via quella odiosa maschera di indifferenza, ma era paralizzato.

«Ho sempre pensato che tua madre ti avesse raccontato tutto o che prima o poi ci saresti arrivato da solo. Sei un ragazzo sveglio, lo so. Lo sei sempre stato» disse Edoardo, tranquillo, come se parlasse del più e del meno.

«Non la nominare. Lasciala stare» rispose Stefano a denti stretti.

Edoardo continuò come se lui non avesse detto nulla. «Neanche a me piace lasciare i conti in sospeso, comunque. Mi opero tra quattro giorni. Potrei morire.» Gli scoccò un’occhiata rapidissima, poi abbassò lo sguardo. « Pare che ci siano buone probabilità di sopravvivenza, se supero l’operazione. Potrei vivere ancora per diversi anni, ma volevo rivederti comunque.» Guardò di nuovo Stefano. Lui si costrinse a restare impassibile, a non lasciar trapelare nulla, come faceva Edoardo.

«Non dovresti fumare» commentò, rigido.

Edoardo accennò un sorriso divertito. «Lo so, ma non sono mai stato bravo a fare quello che mi viene detto… quello che è giusto fare. E nemmeno tu.» Il suo sorriso si fece più ampio, quasi soddisfatto. «Sei uguale a me.»

Stefano sentì un brivido, mentre i pugni si contraevano per il nervosismo e una smorfia gli deformava il viso. «Ah, no… Io non sono per niente uguale a te» ribatté con decisione, sebbene nello stesso momento si sforzasse di non mettersi a urlare. Era sicuro di non avere niente in comune con l’uomo beffardo che gli sedeva di fronte a eccezione degli occhi e dei lineamenti eleganti e squadrati. Doveva esserne sicuro. Era l’unico modo per non impazzire, ma avrebbe preferito che l’ansia non gli si insinuasse con tanta facilità sotto la pelle, nella carne, fin dentro le ossa. «E comunque, che importanza ha? È Enrico tuo figlio, giusto?» Dovette ingoiare il disagio di pronunciare quel nome davanti a Edoardo. Si domandò cosa stesse facendo, se lo stesse aspettando davvero come aveva promesso, diviso tra il desiderio di parlargli e il timore di affrontare la verità insieme, se si stesse tormentando per sapere di cosa parlavano Edoardo e Stefano in quel momento.

Edoardo inclinò la testa da un lato, un gesto che faceva spesso quando qualcosa lo contrariava. «Enrico…» mormorò e insieme al nome di suo figlio emise un sospiro pesante. «È un bravo ragazzo. Ma quando sento parlare di te… di quello che fai… di quanto vai bene all’università, delle ragazze che ti corrono dietro… Mi fa piacere.»

Aveva ancora quel ghigno di soddisfazione che a Stefano faceva rivoltare lo stomaco. Sapeva che era sincero. Lui non diceva mai bugie, si limitava a tacere la verità. Stefano aveva sempre pensato che trovasse poco dignitoso inventare storie. Quelle parole, però, non lo rendevano affatto orgoglioso o felice, anzi. Erano un coltello che scavava un solco nel suo petto.

«Tu non sai niente di me» sbottò in tono di sfida, quasi derisorio. «Non crederai che queste stronzate significhino qualcosa. Non mi conosci, non ti sei mai preoccupato di farlo.» 

Edoardo lo fissò senza parlare per qualche istante, poi inspirò piano e diede un’altra boccata al suo sigaro. «Non hai torto» ammise, la voce priva di inflessioni, come se fosse una constatazione priva di importanza. «Mi dispiace di questo, credimi.» Stefano rispose con una smorfia che Edoardo finse di ignorare. «So che ormai è tardi, però voglio almeno chiarire una cosa» proseguì il vecchio. Adesso aveva un tono leggermente più alto e fermo. Guardò Stefano dritto negli occhi con espressione determinata. «Io avrei voluto darti il mio cognome. Qualche volta ci ho pensato seriamente. Ma tua madre non avrebbe voluto… Sapevo che non avrebbe voluto. E poi… non potevo.»

Stefano contenne a stento una risata di scherno. «Certo, altrimenti avresti dovuto ammettere apertamente che cosa avevi fatto, davanti a tutti.»

«No» rispose Edoardo, tranquillo, senza staccare lo sguardo da quello del ragazzo. «Quello che dice la gente non ha nessuna importanza per me e tu mi conosci, lo sai. Non potevo farlo» ripeté, più lentamente, scandendo le parole. Stefano fece per intervenire di nuovo, ma lui continuò a parlare e glielo impedì. «Se ci tenevi così tanto, però, perché non ti sei rivolto alla legge? Il tuo sangue è il mio sangue. Puoi farlo ancora» aggiunse e a Stefano parve che lo sfidasse a farlo sul serio. Studiava suo figlio come se fosse in corso una partita a scacchi e lui avesse appena spostato una pedina in una posizione pericolosa per l’altro con un sorriso lieve sulle labbra.

«Perché non me ne frega niente di queste stronzate. Non lo volevo quando ero un ragazzino, il tuo dannato cognome, e non lo voglio adesso. Non voglio essere un Falconeri» sbottò Stefano. Non aveva mai detto quelle parole a voce alta, ma nel momento in cui le pronunciò fu certo che fosse la verità. No, non voleva un simile cappio al collo ed essere strangolato come era successo a suo fratello.

«E che cosa vuoi, allora?» chiese Edoardo a bruciapelo, quasi prima che Stefano finisse di parlare. Sembrava curioso.

Stefano fece un passo avanti e si ritrovò ancora più vicino a lui. Lo osservò in silenzio, il respiro appena affannoso. «Guardarti in faccia e dirti che non ho bisogno di te.»

Sul viso di Edoardo comparve un’espressione leggermente divertita mentre si allungava per spegnere nel posacenere quello che restava del sigaro. Agitò piano la mano per disperdere il velo di fumo che lo avvolgeva, tornò ad appoggiarsi contro lo schienale della poltrona e sorrise.

«Sei venuto fino a qui solo per questo?» disse, il tono denso di ironia. Scosse la testa con un movimento quasi impercettibile. «Non ti credo, Stefano. Penso che tu stia cercando qualcosa, anche se forse non sai nemmeno tu che cosa sia.»

Il ragazzo sussultò e sebbene si sforzasse di nasconderlo muovendosi sul posto, fu certo dal lampo nel suo sguardo che Edoardo se ne fosse accorto. Non gli sfuggiva mai nulla. Il suo stomaco era talmente serrato nella morsa della nausea che quasi non riusciva a respirare. All’improvviso sentì la necessità impellente di uscire da lì, di allontanarsi da Edoardo e dalla sua espressione sardonica che tagliava in due. Si costrinse a prendere fiato.

«Quando mia madre mi ha mandato via, mi ha detto che qui non c’era niente per me» disse lentamente, ma senza esitare. Suo padre lo studiava immobile, con aria di vaga curiosità, come se avesse davanti un problema di scarso interesse. «E aveva ragione, almeno per quanto riguarda te. Il tuo egoismo uccide le persone che ti stanno vicino. E non è solo una metafora, giusto?» Suo padre non ebbe alcuna reazione visibile, ma Stefano era sicuro che se fosse stato una persona che si abbandonava agli eccessi si sarebbe alzato in piedi di scatto e avrebbe rovesciato la poltrona su cui era seduto e poi forse gli avrebbe dato un pugno. Stefano lo avrebbe preferito, ma Edoardo non si mosse e non emise un fiato mentre lui si godeva quel piccolo momento di meschino trionfo. Era l’unica cosa che avrebbe mai potuto ottenere, lì, da suo padre. «Questa farsa è durata abbastanza» concluse in tono secco e si girò per uscire.

La voce di Edoardo lo bloccò. «Se vuoi andartene, lascia almeno che ti dica una cosa. Una soltanto.» Stefano si fermò, senza voltarsi di nuovo a guardarlo. Sarebbe dovuto uscire e basta, lo sapeva, ma una parte di lui restava inchiodata lì ad aspettare. «So che tu sarai convinto del contrario, ma quando tua madre si è ammalata… mi è dispiaciuto. Molto. Ho fatto tutto quello che era possibile: medici, cure. Non è servito a niente.» Stefano ascoltava, immobile. Chiuse gli occhi, cercando di vedere con la mente l’ultimo periodo di vita di sua madre, come aveva fatto centinaia di volte in quegli anni, ma non ci riusciva molto bene. Maria Ruggero era stata una persona così forte e piena di vita che immaginarla malata, debole, morente, gli era quasi impossibile. Avrebbe voluto urlare con tutto se stesso a Edoardo che era tutto falso, che era un bugiardo, ma dentro di sé sentiva che era sincero. Questo gli faceva più male di tutto, senza che ne comprendesse il motivo. Ci fu una pausa lunghissima, poi Edoardo mormorò qualcosa con voce appena udibile. «Mi importava di lei.»

Anche Stefano si prese una pausa. Inspirò ed espirò molte volte, lentamente, cercando di mantenere il controllo, perché non poteva sopportare che Edoardo vedesse la sua fragilità. L’avrebbe afferrata e l’avrebbe ritorta contro di lui, come un’arma. Lottò con il male che gli stringeva il petto e con il ricordo di sua madre, andata via così, senza che potesse rivederla un’ultima volta. Poi, quando gli parve di essere riuscito a ricacciare tutto dietro il muro di difesa, si voltò di nuovo verso Edoardo, perché potesse vedere il disprezzo sul suo viso.

«Sì, lo so» disse a bassa voce. «Lo so che ti importava. E sai come lo so? Perché tutti quelli a cui tieni… va a finire che si rovinano la vita, in un modo o in un altro.» Alzò gli occhi sul padre e rimasero a fissarsi per chissà quanto tempo. Poi Stefano si mosse, voltandosi verso la porta. Ormai non aveva senso restare. Aveva finito, lì. «Spero che ce la farai. Davvero» sussurrò appena prima di uscire dal salotto.

Rifece il percorso a ritroso, senza fretta, ma senza esitazioni, pensando che molto probabilmente era l’ultima volta che attraversava quelle stanze, eppure incapace di guardarle bene per dirgli addio. Voleva solo uscire da quella casa e non tornarci mai più. Faceva troppo male. Quando uscì sul ballatoio, all’aria aperta e alla luce forte del sole d’estate, gli sembrò di respirare meglio, di avere le idee più chiare. Scese di slancio la scala di pietra e atterrò nel cortile, chiedendosi dove potesse essere Enrico. Non voleva tornare dentro, così si disse che forse avrebbe potuto chiedere a Nino di cercarlo e poi proporgli di fare un giro da qualche parte. Ovunque, purché non fosse tra quelle stanze. Aveva la sensazione che non sarebbero mai riusciti a parlare sotto il tetto di Edoardo. Poi alzò gli occhi e il suo cuore si fermò.



[1] Per scherzo.

[2] Fiammeggia (fa molto caldo).

[3] Bambino.

[4] Fidanzata.

[5] Senso di debolezza causato dalla fame.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11. Sete ***


CAPITOLO 11
SETE

 

 
Isola di Santo Stefano
Agosto 1999
 

 

Era come un sogno che all’improvviso, del tutto imprevedibilmente, usciva dal mondo dell’ineffabile e si concretizzava in carne, sangue e ossa davanti ai suoi occhi.

Era lei.

Stefano sentì un tuffo al cuore che gli mozzò il fiato e per molto tempo rimase immobile a fissarla, quasi annaspando. Cercava di far coincidere il ricordo che aveva di lei da bambina con la ragazza che gli stava di fronte e lo guardava con gli occhi spalancati e l’inizio di un sorriso incredulo. Era sempre stata piccola per la sua età e anche adesso non era molto alta. Il fisico era minuto, leggermente arrotondato da curve morbide, i capelli castano dorato, gli occhi nocciola, il viso dai tratti da elfo, con le labbra dalla forma a cuore e il naso un po’ all’insù con una piccola cicatrice frutto di una caduta quando aveva due anni. A lei quel dettaglio non era mai piaciuto. Stefano lo aveva sempre amato, quando erano bambini, perché gli sembrava una cosa soltanto sua, che nessun altro aveva. Non era molto diversa dalla ragazza che Stefano aveva immaginato e visto nei suoi sogni in tutti quegli anni di lontananza.

«Sei tu» disse finalmente Claudia, la voce arrochita dall’emozione. Il sorriso sbocciò come se non potesse più contenerlo e le illuminò il viso con quella luce particolare che aveva sempre avuto e che sembrava venirle da dentro. Lui la ricambiò quasi senza accorgersene, in automatico.

«Ciao» mormorò.

Fece mezzo passo avanti, pensando vagamente di abbracciarla, ma poi soffocò l’impulso e si trattenne, come già era accaduto con Enrico. Non era sicuro di poterlo fare. Claudia, però, se n’era accorta e dopo solo un attimo di esitazione colmò la distanza tra loro e lo strinse a sé. Stefano rimase impietrito. Prese aria, poi sollevò le braccia e mentre ricambiava la stretta sentì che lei era reale, era davvero lì con lui, così vicina che poteva sentire il suo profumo. Una calda sensazione di benessere lo invase. Chiuse gli occhi, le ciocche di capelli di lei che gli sfioravano il viso con dolcezza. Gli sembrava di essere sospeso in una bolla insieme a Claudia. Lei abbassò le braccia e si tirò lentamente indietro, lanciandogli un’occhiata imbarazzata ma felice. Rimasero in silenzio per un po’ a studiarsi a vicenda, curiosi.

«Quando sei arrivato?» chiese infine Claudia.

Stefano si schiarì la gola e cercò di rimettere in ordine le idee. «Poco fa. Ho fatto tardi» spiegò, restando sul vago. All’improvviso il piano che gli era venuto in mente a Milano e che lì per lì gli era sembrato molto intelligente, farsi aspettare solo per infastidire Edoardo, gli parve sciocco e infantile. Strinse le labbra come per trattenerlo giù, sebbene non avesse pensato davvero di parlarne con Claudia.

Lei annuì, un po’ incerta. «Cavoli, è assurdo… Da quanto tempo non ci vediamo» esclamò di getto. Strofinò la suola della scarpa per terra, come per scaricare la tensione. «Senti… Dove vai, adesso? Hai qualcosa da fare?»

Stefano esitò. Si guardò intorno. Doveva cercare Enrico per parlare, glielo aveva promesso. «Io… dovrei vedere Enrico. Prima ci siamo incrociati, ma non abbiamo avuto tempo di…» Lasciò la frase in sospeso. Lei sembrò comprendere e annuì. «Volevamo parlare un po’.»

«Certo» disse lei subito. Ebbe un attimo di esitazione, poi riprese con entusiasmo. «Che ne dici se prima andassimo a tampasiari[1] un po’? Solo io e te. Dai, una mezz’oretta e torniamo. Lo troverai ancora qui.»

Stefano sollevò le sopracciglia. Prima che potesse decidere che cosa rispondere, sulla porta della cucina comparve Nino con un panino in mano. Li salutò con un cenno.

«Ciao, Claudia!»

Lei si illuminò ancora di più nel vederlo, come se fosse la risposta che non aveva ancora ricevuto da Stefano. «Ehi, Nino, ci presti la macchina? Facciamo un giretto e te la riportiamo. Mezz’ora al massimo» disse, impaziente.

La Ford rossa polverosa e ammaccata era ancora ferma dove l’aveva lasciata Nino, sotto il sole che batteva senza tregua. Lui aveva appena preso un grosso boccone e prima di riuscire a parlare ci mise un po’ di tempo. Claudia aspettava continuando a strofinare il piede sul vialetto. A Stefano faceva venire in mente un uccellino impaziente di prendere il volo. Finalmente Nino mandò giù e fece uno dei suoi sorrisi larghi e genuini.

«Certo. Le chiavi sono attaccate allo sportello.»

«Grazie!» esclamò Claudia, euforica.

Lanciò uno sguardo felice a Stefano, gli occhi che brillavano, e si avviò a passo svelto verso la macchina. Stefano alzò la mano per fare un cenno di saluto a Nino e la seguì, ma appena prima di aprire la portiera colse un movimento con la coda dell’occhio, sulla terrazza. Si voltò. Gli parve di vedere una figura sulla portafinestra un attimo prima che sparisse dietro le tende bianche e svolazzanti nella brezza bollente, sprofondando di nuovo nella penombra della casa. Si accigliò ed ebbe un attimo di incertezza. Poteva essere Enrico?

«Sali, dai!»

La voce di Claudia lo riscosse. Era già al volante e si allungava per vedere cosa stesse facendo lui. Stefano sedette al posto del passeggero e chiuse lo sportello, ancora pensieroso. Poi incrociò lo sguardo della ragazza e fu come un colpo di spugna che cancellava qualsiasi altra cosa. Era Claudia ed erano di nuovo insieme. Era meglio di qualsiasi cosa avesse mai sognato. Lei fece un sorriso enorme mentre metteva in moto e iniziava a fare manovra, agile e sicura.

«E così volevi andare via senza salutarmi» esclamò, con tono di finto rimprovero.

Stefano esitò. «Non sapevo che fossi al baglio.»

Claudia guidava veloce e si stavano già allontanando dalla casa, che diventava sempre più piccola alle loro spalle. Stefano sentì che un peso gli scivolava via dallo stomaco, respirava meglio e non avvertiva più quel senso di nausea che gli stringeva la gola e gli faceva venire una mezza smorfia sul viso. Era stata un’ottima idea allontanarsi dal baglio. Stava per chiederle come mai si trovasse lì, ma lei lo prese in contropiede con un’altra domanda.

«Sempre a Milano stai, giusto?»

«Sì, ma non abito più con i miei zii. Divido casa con due amici dell’università. Anche se “casa” è una parola grossa.» Claudia fece una risatina. «E tu dove abiti?»

«A Portosalvo. Anche io sto con una mia amica, Rosa. Tu non l’hai mai incontrata, ci siamo conosciute dopo che…» Si interruppe di colpo, si morse il labbro e per un attimo scese il silenzio. Quando riprese a parlare aveva lo stesso tono tranquillo e allegro di prima. «In realtà più che un’amica è una sorella. Studia per diventare infermiera. Io al momento lavoro part-time in una libreria.» Accennò un sorriso. «Non te la puoi ricordare, ha aperto da qualche anno, per i turisti.» Fece una pausa mentre cambiava la marcia per affrontare una strada in pendenza. Il motore della Ford gemeva sommessamente e Stefano lanciò uno sguardo preoccupato al cruscotto, chiedendosi quante possibilità ci fossero che li lasciasse all’improvviso in mezzo alla strada. Claudia, però, continuava a guidare con sicurezza. «E vado all’università. Faccio Storia dell’arte.»

«A Palermo?»

«Sì. Non frequentante sono, però. Prendere casa lì costava troppo.» Stefano assentì, spostando lo sguardo verso la campagna secca e ingiallita dal sole che sfilava rapida fuori dal finestrino completamente abbassato per far passare l’aria. Ora costeggiavano un campo di grano, le spighe alte e pronte per il raccolto che ondeggiavano pigre. Con un tuffo al cuore, gli parve di intuire dove lo stesse portando. Era uno di quei posti che non era mai riuscito a dimenticare e non sapeva decidere se fosse una cosa buona o no. Aprì appena la bocca per dire qualcosa, poi ci ripensò e tacque. Preferiva lasciar decidere a lei. «Io invece so già che cosa fai tu» continuò Claudia con aria un po’ sorniona. «Lo sanno tutti. Ottimi voti all’università, conquisterai il mondo, eccetera.»

Lui scoppiò a ridere, scuotendo la testa. «Questo posto è davvero un mortorio se io sono l’unica cosa interessante di cui parlare. E comunque devo prima sopravvivere al tirocinio del terzo anno e poi potrò iniziare a pianificare la conquista del mondo.»

Anche Claudia ridacchiò. Aveva abbassato il finestrino e il vento le scompigliava i capelli, che le danzavano vivaci e dispettosi intorno alle guance. Agitò una mano impaziente per scostare una ciocca che le era finita sulla fronte, quasi sugli occhi, poi la rimise sul volante.

«Lo sai che qui non succede mai niente. Dove lo fai il tirocinio?»

«In banca.»

«Mm… In banca» ripeté lei a bassa voce, quasi parlando tra sé e sé, mentre ci pensava. Poi annuì. «D’altronde eri fortissimo in matematica. Il migliore di tutta la scuola. Gli insegnanti volevano farti saltare un anno, ti ricordi?» Il sorriso le si spense piano sulle labbra e assunse un’espressione seria, quasi un po’ solenne. «Ti ci vedo.»

A Stefano quella conversazione sembrava un déjà-vu. Aveva parlato di quegli stessi argomenti con Enrico poco prima e non doveva stupirlo, forse, che le due persone che lo avevano conosciuto meglio nella vita pensassero lo stesso di lui. Chissà che cosa si sarebbero detti, lui ed Enrico, quando finalmente fossero riusciti a parlare.

«Enrico ha detto la stessa cosa, quando ci siamo visti» mormorò di getto, senza riflettere. Guardò rapidamente verso Claudia, mentre un dubbio gli sorgeva nella mente: lei sapeva che Enrico era il suo fratellastro? Per un momento pensò di chiederglielo e basta. Non voleva mentirle o tacerle qualcosa, ma forse lanciare la notizia così, all’improvviso, sarebbe stato strano. Meglio lasciare che venisse fuori da sola. A un certo punto sarebbe successo per forza.

«Oh» fu il commento di Claudia. Non staccava gli occhi dalla strada e solo le sopracciglia un po’ inarcate lasciavano intendere che qualcosa la turbava. «Non torneremo tardi, promesso. Così avrete tutto il tempo di…» Esitò e la frase rimase in sospeso, incompiuta. Strinse con più forza le dita sul volante e si morse il labbro inferiore. Una lieve tensione si allungò tra loro per qualche istante. «Non sei curioso di sapere dove ti sto portando?» esclamò Claudia, con voce più vivace. Stefano ebbe la sensazione che volesse cambiare argomento con discrezione.

«Sarei curioso se non lo avessi già capito.» Si voltò appena verso di lei e fece un sorriso inclinato. «Ho riconosciuto la strada.»

Come se l’avessero evocata con le parole, la loro meta iniziò a emergere pian piano, spiccando sopra l’orizzonte. Stefano la osservò avvicinarsi in silenzio, lacerato da un groviglio di sentimenti contrastanti. Desiderava raggiungerla di corsa e restare lì per sempre, con Claudia, perché era uno dei posti dove più era stato felice in tutta la vita, e desiderava girarsi e scappare via, il più lontano possibile, perché faceva troppo male. Il fatto che Claudia avesse pensato di portarlo proprio lì lo riempiva di emozione. Chissà che cosa stava provando lei. La guardò e la sorprese a sorridere.

«Accidenti… Volevo lasciarti a bocca aperta» brontolò, ma si capiva che era felice ugualmente.

Per un momento i loro sguardi si incrociarono, emozionati e carichi di aspettativa, poi rimasero entrambi in silenzio mentre Claudia parcheggiava la Ford in una rientranza sul ciglio della strada. Scesero e imboccarono un viottolo di campagna in salita che partiva accanto a un basso muretto scalcinato. Erano vicinissimi al mare, adesso. Mentre si inerpicavano tra i fiori di campo appassiti e l’erba alta e secca, affannati e accaldati, schivando buche e sassi, un venticello caldo e profumato di sale e di sole li accarezzava dolcemente, simile alla mano morbida e delicata di un’amante. Nessuno dei due disse una parola. Stefano era preso dai suoi pensieri e dal pensiero di lei e qualcosa gli diceva che per Claudia era lo stesso. Sembrava che avessero stabilito tacitamente che un momento come quello poteva esistere soltanto nel silenzio.

Giunsero sulla cima della scogliera e a Stefano parve di essere precipitato in uno dei suoi sogni misti a incubi che lo svegliavano di notte, di soprassalto, ansimante, fradicio di sudore e tormentato dal desiderio. Davanti a lui c’era la torre saracena della sua infanzia, dei giochi segreti, delle prove di coraggio, dei racconti di assalti e pirati, delle giornate d’estate trascorse in bici con le altre due parti di lui, Enrico e Claudia, che pedalavano al suo fianco o appena dietro le sue spalle: la pianta quadrata, la porta di legno marcio tenuta chiusa per miracolo dal vecchio lucchetto arrugginito, le pietre grigie sgretolate che giacevano nell’erba alta fino alle ginocchia, la ferita nella parete mezza franata, il tetto mezzo sfondato. Dietro la torre si intravedeva l’ulivo ritorto su cui si era arrampicato per l’ultima prova di coraggio che aveva fatto e a sinistra si stendeva il boschetto di ulivi, quieto e ombroso, il regno delle cicale che frinivano come impazzite. Stefano strinse i pugni, travolto da un’ondata di nostalgia così intensa che quasi faticò a prendere aria.

«È tutto uguale» sussurrò, la voce turbata dall’emozione. «Non è cambiato niente.»

In piedi accanto a lui, Claudia emise un respiro più forte del solito. «Sì… e no.»

Era una risposta curiosa. Stefano si voltò a guardarla e vide che sorrideva. «È un miracolo che non ci sia mai crollata addosso» aggiunse dopo un attimo di silenzio, per prendere tempo. Respirò profondamente, sentendo che recuperava il controllo, e ne fu sollevato. Quando ricominciò a parlare era di nuovo se stesso. «Tua nonna non aveva torto a proibirci di venire qui. Si arrabbiava tutti i giorni… e noi ci venivamo lo stesso» ammise, con un velo di senso di colpa nella voce. Tacque di nuovo, perché il pensiero di Amelia gli riempiva il cuore, lasciandolo senza fiato. Abbassò lo sguardo. «Mi è dispiaciuto moltissimo quando ho saputo» riprese, la voce bassa, ma ferma. Amelia era morta due anni prima e lui lo aveva saputo tramite sua zia e le sue vecchie amicizie sull’isola. Era stata una coltellata non meno profonda di quella che aveva provato alla morte di sua madre. «Avrei voluto fare qualcosa… chiamarti, ma…»

Non riuscì a finire la frase e per un momento si disprezzò. Per quanto Claudia sembrasse felice di rivederlo, probabilmente il suo comportamento in quella circostanza l’aveva ferita. Anche se non si vedevano da anni, anche se lui aveva un’altra vita lontano da lì, Amelia era stata una delle colonne portanti della sua infanzia e Claudia forse si era aspettata qualcosa da lui, anche solo un patetico telegramma. Stefano, però, non ce l’aveva fatta. Era l’unica occasione nella sua vita in cui aveva pensato con assoluta convinzione di essere stato un codardo.

«Non preoccuparti» disse lei. Sembrava tranquilla. Stefano la fissò e si accorse con stupore che nei suoi occhi limpidi non c’era traccia di rancore, ma solo una calma malinconia. Claudia infilò le mani nelle tasche posteriori della gonna di jeans e cambiò posizione sulle gambe. «Voglio dire, capisco perché non hai chiamato.» Davvero? Stefano aggrottò la fronte. Neppure lui avrebbe saputo spiegare perché non avesse fatto nulla, anche se la tristezza gli aveva tolto il sonno e la fame per diversi giorni. Stava per chiederle cosa intendesse dire, ma poi lei continuò. «A me è dispiaciuto tanto per tua madre. Mi trattava come una figlia.» Stefano resse il suo sguardo per un po’, poi annuì e tornò a guardare verso la torre che si stagliava contro la luce del sole. «Io… pensavo che ci saremmo rivisti, al funerale… quando è morta» aggiunse Claudia, il tono che si faceva incerto. «Per questo non sono rimasta sorpresa quando non hai chiamato per la morte di mia nonna. Insomma, se non eri tornato per Maria, allora… ho capito che non saresti tornato mai. Che era finita.»

Le sue parole caddero come pietre nello stomaco di Stefano. Per qualche istante rimase in silenzio ad ascoltare il frinire impazzito delle cicale e lei aspettò, immobile al suo fianco, osservandolo con aria di gentile curiosità.

«Non ha voluto» rispose lui alla fine. Le parole gli parvero stranamente pesanti, impastate nella sua bocca. «Mia madre ha fatto promettere a sua sorella che non sarei mai tornato qui, per nessuna ragione. Nessuna. Anche quando si è ammalata, ha continuato a vietarglielo. Disse espressamente che lei… poteva benissimo morire senza di me. Mia zia non era d’accordo, ma ha rispettato il suo desiderio.» Un sorriso amaro e fugace apparve sulle sue labbra. «Mia madre è sempre stata una persona che sapeva imporsi, quando voleva.»

Tornò il silenzio. Claudia lo guardava, ma senza compassione, come lui aveva temuto. Aveva negli occhi l’espressione di chi sa cos’è la perdita e sa che le parole e la commiserazione non servono a nulla. Respirò profondamente, gli afferrò la mano all’improvviso e la strinse con dita fresche e forti. Stefano sussultò, colto di sorpresa, ma prima che potesse reagire in qualunque modo lei si era già staccata. Si allontanò e sedette sui gradini spezzati della torre. Stefano rimase paralizzato per un istante, poi la raggiunse a passi lenti e sedette accanto a lei.

«È stata dura? Quando è morta tua nonna, voglio dire.»

Claudia strinse le ginocchia al petto, circondandole con le braccia. «Abbastanza, ma ero preparata. A un certo punto ho capito che non poteva resistere ancora a lungo. Però ha continuato a lavorare fin quasi all’ultimo, sai? Edoardo insisteva perché si riposasse, le ha pagato le cure e le ha sempre dato il suo stipendio per intero fino all’ultimo centesimo, anche quando ormai lei stava troppo male per fare granché in casa. L’ho molto apprezzato.» Stefano non fece commenti. Sapeva che Amelia era sempre stata sacra per Edoardo. «Lei però non ha voluto fermarsi. Era fatta così.»

Stefano chinò la testa, sorridendo. «Ah, lo so. Ricordo benissimo come era fatta.» Claudia non rispose e, dopo aver aspettato per qualche secondo, lui sollevò gli occhi, cercando quelli di lei, e gli sembrò di leggervi quello che stava per dire. Quel nocciola aveva sempre avuto una strana qualità trasparente che lo affascinava, come se fosse possibile vedere attraverso il colore.

«Anche io ricordo benissimo il giorno in cui mi sono svegliata e tu non c’eri più.»

La luce del sole delineava in modo netto e preciso i contorni delle cose e mentre reggeva lo sguardo di Claudia lui si ritrovò a desiderare che tutto potesse essere così, chiaro, cristallino, senza ombre o spazi di incertezza, o almeno di riuscire a trasmetterle in silenzio quello che non riusciva a dire, perché era troppo difficile. Spostò lo sguardo verso il boschetto di ulivi.

«Enrico come l’ha presa?» indagò, con tono neutro.

Lei si irrigidì e Stefano intuì che quel nome, tirato fuori all’improvviso, l’aveva colta alla sprovvista. Claudia si schiarì la gola e cambiò posizione. Allungò le gambe tornite e abbronzate davanti a sé.

«Non lo vidi per un paio di giorni. Si chiuse nella sua stanza e non voleva vedere né parlare con nessuno. Non mangiava neanche, all’inizio. Amelia gli preparava dei vassoi che tornavano in cucina quasi intatti. Poi lei lo ha convinto a uscire. Sapeva sempre toccare le corde giuste per farlo uscire dal guscio, come diceva lei.» Stefano la sentì fare un piccolo sorriso. «Quando si è deciso a uscire dalla sua stanza, era diverso… più cupo, triste. Non lo diceva apertamente, ma io capivo che aspettava che tornassi, come i compagni di classe che si trasferivano da qualche parte con la famiglia e poi tornavano per le vacanze. Ti mise da parte un regalo per Natale. Ti ricordi che Edoardo ogni tanto gli regalava qualcosa che era appartenuto a lui da bambino?»

Stefano esitò, poi si limitò a fare un cenno secco con il capo. Enrico gli aveva mostrato tante volte quei tesori con orgoglio, ma senza ostentazione. Li conservava in una scatola dentro l’armadio della sua stanza che tirava fuori e maneggiava con cura. Stefano osservava con curiosità quelle cose che venivano da un tempo che gli sembrava lontanissimo e gli aveva fatto un po’ male quando aveva capito che Enrico li avrebbe tenuti per sé, sebbene di solito condividesse con lui tutto quello che possedeva. Si era reso conto che erano speciali, ma non aveva capito quanto fino a che non aveva scoperto che Edoardo era anche suo padre. Da allora gli era capitato spesso di pensarci e di immaginare come sarebbe stato, cosa avrebbe provato se li avesse dati a lui. Quei piccoli oggetti vecchi e malmessi erano diventati uno dei tarli che più lo tormentavano.

«Scelse una fionda e la fece vedere solo a me» proseguì Claudia. «Ma tu non tornasti, così la mise da parte. Poi arrivò l’estate e a luglio ne scelse un altro per il tuo compleanno, un vecchio orologio da taschino. Era tutto ammaccato. Credo che appartenesse al padre o al nonno di Edoardo. E al Natale successivo una penna stilografica. Ma tu non tornavi. Dopo un po’ ha iniziato a capire e ha smesso di aspettare.»

Stefano sentì una tristezza pesante come un grosso zaino da trekking che gli scivolava sulle spalle, gli si attaccava alla pelle, gli opprimeva il cuore e gli tagliava il petto. Chissà se Enrico aveva pensato di conservare per lui i suoi tesori più preziosi come l’ultimo e il più importante atto di amicizia che potesse rivolgergli, come ammenda per quello che gli aveva detto l’ultima volta che si erano parlati, nella cantina del baglio, o perché aveva iniziato a intuire il vero legame che li univa. Avrebbe voluto condividere questi pensieri con Claudia ad alta voce, perché era certo che lei avrebbe capito.

«Mi dispiace. È mancato molto anche a me.»

«Certo che ti è mancato» rispose lei con voce serena. Ci fu un istante di silenzio, poi aggiunse: «È tuo fratello.»

Per Stefano fu un calcio nello stomaco. Si girò di scatto verso di lei: lo stava fissando con aria di attesa, il corpo rigido. Tra gli occhi le era spuntata una ruga sottile che le veniva sempre quando era tesa e concentrata su qualcosa di complicato, ad esempio quando faceva i compiti di matematica, da bambina. Stefano era a corto di ossigeno e si sforzò di parlare, sebbene non avesse la minima idea di cosa dire.

«Lo sai» mormorò con un filo di voce. E per tutto il tempo da quando si erano ritrovati lui si era chiesto quale fosse il modo migliore per dirle una cosa così enorme e importante. Si sentì ridicolo.

«Da anni.»

«Chi te lo ha detto?»

«Amelia.» Claudia fece una piccola pausa, senza distogliere gli occhi da quelli di lui, come se temesse di perdere il contatto. «Aveva giurato a tua madre di non parlarne mai, soprattutto non con te, ma quando tu sei partito e lei è morta… deve aver pensato… che non avesse più tanta importanza. Un giorno mi ha raccontato tutto. Era passato più o meno un anno da quando eri andato via. Io parlavo sempre di te, la tormentavo con le mie domande. Non ne poteva più.» Accennò un sorriso nervoso e abbassò lo sguardo sulle sue scarpe da ginnastica macchiate e impolverate. «Mentre parlavamo, Enrico è entrato nella stanza. Non ce ne siamo accorte. Ha sentito tutto anche lui. Non è stato molto sorpreso, però. Era come se in qualche modo… se lo aspettasse.»

Stefano unì le mani e le strinse forte. Per un po’ non riuscì a dire nulla e Claudia rispettò il suo silenzio. Enrico sapeva. Sapeva tutto e forse lo odiava, eppure lo aveva guardato dritto negli occhi, poco prima, al baglio, e aveva accettato di parlare con lui. C’era ancora una speranza di rimettere insieme i cocci o era soltanto un’illusione? Che cosa doveva fare, adesso? Cosa sarebbe successo tra loro? Chiuse gli occhi, mentre gli risuonavano con forza nella testa le parole di sua madre quando gli aveva detto che sarebbe andato via, l’ultima sera a Santo Stefano.

Enrico… quando saprà tutto ti odierà anche lui.

«Non è così che doveva andare» disse all’improvviso, senza riflettere.

Claudia gli lanciò un’occhiata dubbiosa. «Che cosa?»

«Tutto quanto. Dovevamo stare insieme.»

«Vuoi dire… noi tre?»

Stefano la guardò intensamente. «Sì. Noi tre e… io e te.» Claudia si irrigidì visibilmente e rimase in silenzio. Lui sapeva che avrebbe dovuto fermarsi, che stava imboccando una direzione che non aveva previsto e su cui sentiva di non avere il controllo, ma non voleva. «In tutti questi anni non ho mai smesso di chiedermi come eri diventata e ora ho l’impressione che in realtà non ci siamo mai separati.»

Lei lo fissò con aria indecifrabile, poi si mosse, a disagio. «È solo un’impressione, Stefano. Sono passati tanti anni e sono successe tante cose…»

«Ci racconteremo tutto. Non siamo più costretti a separarci, non siamo più bambini.»

Per la prima volta da quando aveva lasciato l’isola, undici anni prima, pensò con decisione che sua madre si fosse sbagliata quando gli aveva detto che non poteva restare lì, perché non avrebbe avuto mai niente. Forse c’era ancora qualcosa per lui, sull’isola. Forse poteva ritrovare Enrico e Claudia. Anche se il passato ormai era perduto e non era possibile tornare a quell’innocente spensieratezza, forse avrebbero potuto creare qualcosa di nuovo, di diverso. Meno perfetto, ma non meno importante.

«Devo dirti una cosa» fece Claudia all’improvviso, rompendo le sue riflessioni. Lo fissava con una strana espressione, come se avesse in mano una bomba a orologeria che non vedeva l’ora di lanciare lontano, per liberarsene, ma al tempo stesso temesse di vederla esplodere. Per un attimo Stefano pensò che volesse dirgli che non aveva alcuna intenzione di recuperare il loro rapporto, che ormai era passato troppo tempo e lei era andata avanti. Lo stomaco gli sprofondò sotto le scarpe. Poi lei parlò di nuovo. «Sto con Enrico.»

Gli si mozzò il fiato per lo shock. Aprì la bocca, ma non riuscì a emettere alcun suono. Si limitò a fissarla. Aveva la sensazione che tutto gli girasse intorno molto lentamente. Passò un tempo indefinito, poi, quando la prima ondata di sorpresa fu passata, il primo pensiero coerente che il suo cervello riuscì a balbettare fu che avrebbe dovuto arrivarci da solo: l’aveva incontrata al baglio e quale ragione poteva avere di essere lì? Probabilmente doveva vedere Enrico. E quando era stato sul punto di chiederle cosa ci facesse al baglio, in macchina, lei doveva aver intuito la domanda che stava per arrivare e l’aveva elusa senza dare nell’occhio. Era stato così abbagliato da lei da non rendersene conto.

Abbassò gli occhi e inspirò profondamente. Era una sorpresa, senza dubbio, ma in fondo cosa c’era di strano? Cosa aveva creduto? Che Enrico e Claudia avessero congelato le loro vite per aspettarlo, senza neanche sapere se sarebbe mai tornato? E aspettare che cosa, poi? Non si vedevano da secoli, erano cambiati, e loro due avevano continuato a crescere insieme, mentre lui imparava a vivere senza due pezzi di se stesso. Si costrinse a tirare fuori un sorriso e si schiarì la voce.

«Da quanto tempo?»

Claudia aveva la fronte contratta, divisa a metà tra l’ansia e la curiosità di scoprire come avrebbe reagito. «Cinque anni» rispose piano, quasi con cautela, e Stefano avvertì uno strattone allo stomaco.

«È una cosa seria, allora.»

«All’inizio no… eravamo ragazzini. Dopo che te ne sei andato, io e lui ci siamo avvicinati sempre di più. A un certo punto è stato quasi inevitabile» spiegò lei, vagamente accigliata.

«Sei felice?» chiese Stefano di botto. Si rese conto che gli sarebbe bastato soltanto quello. Lei parve sorpresa, poi alzò appena le spalle.

«Siamo diversi, ma stiamo bene insieme. Forse ci completiamo. Lui è uno tranquillo, lo sai. Io…»

«No, tu non sei mai stata tranquilla» la interruppe Stefano con una risata spontanea.

Anche Claudia rise, muovendo la testa, e il sole colpì i suoi capelli ramati, accendendoli di riflessi. Per un momento Stefano si incantò a osservarli.

«Per niente! Ti ricordi quella volta che io e te ci siamo messi a giocare a nascondino in casa mentre mia nonna lavava i pavimenti?»

«Cosa assolutamente proibita» aggiunse Stefano con tono eloquente.

Lei annuì, senza smettere di sorridere. «E per dei buoni motivi! Abbiamo rovesciato il secchio dell’acqua nella sala da pranzo, per colpa tua che mi correvi dietro…»

«Eri tu che mi correvi dietro!»

«… e la nonna è inciampata nel secchio che rotolava per la stanza. Siamo scappati di corsa, mentre lei ci urlava dietro agitando le braccia» continuò Claudia, ridacchiando, due fossette profonde sulle guance che incorniciavano il sorriso aperto.

Stefano non riusciva a staccare gli occhi da lei, bevendo ogni singolo istante come un assetato nel deserto che trova una fonte d’acqua. «Qualcosa mi dice che sei ancora una peste, proprio come allora» disse con tono leggero, venato di dolcezza. Desiderava prolungare lo scherzo, restare lì, a ridere insieme e a ricordare il passato, per sempre.

Lei annuì con esagerata gravità. «Mi hai beccata» rispose, divertita. Inclinò la testa verso di lui e incrociò il suo sguardo e di colpo parve imbarazzata. Un po’ dell’entusiasmo scivolò via dal suo viso, mentre sollevava una mano per infilarsi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Stefano seguì il movimento con lo sguardo, osservando la pelle delicata del suo polso, e gli balenò nella mente il pensiero assurdo che avrebbe voluto baciarla.

«E sei bella come lo eri allora» mormorò, il fantasma dell’ultima risata che ancora gli aleggiava sulle labbra. Sapeva che non avrebbe dovuto dirlo, ma al tempo stesso gli sembrava così naturale, spontaneo. Qual era la parola che aveva usato lei, prima? Inevitabile.

Claudia tornò seria pian piano mentre si guardavano. Distolse lo sguardo, liberando quello di lui, e studiò le pieghe della gonna sulle ginocchia. Stefano inspirò e si allontanò appena da lei. Sentiva che il suo corpo lo spingeva verso quello di Claudia, come per ricongiungersi con il pezzo mancante che le aveva lasciato. Gli sembrò prudente mettere un po’ di spazio tra loro.

«Scusami» disse, serio.

Quasi nello stesso momento, lei scosse precipitosamente la testa. Era arrossita. «No, non fa niente. È tutto un po’ streusu,[2] vero?» Fece uscire una risatina breve e nervosa, ma pesante.

Stefano esitò. Seguì con gli occhi il volo di un gabbiano che si abbassava girando intorno alla cima della torre, mentre lottava con se stesso per trovare le parole giuste. «Io… ho sempre sentito che prima o poi, in qualche modo, ci saremmo ritrovati. E anche se le cose sono diverse da… Anche se non mi aspettavo…» Si interruppe, strinse le labbra. «Sono felice» ammise alla fine, come fosse una confessione liberatoria. «Più felice adesso di quanto sia mai stato negli ultimi undici anni. Tu ed Enrico siete sempre stati tutto, per me. E ora… ci sei tu e sei… esattamente come ti immaginavo.»

Per qualche secondo ci fu silenzio, poi Claudia bisbigliò: «Anche tu sei come ti ho sempre immaginato.»

Stefano sentì il respiro di lei che gli sfiorava la guancia. Qualcosa lo spinse a volgere gli occhi verso di lei, come se un comando invisibile lo privasse della forza di volontà. Claudia lo fissava intensamente, lo sguardo carico in ugual misura di gioia, paura, aspettativa. Erano vicinissimi. Anche lei si era spostata impercettibilmente verso di lui. Il tempo si fermò mentre si guardavano negli occhi, immobili, quasi senza respirare, nel silenzio e nella solitudine di quel posto che apparteneva soltanto a loro, di quel momento che era soltanto loro. Il viso di Claudia era sempre più vicino. Stefano riusciva a distinguere i tocchi di verde e oro che illuminavano il nocciola delle sue iridi e non riusciva a capire se era lei ad andare verso di lui o se era lui a spostarsi verso di lei o se si stavano muovendo insieme, senza rendersene conto. Percepiva la realtà in modo strano, come se fosse lontanissima da lui. Gli sembrava di non essere più neanche lì, seduto sui gradini di pietra della torre saracena, ma allora dov’era? Fluttuava senza peso e l’unica cosa che lo teneva agganciato al mondo, che gli impediva di dissolversi e sparire, era lo sguardo di Claudia. I loro respiri si mescolavano. Stefano piegò la testa, mise la mano sul viso di lei, chiuse gli occhi, la baciò.

Dopo un istante o forse dopo un secolo, si staccarono appena, senza allontanarsi, il fiato corto, le guance arrossate, l’espressione turbata.

«Che stiamo facendo?» sussurrò Claudia con voce roca, come se avesse pianto.

Stefano sentiva la testa leggera e tutto gli girava intorno. La sensazione di andare alla deriva, di scivolare via, era sempre più intensa. Strinse le dita sul viso di lei, cercando un appiglio.

«Non lo so. Forse… è meglio se…»

Non aveva la minima idea di cosa sarebbe stato meglio, ma Claudia non lo lasciò finire. «Sì» annuì, una parola che era un soffio.

E poi si stavano baciando di nuovo. Stefano non capì chi avesse preso l’iniziativa. Non riusciva a pensare o a ragionare. Riusciva solo a sentire il corpo di Claudia che fremeva, stretto contro il suo, le labbra di lei che divoravano le sue, i capelli di lei che gli finivano sul viso, negli occhi, dappertutto, il suo odore leggermente salato, il suo gemito nelle orecchie. Il tempo si dilatò in un momento infinito e ricominciò ad avere un senso solo quando Claudia gli mise all’improvviso le mani sul petto e lo spinse via.

«No, basta. Basta» ansimò, senza fiato.

Si guardarono, stravolti. Lei aveva le guance arrossate, il respiro affannoso, le labbra gonfie, i capelli in disordine. Sul suo viso balenò un lampo di qualcosa, forse di panico, pensò confusamente Stefano. Prima che potesse ragionare lucidamente lei emise un verso soffocato e scattò in piedi, andando verso il boschetto di ulivi. Stefano si alzò e la seguì. Sotto gli alberi era una bolla di ombra e di fresco. Il sole penetrava soltanto a chiazze tra i rami frondosi. Lì il frinire delle cicale era così forte che quasi copriva il rumore del mare, i loro respiri corti e nervosi e lo scricchiolio delle foglie e dei rami caduti sotto i loro piedi. Sembrava un altro mondo. Stefano la afferrò per un braccio e la costrinse a girarsi, poi la tirò a sé con un gesto brusco. Claudia lo lasciò fare senza opporsi. La guardò: la sete che riempiva i suoi occhi era il riflesso della sua. La baciò di nuovo, mentre lei gli afferrava il bordo della t-shirt per sollevarla.

 

 

****

 

 

Era pomeriggio inoltrato, ma il sole era ancora forte e luccicava imperterrito attraverso le fronde. L’afa sembrava salire direttamente dal terreno, senza accennare a diminuire. Sdraiato sulla schiena, Stefano fissava le macchie di luce nel verde degli alberi. Aveva un unico pensiero che gli martellava la mente.

Prendi sempre quello che non è tuo.

Gli sembrava di poter impazzire da un momento all’altro.

Non poteva incontrare Enrico, come gli aveva promesso. Non avrebbe potuto guardarlo negli occhi. Non dopo quello. Non dopo quel giorno, forse mai più in questa vita. Lui ne sarebbe rimasto molto deluso, lo sapeva. Lo conosceva troppo bene. A meno che non fosse totalmente cambiato, e non gli era sembrato così, non lo avrebbe dato a vedere. Avrebbe nascosto la ferita dentro di sé, nel profondo, ma chi lo conosceva davvero lo avrebbe capito. Stefano lo avrebbe capito. Gli era successo un’infinità di volte, quando erano bambini: Edoardo era spesso duro con Enrico e lui si chiudeva in se stesso per ore, a volte per giorni, prima di ritrovare il sorriso.

Sdraiata accanto a lui, Claudia si mosse improvvisamente e si alzò con un movimento nervoso.

«Dobbiamo andare» disse in tono secco, la voce roca. Cominciò a sistemarsi la gonna di jeans, spiegazzata e macchiata di terriccio, e ad abbottonarsi la camicetta rossa. I capelli le ricadevano ai lati del viso come una cortina, nascondendo la sua espressione.

Stefano si tirò su a sedere. Sì, dovevano andare via. Non c’era niente da fare, niente da dire. Claudia doveva tornare da Enrico ed era l’unica cosa che sembrava avere un senso, in quel momento. Tutto doveva rientrare nei ranghi, come prima di quel pomeriggio assurdo, come se lui non fosse mai tornato sull’isola. Non era il suo posto. Era giusto così. Si alzò, recuperò la t-shirt che era finita sulle grosse radici nodose di un albero lì accanto, la scosse per renderla più presentabile e se la infilò.

«Mi accompagni al porto, per favore?»

Claudia stava lottando con i bottoncini della camicia, le mani che le tremavano visibilmente. Sollevò la testa di scatto e gli piantò gli occhi addosso con una domanda muta. Appariva spaventata e Stefano la capiva, perché aveva un po’ di paura anche lui. E se avessero perso di nuovo il controllo? Non poteva succedere di nuovo, non doveva succedere di nuovo. Doveva andare via, subito. Stefano si schiarì la voce e si passò una mano tra i capelli in disordine, sperando di darsi una sistemata.

«Non posso restare» aggiunse. «Non posso vederlo. Non ce la faccio.»

Era un codardo, come sempre quando si trattava del passato, ma non poteva fare altrimenti. Lei lo fissò ancora per un po’, senza dire nulla, mordendosi il labbro superiore con aria indecisa. Per un attimo Stefano pensò che avrebbe cercato di convincerlo a incontrare comunque suo fratello, ma poi lei sembrò prendere una decisione. Inspirò e annuì.

Non scambiarono neanche una parola per tutto il viaggio in auto e quando Claudia si fermò nel parcheggio del porto lui si trattenne a stento dal tirare un respiro di sollievo. La fuga era lì, a portata di mano, come sempre. La sua migliore amica, la sua eterna compagna. Il mare sembrava attenderlo, pronto a mettersi ancora una volta tra lui, l’isola e quell’errore spaventoso che gli gelava il sangue nelle vene. Eppure i ricordi dei momenti nel boschetto, stretto a Claudia, non smettevano di riempirgli la mente. Afferrò la sua borsa, che fortunatamente aveva lasciato nella macchina di Nino quando era arrivato al baglio. Poi si bloccò. Adesso cosa avrebbe mai potuto dirle?

«Non è presto?» chiese Claudia, battendolo sul tempo. Lo guardò. «Il tuo traghetto è alle sette, no?»

«Cambio il biglietto. Prendo il primo che c’è.»

Lei lo fissò in silenzio per qualche secondo, poi tornò a guardare fuori dal parabrezza. Aveva gli occhi rossi e lucidi e il labbro inferiore le tremava. Le succedeva sempre quando stava per piangere, da bambina, ed era ancora così.

Stefano non ce la faceva più. Aprì la portiera bruscamente. «Ciao, Claudia» disse in fretta, allontanando con tutte le sue forze il pensiero che poteva essere l’ultima volta che la vedeva, e richiuse la portiera prima che lei potesse rispondere. Qualcosa gli diceva che non sarebbe arrivata nessuna risposta, neanche se fosse rimasto lì ad aspettare per sempre.

Riuscì per un pelo a prendere il primo traghetto in partenza. Fece tutto in fretta, a testa bassa, gli occhiali da sole ben calati sul viso, e solo quando si ritrovò sul ponte del traghetto che iniziava a muoversi lentamente si accorse che fino ad allora aveva trattenuto il fiato. Credeva che si sarebbe sentito meglio non appena avesse preso ad allontanarsi, ma un peso gli gravava lo stomaco. Aveva la nausea, si sentiva soffocare. La verità era che il mare non era mai stato davvero una barriera. Si portava tutto dentro, ogni volta.

Avrebbe voluto girare le spalle a Santo Stefano, a Claudia, Enrico, Edoardo, ma anche stavolta, come undici anni prima, ne fu incapace e rimase in piedi, le mani serrate intorno al parapetto di ferro arrugginito e scivoloso, a guardare l’isola allontanarsi, diventare sempre più piccola e sfocata, una sagoma incerta nell’azzurro intenso del cielo estivo. Infine sparì.

 










[1] Fare un giro.

[2] Strano.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12. Quannu la vita mia finisci e mori ***


CAPITOLO 12
Quannu la vita mia finisci e mori

 

 

 
Sicilia, Isola di Santo Stefano
Agosto 1999

 

 

Claudia rallentò fin quasi a guidare a passo d’uomo la vecchia Ford rossa di Nino e varcò il cancello di ferro battuto del baglio. Era pomeriggio inoltrato e il caldo accumulatosi nel corso dell’intera giornata sembrava addensare l’aria. Quanto tempo erano stati via esattamente lei e Stefano? Non ne aveva la minima idea. Aveva perso del tutto il senso del tempo. Ora le sembrava di muoversi in un sogno, la vista le si appannava e tutti i suoi movimenti erano rallentati. Non era più se stessa. Cosa era diventata?

Parcheggiò la macchina sotto la tettoia incandescente per il sole e scese lentamente, combattendo un improvviso capogiro. Prese un respiro profondo e l’aria calda le riempì i polmoni mentre si guardava intorno. Il cortile era deserto, a eccezione della cuoca, Anna Maria, seduta su uno sgabello appena fuori la porta ad arco della cucina. Pelava un mucchio di patate e intanto cantava a mezza voce. Claudia riconobbe le parole: era una vecchia canzone d’amore in siciliano. Sua nonna gliela cantava spesso, quando era bambina.

 

 

Mi votu e mi rivotu suspirannu

passu li ‘nteri notti senza sonnu

e li biddizzi tòi vaiu cuntimplannu

li passu di la notti finu a ghiornu.

Pi tia non pozzu n’ura arripusari

paci nun havi chiù s’afflittu cori.

Lu vo’ sapiri quannu t’aju a lassari?

Quannu la vita mia finisci e mori.[1]

 

 

Un brivido le percorse la schiena sudata. Anna Maria l’aveva vista e alzò un braccio per salutarla da lontano. Claudia rispose con un cenno debole della mano, cercando di sorridere, ma le venne fuori una specie di smorfia.

«Claudia!»

Si voltò di scatto. Enrico stava scendendo a passo svelto la scala del ballatoio con un sorriso ampio. Lei provò l’assurda tentazione di scappare, ma fu solo per un attimo. Recuperò il controllo, rimase dov’era e si costrinse a trasformare la smorfia in un sorriso più o meno accettabile. Non era affatto sicura di aver avuto successo, ma subito dopo il ragazzo le era accanto e le stringeva la vita con un braccio.

«Ti stavo cercando, dov’eri andata a finire?»

Le stampò un bacio delicato, a fior di labbra, sulla bocca. Claudia fece per tirarsi indietro istintivamente, ma ancora una volta riuscì a controllarsi e bloccò il movimento appena in tempo, evitando un gesto che sarebbe stato difficile da spiegare. Un fiotto di ansia le invase lo stomaco e quasi non sentì il bacio di Enrico. Cosa diamine le succedeva? Perché faceva così? Perché era tutto sbagliato. Trasalì. Aveva baciato Stefano, si era stretta a lui nell’erba alta che le pungeva la pelle, aveva sentito il sapore della sua pelle quando gli aveva baciato una spalla, lo aveva lasciato entrare di sé e adesso era lì, con il braccio di Enrico che le cingeva la vita e la bocca che premeva gentile sulla sua.

Sbagliato… Non sarebbe mai riuscita a cancellare quelle immagini dalla sua testa? Lì accanto Anna Maria continuava a cantare a bassa voce e a Claudia parve che le rispondesse. Quannu la vita mia finisci e mori… Fece un respiro e si scostò di qualche centimetro appena.

«Sono andata a fare un giro.»

Enrico non parve troppo interessato. Era evidente che aveva qualcosa da dirle.

«Hai saputo? Stefano arrivò. L’hai visto?»

Claudia non seppe mai come fosse riuscita a mantenere un’espressione accettabile in quel momento. Era assurdamente certa che tutto quello che era successo fosse scritto sul suo viso e che Enrico avrebbe scoperto la verità. Lo fissò, spaventata, ma lui sembrava tranquillo. La guardava con le sopracciglia un po’ aggrottate, forse perché lei non rispondeva. Claudia deglutì, lottando contro la gola secca e arida per dire qualcosa.

«No… Cioè, sì, l’ho visto» disse con un filo di voce.

«Avete parlato?»

Claudia alzò le spalle. Il panico stava diventando così forte che quasi le toglieva la sensibilità e non percepiva più la stretta del suo fidanzato intorno al corpo. «Qualche parola… Ci siamo salutati e basta. Andava di fretta, non aveva molto tempo.»

«Davvero?»

Lei annuì in fretta. «Mi ha detto… doveva prendere il traghetto.»

Un’espressione di assoluta sorpresa comparve sul volto di Enrico, sempre un po’ pallido, anche in piena estate. La sua era una di quelle carnagioni delicate che non si abbronzano mai e sotto il sole rischiano solo una scottatura. La osservò come se non riuscisse a capire. «È andato via?»

Claudia strinse le dita di una mano a pugno, l’altra poggiata con delicatezza sul braccio di Enrico. «Penso di sì.»

Il disagio era una presenza viva e pulsante che le si attorcigliava su per la schiena e le bloccava le braccia e le gambe. Se anche avesse voluto scappare via, non ci sarebbe riuscita. Stefano ed Enrico non si sarebbero rivisti, quel giorno, per colpa sua. Era una coltellata allo stomaco.

«Strano» mormorò Enrico. Abbassò gli occhi sulle pietruzze bianche e grigie del cortile, la fronte contratta. L’azzurro luminoso dei suoi occhi sembrava essersi incupito. «Dovevamo parlare. Ci siamo incontrati, stamattina, me lo ha chiesto lui.»

Claudia sentiva il coltello rigirarsi nella pancia. La colpì un’ondata di nausea mista a senso di colpa e il bisogno quasi fisico di allontanarsi da lì, di mettere spazio tra sé ed Enrico, diventò impellente, simile a una necessità vitale.

«Non lo so, Enrico… Forse ci ha ripensato.» Bugiarda. La parola quasi le affiorò alle labbra insieme alla nausea. Inghiottì e le rimandò giù entrambe. «Mi dispiace» aggiunse, la voce bassissima.

Enrico raddrizzò la testa. La sua espressione si era indurita, ma quando parlò il suo tono era neutro, indifferente. «Non fa niente. Probabilmente non ne aveva voglia.» Tacque per qualche secondo, mentre le accarezzava la schiena con la mano, e a Claudia parve che la sua delusione si comunicasse a lei attraverso quel tocco leggero. Il comportamento del fratello lo aveva ferito e lei lo conosceva troppo bene per non capirlo. «Allora… dove andiamo a cena, stasera?» chiese lui all’improvviso, cambiando bruscamente argomento. Lo faceva sempre quando stava male per qualcosa. «Non abbiamo ancora deciso» disse e la guardò con un sorriso incerto, ma dolce.

Claudia sussultò. La cena… Ne avevano parlato quella mattina, lei era andata al baglio proprio per quello, ma poi lo aveva completamente dimenticato. Strinse i denti e provò a immaginare di uscire con Enrico, passare tutta la sera con lui, sedergli di fronte al ristorante e mandare giù del cibo e sorridere davanti ai suoi occhi trasparenti come l’acqua di una piscina. Sentì che le si rivoltavano le viscere. No, non poteva farcela. Strinse il braccio di Enrico.

«Scusa, ma… preferirei lasciar perdere, oggi. Non mi sento bene.»

Lui la scrutò con più attenzione, aumentando la pressione della mano sulla schiena di lei. «Che c’è? Sembri nervosa.»

«Niente di particolare. Non lo so… Stanca sono. Solo questo. In settimana ho avuto un sacco di lavoro.»

Enrico annuì lentamente. Una linea di preoccupazione gli solcava la fronte chiara. «Ok, allora posso venire da te e ce ne stiamo tranquilli. Guardiamo un film, magari.»

Mentre parlava, la avvicinò a sé ancora di più e accostò il viso al collo di lei. Posò le labbra che sorridevano tra il mento e la gola, rafforzò la presa intorno alla sua vita. Claudia sentiva il suo desiderio che le scivolava sulla pelle. Chiuse gli occhi. Quando erano ragazzini e avevano appena iniziato a uscire insieme, usavano sempre la scusa di un film quando volevano vedersi per fare sesso ed era certa che lui non avesse usato a caso quella frase. Le sembrava di soffocare. Sarebbe stato così da allora in poi? Come avrebbe potuto sopportarlo? Chiuse gli occhi.

«È meglio che me ne stia da sola. Mi devo allupiari[2] un po’» balbettò. Mise una mano sulle spalle di Enrico, forti e ben definite per le nuotate che faceva da maggio a ottobre. Sembrava che cercasse di avvicinarlo a sé, in realtà voleva essere pronta a tirarsi indietro se fosse stato necessario. Non poteva superare un certo confine, non quel giorno, non di nuovo, non con lui. Non poteva fargli questo.

Lui iniziava a percepire la sua tensione, ma forse la attribuì semplicemente alla stanchezza o a un lieve malessere, perché il suo sorriso contro il collo di lei si allargò, suscitandole un brivido. «Va bene, allora… lasciamo stare le attività stancanti. Solo per oggi» mormorò con voce roca.

Claudia si irrigidì. «Davvero, ho bisogno soltanto di una doccia rilassante e andare a letto presto. Recuperiamo la cena nei prossimi giorni. Te lo prometto» disse, annaspando un poco, e gli strinse la spalla.

Cercava di rassicurare lui e se stessa, ma sapeva di non essere altro che una bugiarda. Non aveva la più pallida idea di cosa sarebbe successo nei giorni seguenti, ma doveva assolutamente tranquillizzare Enrico. La cosa più importante, in quel momento, era che lui non sapesse di Stefano. Il pensiero di quanto si sarebbe sentito tradito, non solo dalla sua ragazza, ma anche dal fratellastro, le rivoltava lo stomaco più di tutto il resto.

Enrico si ritrasse lentamente, controvoglia, e annuì con un sospiro lieve. «Come vuoi. Ti accompagno a casa. Vado a prendere le chiavi della macchina.»

La baciò rapidamente sull’angolo della bocca e si allontanò.

 

 

****

 

Enrico entrò in casa, trovandola piacevolmente fresca e ombrosa dopo il sole abbagliante e il caldo opprimente del cortile. Andò a passo svelto nella sua stanza, al secondo piano, e prese le chiavi dalla scrivania, di fronte al balconcino aperto da cui entrava una brezza lenta e bollente. Faceva pensare al respiro di una fornace. Al piano di sotto, in salotto, trovò suo padre, in piedi accanto alla portafinestra. Era quasi avvolto nelle lunghe tende bianche che oscillavano pigre, come in un bozzolo. Era immobile e fissava intensamente qualcosa fuori, nel cortile. Enrico si avvicinò.

«Accompagno Claudia a casa» lo informò, mentre gli passava accanto in fretta.

«Non dovevate andare a cena fuori?»

Le parole di Edoardo sembravano buttate lì, quasi con noncuranza, ma Enrico si fermò prima di uscire sulla terrazza. Guardò suo padre.

«Non si sente molto bene» rispose, con tono secco e neutro.

«Abbèru[3] commentò Edoardo, ironico.

Enrico iniziava a sentire la familiare sensazione di gelo che lo avvolgeva spesso quando era in presenza del padre. Strinse i denti, ma si sforzò di non far trapelare troppo il suo disagio.

«Cosa c’è?»

Edoardo non rispose subito. Rimase in silenzio per qualche istante, continuando a guardare fuori con aria indecifrabile. Perplesso, Enrico seguì la direzione del suo sguardo e si ritrovò a fissare Claudia: era appoggiata alla Ford di Nino, le braccia abbandonate lungo i fianchi e un’espressione assente che lo sconcertò. A cosa stava pensando?

«Stefano se ne andò» aggiunse improvvisamente Edoardo, come se la risposta alla precedente domanda del figlio fosse quella.

Lui tornò a guardare suo padre, senza capire. «Lo so» disse, poi ebbe un attimo di esitazione. Trovava difficile dare voce alle sue sensazioni con Edoardo, perché si aspettava sempre che fossero svalutate o ridicolizzate. «Ma… non so perché. Avremmo dovuto parlare prima che prendesse il traghetto» aggiunse, quasi senza accorgersene, e subito dopo ne era già pentito. Non sapeva se a suo padre facesse piacere o meno che lui parlasse con Stefano, ma sospettava di no.

Edoardo non rispose immediatamente neanche stavolta e si limitò ad assorbire la notizia in silenzio. O almeno così parve. Poi parlò di nuovo. «Puoi chiederlo a Claudia, ‘u pirchì.[4] Sono andati via insieme, un paio d’ore fa» disse con tono tranquillo. Enrico sentì uno strattone allo stomaco, come se avesse mancato un gradino mentre scendeva le scale. «Li ho visti da qui. Hanno preso la macchina di Nino.» Fece una breve pausa. «Forse è con lei che voleva parlare.»

Enrico aveva l’impressione che il suo cuore non battesse più. Guardò di nuovo Claudia, come se in quel modo potesse trovare una conferma o una negazione alle parole del padre. Stefano non aveva mantenuto la sua promessa. Non lo aveva cercato, non voleva parlargli. Aveva cercato Claudia, la sua Claudia. Erano stati insieme. E lei non gli aveva detto niente. Gli aveva mentito. Perché gli aveva mentito?

Calmati, pensò, con un sussulto. Non era solo. Non poteva mostrare a suo padre quanto fosse confuso e ferito. Non abbassare mai le difese insieme a lui era la regola che gli permetteva di sopravvivere. Mantenne il viso impassibile, ma quando spostò di nuovo lo sguardo su Edoardo, l’espressione di suo padre, a metà tra l’ironia e il compatimento, gli disse che lui aveva capito. Allora gli sembrò di odiarlo. Che stupido era stato a fidarsi di Stefano. Serrò le mani a pugno, voltò le spalle a Edoardo e uscì a passo deciso, senza parlare. Non c’era altro da dire.

 

 

 

****

 

 

Sicilia, Isola di Santo Stefano
Ottobre 1999

 

 

«Sono tornata!»

Claudia trasalì quando sentì la porta di casa che si apriva e distolse lo sguardo assente dai libri aperti davanti a sé, sul tavolo della cucina-soggiorno. Rosa entrò trasportando due buste della spesa, con le guance arrossate e il respiro affannato.

«Ciao» disse.

Si spaventò lei stessa nel sentire quanto suonasse spenta la sua voce. Si schiarì la gola precipitosamente, sperando di non farsi notare, ma Rosa era ancora troppo trafelata per badare a qualsiasi cosa. Lasciò cadere le buste sul pavimento e la fissò.

«Ricordami perché cavolo abbiamo preso in affitto un appartamento al terzo piano senza ascensore» disse, esausta, la voce affaticata.

Claudia inarcò le sopracciglia. «Perché costava poco.»

Rosa la fissò ancora per un attimo, mentre nei suoi occhi balenava un lampo di consapevolezza che mise Claudia a disagio. Poi sbuffò e annuì. «Ah, già.» Si sfilò piano il giubbotto di jeans, mentre il respiro tornava alla normalità. «Dopo il turno sono passata al supermercato e ho preso l’occorrente per fare la pizza. Perciò ho fatto tardi. La facciamo in casa, che dici? Stamattina sentivo due colleghe che ne parlavano, in reparto, e mi è venuta voglia.»

«Sì, ok» assentì Claudia, sforzandosi di sembrare allegra e tranquilla. Afferrò la matita che aveva lasciato scivolare giù dal libro, pensierosa, e iniziò a giocherellarci.

Rosa sbuffò. «Che entusiasmo, Claudia. Datti una calmata…» esclamò, ironica, da sopra la spalla, mentre si lavava le mani nel lavandino della cucina.

Claudia sgranò gli occhi, stupita. Eppure credeva di aver avuto un tono abbastanza normale, questa volta. Il problema era Rosa, che la conosceva troppo bene ed era troppo perspicace per farsi ingannare così facilmente. Si raddrizzò sulla sedia e scrollò la testa, come cercando di scuotersi.

«Scusami. Non sono dell’umore adatto per pensare alla pizza.»

«Lo so» rispose Rosa semplicemente e Claudia la guardò, sorpresa. Si era aspettata un altro rimbrotto ironico, perché di solito era così che l’amica gestiva le cose. Rosa si appoggiò al tavolo, di fronte a lei, e la studiò con aria seria. «Lo vedo che sei triste, ultimamente. Qualcosa non va. È così da almeno un mese. Vorrei aiutarti, ma non so come fare se non mi dici niente. È per Enrico? Non mi hai raccontato nemmeno cos’è successo con lui.»

Claudia abbassò gli occhi e fissò la pagina del libro senza leggere nemmeno una parola. Era tutto il pomeriggio che cercava di preparare l’esame di critica d’arte contemporanea, ma era come leggere una lingua straniera e sconosciuta. Non riusciva a concentrarsi e per capire una frase doveva leggerla tre volte. Di questo passo sarebbe stata miseramente bocciata. Anzi, era meglio non presentarsi all’esame. Restò in silenzio e Rosa aspettò per un po’. Quando fu chiaro che non era in arrivo nessuna spiegazione, Rosa emise un sospiro.

«Non devi parlare per forza, se non ti va, però… non pensi che sfogarti ti farebbe bene?»

Claudia non parlò, ancora. Un nodo le ostruiva la gola e lasciò che il silenzio riempisse lo spazio tra loro come qualcosa di vivo e tangibile. Non riusciva a guardare la sua amica e intanto stringeva fortissimo la matita nella mano, tormentata dall’incertezza. Il problema non era nascondere le sue paure a Rosa, aveva sempre parlato di tutto con lei, ma se avesse dato voce a ciò che la tormentava lo avrebbe reso reale e questo la spaventava troppo. Non sapeva se avrebbe avuto la forza di affrontarlo. Fino a quando restava confinato dentro di lei, un pensiero martellante che le girava e rigirava nella testa in ogni momento della giornata, poteva sempre illudersi che il problema non esistesse. Se avesse parlato, sarebbe cambiato tutto. Eppure, sapeva anche che non poteva continuare così ancora per molto. Allora che cosa doveva fare? Cosa?

Rosa si mosse. «Ho capito» mormorò con tono rassegnato. Claudia avvertì che non era arrabbiata oppure offesa, ma solo dispiaciuta per lei. All’improvviso qualcosa scattò dentro di lei.

«No, Rosa, aspetta» esclamò, angosciata. Si morse il labbro ricambiando lo sguardo confuso della sua amica. «Non è per te… Vorrei dirti tutto, ma non riesco a… Ho paura che… Non ho il coraggio» balbettò alla fine, alzando appena le spalle come per scusarsi.

Rosa sembrava sinceramente sorpresa dalla sua agitazione. Scostò una sedia dal tavolo con un gesto energico e sedette accanto a lei, guardandola dritto in faccia con espressione franca. «Lo sai che mi puoi dire tutto. Prometto che non giudicherò. Tu non mi hai giudicato quando mi sono fatta quel taglio di capelli orrendo, l’anno scorso» aggiunse con voce un po’ più leggera e un piccolo sorriso.

Suo malgrado, Claudia lo ricambiò. Era tipico di Rosa sdrammatizzare e scherzare su tutto. «È una cosa grossa. Enorme» mormorò cercando disperatamente le parole giuste. «Non so nemmeno io come ho fatto a trovarmi in questa situazione.» Si interruppe, la voce troncata da un’ondata di panico che la travolse all’improvviso. Poi guardò Rosa, la sua espressione attenta e affettuosa, e di colpo lasciò uscire fuori quello che la tormentava. «Penso di essere incinta.» Rosa restò immobile e zitta. Solo un leggero contrarsi delle sopracciglia indicò la sua sorpresa. Forse non si aspettava una cosa del genere. In ogni caso, non disse nulla e le lasciò il tempo di cui Claudia aveva bisogno. Lei continuava a tormentare la matita con le mani. Prima o poi l’avrebbe spezzata. Abbassò lo sguardo. «Ho un ritardo di dieci giorni. E di solito sono regolare.»

Rosa annuì con un gesto lento e calmo. Inspirò profondamente. «Ecco perché sembrava che avessi sempre la testa su un altro pianeta» commentò sottovoce, rivolta più a se stessa che a Claudia. Si passò una mano tra i capelli, come per sistemarli o forse per tentare di schiarirsi le idee. Poi lanciò un’occhiata veloce e indagatrice verso l’amica. «Enrico lo sa?»

Claudia sentì un colpo alla pancia e si chiese ansiosamente se potesse essere un sintomo di gravidanza. Scosse la testa. «No.»

«Be’, per prima cosa devi fare il test.» Mentre parlava, Rosa si mise a sedere più dritta. Aveva l’espressione risoluta che le veniva quando prendeva in mano una situazione. «E poi, se sei davvero incinta… Io penso che dovresti dirglielo. So che vi siete presi una pausa di riflessione, ma ha il diritto di saperlo.»

Claudia scuoteva di nuovo la testa. «Non è per questo» sussurrò con voce soffocata. Sentiva che le stava venendo da piangere e che la voce le si piegava sotto il peso delle parole che stava per pronunciare. «È che… non so di chi è.» Si portò una mano alla bocca, come per fermarle, ma ormai era troppo tardi.

Questa volta Rosa non riuscì a nascondere lo stupore e spalancò gli occhi di un verde intenso. Lei diceva sempre che erano l’unica cosa bella che avesse e puntualmente Claudia protestava con forza.

«Cosa…» mormorò. Si interruppe e la fissò in silenzio, cercando di metabolizzare la notizia, forse per evitare di dire qualcosa di inappropriato. Quello proprio non se lo aspettava e lo aveva scritto in faccia. «Chi è? Lo conosco?» chiese di getto. Subito dopo si tirò indietro sulla sedia e distolse lo sguardo. «No, scusa, non devi dirmelo per forza. Lascia perdere.»

«È Stefano Ruggero» rispose Claudia tutto d’un fiato, prima ancora che la sua amica avesse finito di parlare, ed ebbe la sensazione che una pietra le scivolasse via dal petto. Prese aria. Era sorpresa dallo scoprire che parlandone ad alta voce non stava affatto peggio, come aveva temuto, anzi: forse soltanto adesso avrebbe potuto iniziare a risolvere il problema.

Rosa ci mise qualche istante ad afferrare. «Il fratellastro di Enrico?» domandò, incredula. Aveva un’espressione così buffa che Claudia faticò a reprimere una risata isterica. Annuì. Rosa la fissò a bocca aperta ancora per un po’, poi si lasciò andare contro lo schienale della sedia, guardandosi intorno come per cercare una spiegazione. «Minchia, Claudia…»

«Lo so, hai ragione» sussurrò Claudia. Le guance le si bagnarono di lacrime che non poteva più trattenere e le sfuggì un singhiozzo. «Sono una persona orribile.»

«No, non è vero» esclamò Rosa con forza, scattando di nuovo in avanti. «È un casino, questo sì, ma… capita a tutti di fare casini.» Le prese la mano, fissandola intensamente, e la strinse forte. «Quando è successo?»

Claudia si asciugò le guance e prese aria. «Ad agosto. Quando Stefano è venuto per vedere Edoardo prima che si operasse, ti ricordi?»

Rosa assentì, pensierosa, e Claudia non aggiunse altro. Non era necessario. Rimasero in silenzio per un po’, ascoltando il ticchettio dell’orologio a parete e il ronzio del vecchio frigorifero che si rompeva una volta al mese. Lo chiamavano “l’appuntamento”.

«Enrico lo sa?» chiese Rosa all’improvviso. «Perciò vi siete presi questa pausa che non finisce più?»

«Non lo so» mormorò Claudia stancamente, passandosi una mano sulla fronte. Le sembrava più calda del solito. Poteva essere un sintomo di gravidanza anche quello? O era solo perché aveva pianto? L’angoscia le strizzò lo stomaco. Stava impazzendo. Tirò su col naso e si sforzò di parlare con chiarezza. «Io non gliel’ho detto e non so come avrebbe potuto scoprirlo. Non credo che lo sappia. Però… dopo che è successo… non è più stata la stessa cosa. Non riuscivo a guardarlo in faccia, figurati andare a letto con lui.» Rosa annuì, comprensiva. «Ci siamo spartiti[5] sempre di più. Lui ha capito che c’è qualcosa che non va, ma forse… non lo so, magari pensa che sia solo una fase. Stiamo insieme da sei anni ed è la prima volta che ci allontaniamo così» concluse con tono abbattuto.

«Ma in questo periodo vi state sentendo, no? A volte parlate al telefono.»

«Sì, ma come se fossimo amici, niente di più.» Claudia tacque e fissò a lungo il ripiano del tavolo. «Non so che devo fare, Rosa.»

Rosa non le aveva mai lasciato la mano. Adesso la strinse ancora più forte, sporgendosi verso la sua amica con un’espressione seria. «Sì che lo sai: il test. Magari non sei incinta ed è solo lo stress che ti ha fatto saltare il ciclo.» Le diede un’ultima stretta alla mano, poi si alzò e prese il giubbotto che aveva lasciato su un’altra sedia. «Vado a prenderlo subito. Ti devi togliere questo pensiero.»

Per un momento Claudia pensò di fermarla, di ribattere che non se la sentiva, che aveva il terrore di affrontare la verità. E aveva paura sul serio, ma al tempo stesso, stranamente, si sentiva più leggera ed era quasi sollevata che qualcuno prendesse quella decisione per lei, che la spingesse sulla strada giusta. Era esausta, come se avesse corso per tutta l’isola. Guardò verso il soffitto e si asciugò gli occhi.

«Hai una vaga idea di quante chiacchiere faranno in paese quando ti vedranno andare in farmacia a comprare un test di gravidanza? Sconvolgerai tutta Portosalvo.»

Rosa aveva appena indossato la giacca. Afferrò le chiavi dal mobile accanto alla porta d’ingresso, si girò a metà e lanciò un’occhiata divertita in direzione dell’amica. «Non potevi darmi una notizia migliore.»

 

 



[1] Mi giro e mi rigiro sospirando

Passo le notti intere senza sonno

E le tue bellezze vado contemplando

Mi passa dalla notte fino al giorno.

Per te non posso più riposare

Pace non ha più questo cuore afflitto.

Lo vuoi sapere quando ti lascerò?

Quando la mia vita finisce e muore.

Potete ascoltarla qui.

 

[2] Riposare.

[3] Davvero?

[4] Il perché.

[5] Allontanati.

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Capitolo 14
*** Capitolo 13. Il richiamo ***


CAPITOLO 13

IL RICHIAMO

 

 

Sicilia, Isola di Santo Stefano

Ottobre 1999

 

 

 

Mezz’ora dopo, tre test di gravidanza giacevano allineati sul tappeto liso davanti al divanetto rosso che separava la zona cucina dalla zona soggiorno. Claudia era seduta a gambe incrociate sul tappeto e li fissava tenendosi la testa tra le mani.

«A quanto pare non era lo stress» osservò Rosa a bassa voce dal divano, rompendo il silenzio di tomba che regnava ormai da parecchi minuti.

Claudia pensò che forse non era più riuscita a sopportarlo, proprio come lei. Non rispose subito. Le sembrava che la testa si fosse completamente svuotata. Sapeva che il risultato sarebbe stato quello, se lo sentiva dal primo giorno in cui aveva iniziato a sospettare. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma invece di una risposta le affiorò spontanea alle labbra una domanda.

«E adesso che faccio?» chiese con un filo di voce. Anche se non era stata un’enorme sorpresa, anche se dentro di sé aveva sempre sentito di aspettare un bambino, avere la risposta lì davanti, chiara e netta, inconfutabile, era comunque uno shock. Si sentiva paralizzata, come se si fosse tuffata di botto nell’acqua gelida del mare in pieno inverno.

Rosa fece un respiro pesante e rifletté per un momento. «Devi decidere tu, Claudia. Ti posso dire solo una cosa, questo sì: devi riflettere molto bene su quello che fai, perché se decidi di tenerlo, questa storia non riguarda più solo te ed Enrico. E Stefano» aggiunse poi, ripensandosi. Claudia emise un gemito e lasciò sprofondare il viso tra le mani.

L’enormità di quell’affermazione colpì Claudia come uno schiaffo. Era sul punto di rimettere quel poco che aveva mangiato a pranzo ed era abbastanza sicura che non fosse colpa della gravidanza.

«Ho vent’anni» si lasciò sfuggire, angosciata, la voce soffocata dalle mani premute contro il viso. Non aveva il coraggio di abbassarle. «Come cazzo faccio? Maledizione!» Per un attimo che durò un’eternità le parve di annegare nella disperazione.

Rosa non trovò nulla da ribattere e lasciò che tornasse il silenzio per qualche istante. Claudia si disse che probabilmente stava cercando di immaginare di trovarsi nella sua situazione, incinta a vent’anni, da sola, senza un lavoro fisso, senza aver terminato gli studi, senza certezze, senza sapere nemmeno chi fosse il padre.

«Non hai proprio idea di chi possa essere?» azzardò Rosa, dopo un po’ di tempo, come se le avesse letto nel pensiero.

Claudia alzò le spalle, togliendo bruscamente le mani dal viso. Si ritrovò a guardare di nuovo i test di gravidanza, di nuovo quella risposta spaventosa che sembrava gridarle in faccia quanto era stata stupida e imprudente e fu tentata di coprirsi nuovamente gli occhi. Invece li spostò sulla parete di un bianco sporco. «È difficile dirlo. Sono stata insieme a Enrico fino al giorno prima che io e Stefano…» Non proseguì. Si morse il labbro con forza, riflettendo, quasi assaporando il dolore che sentiva di meritare. «Forse… Secondo me è più probabile che sia di Stefano. Perché io ed Enrico siamo sempre stati attenti, abbiamo sempre preso precauzioni. Non mi spiego come sia potuto succedere. Con Stefano non sono stata attenta. Non avevo il controllo, in quel momento.» Sbuffò, asciugandosi gli occhi ancora umidi e tirando su col naso. «Sono stata una cretina. Sono una brutta persona e sono una cretina.»

Rosa la guardò male. «Basta, Claudia. Non serve a niente insultarti da sola.» Fece una piccola pausa, mentre giocherellava con il bordo sfilacciato della tappezzeria del divano. «Non è una garanzia. Voglio dire, il fatto che tu ed Enrico abbiate sempre preso precauzioni. Può capitare un errore, una distrazione, un incidente» continuò, con tono professionale da infermiera.

Claudia sollevò le sopracciglia. «E non ce ne siamo accorti?»

«Non è impossibile. Sono cose che capitano. O pensi che tutte le gravidanze siano sempre programmate?» Claudia la fissò ancora per un attimo, ma non poteva darle torto. Distolse lo sguardo, pensierosa, il cuore che le sprofondava sempre più sotto le scarpe. Non aveva idea di cosa fosse meglio, di cose dovesse augurarsi. Non riusciva neanche a riflettere con lucidità. «Magari… è più probabile che sia di Stefano, dal momento che con lui sicuramente non sei stata attenta, ma non puoi escludere che sia di Enrico» continuò Rosa. Claudia sospirò. Sapeva che la sua amica stava dicendo la verità. Era la semplice voce del buonsenso. Eppure non era convinta. Quella era la conseguenza della follia fatta con Stefano, ne era sicura, anche se non avrebbe saputo spiegare cosa la spingesse a pensarla così. «Queste sono solo chiacchiere, comunque. Niente di scientifico e affidabile» sentenziò Rosa in tono pratico. «Se vuoi avere la certezza, devi dirlo almeno a uno dei due e fare un test di paternità.»

Claudia chiuse un attimo gli occhi, cercando riparo nel buio fresco e riposante dietro le palpebre abbassate. Se avesse sentito un’altra volta la parola “test” si sarebbe messa a urlare. «Ma il bambino non è ancora nato» obiettò. E non so se nascerà mai, aggiunse in silenzio nella sua testa. «Dovrei aspettare di…» dovette costringersi a tirare fuori quella parola. «… partorire, giusto?»

Rosa scosse il capo. «Oggi si può fare un test quando la gravidanza è ancora in corso. È sicuro, anche se costa un po’. Basta che uno dei due decida di…» esitò, cercando la parola giusta, «collaborare» concluse, a disagio.

Claudia sentì una fitta di panico che le rivoltava le viscere. «Non posso dirlo a Enrico. Non ce la faccio» protestò. Sentiva di nuovo le lacrime che premevano per uscire e guardò in alto, cercando di controllarsi, anche se la voce era già più incrinata di quanto avrebbe voluto. «Non posso dargli questo dolore. Ne ha già passate tante. Lui mi ama e Stefano è suo fratello. No» scosse la testa con vigore. «Non posso coinvolgerlo.»

Rosa la studiava con un’espressione di dubbio misto a compatimento. «Claudia, potrebbe essere il padre di tuo figlio: è già coinvolto.»

«Ho detto di no.»

Rosa sospirò e cambiò posizione sul divano, appoggiandosi contro lo schienale. «Chiama Stefano, allora.»

«Certo, così corre qui e se incontra Enrico facciamo billèca»¹ rispose, sarcastica. «No. Stefano deve assolutamente restare fuori da tutto questo. Ha la sua vita lontano da qui, l’università, il suo futuro… Deve concentrarsi su quello.»

Rosa sembrava sempre più stupita. «Non li puoi lasciare fuori tutti e due, Claudia. Devi avere una risposta.»

All’improvviso Claudia non ne poté più. Si alzò in piedi di scatto, così bruscamente che per un attimo le girò la testa. «Sai che c’è? Questo bambino è mio prima che di chiunque altro. Mio e basta. C’è solo una cosa che devo fare se voglio rimediare a questo… disastro.» Prese i test di gravidanza e andò a gettarli nella spazzatura, poi scomparve nella sua stanza, ignorando lo sguardo preoccupato di Rosa che seguiva i suoi movimenti. Si infilò la giacca, prese la borsa e tornò in salotto.

«Dove vai?» si informò Rosa con cautela, ancora sul divano nella stessa posizione. La osservava come se fosse una bomba a orologeria, in procinto di scoppiare da un momento all’altro.

Claudia la guardò. «Lo sai dove sto andando» rispose con tono neutro. Uscì.

 

 

****

 

 

Salì sulla Fiat blu scuro che Enrico le aveva regalato per il diploma due anni prima, usata, ma in buone condizioni. Strinse il volante tra le mani per un attimo e chiuse gli occhi, mentre i ricordi le riempivano la mente. Le sembrava di vedere Enrico seduto al suo fianco al posto del passeggero che le faceva lezione di guida, quando doveva prendere la patente. All’inizio Claudia era così imbranata che sobbalzava su tutte le stradine sperdute nella campagna di Santo Stefano, ma poi ci aveva preso gusto e nel giro di poche settimane era diventata più brava di lui, che aveva la patente già da un anno. Tutte le sue prime volte importanti erano state con Enrico. La prima volta che aveva fatto l’amore, a diciassette anni. Quella era stata la prima volta anche per lui. La prima volta che aveva guidato la macchina. Il primo viaggio da soli, un week end a Catania, per festeggiare il diploma di lei. La prima volta che aveva dato un esame all’università e lui era stato per tutto il tempo alle sue spalle, per sostenerla. Solo il primo bacio non era stato con Enrico. Era successo con Stefano, l’ultimo giorno che lui aveva passato sull’isola, nel cortile del baglio. Ammesso che un incerto, lieve sfiorarsi delle labbra potesse essere considerato un bacio, ma quella era stata la prima volta che Claudia era stata tanto vicina a un altro essere umano.

Mise in moto con un sospiro e guidò con calma fino al baglio Falconeri. Quando parcheggiò sotto la tettoia, notò che la Volvo di Enrico (un regalo di suo padre), non c’era. Scese comunque e si diresse verso la casa. Appena entrata incontrò una cameriera, che le disse che Enrico era uscito da un’oretta per andare in paese a incontrare degli amici e non aveva detto quando sarebbe rientrato. Claudia decise di aspettarlo, ma rifiutò l’invito di prendere un caffè in salotto e andò a sedersi sulle scale della terrazza. Non sapeva se il signor Falconeri fosse in casa, ma voleva evitare di incontrarlo. Non era nello stato d’animo adatto a sostenere una conversazione normale, tanto meno con lo sguardo freddo e penetrante di Edoardo puntato addosso. Le metteva sempre un certo disagio.

Erano le cinque del pomeriggio e sebbene fosse ottobre inoltrato, lo strascico dell’estate siciliana si allungava sul principio dell’autunno, rendendo le giornate ancora luminose e calde. Per avere un cambiamento serio bisognava aspettare almeno novembre. Nessuno la disturbò, mentre se ne stava seduta sulle scale a guardare il cielo limpido. Ogni tanto qualcuno attraversava il cortile, la cuoca, che si fermò a salutarla e poi la spiò per un po’ sulla soglia della cucina e il giardiniere, che si limitò a farle un cenno da lontano mentre trasportava gli attrezzi da lavoro nella cantina. “La signorina Claudia” non si vedeva al baglio da qualche settimana e tutti sapevano che tra lei ed Enrico c’era qualcosa che non andava. Claudia era sicura che le chiacchiere, le ipotesi e le previsioni si fossero sprecate fin dall’inizio e le venne da sorridere al pensiero che quella sera, nella grande cucina di cui conosceva ancora a memoria ogni angolo dai tempi in cui ci passava interne giornate con sua nonna, avrebbero avuto nuovo materiale per spettegolare.

Non dovette aspettare molto. L’aria non aveva ancora iniziato a rinfrescarsi quando la Volvo grigio metallizzato di Enrico varcò il cancello e si fermò accanto alla sua Fiat. Sentì un tuffo al cuore mentre si chiedeva che cosa stesse pensando in quel momento, scoprendo che era venuta da lui. Enrico rimase nell’abitacolo della Volvo per qualche istante, forse rimuginando sulla cosa, poi scese senza fretta, lanciando occhiate calme intorno a sé. La sua bocca era una linea sottile e Claudia capì immediatamente che sotto l’apparente tranquillità doveva essere molto nervoso. Attraversò il cortile e quando vide Claudia, ancora seduta sulle scale, si bloccò. Dopo una brevissima esitazione, riprese a camminare e la raggiunse.

«Ciao» disse, con voce controllata.

Lei si sforzò di tirare fuori un sorriso. «Ehi.»

La fissò in silenzio per alcuni istanti, forse aspettando che lei aggiungesse qualcosa. «Stai… Aspettavi me? Perché non sei entrata in casa?»

Claudia alzò le spalle. «Mi andava di stare qui. È una bella serata.»

Enrico annuì, ma era chiaro che era sorpreso da quell’improvvisata. Anche se in quei due mesi di pausa avevano sempre mantenuto i contatti, si erano incontrati raramente e soprattutto lei non era mai piombata al baglio così all’improvviso, come faceva quando stavano insieme. Era comprensibile che lui non sapesse cosa aspettarsi.

«Sei qui da molto?» indagò, come se non sapesse bene che cosa dire. «Ero al bar con Enzo e Diego, in paese.» Fece una breve pausa. «Enzo ha una zita.»²

Claudia fece un sorriso tirato. «Ah, sì? E quanto durerà stavolta?»

«Come le altre volte: poco» rispose Enrico. Ricambiò il sorriso e per un attimo fu come se il legame che ancora li univa vibrasse tra loro, splendente di luce. Rimasero in silenzio per un po’. Claudia era leggermente nervosa e non le sembrava strano, considerando quello che era venuta a fare, ma non avvertì l’esigenza di riempirlo immediatamente. Osservò Enrico per qualche istante. L’aveva sempre meravigliata che avesse un aspetto così virile pur avendo lineamenti fini e delicati.

«Come vanno le cose? Come sta tuo padre?» chiese poi, più per prendere tempo che per riempire il silenzio. Aveva il bisogno di sentirsi perfettamente calma e padrona di sé prima di affrontare argomenti più gravi.

Lui sembrava un po’ incerto, come se le frasi banali che si stavano scambiando gli suonassero strane. Doveva aver intuito che Claudia era lì per qualcosa di importante, ma ebbe solo una piccola esitazione prima di rispondere. «Meglio. La settimana scorsa l’ho accompagnato a Palermo per il solito controllo. Hanno confermato che l’operazione è andata bene.»

«Sono contenta.»

«Non è tutto risolto, ma se pensi che eravamo preparati al peggio…» Enrico lasciò la frase in sospeso, ma non era necessario che aggiungesse altro, non con lei: Claudia sapeva quanto fosse complicato il rapporto tra Enrico e suo padre. A volte lei detestava Edoardo, ma sapeva anche cosa significasse perdere l’unica persona con la quale si avesse ancora un legame familiare.

«Tu come stai?» domandò poi Enrico, cauto, quasi timoroso di ricevere una risposta che non gli sarebbe piaciuta.

Claudia dovette riflettere prima di rispondere. In quel momento era una domanda difficile per lei, ma alla fine optò per la risposta più semplice. «Sto bene. Tutto ok» disse con voce tranquilla, eppure non riuscì a trattenere una punta di incertezza che colpì Enrico. Lui la fissò, confuso, ma non indagò oltre.

«Entriamo?» le propose. «Beviamo qualcosa, magari.»

«No, grazie, non mi va nulla. La verità è che… non sono venuta per una chiacchierata.» Claudia raddrizzò la testa e lo guardò dritto negli occhi, con la speranza che se fosse apparsa sicura e determinata, allora sarebbe stata davvero sicura e determinata e il terrore che le invadeva le viscere tutte le volte che ripensava ai tre test di gravidanza positivi allineati sul tappeto sarebbe svanito. «Ti devo dire una cosa. Una cosa importante.»

Lui la scrutava con attenzione, come alla ricerca di un indizio. Distolse gli occhi e guardò il cortile vuoto per un attimo. «Lo immaginavo. Sempre diretta, sei.» Accennò un sorriso che si spense quasi subito, poi la guardò di nuovo. «Dimmi.»

Claudia cercò di prendere un profondo respiro, di parlare con calma, ma all’improvviso fu colta dal panico e prima di bloccarsi buttò fuori le parole con forza. «Sono incinta.»

Cadde un silenzio di tomba. Per molto tempo lei udì soltanto il lieve stormire del vento tra le fronde del mandorlo e degli alberi di arance e limoni nel cortile e l’acciottolio che proveniva dalla cucina e annunciava l’inizio dei preparativi per la cena. Enrico la fissava, immobile, con espressione indecifrabile, come se avesse indossato una maschera. Claudia si impose di sostenere il suo sguardo senza neanche sbattere le palpebre. Dopo una pausa che le sembrò interminabile, finalmente lui parlò.

«Sicura sei?» chiese con un filo di voce.

«Ho fatto tre test di gravidanza.»

La maschera sul volto di Enrico si crepò e lo shock lo invase. Rimase zitto ancora per un po’, probabilmente cercando di assimilare la notizia. Claudia gli lasciò il tempo di cui aveva bisogno. Anche lei ci aveva messo una decina di minuti a realizzare che cosa significasse davvero il risultato del primo test.

«Da quanto lo sai?»

«Neanche un’ora. Ho fatto i test oggi pomeriggio. Io… lo sospettavo da un po’ di tempo, in realtà, ma… mi mancava il coraggio» confessò a bassa voce e dall’espressione sul viso di Enrico sentì che la capiva.

Il ragazzo si mosse lentamente, come se avesse le gambe pesanti, e sedette sui gradini accanto a lei. Fece un sospiro controllato, intrecciò le mani davanti a sé e le strinse. Claudia lo osservava ansiosamente. Non sembrava averla preso benissimo: era pallido, molto più del solito, e teso come la corda di un violino.

«Che cosa… Che cosa vuoi fare?» riuscì a chiederle, dopo una pausa, e lei ebbe la sensazione che avesse fatto molta fatica a tirare fuori quella domanda. Un’ottima domanda. Claudia si passò le mani sul viso.

«Non ci ho ancora pensato nel dettaglio, ma penso che… lo vorrei tenere.» Nel momento in cui quella frase le uscì dalle labbra, si rese conto di quanto fosse vero. Non che non avesse paura. Il pensiero di diventare madre a vent’anni, di stringere tra le braccia un minuscolo essere umano indifeso di cui avrebbe dovuto aver cura, una persona che sarebbe nata da lei e alla quale lei avrebbe dovuto dedicare tutta se stessa, anche sacrificando se stessa, era come affacciarsi su un baratro senza fondo. Eppure non riusciva a considerare l’alternativa. Non esisteva, un’alternativa. Più di ogni altra cosa, voleva quel bambino e tutto il resto… tutto il resto avrebbe imparato ad affrontarlo, da sola o con qualcun altro. «Sì, ne sono sicura» ribadì, annuendo. Poi guardò Enrico. «E… e tu? Voglio dire, per te va bene?» balbettò, senza sapere come formulare la domanda.

Lui continuava a fissare davanti a sé, teso e distante. Prese aria, aprì la bocca, espirò, prese aria di nuovo. Dopo qualche tentativo, riuscì a mormorare: «La decisione è tua, Claudia. È il tuo corpo.»

Lei sentì uno slancio nei suoi confronti. Rimase a guardarlo per qualche secondo, un sorriso che le nasceva pian piano sulle labbra. Aveva sempre saputo che era un ragazzo gentile, onesto, generoso, ma non aveva mai scoperto fino a che punto.

«È vero. Però è anche tuo figlio» aggiunse, dopo una breve riflessione. Ecco, era fatta. L’aveva detto. Dopo quelle parole, proseguire le parve più facile. «Hai il diritto di dire la tua.» Enrico sospirò appena, senza muoversi. Claudia era convinta che in quel momento fosse lontanissimo da lei, da lì. Chissà a cosa pensava. «Sei felice?» gli chiese a bruciapelo, sperando di scuoterlo.

Enrico esitò. «Io… non lo so. È così improvviso. Non riesco a…» Si interruppe e si passò una mano sul viso, come se per scacciare qualcosa che lo tormentava. «Scusami, non riesco a riflettere.»

Claudia annuì, seria. «Ok, tranquillo, lo capisco. È normale essere nervosi, no? Sono sotto shock anche io, e me lo aspettavo da settimane.»

«Ho paura» confessò Enrico all’improvviso, di getto, cogliendola di sorpresa.

Claudia ebbe un attimo di incertezza, poi allungò la mano e prese quella inerte e stranamente fredda di lui. Non sapeva cosa stesse facendo esattamente. Seguiva il suo istinto e basta, senza avere la minima idea di dove l’avrebbe condotta. «Anche io» mormorò. «Cazzo, sto morendo di paura.»

Le sfuggì una mezza risata isterica. Mentre guardava il cortile inondato dai raggi del sole che iniziavano a declinare verso il tramonto, le venne in mente Amelia. Non aveva mai conosciuto sua madre, morta quando lei aveva appena un anno, ma sua nonna Amelia aveva rivestito quel ruolo così bene da non farle mai sentire il vuoto. Quando ripensava ai suoi genitori, Claudia provava un vago rimpianto, più che un’autentica tristezza: il rimpianto per qualcosa che era perso per sempre e che non avrebbe mai fatto parte della sua vita. Quando pensava alla nonna, invece, era come se una voragine le si aprisse nel petto, non riusciva a respirare. Di solito cercava di allontanare i ricordi, sperando che con il passare del tempo avrebbero fatto meno male e sarebbe riuscita a riviverli con serenità. Amelia era stata il pilastro della sua vita e l’idea di essere per un altro persona quello che la nonna era stata per lei la riempiva di emozione e di terrore in ugual misura. Il pensiero di Amelia le diede forza e la spinta di cui aveva bisogno per andare avanti. Strinse forte la mano di Enrico, lo sguardo abbassato sulle loro dita intrecciate come le loro vite.

«Però ho un po’ meno paura se penso che tu sei qui con me» aggiunse a bassa voce. «E forse… credo che l’amore sia questo.»

Le sue parole scivolarono in un silenzio profondo e denso. Mentre aspettava la reazione di Enrico, Claudia si rese conto che non stava mentendo per salvare la loro storia. Non era una bugia, non del tutto, almeno. Da bambini, lei ed Enrico erano sempre stati parte di una cosa sola insieme a Stefano e dopo che lui era andato via, dopo che avevano perso un pezzo, si erano avvicinati sempre di più, stringendosi l’uno all’altra per colmare quel vuoto che si allungava tra loro. Nel tempo, Claudia aveva iniziato a sospettare che Enrico provasse qualcosa di più dell’amicizia per lei, che lo avesse sempre provato. Era un sentimento naturale, spontaneo. Faceva parte di lui, come gli occhi azzurri e il sorriso timido. Lo portava inciso in ogni espressione, ogni sguardo, ogni gesto, ogni parola. Giorno dopo giorno lei aveva ascoltato quel richiamo costante, dolce, gentile, e aveva ceduto.

«Ti ho sempre amata» le aveva bisbigliato Enrico all’orecchio, con un miscuglio di incredulità, timore e gioia, quando si erano baciati per la prima volta. Quel “sempre” le era rimasto dentro, come un solco scavato nel cuore.

Claudia sollevò gli occhi e scoprì che Enrico l’aveva osservata per tutto il tempo, silenzioso, quieto, attento come solo lui sapeva essere, e nei suoi occhi lesse la risposta che aspettava. Le parole non servivano. Di slancio gli prese il volto tra le mani, lo tirò a sé, chiuse gli occhi e lo baciò.

 

 

 

 

 

 

NOTE.
1. Un macello.
2. Fidanzata.

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Capitolo 15
*** PARTE QUARTA. Capitolo 14. Nato con loro ***


PARTE QUARTA
SICILIA, ISOLA DI SANTO STEFANO
Luglio 2015

 

 

 

 

CAPITOLO 14
NATO CON LORO

 

 

 

 

«Grazie di essere venuto a prendermi» disse Vittoria.

Lanciò un’occhiata rapida e curiosa allo zio, poi tornò a guardare fuori dal finestrino dell’auto. Era un po’ strana, quella situazione. La BMW scorreva così silenziosamente e velocemente sulla strada da sembrare ferma, se non fosse stato per la vista della campagna che scorreva via in fretta oltre il parabrezza. I vetri oscurati chiusi e l’aria condizionata in azione rendevano l’ambiente ovattato, come separato dalla realtà esterna arroventata dal sole, quasi irreale. All’inizio nessuno dei due aveva parlato, ma poi Vittoria aveva sentito il bisogno di rompere quel silenzio pesante.

«Figurati» rispose Enrico a mezza voce. Gli occhiali da sole nascondevano ancora la sua espressione e sembrava ben attento a non guardare mai in direzione della nipote.

«Sicuro che non sia stato un problema rimandare il tuo viaggio?»

Enrico cambiò la marcia con un movimento fluido e controllato e rispose dopo qualche istante. «Sicuro.»

Vittoria gli lanciò un’ultima occhiata. «Ok, bene» mormorò e non aggiunse altro per il resto del viaggio. Se a lui non andava di parlare, non voleva certo forzarlo.

Arrivati al baglio, Enrico aprì il cancello di ferro con un piccolo telecomando, parcheggiò la macchina sotto la tettoia ed entrambi scesero in silenzio. Lui ignorò la porta d’ingresso e la scortò su per le scale del ballatoio. Vittoria si accigliò mentre saliva i gradini.

«Non le chiudete mai, le portefinestre?» domandò all’improvviso, curiosa.

Enrico era così raccolto in se stesso che ci mise un attimo ad afferrare il senso della domanda. Aggrottò la fronte, sfilandosi finalmente gli occhiali da sole, ma ancora non la guardava. «D’estate no. Fa già abbastanza caldo senza chiudere tutto.»

«Ma… non avete paura che entri qualcuno?»

Lui accennò un sorriso, mentre giocherellava con i Ray-ban. «Il cancello di solito è chiuso. E poi chi dovrebbe entrare? Qui si conoscono tutti. Non c’è nessun pericolo.»

«Sembra terribile» commentò Vittoria a voce molto bassa. Il sorriso di Enrico si allargò appena, ma non disse nulla. Lei lanciò un’occhiata al pianoforte chiuso che la aspettava, come tutte le mattine. «Posso salutare Edoardo?»

«Certo. Ti accompagno.»

Chissà cosa avrebbe detto Edoardo vedendola lì da sola. Se avesse fatto qualche battuta tagliente, come accadeva spesso, avrebbe messo in difficoltà Enrico ed era l’ultima cosa che lei voleva. D’altra parte, neppure incontrare il nonno da sola era un’idea particolarmente invitante. Forse le avrebbe fornito la possibilità di fargli qualche domanda, ed era quello che desiderava, ma non poteva negare che la cosa la innervosisse un po’. Quando arrivarono in cima alle scale, al primo piano, Enrico si fermò e Vittoria capì che non avrebbe proseguito insieme a lei.

«Tu non vieni?» chiese, incerta se esserne sollevata o meno.

Enrico conservò un’espressione neutra, ma quando rispose la sua voce aveva un tono definitivo. «Ho del lavoro da fare. Ci vediamo più tardi.»

Vittoria annuì. Le parve che lui volesse dire qualcos’altro, ma forse si era sbagliata o forse lo zio ci aveva ripensato, perché continuò lungo il corridoio a sinistra, dopo averle rivolto un mezzo sorriso gentile e freddo, senza aggiungere nulla.

Vittoria fece un sospiro leggero e svoltò a destra. La porta della stanza del nonno era socchiusa, come sempre, perché da fuori la sua voce si sentisse, se Edoardo fosse stato solo e avesse chiamato. Bussò piano, poi spinse la porta ed entrò. Sapeva che lo avrebbe trovato seduto sulla sua poltrona di pelle, in terrazza, sotto l’ombrellone bianco di forma quadrata, circondato da piante e fiori profumati e da un panorama mozzafiato in tutti i toni dell’azzurro e del blu. Chissà se riusciva comunque a goderne nelle sue condizioni.

Attraversando la stanza, che a quanto le aveva detto una volta Rosalia era una delle più luminose e calde della casa, le cadde l’occhio sulla fotografia in cornice d’argento sul cassettone. Si fermò. Quella foto attirava sempre il suo sguardo, ma fino ad allora non era mai entrata in quella stanza senza suo padre che la tallonava con espressione tempestosa e non l’aveva mai osservata bene. Prese la foto con delicatezza. Era in bianco e nero e la cornice era molto più pesante e spessa di quanto avesse immaginato. Guardò verso la terrazza: Edoardo era lì, in poltrona, le spalle rivolte verso la stanza, come ogni mattina quando lei saliva a salutarlo e a scambiare le poche chiacchiere che lui riusciva a sostenere. Stava peggiorando piuttosto rapidamente. Di solito c’era sempre l’infermiera o almeno una cameriera accanto a lui, ma dovevano essersi allontanate un momento.

Vittoria abbassò di nuovo lo sguardo sulla fotografia: una ragazza con un vestito chiaro e lunghi capelli sciolti sulle spalle sedeva su uno scoglio, vicino al mare, lo sguardo timido rivolto verso l’obiettivo, le ginocchia tra le braccia e un sorriso dolce sul viso dai tratti armoniosi e delicati. Chissà chi era. Pensierosa, si rigirò la fotografia tra le mani e scoprì che sul retro, ingiallito dal tempo, qualcuno aveva scritto una data. Giugno 1974. Vittoria rifletté, ma non le diceva nulla. D’altronde, non sapeva niente della famiglia.

Rimise a posto la fotografia e uscì in terrazza. In quel momento, Edoardo fu colto da un eccesso di tosse. Sul tavolino di ferro battuto accanto alla poltrona c’erano una brocca di cristallo lavorato piena d’acqua, un bicchiere e quello che sembrava un flacone di gocce. Vittoria versò in fretta dell’acqua nel bicchiere e lo porse al nonno, che continuava a tossire con violenza, ripiegato su se stesso come se fosse sul punto di spezzarsi. Lui sollevò appena la testa, incrociando per un attimo lo sguardo spaventato di Vittoria, prese il bicchiere con una mano tremante e bevve lentamente, a piccoli sorsi. Lei rimase in piedi a osservarlo con ansia. Quando il bicchiere fu vuoto, lo riprese con delicatezza dalla mano secca e grinzosa del vecchio e aspettò. Si chiese se non fosse il caso di chiamare l’infermiera. Edoardo, però, sembrava essersi ripreso. Aveva poggiato la testa all’indietro, contro la poltrona, e respirava a fatica come sempre, ma l’attacco era passato. Guardò sua nipote e abbozzò un sorriso stanco.

«Grazie, picciridda»¹ mormorò con voce roca e debole.

«Come stai?» Vittoria rimise il bicchiere sul tavolino e sedette sulla sedia di ferro vicino alla poltrona, coordinata con il tavolino, che di solito era riservata all’infermiera.

Edoardo lasciò andare un sospiro pesante e sibilante. «Peggio di ieri… e meglio di domani.»

«Mi dispiace.»

Rimasero in silenzio per un po’. Edoardo aveva chiuso gli occhi e lei si chiese se non fosse scivolato nel sonno. Era un’altra cosa che gli capitava spesso, insieme a quegli attacchi di tosse terribile che quasi lo soffocavano e lo lasciavano stremato. Poi il nonno parlò, all’improvviso, facendola sobbalzare per la sorpresa.

«Stefano?»

Vittoria strinse tra le mani i braccioli lavorati della sedia e cercò di farsi passare lo spavento. «Uhm… Papà non c’è, oggi. Sono venuta da sola» disse, cauta. Era meglio restare sul vago. Il nonno non chiese altro, ma emise una mezza risata simile a un latrato, gli occhi ancora chiusi.

«Già scappò, eh?»

Vittoria rifletté. Non sapeva cosa fosse meglio dire e, come le capitava spesso quando parlava con Edoardo, avvertiva un senso di disagio. Anche se non lo conosceva bene, era sicura di una cosa: la sua presenza era tutto fuorché rassicurante.

«Non è contento di stare qui. Siamo venuti perché gliel’ho chiesto io… E siamo rimasti perché gliel’ho chiesto io. Volevo conoscerti.»

«Farebbe qualsiasi cosa per te» commentò Edoardo con uno strano tono. «Sarai rimasta delusa, ora che mi hai conosciuto.» Aprì gli occhi di scatto e li puntò sulla nipote. Erano fermi, profondi e azzurri come quelli dei suoi figli. Come quelli di Vittoria. «O forse no… Stefano ti avrà parlato così male di me che non ti aspettavi niente.»

Vittoria capì che la stava mettendo alla prova e che, per quanto ostentasse la solita indifferenza sardonica, la risposta che lei avrebbe dato gli interessava parecchio. Ricambiò lo sguardo acuto del nonno con decisione.

«Veramente non parliamo mai di voi. Di te ed Enrico, intendo.»

Edoardo la fissò ancora per qualche momento, poi distolse lo sguardo e lo rivolse verso il mare. Da lì sembrava vicinissimo. Vittoria aveva sempre l’impressione di poterlo toccare semplicemente allungando la mano.

«E bravo Stefano… Perché complicarsi la vita, in fondo?» mormorò il nonno con tono ironico. A lei parve che parlasse con se stesso.

«Che vuoi dire?» domandò ugualmente, curiosa.

Lui non rispose, preso dai suoi pensieri. «Loro hanno sempre pensato che fosse tutta colpa mia» disse invece, all’improvviso.

Loro? Alludeva ai suoi figli? Probabilmente sì, eppure nella sua voce non c’era la minima traccia di rimorso, dispiacere o affetto. Non era sarcastico, ma la sua voce era fredda e controllata, come se fosse una questione di scarsa importanza. E comunque che razza di risposta era?

«E lo è? È colpa tua?» insisté Vittoria a bassa voce, la fronte corrugata, scrutando il viso del nonno e cercando di capirci qualcosa. Non era affatto sicura della piega che la conversazione stava prendendo, ma era la prima occasione che aveva modo di parlare con lui in solitudine. Non poteva fare altro che seguirla e sperare che la conducesse da qualche parte.

Edoardo emise un respiro roco, breve e sibilante, che fece rabbrividire Vittoria. Quando gli era vicina, si rendeva conto davvero di quanto fosse malato. «Le persone pensano quello che vogliono pensare. Quello che li ha divisi… è nato con loro o forse anche prima di loro. Non serviva che mi mettessi in mezzo io.»

«Cosa? Cos’è stato a separarli?»

Edoardo sospirò. Doveva essere molto stanco. Abbassò un attimo le palpebre, come se fossero troppo pesanti per tenerle su. «Più di una cosa, ma quella davvero importante una sola è. Quando due fratelli si innamorano della stessa donna è così che va a finire.»

Vittoria non riuscì a dare subito un senso a quella frase, che rimase a girarle nella testa per un po’ di tempo, mentre lei cercava affannosamente di afferrarla. La stessa donna? Ma quando? Stefano ed Enrico avevano trascorso separati la maggior parte delle loro vite. Suo padre era tornato sull’isola solo una volta, quando aveva circa vent’anni, quando Edoardo aveva scoperto di essere malato, quando Stefano aveva rivisto la mamma. Fu uno schiaffo. D’istinto sollevò una mano e se la posò sulla guancia accaldata. Guardò il nonno senza vederlo, sprofondata nei suoi pensieri. Era vero? Era possibile? Edoardo mentiva? O parlava a caso, con i pesanti farmaci che gli offuscavano la mente e la malattia che gli logorava il corpo e lo spirito?

D’impulso Vittoria aprì la bocca per chiedere qualcosa senza neanche sapere che cosa, quando Edoardo ricominciò a tossire, questa volta con violenza maggiore di prima. Era un altro attacco. Si piegò su se stesso e rantolò, sforzandosi di respirare, il viso congestionato che si deformava per la sofferenza. Doveva chiamare aiuto. Qualunque altro pensiero le volò via dalla mente. Scattò in piedi, corse verso la portafinestra e per un attimo il sole la accecò e quasi andò a sbattere contro l’infermiera, che stava uscendo a passo svelto sulla terrazza: una donna sui 45 anni, un po’ in sovrappeso, con una coda di capelli biondo scuro e un semplice completo da lavoro.

«Sta male!» ansimò Vittoria, saltando bruscamente all’indietro per non intralciarla, e subito si sentì una cretina totale. Si vedeva benissimo che Edoardo stava male.

La donna gli si era avvicinata rapidamente. Lanciò uno sguardo al vecchio, prese dal tavolino il flacone delle gocce e ne versò alcune nel bicchiere, poi aggiunse dell’acqua. Non la guardò nemmeno, concentrata com’era.

«Ci penso io» disse soltanto. Vittoria ebbe un attimo di esitazione, ma in fondo a cosa sarebbe servito restare lì? Annuì, indietreggiò di un passo, senza staccare gli occhi dal nonno, che ancora annaspava piegato in due. Poi abbassò la testa e rientrò in casa.

 

 

****

 

 

Vittoria trascorse quello che restava della mattina con la testa in una specie di nebbia. Più che suonare, strimpellò distrattamente sulla tastiera del pianoforte con dei risultati così agghiaccianti che immaginò tutti gli abitanti della casa tapparsi le orecchie per l’orrore. Se la Grandi l’avesse ascoltata, avrebbe chiesto la sua immediata espulsione dal Conservatorio. Lei stessa, però, si ascoltò a malapena.

Alle undici e un quarto Rosalia le portò un vassoio con una brocca di limonata fresca fatta in casa e i soliti biscotti con mandorle e pistacchi. Vittoria la ringraziò, sedette sul divano e rimase a fissare il vassoio per un tempo indefinito. Non aveva alcuna voglia di mangiare. Non aveva mai avuto meno fame in tutta la sua vita. Desiderava soltanto capire. Enrico, però, continuava a sfuggirle e il nonno… Si alzò in piedi e prese a gironzolare irrequieta per il salotto. La sua mente era un turbine, un vortice confuso di date ed eventi che lei cercava di incastrare in un puzzle che le restituisse un’immagine dotata di senso, ma con scarsi risultati. In fondo, era poi così importante? Se anche le parole del nonno fossero state vere, doveva essere successo molto tempo prima, prima che i suoi genitori si incontrassero di nuovo e si innamorassero. Era una cosa del passato, ormai morta e sepolta.

Era così importante?

Vittoria aggrottò la fronte, fermandosi davanti a una vetrinetta per osservare il proprio riflesso alterato dalle smerigliature e dalle incisioni delicate sul vetro. No, decise all’improvviso, il fatto in sé non era poi così importante. Certo, un po’ strano lo era, non poteva negarlo, ma senza dubbio avrebbe spiegato molte cose. E lei era venuta lì proprio per quello: trovare risposte.

Pensierosa, mosse qualche altro passo nella stanza, poi quasi senza rendersene conto uscì dal salotto. Salì automaticamente le scale e in cima si fermò. Lanciò una mezza occhiata indecisa a destra, verso la camera di Edoardo. Le avevano detto che si era ripreso dall’attacco e ora stava dormendo, quindi era inutile tornare da lui. Girò a sinistra, percorse un tratto di corridoio, oltrepassando una pianta ornamentale in un elaborato vaso di terracotta e una natura morta appesa al muro, poi svoltò ancora a sinistra. Si trovò davanti una doppia porta accostata. Sapeva dove conduceva, anche se non l’aveva mai varcata. Una volta aveva sbagliato strada mentre cercava il bagno e aveva incontrato una cameriera giovane e simpatica, Antonia, che l’aveva indirizzata dalla parte giusta dopo averle spiegato che quella doppia porta conduceva nello studio di Enrico Falconeri. Lì davanti Vittoria si fermò, trattenendo un po’ il fiato quasi senza accorgersene. Sollevò la mano e bussò pianissimo, come se non fosse certa di volersi far sentire all’interno. Nessuno rispose. Spinse appena la porta ed entrò.

Dal corridoio fresco e in penombra si ritrovò immersa nella luce calda e intensa del mattino che scolpiva ogni cosa con una nitidezza accecante. Davanti a lei c’era una specie di salottino. Due divani in pelle di un bianco immacolato erano disposti a L al centro della stanza e tra essi stazionava un tavolino basso di ferro battuto con il ripiano di cristallo lucente. Lungo le pareti erano disposti mobili scuri, lucidi e pesanti, in linea con l’arredamento del resto del baglio, e una pianta rampicante saliva sulla parete nell’angolo accanto al balconcino, esattamente di fronte alla porta.

Vittoria fece qualche passo nella stanza, gettando uno sguardo veloce oltre i vetri aperti e le tende bianche: sotto c’era il cortile del baglio. Sulla destra, il salottino comunicava con lo studio vero e proprio. In precedenza, forse, c’era stata una parete divisoria, poi abbattuta per creare un unico vasto spazio. Al centro dello studio si stagliava come una regina una massiccia scrivania di mogano, la più grande che Vittoria avesse mai visto. Aveva il tipico aspetto dei mobili antichi, ma conservati con estrema cura, la superficie consunta e intaccata levigata da uno spesso strato di morbida cera. A destra della scrivania un altro balconcino affacciava sul cortile e alle sue spalle su ergeva un’imponente libreria.

Vittoria fece il giro della scrivania, stando ben attenta a camminare sul tappeto soffice per attutire il rumore dei passi, si avvicinò alla libreria per osservarla meglio. Se mai fosse caduta addosso a qualcuno lo avrebbe ridotto in poltiglia. Era carica di volumi dalle copertine rigide e scure, faldoni, schedari. Non sembrava nulla di interessante e Vittoria le girò presto le spalle. Non poteva perdere troppo tempo. Con un sospiro, si girò verso la scrivania e abbracciò l’intero ambiente con lo sguardo, accigliata. Niente. Non c’era niente. Ma in fondo cosa stava cercando, esattamente? Che ci faceva lì? Era solo uno studio. Non c’era niente di personale, lo stile della casa lo inglobava completamente. Non le diceva un bel niente di Enrico e del passato. Abbassò gli occhi sulla superficie perfettamente in ordine della scrivania, senza neppure un foglio fuori posto o una penna di traverso. Di colpo si rese conto che cercare qualcosa lì era inutile, qualunque fosse la cosa che aveva pensato di trovare.

Sei una scema, si disse, serrando i pugni. Che te ne frega?

Era meglio uscire, prima che qualcuno entrasse e la beccasse a curiosare tra le cose di Enrico. Sarebbe stato atrocemente imbarazzante. In quel momento gli occhi le caddero sull’unica cosa fuori posto in tutta la stanza. Sulla parete a sinistra, dal lato opposto al balconcino, c’era un secrétaire² e uno dei suoi minuscoli cassettini non era ben chiuso come gli altri, ma leggermente aperto, come se fosse un cassetto che veniva aperto spesso e che non ci si preoccupava di richiudere con troppa cura. Si avvicinò a passo svelto, lo aprì e sbirciò dentro il suo contenuto: un oggetto che le parve una piccola fionda, un semplice rametto d’albero con due punte e un elastico consunto dall’uso; un orologio d’oro dall’aspetto antico, fragile, che a giudicare dalle dimensioni era fatto per essere portato in una tasca; una penna stilografica profilata in argento.

Vittoria aggrottò la fronte, perplessa, studiando quel curioso assortimento di oggetti diversi al quale non riusciva a dare un senso. Forse nemmeno c’era, un senso, e lei se ne stava lì a perdere tempo guardando delle stupide, vecchie cose dimenticate lì dentro da chissà quanto tempo. Rimise a posto il cassetto senza chiuderlo del tutto, lasciandolo come lo aveva trovato, e si lanciò nel salottino. Era a pochi passi dalla doppia porta quando questa si aprì all’improvviso ed entrò Enrico. Vittoria si bloccò di colpo, come se qualcuno l’avesse afferrata e tirata con forza per un braccio, e non riuscì a impedirsi di trasalire.

«Oh, no, non di nuovo» sbottò a mezza voce, spontaneamente, e subito dopo si morse il labbro. Era la stessa identica situazione di quella mattina, solo che al posto di Alberto c’era Enrico.

Lui inarcò appena le sopracciglia, fissandola. «Come?» domandò con tono educato.

Lei scosse la testa. «Ehm… No, niente» borbottò precipitosamente, poi tacque di botto, incapace di trovare una scusa accettabile per spiegare come mai stesse curiosando lì dentro. Si maledisse in silenzio. Come le era venuto in mente di ficcarsi in quella situazione? Che figuraccia.

Enrico non disse nulla. Indossava ancora il completo di lino beige e la camicia bianca di quando era venuta a prenderla e sembrava pronto per un servizio di moda estiva. A Vittoria sembrava che suo padre e suo zio avessero poco in comune, ma una cosa sicuramente c’era: un’eleganza spontanea, quasi distratta, nel vestire. Pensò a Edoardo, al suo aspetto sempre impeccabile nonostante fosse nella fase terminale di una malattia lunga e dolorosa. Si domandò se non avessero ereditato entrambi quella caratteristica da lui, o se forse non l’avessero assorbita inconsapevolmente quando lo osservavano da bambini.

«Posso fare qualcosa per te?» le chiese Enrico, con il solito tono cortese e distaccato. Non la guardava negli occhi, ma fissava un punto appena dietro la sua testa. Vittoria represse l’impulso insensato di voltarsi per vedere cosa catturava la sua attenzione.

«No… grazie. Ero salita per sapere come sta Edoardo, ma poi mi sono ricordata che sta dormendo e così…» Annaspò, ma non le veniva in mente nessuna motivazione ragionevole. Alla fine si arrese. «Ho pensato di fare un giro» confessò, le spalle che si afflosciavano appena. Era la cosa più vicina alla verità che fosse riuscita a pensare.

Lui, però, non sembrò perplesso o infastidito. Si limitò ad annuire, lanciando un’occhiata allo studio, come se stesse valutando la stanza per capire cosa ci trovasse lei. Per un folle attimo a Vittoria scappò da ridere e dovette lottare per trattenersi. «Capisco. Fai pure. Anche se dubito che qui dentro ci sia qualcosa di interessante per te. A meno che tu non abbia una segreta passione per i dati sulla produzione vinicola di Santo Stefano dal 1950 a oggi.»

Questa volta Vittoria lasciò uscire un sorriso liberatorio. «In realtà sono più interessata a quella prima del 1950.»

Lo zio la osservò per un attimo, poi anche le sue labbra si incurvarono appena. «Quella la conserviamo giù in cantina, mi dispiace» le rispose a tono e Vittoria fece una risatina nervosa. Le parve che un lampo sottile scorresse tra loro, rapidissimo, per poi spegnersi di colpo. «Se vuoi un libro ti consiglio di guardare in biblioteca.»

Vittoria sgranò gli occhi. «Avete una biblioteca?» Quello era troppo anche per i Falconeri.

«Sì. Non hai fatto un giro della casa quando sei arrivata?» Vittoria scosse il capo. Lui la guardò in silenzio per un secondo, negli occhi, questa volta. «Vuoi farlo adesso?»

«Possiamo?»

«Certo.»

«Non hai da fare?»

Lui stava già aprendo la doppia porta, poi si fece da parte per lasciarla passare. «Non preoccuparti.»

 

 

****

 

 

Il baglio era anche più grande di quanto Vittoria avesse immaginato. Lo zio le mostrò la biblioteca, che occupava un ambiente pari al salotto del primo piano, una stanza attrezzata per la ginnastica con tapis-roulant, pesi, panche per gli addominali e un punching ball, quattro camere per gli ospiti immacolate che profumavano come stanze di un albergo di lusso, un solarium con ombrellone, tavoli e sdraio affacciato sul mare, un salottino interamente occupato da una collezione di porcellane cinesi che (ne era sicura) avrebbe fatto la gioia di sua madre («Era una passione di mia nonna. La madre di Edoardo» le spiegò Enrico), bagni con appliques di cristallo alle pareti e pile di soffici asciugamani sulle superfici di marmo. Tramite le scale di servizio interne diedero anche un’occhiata alla cucina. Lungo la strada incontrarono Rosalia, che inarcò le sopracciglia vedendo quella strana coppia, ma si limitò a fare un cenno con la testa e ad allontanarsi senza commenti.

Vittoria osservò tutto con attenzione e curiosità. Era molto diverso da casa sua. L’appartamento in cui viveva con i genitori a Milano, in centro, era pieno di mobili moderni e opere d’arte contemporanea che sua madre adorava. Era quello il suo campo di specializzazione. Ci aveva anche scritto sopra la sua tesi di dottorato. A Vittoria piaceva casa sua, ma trovava il baglio più affascinante. Quello era un lusso antico, con una lunga storia alle spalle, e quella storia era la storia della sua famiglia, di tutte le persone che, una dopo l’altra, un matrimonio dopo l’altro, avevano portato fino alla sua nascita. Quel pensiero la colpì allora per la prima volta, con forza. Era sempre stata abituata a pensare di essere senza radici, come i suoi genitori, o meglio, che le sue radici non andassero più in profondità di quelle che avevano impiantato i suoi quando avevano lasciato Santo Stefano per cambiare vita. Aveva creduto che il suo mondo iniziasse e finisse con loro. Gironzolando per le stanze del baglio, il naso all’insù per guardare i soffitti dipinti a motivi naturali, capì che in realtà non era così. C’era qualcosa di emozionante nello sfiorare con un dito un panciuto vaso Ming bianco a fiori blu e pensare che in qualche modo quell’oggetto era anche parte di lei.

Camminavano per lo più in silenzio. Enrico la guidava, apriva la porta di una stanza, le dava qualche breve informazione e aspettava tranquillo che lei facesse un giro, poi la lasciava uscire per prima, richiudeva la porta e passavano alla stanza successiva. Vittoria gli lanciava ogni tanto un’occhiata curiosa di soppiatto che lui non notava o che forse fingeva di non notare. Era un po’ delusa: stava scoprendo la casa, ma lui restava un enigma.

Quando due fratelli si innamorano della stessa donna…

La frase di Edoardo non smetteva di ronzarle nella testa.

L’ultima tappa della visita furono le cantine, una lunga fila di stanzoni dal soffitto a volta a cui si accedeva dal cortile, tramite una porticina di ferro. Strutture di legno alte fino al soffitto ospitavano un numero indefinito di bottiglie di vino. File ordinate di botti antiche così grandi che Vittoria sarebbe riuscita a infilarci tutto il suo guardaroba, comprese le scarpe, e forse anche i trucchi, erano affiancate da attrezzi e macchinari dall’aspetto vissuto di cui non capì la funzione. Lo zio le disse che avevano tutti a che fare con i vecchi metodi di produzione del vino e che ormai non erano più utilizzati, ma avevano un valore storico. Aggiunse poi che lì sotto c’era solo una parte della produzione Falconeri. Il lavoro vero e proprio non si svolgeva al baglio, ma nella cantina, non molto distante da lì. Dopo un attimo di esitazione, aggiunse che se lei fosse stata curiosa di vederla, una volta l’avrebbe portata a visitarla.

«Grazie del giro. Mi è piaciuto» disse Vittoria. Erano ancora nelle cantine, al centro di una di quelle enormi stanze in cui risuonava un’eco che, insieme all’umidità, al fresco e alla penombra, faceva pensare a una grotta nel profondo di una montagna. Diede un’ultima occhiata intorno a sé, poi si voltò per uscire e lo zio, che le stava accanto con le mani nelle tasche, la seguì. «Questa casa sembra un museo.»

«Alcuni bagli lo sono diventati, in Sicilia. Oppure si sono trasformati in bed and breakfast o ristoranti di lusso. Edoardo non avrebbe mai permesso una cosa del genere qui, nella casa che i Falconeri abitano da generazioni.» A Vittoria sembrò di cogliere un velo di sarcasmo nelle sue parole, ma quando lo fissò la sua espressione era distaccata come sempre. «Il primo nucleo del baglio risale alla fine del Seicento. Fino ad allora la famiglia aveva vissuto in una palazzina in paese che poi crollò durante un terremoto.»

Rimasero in silenzio mentre raggiungevano la porticina di ferro. Enrico la fece passare per prima anche questa volta, poi richiuse la porta alle loro spalle con uno sferragliare pesante. Vittoria sbatté gli occhi e si mise una mano sulla fronte, cercando di riabituarsi alla luce accecante del sole.

«Va tutto bene?» Si voltò e vide che Enrico la stava osservando, una mano ancora sulla maniglia della porta. «Mi sembravi un po’ strana, prima.»

Vittoria fece un sorriso debole. Certo che doveva essergli sembrata un po’ strana: l’aveva sorpresa a curiosare nel suo studio. «Sì, è che… ero con Edoardo quando è stato male. È stato brutto» mormorò. «Non ho mai visto nessuno così.»

«Mi dispiace. Queste crisi stanno diventando più frequenti.»

Si avviarono insieme nel cortile, camminando lentamente e senza una meta precisa. Un paio di grosse api gli svolazzarono intorno per un po’, ronzando, prima di dirigersi verso i fiori in una delle aiuole. Vittoria inspirò l’aria calda e profumata e si sentì bene, rilassata e serena come raramente le capitava quando era al baglio.

«Sai» disse Enrico all’improvviso, «quando ho una brutta giornata di solito faccio due cose: prendo la barca e vado a nuotare al largo oppure vado da Calogero.» Sollevò il polso sinistro e gettò un’occhiata all’orologio luccicante sotto il sole. «Considerando l’ora, direi che è meglio optare per Calogero.»

«Chi è Calogero?»

Enrico sorrise in quel suo modo discreto e chinò la testa, come per nascondere la sua espressione prima che lei potesse leggervi la risposta. «Lo vedrai.»

«Ma tu… non vai più dai tuoi amici? L’Associazione Vini Siciliani?»

«Un’altra volta.»

Vittoria inarcò le sopracciglia. «L’incontro è saltato?»

Il sorriso di Enrico si allargò. «Qualcosa del genere. Andiamo.»

 

 

 

 

 

 

 

NOTE.

1. Piccolina.

2. Mobile antico in uso nel Settecento e nell’Ottocento, composto da cassetti, nicchie e un piano ribaltabile.

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Capitolo 16
*** Capitolo 15. Un affare complicato ***


CAPITOLO 15
UN AFFARE COMPLICATO

 

 

 
Sicilia, Isola di Santo Stefano
Luglio 2015

 

 

 
Calogero si rivelò essere un ristorante sulla spiaggia. Da un lato affacciava sulla litoranea che costeggiava il mare e serpeggiava intorno all’isola abbracciandone l’intero perimetro, dall’altro su una breve striscia di sabbia e sassi. Era l’unica spiaggia di Santo Stefano che Vittoria aveva visto fino ad allora che non fosse completamente rocciosa. Il ristorante era una struttura di legno bassa, su un solo piano, dipinta di un giallo e un azzurro allegri e intensi. Dava l’impressione di essere un posto semplice, ma quella vicinanza al mare lo rendeva spettacolare. Dalla strada Enrico condusse la sua BMW nel parcheggio adiacente al ristorante, sotto una tettoia che proteggeva le auto dal sole cocente.
«È il miglior ristorante di pesce di tutta l’isola. E anche fuori da Santo Stefano. Ho provato tanti posti, ma Calogero unico è» spiegò Enrico. Spense piano il motore.
Vittoria aprì la portiera, un po’ esitante. Un ristorante di pesce? E adesso cosa avrebbe dovuto fare? Valutò in fretta le sue possibilità e scoprì che ce n’era soltanto una. Non voleva rovinare quel pranzo per niente al mondo, ma non poteva neanche nascondere il cibo nel tovagliolo e gettarlo via. Si morse il labbro per un attimo.
«Wow. È molto bello. Non vedo l’ora di assaggiare il suo… menù vegetariano.» Forse avrebbe potuto trovare un modo migliore per dirlo, ma ormai era fatta.
Enrico si bloccò mentre scendeva dalla macchina, metà dentro e metà fuori, una mano ancora sul volante e l’altra sulla portiera spalancata. La fissò. Non sembrava arrabbiato o seccato. La sua espressione, mezza nascosta dagli immancabili Rayban, era difficile da leggere. Vittoria gli fece un sorriso tenue di scuse e intanto desiderava che l’asfalto bollente del parcheggio si aprisse all’istante e la inghiottisse. Aveva rovinato tutto. Era andata così bene fino a quel momento. Lui ci mise qualche istante a riordinare le idee e quando parlò la sua voce suonò incolore.
«Avrei dovuto chiedertelo.»
Lei fece un gesto noncurante con la mano. «Non c’è problema. Avranno un’insalata, no?»
«Hanno un menù vegetariano» rispose lo zio, chiudendo la portiera. Si incamminarono verso l’ingresso. «Calogero è un tradizionalista, per quanto riguarda la cucina. È stato suo nonno, un altro Calogero, a creare questo posto. Ma si è adeguato ai tempi.» Parlava a testa bassa, senza incrociare lo sguardo di Vittoria. Lei si chiese se ci fosse rimasto così male. Non le sembrava tanto grave, eppure era cambiato qualcosa nell’aria, tra di loro. «Da quanto sei vegetariana?» le domandò lui all’improvviso, dopo una pausa.
«Da quando avevo nove anni e uno dei miei insegnanti ha fatto vedere alla classe un video sugli allevamenti di animali intensivi» spiegò Vittoria, mentre salivano due gradini e varcavano l’ingresso del ristorante. Sulla porta a due battenti di legno bianco stazionava l’insegna “Da Calogero”, una scritta gialla su sfondo azzurro. Più avanti un’altra porta, a vetri smerigliati, dava accesso alla sala.
Enrico contorse il viso in una smorfia. «Non mi sembra una grande idea.»
«Non lo è sembrata neanche a molti genitori» fu il neutro commento di Vittoria. Dopo aver visto il documentario, non aveva dormito per settimane, tormentata dalle immagini sanguinarie e violente. Ebbe la sensazione che lo zio stesse per scoppiare a ridere, poi qualcuno si avvicinò a passo svelto.
«Dottor Falconeri, qua siete! Che piacere! Buongiorno!»
Era un uomo tra i sessanta e i settanta, che aveva parlato con un accento siciliano anche più pesante di quello di Edoardo, come se masticasse e storcesse le parole nella bocca. Era basso, con la pancia prominente sotto il grembiule bianco legato in vita e un’espressione gioviale negli occhi scuri, sotto un ciuffo di capelli sale e pepe.
Enrico gli sorrise. «Buongiorno, Calogero. Come stai?»
«Non c’è male, dottore, non c’è male! Un po’ di sticchiara,¹ ma non ci possiamo lamentare.»
Enrico ebbe un momento di esitazione, poi accennò con la testa verso Vittoria. «Ti presento mia nipote, Vittoria.»
Il vecchio fece una faccia buffa, come se avesse mancato un gradino scendendo le scale e all’improvviso si fosse trovato il vuoto sotto i piedi. Sarebbe stato meno sorpreso se Enrico avesse detto che era un’aliena appena arrivata da Marte. Vittoria represse una mezza risata, abbassando lo sguardo, ma al tempo stesso un velo di fredda inquietudine le sfiorò la schiena. La sua famiglia era un affare complicato anche per gli altri e lei non ne sapeva praticamente nulla. Si domandò se andare al baglio da sola, parlare con lo zio, essere qui da sola con lui non fosse tutto un gigantesco errore.
«Un onore è, signorina» la salutò Calogero, riprendendosi in fretta. Le sorrise e accennò un inchino scherzoso. «Il solito tavolo, dottore?»
«Sì, grazie.»
«Accomodatevi, prego.»
Li guidò attraverso la sala, piena di tavoli di legno bianco rivestiti da tovaglie di carta svolazzanti bianche e blu, quasi tutti occupati. Le pareti erano decorate da disegni a colori vivaci e, guardando meglio, Vittoria capì che rappresentano la vita sottomarina: coralli, alghe ondeggianti, pesci di varie forme, colori e dimensioni e perfino una grotta debolmente illuminata da un fascio di luce che proveniva dalla superficie dell’acqua. Erano bellissimi. Si sarebbe fermata volentieri a osservarli meglio, ma Calogero si muoveva con una rapidità e un’agilità sorprendenti, schivando i tavoli e i camerieri di passaggio come in una corsa a ostacoli, e fu costretta ad affrettarsi. Varcarono una porta finestra e uscirono su una terrazza che affacciava direttamente sulla spiaggia. Era coperta da una tettoia e circondata da una bassa ringhiera gialla nella quale si apriva un cancelletto. Da lì, dopo pochi gradini, si scendeva sulla sabbia. La distesa di mare e cielo davanti a loro mozzava il fiato. Calogero li scortò a un tavolo per due in un angolo piacevolmente ventilato. Sollevò i bicchieri messi a rovescio sulla tovaglia con un unico movimento fluido.
«Vi raggiungo subito» disse, prima di allontanarsi con la stessa velocità.
Vittoria sedette lentamente, senza smettere di guardarsi intorno. «Che posto» mormorò, più a se stessa che allo zio. Le venne in mente lo struggente romanticismo che quella terrazza avrebbe avuto al tramonto, con il suono dolce delle onde, il profumo di salsedine e la brezza carezzevole sul volto.
«Sono contento che ti piaccia» rispose Enrico.
Vittoria fu colpita all’improvviso da un’idea. «Allora… Tu… Vieni qui con la tua fidanzata?» chiese e subito dopo fu tentata di insultarsi da sola per quella goffaggine. Non sapeva nulla della vita privata di Enrico. Non si era mai azzardata a fare domande ai suoi genitori su un argomento così bizzarro, ma la conversazione di quella mattina con il nonno e quell’idea assurda che le aveva suggerito (Quando due fratelli si innamorano della stessa donna…) le aveva fatto venire voglia di indagare. Lui si sarebbe offeso per una tale mancanza di discrezione? In fondo si conoscevano a stento, lei non aveva alcun diritto di impicciarsi. Sentì le guance andare a fuoco e fissò la tovaglia, cercando di apparire normale.
Enrico si era sollevato gli occhiali da sole sulla testa, finalmente. La guardò con aria sorpresa, ma non sembrava irritato. «Fidanzata? Chi te lo ha detto?» Prese il menù, che era sul tavolo in mezzo a loro, e glielo porse con uno dei suoi soliti gesti misurati. Sembrava sempre che non volesse occupare più spazio del necessario o attirare l’attenzione. «Tieni. A me non serve, lo conosco a memoria.»
Vittoria afferrò il cartoncino e lo fissò senza vedere niente. «Ehm… Non lo so, devo averlo sentito… Forse da qualcuno al baglio» balbettò. Meglio restare sul generico.
«Non c’è nessuna fidanzata, al momento. E comunque, di solito vengo qui da solo.»
«Ah.» Vittoria strinse il menù tra le dita. Per un folle attimo pensò di chiedergli spiegazioni su quello che le aveva detto Edoardo. Immaginò l’espressione che avrebbe visto sul viso di Enrico, le balbettanti spiegazioni che lei avrebbe cercato di tirare fuori, l’imbarazzo che si sarebbe aperto tra loro come una voragine e avrebbe inghiottito qualsiasi possibilità di stabilire un contatto, creare un legame, ricucire il filo spezzato. Non avrebbe fatto altro che danneggiare irrimediabilmente la situazione. Era troppo presto. Meglio aspettare e forse, prima o poi, l’occasione sarebbe arrivata. Batté precipitosamente in ritirata. «Scusami, io… Non sono affari miei.»
La postura di Enrico era rigida, ma le sorrise e Vittoria capì che non era infastidito. «Non c’è problema. Non ti preoccupare.»
Furono salvati da Calogero, che scelse il momento perfetto per raggiungerli brandendo un piccolo blocco per appunti e una matita. A quanto pareva, non si era ancora adeguato ai tempi abbastanza da prendere nota delle ordinazioni su un tablet.
«Pronti siete? Se permettete, oggi consiglio i calamari ripieni. Li fece mia moglie» proclamò con orgoglio. Vittoria gli sorrise.
«Lascio fare a te. Mi fido» rispose Enrico e il vecchio quasi si gonfiò come un palloncino pronto a balzare in volo.
«Benissimo, dottore! Anche per voi, signorina? Vi garantisco che sono talmente freschi che fanno svegliare pure i morti, con rispetto parlando.»
Il sorriso di Vittoria si trasformò in una mezza risata nervosa mentre lanciava un’occhiata divertita a Enrico. «Meno male che sono viva, allora, perché dovrò accontentarmi del menù vegetariano.»
Calogero ci rimase un po’ male. Si voltò verso Enrico, in cerca di conferma, e lo zio alzò appena le spalle, la bocca distesa in un sorriso. Anche stavolta il vecchio si riprese immediatamente.
«Non vi preoccupate, signorina, la nostra pasta alla norma è la migliore di tutta la Sicilia.»
«Confermo» disse Enrico a bassa voce, l’ombra del sorriso ancora sul volto. Allungò la mano e strinse delicatamente lo stelo del bicchiere da vino tra le dita. «L’ho provata.»
Il proprietario del ristorante chinò leggermente la testa, raggiante. «È un onore, dottore. Vi faccio anche una bella caponatina che non vi farà rimpiangere i calamari, promesso, signorina.» Calogero prese nota delle ordinazioni e si allontanò dopo aver concluso con deferenza: «Vi servo subito.»
Vittoria lo seguì con gli occhi. Al tavolo scese un breve silenzio e stava già pensando a come romperlo prima che annegassero entrambi nell’imbarazzo, quando lo zio parlò, cogliendola di sorpresa.
«Sei sveglia.»
Si voltò e si accorse che la stava osservando. Ci mise un attimo a capire che era un complimento. «Grazie» mormorò con un sorriso incerto.
Enrico si mosse sulla sedia, cambiando posizione. «Ti starai annoiando un bel po’, qui. Tutto il giorno al baglio, senza nessuno della tua età, sempre a suonare il pianoforte.»
«Io vivo per il pianoforte.»
Arrivò una ragazza minuta e sorridente con una brocca d’acqua e una bottiglia di Falconeri bianco. Restarono in silenzio mentre lei riempiva i bicchieri.
«Ti piace così tanto?» continuò Enrico, dopo che la cameriera se ne fu andata.
Vittoria bevve un sorso d’acqua (a lei la cameriera non aveva versato il vino) e annuì. «Ho iniziato a cinque anni. Mamma e papà hanno capito che non scherzavo vedendo che suonavo i mobili di casa come se avessero una tastiera.» Enrico accennò un sorriso tirato. «A nove anni sono entrata al conservatorio. Non ho mai smesso di suonare, neanche a Londra.»
Lui inarcò le sopracciglia. «Londra?» ripeté, la sorpresa evidente sul suo viso.
«Sì… Due anni fa siamo stati a Londra per sei mesi, non lo sapevi?» chiese Vittoria di getto e subito dopo si rese conto che era una domanda sciocca. Era molto improbabile che Enrico sapesse qualcosa di loro al di là delle informazioni più basilari. La rispettiva ignoranza sulle loro esistenze sembrava l’unico legame che li unisse al momento. Lui non mostrò alcuna reazione particolare, limitandosi a scuotere la testa. Vittoria gli raccontò brevemente di Londra. Mentre parlava, aveva la sensazione che lo zio fosse distratto: i suoi occhi azzurri fissavano il mare, ma sembravano vuoti, spenti, come se non vedessero nulla. Tuttavia, quando finì di spiegare Enrico spostò lo sguardo su di lei e Vittoria capì che invece aveva ascoltato ogni singola parola.
«Deve essere stato difficile per te. Andare a Londra, voglio dire. Insomma, anche se solo per sei mesi, mi sembra un grosso cambiamento per una ragazzina.» Aveva parlato con una strana gravità, come se discutessero di questioni di enorme importanza.
Vittoria rifletté per qualche secondo e intanto mandò giù un sorso d’acqua. Le domande dello zio non le davano fastidio: aveva modi delicati, anche se forse un po’ freddi, che sembravano attenuare qualsiasi cosa dicesse o facesse. Tuttavia, non era sicura di aver voglia di affrontare l’argomento a cui si stavano avvicinando. Era una cosa molto personale, che riguardava strettamente lei e i suoi genitori, soltanto loro tre, come era sempre stato. Probabilmente Stefano e Claudia non avrebbero voluto che lei ne parlasse con Enrico, dal momento che non c’era più alcuna confidenza tra loro, eppure neanche l’idea di mentirgli le piaceva. Se davvero voleva tentare di costruire un ponte tra loro non avrebbe fatto meglio a essere onesta? Deglutì nervosamente.
«Be’.... Mamma voleva andare con papà, ma ovviamente non potevano lasciarmi a Milano da sola» rispose piano, ancora incerta su cosa fare. Decise di lasciarsi guidare dall’istinto del momento e di smettere di pensare. «E poi… è capitato in un momento in cui… forse ne avevamo bisogno.»
Esitò un attimo ed era sul punto di raccontare tutto, ma poi, all’improvviso, qualcosa nell’atmosfera e nell’espressione di Enrico cambiò. Si raddrizzò sulla sedia, distanziandosi appena da Vittoria, prese il suo bicchiere di vino e tornò a guardare verso il mare. Si era allontanato di nuovo.
«Che cosa ti piacerebbe fare da grande? La concertista?» chiese in tono leggero, dopo una pausa. Quel repentino cambio di argomento la stupì. Mentre lo osservava, capì in qualche modo che Enrico doveva aver percepito il suo disagio e aveva smesso di fare domande per non metterla in difficoltà. Un caldo senso di gratitudine le riempì il cuore. Sorrise.
«Magari. Non so se ne sarò in grado. Mi piacerebbe anche solo insegnare musica» rispose Vittoria, quasi senza badare a ciò che diceva. Era ancora impegnata a riflettere sul comportamento gentile dello zio. Prima che potesse aggiungere altro, Calogero si avvicinò al tavolo con i loro piatti e per qualche minuto fu troppo impegnata con la sua pasta alla norma, che emanava un profumo celestiale, per continuare la conversazione. Dopo il secondo boccone, decise che Calogero poteva rivaleggiare senza problemi con il suo ristorante preferito del momento a Milano, dove aveva festeggiato il suo ultimo compleanno con le amiche. Mandò giù, si pulì la bocca con il tovagliolo e disse con voce solenne: «Ho fatto decisamente bene a venire in Sicilia.»
Enrico aveva piluccato un boccone dal suo piatto con scarso entusiasmo, come se non avesse alcuna voglia di mangiare. «Altrimenti ti saresti persa Calogero» mormorò, leggermente divertito.
«Altrimenti non avrei conosciuto te. E Edoardo.»
Enrico tornò serio lentamente. Bevve un altro sorso di vino, abbandonano i calamari ripieni che non aveva quasi toccato, poi riabbassò il calice, ma invece di metterlo giù lo agitò piano in senso circolare, osservandolo. Aveva quella sua espressione accuratamente neutra che faceva pensare a una spessa passata di vernice bianca su una parete colorata, come per nascondere qualcosa. Vittoria pensò per la prima volta che forse stava iniziando a conoscerlo.
«Edoardo non è una persona facile» rispose lo zio a bassa voce.
«No, è vero. Me ne sono accorta. Però volevo sapere com’era. È per questo che sono venuta. Non so niente di voi, non so niente di… E poi pensavo…» Vittoria abbassò le mani in grembo e strinse automaticamente tra le dita il tovagliolo di stoffa azzurro che aveva disteso sulle gambe. Inspirò. «Speravo che papà… che tu e lui… che magari potreste riavvicinarvi» concluse con un filo di voce, quasi come se sperasse che le sue parole si disperdessero nell’aria calda senza arrivare allo zio. Non era affatto sicura di come lui avrebbe potuto prenderla. «Con Edoardo forse è troppo tardi, ormai.» Tenne lo sguardo fisso sul suo piatto, decorato con arabeschi bianchi su sfondo azzurro. Non aveva il coraggio di sbirciare la reazione di Enrico. Dall’altra parte del tavolo arrivava un silenzio assoluto. «Scusa» sbottò. «Magari non ti va di parlarne.»
«Perché pensi questo?» le chiese lui, tranquillo.
Lei non poté più resistere e lo guardò. Enrico continuava a muovere la forchetta nel piatto quasi intatto, lo sguardo assente. «Papà non ne parla. Mai. E neanche mamma. È che io… Non so com’è avere un fratello, ma non credo che tutta questa situazione tra voi sia giusta» disse, quasi senza prendere fiato, e la facilità con cui la verità era scivolata fuori la sorprese. Nonostante la difficoltà dell’argomento e il fatto che fossero due estranei, parlare con lui le sembrava stranamente semplice, forse per via del suo modo di fare gentile e discreto. Qualsiasi disagio provasse, svaniva pian piano quando lo fissava negli occhi. Si sentiva in qualche modo al sicuro, a differenza dei momenti che passava con il nonno, nei quali aveva sempre la sensazione di camminare sul filo del rasoio.
«Forse lo avrai, prima o poi. Un fratello o una sorella.»
Quel commento la sconcertò per qualche istante. Ecco che lo zio si allontanava di nuovo, come se cercasse di evitare la curva pericolosa di una strada. Vittoria abbassò di nuovo lo sguardo sul suo piatto.
«È molto difficile che succeda.» Prese un respiro profondo e parlò di getto, con la sensazione di lasciar andare un peso. «Mamma ha avuto due aborti spontanei.»
Gli occhi di lui saettarono in direzione di Vittoria. «Davvero?» chiese, la voce bassissima.
Vittoria annuì. Sfiorò il suo bicchiere d’acqua, seguendone il bordo con il dito. «La prima volta che è successo avevo sette anni. È stata dura, ma poi si è ripresa. Dopo un po’ ci hanno riprovato, ma è andata male di nuovo. Ed è stato peggio della prima volta. Un anno dopo, più o meno, papà è stato assunto alla Prescott e ha iniziato a parlare dei sei mesi che avrebbe dovuto passare a Londra. È anche per questo che io e mamma siamo andate con lui. Avevamo bisogno di… non so… qualcosa» concluse, incapace di definire con chiarezza l’atmosfera che riempiva la loro casa in quel periodo, lo sguardo triste e assente di sua madre, la frustrazione nascosta di suo padre, il senso di vuoto che era rimasto addosso a tutti e tre e sembrava non dover passare mai.
All’inizio Vittoria aveva creduto che i suoi genitori ci avrebbero riprovato una terza volta, perché desideravano un altro figlio più di qualsiasi altra cosa, ma poi, con il tempo, aveva capito che probabilmente non sarebbe mai successo e insieme al dispiacere non aveva potuto fare a meno di avvertire anche un po’ di colpevole sollievo. Un terzo fallimento sarebbe stato così tremendo che lei non poteva neppure immaginarlo.
«Londra è arrivata al momento giusto» aggiunse poi con un’alzata di spalle. «Ha fatto bene a tutti.»
Enrico rimase in silenzio per un po’, gli occhi agganciati a quelli di Vittoria. «Mi dispiace» mormorò. «Non lo sapevo.»
«Magari era destino che andasse così. E forse era destino anche che tu e papà vi allontanaste.»
Un sorriso affilato tagliò in due il volto dello zio. «Non ne ho idea, Vittoria. Sono l’ultima persona al mondo che può esprimere pareri sul senso della vita e cose del genere. Io non so niente.»
Vittoria lo fissò, un po’ interdetta dall’amarezza che sentiva nella sua voce. Rimase in silenzio per qualche istante. «Be’, io ne so meno di te» mormorò, incerta. In quel momento il telefono nella sua tasca vibrò. Lo tirò fuori, sbirciò il display e sentì un tuffo al cuore: era suo padre.
«Scusami, devo rispondere» borbottò. Schizzò in piedi, passò in fretta tra i tavoli schivando un cameriere di passaggio carico di piatti sporchi. Raggiunse il cancelletto che dava sulla spiaggia. Sta’ calma. Non rovinare tutto, si disse nervosamente, augurandosi di essere abbastanza lontano perché Enrico non la sentisse. Inspirò mentre scorreva il dito sul display, poi si portò il telefono all’orecchio.
«Papà?»
«Amore, ciao!» Dai rumori in sottofondo, Vittoria capì che suo padre doveva essere in strada. «Tutto bene? Cosa c’è che non va?»
Vittoria chiuse un attimo gli occhi. Se n’era accorto in due secondi netti. Avevano appena battuto un record. A volte apprezzava che suo padre fosse così attento da riuscire a capire cosa le passava per la testa semplicemente con uno sguardo o dal suo tono di voce, come in quel momento: le risparmiava qualche fastidiosa spiegazione. Altre volte lo detestava, perché la faceva sentire come se non esistesse un posto in cui avrebbe potuto nascondersi.
«Niente, perché?»
«Hai una voce strana.»
«No, è tutto ok» rispose Vittoria, sforzandosi di accennare un sorriso. Era rivolta verso il mare e sentiva lo sguardo di Enrico sulla schiena, ma non si girò. Era sicura che avesse capito che era al telefono con suo padre. «Sono in spiaggia, alla Cala Saracena.»
«Brava, piccola. E mamma dov’è?» disse Stefano, ora leggermente distratto. Forse stava attraversando la strada, perché il suono di clacson in sottofondo si era fatto più intenso.
«A casa con Rosa. Stanno dipingendo una stanza o qualcosa del genere.»
Le parve di sentirlo sorridere. Lo immaginò mentre camminava per le strade affollate di milanesi e di turisti, con il solito passo svelto e sicuro che dava l’impressione di poter superare qualsiasi ostacolo, addosso un completo impeccabile nonostante il caldo asfissiante, il solito zainetto di Armani sulla spalla e il cellulare all’orecchio, l’espressione costantemente concentrata, come se non spegnesse mai il cervello. Era lontanissimo da lei e da quella tranquilla terrazza sulla spiaggia.
«Sempre la stessa, mamma. Sai, ho pranzato da SvelToast.»
«Ah, sì, quello che fa un toast in tre minuti» esclamò Vittoria. Era un locale minuscolo, con più clienti di quanti potesse contenerne e un grosso cronometro sul bancone che misurava il tempo. Allo scadere esatto dei tre minuti previsti, e a volte anche un po’ prima, il tizio dietro il bancone ci batteva una mano sopra e con l’altra porgeva al cliente di turno un toast fragrante e delizioso. Lo avevano scoperto per caso durante un giro di shopping natalizio ed era diventato subito uno dei loro posti preferiti.
«Proprio lui. Ho visto che hanno ancora quel toast che ti piace tanto, quello con formaggio e olio al tartufo, però il mese prossimo cambia tutto il menù. Dobbiamo tornarci prima che lo tolgano.»
Vittoria emise un verso di disappunto, ma ascoltava suo padre solo a metà. Per il resto continuava a pensare a Enrico alle sue spalle e batteva un piede per terra, ansiosa di chiudere la telefonata il prima possibile. Temeva che più avesse parlato, più sarebbe aumentato il rischio di farsi scoprire in qualche modo. Visualizzò la faccia che avrebbe fatto Stefano se avesse saputo dov’era lei in quel momento e con chi e al pensiero provò una piccola ondata di nausea. «Ah, davvero? Peccato… Sicuro, ci torniamo.»
Ci fu una breve pausa, poi, dato che Vittoria non aggiungeva altro, suo padre riprese a parlare. «Spero che non ti annoierai troppo in questi giorni.»
Lei scosse la testa, senza riuscire a trattenere un sorriso che per fortuna lui non poteva vedere. «No, tranquillo. Mi sono trovata qualcosa da fare.»
«Ottimo» commentò Stefano e questa volta Vittoria fu sicura che l’avesse ascoltata a malapena. «Devo andare. Ci sentiamo stasera.»
Il sorriso di Vittoria si allargò per il sollievo. «Ok. Ciao, papà, buona giornata.»
«Ciao, piccola.»
Chiuse la chiamata, quasi euforica. Ce l’aveva fatta. Il suo segreto era al sicuro, almeno per ora. Era piuttosto sorpresa di essersela cavata così bene. Di solito non raccontava bugie ai suoi genitori, in parte perché le sue richieste erano quasi sempre ragionevoli e non riceveva mai un diniego, in parte perché Claudia e Stefano preferivano sempre parlare con lei e trovare un punto d’incontro piuttosto che scegliere la strada autoritaria. Solo quando faceva domande su Santo Stefano e sul loro passato tiravano fuori quella irritante, irragionevole fermezza. Si sentiva un po’ in colpa per avergli mentito, ma in fondo non le sembrava una bugia così grave: non faceva nulla di pericoloso o illegale, stava semplicemente pranzando con lo zio. E i suoi genitori non giudicavano lucidamente quella faccenda, erano troppo prevenuti.
Si girò e tornò al tavolo con passo svelto ed energico. Sorrise a Enrico mentre si sedeva di nuovo al suo posto. «Scusa» esclamò, allegra, ma poi incrociò lo sguardo di lui e il sorriso si congelò. Capì all’istante, seppure con una certa confusione, che era cambiato qualcosa.
«Tranquilla» rispose Enrico. Incrociò le mani di fronte a sé, all’altezza del mento, e la fissò. «Cosa vorresti sapere?»

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE.
1. Vago malessere causato da un abbassamento della pressione sanguigna.

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