Incastrato: tra sangue e amore

di vegeta4e
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 20: *** Capitolo XX ***
Capitolo 21: *** Capitolo XXI ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXII ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXIII ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIV ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXV ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXVI ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVII ***
Capitolo 28: *** Capitolo XXVIII ***
Capitolo 29: *** Capitolo XXIX ***
Capitolo 30: *** Capitolo XXX ***
Capitolo 31: *** Capitolo XXXI ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Capitolo I

Quando Mac Taylor scese dal suv il suo orologio segnava le 11:13 PM, e scrollando il polso per risistemare le maglie del bracciale, il detective avanzò a passo svelto lungo il vialetto privato del palazzo che aveva di fronte per raggiungere Flack e Stella.
- Buonasera. - Si annunciò. - Vedete cosa succede quando torno a casa a orari normali? Ci richiamano di notte. Che cosa abbiamo qui? - Si fermò davanti al corpo di un uomo sdraiato prono e con un gesto secco infilò i guanti di lattice. Gli altri due già impegnati a studiare la scena del crimine.
Flack allargò le braccia - Già… Fai una cosa: rimani in ufficio domani. -
- Maschio bianco, 35 anni. Gli hanno sparato davanti al portone del palazzo in cui abitava. - Stella li riportò con i piedi per terra. - Un unico colpo dietro la nuca, come un’esecuzione. Il suo nome è Michael Price. Aveva il portafoglio con i documenti nella tasca dei pantaloni. Dentro c’erano un centinaio di dollari e la carta di credito. -
- Escluderei un tentativo di rapina. - 
Mac fissò il corpo a terra, alzando poi gli occhi sul portone. Notò che l’uomo era rivolto verso la porta. - Stava entrando. Se gli hanno sparato da dietro, il sangue dovrebbe essere andato ai lati e indietro, verso l'assassino. - Prese la torcia e, imitato da Flack, iniziò a illuminare le tracce di sangue. Notarono entrambi le siepi, che decoravano il vialetto, macchiate di rosso.
- Probabilmente l’aggressore si è sporcato. I colpi a bruciapelo lasciano schizzi piccoli e veloci. - Continuò il detective.
- Quindi ipoteticamente dovrebbero esserci tracce nella sua auto, se l’ha usata. - Intervenne Stella.
- Sì, se non l’ha ripulita. - Mac tornò a guardare il cadavere. - Portiamolo al laboratorio e recintiamo la zona. Tu sei libero, Flack. A me e Stella tocca il lavoraccio ora. -
- Dio grazie! Ho proprio bisogno di una doccia calda e del mio letto. Ci vediamo domani, ragazzi. -
- Vai al diavolo! - Rispose prontamente Stella. Mac le sorrise divertito, abbassandosi accanto a lei mentre Flack saliva in auto.
- Mettiamoci al lavoro. Prima iniziamo e prima finiamo. - Lei annuì senza aggiungere altro ed entrambi iniziarono ad ispezionare in silenzio il corpo della vittima. Stella ogni tanto gli lanciava occhiate furtive. Sapeva che Mac non stava passando un buon periodo, ma tra il lavoro e il resto non era mai riuscita a ritagliarsi cinque minuti per parlargli.
- … L’hai più sentita? - Non c’era bisogno di specificare chi, sapevano entrambi a chi si stesse riferendo.
- Mh? - Mac, però, non colse subito dove volesse andare a parare, troppo concentrato a trovare dettagli sul corpo dell’uomo davanti a lui.
- … Peyton. -
- No. - Si affrettò a rispondere. D’altronde lei era stata molto chiara e lui non aveva la minima intenzione di scadere in comportamenti così ridicoli come chiamarla al telefono per supplicarla. In compenso, però, l'insonnia era peggiorata. Spesso si ritrovava fino alle 3 del mattino nel suo letto a fissare il soffitto in attesa di avere qualche ora di riposo. A volte, invece, coglieva l'occasione per andare a correre di notte e scaricare lo stress. A quell'ora New York era molto meno caotica e lui trovava rilassante tenersi in forma senza avere troppa gente intorno.
- Dovresti distrarti un po’. - Continuò Stella cercando residui sotto le unghie.
- Questo non è distrarsi? Ho trovato un capello. - Rispose Mac alzando il pelo stretto in una pinzetta.
Stella sorrise ancora, porgendogli poi una bustina di plastica. - Oltre al lavoro. -
Mac prese la busta, poi con attenzione infilò il pelo nel contenitore, pronto per essere analizzato da Danny.
- Io mi distraggo così. Tengo la testa più occupata se penso a rimettere insieme i pezzi di un caso piuttosto che al bar a non fare nulla. -
- Non bisogna per forza andare al bar, ci sono tante altre cose per distrarsi: un cinema, il luna park, un museo, una cena insieme… -
Mac sorrise di nuovo, puntando la torcia sul corpo sperando di individuare altri indizi. - Se non ti conoscessi abbastanza penserei che tu ci stia provando con me. -
Stella sventolò una mano come a scacciare un pensiero sciocco. - Possibile che voi maschi alfa vediate sempre in una cena la prospettiva del sesso? - Poi passò il fascio di luce sui capelli dell’uomo, ma non trovò nulla di interessante.
- Ho detto provare, non saltare a conclusioni affrettate. Tu bruci gli step. E non sono un maschio alfa. - Precisò, poi sorrise ancora, divertito da quella conversazione surreale.
- Scommetto che non ti dispiacerebbe. -
- Sinceramente non mi interessa arrivare subito a quello. - Scostò gli occhi dal palmo destro della vittima per posarli su Stella, vedendola sorridere a labbra chiuse, mentre in lontananza i rumori di New York facevano da sottofondo.
- Menomale. Almeno ho un amico decente che fa ancora le cose gradualmente. Hai ragione, non sei alfa ma sei un maschio, e tanto basta. -
Mac alzò un sopracciglio, poi rapidamente spostò la torcia dal corpo per puntarla sul viso della collega.
- Cosa sono questi stereotipi? Ti credevo diversa. -
Stella chiuse gli occhi, portandosi una mano davanti al volto per ripararsi dalla luce. - Ti prendo in giro, ogni tanto ci prendo gusto. - Arricciò il naso in un’espressione tipica che era solita fare.
- Mh. Farò finta di crederti. - Il detective le tolse la torcia dagli occhi ripuntandola sulle scarpe della vittima.
- Dovresti, detective. Mi conosci. Ecco il proiettile! - A quelle parole, Mac alzò subito la testa.
- Quello finisce subito in laboratorio. - 
- Cosa ho vinto? -
- Una pacca sulla spalla e un “brava”. -
Stella si rialzò puntando le mani sulle ginocchia. - Speravo mi offrissi la cena, ma mi accontenterò. -
Mac la imitò, alzandosi anche lui e posando le prove che aveva raccolto da quella prima analisi della scena del crimine.
- Se proprio vuoi… Se non c’è altro possiamo andare, vorrei attendere i risultati dell’autopsia e del laboratorio. Eventualmente ritorneremo qua domani. -
Lei annuì. - Va bene. E per quanto riguarda la cena? Facciamo domani sera? - Sorrise togliendosi i guanti. Poi scattò ancora un paio di foto al cadavere.
Mac, sorridendo di rimando, sfilò il primo dalla mano destra. - Va bene, domani sera. - Sfilò anche il secondo.
Una folata di vento gelido scombinò i capelli di lei, costringendola a stringersi nel cappotto. - Perfetto. Conosco un posto dove si mangia benissimo e non si spende molto. -
Mac chiuse il bottone del proprio cappotto per ripararsi dal freddo. - Strano, avrei giurato che avresti scelto un ristorante stellato. Dammi anche le tue prove, le porto io in laboratorio. Tu vai a riposarti. -
Stella gli porse i sacchetti fingendosi offesa. - Ed io che pensavo di farti un favore! Buonanotte, Mac. -
- Buonanotte, Stella. A domani. - Si sorrisero, e presi i suoi sacchetti, Mac la guardò allontanarsi pensando che fosse fortunato ad avere un’amica come lei: sempre disponibile per gli altri e brava nel suo lavoro.
Quando Stella uscì dal suo campo visivo fece una rapida telefonata agli addetti per prendere il corpo e portarlo al laboratorio, e una volta lasciate le prove in ufficio, prese un taxi per tornare a casa. L’orologio segnava l’1:00 AM.
A vederla dal finestrino, New York sembrava così tranquilla, silenziosa, accogliente. Le strade erano ancora un po’ bagnate dopo la pioggia del giorno prima e nessuno, vedendola così, avrebbe mai detto che in realtà, dietro ogni angolo poteva nascondersi il peggiore degli assassini. Invece, per quanto fosse bella ed elegante, New York aveva una doppia faccia che lui combatteva ogni giorno.
La frenata lo destò dai suoi pensieri, quindi pagò l’uomo e scese a pochi passi dal suo appartamento. I lampioni illuminavano il marciapiede con una luce fioca, ma intravide comunque nell’ombra una figura in piedi di fronte alla sua porta. Incuriosito proseguì a passo sicuro verso casa, quando la vicinanza tra lui e lo sconosciuto rivelò a Mac l’identità di chi aveva di fronte.
- … Peyton? Che ci fai qui? - Non riuscì a staccarle gli occhi di dosso. Era sempre bellissima nonostante fosse visibilmente infreddolita. Il cuore accelerò di poco, ma il detective era sempre stato bravo a nascondere i suoi sentimenti.
Lei si strinse nel cappotto. Doveva essere lì già da un bel po’. - Ciao, Mac… - Inspirò sperando di darsi forza. Rivederlo si era rivelato più complicato di quanto avesse previsto nonostante fosse passato un anno dal loro viaggio a Londra.
- Possiamo parlare dentro o preferisci qui fuori? -
Lui inchiodò il passo a un metro da lei. Le mani nelle tasche del cappotto per ripararle dal freddo, lo sguardo severo, forse un po' triste, come al solito.
- Qui fuori andrà benissimo. -
Peyton non rispose subito. Si morse l’interno del labbro inferiore non sapendo come gestire la freddezza dell’uomo.
- Ho deciso di tornare a vivere qui. -
- Bene. Auguri. - Fece per superarla e salire il primo scalino. Si sentì uno stronzo nel parlarle così, ma il dolore era ancora troppo fresco per comportarsi come migliori amici.
- … Ѐ tutto quello che hai da dire? -
Mac inchiodò di nuovo, ormai accanto a lei, voltandosi poi verso sinistra per guardarla negli occhi.
- Cos’è che vuoi, Peyton? Il posto al laboratorio? -
- Sì. -
Del vento gelido scombinò i capelli a lei e arrossò leggermente le guance a lui, che si rese conto di aver stretto il pugno destro nella tasca della giacca.
- Bene. Valuterò la tua proposta. Dopotutto siamo dei professionisti che riescono a lavorare senza lasciarsi condizionare dalla vita privata, non è così? Sono parole tue. -
- … E non solo quello. - Azzardò ignorando la risposta lapidaria di Taylor.
- Sono stanco. Ho lavorato fino a un quarto d’ora fa. Lascia il curriculum sulla mia scrivania, tanto sai dov’è. -
- Mac… Mi dispiace. - Sentì gli occhi pungere e rimase a guardarlo. Non capiva se stesse per scoppiare a piangere o se il vento freddo stesse giocando a suo sfavore, ma lui era lì, di fronte a lei, immobile e in silenzio. Incapace di dire qualcosa ma al contempo curioso di ascoltare, visto che non gli era stato concesso.
- Non c’è giustificazione per quello che ho fatto, e non la voglio. Ritornare a casa mi ha fatto uno strano effetto, forse a te non succederebbe se tornassi a Chicago, ma a me sì. Poi… Poi ho rivisto la mia famiglia e… ho avuto nostalgia. Ma questo non poteva e non doveva bloccare anche te lì. Non potevo chiederti di restare per me, quindi ho preso la decisione più giusta, ma l’ho fatto nel modo peggiore. -
Mac distolse lo sguardo e si voltò altrove, guardandosi intorno come a capacitarsi che quello non fosse uno scherzo o un sogno di cattivo gusto, ma la vera, pura e cruda realtà.
- Cosa speri che ti dica, mh? -
- Che potremmo darci una seconda possibilità. - A lui sfuggì una risata nervosa, creando una piccola nuvola di vapore a causa del freddo. Poi tornò a guardarla.
- Fammi capire. Mi mandi una lettera in cui mi dici di non chiamarti, mi dici addio senza neanche guardarmi negli occhi e poi torni qua pretendendo che sia tutto cancellato? - Mac trattenne la rabbia, ma nonostante questo, verso la fine della frase il tono della voce si alzò leggermente.
Lei scosse il capo - No!... Non ti ho mai chiesto di dimenticare, ti sto chiedendo scusa e sto ammettendo i miei errori, ma cosa potevo fare? Non ho avuto il coraggio di dirtelo di persona. Sei partito con me convinto di andare in vacanza e dopo non sono riuscita a dirti che poi saresti tornato a New York da solo. Ho avuto paura. Credevo… Credevo di rivolere la vita che avevo là. La mia città, la mia famiglia. Ho lavorato a Londra in questo periodo, ma mi mancava qualcosa. E non parlo di New York o dei colleghi, perché anche lì ho lavorato con persone competenti, ma non era abbastanza. Ho bisogno di te, Mac, e sono pronta a dimostrartelo in ogni modo. -
Per un attimo Taylor fu tentato di perdonarla. Sarebbe stato stupido negare che gli fosse mancata, ma da qualche parte, nel profondo, il suo orgoglio gli impedì di farlo.
- Sono stanco, Peyton. Ho la sveglia tra cinque ore. -
Lei sentì gli occhi riempirsi di lacrime e diede fondo a tutto l’autocontrollo di cui era capace per non crollare di fronte a lui. A Mac non sfuggì, così come non sfuggì il labbro che tremò leggermente non appena iniziò a parlare.
- Va bene. Buonanotte, allora. -
Si sentì terribilmente stupida, desiderando di sparire all’istante. Senza aggiungere altro andò via, lasciando Mac Taylor libero di entrare in casa con addosso un enorme senso di angoscia.
Quando finalmente sembrava essere riuscito a trovare un suo equilibrio, quando si era convinto di essere riuscito a dimenticare quella parentesi della sua vita lei tornava lì, a bussare alla sua porta implorando di perdonarla. Inutile dire che quella notte dormì poco e male, ma nonostante questo fu il primo a varcare la porta del laboratorio per prendere posto alla scrivania del suo ufficio.
Ma si sbagliava, qualcun altro era già stato lì. Dopo aver appeso la giacca ed essersi seduto, trovò sul ripiano il curriculum di Peyton. Perfettamente dritto e già girato nella sua direzione, pronto per essere letto. Sorrise appena. La sua era stata più che altro una provocazione, non credeva di ritrovarsi sul serio il documento da dover visionare.
Sospirò. Avrebbe affrontato più tardi la situazione in cui lui stesso si era cacciato, quindi prese il curriculum e lo posò di lato.

 

To be continued...

Spazio autore:
Salve a tutti! Mi ripresento dopo anni (troppi) in questo fandom nella speranza che non sia totalmente disabitato, ma questo lo noterò tra qualche giorno in base a come andrà la ff, suppongo.
Comunque! Ho terminato da poco il rewatch potente di CSI:NY (iniziato un paio di mesi fa) e mi è tornata la nostalgia di scrivere su questa serie. L'ho amata da subito, ma purtroppo con gli anni l'ho persa, complice anche il fatto che non riuscissi a stare al passo con la programmazione in TV.
Come si sarà facilmente intuito dal primo capitolo, sì: faccio parte del "team" Peyton. Non vogliatemene, so che la maggior parte non la sopporta (e non capisco perché, è così tenera!), ma io li trovo bellissimi insieme e penso che la chimica che c'era tra loro, Mac non l'abbia più trovata in nessuna donna.
No, neanche in Christine. Solo con Claire, ma sappiamo tutti com'è andata a finire. 
Che dire... Ci saranno molti passaggi introspettivi che andranno ad approfondire il rapporto tra i personaggi, e non solamente scene relative ai casi, indagini, interrogatori e via dicendo. Questa è una cosa che ho sofferto parecchio guardando la serie. Avrei voluto vedere molto di più di quello che ci è stato mostrato, ed è un peccato che non abbiano sfruttato i personaggi di CSI:NY a dovere, perché psicologicamente li ho trovati tutti ben fatti e con tratti definiti.
Quindi l'ho fatto io! Mi sembrava giusto avvisare, nel caso qualcuno si aspetti solamente discorsi scientifici o analisi in laboratorio.
Ci saranno entrambe le cose, ovviamente. Si tratta pur sempre di CSI.
Uh, ultima cosa: gli aggiornamenti saranno il venerdì e il lunedì, non so ancora se di mattina o sera.
Non mi dilungo oltre, ho già scritto fin troppo! Grazie in anticipo a chi dedicherà del tempo a leggere!

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Capitolo II

Neanche un minuto dopo qualcuno bussò alla porta. Dando per scontato che fosse Stella, rispose subito. - Avanti. Stella, ho ripensato alle prove di ieri e… -
- Ciao. - Peyton si affacciò da dietro la vetrata per poi entrare e richiudersi delicatamente la porta alle spalle. - Allora? Sono a bordo? -
- … Non ho ancora avuto modo di leggerlo. Il caso ha la priorità. -
Peyton annuì, consapevole che quello che diceva Mac fosse giusto. - D’accordo, ti lascio lavorare tranquillo. A più tardi, allora. - Non fece in tempo a far richiudere la porta che entrò Stella.
- Mac? - L’uomo alzò lo sguardo ancora una volta trovandosi davanti un bicchiere pieno di caffè. Sorrise istintivamente.
- Grazie. - Stella fece per dire qualcosa, ma l’occhio le cadde sul curriculum a lato della scrivania del suo capo, con la foto di Peyton in bella vista. - Hai dato un’occhiata alle prove? -
La voce di Taylor la riportò alla realtà. - Ehm, sì. Un colpo sparato a distanza ravvicinata. -
Mac la fissò convinto che lo stesse prendendo in giro. - Questo lo abbiamo scoperto stanotte. Qualcosa che non sapessimo già? - Lei lanciò un’altra occhiata al curriculum, dettaglio che non sfuggì a Taylor.
- Beh, aveva otto figli, tutti di donne diverse, tranne i primi due. Il portafoglio è pieno di istantanee. -
Mac sgranò gli occhi. - Otto figli?! -
- Già, aveva un bel po’ da spendere in alimenti. -
- Immagino. Avanti, parla. - La anticipò riferendosi a Peyton. - So che vuoi commentare, hai fissato quel curriculum due volte nel giro di mezzo minuto. -
Stella non si fece pregare. - Che ti ha detto? - Domandò alzando un sopracciglio.
Mac si lasciò andare all’indietro, appoggiandosi allo schienale della sedia. - Si è scusata. E vuole tornare qui a lavorare. -
- Che faccia tosta! -
A Taylor sfuggì un sorriso, incrociando poi le braccia al petto. - Vi siete incrociate poco fa. Lei usciva e tu entravi. Conoscendoti sei morta dalla voglia di dirle qualcosa. Perché non l’hai fatto? -
Lei alzò le spalle. - Volevo prima sapere cosa ti avesse detto. Cosa pensi di fare? Intendi riassumerla? -
Mac espirò pesantemente, lanciando un’occhiata al soffitto per poi farlo ricadere sulla scrivania. Le braccia ancora incrociate. - … Non lo so, Stella. Dovrei essere imparziale e non mischiare privato e lavoro. Indubbiamente è brava, se rifiutassi sarei condizionato. -
- Può sempre andare da un’altra parte. - Suggerì Stella.
- Ma lei ha fatto domanda qua. -
Stella sorrise - E tu invitala a fare domanda altrove, no? -
Sorrise anche lui, scuotendo leggermente la testa. - Addirittura. Non sarebbe un atteggiamento molto professionale da parte mia. Dimostrerebbe che non sono imparziale. Sai quanto ci tengo che vita privata e lavoro non sconfinino. -
Lei annuì. - Sì, però forse questo aspetto dovevi considerarlo prima di accettare una relazione con una collega. - Lui rimase in silenzio non sapendo cosa dire. - Non sto dicendo che hai sbagliato. Se sentivi che fosse la cosa giusta da fare, hai fatto bene a buttarti. Però… Questo è l’altro lato della medaglia. -
- Hai ragione. Mi prenderò del tempo per pensarci su. Nel frattempo mi aiuti col caso? -
Senza aggiungere altro Stella prese posto sulla sedia di fronte a lui, dando poi un sorso al proprio caffè bollente. Mac la imitò, bevendone un po’ di quello che gli aveva portato lei.
- Hai già contattato le sette compagne? - Domandò lui.
- Se ne sta occupando Flack. Non oso immaginare gli interrogatori, preparati psicologicamente a grida e pianti. -
Mac fece una smorfia, esternando i suoi dubbi. - Non credo, sai? Secondo me una di loro potrebbe essere l’assassino. Sei sicura che pagasse gli alimenti a tutte? Potrebbe essere un movente. -
- Per legge lo dovrebbe fare, ma dovremmo parlare con loro. -
Mac si staccò dallo schienale, appoggiandosi alla scrivania con entrambi i gomiti. - Sì ma… Il mantenimento di un figlio si aggira intorno ai 700$. Moltiplicato per otto siamo su un totale di 5600$ al mese. Poteva permetterselo secondo te? -
- A giudicare dall’appartamento in cui viveva, non mi è sembrato un tipo ricco. -
Taylor si alzò dalla sedia prendendo il bicchiere di caffè. - Torniamo sulla scena per vedere si ci è sfuggito qualcosa? -
- Andiamo. - Dopo aver afferrato la giacca, Mac le lanciò le chiavi della macchina.
Il tragitto proseguì piuttosto silenzioso. Mentre Stella guidava, lui non riusciva a non pensare al curriculum ancora sulla sua scrivania. Mac sapeva già quale fosse la cosa giusta da fare. Sapeva perfettamente che avrebbe dovuto riassumere Peyton per non farle un torto ingiustamente, ma la domanda era un’altra. Lui sarebbe stato in grado di vederla tutti i giorni? Di lavorare con lei in modo distaccato senza farsi coinvolgere? Sarebbe stato in grado di non cedere alle scuse di lei? Sarebbe stato abbastanza forte da non portare all’interno del laboratorio i problemi che aveva al di fuori? Non lo sapeva. Per questo indugiava sulla risposta da darle, aveva terribilmente paura di fallire dopo mezza giornata. Mac Taylor era molto bravo a gestire le proprie emozioni, sapeva come comportarsi in ogni tipo di circostanza, eppure di fronte a questa temeva di non esserne all’altezza. Con Peyton era stato diverso. Lei era stata la prima donna a cui si fosse interessato dopo Claire, aveva fatto un salto nel vuoto che mai avrebbe pensato di fare. Eppure per lei aveva deciso di buttarsi. Le aveva dato fiducia. Una fiducia enorme, e l’idea di dargliela di nuovo lo terrorizzava.
- Eccoci arrivati. - Stella frenò posteggiando vicino al nastro giallo che gli uomini di Flack avevano messo la sera prima. - Stavo pensando che potremmo salire in casa sua già che ci siamo. - Aggiunse lei.
Mac annuì, anticipandola nel passare sotto il nastro giallo che delimitava il cortile del palazzo. Una volta dentro l’appartamento i due iniziarono a guardarsi intorno, illuminando con attenzione ogni minimo particolare con la torcia.
- Qui non risulta niente, tu hai trovato niente, Mac? -
- No. Sembrava un tipo a posto. -
- Già. A parte il non tenerlo nei pantaloni. - Guardò la scrivania, piena di scontrini accartocciati e qualche spicciolo lasciato lì.
- Ѐ un problema di molti. - Sorrise Mac mentre osservava il tavolino del salotto. Esclusi qualche lattina di birra e residui di patatine, non sembrava esserci qualcosa di anomalo.
- I profilattici no eh? -
Mac ripose la torcia nella tasca della giacca. - A quanto pare non piacciono molto. Qui non c’è niente, io direi di tornare giù per dare ancora un’occhiata alla scena del crimine di giorno. -
Lei annuì e una volta scesi, Stella si limitò a fare qualche altra foto sfruttando la luce del sole. Non trovarono altri dettagli, magari sfuggiti per la stanchezza o per il buio.
- Non noto altro, Mac. -
- Torniamo al laboratorio, non ci resta che parlare con le donne. -
Saliti nuovamente in macchina, Mac si mise al volante per distrarsi e non arrovellarsi il cervello come all’andata. Una volta tornati in ufficio, Taylor andò a parlare con Hawkes.
- Ciao, Mac! Ti aspettavo. -
- Ciao. Causa della morte? -
Hawkes ruotò delicatamente la testa dell’uomo - Un unico colpo alla nuca, sparato a circa un metro di distanza. La morte è stata istantanea ed è avvenuta tra le 8:30 e le 9:30 PM. -
Mac annuì, sapeva già la causa della morte, ma la conferma dell’autopsia era comunque importante. - Altro che devo sapere? -
- Aveva da poco fatto sesso, al massimo venti minuti prima. -
- Mh. Questo è un problema. Il nostro amico aveva otto figli da sette donne diverse, con un mantenimento approssimativo di 5600$ al mese. Plausibilmente ha visto una di loro, se non addirittura una nuova, e sempre plausibilmente una delle altre può averlo ucciso. -
Hawkes fischiò ammirato. - C'era del DNA femminile sui suoi boxer. Ho estratto un campione, fallo analizzare e vediamo se combacia con il DNA di una di queste donne. -
Mac sorrise. - Era quello che volevo sentire. -
- Non vi resta che convocare queste gentili signorine. -
- Se ne sta occupando Flack. Ti tengo aggiornato. -
Taylor uscì a passo svelto tornando in laboratorio, dove trovò Danny già occupato ad analizzare le prove che aveva raccolto quella notte con Stella.
- Ciao, Danny. Hawkes ha trovato del DNA femminile sul corpo della vittima. Serve che lo analizzi per poi confrontarlo con le ex compagne. -
- Ciao, va bene, faccio subito. -
Taylor non fece in tempo ad uscire dalla stanza che Flack lo bloccò in preda al panico - Mac! Preparati perché stanno arrivando sette donne disperate! -
- Chi viene con me a fare l’interrogatorio? -
Da dietro Flack apparve Stella - Io, forse la presenza di una donna potrebbe rassicurarle. -
Mac annuì guardandola. - D’accordo. Fate accomodare la prima. -
Flack fece un cenno d’assenso - Va bene, buona fortuna. -
Taylor e Bonasera entrarono per primi nella sala interrogatori. Era uno stanzino buio e spoglio, piuttosto intimidatorio, con al centro solo un tavolo e quattro sedie. Una piccola finestra faceva entrare una debole luce che illuminava il pulviscolo nell’aria e uno specchio orizzontale, che dava sul profilo dei fortunati seduti al tavolo, era l’unico addobbo presente. Per i più avvezzi era palese che quello non fosse uno specchio, ma un vetro che permetteva a chi stava dietro, nello stanzino adiacente, di vedere ogni cosa e sentire tutta la conversazione.
La prima donna fece capolino alla porta. Aveva circa quarant’anni e dei capelli castani ricci. Con sguardo triste prese posto di fronte ai due detective, soffiandosi poi il naso.
- Lei è la Signora…? - Domandò Mac.
- Kirsten. Kirsten Flanagan. Ditemi che non è vero! Il mio Michael! - Si soffiò ancora il naso.
- Mi dispiace Signora Flanagan. Lei ha idea di chi possa avergli fatto del male? Se potesse avere problemi con qualcuno? -
Lei scosse la testa, gli occhi arrossati e lucidi - Aveva un debole per le donne. Non gli importava se fossero sposate o fidanzate, quello che voleva, prendeva. -
Lui e Stella si scambiarono un’occhiata, quindi la donna continuò - Siamo stati sposati per due anni. Abbiamo avuto una bambina che adesso ha 15 anni e dopo due anni un’altra che ora ne ha 13. Non ha mai accettato la nostra separazione, ma lui purtroppo nel giro di poco tempo mi ha tradita con un’altra. -
- Le pagava gli alimenti? - Chiese Taylor.
- Sì… Sì, certo. Io però lavoro. Sono una consulente in un’azienda di profumi, quindi non gli chiedevo molto. Giusto 200$ al mese. -
Mac si segnò la cifra su un foglietto di carta. - Capisco. Lei è a conoscenza del fatto che Michael avesse altri figli? -
A quelle parole, Kirsten impallidì. - Altri figli? Quali altri figli?! -
Vedendola scossa, Stella intervenne. - Ascolti. Ci risulta che suo marito abbia concepito altri sei figli con altre sei donne. -
La donna si passò il fazzoletto sulla fronte imperlata di sudore freddo - Mi sento male… Lui non mi ha mai parlato di questi bambini neanche dopo la separazione, lo giuro! -
Mac annuì. - Quand’è stata l’ultima volta che lo ha visto? -
- Circa un mese fa, quando è venuto a salutare le ragazze. -
- Capisco. Dovrei prelevarle un campione di DNA. Apra la bocca per favore. - La donna non oppose resistenza e aprì di poco le labbra, permettendo a Stella di bagnare il tampone con la saliva nell’interno della guancia sinistra. Poi Stella richiuse il tampone, riponendolo in una bustina.
- Grazie. Può andare, Signora Flanagan. Rimanga in città in caso dovessimo ricontattarla. - La donna annuì, poi lasciò la stanza ancora sotto shock.

To be continued...

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Capitolo III

Passò un’ora e mezza prima che terminassero con l’ultima donna, ed esausti, i tre detective si riunirono nella stanza degli interrogatori per tirare le somme.
La prima a parlare fu Stella.
- Ricapitolando! Quest’uomo ha otto figli, la più grande di 15 anni, il più piccolo di 13 mesi. Ѐ stato sposato solo con la donna con cui ha la figlia più grande, le altre sono tutte amanti. Però nessuna sapeva delle altre. Come diavolo ha fatto? - Guardò gli altri due come a chiedere supporto.
- Era separato, non era tenuto a dire il suo passato a tutte. La cifra del mantenimento si è abbassata a 2800$. Sempre che nessuna delle donne abbia mentito sulla cifra che ricevevano. - Aggiunse Mac - Uno stipendio medio si aggira sui 3000$, per riuscire a vivere doveva guadagnarne altrettanti. -
Flack allargò le braccia - Andava a letto a destra e a sinistra! Cosa vuoi di più? -
Stella lo fulminò con lo sguardo. - Non è l’atto in sé, ma il dopo! Esistono i profilattici, e sarebbe ora che voi uomini ve lo metteste in testa! -
Mac Taylor alzò le mani in segno di difesa - Questa volta sono costretto a darle ragione. -
Flack cambiò prontamente discorso. - Da quel che mi è parso di capire lui era un semplice impiegato di ufficio. Dove trovava tutti quei soldi? -
- In casa non c’erano tracce di droga, quindi escludo lo spaccio. - Precisò Mac.
Don alzò le sopracciglia - Bisognerebbe capire se aveva un secondo lavoro. -
- Non risulta. - rispose Taylor - Se aveva veramente un secondo lavoro lo pagavano in nero. Oppure guadagnava in modo illegale ma che non abbia a che fare con la droga. -
- E che diavolo faceva, si prostituiva? - Rise Flack per sdrammatizzare.

- Lo sai che non è divertente, sì? - Stella lo riprese, ma una lampadina nella testa di Mac si accese alle parole di Don.
- Però il gigolò spiegherebbe i figli! -
Flack ghignò verso Stella. - Visto? Miss non è divertente? La prostituzione sarebbe illegale! -
- Non per l’illegalità, ma come ha fatto a trovare così tante partner senza essere aiutato da un ambiente che lo avrebbe favorito? - Chiese Mac.
Stella fece una smorfia contrariata. - Quelle donne non mi sono sembrate tipe da andare a gigolò… Non credete che l’avrebbero detto? -
Mac alzò le spalle - Forse si vergognano. In questo siete diverse dagli uomini. -
- E poi quel tizio non mi sembra un gigolò. - Continuò lei.
- Non era neanche così bello da avere una spasimante ad ogni angolo. -
Flack rise in direzione di Stella - Non sapevo frequentassi quel genere di persone. Ma se hai tanto bisogno di un uomo, ce ne sono due a disposizione qui davanti a te. Lo puoi dire, figurati, per noi non è un problema sacrificarci. -
- Vaffanculo. - Fu l’unica risposta che Stella si sentì di dare a Don, mentre Mac tentava di trattenere una risata genuina.
- Flack, piantala. - Tagliò corto Taylor. Quei due si stuzzicavano di continuo, ma la priorità in quel momento era capire chi avesse sparato a Michael. - Quindi? Non sembra un gigolò, non era un dio greco che giustificasse tutte queste donne… come le ha trovate? -
Flack tornò improvvisamente serio. - L’unica spiegazione sono i soldi. O forse qualche magnetismo nel suo carattere. -
- Sappiamo che non era ricco. - Continuò Taylor. - Mi correggo. Non legalmente, almeno. -
Stella sospirò - Evidentemente ci sapeva fare con le donne. Resta da capire come pagava loro gli alimenti. -
- C’è da confrontare il DNA delle ex compagne con quello ritrovato sul corpo. Se combacia con una di loro, si parte da lei. Vado da Danny. -
Flack e Stella annuirono e mentre Don tornava ai suoi uffici, Taylor e Bonasera salirono al laboratorio.
- Danny? - Mac richiamò la sua attenzione, aprendo in fretta la porta - Ho i DNA delle sette donne, analizzali e fammi sapere se ci sono riscontri. Mi raccomando, questo ha la priorità, appena trovi qualcosa avvisami subito. -
- Agli ordini! Ti chiamo appena so qualcosa. - Dopo avergli lasciato i sette tamponi sul tavolo, Mac richiuse la porta andando verso il suo ufficio. Era tutta la mattinata che girava come una trottola, si sarebbe preso volentieri cinque minuti di pausa per riprendere fiato e, magari, mangiare qualcosa.
Non fece in tempo a toccare la maniglia di acciaio della porta dell’ufficio che una mano si posò delicatamente sul suo braccio, facendolo voltare.
- Ehi… - Il cuore saltò un battito. Peyton. - Non mi hai fatto sapere più niente. -
- Perché non ho ancora deciso. -
Lei tolse la mano dal braccio del detective. - Ascolta Mac, non voglio metterti a disagio. Se vuoi ritiro la domanda, ma sappi che non me ne andrò da New York. -
- Tu puoi abitare dove vuoi, questo non c’entra niente né con me né col lavoro. -
Lei cercò di leggergli i pensieri attraverso gli occhi, era sempre stata brava a capire le sue emozioni, ma quella volta fallì. - Perché tentenni, allora? Sai che so fare il mio lavoro. -
Lui scostò lo sguardo, posandolo poi sull’ascensore di fronte a lui come per riordinare le idee. - Vuoi la verità? Sto provando ad essere imparziale. -
- … Ma non ci riesci… -
- No. -
Peyton abbassò lo sguardo. Si sentì un po’ egoista, per la sua voglia di tornare con lui stava sottoponendo Mac ad un’ulteriore sofferenza. Sapeva quanto fosse un uomo giusto e che molto probabilmente l’avrebbe riassunta, e obbligarlo a rivederla ogni giorno nonostante tra loro fosse finita era una tortura bella buona per entrambi.
- Perché non riproviamo? Sono tornata per te… -
- Non lo so. Non è così sem… -
- Ehi! - Stella arrivò a passo svelto, interrompendoli proprio quando stavano affrontando il cuore del discorso. - Ma chi si vede! Peyton! Posso rubartela due secondi, Mac? Te la riporto subito. - Sorrise e senza attendere risposte da nessuno dei due, prese la mora per un polso portandola con sé.
Il detective Bonasera entrò nel primo ufficio libero, chiudendosi la porta alle spalle e abbassando le veneziane per avere un po’ di privacy. Si voltò infine verso Peyton, vedendola leggermente spaesata per il suo comportamento.
- Allora? Che ci fai qui? Mi fa piacere rivederti, anche se è un po’ strano. - Sorrise.
Peyton ricambiò, dando poi un’occhiata alla stanza. - Sono tornata a New York e ho bisogno di un lavoro. Ho pensato di fare domanda qui. -
Stella annuì ripetutamente come a metabolizzare l’informazione - Sono sicura che Mac ti riprenderà. E per quanto riguarda lui? - Domandò diretta, come suo solito.
L’altra inarcò un sopracciglio - Che intendi? -
- Immagino che tu voglia tornare insieme a lui… sbaglio? -
Peyton esitò qualche secondo, ma le sembrò sciocco negare. - … Non ti nascondo che mi piacerebbe. Ma capisco anche che ho combinato un casino, quindi… Non lo so. Non so cosa fare, sto aspettando che Mac mi dia una risposta per il lavoro, ma siete indaffarati col caso e non ha ancora avuto modo di pensarci. Il resto andrà da sé. -
Stella ascoltò in silenzio, percependo la sincerità di lei. Si vedeva chiaramente che anche a Peyton era costato tanto prendere la decisione di separarsi da Mac, e contrariamente ad ogni sua aspettativa, cambiò opinione sulla vicenda.
- Non ho nulla in contrario se torni a lavorare qua. - Fece una pausa ed entrambe si fissarono negli occhi come per studiarsi. - E neanche se alla fine voi due tornerete insieme. Ti chiedo solo di pensarci cento volte, questa volta. Se pensi che non sia il momento, se pensi di avere qualcosa in sospeso da qualche altra parte nel mondo o qualsiasi altra cosa… Risolvila prima. Lo sai come reagisce Mac quando non vuole pensare a qualcosa. -
Peyton annuì guardando verso sinistra, dove oltre la vetrata c’era l’ufficio di lui. - Sì, passa qua dentro la maggior parte del tempo. -
- Sono stata io con lui quando ha dormito tre ore in tre giorni, non voglio che succeda di nuovo. Sai bene cos’ha passato Mac e quanto ci abbia messo per buttarsi con te. Vedersi scaricato in quel modo, come se fosse un estraneo, l’ha distrutto. Ma nonostante questo credo stia seriamente pensando di riassumerti perché non vuole mischiare il lavoro con la vita privata. Se avesse voluto dirti di no l’avrebbe già fatto, non credi? - Sorrise appena.
Anche a Peyton sfuggì un sorriso. - Credo di sì. Sai, sono contenta che abbia un’amica come te accanto. Forse se ho trovato il coraggio di scrivergli quella lettera è anche perché sapevo che non sarebbe stato solo. Grazie per quello che hai fatto per lui. -
Stella sorrise. La maggior parte delle donne sarebbe stata gelosa del rapporto che avevano lei e Mac, ma Peyton riusciva a vedere il lato buono di ogni cosa.
- Dagli il suo tempo e non pressarlo, ma allo stesso tempo cerca di fargli capire che ci sei. -
L’altra annuì. - Grazie… Farò del mio meglio. -
- Torniamo di là, altrimenti chi lo sente quello. - Scherzò Stella. Risero entrambe complici e lasciarono l’ufficio, e mentre Peyton andava verso l’uscita, Bonasera prese la direzione dell’ufficio di Mac Taylor.
Vedendola rientrare, lui sorrise posando la penna - Vi siete scannate? -
- Certo che hai una grande fiducia in me! - Stella si finse offesa, poi prese posto di fronte a lui.
- Non si tratta di fiducia, ma da come sei partita all’inizio mi sembravi così agguerrita. -
Lei annuì non potendo negare - Già. Però mi sembra sincera. -
- Ora sei dalla sua parte? - Alzò un sopracciglio.
- No. Sono obiettiva. -
Mac annuì tornando a fissare il documento che stava compilando prima che Stella entrasse - … Me la vedrò da solo. - Pensò che in fin dei conti era giusto così. Era un problema suo, e solo lui sapeva come affrontarla.
- Va bene. Ma per qualsiasi cosa ricorda che sono qui. -
Mac accennò un sorriso. La vicinanza di Stella non era mai stata messa in discussione neanche per un minuto da quando la conosceva. Non fece in tempo a dire nulla che il cellulare squillò.
- Taylor. -
- Mac, il DNA non corrisponde con nessuna delle donne. -
Mac sbuffò appoggiandosi allo schienale - Questo è un problema. -
- Ma c’è dell’altro! Il DNA della donna numero tre ha una coppia di alleli in comune con quello trovato sul corpo della vittima. Quindi oltre alla figlia di 11 anni avuta con lui, deve averne un’altra più grande avuta da un altro uomo. E sai cosa? Combacia col DNA del capello che hai trovato sulla scena. -
Mac si prese qualche secondo prima di rispondere - Significa che è andato a letto con la figlia di un’ex. Potrebbe essere un movente. -
- Grosso come una casa. - Aggiunse Danny.
- Convoco la donna. Ottimo lavoro. -
- Grazie, capo. - Chiusa la telefonata. Stella lo fissava senza capire, ma dalla luce negli occhi di Taylor intuì che c’erano dei risvolti positivi nel caso.
- Il DNA trovato sul corpo ha una coppia di alleli in comune con la terza donna. Vuol dire che lei ha un’altra figlia avuta da un altro uomo, e Michael ci è andato a letto. - Riassunse lui.

- Scacco matto. Falla tornare qua. - Sorrise - Ti aspetto giù. -
- La chiamo e ti raggiungo. -

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV

Quando Mac e Stella aprirono la porta dello stanzino trovarono già la donna seduta al tavolo ad attenderli. Tra le mani aveva un fazzoletto stropicciato che continuava a torturare per allentare la pressione. Dettaglio che non sfuggì all’occhio attento di entrambi i detective.
- Salve Signora Davis. Sarò breve: sul corpo di Michael è stato trovato del DNA che per metà corrisponde al suo. Ciò significa che appartiene a sua figlia. - Mac appoggiò sul tavolo due fogli. Erano le analisi dei due campioni di DNA che dimostravano la corrispondenza e di fronte cui lei non poteva mentire.
La donna non rispose, quindi parlò Bonasera - Ha altri figli oltre la bambina di Michael? -
- Un maschio di 18 anni e una femmina di 16. Entrambi avuti dal mio ex marito. -
- Quella di 16 anni conosceva Michael? - Domandò Mac.
La donna esitò per un momento, ma poi rispose - Sì, ma semplicemente perché era il padre di sua sorella. -
- E qual è stata l’ultima volta che si sono visti? -
- … Due giorni fa, quando è venuto a trovare sua figlia, Jessica. -
- Che coincidenza. Proprio il giorno in cui è morto. E lei dov’era quella sera, Signora Davis? -
La donna si irrigidì alle parole di Taylor. - A casa mia! -
- Qualcuno può confermarlo? - Chiese il detective.
- I miei figli. - Rispose prontamente lei.
- I suoi figli potrebbero mentire per proteggerla, non credo siano testimoni attendibili. -
La donna sgranò gli occhi - Cosa sta insinuando?! -
Mac la fissò dritta negli occhi - Quello che ho appena detto, Signora Davis. Se non le dispiace appoggi le mani sul tavolo. -
- Perché dovrei? -
- Se è vero che quella sera era a casa, immagino che non avrà nulla in contrario se le faccio un test per vedere se non ha sparato di recente. - Stella girò di poco gli occhi verso Mac, sorridendo appena.
- State scherzando! - Urlò la donna - Non avete niente contro di me! Io ero a casa mia! -
- Sul corpo della vittima è stato trovato il DNA di sua figlia. Questo fornisce a lei, Signora Davis, quello che noi chiamiamo movente. Quindi o appoggia le mani sul tavolo o sarò costretto ad ammanettarla. -
- … L’ha messa incinta! - Sbottò scoppiando in lacrime. I due rimasero di sasso, ma Stella fu la prima ad alzarsi per metterle le manette.
- Mi dispiace. - Disse solamente il detective Taylor. - Avrebbe dovuto chiamare la polizia piuttosto che farsi giustizia da sola. -
- Era un maiale! - Urlò la donna - Mia figlia non ha voluto! Dice che si amano, ma non capisce che lui non la ama affatto! - E mentre la Signora Davis si dimenava nonostante le manette, Mac uscì dirigendosi verso l’ascensore.
Tornò al piano del suo ufficio, l’orologio appeso sopra le porte scorrevoli di acciaio segnava le 8:48 PM. Il piano era totalmente vuoto, le luci dei laboratori già spente e un silenzio rilassante lo accolse con suo piacevole stupore. Mac entrò nel suo ufficio, non trovò nessuna scartoffia nuova sulla scrivania e questo lo rallegrò non poco. Per quanto fosse abituato a trattenersi fino a tardi per finire di sbrigare le faccende burocratiche, quella sera non ne aveva per niente voglia. Prese posto sulla sua sedia, il curriculum di Peyton ancora lì a lato, in attesa di essere letto.
Lo prese.
Notò subito che lo aveva modificato rispetto all’ultima volta che lo aveva visionato. Aveva aggiunto la sua esperienza al laboratorio di New York e anche quella di Londra, svolta nel St Thomas’ Hospital, il migliore della capitale inglese, nel periodo successivo alla loro separazione. Lo lesse rapidamente un paio di volte e non c’era nulla che non andasse. Nulla a cui potesse appellarsi per poterle dire di no.
Aprì un cassetto e lo mise dentro, piegato in quattro parti, poi prese il cellulare e mandò un sms a Peyton: Domani alle 7 AM nel mio ufficio. La risposta arrivò quasi subito, come se lei stesse guardando il cellulare non aspettando altro. Ci sarò.
- Ehi! Ti sei già dimenticato del tuo impegno? - Stella comparve da dietro la vetrata, riportandolo bruscamente alla realtà. Mac la fissò senza capire, e sperò vivamente che lei gli desse qualche indizio. - Sbaglio o hai una cena da offrirmi? - Sorrise.
Lui rise piano, alzando poi le sopracciglia - Hai ragione. Me ne ero totalmente dimenticato. - Si alzò dalla sedia prendendo poi la giacca appesa all’appendiabiti. Spense la luce dell’ufficio e la seguì fuori. Dopotutto una serata di svago non poteva che fargli bene.

La mattina successiva Mac entrò puntuale alle 6:30 AM come suo solito. I corridoi e gli uffici erano ancora vuoti, quindi dopo aver appeso la giacca nel proprio, si diresse verso la caraffa piena di caffè caldo nella sala ristoro. Riempì un bicchiere praticamente fino all’orlo, pregustando già il momento in cui lo avrebbe sorseggiato alla sua scrivania.
E fu così che fece. Nel silenzio della struttura, solo la lampada da scrivania accesa dava un po’ di luce all’ambiente, aiutata dalla finestra alle sue spalle che lasciava entrare i primi raggi del sole che, lentamente, stava sorgendo. Lanciò un’occhiata al suo orologio da polso: 6:59 AM. Si preparò psicologicamente perché sapeva perfettamente che Peyton sarebbe stata puntualissima per avere una risposta da parte sua.
E mentre beveva l’ennesimo sorso di caffé, il tin dell’ascensore che avvisava l’arrivo al piano gli fece alzare gli occhi verso sinistra. Ed eccola lì, bellissima come sempre, uscire e avanzare a passo sicuro verso di lui. Si guardarono attraverso la vetrata, lei aveva i capelli raccolti in una coda, come se fosse già pronta a lavorare. Entrò nell’ufficio di lui lasciando che l’anta di vetro si chiudesse da sola, quindi prese posto di fronte a Mac.
- Ciao. Volevi vedermi? -

Lui posò il caffé sulla scrivania. - Ciao. Sì, ci ho pensato e ho una risposta da darti. -
La vide deglutire nervosamente, come se da quella decisione dipendessero sorti ben più gravi che un posto di lavoro che Peyton avrebbe potuto rimpiazzare senza grossi problemi. Vedendo che lei non aggiungeva nulla, Mac proseguì.
- Se avessi letto il tuo curriculum senza conoscerti ti avrei assunta subito. Hai ottime credenziali, voti eccellenti e l’esperienza non ti manca. Ma dato che ti conosco so che sei brava, e negarti il lavoro per i nostri problemi personali non sarebbe professionale. Quindi sei assunta, ma tra noi rimarrà un rapporto di lavoro. - Gli costò tanto pronunciare quelle parole, soprattutto dirle tenendo un tono fermo e credibile.
A lei tremarono le ciglia. Da un lato era contenta, ma dall’altro si sentì sprofondare. Cercò di nasconderlo con un sorriso di circostanza. - Grazie, non ti deluderò. -
- Ah, un’ultima cosa. - La fermò lui prima che si alzasse. - Il posto come medico legale è attualmente occupato, Hawkes e Sid si stanno alternando, quindi sarai assegnata al laboratorio. Spero non sia un problema. -
- No, certo che no. -
Mac annuì. - Sai dove andare per prendere il camice. - La guardò alzarsi e uscire a passo svelto, stringendo la giacca al petto come a darsi coraggio.
Pregò in cuor suo che tutto andasse bene, non immaginando che lei, approfittando del fatto di essere sola e che lui fosse alle sue spalle, non trattenne le lacrime. Arrivò agli armadietti col viso ormai completamente bagnato e il trucco sciolto. Il distacco di Mac le aveva portato via l’ultima speranza di rimettere insieme i cocci che lei aveva creato, e per un attimo si pentì di aver fatto domanda lì.
Si passò rapidamente il palmo della mano sulle guance per asciugarle per timore che i primi ad arrivare la trovassero in quello stato, poi aprì il suo vecchio armadietto posando dentro la borsa e tutto quello che non le sarebbe servito in laboratorio. Ritoccò il trucco per cancellare le tracce del pianto, tentativo tradito prontamente dagli occhi rossi e lucidi. Decise di rimanere lì fino a che non avesse avuto un aspetto più calmo. Tanto non c’era ancora nulla su cui lavorare, l’unico che poteva incontrare in ufficio era proprio Mac, e farsi scoprire da lui in quello stato era l’ultima cosa che voleva.

I due giorni successivi passarono abbastanza tranquillamente, Mac riuscì a convivere con lei nello stesso laboratorio senza troppe complicazioni. Infatti, mentre lei era in laboratorio con Danny a svolgere classiche pratiche di routine, Taylor era nel proprio ufficio a firmare documenti per i superiori con la tranquillità che, almeno per il momento, New York vivesse nella calma quotidianità senza omicidi. E neanche il tempo di finire di pensarlo che il cellulare squillò.
Mac posò la penna, afferrando il telefono e appoggiandosi allo schienale - Taylor. Arrivo. -
Prese al volo la giacca e uscì salendo su uno dei suv neri che avevano in dotazione, posteggiando poco dopo all’ingresso di un vicolo che puzzava di urina. Mac sospirò, domandandosi come mai la maggior parte gli omicidi avvenisse in luoghi maleodoranti. Si fece coraggio ed iniziò ad avanzare, vedendo Flack e Stella già sulla scena.
- Cosa abbiamo? - Disse fermandosi accanto a Bonasera, già abbassata ad esaminare il corpo.
- Ciao, Mac. Maschio bianco, 45 anni. - Rispose lei scattando delle fotografie.
Taylor infilò i guanti. - Cause della morte? -
- Trauma da corpo contundente sulla nuca. -
- Che non abbiamo, vero? - Continuò Mac.
- Vero… - Confermò Don.
Senza aggiungere altro, il detective prese la torcia dalla tasca interna della giacca e la puntò a terra, poi sui muri. Sul cemento non vedeva tracce di sangue se non la chiazza sotto al corpo, segno che l’uomo era morto lì e non era stato trascinato. Camminò superando i colleghi e controllando ogni centimetro di strada che calpestava. Non c’erano gocce di sangue, quindi l’assassino non si era ferito. Anche i muri erano puliti, nulla indicava che ci fosse stato uno scontro prolungato e che avrebbe portato a scontrare gli oggetti intorno, come i muri e i cassonetti.
Si fermò accanto ad un bidone dell’immondizia e lo aprì. Sbirciando dentro constatò con disappunto che era stato svuotato da poco, dentro c’erano solo un paio di cartoni della pizza, qualche lattina vuota e bottiglie di plastica. Lo richiuse, aprendo poi il secondo. Stessa sorte. I camion per la raccolta dei rifiuti dovevano essere passati quella mattina verso le 5:00 AM, sperare di trovare qualcosa nella spazzatura era impossibile.
Ma Mac Taylor non si scoraggiò, puntò ancora la torcia a terra alla ricerca di qualche indizio. Se c’era una cosa che tutti quegli anni di lavoro gli avevano insegnato, era che chiunque, sempre e comunque, lasciava tracce di sé sulla scena del crimine. Lui doveva solamente trovarle.
Ed eccola lì, infatti, una bottiglia di vetro marrone spaccata a metà, nascosta malamente tra il muro e un cassonetto. Si abbassò raccogliendola dalla base, ancora intatta. Sulla parte rotta era visibile del sangue e prontamente il detective la infilò in una busta di plastica. Ripercorse poi il vicolo al contrario, tornando da Flack e Stella.
- Trovato qualcosa? - Chiese Flack.
- Una bottiglia di birra spaccata, c’è del sangue sopra. -
- Rissa tra ubriachi? - Azzardò Don.
- Forse. - Rispose Taylor - O semplicemente era la prima arma a portata di mano. Se è veramente la bottiglia l’arma del delitto, potrebbe significare che non c’è premeditazione. Magari hanno iniziato a litigare, i toni si sono accesi e la bottiglia è la prima cosa che l’assassino ha trovato per aggredirlo. - Mac si abbassò vicino alla testa del cadavere - Non sento puzza di alcol. - Si rialzò.
- Quindi almeno la vittima era sobria. Lo portiamo via? - Domandò Flack.
- Sì, qui per ora abbiamo finito. -
- Me ne occupo io. - Si allontanò con il cellulare in mano.
Quando il corpo venne portato al laboratorio le analisi proseguirono. All’uomo vennero tolti i vestiti, presi campioni di DNA e le impronte digitali. Inserendo le impronte nel database uscì un nome: Frank Bennet. Era stato schedato tre anni prima per aggressione dopo una discussione alla fermata della metropolitana, sposato con una donna della sua età di nome Jennifer Garcia. Assunto in una catena di fast food da un anno e mezzo.
Mentre Hawkes analizzava il corpo, Mac era in laboratorio per analizzare quello che avevano rinvenuto nel vicolo: la bottiglia, i residui sotto le unghie e dei frammenti che avevano trovato nei capelli di Frank.
Taylor iniziò ad esaminare ciò che trovarono sotto le unghie sperando di trovare qualcosa che li riconducesse all’aggressore, e difatti insieme al sangue rappreso trovò tracce di pelle.
- Ti confermo che è stato colpito alla nuca con quella bottiglia. Il sangue sul vetro corrisponde a quello della vittima, idem la scheggia di vetro che Hawkes ha trovato nella ferita. Però c’è dell’altro… - Peyton lo destò dai suoi ragionamenti, costringendolo a staccarsi dal microscopio.
- Cosa? -
Lei prese la bottiglia mettendogliela davanti agli occhi. - Vedi qua? Ci sono due spuntoni nel punto in cui il vetro si è rotto. Da questo lato c’è il sangue della vittima, ma quest’altro ha del sangue che a noi non risulta. L’assassino si è tagliato, ma non è nel codis. -
- È strano, non c'erano macchie di sangue sulla scena che facessero pensare che l'assassino si fosse ferito. - Ragionò a voce alta Mac.
- Forse ha avuto la prontezza di tamponare la ferita sulla maglia. Attendo che mi portiate un altro campione con cui confrontarlo. -
- Bene. Io sto analizzando i residui sotto le unghie, ho trovato della pelle. Appena finisco confrontali, così vediamo se almeno corrisponde con l’altro campione di sangue. In caso contrario avremmo due aggressori: uno da cui ha provato a difendersi graffiandolo e il secondo, che lo ha ferito. - E tornando a posizionarsi al microscopio allungò meccanicamente un braccio per afferrare un altro vetrino, scontrando erroneamente la mano di lei. Si lanciarono un’occhiata imbarazzata e senza dire nulla si allontanarono subito.
- Scusa. - Sbiascicò lei. Mac fece finta di nulla, rimase al microscopio ancora un minuto e poi si allontanò dal tavolo.
- Io qua ho finito. Se hai qualche riscontro avvisami subito. - Lei annuì, ma Taylor non se ne accorse, troppo impegnato a togliersi il camice ed appenderlo prima di uscire.
Attraversò il corridoio a passo deciso e inspirò dal naso. Ecco cosa lo aveva fatto desistere dal dirle subito di sì: la consapevolezza che episodi del genere sarebbero stati all’ordine del giorno.
- Ehi, Mac! - Don Flack comparve dall’ascensore - Ho rintracciato la moglie, vieni con me a parlarle? -
Taylor lo ringraziò mentalmente - Certo, fammi prendere un caffè e arrivo. -

 

To be continued...

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Capitolo V

La casa della donna si trovava in un quartiere molto meno urbano al classico skyline di New York. Le villette a schiera erano tutte uguali, dando alla zona un aspetto noioso, ripetitivo e fin troppo residenziale.
- Jennifer Garcia? Polizia di New York. - Taylor mostrò il distintivo non appena la donna, già in lacrime, aprì la porta.
- Sì… - Tirò su col naso. - Siete qui per mio marito, vero? Non è tornato a casa ieri, è successo qualcosa? -
- In effetti sì - Iniziò Flack. - Possiamo entrare? - La donna si fece di lato per far passare i due agenti, poi chiuse la porta di fretta come se avesse paura che qualcuno potesse vederla.
- Mio marito aveva il vizio del gioco. Giocava e perdeva, aveva un sacco di debiti. - Spiegò Jennifer.
- Capisco. Qualche strozzino si è mai presentato a casa o ha mai minacciato suo marito? - Domandò Mac guardandosi intorno.
- Sì… Sì. Più volte, a dire il vero. -
- E Frank è mai stato aggredito fisicamente? O questi tizi si sono limitati a minacce verbali? -
La donna scosse la testa visibilmente spaventata - N-no. Non sono mai arrivati alle mani, ma da due anni a questa parte vivo nella paura, specialmente per i bambini. Ora sono a scuola. -
I due agenti si guardarono. - Sa dirci il nome di quello che le è sembrato il più pericoloso? O quello che faceva visita più spesso. - Domandò Flack.
- Mi dispiace, non posso dirlo. Se lo scoprono sono una donna morta. -
- Siamo della polizia, Signora Garcia. - Intervenne Mac - Avrà la protezione di cui necessita. -
Lei esitò per qualche attimo, ma poi parlò. - Si chiama Victor Goslim. -

Mac Taylor bussò pesantemente tre volte alla porta di Victor, poi attese qualche secondo, e non sentendo rumori provenire dall’interno, si annunciò.
- Polizia di New York! Apra! -
La porta si aprì poco dopo. - Quanta fretta! - Un uomo di un metro e ottanta in canottiera e una sigaretta accesa in bocca li accolse sulla soglia. - Cosa volete? -
- Informazioni. - Parlò Flack. - Ci fa entrare? -
- Come no, prego. - Con disappunto l’uomo si fece da parte, accogliendo i due agenti in una piccola abitazione caotica, buia e che puzzava di fumo.
Questa volta iniziò Mac. - Abbiamo modo di pensare che lei abbia attività sospette. Possiamo dare un’occhiata in giro? -
L’uomo rise tenendo la sigaretta stretta tra le labbra. - Avete un mandato? -
- No, ma tra un’ora al massimo lo avremo. - Rispose Don.
- Allora tornate tra un'ora. - Sorrise Victor sedendosi poi su una vecchia poltrona.
- Lei è un assiduo frequentatore di pub, Signor Goslim? - Chiese Mac che, nel frattempo, non perdeva occasione per guardarsi intorno nella speranza di cogliere qualche dettaglio.
- Perché? Adesso è un crimine anche andare a bere una birra? - Con poca eleganza l’uomo soffiò il fumo della sigaretta in avanti, creando una nube di nicotina tra lui e i due agenti.
- No, finché la bottiglia non diventa un’arma. - Taylor lanciò uno sguardo alle mani dell’uomo. Non erano fasciate e non presentavano tagli. Lo escluse come diretto aggressore, ma questo non lo cancellava dalla lista dei sospettati. - Ci vediamo tra un’ora. -
Senza aggiungere altro i due detective uscirono andando in direzione dell’auto.

Quando Taylor si ripresentò con il mandato portò con sé anche Danny e Stella. Flack e i suoi uomini rimasero di guardia per evitare che Victor tentasse la fuga o altre mosse stupide.
- Non tralasciate niente, qualsiasi cosa troviate che possa collegarlo all’omicidio può essere fondamentale. - Disse Mac infilando i guanti. Stella e Danny annuirono iniziando ad esaminare le stanze. Danny iniziò dalla camera da letto, Stella dal bagno. Taylor, invece, iniziò dal salotto. Proprio sotto agli occhi di Victor, che lo fissava tranquillamente dalla sua poltrona fumando la sigaretta come se stesse guardando un film alla TV. Mac sapeva bene di essere osservato in ogni suo movimento, ma non era minimamente sotto pressione o a disagio. Stavano facendo una guerra mentale che Taylor sapeva avrebbe vinto.
Dopo aver esaminato i mobili della sala, si voltò osservando una libreria. Guardò l’uomo, poi ancora il mobile. Quel Victor non sembrava un amante della lettura, dava più che altro l’idea di un tizio che a stento leggeva il titolo sulla prima pagina del giornale, quindi si avvicinò. I libri sugli scaffali erano messi in ordine casuale, tutti impolverati e dall’aria di non essere mai stati aperti. Ma proprio quando Mac stava per fare una domanda, un foglio tra due libri attirò la sua attenzione. Lo prese, e notando che era piegato a metà, lo aprì. Lesse una lista di nomi apparentemente senza senso, se non che il nome di Frank Bennet era presente e, fatto curioso, era cancellato con una linea.
Mac alzò il foglietto, mettendolo in bella vista davanti a Victor. - Questa è la lista degli uomini che sono in debito con lei? -
- Può darsi. -
- E a cosa sono dovuti questi debiti? -
Victor fece un tiro alla sigaretta. - A delle sconfitte nel gioco. -
Taylor lo guardò dritto negli occhi come a dimostrargli che non aveva paura, e fu in quel momento che decise di cambiare strategia.
- Non mi sono mai andati a genio quelli che non saldano i debiti. Ho poca pazienza. -
- Già. - Concordò l’uomo. - La pazienza prima o poi finisce. -
- E lei l’ha finita? Cos’ha fatto? -
- Non ho fatto nulla! A parte invogliarlo a pagarmi! - Fece un altro tiro.
- E sentiamo, come l’avrebbe invogliato Signor Goslim? - Incalzò Mac Taylor.
L’altro sorrise di sghembo, la sigaretta ancora tra le labbra. - Diciamo che so essere molto persuasivo. -
Il detective non spostò lo sguardo neanche di mezzo millimetro, attendendo una risposta che a lui andasse bene. Victor lo capì, quindi continuò.
- Gliel’ho chiesto molto gentilmente. Lui non ha voluto ascoltare. -
- Quindi poi è passato alle maniere forti? -
- Cosa sta insinuando? - Alzò il tono di voce.
Taylor trattenne un sorriso di scherno. - Nulla, era solo una domanda. -
- Diciamo che non mi faccio prendere in giro da nessuno. -
Mac ripiegò il foglietto e lo mise in una bustina di plastica. - Quindi potenzialmente potrebbe averlo ucciso. -
- Ehi ehi! Con calma! - Mise le mani avanti vedendo che il poliziotto saltava a conclusioni affrettate. - Io dò solo avvertimenti, se poi non vengono ascoltati mando qualche amico abile nella persuasione. Se la gente è in debito con me, io voglio i soldi. Se i tizi muoiono, io posso dire addio ai bigliettoni. Capito? A me servono vivi. -
Dalle altre stanze tornarono anche Stella e Danny.
- Facciamo così, Victor. - Disse Mac con voce ferma. - Tu ora mi dici i nomi delle persone che mandi a riscuotere i soldi e collabori, altrimenti ti garantisco che sarò un’ombra nella tua vita che non ti toglierai più di dosso. -
L’altro fumò ancora. - Voglio parlare col mio avvocato. E comunque le ho detto che a me servivano vivi. -
- Sì, ma questo tizio è morto e tu sei il primo nella nostra lista dei sospettati. Presentati in centrale con l’avvocato. - Detto ciò i tre detective uscirono seguiti da Flack e i suoi uomini.
- Trovato qualcosa, capo? - Chiese Danny. - Noi un buco nell'acqua. -
- Una lista di gente indebitata con quel tizio. La nostra vittima è cancellata e quelli che sono scritti qui sopra, se non sono già morti, rischiano di esserlo a breve. -
- Però non ti convince qualcosa, vero? - Domandò Stella.
Mac annuì. - Trovo stupido tirare una riga su una persona che viene uccisa su mio ordine. Sarebbe come confessare indirettamente. -
- Torniamo al laboratorio, così vediamo se si trova qualcosa su quella lista. -

Una volta rientrati ognuno tornò alle proprie mansioni. Mac scese in obitorio per sapere cosa Hawkes avesse scoperto analizzando il cadavere.
- Ciao, Mac. Ti stavo aspettando. -
- Ciao. Cos’hai scoperto? -
- Guarda. - Si avvicinò al corpo abbassando il lenzuolo fino alla vita. - Livor mortis su busto e fianco sinistro. -
- L’hanno picchiato nonostante fosse morto. - Spiegò Taylor.
- Esatto. Il colpo mortale è stato inferto alla nuca, è morto praticamente subito. Tutte le altre contusioni sono avvenute dopo. Ti confermo che è stata usata la bottiglia. -
Mac annuì. - Bene, se scopri altro avvisami. Io torno di sopra. - E mentre il detective percorreva i corridoi verso il proprio ufficio, ripercorse mentalmente quello che sapevano in concreto.
Un uomo ucciso da una bottiglia con un colpo alla nuca sul retro di un pub, picchiato ripetutamente post mortem, sposato e con figli, problemi col gioco d’azzardo, debiti e strozzini. Due campioni di sangue, di cui uno dell’assassino incensurato. Arrivato all’ufficio aprì un’anta ed entrò, sedendosi poi alla scrivania e posando il fascicolo sul tavolo. Solo quando prese posto sulla sedia notò due fogli: glieli aveva portati sicuramente Peyton perché erano due analisi di comparizione di DNA. Il secondo campione di sangue sulla bottiglia e la pelle sotto le unghie erano della stessa persona. Avevano solo un assassino, dovevano solo scoprire chi.
Stella entrò poco dopo. - Ciao, Hawkes ti ha detto qualcosa? -
- Solo che l’hanno picchiato quando era già morto. Per il resto ha confermato che la bottiglia è l’arma del delitto. Peyton ha scoperto che sul vetro ci sono due campioni di sangue, uno è dell’assassino… Ma non è presente nel codis. -
- Quel Victor non aveva ferite alle mani. - Osservò lei.
- No, infatti. Quindi se Victor è coinvolto, è solamente un mandante. - Mac prese una penna, premendo più volte il tastino all’estremità per scaricare lo stress.
- Sarà complicato collegarlo all’omicidio, non ha negato il legame con la vittima, ma noi siamo senza DNA e stando alle prove, lui è pulito per quanto riguarda il fatto che Frank sia morto. Al massimo possiamo arrestarlo per tutto il resto. -
Taylor sospirò concordando con il ragionamento di Stella, che improvvisamente sorrise senza motivo apparente.
- Bravi, comunque. Siete una bella squadra tu e Peyton. Avete addirittura lavorato nella stessa stanza e non è successo niente. - Ammiccò.
Mac sorrise scuotendo la testa. - E sentiamo, cosa sarebbe dovuto accedere? -
- Ah, non lo so, dimmelo tu. O l’amore o la guerra. - Sorrise ancora.
- Questo è ridicolo. - Mac lasciò la penna come a voler concludere quell’assurda conversazione. - Non è divertente, Stella. - La riprese scherzosamente.
- Invece lo è eccome. Vado a lavorare! - Bonasera scappò via senza dare al detective il tempo materiale per risponderle, lasciandolo lì, seduto alla sua scrivania, con un sorrisetto divertito, a guardarla mentre gli faceva ciao con la mano.

Due ore dopo, Victor Goslim e l’avvocato si presentarono in centrale e vennero gentilmente accompagnati da un agente nella sala interrogatori, dove Mac e Flack li raggiunsero.
- La situazione è questa. - Iniziò Taylor. - In casa tua abbiamo trovato una lista di persone che ti devono soldi. Su tua ammissione hai detto che invii delle persone che gentilmente convincono questi tizi a saldare i debiti e, guardacaso, il nome della vittima qua sopra è cancellato. Chi sono le persone che lavorano per te? -
Victor lo guardò con disprezzo. - L’ho cancellato perché alla fine ha pagato. -
- Certo, e trovarlo morto è una coincidenza, vero? - Intervenne Don.
- Già. Io non ne so niente, bello. -
- Molto bene. - Continuò Mac. - Mani sul tavolo. -
- Ehi, non potete! Dov’è il mandato? - Si voltò verso l’avvocato come a chiedere giustizia, ma l’uomo, impotente, rimase zitto. Quindi parlò Taylor.
- Il mandato l’ho già avuto per perquisirti casa, e in ogni caso qui siamo in centrale, non mi serve. Mani sul tavolo. - Ribadì.
Goslim ringhiò capendo di essere spalle al muro e senza aggiungere altro, le appoggiò entrambe sul ripiano freddo del tavolo in acciaio. Senza indugio Mac gli raschiò via dei residui da sotto le unghie sperando combaciassero con quelli rinvenuti sulla scena. In questo modo lo avrebbe collegato all’aggressione della vittima.
Posò tutto in una bustina di plastica. - Cosa sperate di trovare? - Disse sprezzante l’uomo.
- Non ho ancora finito. - Rispose prontamente Mac Taylor. - Apri la bocca. - Dopo qualche secondo di esitazione, Victor collaborò. Taylor gli prese un campione di saliva con poco garbo, strofinando il tampone nell’interno guancia.
- Voglio l’elenco delle persone che mandi a riscuotere i debiti. -
- Non conosco i loro nomi. -
- Molto bene. Vorrà dire che rimarrai in cella finché non troveremo qualcosa a casa tua, anche a costo di smontare mobile dopo mobile. -
Victor sbottò. - Sono in arresto per cosa?! -
- No. - Spiegò Flack. - Sei semplicemente in stato di fermo in attesa che la scientifica finisca di fare i dovuti accertamenti. -
- Non potete! - Scattò in piedi.
- Possiamo eccome. Mani dietro la schiena. - Dopo avergli messo le manette, Mac consegnò l’uomo a Don.
Passandosi una mano tra i capelli Taylor tornò al piano dei laboratori. Quindi tornò nel proprio ufficio, dove si versò un bicchiere di caffé sperando di riordinare le idee. Si sedette alla scrivania bevendo un sorso della bevanda bollente e ragionò. Sapeva che quel Victor era coinvolto, ma non poteva dimostrarlo. Sperava vivamente che una volta scoperti i nomi avrebbe avuto una traccia da seguire, ma iniziava a credere che con un po’ di fortuna quel criminale avrebbe potuto farla franca. Almeno per quanto riguardava l’omicidio.
Di colpo posò il bicchiere e si alzò, muovendo pochi passi in avanti e raggiungendo la vetrata che aveva a sinistra della scrivania. Con un lavoro minuzioso di nastro adesivo e foto, Mac tappezzò il vetro con tutte le prove che aveva, facendo collegamenti e appunti con un pennarello nero che poi avrebbe facilmente cancellato alla fine del caso.
- Wow! Mi piace quando sei così creativo! - Stella fece il suo ingresso senza bussare. Mac si girò verso di lei chiudendo il pennarello.
- Riesco a ragionare meglio se ho tutto sott’occhio. -
- Hai interrogato quel tizio? - Chiese lei, affiancandolo. 
- Sì, non ha parlato, ma ho intenzione di fare un’altra visita a casa sua. Vieni con me? -
Lei sorrise. - E me lo chiedi? -

 

To be continued...

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI

Approfittando del fatto che Victor sarebbe rimasto per 48 ore in cella, Mac e Stella andarono a casa sua alla ricerca della prova che lo avrebbe incastrato definitivamente.
Quando Mac aprì la porta con una spallata venne investito nuovamente dall'odore di nicotina che ormai aveva intriso ogni cosa in quell'ambiente: mobili, tende, tappezzeria. Ci impiegò qualche minuto prima di abituarsi, poi insieme a Stella iniziò a rovistare tra le cose dell'uomo. Taylor cercò di immedesimarsi nella mente del criminale pensando ai posti più strani per nascondere qualcosa. Cercò addirittura nel frigo, nella credenza, nei mobili in bagno, nei cassetti del mobile del televisore. Smontò anche il letto, ribaltando il materasso e cercando una fessura che permettesse a Victor di usarlo come nascondiglio. Alla fine, stremato, lasciò ricadere il materasso sulle doghe. Si guardò intorno sconsolato, sperando di avere un’illuminazione in qualcosa che non aveva ancora notato.
- Non fare quella faccia, non abbiamo ancora cercato ovunque. - Lo incoraggiò Stella.
- Non possiamo uscire da qui a mani vuote. Non so tu, ma io ho finito le idee. Non so dove altro cercare. -
Stella si fermò, smettendo di controllare il cassetto del mobile in cui stava rovistando. Raramente aveva visto Mac così, e capì che aveva bisogno di calmarsi.
- Okay, ragioniamo: dove hai controllato finora? -
- Ovunque, Stella. - Rispose frustrato. - Letteralmente ovunque. Ho cercato addirittura nel frigorifero, ho provato a ragionare come farebbe la mente distorta di uno come Victor, ma non funziona. -
- Forse so io il perché - Sorrise lei. - Stai ragionando con la tua testa, Mac. E tu hai la testa di un uomo intelligente. Quel tizio sarà pure nel giro, ma l’hai visto? Secondo te avrebbe mai pensato di fare un taglio nel materasso per nasconderci dentro qualcosa? Abbassa gli standard. - Mac la guardò muovendo impercettibilmente le sopracciglia. Aveva ragione. Victor poteva vantare l’esperienza, ma era un completo idiota. Per trovare quello che gli serviva, Taylor doveva ragionare come lui. Si prese un minuto per calmarsi e riprendere a ragionare. Servivano nascondigli molto più a portata di mano, più basilari. Tornò a passo spedito in salotto dando una rapida occhiata in giro.
Afferrò il sedile della poltrona sollevandolo con forza. Nulla. Andò in cucina aprendo ogni sportello e mettendo a soqquadro qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. Come ultima spiaggia tirò fuori una scatola di cereali dal mobile. Troppo leggera per essere messa a posto insieme alle cose da mangiare.
La rovesciò sul tavolo, ma cadde solamente un foglietto strappato malamente da un blocknotes.
- Stella? L’ho trovata. -

- Non ne posso più, è la quinta volta che legge quella lista, detective. - Si lamentò Victor, portato per l’ennesima volta faccia a faccia con Taylor.
- Ho appena iniziato, te la leggerò altre cento volte se sarà necessario. Chi hai mandato da Frank? -
- Non me lo ricordo. - Rispose beffardo.
Stella, spazientita, intervenne. - Lo sai che questa è complicità, vero? Il silenzio non ti salverà dalla galera, abbiamo le prove che ti collegano indirettamente all’omicidio. -
- Volevate la lista, no? Bene, eccola lì! Cercatevelo da soli! - Urlò, stremato. Mac rimase impassibile, quella guerra psicologica era iniziata da quando avevano messo piede in casa di quel tizio, e Taylor si era ripromesso di vincerla ad ogni costo. La partita si era appena ribaltata e il detective sentiva di avere in mano la chiave del caso.
- Molto bene. - Chiuse il fascicolo del caso e ripiegò il foglietto con la lista dei nomi. - Tu rimani in cella fino a data da destinarsi e, nel frattempo, il locale che usi per spennare la gente viene chiuso e messo sotto sequestro. Te lo ricordi, no? Quello dove avete ucciso Frank. -
- Non può farlo! - Continuò a urlare l’altro.
- Ah, no? - Guardò Stella con finto stupore. - Strano, perché il distintivo che ho alla cintura credo proprio che mi permetta di farlo. Andiamo? - Guardò ancora la collega alzandosi. Mise una mano sulla maniglia della porta, ma non fece in tempo a girarla.
- D’accordo! - Mac rimase impassibile. Amava farli cedere in quel modo, alla fine tutti, vedendosi voltare le spalle, decidevano di parlare.
- Miguel. Miguel Ramirez. -
- Indirizzo. - Disse solamente lui.
- … Datemi una penna. -

Nonostante fossero le sette di sera, Mac e Stella salirono in auto per andare all’indirizzo indicato da Victor. Il loro turno era abbondantemente finito, ma la loro integrità e il loro senso del dovere andavano oltre un banale orario. La palazzina in cui abitava Miguel era molto modesta, aveva solamente tre piani. Quando arrivarono alla porta della famiglia Ramirez, Taylor bussò tre volte.
- Polizia di New York. - Si annunciò. Lui e Stella attesero qualche secondo in silenzio, ma dall’interno non provenne nessun rumore. Istintivamente Mac mise la mano destra sulla pistola e con uno sguardo fece capire alla collega di tenersi pronta.
D’improvviso la serratura scattò facendoli voltare entrambi verso la porta, ma davanti a loro si presentò un bambino di non più di dieci anni.
- Tuo padre è in casa, ragazzino? -
- No. - Rispose con ingenuità. - Non torna da ieri. Sono da solo con i miei fratelli. - Lui e Stella si lanciarono un’occhiata.
- E tua madre? - Domandò ancora il detective.
- È morta. -
A Stella si strinse il cuore. - … Mi dispiace. Sai dov’è andato tuo padre quando è uscito ieri? - Chiese ancora Taylor.
Bonasera domandò a ruota. - Tesoro, ci stai dicendo che siete soli in casa da un giorno? - Il bambino fece di sì con la testa guardando Stella, poi di no guardando Mac.
Fu lui a prendere ancora l’iniziativa. - Dobbiamo entrare a dare solamente un’occhiata, poi andremo via, d’accordo? -
Il bambino, troppo piccolo per capire, annuì facendosi da parte per farli entrare. Dallo stipite di una porta si affacciò un altro maschietto. A prima vista sembrava avere sei anni.
- Come si fa a lasciare dei bambini da soli a casa per così tanto tempo? - Le domandò lui non capacitandosi di quanto le persone potessero essere irresponsabili.
- Dovremmo portarli con noi… -
- Dovremmo chiamare gli assistenti sociali. - La corresse. - Io controllo la camera da letto, tu da dove vuoi. Se trovi qualsiasi cosa, avvisami. -
Senza aggiungere altro Stella annuì, optando per il bagno. Si separarono e Mac entrò nella stanza da letto di Miguel. Diede una rapida occhiata in giro per capire da dove iniziare a lavorare, quando sentì qualcosa tirargli i pantaloni. Abbassò lo sguardo, scorgendo una bambina di circa due anni con il pannolino chiaramente zuppo e fin troppo appesantito.
Il detective Taylor rimase interdetto un paio di secondi.
- … Stella? Ho un lavoro per te. - Chiese soccorso. Non sapeva proprio come comportarsi.
Lei non fece in tempo ad entrare in bagno che fu costretta a voltarsi. - Che c’è? … Oh mio dio! - Esclamò vedendo la piccola creatura.
- È tutta tua. - Concluse Mac andando verso il letto dell’uomo.
Stella lo raggiunse. - Dare per scontato che una donna sappia cambiare un pannolino è maschilista! Lo sai, detective Taylor? - Disse piccata ma con una vena di sarcasmo.
- Ti sbagli. - Si affrettò lui. - Non penso che tu sappia farlo perché sei una donna. Penso semplicemente che tu sia più brava rispetto a me. -
Lei sospirò. - D’accordo, vieni qui piccolina. - La sollevò per adagiarla sul fasciatoio accanto al letto matrimoniale, poi con un fare estremamente materno Stella cambiò la bambina.
Mac la osservò. - Visto? Sei stata brava. Parti sempre in quarta, il mio era un complimento. - Tornò ad esaminare la stanza come se nulla fosse.
- Non ci vuole una laurea, Mac! - Posò la piccola a terra che, ignara, gattonò via. Stella tornò a guardarlo. - Non te l’ho mai chiesto… Quanto siete stati sposati tu e Claire? -
Mac non rispose subito. Ogni volta che parlava di lei sentiva una pugnalata al cuore e ricordare era sempre faticoso.
- Nove anni. -
- E niente bambini? -
Lui osservò una fotografia di Miguel con quella che doveva essere la madre e i tre figli. Sembravano felici in quello scatto e pensò che, in fondo, le istantanee erano armi a doppio taglio: ricordavano momenti belli, ma che non sarebbero tornati mai più.
- … Lei… Claire, lo sai, aveva già avuto un figlio. Reed Garrett. Aveva ancora quella faccenda in sospeso con lui. Poi abbiamo sempre rimandato perché non era mai il momento giusto. Continuavamo a ripeterci che l’anno successivo sarebbe stato quello migliore… -
Stella annuì mestamente. Ogni volta che sentiva Mac parlare di Claire veniva investita da una tristezza immensa, quasi come se potesse percepire il dolore che lui provava.
- L’hai più rivisto dopo quella volta? - Chiese lei, riferendosi al caso del tassista killer.
- Sì. Un paio di volte. - Le rispose lui. - … Gli ho portato delle fotografie di sua madre. Mi rendo conto che è complicato recuperare in fretta tutti questi anni, considera poi che ho un lavoro che mi toglie parecchio tempo e il fatto di aver sposato sua madre non lo obbliga a dovermi conoscere per forza. Non voglio forzarlo. - Stella percepì sofferenza nelle parole di Taylor. Quel ragazzo era l’unico collegamento che gli era rimasto di Claire, l’unica cosa tangibile di lei rimasta a questo mondo esclusi i ricordi che Mac custodiva gelosamente. Ma non era molto bravo a coltivare rapporti interpersonali, e come aveva giustamente osservato lui, il lavoro non lo aiutava, forzandolo ad orari improponibili.
Taylor, però, sembrava impassibile come al solito, e per non mostrare debolezze prese il luminol per poi puntarlo sul letto.
- Si sono divertiti qua sopra. - Constatò vedendo decine di macchie sulle lenzuola. - Prendo un campione. -
- Chissà perché non mi sorprende. - E mentre Mac passava un tampone sulle tracce, lei andò finalmente in bagno per aiutarlo con la seconda stanza. Quello che la accolse, però, era uno spettacolo raccapricciante.
- Mac? Vieni un attimo. -
Sentendo il tono, lui la raggiunse subito. Il lavandino in ceramica era costellato di macchie rosse. La cassetta del pronto soccorso ancora aperta sul ripiano, le bottigliette di disinfettante e mercurio cromo lasciate disordinatamente fuori, accanto al rubinetto. Una benda malamente tagliata abbandonata dall’altro lato del ripiano.
- Sembra che abbia avuto a malapena il tempo di disinfettarsi e poi sia scappato via. - Analizzò lei. E aveva ragione.
- Cosa diavolo è successo per fargli lasciare tre figli con questa fretta? - Domandò Taylor.
- Dovremmo trovarlo per scoprirlo. - Rispose Stella. - Ma se vuoi, intanto, possiamo fare due domande al ragazzino più grande. - Si scambiarono un’occhiata. Sapevano entrambi che il bambino poteva sapere poco e niente, e meno sapeva del caso, meglio era. Era anche vero, però, che rischiava di essere l’unico collegamento tra loro e Miguel.
Senza dire nulla, Mac prese un tampone prendendo un campione di sangue dalle chiazze dentro il lavandino.
Poi spolverò la cassetta del pronto soccorso con il pennello, mettendo in risalto le impronte sui lati. Mise sopra l’adesivo per rilevarle, posando poi tutto nelle bustine e infine nella valigetta. Prese tutte le prove decisero di parlare con il bambino.
Lo raggiunsero in salotto, trovandolo seduto sul divano davanti alla TV. Fu Stella ad approcciare con lui, entrando con cautela nel campo visivo del bambino.
- Possiamo farti due domande? - Fece uno dei suoi sorrisi più amichevoli, tattica che funzionò.
Il bambino si limitò ad annuire, quindi i due detective si fermarono di fronte a lui.
- Per caso hai sentito tuo padre discutere con qualcuno ultimamente? Magari al telefono o dalla porta di casa. - Questa volta parlò Mac. Il ragazzino abbassò gli occhi guardandosi i piedi, non conosceva l’uomo e la donna di fronte a lui, non sapeva se fidarsi. Il sorriso della donna gli infondeva sicurezza, l’uomo accanto a lei aveva un’espressione più severa, ma non gli sembrava cattivo.
Rialzò gli occhi su di loro. - Ieri. Quando è tornato a casa aveva una mano ferita. Gli ho chiesto cosa si era fatto e mi ha risposto di badare agli affari miei, poi è andato in bagno a disinfettarsi. L’ho sentito parlare ad alta voce, quindi ho capito che era al telefono. Credo che qualcuno gli abbia detto che doveva lasciare questa casa e lui è corso fuori senza dirci niente. -
Mac stentava a credere alle proprie orecchie. - E non vi ha detto dove andava o quando sarebbe tornato? Vi ha lasciati così, senza dire nulla? -
- Sì. -
I due detective rimasero interdetti per alcuni secondi, quindi Mac prese di nuovo la parola.
- Venite con noi. Volete vedere le sirene della polizia? - Gli occhi dei due bambini più grandi si spalancarono dall’emozione.
- Sì! - Stella sorrise. Mac ci sapeva fare anche se era molto bravo a nasconderlo. Era riuscito in qualche modo a convincere i bambini a seguirlo e a trasformare un’operazione di emergenza in una gita divertente.
Non fu difficile portarli fuori di casa, e mentre Stella li conduceva alla macchina, Mac li anticipò prendendo le distanze e telefonando a Flack.
- Don, chiama un assistente sociale. Stiamo arrivando con i figli di Miguel Ramirez. - Flack si attivò subito e Taylor si mise rapidamente al volante.
Stella aiutò i bambini a salire dietro, prontamente osservati da Mac.
- Mettetevi le cinture. - Disse da buon poliziotto, assicurandosi che gli obbedissero controllando dallo specchietto retrovisore. Stella aiutò la bambina di due anni assicurandola al sedile, poi prese posto davanti accanto a Mac, che mise rapidamente in moto partendo in direzione della centrale. Si affrettò a spegnere la frequenza del 911 per evitare che dei minorenni sentissero cose poco adatte alla loro età, mettendo una stazione radio a caso. La musica suonava bassa in sottofondo, mentre Mac Taylor guidava nel traffico di New York.
- Come vi chiamate? - La voce del bambino più grande li destò entrambi, troppo impegnati a pensare cose personali per distrarre a parole i bambini. - Io sono Thomas, lui è mio fratello minore Nikolas e lei è Emily. - Continuò il bambino.
Mac sorrise appena fissandoli dallo specchietto, non abituato alla spontaneità dei piccoli.
- Io sono il detective Taylor, lei invece è il detective Bonasera. -
- Siete fidanzati? - La voce di Nikolas li spiazzò.
- No! - Dissero insieme i due agenti. Si guardarono imbarazzati.
- Lavoriamo insieme. - Precisò Stella. - Un po’ come due compagni di classe. -
Mac non trattenne una delle sue classiche espressioni. Incurvò gli angoli delle labbra verso il basso alzando le sopracciglia, annuendo. Non riusciva a trattenersi quando apprendeva qualcosa che non si aspettava, tipo l’affermazione di Stella.
- Beh, più o meno. Io sono il tuo capo. - Precisò lanciandole un’occhiata divertita.
- Cerca di semplificare le cose, sono bambini! - Poi si voltò indietro, guardando quei tre faccini innocenti. - Cos’è successo alla mamma? -
- Papà le ha fatto male. - Rispose sempre Nikolas, il maschietto più piccolo.
- Quando? - Indagò Mac.
- Un mese fa. - Intervenne Thomas. In auto calò un silenzio che nessuno ebbe il coraggio di spezzare. Non c’era molto da aggiungere alle cose che avevano detto i bambini, se non una silenziosa promessa da parte dei due detective di arrestare il colpevole di tutte quelle atrocità.
Una volta posteggiato davanti alla centrale, Mac e Stella accompagnarono i bambini all’interno, dove Flack e una donna li stavano già aspettando. L’assistente sociale si appartò con i minori per prendere le loro generalità e iniziare le pratiche con l’aiuto di Don, mentre Taylor e Bonasera li guardavano attraverso il vetro della porta che li separava. Mac scosse la testa. Aveva perso il conto di tutte le esperienze che l’avevano segnato, ma dopo tutti questi anni ancora si domandava come potessero le persone comportarsi così. Come potessero non avere il buon senso di capire quando fermarsi. Come non riuscissero a capire che stavano facendo soffrire le persone vicine a loro.
- Dovrebbero dare un’idoneità per diventare genitori. - Disse solamente, sapendo che Stella era lì accanto a lui e che lo aveva sentito. Se c’era qualcuno che poteva immedesimarsi in quei bambini era proprio lei, sballottata tra orfanotrofi e adozioni. Rendendosi conto che lì non sarebbe stato d’aiuto a nessuno, si voltò verso di lei.
- Vado a portare il sangue trovato nel lavandino e le impronte in laboratorio. Ti offro un caffè? - Lei annuì piano, visibilmente provata da tutta quella situazione.
Salirono insieme in ascensore, rimanendo in silenzio fino all’arrivo al piano.
- Arrivo subito. - Le fece cenno di andare verso il suo ufficio ad attenderlo mentre andava da Danny, e così fece mentre Taylor prendeva la direzione opposta alla sua in corridoio.
Mac trovò Messer, Lindsay e Peyton impegnati ad analizzare le prove per l’ennesima volta, attirando la loro attenzione appena comparve dietro la vetrata. Vedendolo entrare con la sua aria autorevole e il passo deciso, Peyton sperò di non arrossire. Era sempre stata sensibile al suo modo di fare, da uomo elegante, composto, educato e intelligente.
Taylor li guardò tutti e tre a turno, ma l’unica ad abbassare lo sguardo sul ripiano di lavoro, certa di non riuscire a reggere gli occhi di lui, fu Peyton.
- Ciao, c’è del lavoro. - Esordì. - Nella casa del presunto assassino abbiamo trovato sangue e impronte. Sono questi. - Appoggiò sul tavolo in direzione di Danny due bustine. - Mentre questo è il DNA di Victor Goslim. Fatemi sapere se ci sono riscontri. - Posò il tampone con la saliva al centro, verso Peyton, per evitare che li confondessero.
Annuirono entrambi, ma Danny lo fermò prima che uscisse. - Capo? -
Mac si voltò, fermandosi sulla soglia. - Da quant’è che non dormi? - Chiese preoccupato. Il viso del detective, infatti, tradiva ogni suo tentativo di sembrare instancabile. Ma Taylor trovava snervante andare a casa in quelle situazioni. Inevitabilmente si sedeva al tavolo della cucina ripensando alle prove, tentando di rimettere insieme i pezzi del puzzle. Non riusciva a rilassarsi sapendo che là fuori, da qualche parte, un assassino stava godendo del tempo prezioso in libertà perché lui aveva bisogno di riposare.
- Dormirò quando avremo arrestato il colpevole, fino ad allora le mie energie saranno focalizzate qua. - E senza aggiungere altro lasciò il laboratorio. Danny guardò Peyton con aria preoccupata.
- Faceva sempre così? - Provò ad alleggerire la tensione, notando un certo disagio anche sul viso di lei.
- Lo sai com’è fatto, è sempre stato difficile portarlo fuori dall’ufficio, ma quando prende a cuore un caso è impossibile. -
Danny prese una delle bustine che gli aveva lasciato Taylor e se la rigirò tra le mani.
- Se c’è qualcuno che può riuscirci, sei tu. - Concluse Lindsay.
Peyton sorrise apprezzando le parole di lei, ma non credendoci veramente fino in fondo.
- Forse una volta. - Le costò tanto ammetterlo, perché il problema, per lei, era sempre stato accettare la realtà dei fatti: Mac era già andato avanti. - Ora non più. -

To be continued...

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


Capitolo VII

Quando Mac tornò in ufficio, Stella era già seduta alla scrivania, di fronte a dove si sarebbe messo lui. Era voltata in direzione della vetrata che lui stesso, qualche ora prima, aveva allestito con foto e appunti. Lui si fermò accanto a lei, le maniche della camicia blu scuro arrotolate fino ai gomiti e una mano nella tasca dei pantaloni, nell’altra un bicchiere pieno di caffè. Glielo porse e Stella lo prese ringraziandolo con gli occhi.
Non ebbe la forza di dire niente, aveva come l’impressione che la testa gli sarebbe esplosa da un momento all’altro, ma la prospettiva di un caffè gli mise in circolo ancora un po’ di adrenalina.
Stancamente le passò davanti per sedersi al suo posto, trovando un po’ di sollievo quando si appoggiò allo schienale. Nessuno dei due si rese conto di quanto tempo passarono così, fermi e in silenzio, ognuno assorto nei propri ragionamenti, con le proprie teorie, con le proprie frustrazioni. Ogni tanto Taylor si avvicinava al computer digitando qualcosa, per poi tornare a fissare le foto, poi la lista di nomi.
Solo quando sentirono bussare alla porta sussultarono entrambi. Mac voltò lo sguardo verso la fonte di rumore, vedendo Peyton sulla soglia. In mano aveva dei fogli.
Taylor le fece cenno di avvicinarsi con una mano, quindi lei avanzò verso la scrivania.
- Ho i risultati. Il tampone con la saliva di Victor non corrisponde a nessun DNA trovato sulla scena, mentre il sangue che avete trovato dentro il lavandino coincide con il secondo campione presente sulla bottiglia. -
Mac annuì stancamente. - Abbiamo la prova che Miguel ha ucciso Frank. -
- Non resta che trovarlo… - Commentò ironicamente Stella.
- Potete andare a casa. - Disse Taylor guardando Peyton. - Dillo anche a Danny e Lindsay, sarete sicuramente stanchi. -
Lei si limitò ad annuire e dopo aver salutato entrambi lasciò l’ufficio.
Stella si voltò verso di lui. - Se iniziassimo a contattare i nomi sulla lista? -
Mac picchiettò due dita sulla scrivania lasciando che lo sguardo vagasse sulle foto appese alla vetrata.
- Per ottenere cosa? Bugie su bugie? No… Forse ho un’idea. - Lei rimase in silenzio in attesa che lui continuasse. - È rischioso, ma se funziona guadagniamo tempo. Okay, allora, e se usassimo i suoi figli per attirarlo? Ovunque lui sia, credo che abbia comunque accesso ai giornali e al notiziario. Se facciamo lanciare ai media un finto appello, forse avremo qualche possibilità di fargli un’imboscata. - Man mano che spiegava, Stella annuiva sempre con più convinzione.
- Bene, supponendo che questo Miguel abbia a cuore i bambini nonostante sia in fuga, ci serve qualcosa che possa toccarlo al punto da farlo cadere in fallo. -
- Che ne dici di giocarci la carta della salute? -
Mac si morse il labbro inferiore, poco convinto. - No, New York è piena di ospedali che possono offrire le cure migliori. Ammesso e non concesso che Miguel sappia che in sua assenza i minorenni entrano in custodia degli assistenti sociali, dovrebbe intuire che le cure mediche sono a carico loro. Serve qualcosa di più grave. Qualcosa collegato al giro che aveva con Victor. -
Prima che Stella potesse aggiungere qualcosa, il detective scattò in piedi, improvvisamente pieno di energie. Afferrò la bustina con dentro la lista dei possibili assassini e, stappato il pennarello, si avvicinò a una parte della vetrata ancora libera.
Copiò rapidamente i nomi mantenendo, nonostante la fretta con cui scriveva, la sua solita calligrafia precisa ed elegante.
Quando terminò chiuse il pennarello, voltandosi verso di lei e picchiettando sul vetro come un professore. - In totale sono in dieci. Due di loro sono in stato di fermo, Flack ha controllato e sono stati fermati per spaccio: uno ieri sera e l’altro questa mattina. - Riaprì il pennarello, tracciando sui due una linea.
- Il cerchio si restringe a sette, se escludiamo Miguel. - Aggiunse Stella.
- Sì. Ho fatto delle ricerche prima, questi tre tizi sono nuovi nel giro, se sanno qualcosa, è molto poco. Dubito abbiano informazioni che possano esserci utili o che siano implicati con questo caso. Miguel, invece, è uno dei veterani. Quindi se la logica è dalla mia parte, non dovrebbe avere attriti con loro. - Sbarrò altri tre nomi.
Stella rimase basita. Mac era entrato in quello che lei chiamava flusso di coscienza. A volte aveva dei lampi di genio che buttava fuori senza preavviso, e interromperlo avrebbe spezzato quella genialità che spesso si era rivelata fondamentale per risolvere dei casi.
- Rimangono questi quattro. - Li cerchiò separatamente. - Loro dovrebbero essere i pilastri, o almeno uomini di cui Victor si fida dato che lavorano insieme da anni. Il profilo che a noi serve è uno di loro.  Facciamo due nomi io e due tu? -
Lei non trattenne un sorriso. - Certo. Posso usare quest’altro computer? - Indicò il portatile. Lui le diede il consenso con un cenno della mano, posando il pennarello e tornando alla propria postazione.
Nel silenzio dell’ufficio, l’unico rumore che si percepiva erano le loro dita che picchiettavano rapidamente sulle tastiere, quando Mac batté due volte la mano sulla scrivania.
- Trovato. Questo tizio si chiama Johnathan Foster. Risulta che otto mesi fa sia arrivato alle mani con Miguel per questione di soldi. -
- Non ci resta che lasciare ai media il compito di mettere zizzania tra i due. -
Taylor annuì. - Chiamo i giornali. -

Quando Mac Taylor arrivò davanti la sua porta di casa, trovò Peyton ad aspettarlo.
- Prima davanti casa, ora davanti la porta. Il prossimo passo qual è? Ti troverò direttamente sul divano? - Disse serio fermandosi di fronte a lei.
- Non è come pensi. - Si giustificò lei. - Fuori si gela e poi… ho pensato di portarti la cena. - Alzò due sacchetti che Mac non aveva notato. Lui rimase in silenzio provando un leggero senso di colpa, poi prese le chiavi dalla tasca dei pantaloni e le inserì nella toppa. Con una mano le fece cenno di entrare, e con non poco imbarazzo Peyton lo anticipò, varcando la soglia. Non aveva previsto che lui l’avrebbe invitata ad entrare e questa cosa la colse decisamente in contropiede.
Appena entrò il profumo della casa di Mac la investì in pieno. Le era mancato da morire, a stento trattenne un sorriso malinconico.
Sentì Mac richiudersi la porta alle spalle, chiudere la catenella di sicurezza tipica delle case americane e posare le chiavi sul mobile accanto all’entrata.
- Sono andata al giapponese. Ti piace ancora, vero? - Domandò leggermente nel panico temendo di aver sbagliato a prendere iniziative.
Taylor si voltò verso di lei togliendosi la giacca. - Sì. Sì, tranquilla. Non dovevi disturbarti. - La appese e lei appoggiò i sacchetti sul tavolo poco distante.
- Torni sempre tardi a casa, ho pensato che non avessi voglia di metterti a cucinare. -
Mac accennò un sorriso. Aveva ragione, raramente aveva voglia di mettersi ai fornelli dati gli orari inumani che aveva, ma rientrava sempre con lo stomaco che urlava pietà e il cibo spazzatura non era tra i suoi preferiti. Quindi nonostante tutto si preparava sempre qualcosa di sano o, alla peggio, si fermava a comprare qualcosa di pronto.
- Già… Grazie. - Prese posto su uno degli sgabelli, poi la guardò come a invitarla a sedersi.
Lei obbedì silenziosamente, prendendo posto accanto a lui. - Hai già contattato la stampa? - Domandò aprendo i sacchetti nella speranza di dissipare il velo di imbarazzo.
Mac si appoggiò con gli avambracci al tavolo. - Sì, diffonderanno una notizia falsa su un finto rapimento dei bambini per provare ad attirare Miguel. Se la mia idea funziona riusciremo a prenderlo con un’imboscata. -
Lei ci pensò su un attimo. - Trattandosi dei suoi figli dovrebbe funzionare. Hai avuto una buona idea. -
- Trattandosi dei suoi figli non avrebbe dovuto abbandonarli. - Precisò Taylor.
Peyton alzò le sopracciglia. - Hai ragione, ma spero che un minimo di istinto paterno ce l’abbia. Tieni. - Gli porse una porzione di noodles. - Fai attenzione, sono ancora caldi. -
Mac prese il contenitore di cartone dal bordo per non scottarsi, facendolo scorrere sul tavolo fino a portarlo davanti a sé. Iniziarono a mangiare entrambi, rigorosamente in silenzio, troppo imbarazzati per parlare liberamente come qualche mese prima. Troppo tristi, troppo arrabbiati e orgogliosi per ricominciare da dove si erano persi.
- Mi era mancato, sai? Cenare con te… - Fu lei a spezzare il silenzio, non riuscendo a resistere a quella tensione di cose non dette che avrebbe percepito anche uno sconosciuto.
Lui si girò a destra, verso di lei. - Anche a me. - Ammise senza vergogna.
A quelle parole le ciglia di lei tremarono. - Sul serio?... -
- Sì. -
- … Lo mangi tu quel takoyaki? - Chiese lei per cambiare discorso, anche se il cuore le batteva a mille. Mac non capì. Non era mai stato bravo con i nomi giapponesi, troppo complicati da pronunciare e da associare alle immagini.
- Quale sarebbe? -
Lei sorrise. - Quelli. Polpette di pasta di soia. -
Taylor intuì che a lei dovevano piacere. - No, mangiali tu se ti piacciono. - Lei sorrise e ne prese uno con le bacchette.
La cena proseguì sempre con un filo di imbarazzo, ma tutto sommato bene considerando le condizioni del loro rapporto. Quando finirono di mangiare Peyton allungò la mano verso uno dei due sacchetti, tirando fuori una bottiglia di sake.
Vedendo il liquore Mac le lanciò un’occhiata. - Provi a farmi ubriacare? - Abbozzò un sorriso.
- Guarda che è buono, assaggia! -
- Non lo metto in dubbio, ma ti avverto: io reggo bene l’alcol. -
Peyton sorrise di rimando, dandogli poi una botta scherzosa sulla spalla. - Sai che dicono tutti così quelli che non lo reggono? -
- Lo sai che non mi ubriaco, ne hai avuto la prova più volte. -
- Magari questa volta potresti non reggerlo… - Disse avvicinando il viso a quello di lui. Mac rimase immobile, fissandola negli occhi senza avere il coraggio di muovere un muscolo.
- È una sfida? - Domandò solamente. Peyton si limitò ad annuire sorridendo mentre entrambi si studiavano, in silenzio, cercando di capire le intenzioni dell’altro.
Taylor si sforzò in ogni modo di parlare, di dire qualcosa per sfuggire da quella situazione che da un lato gli piaceva e dall’altro lo terrorizzava, ma la voce gli morì in gola. Si rese conto solamente che lei, lentamente, stava accorciando le distanze tra i loro visi fino a sentire le labbra di Peyton sulle sue. I tentativi che fece per resisterle vennero abbandonati dopo pochi secondi, e il detective si ritrovò in balìa di un bacio che aveva disperatamente cercato per mesi. Lo ricambiò con tutte le forze che aveva sperando che a lei arrivasse almeno la metà del dolore che aveva provato, ma oltre ogni cosa tutto l’amore di cui non era riuscito a liberarsi.
Taylor si alzò dallo sgabello mettendole una mano dietro la nuca temendo che lei, imitandolo, potesse allontanarsi.
Si alzò anche lei, che prontamente gli mise entrambe le braccia intorno al collo. Stretti come due adolescenti camminarono alla cieca cercando a memoria la camera di Mac, finché non caddero sul materasso dopo aver sbattuto contro i piedi del letto. Lui pregò che il cellulare di lavoro non gli squillasse in quel momento, mentre sentiva le mani di Peyton accarezzargli il petto e poi il collo mentre lui, con una mano, aveva iniziato a sbottonarsi la camicia.

Dopo aver consumato la passione, Mac e Peyton rimasero sotto le coperte ancora non del tutto consapevoli di quello che era accaduto. Lui, a petto nudo con le coperte che gli arrivavano a metà busto, fissava il soffitto chiedendosi se fosse stato un sogno o la realtà.
Lei si girò a sinistra, appoggiandosi sul suo petto. - Ti prometto che da domani saremo più cauti. -
Taylor si girò verso destra, guardandola negli occhi. - A me questo non sembra essere cauti. -
Lei sorrise. - Infatti ho detto da domani. Mi rendo conto che abbiamo corso troppo stasera… È giusto prenderci il tempo che ci serve e capire come va. Non voglio metterti fretta. -
Mac annuì. Era stato il primo a non essere riuscito a fermarsi poco prima, ma sapeva benissimo che il discorso di Peyton era giusto.
- Sì. Penso di sì. - Lei gli accarezzò una guancia come a trasmettergli la fiducia che non era riuscita a dargli in tutto quel tempo, poi scostò piano le coperte mettendosi seduta.
- Io vado, grazie per la cena e… la compagnia. -
Anche Taylor si tirò su a sedere. - Sei in macchina? -
- No, chiamo un taxi, non ti preoccupare. - Fece per alzarsi, ma Mac le prese una mano.
- Rimani, è tardi ormai. - La guardò negli occhi. - Potrebbe succedere qualcosa. -
- Questa è deformazione professionale, detective. - Rise divertita.
- Può darsi. Sai quanto me quanto può essere pericolosa New York. -
Peyton annuì, sapeva anche che quello era il suo modo di chiederle di rimanere per non farlo preoccupare.
- Va bene. Se proprio insisti. -

La sveglia suonò inesorabile alle 5.50 AM, precisa come ogni mattina. Il detective Taylor la spense dopo un trillo sperando che non avesse svegliato anche Peyton, ma a guardarla sembrava dormire come un sasso.
Si alzò senza fare rumore, indossando poi una maglietta e dei pantaloni della tuta. Una volta in bagno si fece la barba, perfezionando la rasatura già curata, poi andò in cucina a prepararsi un caffè.
Lo accompagnò con una ciambella osservando New York dalla finestra della cucina. Vide un debole raggio di sole in lontananza, tra due palazzi. La città, ancora ferma, iniziava lentamente a prendere vita sotto di lui, e Mac sarebbe rimasto incantato a guardarla per ore, ma aveva i ritmi serrati. 
Finì il caffè lasciando il bicchiere nel lavandino, poi tornò in camera per cambiarsi. Infilò rapidamente pantaloni e cintura, ma quando arrivò alla camicia Peyton si girò sotto le coperte.
- Mmm… Che ore sono? -

Lui si avvicinò al letto, la camicia ancora totalmente sbottonata. - Presto, ma io mi sveglio sempre a quest’ora. Tu continua pure a dormire. - Disse a voce bassa.
- Perché non stai qui ancora un po’? - Lo afferrò per un lembo della camicia tirandolo verso di sé.
Mac sorrise. - Perché sono il capo. E il capo ha anche faccende burocratiche da sbrigare e rendere conto a dei superiori. -
- Ma il capo, se vuole, può anche permettersi di stare a casa mezz’ora in più. - Diede uno strattone più forte e Taylor fu obbligato a frenare la caduta sul letto con i gomiti, rimanendo poco distante da lei. 
- … Peyton, devo andare a lavoro. - Lei lo ignorò deliberatamente, appoggiandogli una mano sulla guancia e baciandolo piano. Non riuscì a resisterle, finendo per ricambiare. - Finirai per stropicciarmi la camicia. - Sussurrò staccandosi di poco.
- Allora toglila. -
- Dico davvero, devo andare. - Anche se poteva sembrare autoritario, un orecchio attento come quello di Peyton colse un lieve tremore nella voce di Mac, che provava a resistere alle mani di lei che dal petto, intanto, erano scese alla vita. Non si spinse oltre, limitandosi ad afferrargli i pantaloni dalla cintura per tenerlo ancorato al letto, e notando che lui aveva ormai rinunciato a fuggire, lo baciò di nuovo.
Lui ricambiò subito, ma Peyton capì di aver vinto la guerra quando Mac non protestò mentre lei gli sfilava la camicia, posandola poi accanto a loro, sul lato del letto vuoto.
 

To be continued...

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


Capitolo VIII

- Sono le 6:25 AM, devo scappare. - Mac si girò verso di lei dandole un bacio veloce, poi si alzò in fretta dal letto. - Tu rimani a riposare, se vuoi. Il tuo orario inizia più tardi. -
Afferrò la camicia che Peyton aveva malamente posato sul suo lato del letto per controllare se fosse ancora indossabile. Dopo averla squadrata per qualche secondo decise di sì: non voleva accumulare altro ritardo.
- A più tardi. Mi preparo anche io e faccio un salto a casa. - Rispose lei mettendosi a sedere e portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
- Perché? - Domandò Taylor abbottonandosi in fretta la camicia. - Da qui sei più vicina al laboratorio. Le chiavi di riserva sono sempre nella pianta fuori, accanto alla porta. -
- Non voglio disturbare. - Disse semplicemente lei. Si erano ripromessi di prendersi i loro tempi, i loro spazi, di non affrettare le cose. Non poteva di certo iniziare così, dormendo a casa sua e gironzolare per casa come se nulla fosse mentre lui era al lavoro.
- Disturbo? Io sto uscendo. - Peyton sorrise intenerita. - Ci vediamo in laboratorio. - E dopo averle dato un bacio al volo Mac afferrò la giacca del completo, le chiavi di casa e corse fuori chiudendosi la porta alle spalle. Nonostante per lui fosse in totale ritardo, le persone normali stavano tranquillamente uscendo per andare ognuno sul proprio posto di lavoro. L’unico che corse a fermare un taxi come se rischiasse il licenziamento diretto era lui.
Non faticò a trovarne uno libero a quell’ora e dopo mezz’ora di tragitto scese di fronte all’ingresso dell’ufficio.
- Cosa vedono i miei occhi! Mac Taylor! - Ed eccolo lì, Don Flack, che non si lasciò sfuggire l’occasione di puntualizzare.
- Ciao, Don. -
- Cosa ci fai a lavoro a quest’ora? Hai trovato traffico o… qualcos’altro? - Ammiccò.
Mac ignorò volutamente l’insinuazione. - Traffico. New York è intasata la mattina. - Salì gli scalini e aprì la porta, entrando poi nell’edificio. Flack entrò dietro di lui, ma la mano di una terza persona bloccò la porta prima che si richiudesse.
- Mac?! Ma che ci fai qui a quest’ora? - Stella gli diede il buongiorno così. Evviva, doveva essere la sua giornata fortunata. Si prospettava una mattinata molto lunga.
Il detective Taylor camminava a passo spedito seguito a ruota da Flack e Bonasera, i quali avevano tutta l’intenzione di scoprire il motivo dietro al ritardo di Mac. Notando che i due continuavano a stargli addosso, lui frenò.
- Beh? Non posso trovare traffico? -
- Certo… - Rispose ironicamente Don. - Peccato che non sia da te. - Stella concluse la frase per lui.
Mac riprese a camminare. - Già, ma non guido io i taxi. -
La detective fece una corsetta per stargli dietro nonostante i tacchi. - Proprio per questo ti alzi prima, non ti è suonata la sveglia? -
- Sbagliato. - La corresse Taylor. - Io mi alzo prima perché molte volte non riesco a dormire e, soprattutto, per terminare faccende burocratiche mentre voialtri dormite ancora. Il traffico non c’entra. -
- E stavolta non l’hai fatto. - Le sfuggì un sorriso.
- L’ho fatto, ma ho trovato traffico. - E lui si stava giustificando come un bambino colto con le mani nel barattolo di Nutella. - E poi cosa sono tutte queste domande, Stella? -
- Siamo solo curiosi. - Rispose Flack non riuscendo a trattenersi. - Tu arrivi prima dei custodi, è come se tu avessi le chiavi di questo edificio, Mac. Permetti che ci stupiamo se ti vediamo arrivare alle 7:00 AM come tutti i cristiani normali? - Quello era decisamente l’evento della giornata.
- Andate a lavorare. - Aprì la porta del proprio ufficio per rifugiarsi lì dalla curiosità dei due amici, ma se Don allentò la presa, lo stesso non si poteva dire per Stella. Lei infatti lo seguì.
- A me non la racconti, Mac, e sai perché? Non hai la faccia di uno che è rimasto bloccato nel traffico per un’ora. - Incrociò le braccia al petto, convinta di averlo messo spalle al muro. Ma davanti aveva il detective Taylor, un uomo dalla risposta sempre pronta. Risposta che, infatti, non tardò ad arrivare.
- E tu che ne sai della mia faccia quando rimango bloccato nel traffico? - Mac si tolse la giacca e la appese all’appendiabiti, poi con calma prese posto alla sua scrivania.
- Saresti quantomeno irritato, per te arrivare presto è fondamentale. -
Lui sospirò, già esausto per quel terzo grado a cui era sottoposto.
- Vero, ma non posso cambiare le cose che non sono in mio potere. E il traffico di New York City non è in mio potere, Stella. -
Lei sorrise. - Chiederò a Peyton. - Disse di proposito, sperando di scatenare in lui una qualsiasi reazione.
Mac rimase impassibile. - Fa’ pure. - Gesticolò con la mano, sperando silenziosamente nella discrezione di lei. E senza aggiungere altro afferrò uno dei fogli già sulla sua scrivania iniziando a leggerlo. Forse per la prima volta in vita sua ringraziò la burocrazia. In quel momento lo aveva salvato da una situazione odiosa.
Intuendo che non avrebbe torto mezza parola dalla bocca del detective, Stella alzò momentaneamente bandiera bianca, lasciando l’ufficio di lui. Andò in direzione dello spogliatoio, già occupato da Danny e Lindsay.
- Stella! La voce che gira è vera? - Ed eccolo lì Messer, già pronto a spettegolare.
- Sii più preciso. -
- Mac è arrivato in ritardo. Cioè, non in ritardo, in orario se consideriamo l’orario normale. In ritardo per i suoi standard! -
- Salve a tutti. - Adam fece il suo ingresso, ignaro di tutto, ritrovandosi gli occhi degli altri addosso. - Che è successo? -
- Oh, tu non ne hai idea, amico mio. Oggi è un giorno importante. - Rispose Danny.
Stella non riuscì a trattenere una risata: Mac Taylor era diventato lo scoop del laboratorio.

Mentre in laboratorio si respirava un’aria leggera, i media intanto avevano iniziato a diffondere la notizia che Johnathan Foster, noto criminale alle forze dell’ordine, aveva preso in ostaggio tre minori, identificati come i figli di Miguel Ramirez.
Mac spense il televisore che aveva in ufficio. Il servizio preparato dai media era stato costruito bene, mostrando delle pattuglie di polizia circondare un casolare apparentemente abbandonato nella zona industriale di New York. La telecamera riprese di proposito la zona in modo da far capire dove si trovasse e dei finti giornalisti spiegavano la situazione dei minori. Tutto sembrava così reale che Mac, sorprendentemente, aveva buone speranze. Non rimaneva che attendere, loro avevano lanciato l’esca, mancava solo che Miguel facesse la sua mossa.
Peyton fece il suo ingresso nel laboratorio alle 7:55 AM totalmente ignara di quello che sarebbe successo. Gli occhi di Stella, Danny e Lindsay la accompagnarono dall’ingresso fino al tavolo da lavoro, venendo ricambiati con occhiate confuse.
- Buongiorno. Che succede? -
Danny non si trattenne. - Giorno. Anche tu hai beccato traffico stamattina? - La buttò lì, sul ridere, ma intanto era un modo per cercare una coincidenza.
Peyton aggrottò le sopracciglia dando una rapida occhiata all’orologio da polso.
- No, perché? Sono in ritardo? - Eppure era convinta di essere in perfetto orario.
- No no, chiedevo. Il capo sì. - La studiò per qualche secondo, sperando di trovare qualche espressione che la tradisse. - Beh, se Mac sarà di buon umore oggi, possiamo sospettare il perché. -
Peyton arrossì leggermente, spostando i suoi occhi azzurri sul primo macchinario a portata di mano, come se gli altri potessero leggerle i pensieri e vedere l’immagine di lei e Mac che si rotolavano nel suo letto.
Danny e Stella si scambiarono un’occhiata complice.
- Boom. - Disse solamente Messer.
Il detective Bonasera sorrise. - Non sono bravi a mentire. - Disse a voce bassa.
- Direi di no. - Sussurrò. - E noi siamo bravi a scoprire le cose. Deformazione professionale. -

- Non credo che pranzerò oggi, Stella. Sto aspettando notizie di Miguel. -
Lei sospirò. - Andiamo, Mac! Dieci minuti, il tempo di un panino. -
Lui si appoggiò allo schienale della sedia. - Non lo so. Gli uomini di Flack sono già appostati da ore, se ci chiamano dobbiamo volare. -
- Allora facciamo così. - Era decisa a non mollare la presa, non voleva vederlo così. - Lo mangiamo qui, vado a prenderlo io anche per te. -
Taylor ci pensò un attimo per poi farle un cenno di approvazione con la mano.
- Come vuoi, ma ho da firmare dei documenti. -
Lei annuì sorridendo, poi lasciò la stanza andando verso l’ascensore. Mac la guardò andare via perdendosi qualche secondo tra i suoi pensieri, poi tornò a leggere i fascicoli.

- Ecco qua! - Sussultò quando lei tornò con due panini. Era così concentrato a leggere che non l’aveva neanche sentita entrare. - Ti ho spaventato? - Chiese divertita, sedendosi di fronte a lui.
Lui alzò lo sguardo. - Ero sovrappensiero. Lascialo pure qui, grazie. - Disse riferendosi al suo pranzo. Poi firmò l’ennesimo foglio.
Stella, invece, non si fece pregare. Addentò il panino mentre osservava il suo più caro amico, nonché capo, dedicarsi totalmente al lavoro. Solo dopo qualche minuto lo vide posare la penna e dare un morso al sandwich, e fu proprio quello il momento che lei ritenne più opportuno per attaccare.
- Sei stato a letto con lei. - Diretta. Nessuna domanda. Solo un’affermazione decisa e studiata.
Mac iniziò a tossire dandosi un paio di colpi allo sterno col pugno chiuso, rischiando di strozzarsi con un pezzo del panino. Stella rimase a guardarlo per tutto il tempo, dandogli modo di riprendere fiato mentre il detective cercava di recuperare contegno.
- Che stai dicendo? -
- Che hai fatto sesso con Peyton. -
Mac tossì ancora. - Sei fuori strada, Stella. - Rispose con la voce rotta dalla tosse. Si guardarono negli occhi, e mentre Taylor cercava di rimanere il più distaccato possibile, lei lo fissava attentamente, alla ricerca di una qualsiasi prova che indicasse che Peyton era stata da lui quella notte. Qualsiasi cosa, una traccia di rossetto sulla camicia o sulla guancia, qualcosa di strano, ma nulla. Tutto era al proprio posto, dall’orologio al colletto della giacca.
- No, io non credo. - Diede un altro morso al panino attendendo una reazione di lui.
- Fidati, lo sei. -
- Perché insulti la mia intelligenza? Guarda che non c’è niente di male, anzi! Sono contenta per voi. - Mac rimase interdetto per qualche secondo non sapendo bene come gestire quell’assurda situazione. Poi, con calma, si leccò il labbro inferiore.
- Stella. - Iniziò. - Quando ti ho assunta qui ti ho insegnato che le prove sono l’unica cosa che ci porta alla verità. Non c’è istinto o sesto senso che tenga se le prove non ci sono. Bene. Non so su che basi tu stia dicendo questo, ma una cosa la so per certo: non hai prove. - E deciso a concludere lì il discorso, si staccò dallo schienale afferrando un altro documento.
Ma se sperava di averla vinta così facilmente, beh, si sbagliava. Stella era un osso duro.
- Mac, tesoro. - Ironizzò. - Da quando faccio questo lavoro ho anche imparato che il linguaggio del corpo, a volte, dice molto più di quello verbale. -
Taylor fece la sua classica espressione, annuendo. - Conosco molto bene queste teorie, sono il primo a usarle con i sospettati. Ma non attaccano con me. -
Lei gli sorrise, quella conversazione la stava divertendo.
- Vuoi le prove? D’accordo. Questa mattina siete arrivati in ritardo tutti e due. Potrai dirmi che è una coincidenza, e va bene, ma né tu né lei eravate irritati dalla cosa. Posso capire lei… Ma tu? Tu, detective Mac Taylor? Che arrivi in ritardo e non sei neanche un filo nervoso? -
Mac alzò lo sguardo su di lei. - Non sono arrivato in ritardo, sono io che arrivo in anticipo ogni giorno. La mia sveglia suona alle 5:50 AM, quindi i miei 30 minuti di ritardo sono stati attenuati dal largo anticipo con cui mi sveglio. E il turno di Peyton oggi iniziava alle 8:00 AM. Da quel che so, è arrivata puntuale. -
- Mac, andiamo! - Continuò Stella. - Non mi servono tutti questi calcoli per notare che stamattina eri rilassato, ti conosco come le mie tasche. E sono contenta di saperlo. Sono contenta che stiate ricominciando… Mi dispiace solo che non vuoi dirmelo. -
Il detective rimase colpito dalle ultime parole della collega. Stella era sempre stata in grado di capirlo anche quando lui non aveva la forza di parlare. Era sempre stata un punto presente, un’ombra protettiva che Taylor sapeva di avere su di sé e in quel momento si sentì in dovere di dirle qualcosa, ma non riuscì. Avrebbe significato smentire tutto quello che aveva detto fino a quel momento.
- Vuoi aspettare e vedere come va? - Continuò lei.
- Non c’è niente da vedere. -
- Sì. Vuoi decisamente vedere come va. - Sorrise Bonasera. - Va bene! Io non so niente. - Disse per fargli intendere di avere una complice.
Mac sospirò. - Non c’è niente, Stella. C’è solamente quello che tu vuoi vedere. - E mostrando nonchalance addentò nuovamente il panino.
- Potresti farmi almeno il favore di non insultare la mia intelligenza? - Taylor sfoggiò l’espressione più innocente che sapesse fare, come a dire “non so di che parli, giuro”, poi prese un altro morso di sandwich deciso a non alimentare ulteriormente le teorie strampalate di Stella.
- E non fare quella faccia! - Aggiunse Bonasera. Era contenta che Mac avesse dato una seconda occasione a Peyton. Li aveva sempre trovati belli insieme, e sapere che non fosse totalmente solo una volta uscito dall’ufficio la faceva stare più tranquilla. Non erano rare le volte in cui lui saltava il pranzo o passava la notte in laboratorio. Lei non poteva stargli addosso e controllarlo 24h su 24. Uscita dall’ufficio non le rimaneva che sperare nel suo buonsenso, ma sapere che dopo l’orario di lavoro c’era una persona che in questo la aiutava la faceva dormire serena.
Dopo aver appallottolato la carta del sandwich, Stella si alzò pronta per tornare a lavoro.
- Io vado, ti lascio alle tue scartoffie. - Fece per uscire, ma la voce di Mac la fermò.
- La prossima volta che vuoi provare, fallendo oltretutto, a strapparmi informazioni, usa una scusa migliore del pranzo. - Trattenne a stento un sorriso, cosa che non sfuggì a lei.
- Hai ragione. - Sorrise di rimando. - Mi inventerò qualcos’altro. Magari stasera ti porto al pub, a meno che tu non abbia di meglio da fare… -
- Reggo bene anche l’alcol, detective Bonasera. -
Si guardarono negli occhi. - Staremo a vedere, detective Taylor. -
 

To be continued...

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


Capitolo IX

Stella non fece in tempo a mettere piede in laboratorio che Danny Messer era già pronto a placcarla per avere informazioni.
- Allora allora allora? - Incalzò.
- Allora niente… - Rispose Bonasera con aria sconfitta. - Ha negato tutto nonostante gli abbia fatto domande dirette. -
Danny si passò frustrato una mano sui capelli. - Okay, io col capo non ho speranze, ma posso provare con Peyton, eh? Che dici? O pensi che con te si aprirebbe di più… Sai, tra donne… -
Stella alzò le spalle non sapendo cosa pensare. - Può darsi, ma per principio voglio che sia lui a dirmelo. Gli ho proposto di andare al pub stasera. -
Danny non trattenne una risata. - Il capo ubriaco? Nah, non ce lo vedo, non ce lo vedo proprio. Beh, io vado da Peyton, l’ho vista andare a prendere il caffè. -
- Vuoi estorcerle una confessione? - Rise Stella, mentre Danny si beccava un’occhiataccia da parte di Lindsay.
- Ti faccio vedere come lavora un vero detective! - E senza aggiungere altro Danny uscì dalla stanza, dirigendosi a passo deciso in quella ristoro in cui avevano ogni tipo di scorta: caffè, tavolo con sedie e addirittura un frigo con dentro ogni tipo di genere alimentare immaginabile.
Peyton era al bancone, di fronte alla caraffa del caffè, impegnata a riempirsi un bicchiere medio.
- Ehi! - La salutò con un sorriso. - Pausa anche tu? -
Lei si voltò nella sua direzione, ricambiando. - Sì, avevo bisogno di staccare cinque minuti. Tutta questa situazione è stressante. -
- Già. Io sto aspettando che Flack chiami. Sai no? Il finto blitz… -
Peyton annuì tornando improvvisamente seria, portandosi il bicchiere alle labbra per bere un sorso.
- Sì, ho sentito. Fate attenzione, anche se mi sembri abbastanza rilassato da come chiacchieri. -
A Messer sfuggì una risatina nervosa. - Eheh, faccio così quando sono agitato, non riesco proprio a controllarmi. - Tra i due calò un silenzio imbarazzato, e Danny ne approfittò per cercare qualche indizio addosso alla ragazza che gli confermasse la tresca tra lei e Mac. Rimase deluso, però, quando non trovò nulla: non c’erano segni di graffi, morsi o altro che potesse ricondurre a una notte passata insieme.
La voce di lei lo destò malamente. - … Tutto bene, Danny? -
- Eh? - Si aggiustò distrattamente gli occhiali per riprendere contegno. - Sì, scusami, ero sovrappensiero. -
- Tranquillo. Prendi un caffè anche tu, sicuramente ti aiuterà. - E senza aggiungere altro lo superò prendendo la direzione dell’uscita. Preso dal panico per non aver sfruttato l’occasione, Danny parlò ancora.
- Aspetta! - Lei si girò con il bicchiere ancora in mano. - Come… Come va con Mac? Sì insomma, c’è tensione tra voi o riuscite a lavorare nonostante tutto? - La vide inarcare le sopracciglia, quindi si affrettò a precisare le sue intenzioni prima che lei travisasse tutto. - Non voglio farmi gli affari tuoi, è solo che sono preoccupato. Insomma, non dev’essere facile per te vederlo tutti i giorni dopo quello che c’è stato tra voi… -
Lei ascoltò in silenzio, abbassando poi lo sguardo sul caffè che aveva ancora in mano. - Va bene. Abbiamo deciso di non mischiare lavoro e vita privata. -
Danny incrociò le braccia al petto fingendosi ammirato. - Wow. Come diavolo fate? Non è facile così di punto in bianco. - Doveva assolutamente tirare avanti la conversazione.
- Siamo adulti, Danny. Abbiamo semplicemente deciso di metterci una pietra sopra e andare avanti. Tutto qui. - Spiegò, ma Messer era un ragazzo attento ai dettagli e gli sembravano una marea di bugie messe in fila una dietro l’altra per nascondere la realtà dei fatti: e cioè che non appena si erano rivisti, tra i due si era riaccesa la fiamma.
- Sicura? - Indagò. - Sicura sicura? -
- Sicura.- Confermò senza indugio.
- Quindi se… Se vi capitasse l’occasione, non so… di… di un bacio! Pensi che non cederebbe nessuno dei due? Come diavolo fate, siete due robot? -
Lei si lasciò scappare un sorriso, la divertiva il fatto che lì dentro tutti pensassero a lei e Mac in situazioni imbarazzanti.
- Che ragionamento è? Tu baceresti tutte le tue ex? -
- Dipende dalle situazioni. - Gesticolò imbarazzato Messer. - Voi due vi siete lasciati con delle cose in sospeso, quindi una volta tornata qua, beh… Ci sta. Non provate più niente? Nessuno dei due? -
- Dovresti pensare al lavoro, Danny. L’hai detto tu: Don potrebbe chiamarti da un momento all’altro. - Peyton tentò di stroncare il discorso, fallendo miseramente.
- Sono solo preoccupato per te. - Continuò Messer. - Se l’ambiente di lavoro non è sereno rischi di lavorare male. Ma hai ragione, in fin dei conti non sono affari miei… Ti lascio tornare al tuo lavoro! -
Danny la superò a passo spedito, sfruttando l’occasione di prendere un respiro profondo quando le fu vicino.
Non riuscì a trattenere un sorriso di vittoria mentre percorreva il corridoio per tornare al laboratorio, dove sicuramente Stella e Lindsay erano ancora lì ad attenderlo. E così era infatti, quando varcò la soglia, le due erano in attesa di notizie. Specialmente Stella.
Fu proprio a lei che Danny si rivolse. - Se io avessi scoperto qualcosa, metteresti una buona parola per me col capo per un aumento? -
Bonasera incrociò le braccia. - Sicuramente. Avanti, parla. -
- Colgo dell’ironia! - Protestò. - Okay! Allora, lei ha negato. Dice che lei e Mac si sono messi d’accordo sul non mischiare lavoro e privato, ma quando mi sono avvicinato per superarla ho sentito profumo da uomo! Capito? Da uomo. Deve averglielo attaccato Mac per forza. Sono o non sono il migliore? - Sorrise.
Stella lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, sconsolata. - E questa sarebbe la tua grande scoperta? Potrebbe essere di chiunque. -
- Andiamo! Deve essere per forza del capo, dove può essere andata di prima mattina? - Le guardò entrambe, cercando supporto psicologico da Lindsay che, invece, preferiva stare fuori da quell’assurda combutta.
- Dal tizio che frequenta! - Rispose Stella.
- E sappiamo tutti chi è. - Concluse ovviamente Messer.
- Quello che voglio dirti è che non è una prova inconfutabile, loro potrebbero comunque negare. Bisogna metterli davanti all’evidenza. -
Danny sbuffò. - E come speri di fare? Speri di trovarli a baciarsi di nascosto da qualche parte in laboratorio? - Disse ironico. Non li avrebbero scoperti mai, lei era troppo concentrata su lavoro e lui… Beh, lui era il capo, troppo serio, riservato e professionale per farsi scoprire in certi atteggiamenti sul luogo di lavoro. Sospirò: ci avrebbero messo una vita per scoprire la verità.

Il pomeriggio trascorse piuttosto tranquillo. Ognuno aveva proseguito con i propri compiti fino alle 6:13 PM, quando Flack telefonò a Mac per avvisarlo di movimenti sospetti al capannone dove volevano attirare Miguel.
Taylor, Stella e Danny si prepararono in meno di un minuto, posando guanti e camice per poi scendere in strada e raggiungere Don nella zona industriale di New York.
Le auto della polizia erano state nascoste nei capannoni circostanti per far sembrare la zona non sotto il controllo delle forze dell’ordine. In caso contrario Miguel non si sarebbe mai fatto avanti.
Il detective Taylor osservava da lontano il casolare dove sarebbe dovuto entrare Miguel. Erano già tutti equipaggiati con giubbotti antiproiettile e pistola, armati di pazienza e nervi saldi in attesa di vedere solamente la figura di Miguel Ramirez uscire allo scoperto.
Mac non avrebbe saputo dire quanto tempo aspettarono prima di entrare in azione. Un’ora, forse due, quando la figura di un uomo che correva attraversò la strada di fronte a loro, entrando poi nel capannone che tenevano sott’occhio da ormai troppo tempo.
Lui e Flack si scambiarono un’occhiata d’intesa e Don, girandosi verso i suoi uomini, diede il via con un cenno della mano.
La polizia avanzò piano, compatta, con le pistole puntate in avanti e le torce spente fino all’ultimo, lasciando il casolare che avevano usato come nascondiglio e iniziando a circondare quello di fronte.
Flack, Taylor, Danny e Stella entrarono insieme dall’ingresso che aveva usato Miguel. Si nascosero dietro alcuni scatoloni, evitando ancora di accendere le torce. Rimasero in silenzio, immobili e le orecchie tese per qualche secondo in attesa di qualsiasi rumore per accertarsi che l’uomo che avevano seguito fosse veramente Miguel. Conferma che non tardò ad arrivare.
- Dove sei, Foster? Sono qui, bastardo! Esci! -
I quattro si scambiarono un’occhiata, uscendo contemporaneamente dai ripari. Accesero le torce e puntarono le armi di fronte a loro.
- Mani in alto Miguel Ramirez, polizia di New York! -
L’uomo si girò di scatto verso Mac Taylor venendo investito dalle torce degli agenti. Tuttavia non abbassò l’arma che aveva in mano. Non ebbe il tempo di dire nulla, Taylor lo incalzò ancora. - Abbassa la pistola! -
- Voi non capite! - Protestò puntando la 9mm verso il terreno. - Qui dentro ci sono i miei figli! Sono in pericolo! -
Mac avanzò con cautela verso Miguel, disarmandolo e gettando la pistola alle sue spalle, verso gli altri agenti. Poi gli prese il polso girandoglielo dietro la schiena, e solo allora rinfoderò la propria arma per prendere le manette che teneva alla cintura.
- I tuoi figli sono con gli assistenti sociali da due giorni, quella che hai visto in televisione o sui giornali era una notizia falsa per attirarti. Sei in arresto per l’omicidio di Frank Bennet. -
L’uomo rimase in silenzio, lasciandosi scortare fino alle auto nascoste fuori dal capannone.
Taylor affidò il resto delle procedure a Flack, tornando in laboratorio insieme a Danny e Stella.
Mentre Mac sistemava le ultime cose nel proprio ufficio prima di tornare a casa, il detective Bonasera fece il suo ingresso senza annunciarsi.
- Allora? Sei pronto per il pub stasera? -
Lui, già in piedi, alzò gli occhi da un fascicolo per puntarli nei suoi. - Davvero, Stella? Vuoi tentare la via dell’alcol? E comunque io sono in servizio per un altro paio d’ore. -
Lei scrollò le spalle. - Allora facciamo tra due ore. - Gli sorrise.
- … Sul serio? -
- Sì. -
Mac sospirò annuendo. - D’accordo. - Lasciò cadere il fascicolo sulla scrivania.
- Lo so che sei stanco, staremo fuori solo un’ora, non di più. Mal che vada ci saremo fatti solo una chiacchierata. -

Quando Taylor salì sul taxi per tornare a casa provò una strana sensazione di dejavù. Il ritorno di Peyton, lavorare insieme sui casi, quella costante sensazione di tenere nascosta una cosa privata per non provare l’imbarazzo di essere sulla bocca degli altri. Erano tutte cose che pensava di essersi lasciato alle spalle dopo la rottura di qualche mese prima, e ora gli erano ritornate addosso tutte insieme, senza dargli il tempo di respirare e capire come gestirle. E forse era proprio quello il problema: più si sforzava di tenerle nascoste, più suscitavano curiosità agli occhi degli altri. Banalmente, se avessero fatto tutto alla luce del sole, nessuno si sarebbe interessato più di tanto a qualcosa che era palese al mondo. Quindi perché crearsi da solo tutti quei problemi?
Si portò stancamente due dita alla base del naso. Lui era troppo riservato, non sarebbe mai riuscito a sbandierare i fatti suoi in quel modo, come aveva visto fare dalle reclute di Flack che esultavano ad ogni conquista. Mac Taylor non era affatto così, lui custodiva gelosamente ogni cosa per poterla vivere al meglio. E poi quella era una situazione particolare, si era già scottato una volta con Peyton e darle una seconda occasione era stata una debolezza a cui non era riuscito a resistere. Non poteva condannarla per aver scelto la sua famiglia a lui, e lui non poteva negare a se stesso che trovarsela davanti casa l’aveva fatto cedere quasi subito. Aveva veramente provato a tenere le redini della situazione, ma aveva mentito soprattutto a se stesso quando si era detto che ce l’avrebbe fatta.
Quando il taxi frenò Mac chiuse un paio di volte gli occhi per realizzare di essere arrivato, quindi scese dopo aver pagato e salì stancamente in casa. Sfruttò le due ore di tempo che aveva per prepararsi una cena veloce e farsi una doccia calda, che diversamente dalle sue aspettative lo ricaricò per dargli la forza di uscire di nuovo con Stella.
Non appena uscì dalla doccia il cellulare iniziò a squillare, e lui fece appena in tempo a mettersi l’accappatoio prima di rispondere con le mani ancora bagnate.
- Peyton, ciao. -
- Ciao, detective. Stasera sei libero? - Mac non riuscì a trattenere un sorriso sentendo la sua voce.
- Sì, ma tra un’ora ho appuntamento con Stella. Spera di farmi ubriacare al pub. -
Peyton rise piano contro il telefono. - Non vorrà mica approfittarsi di te. Mi devo preoccupare? - Sapeva che scherzava.
- No, non mi ubriaco. Vuole scoprire cos’è successo stamattina. -
La sentì sospirare divertita. - Anche Danny in ufficio mi ha fatto un sacco di domande. Credo che si stiano tutti coalizzando contro di noi. -
- Lo credo anche io. - Concordò Taylor asciugandosi grossolanamente i capelli con il cappuccio dell’accappatoio.
- Facciamo così. Esci tranquillamente, se non torni troppo tardi avvisami, ti raggiungo a casa. -
- Va bene. - Sorrise di nuovo senza rendersene conto. - A dopo. -
 

To be continued...

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


Capitolo X

Puntuale come un orologio svizzero, Mac si presentò davanti al locale in cui andava solo con Stella in jeans, t-shirt e giacca di pelle. La vide subito, poco distante da lui, in un vestito non troppo elegante nero e una borsetta dello stesso colore, con un’energia in viso che Taylor non si spiegava da dove uscisse.
Quando Stella lo vide, alzò un braccio per farsi notare.
- Mac! Eccoti. - Scartò un paio di persone e lo raggiunse. - Entriamo? - Lui annuì dandole una rapida occhiata da capo a piedi.
- Sai, a vederti così non si direbbe che lavori con cadaveri e affini. - Sorrise.
- Finiscila, non sei divertente. - Lui la seguì nel pub, prendendo posto ad un tavolino accanto alla vetrata.
- Allora? Cosa prendi? - Domandò Bonasera. Lui prese il menù con una mano, non avendo la minima idea di cosa ordinare. Non voleva esagerare per quanto sapesse di poterlo fare.
- Non lo so. - Lesse rapidamente i nomi un paio di volte. - Un Baileys. -
Stella fece un cenno di approvazione. - Io una vodka liscia. -
Mac la guardò dubbioso. - Però, ci vai leggera, eh? -
- Anche io reggo l’alcol, detective. - La divertiva chiamarlo così. E anche a lui non dispiaceva, ogni volta scuoteva la testa come se sentirselo ribadire lo mettesse in imbarazzo.
Quando poco dopo la cameriera portò i drink, Mac prese solamente un sorso. Stella, invece, girò piano il bicchiere per far sciogliere un po’ il ghiaccio e diluire la vodka.
- Sai, Danny sostiene di aver sentito un profumo maschile quando oggi Peyton gli è passata vicino. Tu ne sai qualcosa? - Ed eccola lì, Stella Bonasera che passava immediatamente all’attacco. Mac capì che non scherzava affatto prima, in ufficio. Era determinata con tutta se stessa a scoprire la verità.
Mac annuì assimilando l’informazione, imitando la collega e giocando col ghiaccio nel bicchiere. - Dovrei? -
- Beh, vuol dire che si vede con qualcuno. Sicuro di non essere geloso? -
Taylor fece di no con la testa, accennando però un sorriso divertito. Sapeva di essere lui l’uomo misterioso, non poteva essere geloso. Poi bevve un altro sorso.
- Mac! Ti aspetti davvero che ti creda? -
- Stella, stai veramente basando le tue teorie su profumi e coincidenze di orario? Per favore. - Fece per bere un altro sorso, ma nel portare il bicchiere alle labbra si rese conto che una donna alle spalle di Stella lo fissava chiaramente negli occhi. Rimase fermo per qualche secondo, per poi bere e distogliere lo sguardo. Ma si sentiva osservato e la cosa lo infastidiva, quindi dopo qualche secondo voltò ancora gli occhi per controllare se la donna lo stesse ancora guardando.
E aveva ragione.
- … Che c’è? - Domandò Stella, vedendolo strano.
- Nulla. -
Lei sospirò, arrendendosi. - Senti, cambiamo discorso se ti mette a disagio. - 
- Di cosa vorresti parlare? - Chiese Mac che, però, non le stava dando attenzione, continuando a fissare oltre le sue spalle.
- Di quello che vuoi. Chi stai…? - Si voltò anche lei, notando una tizia bionda in fondo al locale guardare nella loro direzione. O più precisamente in quella del detective.
- Stavo giusto per dirti di non voltarti. Quella tizia mi sta fissando da un po’. -
Stella rise. - Hai un’ammiratrice! -
- Peccato che non sia interessato. - Rispose lapidario tornando a fissare la collega.
- Se continui a guardarla lei penserà il contrario. -
Mac annuì costretto a darle ragione. - Mi sento osservato, è deformazione professionale. -
- Già, ma io lo so… Lei no! -
- Mi sforzerò di ignorarla. - Con un altro paio di sorsi lui finì il primo bicchiere, mentre Stella era ancora a metà.
Lei gli fece un cenno d’intesa per fargli capire di aver scelto la tattica giusta, notando poi che lui aveva finito il suo drink.
- Che altro prendi? -
- Io? Niente. Tu, piuttosto, sei ancora a metà bicchiere. - Le fece notare Mac.
- Vorresti lasciami bere da sola? - Si finse indignata.
Taylor alzò le sopracciglia. - Tu sei furba, Stella, ma io non sono stupido. Ci stai mettendo tanto di proposito. Se speri di bere piano per farmi ordinare bicchieri su bicchieri per tenerti compagnia, sei fuori strada. -
Colta sul fatto, lei bevve un lungo sorso. - Mh. Capisco che tu non voglia fare cilecca. Almeno prendi qualcosa di analcolico. -
- Quando finirai la vodka prenderò un altro Baileys, non mi serve qualcosa di analcolico. - Disse con un mezzo sorriso il detective.
Bonasera annuì divertita, le piaceva quella sfida a suon di bicchieri.
La serata proseguì tranquilla, come aveva previsto non riuscì a torcere neanche mezza parola dalla bocca di Mac, ma andava bene così. Avrebbe aspettato che lui si sentisse pronto a raccontarle tutto di sua spontanea volontà.
Come era solito fare, Taylor le offrì di dividere il taxi per assicurarsi che arrivasse a casa sana e salva, e quella volta lei non se la sentì di rifiutare l’ennesimo gesto gentile da parte sua. Stella gli sorrise da lontano quando aprì il portone del palazzo, vedendo che lui aveva tenuto il taxi fermo in attesa di vederla entrare. Solo quando la vide richiudere il portone ricambiò il saluto con una mano, dando al tassista l’indirizzo a cui portarlo.
“Sto tornando a casa, sono in taxi” le scrisse solamente, non era mai stato uno da grandi discorsi tramite sms. Peyton lo sapeva, difatti gli rispose rapidamente con un “dammi 20 minuti”, senza obbligarlo a stare al cellulare più del dovuto.
Come sei mesi prima, Mac si ritrovò a sorridere guardando il telefono. Si sentì come un adolescente ingenuo con le farfalle nello stomaco, e alzando lo sguardo per guardare fuori dal finestrino scosse la testa, capendo di non essere in grado di gestire la situazione. Era totalmente in balia di quel vortice di emozioni che il ritorno di Peyton gli aveva scatenato sia in testa che nel petto, e per quanto ripetesse a se stesso di avere il controllo di tutto, di sapersi controllare, sapeva che la realtà non era affatto così.
Era vero, si erano promessi di rallentare, ma intanto si stavano vedendo ogni sera, come a strappare di nascosto ogni minuto a disposizione per stare insieme.
Il taxi frenò delicatamente, accostando a destra di fronte al palazzo di Mac. Lui scese dopo aver pagato la corsa, infilando poi le chiavi nella toppa del portone.
- Ciao. -
Taylor si girò istintivamente verso sinistra, da dove arrivava la voce. - Ciao. Non ti ho sentita arrivare. -

La mattina successiva Mac entrò in ufficio al solito orario, accendendo per primo le luci del proprio ufficio. Come di routine si mise alla scrivania con il caffè caldo a tenergli compagnia, vedendo arrivare uno per uno tutti quelli del team con cui lavorava. Mancava solo una persona nonostante fossero già le 7:35 AM: Stella.
In un moto automatico guardò per la quarta volta l’orologio che aveva al polso, non riuscendo a togliersi il pensiero che le fosse successo qualcosa. Decise di telefonarle. Lei non era di certo il tipo da arrivare presto come lui, ma in tutti quegli anni non l’aveva mai vista in ritardo.
Spento.
Posò il cellulare sulla scrivania dando un’altra occhiata all’orologio, come se fosse cambiata l’ora rispetto a trenta secondi prima. Si obbligò a pensare che fosse rimasta imbottigliata nel traffico di New York, ma quando vide l’orologio segnare le 8:00 AM in punto uscì dall’ufficio, deciso ad andare a controllare di persona che fosse tutto a posto.
Impiegò mezz’ora di auto prima di raggiungere l’appartamento di Stella e neanche un minuto a raggiungere la porta di lei, salendo i gradini due per volta.
- Stella? - Bussò pesantemente tre volte alla porta, come al suo solito, ma nessuno rispose. - Stella, apri! Sono io, Mac! - Attese ancora. Silenzio.
Non ragionò oltre e con una spallata aprì la porta di prepotenza. La casa era in ordine e il suo occhio attento da poliziotto non notò nessuna traccia che indicasse pericolo. Non lì dentro, almeno. La porta era stata chiusa, nessun segno di effrazione. Dentro, invece, nulla faceva pensare che lei fosse scappata. I soprammobili erano al loro posto, i cassetti e gli sportelli chiusi. Escluse la rapina. Dando una rapida occhiata in giro notò che la borsa non c’era e il cellulare non era da nessuna parte: né sul comodino, né sul tavolo della cucina o sul mobile all’ingresso.
- Stella? Sei in casa? - La mano prontamente sulla fondina lo faceva sentire tranquillo mentre controllava ogni stanza. Bagno, cucina e camera da letto, ma nulla. Di Stella non c’era l’ombra.
Se da un lato si sentì a disagio a controllare a sua insaputa i suoi spazi privati, dall’altro venne investito da un orribile senso di angoscia. Stella era letteralmente sparita senza lasciare traccia di sé e lui non aveva idea da dove iniziare per cercarla.
Istintivamente chiamò Flack. - Dimmi, Mac. Dove sei? -
- A casa di Stella. È sparita. - Rispose Taylor tentando di mascherare l’orribile sensazione che gli attanagliava lo stomaco.
- Come sarebbe sparita? -
- Non si è presentata in laboratorio, così sono venuto a casa sua a controllare. Ho buttato giù la porta, era chiusa a chiave. Lei non c’è e il telefono risulta staccato da almeno un’ora. - Il riassunto del detective fu chiaro e semplice come al solito e Don comprese la gravità della situazione.
- Arrivo. -
- No, sto tornando in ufficio, aspettami lì. -

Quando Mac comparve dall’ascensore gli altri ragazzi della squadra scattarono in piedi. Erano tutti nel suo ufficio ad attenderlo, troppo preoccupati per poter lavorare a qualsiasi cosa. Taylor non disse nulla, limitandosi ad entrare e ad appendere la giacca all’appendiabiti.
- Allora? - Incalzò Sheldon. - Ci sono novità? - Se Hawkes e Messer riuscivano a nascondere bene la preoccupazione, lo stesso non si poteva dire per Lindsay e Peyton.
Mac si girò, guardandoli a turno. - In casa non ho notato nulla di strano o sospetto. Il problema è che l’ultima persona che ha visto sono io. -
- Come ti è sembrata ieri sera? - Domandò Flack.
Taylor si sforzò di ricordare qualche dettaglio, ma il fatto era che non c’era proprio nulla da ricordare. Non c’era stato nulla di anomalo.
- Tranquilla, come al solito. Siamo andati al pub e abbiamo bevuto qualcosa, poi abbiamo condiviso il taxi e l’ho accompagnata a casa. Ho aspettato che entrasse nel palazzo e sono ripartito. - Ripercorse mentalmente il tragitto, ma non ricordava nessun dettaglio rilevante.
- Il cellulare era in casa? - Indagò ancora Don.
- Non l’ho trovato. - Rispose prontamente Mac. - L’avrò chiamata cinque volte, non squilla. Non c’erano segni di effrazione, ho sfondato io la porta. Dev’essere successo qualcosa stamattina quando è uscita per venire a lavoro. -
Flack annuì, ragionando sulla probabilità dei fatti. - Quindi deve aver aperto a qualcuno che conosceva. -
- Sì. Oppure quando è uscita dal palazzo. -
- Senti, voi siete in confidenza… Per caso ti ha detto se esce con qualcuno ultimamente? -
Mac scosse la testa, le mani nelle tasche dei pantaloni. - Non che io sappia. -
Flack sospirò. - Certo che tra te e lei fate a gara a chi è più loquace! Diavolo, e se si trattasse di un tizio che frequentava e che la stava stalkerando? -
A quelle parole Peyton si sentì tirata in causa indirettamente e istintivamente scostò lo sguardo altrove.
Taylor aggrottò le sopracciglia. - Proprio per questo ho aspettato che entrasse in casa, volevo assicurarmi che nessuno la seguisse. -
Nell’ufficio calò un silenzio gelido, si sentì solo Mac sospirare. 
- Senti, se devo dirtelo in modo ufficiale mettilo a verbale. A meno che qualcuno non la aspettasse in casa, io sono l’ultimo che l’ha vista. -
- Non si tratta di questo, è che… - Il cellulare di Taylor stroncò Don mentre parlava, attirando l’attenzione di tutti i presenti.
Lui lo prese rapidamente dalla tasca. “Stella Bonasera”. Istintivamente rispose.
- Stella? Dove sei? - Il tono calmo e controllato avrebbe tratto in inganno chiunque, facendo credere che Mac avesse tutto sotto controllo, ma i presenti capirono immediatamente quanto fosse preoccupato nonostante riuscisse a nasconderlo.
- Detective Taylor, quale onore. - Rispose un uomo con la voce chiaramente modificata. - Non mi dica che era preoccupato per la sua collega! Beh, stia tranquillo. Ѐ qui con me ed è viva e vegeta. Per ora. - Mac capì senza fatica che il tizio al telefono si stava prendendo gioco di lui. La voce era tranquilla, manipolatoria, sapeva di avere il coltello dalla parte del manico con una poliziotta in ostaggio.
Lui rimase in silenzio per un paio di secondi. - Evitiamo di perdere tempo tutti e due e saltiamo direttamente al punto in cui mi dici cosa vuoi. - Disse con tono fermo e deciso.
- Aahh, parliamo la stessa lingua! Molto bene. Avrei una domanda da porle, detective: quanto vale la vita di una collega? -
Mac serrò la presa sul cellulare. - Più di qualsiasi cifra che tu possa chiedermi, quindi dimmi che cosa vuoi e vedrò cosa posso fare. - Flack lo guardava immobile. Nessuno ebbe il coraggio di muovere un muscolo mentre Taylor parlava con il rapitore di Stella.
- Allora direi che mezzo milione di dollari e un elicottero potrebbero bastare come inizio, che ne dice? -
- Che non sono una banca. Questa cifra creerà problemi a entrambi: i piani alti non la concederanno sicuramente in tempi brevi e … -
- Questi sono problemi suoi, detective. - Lo interruppe. - Mi farò sentire io, non si preoccupi. Ha 48 ore. Tic tac. Si sbrighi, il tempo passa. - E senza dargli modo di rispondere chiuse la chiamata.
Mac imprecò a denti stretti, lasciando cadere malamente il telefono sulla scrivania.
- Che ha detto? - L’unico ad avere il coraggio di parlare fu Don.
- Che vuole mezzo milione di dollari e un elicottero entro 48  ore. Si farà risentire lui. - Nessuno parlò, quindi Taylor proseguì. - … La voce rimbombava, credo che sia in qualche edificio abbandonato. Ha chiesto un elicottero, possiamo presumere che abbia il brevetto da pilota. Mi serve un numero, Flack. Fammi avere una lista di tutte le persone che possiedono un brevetto per elicotteri qui a New York. -
- Sei impazzito? - Sbottò Don. - Hai idea di quante persone possano averlo? Sarebbe come cercare un ago in un pagliaio. -
- Ma è l’unica pista che abbiamo! - Puntualizzò Taylor. - O hai idee migliori, Flack? Perché se è così parla, ti ascolto! - Alzò il tono di voce, cosa che non sfuggì a nessuno dei presenti. Don rimase interdetto per alcuni secondi, non aspettandosi di essere attaccato in quel modo.
- Vuoi sapere la mia idea, Mac? - Fece due passi in avanti. - Aspetterei la prossima telefonata e proverei a rintracciare la cella a cui si aggancia il telefono in modo da capire da dove sta chiamando! -
Mac sorrise nervoso. - E nel frattempo? Giochiamo a carte mentre aspettiamo che questo pazzo ci richiami per sapere se abbiamo esaudito le sue richieste? -
- Facciamo quello che abbiamo sempre fatto: aspettiamo e cerchiamo le prove che ci servono per arrestarlo. -
- Io non aspetto nessuno. - Ribadì Taylor senza staccargli gli occhi di dosso.
- E che intendi fare, setacciare tutta New York alla cieca? - Ironizzò Don, allargando poi le braccia.
- Io non vado mai alla cieca, Flack. Ricordalo. -
 

To be continued...

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


Capitolo XI

Senza aggiungere altro prese la giacca, e capendo che Mac aveva tutta l’intenzione di uscire da solo, tutti si misero in mezzo per fermarlo.
- Capo! Non è una buona idea. - Intervenne Danny mettendosi tra lui e la porta. Taylor non rispose, limitandosi a superarlo e varcando la soglia del proprio ufficio.
- Mac! - Flack tentò di richiamarlo, ma non ottenendo risposta gli andò dietro. - Fermati! - Mentre il detective infilava la giacca lo afferrò per un braccio sperando che gli desse retta, ma Taylor oppose resistenza.
- Lasciami. - Disse soltanto. Gli occhi erano ridotti a due fessure, le labbra, già sottili, erano serrate in un’espressione tesa.
- Ragiona, non sai dov’è, e in ogni caso non puoi andare da solo. - Tentò Don.
- Non è necessario che tu mi spieghi cosa debba fare, Flack. Non sono né pazzo né tantomeno stupido. -
- E allora rimani qua! - Alzò il tono anche lui, sperando di spronarlo.
- Non darmi ordini. - Strattonò il braccio per liberarsi dalla presa dell’amico, voltandosi e scendendo le scale che lo avrebbero portato all’uscita. Peyton superò Flack, ancora interdetto, sperando di riuscire lì dove Don aveva fallito.
Fu lei a prenderlo per un polso una volta che Mac svoltò l’angolo della terza rampa di scale.
- Mac, aspetta! - Lui rallentò chiudendo gli occhi, sperando di calmarsi almeno con lei.
- Che altro c’è?! - Domandò esasperato.
- Flack ha ragione. Non puoi andare da solo senza sapere neanche dove sia. Perderesti solo tempo. Tempo che potresti impiegare qui al laboratorio. -
Mac rise piano. - Tempo che potrei impiegare qui? Per lavorare su cosa, Peyton? Non abbiamo uno straccio di prova da analizzare. Solo una telefonata di un minuto e mezzo con un pazzo che ha in ostaggio Stella! Lo domando anche a te: hai un’idea migliore di starmene seduto sulla sedia ad aspettare che il telefono squilli? -
Lei rimase interdetta per qualche secondo. Mac era sempre stato un uomo calmo e composto, raramente lo aveva visto sopra le righe, doveva essere realmente preoccupato per reagire in quel modo.
- No. Non ho un’idea migliore, ma sicuramente uscire e andare a cercarla senza neanche sapere da dove iniziare è la cosa più sbagliata. -
- Io non ho mai detto che sarei andato a cercarla. - Precisò Taylor. - Torna in laboratorio. -
Peyton ignorò la richiesta, avanzando di un passo verso di lui.
- E dove hai intenzione di andare? -
- A casa sua. Se è stata presa davanti al suo palazzo ci saranno delle tracce. -
Lei scosse la testa. - Niente che possa aiutarti a capire dove sia ora. Se davvero vuoi aiutarla dobbiamo aspettare. -
Mac la fissò negli occhi per qualche secondo, indeciso se arrabbiarsi o ignorare le parole di lei.
- Peyton, trovare prove, analizzarle e ricostruire i fatti è il mio lavoro, lasciamelo fare! Io non vengo a dirti come fare un’autopsia! -
- Almeno io con le autopsie risolvo qualcosa! Tu così non risolverai niente, non lo capisci? -
Tra i due calò un silenzio pesante come un macigno. Entrambi avevano detto cose dettate dalla rabbia e dal nervosismo, specialmente lei, che non voleva fargli intendere nulla di quello che Mac, invece, aveva capito.
Il detective Taylor, infatti, annuì piano metabolizzando ciò che Peyton aveva appena detto.
- Quindi è questo quello che pensi? Buono a sapersi. - Scese rapidamente una decina di scalini prima di risentire la mano di Peyton afferrare la sua.
- Non toccarmi! - Si dimenò subito, sciogliendo il contatto che lei aveva provato a instaurare per scusarsi.
- Non volevo sminuire il tuo lavoro, cerca di capire quello che intendevo! -
- Oh, no. Sei stata molto chiara. - Disse Taylor guardandola negli occhi. - Tu e le tue autopsie avete la verità in tasca, non è vero? Ma non aspetterò che ci sia un corpo da farti analizzare. - E senza aggiungere altro Mac riprese a scendere le scale, scomparendo dietro l’ennesimo angolo. Peyton capì che non era il caso di seguirlo. Forse lasciargli i suoi spazi e aspettare che si calmasse lo avrebbe fatto ragionare.
Mac, nel frattempo, salì sul suv nero sbattendo la portiera. Gli servirono tre tentativi prima di riuscire a mettersi la cintura, dato che la faceva bloccare per quanto forte la tirasse. Neanche la partenza fu delicata, le ruote slittarono quando uscì dal posteggio e un paio di volte gli suonarono il clacson per i sorpassi al millimetro che faceva per passare da una corsia all’altra.
Quando Mac arrivò davanti al palazzo di Stella non perse tempo. Iniziò a guardare con precisione ogni centimetro del vialetto, illuminandolo con la torcia che si portava sempre dietro. Lo percorse due volte, quando osservando più attentamente notò una macchia di sangue leggermente sulla destra del viottolo.
Si abbassò illuminandola meglio. I bordi della goccia non erano sbavati, ma regolari. Goccia gravitazionale. Probabilmente Stella era stata colpita e camminando per inerzia aveva lasciato una traccia in quel punto.
Mac fotografò la macchia di sangue, quindi tirò fuori un tampone, raccogliendo poi un campione dalla goccia. Una volta tornato in laboratorio lo avrebbe confrontato con il DNA di Stella.
Prima di richiuderlo spruzzò sul tampone una sostanza a base di luminol, ovvero un composto chimico che avrebbe reagito al contatto con il sangue. Il tampone divenne improvvisamente fuxia e Mac lo richiuse per evitare contaminazioni.
Quando si rialzò, il detective riprese a guardarsi intorno, certo che se fosse stato attento a qualsiasi particolare, avrebbe sicuramente trovato qualcosa. E così fu.
Con qualche secondo di attenzione, Taylor notò un fazzoletto accartocciato a lato del vialetto, incastrato nell’erba bassa delle aiuole. Lo prese delicatamente con delle pinzette e un forte odore di cloroformio gli arrivò dritto alle narici.
- Figlio di puttana. - Disse a bassa voce mentre fissava inorridito il pezzo di carta.

Quando Mac rientrò in laboratorio nessuno ebbe il coraggio di andare da lui a chiedergli cosa avesse fatto o se avesse scoperto qualcosa. Peyton lo guardò di nascosto attraverso la vetrata della sala ristoro, osservandolo mentre appendeva la giacca nel suo ufficio. 
Sentì chiudersi la bocca dello stomaco. Non voleva discutere con lui e sapeva di aver decisamente esagerato poco prima. Voleva solamente scusarsi con Mac, ma aveva timore di innervosirlo ancora di più.
Lo vide entrare a passo spedito in laboratorio, afferrando uno dei camici appesi per poi avvicinarsi al tavolo e aprire un paio di sacchetti delle prove. Intuì che fosse andato da solo a cercare le prove del rapimento di Stella, e da come poteva vedere, aveva anche trovato qualcosa.
Sorrise istintivamente mentre lo guardava lavorare concentrato su ogni minimo particolare che avesse per le mani, così attento ai dettagli per essere sicuro che non gli sfuggisse nulla. Sarebbe rimasta a guardarlo per ore, assorto nei suoi ragionamenti scientifici che a volte capiva solo lui. Pensò che forse era proprio quel lato di lui ad averla fatta innamorare.
Sorrise ripensando alle prime volte che flirtavano, alle occhiate furtive che si lanciavano quando lui scendeva in obitorio a chiederle cosa avesse scoperto e ora neanche si parlavano, troppo orgogliosi e troppo arrabbiati per chiedersi scusa.
Dopo aver finito di analizzare le prove, Mac si tolse il camice e tornò nel suo ufficio, dove ad attenderlo c’erano documenti che dovevano essere firmati e telefonate noiose a cui doveva rispondere. Il sangue che aveva analizzato poco prima corrispondeva a quello di Stella e non riusciva a darsi pace. Sentiva il peso di doverla salvare, sentiva la responsabilità di tutto quello che sarebbe potuto succederle, e ogni minuto che Stella passava in balìa di quel tizio era un minuto in cui Mac sentiva di perdere sempre di più una battaglia contro se stesso.
Non passò più di mezz’ora, quando il cellulare di Taylor squillò ancora e il nome di Stella comparve sul display. Prima di rispondere il detective digitò rapidamente sulla tastiera del proprio computer, avviando il programma di rintraccio delle chiamate.
- Taylor. -
- Allora, detective? A che punto siamo con le richieste che ho fatto? - Il tono dell’uomo era sempre tranquillo, subdolo, quasi divertito, e Mac ebbe l’impressione che tutto quello per lui fosse semplicemente un gioco.
- I miei superiori ci stanno lavorando, ma io voglio la prova che la mia collega sia viva. -
L’uomo esplose in una risata sguaiata. - Forse non ci siamo capiti. Qui sono io che faccio le richieste, e lei le esegue, ha capito? Quindi le rifaccio la domanda. -
- No. - Lo interruppe Taylor. - Forse sei tu quello che non ha capito. Qui nessuno comanda nessuno, a entrambi interessa lo scambio, ma se tu non mi dai modo di capire se la mia collega è viva e sta bene, io non ti porto neanche una banconota. Adesso hai capito il discorso? -
L’uomo rimase in silenzio, mentre la mano di Mac stringeva così forte il cellulare che per un momento pensò che lo avrebbe frantumato in mille pezzi. Era stanco di giocare a guardia e ladri per telefono.
Una risatina nervosa gli fece capire che, dall’altro lato, il misterioso rapitore non era incline a collaborare.
- Sta tirando un po’ troppo la corda, detective Taylor. Le ricordo che la vita della sua collega dipende da lei. E lei sta facendo un po’ troppo lo sbruffone. -
Mac deglutì. Mostrarsi debole agli occhi dell’uomo e assecondare ogni suo desiderio avrebbe significato dargli carta bianca, troppo margine d’azione, gonfiando il suo ego per aver tenuto in scacco la polizia. D’altro canto, usare troppo il pugno di ferro poteva essere rischioso per la sua pazienza. Non conosceva il quadro psicologico di quel folle, se avesse avuto problemi di gestione della rabbia o qualsiasi altra patologia psichiatrica, Stella non avrebbe avuto scampo.
- Sono stato molto chiaro. Questo scambio è un dare e avere. Noi stiamo recuperando i soldi, tu dammi la prova che la mia collega sta bene. Non si andrà oltre finché non le avrò parlato. - Mac pregò che funzionasse. Si mostrava disponibile al dialogo, ma poi tirava il filo verso di sé per ottenere comunque quello che gli interessava.
L’uomo sospirò rumorosamente. - E va bene. Ehi, dolcezza! C’è qualcuno che vuole salutarti! - La sentì lamentarsi, probabilmente perché le strappò con poco garbo il nastro adesivo che aveva sulla bocca.
- Mac?... -
- Stella! Come stai? - Domandò preoccupato.
- Sto… Sto bene. Stai tranquillo. - La voce era affannata, e Mac ipotizzò che respirasse male per la posizione in cui stava e per il nastro adesivo.
- Ascoltami. Ti tirerò fuori di lì, hai capito? Fosse l’ultima cosa che faccio. -
Lei si prese qualche attimo prima di rispondere. - Lo so… Mi fido di te. -
- Resisti. - Disse fissando lo schermo del computer. Sperava che da un momento all’altro comparisse la cella a cui si agganciava il telefono, ma il programma continuava a cercare a vuoto.
- Molto bene. - L’uomo mise di nuovo il cellulare al proprio orecchio. - Ora che vi siete sentiti, piccioncini, lei può tornare a lavorare sulle richieste che le ho gentilmente fatto. A più tardi. - Richiuse.
Mac serrò i denti, premendo la cornetta rossa e sbattendo il telefono sulla scrivania. Guardò ancora il monitor del computer, constatando con frustrazione che il programma non aveva geolocalizzato nulla.
- Ha richiamato? - La voce di Flack lo destò, non si era neanche accorto che fosse arrivato.
- Sì. -
- Non vorrei fare la vecchia zia che dice al nipote impulsivo “te l’avevo detto”, ma… te l’avevo detto. - Scherzò Don con una punta di vena vendicativa. - Sei riuscito a parlarle? -
Mac ignorò l’appunto polemico di Flack, limitandosi a guardarlo male e considerando solo la domanda su Stella.
- Sì, sta bene, ma è spaventata. Credo siano in un posto ampio e vuoto, la voce rimbombava, e in lontananza ho sentito delle sirene. Forse un’ambulanza. - Ragionò a voce alta il detective. - Sono vicino al centro abitato. -
Flack annuì, consapevole che nonostante tutto le informazioni che avevano erano misere, e non sarebbero andati lontano. Mac aveva un’espressione indecifrabile, e Don si sentiva in dovere di fare qualcosa per sbloccarlo da quel loop di emozioni negative in cui era caduto il detective.
- Vedrai che alla prossima volta riusciremo a localizzarlo. Proviamo alla vecchia maniera, altrimenti. -
Taylor alzò lo sguardo, puntandolo negli occhi di Flack. - E poi tu dici a me che sono pazzo perché ti ho chiesto l’elenco delle persone che hanno un brevetto per elicotteri? -
- Ehi! Respira! - Flack portò una mano avanti, provando a calmarlo prima che si innervosisse di nuovo. - Lo so che è folle, ma se il programma non lo trova è l’unico modo che abbiamo. -
Taylor si alzò dalla scrivania in silenzio, prendendo una penna e andando verso la parete alla sua destra, dove appesa c’era una cartina di NY city.
Si girò verso Don, facendogli capire di avvicinarsi con un dito. Flack si avvicinò avanzando di qualche passo, mentre Mac picchiettò due volte la penna chiusa sulla cartina della città.
- Alla vecchia maniera, dici? Vorrebbe dire dividere la città in sezioni, a occhio e croce ti direi un centinaio se non di più, e per ognuna controllare le celle telefoniche, palazzi in costruzione, demolizione o ristrutturazione, traffico ambulanziero. Hai idea di quanto tempo ci impiegheremmo anche solo per escludere una zona? -
Flack sospirò. - Lo so, lo so, ma se il programma non funziona cosa facciamo? -
Taylor tornò sui suoi passi, lanciando la penna sulla scrivania e guardando fuori dalla finestra, rimanendo in piedi per scaricare lo stress.
- Non incolparti troppo, Mac. Stai facendo il possibile, senza la geolocalizzazione non possiamo fare niente. - Il detective annuì meccanicamente, lo sguardo ancora perso oltre il vetro della finestra. Sapeva che Don aveva ragione, ma non riusciva comunque a darsi pace per il tutto il tempo che stava regalando al pazzo che aveva preso Stella.
- Ascolta, io posso pensare ai soldi. Ovviamente me li procurerò falsi, e posso anche fare qualche telefonata per trovare un pilota. - Continuò Flack. - Tu devi solo riuscire a trovare la cella telefonica. - Lo disse facendolo passare per una cosa semplice, come se bastasse premere un tasto e tutto il resto venisse da sé. Don lo intuì subito. - Senti, Mac, capisco come ti senti. Anche io vorrei avere quel bastardo sottomano per fargliela pagare, ma vedrai che lo prenderemo. -
Taylor si sforzò di annuire. Flack aveva ragione, ma non riusciva a darsi pace, era più forte di lui. Si girò appena in tempo per vedere Don aprire la porta per uscire.
- Flack. - Lo fermò. - … Mi dispiace per prima. -
L’altro sorrise. - Non ti preoccupare. Pensa solo a trovare quel bastardo. - E senza aggiungere altro andò verso l’ascensore.
Il detective, invece, rimase alla finestra per qualche altro minuto. Oltre il vetro la città andava avanti tranquilla, l’unico fermo in un limbo sembrava proprio lui.
Capendo che guardare oltre il vetro non gli avrebbe fatto trovare la soluzione al problema, Mac tornò a sedersi alla scrivania sperando che la burocrazia gli tenesse la testa occupata, aiutandolo a non pensare costantemente ai suoi sensi di colpa.
Funzionò. I documenti che doveva firmare lo tennero impegnato per circa un’ora. Non si accorse, però, che Peyton lo stava osservando da un po’ dall’altro lato della vetrata. Non era riuscita a farne a meno. Passando lungo il corridoio aveva istintivamente buttato uno sguardo nell’ufficio di Mac, fermandosi poi a guardarlo nei suoi piccoli gesti quotidiani: leggere i documenti, firmarli, ogni tanto alzare gli occhi e controllare lo schermo del pc, bere un sorso di caffè.
Il tutto costantemente con la sua espressione seria, concentrata, mai scomposta.
Sentendosi osservato, lui alzò improvvisamente lo sguardo da ciò che stava facendo, incrociando il suo. 
Lei sussultò, colta in pieno. Riprese subito a camminare lungo il corridoio, passando rapidamente tra gli altri uffici e lui la seguì con lo sguardo per tutto il tragitto. Quando la vide sparire oltre le scale, Taylor si lasciò andare in un sospiro.
La situazione con lei di certo non migliorava il suo umore, ma come si era sempre imposto, i problemi personali non dovevano in nessun modo interferire con il lavoro. Mai. Eppure non stava riuscendo a tenere le due cose separate, la vita privata aveva decisamente sconfinato in quella lavorativa, e Mac si domandò se, forse, il problema non fosse il fatto che avessero discusso proprio per colpa del lavoro.
Sospirò ancora, appoggiando la fronte sulla mano destra.

- Taylor. - Erano le 6:42 PM quando il cellulare di Mac squillò di nuovo.
- Che rapidità, detective. Scommetto che non risponde così in fretta al telefono neanche a sua moglie. - La risata divertita dell’uomo si insinuò nella testa dell’agente, ma Mac riuscì a tenere i nervi saldi, non dandogli la soddisfazione di vederlo perdere il controllo.
- Cosa vuoi? - Rispose lapidario.
- Sapere a che punto sono le mie richieste. - 
- Ci stiamo lavorando. Non hai chiesto una somma semplice da raggiungere. - Sbuffò in modo esasperato, ma era chiaramente fatto di proposito, come in un gioco, come a prenderlo in giro.
- Sa, la mia pazienza è quasi esaurita, detective Taylor. Inizio ad annoiarmi, il tempo passato con la sua collega è stato, come dire… Piacevole, ma se non accelerate i tempi potrei sempre togliermi qualche altro sfizio. Non so se capisce cosa intendo. -
Mac serrò la presa sul cellulare facendo scricchiolare la plastica. Chiuse gli occhi per calmarsi, quando un rumore in sottofondo attirò la sua attenzione. Era stridulo, prolungato. Dopo qualche attimo di ragionamento lo interpretò come la frenata di un treno, ma tra ferrovie e metropolitana, il posto poteva essere ovunque.
- Stammi a sentire. - Esordì il detective. - Se osi ancora alzarle anche solo un dito, puoi considerare finita questa pagliacciata. Non starò più alle tue richieste e non ci sarà più nessuna trattativa pacifica per evitare inutili sparatorie. Ti dò la mia parola che ogni agente della città avrà il preciso ordine di cercarti. Notte e giorno, non avrai pace, hai la mia parola. - Sibilò Mac trattenendo a stento la rabbia.
L’altro rise sguaiatamente. - Detective! Così mi spaventa! -
- Te lo ripeto: tu osa toccarla e dovrai scappare nel luogo più sperduto del pianeta. Ma sappi che non ci saranno aerei, treni, pullman o navi che riusciranno a portarti al sicuro, perché ovunque metterai piede, stai certo che io ti troverò. Non mi interessa la giurisdizione, ricordati queste parole. -
Il tono di Taylor era fermo ed estremamente deciso, determinato. Forse risultò più minaccioso di quanto pensasse perché dall’altro lato del telefono l’uomo rimase in silenzio. La mano di Mac ancora stretta sulla plastica del cellulare.
E come un segno del destino, proprio mentre il rapitore non parlava, l’eco di un aereo si sentì forte e chiaro dalla telefonata. Il dettaglio non sfuggì all’orecchio attento del detective, che rapidamente si alzò affacciandosi alla finestra.
Dopo aver scrutato con attenzione il cielo ormai scuro, notò in lontananza, sulla sinistra, le luci di posizione di un aereo di linea che stava atterrando all’aeroporto J. F. Kennedy.
Mac sgranò gli occhi. L’aeroporto, la ferrovia. La zona era decisamente più ristretta e si poteva andare ad esclusione anche senza l’aiuto del programma di geolocalizzazione.
- Vengo a prenderti, figlio di puttana. - Furono le ultime parole che Mac Taylor disse al telefono, poi chiuse la chiamata.
 

To be continued...

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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


Capitolo XII

2011 Nameoke Avenue.
Era quella la via che Mac, insieme a Don e gli altri, aveva puntato come zona da pattugliare a tappeto. Non appena arrivarono, un edificio abbandonato con ancora qualche telo appeso saltò agli occhi di tutti.
La polizia fece irruzione nel palazzo con oltre cento unità di agenti, tutti equipaggiati con giubbotto antiproiettile, pistola e torcia. Flack li divise in due squadre, in modo che salissero separatamente dalle due scalinate che avrebbero portato in sezioni separate del condominio. I muri, i pavimenti e le scale erano ancora in cemento grezzo, la polvere era visibile a occhio nudo e i calcinacci sgretolati e sollevati dal vento erano diventati estremamente fastidiosi già dopo cinque minuti dal loro arrivo.
Mac Taylor non si lasciò distrarre dall’ambiente che lo circondava, già pronto a salire si sistemò il giubbotto sulle spalle, caricando poi con un colpo secco il carrello della pistola. Lanciò un’occhiata eloquente a Flack, incamminandosi poi lungo la scalinata sulla destra, quella più vicina a lui. Salì correndo fino al quarto piano e alla fine di ogni due rampe, lì dove a edificio terminato avrebbero dovuto esserci gli appartamenti, alcuni agenti si staccavano dalla fila per controllare se Stella fosse lì.
Gli altri, invece, continuavano a salire a ritmo serrato. Flack e Taylor a guidare la fila. Una gocciolina di sudore gli scese dalla tempia sinistra, percorrendo rapidamente la mascella squadrata e finendo sul collo, oltre il colletto della camicia azzurra. 
Decimo piano. Quindicesimo. Ventitreesimo. Nulla. Di Stella e del pazzoide che la teneva prigioniera non c’era l’ombra, eppure Mac sapeva di non essersi sbagliato. I rumori ambientali che aveva sentito, il suono dell’aereo che aveva ristretto il campo nella zona dell’aeroporto di J. F. Kennedy, il rumore del treno. Corrispondeva tutto, era sicuro che fosse lì, ma ad ogni piano che si rivelava vuoto sentiva un tonfo al cuore. Arrivarono al penultimo piano e dietro Don e Taylor non erano rimasti più agenti. Avanzarono piano temendo di fare rumore. Mac faceva passo dopo passo trattenendo il fiato, la torcia spenta per non farsi vedere. Ogni volta che appoggiava il piede sui residui di intonaco aveva paura che si sgretolassero, facendolo scoprire. Il cuore gli martellava nel petto, pompando sangue a ritmo forsennato dopo una quarantina di rampe di scale. I polmoni bruciavano, affamati di aria che Mac non gli stava dando. Deglutì, mentre una goccia di sudore si staccò dal mento schiantandosi poi a terra. Lui e Flack si accostarono a una colonna, e sbirciando appena videro Stella. Era seduta per terra, le caviglie legate e le gambe piegate da un lato, i polsi bloccati dietro la schiena e un pezzo di nastro isolante grigio le tappava la bocca. Era visibilmente spaventata mentre guardava negli occhi il tizio inginocchiato di fronte a lei, che le parlava di qualcosa che Mac non riusciva a sentire.
S
enza aspettare il segnale di Flack, Mac uscì da dietro la colonna, avanzando verso l’uomo che gli dava le spalle. Stella lo vide. Istintivamente sgranò gli occhi sentendoli riempirsi di lacrime di gioia. Fu inutile l’occhiata che Taylor le lanciò per farle intendere di non guardarlo, perché l’uomo notò l’espressione di lei e, fulmineo, si voltò dietro di sé.
- Alza le mani! Subito! Alzale! - Mac lo teneva sotto tiro a circa sei metri di distanza, mentre Flack corse oltre l’uomo per liberare Stella.
Don le tolse subito il nastro isolante dalla bocca, permettendole così di respirare bene. Lei prese una boccata d’aria come se fosse stata sott’acqua per un minuto abbondante, ancora incredula di essere sana e salva.
L’uomo alzò le mani, fissando il detective Taylor con un ghigno poco consono per uno che aveva perso.
Mac serrò i denti, trattenendo la rabbia. - Mani dietro la testa. -
- Stella! Come stai? - Chiese Flack aiutandola ad alzarsi.
- Ho detto mani dietro la testa! - Urlò di nuovo Mac avanzando lentamente. L’uomo rise, alzando le mani e voltandosi piano verso Don e Bonasera. Vedendolo sotto tiro, Flack portò Stella lontano dal tizio, correndo verso la porta da cui erano entrati.
- Portala via, Don. Qui ci penso io. - Disse semplicemente Taylor. L’uomo appoggiò le mani sulla nuca, dando le spalle all’agente che, intanto, con la mano sinistra aveva preso le manette che portava alla cintura.
- Sei sicuro? -
- Sì. - Voleva solamente che Stella uscisse da quell’inferno. Flack esitò qualche secondo, e nonostante le proteste di lei, che non voleva lasciare Mac da solo con quell’uomo, Don scortò fuori il detective Bonasera.
In un secondo Taylor agganciò il primo bracciale al polso del pazzo che li aveva trascinati in quella situazione, ma non fece in tempo a finire la prima frase del miranda warning perché una gomitata lo colpì in pieno sullo zigomo sinistro. Cadde a terra stordito, ferendosi i palmi delle mani che aveva messo istintivamente per frenare la caduta. Fece appena in tempo ad aprire gli occhi per vedere l’uomo che si scagliava su di lui, quindi Taylor rotolò di lato, verso sinistra, sfruttando il movimento per puntare le ginocchia e rimettersi in piedi. Istintivamente portò una mano alla fondina, ma con disappunto si accorse che era vuota. La notò solo in quel momento. La pistola era a terra, pericolosamente vicina al tizio che aveva rapito Stella. Gli era scivolata di mano durante la caduta.
- Non ci pensare nemmeno! - Urlò all’uomo che, intanto, aveva intuito la situazione. Quale migliore occasione per rubare la pistola ad un agente disarmato?
Mac gli corse letteralmente addosso, gettandosi su di lui sperando di fermarlo prima che mettesse mano sull’arma. Entrambi finirono per terra, strisciando per qualche metro sui calcinacci e i detriti del palazzo. L’uomo era prono e Taylor, sopra di lui, lo teneva bloccato per come poteva. Riuscì ad afferrargli il braccio sinistro, con il polso ancora infilato in un bracciale delle manette, e lo portò dietro la schiena mentre lui si dimenava. Allungò il braccio destro, quello ancora libero, in direzione della pistola. Era questione di centimetri, riusciva a malapena a sfiorare il calcio con le dita, ma la mano di Mac arrivò in tempo sul suo polso. 
Nonostante l’uomo si dimenasse per liberarsi dalla presa del detective, Mac riuscì a tenerlo a bada senza grossi problemi, finché con un colpo di reni il tizio riuscì a girarsi di lato, sfruttando la manetta appesa al suo polso come prolungamento della propria mano. Agitando il braccio riuscì a colpire Taylor al viso con il bracciale di metallo vuoto, riuscendo così a togliersi l’agente da sopra la schiena. Mac cadde di lato, stordito nuovamente. Una fitta atroce gli attraversò il cranio da parte a parte e un fischio fastidioso all’orecchio non gli fece sentire i passi pesanti dell’uomo che, rialzatosi, si avvicinò a lui.
Due mani si appoggiarono pesantemente sul suo petto. Una lo afferrò dal colletto della camicia, l’altra dal giubbotto antiproiettile, all’altezza del petto e Taylor si sentì sollevare da terra come se pesasse pochi grammi. Un pugno gli arrivò in pieno viso, ma non cadde all’indietro stavolta. Con la mano sinistra l’uomo lo teneva saldamente dalla spallina del giubbotto e un altro pugno arrivò sul labbro del detective, spaccandolo. Taylor li incassò entrambi, ma non aspettò il terzo prima di rispondere. Quella volta fu lui a colpire l’altro sul naso. In un primo momento pensò di averglielo rotto, perché sentì la mano improvvisamente bagnata e appiccicosa del sangue del bastardo che aveva davanti, che tuttavia non mollò la presa sul suo giubbotto.
In un moto istintivo Mac se lo slacciò, sfilandoselo in fretta dopo essersi abbassato e aver fatto passare la testa tra le spalline. Liberatosi di quel peso ormai inutile, Taylor lo colpì ancora, facendolo cadere a terra. Il detective si prese qualche attimo per respirare, osservando il tizio davanti a sé a terra e la faccia totalmente coperta di sangue. Non passarono molti secondi prima che Mac si inginocchiasse su di lui, bloccandogli i fianchi con le gambe e poggiandogli un palmo sul petto per tenergli la schiena a terra.
- Te l’avevo detto di scappare lontano. - Sibilò Taylor. L’uomo non trattenne una risata rauca, mostrando i denti sporchi di sangue e sputando, involontariamente, qualche goccia contro la camicia del poliziotto.
- Non sono un tipo che scappa, detective. - Ironizzò nonostante tutto. - Preferisco decisamente prenderla a pugni. - Mac non fece in tempo a rispondere, un pugno ben assestato alle costole gli spezzò il fiato. Tentò con tutte le sue forze di rispondere con un altro pugno, ma un altro colpo sul costato lo paralizzò di nuovo. E di nuovo, una terza volta. Solo l’istinto di sopravvivenza riuscì a fargli bloccare il polso dell’uomo, già pronto a colpirlo per la quarta volta. Taylor scagliò un ultimo pugno al viso dell’uomo. Ci mise tutta la forza che gli era rimasta, tutta la rabbia e tutta la frustrazione che aveva accumulato in quel caso. Sentì il bicipite bruciare da quanta energia usò, e il pugno era così serrato che le nocche erano bianche e doloranti. Vedendo l’altro quasi privo di sensi, Mac ne approfittò per girarlo e bloccargli entrambi i polsi dietro la schiena. Poi si alzò stancamente, col fiato corto, il labbro da cui ancora colava sangue. Aveva la bocca impastata di un odioso gusto di ferro e con fatica si abbassò per riprendere la pistola da terra, riposandola nella fondina.
Riprese anche il giubbotto antiproiettile, afferrando poi il tizio dalle manette e tirandolo per farlo alzare.
- Avanti, muoviti. - Sibilò. L’uomo si rimise in piedi, ma si lasciò trascinare praticamente a peso morto fino alle scale, dove incontrò degli agenti che stavano risalendo preoccupati non vedendo tornare il detective Taylor.
Quando vide Flack, Mac gli spinse addosso l’uomo. Non voleva averlo sotto gli occhi un momento di più, e con lo sguardo cercò lei.
- Dov’è Stella? - Domandò a Flack.
- L’ho fatta salire in ambulanza… A saperlo avrei fatto aspettare i medici, ne avresti bisogno anche tu. - Taylor gesticolò con la mano, non era mai morto nessuno per un labbro spaccato.
Con fatica Mac camminò per inerzia fino all’auto più vicina. Ormai abbandonato dall’adrenalina, il dolore al busto era diventato quasi insopportabile e ad ogni passo sentiva delle lame invisibili attraversargli i muscoli dell’addome.

Quando tornarono in laboratorio, Mac comparve dietro le porte dell’ascensore con aria stanca. Sentendo il tin, tutti si voltarono verso di lui, preoccupati per l’esito dell’operazione. Taylor si limitò a mostrare il pollice in su, non avendo la forza di fare altro. Tutti capirono. Sapevano che alla fine si sarebbe risolto tutto, e gli lasciarono il tempo di riprendersi.
Mentre il detective camminava dolorante in direzione del proprio ufficio, gli parve di vedere Stella nel suo, poco più in là. Gli sembrò una follia, dopo tutto quello che era successo sicuramente il cervello gli stava giocando un brutto tiro.
Guardò meglio. Era proprio Stella. In piedi, appoggiata alla scrivania con le braccia conserte al petto, lo sguardo basso.
Mac si avvicinò con discrezione, bussando un paio di volte alla porta già aperta per annunciarsi comunque.
- Stella? Si può sapere che fai ancora qui? -
Lei alzò lo sguardo, gli occhi ancora lucidi e spaventati. - … Avevo bisogno di stare un po’ da sola. - Lo guardò un attimo, regalandogli poi un sorriso pieno di affetto. - Io fossi in te mi disinfetterei quel labbro, mi cambierei la camicia e mi farei un bagno caldo. Non vorrai che Peyton ti veda in questo stato, le prenderebbe un colpo! Non sei molto presentabile. -
Lui non disse nulla, muovendo solamente qualche passo verso di lei e abbracciandola forte. Le mise una mano sui capelli per farla calmare, e funzionò, perché la sentì abbandonarsi contro di lui.
- Mi cambierò dopo. - Disse Mac a bassa voce. Stella non rispose, deglutendo a vuoto.
Rimasero così per un po’, con Taylor che le accarezzava la schiena per farle capire che fosse tutto a posto.
- Credo di avergli rotto il naso se può consolarti. - Disse dopo un po’ sperando di alleggerire la tensione.
- Grazie. - Lei sorrise contro la sua spalla.
- Ti porto in ospedale? - Lei sciolse l’abbraccio, capendo che il discorso stava diventando serio.
- Solo se ti fai controllare anche tu. -
- Io sto bene. - Protestò Mac. - Nulla che il disinfettate non possa curare. -
Lei inarcò un sopracciglio. - E le costole? -
- Nulla di rotto. Il dolore passerà da solo. - Non fidandosi, lei gli tastò piano il torace con le dita causandogli una smorfia di dolore. - Così non mi aiuti. -
- Hai ragione, non c’è nulla di rotto, ma voglio che ti faccia visitare anche tu. -
- Non cambiare discorso. Vado a cambiarmi e arrivo. - Fece per uscire dall’ufficio di Bonasera, ma lei lo fermò.
- … Grazie, Mac. -
- Non devi. -
Uscito dall’ufficio, Mac andò negli spogliatoi con un dolore lancinante al busto. Una volta vicino ai lavandini si sbottonò in fretta la camicia sporca di cemento e sangue, gettandola nel cestino lì accanto. Rimase solamente con la maglietta nera che portava sotto e appoggiandosi con entrambe le mani al lavandino bianco, fece un respiro prima di iniziare a sciacquarsi il viso e il collo.
Prese poi il disinfettante dal mobile accanto allo specchio, versandone un po’ sul taglio. Sentì bruciare, quando una mano sul fianco lo fece voltare verso sinistra. Peyton l’aveva raggiunto, preoccupata dopo averlo visto conciato in quel modo. Mac non l’aveva sentita arrivare dato che l’acqua scorreva abbondante dal rubinetto.
- Come stai? - Domandò dopo qualche attimo di imbarazzo. C'era ancora tensione tra i due, non erano ancora riusciti a chiarirsi dopo la discussione di quella mattina.
Lui scostò lo sguardo dai suoi occhi, riportandoli sulle mani che teneva sotto l’acqua per pulire il sangue secco.
- Bene. Un po’ dolorante, ma bene. - La voce era calma e tranquilla come al solito.
- … Stella come sta? - Mac si asciugò le mani, passandone una tra i capelli per sistemarli un minimo.
- Sta bene anche lei, è solo scossa. -
Non resistendo più, Peyton lo abbracciò d’impulso, non immaginando che quel gesto gli provocasse una scarica di dolore in tutto il corpo. Taylor ricambiò con un braccio, l’altro ancora appoggiato al lavandino, e a stento trattenne una smorfia di dolore. Le accarezzò la schiena per tranquillizzarla, mentre le lasciava un bacio affettuoso nell’incavo tra il collo e la spalla.
- Mi dispiace per stamattina… - Non riuscì a dire altro, voleva solo chiarire quella situazione che da tutto il giorno gli aveva lasciato addosso una sensazione di angoscia perenne.
- È tutto a posto. - Sussurrò lei accarezzandogli i capelli. Mac si staccò piano dall’abbraccio senza scioglierlo del tutto e nonostante il taglio sul labbro facesse ancora male, la baciò piano. Peyton ricambiò subito, era da tutto il giorno che desiderava parlargli e la preoccupazione aveva sicuramente aggravato il tutto.
Si scambiarono un bacio a stampo, leggero e affettuoso che serviva solamente a dimostrarsi a vicenda quanto si volessero bene, ma un click sospetto arrivò alle orecchie sempre attente di Mac. Lui si staccò subito, si guardò intorno, ma il bagno era vuoto.
- Arrivo subito. - E senza dare il tempo a Peyton di capire cosa stesse succedendo, il detective uscì dallo spogliatoio a passo spedito nonostante il dolore. Superata la soglia d’ingresso trovò Danny e Flack, comodamente appoggiato allo stipite con le mani nelle tasche dei pantaloni. 
- Se vuoi porto io Stella in ospedale. - Fu proprio Don a parlare, ostentando un’espressione divertita.
- Le ho detto che l’avrei portata io, mi stavo disinfettando e cambiando. Cosa fate qui? - Domandò Taylor.
- Ci lavoriamo, capo. - Rispose Danny.
- Okay… - Flack tossicchiò per non mettersi a ridere, e Mac decise di giocare a carte scoperte.
- Avanti, dammi il telefono. -
- Ragazzi, devo veramente scappare, ho la scrivania piena di scartoffie. Buona serata! - Don ignorò bellamente la richiesta di Taylor e si incamminò lungo il corridoio, provando a scappare da quella situazione imbarazzante.
- Flack! - Lo seguì Mac. - Il telefono! -
Don si girò senza interrompere la marcia in direzione dell’ascensore.
- Ehi, hai già il mio numero. - Finse di non capire, ma il detective gli afferrò un braccio.
- Non è divertente. - Continuò con espressione tremendamente seria. - Dammi quel cellulare o dovrò pensare che tu abbia qualcosa da nascondere. -
- Tutti abbiamo qualcosa da nascondere. - Sogghignò Don. - Anche tu. -
Mac ci mise qualche secondo per realizzare. - Sei veramente un… Sei stato tu, allora! -
Flack non si trattenne più, scoppiando in una risata sinceramente divertita.
- Cancellala. Adesso. - Disse solamente Mac.
Ancora con le lacrime agli occhi, Don lo guardò sconcertato. - Mi stai chiedendo di insabbiare una prova? -
- Te lo sto ordinando! -
- Va bene, va bene! - Prese un respiro profondo mentre gli faceva vedere la foto eliminata dal telefono. - Ecco fatto. Comunque siete carini insieme. -
Mac sospirò. - Flack! Tienilo per te, non deve diventare la notizia della settimana! - Non lo dirò a nessuno, anche se credo che qualcuno già lo sappia qui dentro. - Sorrise divertito.
Taylor lo guardò sentendosi palesemente preso in giro. - Fammi indovinare: tu e Danny, visto che eravate appostati dalla porta? -
- E Stella. - Ammise. - Messer mi ha detto che l’ha capito anche lei. -
Il detective sbuffò. - A proposito di Stella, torno a prendere le mie cose e la porto in ospedale. -
 

To be continued...

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***


Capitolo XIII

Dalla sera in cui salvarono Stella passò circa un mese. Quattro settimane in cui il lavoro proseguì relativamente bene, senza troppi intoppi lavorativi e senza grosse preoccupazioni. Il team lavorava a ritmi serrati come sempre, risolvendo casi e dando modo a Sinclair di ricoprirsi di gloria nelle sue conferenze giornalistiche.
Solo una cosa rimase uguale.

Danny odiava le chiamate al 911 di prima mattina. Aveva sempre avuto bisogno di carburare appena sveglio, ed essere chiamato sulla scena del crimine alle 7:15 AM lo avrebbe tranquillamente inserito nella lista dei reati più gravi del codice penale. Fu il primo ad accorrere, insieme a Stella, alla chiamata per un corpo trovato in una pozza di sangue a Central Park. Mentre lui guidava, il detective Bonasera avvisò Peyton, l'unico medico legale di turno a quell'ora, che li avrebbe raggiunti in pochi minuti.
Quando Messer frenò a bordo strada intravide dal finestrino il corpo di un uomo riverso a terra, quindi scese dall'auto per prendere il nastro giallo dal bagagliaio. Stella era già impegnata a prendere il kit della scientifica, ma Danny fu più veloce di lei nell'avvicinarsi al corpo. Con un rapido colpo d'occhio vide che il cadavere era ben vestito, camicia blu scuro, pantaloni e un bell'orologio al polso sinistro, ma il sesto senso gli suggerì di guardare una seconda volta.
Non riuscì a ignorare quella sensazione e si voltò ancora, sbiancando. 
Il nastro giallo gli cadde dalle mani, rotolando per qualche metro prima di fermarsi sul prato del parco. Mac. Mac Taylor, il suo capo, il suo più caro amico era lì, di fronte a lui, riverso supino in un lago di sangue chiaramente diluito con acqua, ma era comunque sangue. Provò con tutte le sue forze a chiamare aiuto, ma le parole gli morirono in gola. Pensò che avrebbe vomitato di lì a breve, sentiva lo stomaco rivoltato e quell'orribile sensazione che si ha poco prima di dare di stomaco. Solamente quando sentì un'altra auto frenare e la voce di Peyton in lontananza riuscì ad acquisire un minimo di lucidità, capendo che doveva fermarla prima che vedesse Mac in quello stato.
- Non avvicinarti... - Riuscì a sussurrarlo soltanto, non vedendo ovviamente sentito né da Stella né da Peyton, entrambe ancora alle auto. - Non avvicinarti. - Ripeté piano, mentre una lacrima gli scendeva lentamente lungo la guancia destra. La voce di Peyton si fece più forte gradualmente e Danny capì che si stava avvicinando al corpo. Trovò la forza di girarsi e andarle in contro camminando per inerzia, mettendole pesantemente le mani sulle braccia. 
- Fermati. Fermati, non avvicinarti. - Era sconvolto, pallido, gli occhi pieni di lacrime e Peyton non capì.
- Danny, che hai? -
- Dammi retta, vai via. - Disse ancora con le poche forze che aveva, tentando di spingerla via.
- Mi hai chiamata per firmare il decesso, che diavolo stai di... - Solo in quel momento lei abbassò gli occhi sulla scena, scoprendo nel modo peggiore che il decesso che doveva decretare era quello di Mac.
Si portò una mano alla bocca per soffocare un urlo, scoppiando in un pianto silenzioso e crollando in ginocchio. Danny si abbassò con lei cercando di consolarla, ma non riuscì a dire nulla. Le strinse le braccia per farle sentire la sua vicinanza, percependo ogni grammo di dolore che sentiva lei in quel momento.
- Dimmi che non è vero! - Furono le uniche parole che riuscì a pronunciare, attirando l'attenzione di Stella che, sentendola urlare, si avvicinò a passo spedito.
- Vorrei tanto farlo... - Rispose Messer. Deglutì a vuoto, alzando poi gli occhi su Stella che li raggiunse ignara.
- Ragazzi! - La voce del detective Bonasera arrivò forte e chiara alle orecchie di entrambi. - Che vi prende? - Nessuno dei due ebbe la forza di dirle la verità. Peyton troppo fuori di sé per ragionare, Danny troppo codardo per dire a Stella l'identità della vittima, consapevole del rapporto che aveva con Mac. Si limitò quindi ad abbassare gli occhi colmi di lacrime e attendere che lo scoprisse da sola.
Stella, infatti, non tardò a girarsi verso il corpo, intuendo che potesse essere stata l'unica cosa a sconvolgerli in quel modo.
- Dio! Mac! - Sbiancò. Poi con estremo sangue freddo corse verso di lui, mettendo le scarpe in quel lago rosso in cui Taylor era totalmente immerso. Gli spostò l'orologio premendogli due dita sul polso, pregando con tutta se stessa che fosse vivo. E lo era. Mac era vivo.
- C'è battito... C'è battito! - Peyton riprese a respirare, Danny si voltò di scatto verso Stella.
- Sei sicura? -
- Sì. È debole ma regolare. Chiamate un'ambulanza! -
- Subito! - Messer riprese lucidità alle parole di Stella e nonostante le mani gli tremassero ancora, chiamò il 911. - Detective Messer, serve.. serve un'ambulanza a Central Park all'incrocio tra la 5a e la 97esima. C'è un agente a terra, fate presto. Grazie. -
Peyton, nel frattempo, era ancora inginocchiata nell'erba, poco distante dal corpo privo di sensi del detective. Trovò dopo un po' le forze di alzarsi, appena in tempo per avvicinarsi ai ragazzi scesi dall'ambulanza per prestare soccorso a Mac. Lo issarono con cautela su una barella per poi portarlo dentro al mezzo e tutti e tre salirono senza chiedere il permesso. Erano tutti ancora troppo sconvolti per farsi bastare il fatto che fosse vivo per tornare al proprio lavoro.
Uno dei ragazzi prese la mano sinistra del detective inserendogli l'indice nel saturimetro. Questo gli avrebbe permesso di controllare l'ossigenazione del sangue e capire se ci fossero anomalie. Peyton gli prese la mano destra, stringendola forte. Era terrorizzata all'idea di perderlo. Perderlo in quel modo, poi, dicendogli ciao la mattina con la certezza di vederlo poco dopo a lavoro, e invece trovarlo svenuto in un lago di sangue a Central Park, senza motivo apparente.
Cercò gli occhi di Stella per avere conforto, per sentirsi dire da qualcuno che sarebbe andato tutto bene e lei ricambiò subito lo sguardo, percependo lo stato d'animo dell'amica.
Non ebbe il coraggio di dirle nulla, non mentre gli infermieri lavoravano per assicurarsi delle condizioni di Mac.
- I valori sono stabili. - Parlò improvvisamente uno dei due. - Deve aver avuto un calo di zuccheri e aver perso conoscenza, ma queste sono prime analisi. Deve andare in ospedale e fare un controllo più approfondito. -
- Certo. - Concordò Stella. - Il problema è che dobbiamo esaminarlo. È letteralmente una prova che cammina. -
L'infermiere notò il distintivo alla cintura dell'uomo. - A breve dovrebbe svegliarsi, valuterete insieme il da farsi. -

Quando Mac aprì gli occhi vide tutto offuscato e un fastidioso odore di disinfettante gli investì il cervello. Aggrottò le sopracciglia infastidito, capendo di essere appoggiato su una superficie dura e scomoda.
- Dove sono? - Domandò con un fil di voce. La stretta di Peyton alla sua mano si fece più forte.
- In ambulanza. - Rispose piano Stella. - Ti abbiamo trovato privo di sensi a Central Park. - Gli spiegò sperando che lui potesse capirla. Lo vide sbattere le palpebre un paio di volte, come a cercare di realizzare di essere al mondo.
- ... A Central Park? - Fu l'unica cosa che riuscì a dire, ancora troppo intontito per fare un ragionamento più articolato. Tentò di alzarsi sollevando il busto, ma tre persone lo tennero fermo per evitare che, scioccamente, si alzasse.
- Rimanga giù, detective, deve ancora riprendersi. - Il tizio dell’ambulanza non sembrava sentire ragioni. - Quando si sarà ripreso potrà firmare per evitare di andare in ospedale, ma fino ad allora deve rimanere qua. -
Taylor chiuse gli occhi deglutendo, sperando che calmando il respiro si desse modo di riprendersi e potersi alzare da quella che in quel momento capì essere una barella.

- Sei il cadavere più vivo che abbia mai visto! - Hawkes provò a stemperare la tensione mentre Mac, solamente in boxer, se ne stava seduto sul letto in acciaio che solitamente veniva usato per le autopsie.
Si sforzò di sorridere. Non era mai stato un tipo impressionabile o non sarebbe riuscito a lavorare con i cadaveri, ma starsene comodamente appoggiato dove Sid e gli altri avevano analizzato centinaia di corpi, beh, quello se lo sarebbe risparmiato volentieri.
I suoi vestiti erano stati presi e portati immediatamente in laboratorio per essere analizzati, quando Danny, correndo, fece ingresso in obitorio insieme a Stella e Peyton.
- Capo! Come stai? - Aveva l’aria decisamente più sollevata rispetto a qualche ora prima. - Si può sapere che diavolo combini di prima mattina a Central Park? -
- Sono stato meglio. Cerca di fare in fretta, Hawkes, non so quanto ancora il mio stomaco possa resistere. Ho bisogno di una doccia per togliermi di dosso tutto… Questo. - Non sapeva esprimere il disgusto che provava in quel momento. L’odore dolciastro del sangue che gli si era appiccicato addosso lo stava nauseando da ore, e si stupiva di se stesso di come ancora non avesse vomitato pure l’anima.
Sheldon annuì, passandogli accuratamente un pettine tra i capelli sperando di trovare qualche traccia. Fu allora che notò una ferita non troppo evidente alla nuca che si era già parzialmente richiusa.
- Mac, qual è l’ultima cosa che ricordi? - Domandò preoccupata Stella.
Lui scosse la testa, consapevole che i suoi ricordi non sarebbero stati utili alla ricostruzione dei fatti.
- Di essere uscito di casa. -
- Nient’altro? - Taylor negò con aria confusa mentre i suoi occhi incrociavano quelli di Peyton, ancora sconvolti.
- Beh, ha preso una bella botta dietro la nuca. - Intervenne Hawkes. - Il sangue si è già rappreso, ma sul momento deve averlo stordito. Sembra che abbiano usato un oggetto come una mazza da baseball, o un bastone… Non è semplice su un corpo vivo. -
- Fammi il tossicologico. Dovresti avere il risultato in un paio d’ore. - Sheldon concordò, passando poi a prendergli rapidamente i residui sotto le unghie nella speranza di arrivare all’aggressore.
In venti minuti Hawkes lo rigirò come un calzino, controllando ogni centimetro di pelle del detective e raccogliendo qualsiasi cosa potesse catturare la sua attenzione.
- Puoi andare, abbiamo finito. - Sentendo queste parole, Mac scese dal ripiano.
- Me lo dai un camice? -
Sheldon sorrise. - Non faresti una brutta figura a salire di sopra in boxer. -
Taylor si sforzò di stare al gioco, ma non ne ebbe la forza mentale. - Io ho la sensazione di sì. -
Quando si ricompose chiudendo il camice, il detective prese distintivo e pistola, appoggiati lì vicino, e risalì al piano dei laboratori insieme agli altri. Erano le uniche cose che gli erano state restituite. Li posò distrattamente nel suo ufficio, andando poi a passo spedito nello spogliatoio dove, una volta tolto il camice, si fece una doccia bollente.
Non appena aprì l’acqua, il piano della doccia si tinse di rosso e Mac si guardò le mani. Iniziò a sfregarsi i capelli e il viso, sperando di togliere quell’odore che lo stava tormentando da ore. Provò a sforzarsi per ricordare cosa fosse successo quella mattina, ma più ci provava e meno riusciva a capacitarsi di come fosse finito a Central Park, svenuto in una pozza di sangue non suo. Rinunciò dopo un paio di tentativi, capendo che nelle condizioni in cui era non avrebbe cavato un ragno dal buco. Decise di sfruttare quei pochi minuti che gli rimanevano per calmarsi. Una volta uscito da lì l’avrebbe aspettato l’inferno, lo sapeva già. Vedeva Sinclair sfregarsi le mani, seduto alla sua schifosa scrivania a non aspettare altro se non gli scandali degli altri per muovere le sue pedine e fare la scalata sociale, esattamente come il parassita corrotto che era.
Con una manata Mac spense il getto della doccia, passandosi poi una mano all’indietro sui capelli per togliersi l’acqua dalla faccia. Si asciugò in fretta, indossando poi i vestiti di riserva che, fortunatamente, teneva sempre nell’armadietto.
Uscì poco dopo dallo spogliatoio con addosso una maglietta nera e dei jeans scuri. Non fece in tempo a raggiungere il suo ufficio che vide Flack, davanti all’ascensore, guardarlo con le mani nelle tasche dei pantaloni. Taylor lo raggiunse a passo stanco, sapendo già il motivo per cui fosse lì.
- Mac, mi hanno raccontato quello che è successo… Stai bene? -
Lui fece la sua solita espressione. - Se consideriamo che solitamente veniamo chiamati per dei cadaveri, sì, sto bene. -
Flack gli mise una mano sulla spalla, fermandolo quando vide che lo stava per superare.
- Andiamo, sto parlando seriamente. Danny era bianco come un lenzuolo, per non parlare di Peyton e Stella. -
Lui prese un respiro profondo. - Che vuoi che ti dica, Don? Non so cos’è successo, ne so quanto te. - Si guardarono in silenzio per qualche secondo, ma Mac gli tolse il peso di annunciare il vero motivo per cui era lì.
- Andiamo, Flack. Sappiamo tutti e due perché sei qua. -
Don abbassò lo sguardo. - Credimi, ne ho voglia tanto quanto te. -
Taylor annuì. - Lo so. -

 

To be continued...

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV ***


Capitolo XIV

- Non lo so, Flack. Non lo so come sono finito a Central Park. - Era la terza volta che Don gli faceva la stessa domanda, e per la terza volta Mac rispose la verità.
- Non andiamo avanti di mezzo passo così, lo sai? Devi darmi qualcosa da cui partire, Mac, altrimenti non posso aiutarti. - Lo guardò dritto negli occhi sperando che capisse che era sincero, ma parlavano lingue diverse.
- Cosa vuoi che ti dica? Che mi ricordo qualcosa che non so? -
- Fai uno sforzo! -
Taylor si passò esausto una mano tra i capelli. - L’ho già fatto. Credi che se mi fossi ricordato qualcosa non te l’avrei detto? Pensi che mi diverta questa situazione? -
- Non ho detto questo, Mac. - Tentò di calmarlo.
- Non l’hai detto, ma stai continuando a chiedere qualcosa a cui non so rispondere! -
Flack allargò le braccia, non sapendo più come procedere.
- Bene! La situazione è questa: sei stato trovato privo di sensi a Central Park, in un lago di sangue non tuo perché hai solo una lieve ferita dietro la nuca, con distintivo e pistola d’ordinanza alla cintura. I civili che ti hanno visto, hanno elaborato la scena di un poliziotto ricoperto del sangue di qualcun altro. E tu non sai dirmi come sei finito lì, Mac! Vuoi un parere personale? Non credo che tu abbia ucciso qualcuno, ma questo non basterà a tirarti fuori dalla merda. Questo non basterà a nessuna giuria e a nessun giudice! Servono le prove, e tu non me ne stai dando! -
Taylor ascoltò il monologo di Flack in silenzio. Avrebbe voluto fargli i complimenti, ma non trovava neanche le parole per esprimere i suoi pensieri in quel momento.
Solamente dopo qualche istante alzò gli occhi dal tavolo per fissarli in quelli di Don.
- Allora?! - Incalzò il detective.
Mac ignorò Flack, seduto di fronte a lui, guardando poi con disprezzo il finto specchio sulla parete.
- Sei lì dietro, vero Sinclair? - Sbatté entrambe le mani sul tavolo e si alzò strisciando la sedia all'indietro. - Vieni da quest'altra parte del vetro! -
Flack si alzò immediatamente, aggirando il tavolo per raggiungere l'amico visibilmente scosso. I pugni stretti e i muscoli tesi, solitamente nascosti sotto la camicia che era solito portare, ora erano visibili attraverso la t-shirt nera che indossava.
Lo prese per le spalle. - Mac, calmati. Adesso siediti e ricominciamo, d'accordo? - Taylor fece per dire qualcosa, ma il respiro gli tremò nel petto per il nervoso. Le parole gli morirono in gola e sentiva di non avere la forza di continuare.
Con un impeto di rabbia si allontanò dal vetro e, sedendosi di nuovo sulla sedia, pensò che il suo posto non era lì. Non era da quel lato del tavolo come tutti i criminali che lui stesso aveva messo di fronte alle prove. Non era un dannato assassino come lo stavano definendo.
- Dov'eri ieri sera? - Flack lo guardava con quegli occhi azzurri così taglienti da perforargli il petto. Gli venne da ridere. Era sempre stato lui a porre quella domanda e ora, ironia della sorte, doveva rispondere.
- A casa mia. - Lo guardò dritto negli occhi sperando che capisse che non aveva paura di tutta quella situazione. Era semplicemente schifato dal fatto che avesse arrestato centinaia di criminali, era stato addirittura definito eroe senza che lui lo chiedesse, per cosa, alla fine? Per vedersi gettato nella fossa dei leoni appena il vento girava storto. Di nuovo.
- C'è qualcuno che può testimoniarlo? - Flack odiava fargli quelle domande, stava semplicemente seguendo il protocollo e sperava che Mac lo capisse.
- Sì. - Rispose solamente. Doveva farlo.
- Chi? - Chiese ancora Don.
Mac lasciò andare la testa all'indietro, guardando il soffitto per qualche secondo. Rise nervosamente. Alla fine erano riusciti a farglielo dire.
- Peyton. - Flack lo guardò in silenzio per qualche secondo, sapendo bene quanto costasse a Mac esporre in quel modo la sua vita privata di fronte a Sinclair. Perché Taylor aveva ragione, stava ascoltando tutto da dietro il vetro.
- A che ora è andata via? -
- Non è andata via. - Precisò Mac. Se dovevano sapere, che sapessero. E se speravano di accusarlo di una cosa che non aveva fatto, si sarebbe difeso con ogni mezzo possibile.
Flack annuì, le mani giunte sul tavolo. Fu Taylor a prendere parola, sporgendosi in avanti verso Don.
- Detesto quando dicono a me questa frase, ma oggi la userò io: se aveste delle prove contro di me sarei già in manette. Quindi, con permesso… - Posò i palmi sul tavolo per alzarsi, ma la porta si aprì di scatto per poi chiudersi altrettanto in fretta.
Sinclair fece il suo ingresso nello stanzino, fissando Mac dall’alto in basso. Nonostante la situazione, il detective Taylor non abbassò lo sguardo neanche per un secondo, sapendo di essere nel giusto.
- Non così in fretta, Taylor. - Flack chiuse lentamente gli occhi, immaginando il motivo per cui lui fosse lì. Rimasero entrambi in silenzio, attendendo la sentenza che, inesorabile, arrivò per il detective. - Pistola e distintivo. -
Mac ci mise qualche secondo per realizzare. Fissava Sinclair interdetto, incapace di comprendere il perché, incapace di combattere quella serie di ingiustizie che lo stavano lasciando disarmato.
Dopo lo stupore iniziale, non riuscì a trattenere una risata nervosa. Serrò i denti a labbra chiuse, passando lo sguardo da Sinclair a Don, che non aveva neanche il coraggio di guardarlo in faccia. La mano destra si mosse da sola e staccò il distintivo dalla cintura. Lo posò con poco garbo sul tavolo, come a cancellare l’umiliazione che stava subendo nell’essere privato di un simbolo che aveva servito con tanta devozione fino a quel giorno. Prese poi la pistola. Con un gesto netto scaricò il caricatore, sbattendola sul tavolo. Fece la stessa cosa con la fondina.
Flack rimase immobile, mentre Sinclair osservava l’eroe Mac Taylor, come l'avevano definito i giornali, abbassare la testa.
- Non ho più niente da dirvi. - Si alzò con l’intenzione di uscire il più in fretta possibile, ma la voce di Sinclair lo fermò.
- È in una brutta situazione questa volta, Taylor. -
Lui sorrise amaramente. - E lei ha intenzione di gustarsela fino in fondo, vero? -
- Non faccia la vittima! - Sbottò sapendo di avere il coltello dalla parte del manico. - Questa volta le prove parleranno, e non credo che potrà giocarsi di nuovo la sua carta vincente. Lei e i suoi patetici ricatti! -
Mac avanzò di qualche passo, fermandosi a meno di mezzo metro da Sinclair. Lo guardò dritto negli occhi, quell’uomo gli faceva più schifo che paura.
- Certo. Perché né a lei né a Gerrard è mai importato scoprire la verità. Vi interessavano solamente i vostri giochetti politici, ma io non sono il capro espiatorio di nessuno. E se vuole mandarmi a fondo per il suo tornaconto, lei viene a fondo con me. - Fece una pausa sperando in una risposta, che però non arrivò. Sinclair era troppo avvelenato per poter elaborare qualsiasi genere di pensiero, quindi Taylor continuò. - Ho sempre odiato mischiare lavoro e politica, ma se mi obbliga a giocare non mi tiro indietro, Sinclair. E gliel’ho dimostrato. Così come le prove le dimostreranno che non ho ucciso nessuno. -
- Fuori di qui. - Si limitò a sibilare Sinclair, e Mac non se lo fece ripetere.

Nel frattempo in laboratorio la tensione si poteva tagliare con un coltello. Nessuno aveva il coraggio di parlare, tutti troppo concentrati ad analizzare le prove, tutti ancora troppo spaventati per quello che era accaduto. Mac Taylor era un capo che era stato capace di farsi amare dai suoi sottoposti, era riuscito a creare una squadra compatta e un clima quasi perfetti, che permettevano ad ogni membro del gruppo di lavorare al meglio. Raramente avevano fallito lavorando insieme, e quella era una delle cose di cui il detective potesse andare più fiero.
Vedere Mac in quella situazione li aveva destabilizzati tutti, e l’unico che ebbe il coraggio di spezzare il silenzio per primo fu Hawkes.
- Ho i risultati del tossicologico. - Disse solamente, attirando così l’attenzione di tutti. Nessuno fiatò in attesa che Sheldon continuasse. - … Dal risultato è emerso che Mac avesse in corpo del GHB, o più comunemente conosciuta come “droga dello stupro”. È una sostanza incolore e inodore, può essere assunta per endovena o mischiata in qualche bevanda… In questo caso risulta che fosse diluita nel caffè. In dosi massicce può portare allo svenimento. -
A quelle parole tutti sgranarono gli occhi, ma solo Peyton sbiancò. Non riuscì a ragionare quando sentì Sheldon pronunciare la parola “caffè” e improvvisamente sentì il dovere morale di parlare con Stella.
- Devo parlarti. - Riuscì a sussurrare voltandosi rapidamente verso Bonasera. Lei, vedendola scossa, annuì senza fare ulteriori domande.
Le due uscirono dal laboratorio trovando rifugio nell’ufficio di Mac. Era strano vederlo vuoto, senza le sue cose sulla scrivania, la giacca appesa e la sedia fuori posto, segno che fosse uscito in fretta senza rimetterla dritta.
- Dimmi. È successo qualcosa? -
Una volta sole, Peyton trattenne a stento le lacrime. Si passò sconvolta una mano sul viso, non riuscendo a nascondere gli occhi lucidi.
- Devi sollevarmi dal caso, Stella. - Disse con la voce rotta.
Bonasera provò a tranquillizzarla. - Se ti riferisci alla tua vicinanza con Mac, dovremmo esserlo tutti. E temo proprio che entro stasera verremo sollevati. -
- No. - La interruppe lei. - Non capisci, non parlo di quello. Sheldon ha parlato di GHB mischiato nel caffè. Ieri sera sono stata a casa sua. Sapendo che si alza presto ho pensato di prepararlo la sera in modo da farglielo trovare pronto per quando si fosse svegliato… Ma non ho idea di come il GHB sia finito lì dentro. - Scoppiò a piangere non riuscendo più a resistere a tutto lo stress di quella mattinata infernale, e sapere che in quel momento Mac stava subendo il terzo grado al piano inferiore stava corrodendo tutti quanti.
Stella la guardò sconvolta. - Sicuramente non gliel’hai messo tu… Dev’esserci qualche altra spiegazione. - Istintivamente l’abbracciò. Era stata onesta con lei, aveva ammesso la relazione con Mac pur di non rischiare di essere accusata di inquinamento delle prove. In quel caso, anche se avesse dimostrato l’innocenza di Taylor, sarebbe stato tutto inutile se fosse uscito che lei era con lui quella mattina. Stella apprezzò immensamente il gesto di Peyton e si promise di fare il possibile per scoprire la verità fino a che avesse potuto lavorare al caso.
L’arrivo dell’ascensore le fece girare entrambe. Mac comparve da dietro le porte metalliche con un’espressione truce, camminando a passo spedito verso di loro, che occupavano quello che fino a dieci minuti prima era il suo ufficio.
- Com’è andata? - Stella in realtà aveva mille domande da fargli, ma quella fu l’unica che riuscì a pronunciare. Nessuna delle due notò l’assenza del distintivo e della pistola alla sua cintura.
Lui non rispose, limitandosi a superarle per raggiungere la scrivania su cui ancora c’erano i suoi effetti personali come il cellulare e le chiavi. Li afferrò con poco garbo e quando rialzò gli occhi vide entrambe le donne che lo fissavano, ancora in attesa di una risposta.
- Esattamente come mi aspettavo. -
- Spiegati! - Incalzò Bonasera.
- Mac! - L’ascensore si aprì di nuovo e Flack, nel suo abito grigio, gli stava andando in contro con tutta l’intenzione di parlare. - Mac, mi dispiace, lo sai che non potevo farci niente. -
Taylor mise le sue cose nelle tasche dei pantaloni, degnando Don di uno sguardo solo dopo qualche secondo.
- Non c’è nulla di cui scusarsi, Flack. Ѐ andata come doveva andare, e tu hai solamente fatto il tuo dovere. - Anche se poteva sembrare una frase amichevole, il tono con cui la disse tradì il detective, che a stento stava trattenendo la frustrazione. Lo percepì anche Don, capendo che Mac, in realtà, non era arrabbiato con lui, ma con Sinclair. Aveva solamente l’esigenza di sfogarsi e non poteva farlo, perché urlare in faccia al capo tutto quello che pensava l’avrebbe messo direttamente sulla corsia preferenziale per il licenziamento.
Invece, per il momento, Mac era solamente sospeso in attesa che le prove portassero a galla la verità su quella notte.
Senza aggiungere altro il detective Taylor uscì rapidamente così come era entrato, scendendo le scale accanto agli ascensori.
- Cos’è successo durante l’interrogatorio, Flack? - Chiese Stella.
Don prese un respiro profondo, scuotendo poi la testa mentre gli occhi fissavano ancora le scale da cui era sparito Mac.
- Sinclair l’ha sospeso. Gli ha ritirato pistola e distintivo. -

Peyton non ci mise più di un minuto prima di togliersi il camice e seguire Mac fuori dall’edificio. Stella acconsentì che lei si assentasse per meno di un’ora per permetterle di raggiungerlo e almeno assicurarsi che stesse bene.
Quando arrivò all’uscita, però, Mac sembrava svanito nel nulla e Dio solo poteva sapere dove la testa gli avesse detto di andare. Guardò in entrambe le direzioni, ma la gente a New York era sempre di fretta e con tutto il via vai di persone sul marciapiede non riuscì a distinguere il detective.
Decise di percorrere la strada più semplice: telefonargli.
- Taylor. - Disse solamente, come era abituato a fare quando era in servizio.
- Dove sei?... -
Lo sentì sospirare attraverso al telefono. - Al Diner all’angolo del primo incrocio a destra. -
- Arrivo. - Chiusero entrambi la telefonata e Peyton lo raggiunse alla tavola calda. Quando entrò lo vide seduto al bancone dal lato più lontano rispetto all’entrata. Le braccia stancamente appoggiate sul ripiano circondavano un bicchiere pieno di caffè nero, come piaceva a lui, lo sguardo perso nel vuoto di fronte a sé, impegnato in chissà quali ragionamenti. Lei lo raggiunse a passo svelto, non resistendo nell’abbracciarlo forte una volta accanto a lui. Lo baciò con impeto, pensando che in quel momento lui avesse un bisogno estremo di sentire la vicinanza di qualcuno.
Mac, per quanto fosse riservato e non molto propenso a quei comportamenti in pubblico, non la respinse. La strinse invece a sé con un braccio, apprezzando in silenzio quella forma d’affetto.
- Mi dispiace. - Disse lei. - Flack ci ha detto della decisione di Sinclair. -
Mac annuì, non riuscendo ancora a capacitarsi di come il suo capo potesse voltargli le spalle in quel modo. Avevano sempre avuto un rapporto teso, ma Taylor pensava che, nonostante tutto, Sinclair fosse consapevole di quanto lui fosse stato utile al dipartimento. Di quanti casi avesse risolto, di quante volte il distintivo avesse fatto bella figura nel potersi vantare di aver arrestato pericolosi criminali. A Mac non interessavano i riconoscimenti personali, gli stava bene che l’intera polizia venisse applaudita per i successi suoi e del suo team, ma non poteva accettare di essere scartato in quel modo dopo tutto quello che aveva fatto per il dipartimento.
- Già. - Picchiettò nervosamente le dita sul bancone per scaricare lo stress. - Sospeso fino a data da destinarsi. E molto presto toccherà anche a voi, almeno per quanto riguarda il mio caso. - Prese un respiro profondo sperando di calmarsi, ma non funzionò. I pensieri si accavallavano uno sull’altro nella testa del detective, domande su domande, perché senza risposta e l’unica cosa che poteva fare in quel momento era starsene seduto ad aspettare che qualcuno trovasse la spiegazione a quella giornata totalmente priva di senso.
Taylor sapeva di non essere un assassino. Sapeva che, sicuramente, dietro a tutto quello c’era una spiegazione più che logica e avrebbe pagato oro per poter ricordare cosa fosse successo, ma non riusciva. Così come non riusciva a trovare pace o tranquillità nel sapere che qualcuno diverso dalla propria squadra avrebbe preso in carico il suo caso.
Il cellulare di Mac squillò, interrompendo i pensieri del detective.
- Taylor. -
- Capo! - La voce di Danny gli diede un barlume di speranza. - Abbiamo finito di analizzare i campioni trovati sulla scena. Dal tossicologico risultava che tu fossi positivo al GHB, pensavamo che lo avessi assimilato tramite il caffè. Poi abbiamo analizzato anche il sangue che abbiamo trovato sulla scena, che ovviamente non era tuo, risultato? Il livello di GHB nel sangue in cui eri immerso era decisamente più alto, ed era presente anche sui tuoi vestiti. Abbiamo ipotizzato che sia entrato in circolo nel tuo corpo tramite la ferita che hai sulla nuca. -
Mac ascoltò in silenzio la spiegazione di Messer. Aveva senso, aveva totalmente senso, ma lui non era pienamente lucido e in quel momento avrebbe faticato a fare anche il ragionamento più elementare.
- … GHB? È una sostanza già presente nel corpo umano, è un… -
- È un acido grasso presente nei reni, nel cuore, lo so. - Lo bloccò Danny. - Ma in dosi massicce può causare perdita di sensi. È la classica droga da discoteca, infatti la chiamano “droga dello stupro”. -
Taylor era sempre più confuso. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto stordirlo? Il tentativo di rapina era stato escluso subito dato che non avevano toccato il portafoglio, l’orologio o altri oggetti di valore. Si passò stancamente una mano sugli occhi.
- Non capisco, Danny. Che diavolo c’entra con me questa roba? -
Messer ci mise un po’ prima di rispondere, passando qualche attimo di silenzio al telefono.
- Non lo so, capo. Lo scopriremo. -
Chiusero la telefonata e il detective, capendoci sempre meno, prese un lungo sorso di caffè nero nella speranza che gli schiarisse le idee.
- Ti hanno detto del GHB, vero? - Chiese lei intuendo l’argomento della conversazione. Mac annuì, non riuscendo ancora a capacitarsi di come una droga da discoteca potesse essere collegata a lui. - Se non ci capita un giudice con un minimo di buon senso, potrebbe pensare che te l’abbia messo io nel caffè. - Continuò Peyton.
Mac rise piano con aria sconfitta. - Addirittura? Bastava chiedere, non era necessario drogarmi. - Si sorrisero, il fatto che lui riuscisse a ironizzare in quella situazione la sollevò.
L’allegria sul viso del detective, però, durò poco.
- Sto rivivendo un incubo. - Ammise. Lei si ricordava bene il caso di Clay Dobson*, non aveva mai visto Mac in quello stato emotivo così fragile, e questa volta, forse, era anche peggio.
Gli strinse la mano per passargli un po’ di forza. Voleva fargli capire che lei sarebbe stata presente in qualsiasi situazione.
- Mac, ascoltami. - Lo scosse piano per attirare la sua attenzione. - Sappiamo tutti che non hai ucciso nessuno, va bene? Ed è solo questione di tempo prima che le prove lo dimostrino. Se quello che ti preoccupa è l’opinione che la gente avrà di te per colpa dei media, lascia perdere. Sul serio… - Lo guardò negli occhi. Lui non seppe cosa rispondere, colpito dalle parole di lei ma non credendoci veramente fino in fondo. - Cos’è che ti ferisce? Che uno come Sinclair non riconosca il valore che hai? Oppure l’opinione di 7 milioni di persone che neanche conosci? A te deve interessare l’idea delle persone che hai intorno, che ti conoscono, e credimi quando ti dico che sei il poliziotto migliore che abbia mai incontrato. Non ho mai visto un impegno e una devozione come i tuoi per il distintivo… Se tutti gli agenti fossero almeno la metà di te, questa città sarebbe un posto migliore. -
Taylor chiuse gli occhi un paio di volte rapidamente. Sperò di non commuoversi troppo, ma sentiva già gli occhi troppo lucidi per i suoi gusti.
Scostò prontamente lo sguardo sul bicchiere di caffè pieno ancora a metà. Non voleva farsi vedere così fragile e deglutì a vuoto, sperando di mandare giù il nodo che sentiva in gola. Non funzionò.
Sapeva che Peyton era stata sincera con lui e sapeva anche che doveva conoscerlo meglio di quanto pensasse, perché le parole che aveva appena pronunciato racchiudevano tutto ciò per cui lui aveva lottato in quegli anni di servizio. Il modo in cui aveva onorato il distintivo in memoria di suo padre era forse l’unica cosa che non permetteva che fosse messa in discussione, e ci era riuscito perché Taylor era un uomo con dei principi saldi. Credeva fermamente e con tutto se stesso nel lavoro che faceva, nella giustizia che portava alle famiglie colpite dalle disgrazie, nel voler ripulire quella città dalla gentaglia che, giorno dopo giorno, macchiava le strade di New York con il sangue di innocenti.
Lei gli strinse ancora la mano. - Secondo Flack, già da oggi potremmo essere chiamati in tribunale dagli affari interni. -
Mac sospirò, alzando poi le sopracciglia. - Sinclair si sta dando da fare. -
 

To be continued...
 


*: per chi non se lo ricordasse (o per chi non lo sapesse proprio non conoscendo il fandom), Clay Dobson era un soggetto già noto a Mac e al dipartimento in quanto aveva ricevuto denunce per violazione di domicilio, rapina e furto d’auto. I vari casi sono poi stati archiviati per mancanza di prove, e Clay ha continuato a lavorare come architetto nell’azienda di famiglia.
Nel 2002 uccise la sua prima vittima e l’arresto fu gestito da Sinclair e Gerrard, all’epoca un semplice agente, ora un alto in grado. Quest’ultimo, durante l’arresto, non si premurò della sicurezza di Dobson e durante il sequestro degli effetti personali si dimenticò di togliere la cintura a Clay, il quale provò ad usarla per impiccarsi piuttosto che finire in carcere (questa negligenza viene scoperta da Mac anni dopo, durante la 3 stagione e quindi due anni prima rispetto al presente di questa storia).

In questo arco di tempo, però, Mac scopre che l’agente che si era occupato dell’arresto ufficiale di Dobson è un poliziotto corrotto. Pur sapendo che arrestarlo comporterebbe un ricorso da parte di Clay, Mac fa comunque il suo dovere perché sa che è giusto così, ma come aveva previsto Dobson vince la causa e la sua condanna viene annullata.
Tornato in libertà, Dobson sembra essersi ripulito dai peccati, ma la polizia trova un cadavere che riporta lo stesso modus operandi di Clay. Mac non ha dubbi sul fatto che abbia ucciso ancora e le indagini alla fine gli danno ragione. Dopo un inseguimento che termina sul tetto di un palazzo, Mac e Dobson hanno uno scontro violento a mani nude (Mac ripone la pistola perché l’altro è disarmato), ed essendo un ex marine, Taylor non ha grossi problemi a colpirlo per renderlo inoffensivo ed ammanettarlo. Capendo di non avere più via di fuga, Dobson corre verso il bordo del palazzo nonostante le manette e si lascia cadere nel vuoto, sapendo che in questo modo metterà nei casini il poliziotto perché non ci sono testimoni di ciò che è accaduto, e le dinamiche faranno pensare che Mac l’abbia spinto volontariamente.

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Capitolo 15
*** Capitolo XV ***


Capitolo XV

Fu Stella la prima a sedersi al banco dei testimoni, esattamente di fronte all’avvocato del dipartimento. Mac aveva già avuto a che fare con lei quando venne accusato di aver spinto Dobson dal tetto di un palazzo, e se ripensava a come si era comportata quelle due volte che si era presentato in tribunale sentiva ancora il sangue ribollire.
- Da quanto tempo lavora con il detective Taylor, signorina Bonasera? -
- Da più di dieci anni. -
- In che rapporto siete? Oltre che colleghi, s’intende. -
- Siamo ottimi amici. - Rispose sinceramente Stella.
- Quanto amici? - Insinuò la donna. - Fino a cosa si spingerebbe a fare per Taylor? -
- Cosa vuole insinuare, mi scusi? Io e il detective Taylor siamo ottimi amici, farei quello che farebbe chiunque con un amico. -
La donna annuì, proseguendo rapidamente alla domanda successiva.
- Ha notato comportamenti strani da parte del detective Taylor negli ultimi sei mesi? O sono accaduti eventi che potrebbero avergli causato scompensi emotivi o psicologici? -
- No. - Rispose senza esitare.
- Strano. Si dice che il detective Taylor abbia interrotto una relazione sentimentale qualche mese fa. - Stella annuì. - Solitamente la rottura di una relazione può scatenare scompensi emotivi. -
- Beh, come a chiunque! Ma sono reazioni che non porterebbero in ogni caso ad un omicidio! Davvero volete basarvi su questo per accusarlo? -
Il giudice picchiettò il martello due volte. - Gentilmente, detective Bonasera… Si limiti a rispondere alle domande. -
- Qui nessuno sta accusando il detective Taylor. - Specificò l’avvocato. - Stiamo solamente cercando di capire lo stato emotivo dell’imputato per fare un quadro chiaro della situazione. -
- Ha avuto una relazione di qualche mese, è vero, che poi è finita. E in questo non ci vedo niente di male. Quale essere umano rimarrebbe impassibile di fronte ad un evento del genere? -
- Quindi ha ammesso che Taylor ha avuto scompensi emotivi. Non ho altre domande, vostro onore. -
Stella aggrottò le sopracciglia, contrariata e frustrata. - Non ho detto questo! -
- Può accomodarsi, detective Bonasera. -
Dopo qualche secondo di stupore Stella si alzò dal banco, venendo investita da un senso di colpa e inadeguatezza mai provati prima mentre camminava svelta verso l’uscita. Mac la aspettava fuori, in piedi di fronte alla porta con le mani nelle tasche dei pantaloni e lo sguardo serio. Era strano vederlo vestito da civile, senza la camicia, i pantaloni e la giacca del completo. Indossava una normalissima maglia nera con lo scollo a V, dei jeans neri e una giacca di pelle scura.
Quando Stella lo raggiunse si lasciò andare in un sospiro.
- Non biasimarti. - Le disse guardando Peyton che, nel frattempo, stava salendo al banco al posto di Bonasera. - Gli avvocati riescono a farti dire quello che vogliono. -
Stella lo guardò dispiaciuta, voltandosi anche lei verso Peyton nella speranza che fosse più brava di lei a non farsi fregare dal legale del dipartimento.
- Signorina Driscoll. - Iniziò l’avvocato. - Lei era impegnata in una relazione sentimentale con il detective Taylor l’anno scorso, è corretto? -
- Sì. -
- E mi conferma che avete interrotto la relazione. Anzi, lei l’ha interrotta. Da quello che la sua collega ha confermato, però, sul detective Taylor ha avuto ripercussioni psicologiche che potrebbero avergli causato reazioni eccessive sul lavoro. -
Peyton si prese qualche secondo prima di rispondere, non era una donna stupida, ma le insinuazioni dell’avvocato stavano mettendo a dura prova la sua pazienza.
- Ha ragione, io e il detective Taylor avevamo una relazione e io l’ho interrotta, ma chiunque lo conosca sa perfettamente quanto sia estremamente serio e preciso nel suo lavoro. Dubito che questo possa aver influito sulla sua condotta. -
- Ma a quanto pare l’ha avuta. Dov’era ieri sera? -
- … A casa sua. -
- A che ora è arrivata? - Domandò ancora l’avvocato.
- Alle 8:00 PM. -
La donna abbassò lo sguardo su un foglio per leggere qualcosa, per poi riportarlo immediatamente su Peyton.
- Se non erro il detective Taylor è il suo capo. Era una mossa calcolata sedurlo? Magari avrebbe avuto dei vantaggi sul lavoro. -
Peyton non trattenne una smorfia. - Sì, è il mio capo, e no, non l’ho sedotto per ottenere vantaggi personali! Ci siamo semplicemente innamorati e abbiamo instaurato una relazione spontanea! -
- Dal tossicologico è emerso che Taylor abbia assimilato del caffè con dentro del GHB, una sostanza più comunemente conosciuta come “droga dello stupro”. Lei era a casa sua, signorina Driscoll. Chi ha preparato il caffè la mattina successiva? - L’avvocato la fissò seria, non lasciando trasparire la minima emozione durante quella cascata di domande che sfornava a ripetizione.
- … Io. -
- Un momento! - Danny, seduto dietro Peyton insieme a Flack, scattò in piedi, esausto di sentire tante cattiverie. - State tentando di far passare il detective Taylor per una persona psicologicamente instabile e la dottoressa Driscoll per un’arrampicatrice sociale! Quando là fuori c’è una persona che merita di essere ritrovata e riconsegnata alla famiglia ed un assassino a piede libero a cui state facendo un favore! -
Il giudice picchiò pesantemente il martello due volte. - Messer, stia seduto! Arriverà anche il suo turno! -
Con poco garbo Flack afferrò Danny per la giacca, tirandolo verso di sé e costringendolo a risedersi.
- Stai zitto, per l’amor del cielo! - Sibilò tenendo i denti stretti.
- Ma li senti, Don? - Sussurrò. - Senti che schifo? -
- Lo so… Gli avvocati fanno così. -
Vedendo Danny sbottare, Mac non trattenne un sorriso divertito. Messer era proprio una testa calda, ma vedere che si scaldava in quel modo per proteggere i suoi amici era una reazione che, in fondo, rendeva Taylor un po’ orgoglioso.
- … Avevi ragione. - Disse improvvisamente a Stella, lanciandole un’occhiata di sfuggita.
Lei si girò verso Mac. - Su cosa? - Lui non rispose, limitandosi ad indicare Peyton con un cenno del capo.
- Lo so. - Sorrise Bonasera.
- E anche sul fatto di vedere come va. -
Stella lo guardò attentamente, mentre il profilo del suo più caro amico non lasciava trapelare nessun pensiero.
- E come sta andando finora? -
Taylor si limitò ad annuire, continuando a guardare dentro la stanza del tribunale.
 - Normale. Sta andando normale, come l’altra volta. -
Lei sorrise di nuovo. - Avete ripreso da dove vi siete interrotti… -
- Quello che voglio dire è che il fatto che stia andando bene non significa che andrà così per sempre. Capita che di punto in bianco le cose cambino senza preavviso. L’ho imparato a mie spese più di una volta. - Disse Mac. Si riferiva a Claire, alla rottura con Peyton… tutti avvenimenti che non si sarebbe mai immaginato, ma che erano successi lo stesso.
- … Devi dirmi qualcosa, Mac? - Chiese preoccupata.
- Del tipo? - Domandò lui senza capire.
Stella iniziò a contare con le dita. - Beh, tipo, uno: non sta andando bene ultimamente. Due: hai ancora timore che lei possa andarsene di nuovo di punto in bianco. Tre: temi che se non dovessi più essere riammesso come detective lei possa lasciarti. Quattro: ti stai innamorando della sottoscritta… - Sorrise per fargli capire che scherzava. - E cinque: … temi che finisca come con Claire. -
Mac sorrise sentendo tutte quelle ipotesi, ma alla quinta tornò improvvisamente serio.
- La tre e la cinque sono le meno probabili. - Disse, divertito nonostante tutto. - Mentre la due… Te l’ho detto, le cose possono cambiare senza preavviso come l’ultima volta, e tu neanche te ne accorgi. -
Stella comprese lo stato d’animo di Mac. Voleva veramente stare con Peyton, dare una seconda possibilità ad entrambi, ma aveva troppa paura. Aveva paura di soffrire, di sperare che il cellulare gli squillasse di notte per avere qualcosa da fare e non pensare ai problemi personali.
- Se rimarrai con tutti questi dubbi non ti godrai la storia. E dovresti farlo, prima di tutto per te stesso, e poi per lei. - Fece una pausa, osservandolo mentre scostava gli occhi dall’aula del tribunale per portarli sulle proprie scarpe. - Mi sembra davvero sincera, Mac. Ti ama e si vede lontano un miglio. E poi ha lasciato il vecchio continente e la sua famiglia per te. -
Taylor annuì senza dire nulla. Il discorso di Stella era sensato, e lui era una persona estremamente razionale. Tornò a guardare Peyton, ancora seduta al banco dei testimoni.
- Mi sono sempre fidato del tuo sesto senso. Forse dovrei farlo anche questa volta. -
Bonasera sorrise. - Togli il forse. Comunque mi sarei aspettata di sentirti dire che la quattro fosse la meno probabile! Quindi qualche chance ce l’ho! -
Lui non trattenne una risata. - In ordine di probabilità sono: due, uno, quattro, tre, cinque. -
L’avvocato, con estrema calma, tornò a guardare la donna seduta di fronte a lei.
- Quindi ammette di aver preparato il caffè al detective Taylor. Ha idea di come possa essere finito il GHB al suo interno? Sa di essere sospettata di averglielo somministrato lei? -
Peyton non trattenne un sorriso nervoso. - Non avrei avuto nessun motivo per farlo. -
- Forse lei è tornata insieme a Taylor approfittando della sua vulnerabilità emotiva. Così facendo lui ha abbassato la guardia, e lei avrebbe potuto vendicarsi senza che lui lo sospettasse. Forse ha scoperto un tradimento? Dopotutto il detective ha fascino e tutti sanno del rapporto che ha con il detective Bonasera. -
Danny serrò la presa sui jeans mentre Flack non sapeva cosa inventarsi per tenerlo buono.
- Il detective Taylor e il detective Bonasera sono colleghi e ottimi amici. Sono la prima ad essere al corrente del loro rapporto e no, non ho scoperto nessun tradimento da parte sua. La nostra relazione è finita per altri motivi che non sono tenuta a riportare in questa sede. - Peyton mantenne la calma. Sapeva benissimo che il legale del dipartimento stava lanciando accuse per farle dire qualcosa di sbagliato. Il trucco era mantenere il sangue freddo e dire la verità, semplicemente la verità, perché Mac non era colpevole di nulla e, presto o tardi, l’avrebbero dimostrato.
L’avvocato sorrise. - Non è quello che ha detto la signorina Bonasera. -
- … Come? -
- Ma andiamo oltre! - La donna cambiò discorso di proposito. - Saranno le prove a determinare se lei ha somministrato il GHB al detective Taylor. -
- Non andiamo oltre, il detective Bonasera non ha sicuramente detto quello che lei sta provando a insinuare da quando ha iniziato a farci domande. Ripeta le sue parole, vediamo se ha il coraggio di diffamare un detective della scientifica di New York! -
Danny colpì Flack alla gamba, esultando. - Bravissima, cazzo! Lei non può dirlo perché sarebbe falsa testimonianza! -
- Sì, ma tieni le mani a posto. - Si lamentò Don, massaggiandosi.
- Non è lei a fare le domande in questa sede, signorina Driscoll. - Continuò l’avvocato.
- Non la farà mai franca contro il legale del dipartimento. - Sbuffò Flack. - Fidati, quella tizia ha le palle quadrate. -
- Non ho altre domande vostro onore. - Peyton non perse l’occasione, sentendo quelle parole lasciò volentieri il posto al fortunato dopo di lei, che doveva essere uno tra Danny e Flack.
Raggiunse fuori dall’aula Mac e Stella. - Adesso capisco perché la gente odia gli avvocati! - Sbottò una volta di fronte a Taylor.
- Che ti ha detto? - Domandò lui, totalmente ignaro dei discorsi affrontati a pochi metri di distanza.
Lei scosse la testa sospirando. Quella donna era riuscita a metterle addosso un’ansia e una gelosia che Peyton non aveva provato neanche da adolescente.
- Vuoi il riassunto? - Si portò rapidamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio. - La sua teoria si basa sul fatto che tu sia emotivamente e psicologicamente manipolabile, che voi due abbiate una sorta di relazione e che io ti abbia messo il GHB nel caffè perché ho scoperto un tuo tradimento. Che poi sarebbe anche il motivo per cui ti ho lasciato quando siamo andati a Londra. -
Stella rimase in silenzio. Mac ascoltò senza dire una parola, pensando di non aver mai sentito tante menzogne tutte insieme.
- E tu? - Chiese Taylor dopo qualche secondo. - Insomma, cosa le hai detto? Le hai creduto? -
- Certo che no. Ho risposto la verità a tutte le domande che mi poneva, ma alla fine riusciva a rigirarsi le frasi per dire quello che voleva sentirsi rispondere. -
Nessuno parlò più. Non c’era molto da dire, in realtà. Dovevano solamente aspettare che anche Danny e Flack finissero quella farsa per poi capire come muoversi.
Non durò molto, nel giro di mezz’ora entrambi uscirono dall’aula seguiti da Lindsay e Adam.
Mac li guardò uno per uno facendo la sua solita espressione. - Avete tutti una faccia da funerale quando uscite da lì. -
- Ce l’avresti anche tu se venissi interrogato da una stronza che rigira la frittata come vuole! - Sbottò Messer.
- Sfondi una porta aperta, la conosco molto bene. Non a caso è l’avvocato del dipartimento. - Disse Taylor, ma Danny non rispose. Aveva capito che fare discorsi su discorsi non avrebbe portato a niente, lamentarsi dell’ingiustizia che stava accadendo sotto gli occhi di tutti non avrebbe portato a niente, tantomeno piangersi addosso.
- Vai a riposare, Danny. - Gli suggerì Mac con tono apprensivo. - Anzi, andate tutti. Sarete sicuramente stanchi. -
Flack comparve da dietro la porta dell’aula. - La vedo grigia, Mac. Hanno tolto il caso anche a me. Non so che fare per darti una mano. -
- Stai scherzando? - Stella allargò le braccia, ma l’unico a non sembrare poi così sorpreso fu proprio Taylor.
- Certo, è normale. Tutti coloro che hanno contatti con la vittima o il sospettato vengono sollevati dal caso. Lo feci anche io con Hawkes e Danny. -
- Era inevitabile. - Concordò Don. L’umore del gruppo si abbassò ulteriormente.
- Vai a riposare anche tu. - Gli disse solamente. Era chiaro che anche Flack fosse provato da tutta quella situazione, la preoccupazione gli aveva calcato delle orribili occhiaie sotto gli occhi azzurri.
Lui si limitò ad annuire e tutti, silenziosamente, si incamminarono verso l’uscita del tribunale. Tutti tranne Peyton e Stella.
- Ah, Flack! Un’ultima cosa! - Lo richiamò Mac. - Devi rivedere il tuo modo di fare gli interrogatori. Con me non sei andato tanto bene. -
Lui, ormai a metà corridoio, sorrise infilando le mani in tasca.
- Ero emotivamente coinvolto, ma ad ogni modo seguirò il tuo consiglio. -
- Sto scherzando. - Rispose Taylor.
- Lo so. - Rispose Flack, per poi allontanarsi in direzione dell’uscita.
Rimasti in tre, Stella iniziò ad accusare la stanchezza.
- Vado anche io, devo finire di sbrigare delle cose e poi credo che starò a letto fino a domani mattina. - Mac sorrise, ma prima che riuscisse a salutarla, Peyton la fermò.
- Ehm, Stella? Posso parlarti un minuto? Da sole. - Taylor alzò di poco le mani fingendosi innocente.
- Vi lascio la privacy. -
Stella gli sorrise. - Torniamo subito. - Lui le guardò allontanarsi insieme domandandosi cosa potessero avere di così segreto da dirsi in sua assenza.
Prese posto sulla panca di legno accanto alla porta dell’aula di tribunale, mentre guardava incuriosito le due donne parlare all’angolo in fondo al corridoio.
- Ascolta. - Peyton iniziò terribilmente imbarazzata. Si sentiva così stupida a fare quel discorso a Stella, ma l’avvocato era riuscita a metterle in testa una radice di dubbio di cui lei in primis si vergognava di pensare. - Sai bene quanto io mi fidi di te e del tuo rapporto con Mac. Non ci ho mai visto niente di male, anzi, la trovo una cosa bella, genuina, ma prima l’avvocato ha insinuato che tra voi due ci sia qualcosa e che tu l’abbia confermato poco fa mentre rispondevi alle sue domande. Volevo solo sapere cosa le avessi detto che lei potrebbe aver interpretato in maniera distorta. -
Stella la ascoltò in silenzio, poi annuì. - L’avvocato del dipartimento sta giocando a metterci l’uno contro l’altro. Mi ha chiesto in che rapporto fossi con Mac e io le ho detto la verità, ovvero che siamo molto amici. Lei ha insinuato un “molto più che amici” sperando che io dicessi qualcos’altro... È vero, può sembrare che tra me e lui ci sia dell’altro, ma non è così. - Scostò lo sguardo per un attimo sospirando, per poi tornare a guardarla negli occhi. - Ti mentirei se ti negassi che ci sono state tante occasioni, tanti treni che uno dei due avrebbe potuto prendere in questi anni, ma nessuno dei due l’ha fatto. Neanche quando te ne sei andata. Non saprei spiegarti neanche io che rapporto abbiamo io e Mac. È il mio capo, è il mio migliore amico, è il primo da cui vado se ho un problema. Non lo so, Peyton. So solo che quello che ti ha detto l’avvocato aveva solo lo scopo di farti cedere di fronte a lei, puoi stare tranquilla. -
Lei sorrise, credendole senza battere ciglio. Si era sempre fidata di entrambi, in realtà. Non le era passato per la testa neanche per un secondo che tra Mac e Stella potesse esserci qualcosa, anche perché se ci fosse stato qualcosa, sarebbe scoppiato molto prima che lei arrivasse a New York. Quando Peyton era stata assunta al laboratorio aveva notato subito il legame che condividevano, eppure col tempo era riuscita, lentamente, ad entrare nel cuore di Taylor. Cosa che sarebbe stata impossibile se quel posto fosse stato già occupato da Stella.
- Ti ringrazio. - Le disse solamente. Le due si sorrisero ancora, tornando poi dal detective Taylor ancora seduto sulla panca.
- Questa volta vado davvero, ci vediamo domani. -
Mac si alzò. - Riposati. - La raccomandò soltanto, guardandola poi mentre si allontanava.
Una volta rimasti soli, Peyton prese Mac sottobraccio mentre si incamminavano verso l’uscita.
- Cosa vi siete dette? - Domandò lui, curioso.
- Cose tra donne. - Scherzò lei.

 

To be continued...

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI ***


Capitolo XVI

- Mac! - Una voce lo chiamò tra la folla e, istintivamente, il detective si girò. Un ragazzo correva a perdifiato tra le persone per venirgli in contro, e lui non faticò nel capire che fosse Reed. Il ragazzo scansò al pelo un paio di persone prima di frenare di fronte a lui e piegarsi in avanti, appoggiandosi alle ginocchia per riprendere fiato.
Taylor lo fissò sorpreso. - Reed! Che ci fai qui? Sei a caccia di notizie? - Gli faceva sempre piacere rivederlo, sentiva uno strano senso protettivo nei suoi confronti anche se non gli doveva niente, ma era più forte di lui.
- È vero che ti hanno sospeso? - Nonostante fosse senza respiro trovò la forza di domandarglielo.
Taylor rimase sorpreso. - … Sì. Come lo sai? - L’altro non rispose, limitandosi a porgergli il giornale arrotolato che stringeva nella mano destra. Mac lo prese e una volta aperto scoprì con disgusto che occupava la prima pagina: una foto stampata lo ritraeva in primo piano, e un titolo scritto in grassetto recitava “Detective Mac Taylor ancora indagato: omicidio?”.
Ci aveva messo poco la stampa a lanciarsi sulla notizia. Lui non trattenne una risata nervosa per poi sospirare, sperando che l’ossigeno gli facesse mantenere i nervi saldi.
- Vuoi andare a parlare da qualche parte? Ti offro una cioccolata calda. -
Reed sorrise. Anche se Mac non era suo padre gli voleva bene. - D’accordo. - Lanciò poi un’occhiata imbarazzata a Peyton, non avendo idea di chi fosse. Mac si accorse della situazione di imbarazzo, quindi si schiarì la gola.
- Ah, ehm, lui è Reed, il figlio di Claire. Lei, invece, si chiama Peyton ed è un medico legale che lavora nel mio laboratorio. Stiamo insieme. - I due si strinsero la mano sorridendosi e Reed si sentì immediatamente a suo agio nel vedere il sorriso dolce e apprensivo della donna accanto al detective. Una folata di vento gelido imboccò la strada dopo essersi infilato tra i grattacieli, facendo desistere Taylor nel cercare un bar un po’ più appartato. Si accomodarono quindi in quello più vicino, non a più di venti metri da dove si trovavano.
- Posso farti una domanda spassionata? - Chiese il ragazzo una volta seduti al tavolo. - Come mai finisci sempre in questi casini? Hai pestato i piedi a qualcuno dei piani alti? -
Mac lo guardò alzando le sopracciglia. Proprio lui andava a fargli la ramanzina sul mettersi nei guai? Ricordavano entrambi il caso del tassista, soprattutto Taylor, dato lo spavento che si era preso.
- È un po’ più complicato di così, Reed. E proprio tu mi parli di cacciarsi nei casini? - Abbozzò un sorriso che il ragazzo ricambiò immediatamente. Dopo la dimissione dall’ospedale Mac gli aveva fatto un discorso di mezz’ora, una paternale infinita di raccomandazioni a cui neanche il suo padre adottivo lo aveva sottoposto. Ma Reed sapeva perché Mac si comportava così con lui, e aveva ascoltato mestamente e in silenzio ogni parola detta dal detective, promettendogli che non sarebbe successo mai più.
- Ti ascolto. - Disse solamente, sperando che Mac si confidasse con lui. L’uomo lo guardò per qualche secondo negli occhi non sapendo se coinvolgere ancora quel ragazzo in un caso più grande di lui. Per un secondo rivide gli occhi di Claire, così determinati, ardenti e agguerriti nel lottare per una cosa a cui teneva.
- … Posso solo dirti quello che ricordo: questa mattina sono uscito di casa per andare a lavoro, poi non ho idea di cosa sia successo. So solo che ho riaperto gli occhi dentro un’ambulanza a Central Park. Alcuni membri del mio team mi hanno trovato svenuto lì, in una pozza di sangue non mio. Loro sono stati sollevati dal caso in quanto a stretto contatto con me, come da protocollo, e io sono stato sospeso dal servizio poiché sospettato di omicidio. -
Reed lo ascoltò a bocca aperta, necessitando di qualche secondo per metabolizzare tutte quelle informazioni.
- Bel casino. Se non vuoi non lo riporterò nel blog. - Mac gesticolò con le mani, indicando distrattamente il giornale. 
- Ci stanno già pensando i media a scrivere quello che vogliono. -
- Se mi dai il permesso riporterò io la tua versione dei fatti. -
Taylor lo guardò con affetto sincero non riuscendo a trattenere un sorriso. Anche Peyton sorrise nel sentire quella terminologia così accurata.
- Stai anche imparando in fretta. Hai il permesso, a patto che tu non faccia come l’ultima volta. -
La cameriera comparve all’improvviso, poggiando sul tavolo due caffè e la cioccolata.
- Hai la mia parola! - Sorrise soffiando sulla tazza.
- Sono serio, Reed. Non metterti nei guai. Né tu né io possiamo fare nulla, gli unici che potranno scoprire qualcosa saranno i nuovi incaricati della scientifica. -
Il ragazzo bevve un sorso di cioccolata, non cogliendo a pieno la preoccupazione del detective.
- Ho capito. Voglio solamente approfondire questa storia, solo che non so da dove iniziare. Tu cosa mi suggerisci? -
- Di non prendere iniziative. - Lo raccomandò come un padre. - La prima pagina di oggi avrà già sollevato un polverone e tu non immagini nemmeno che meccanismi ci sono dietro. -
- Mac! Raccogliendo informazioni potrei aiutarti. Se si scopre la verità quelli dei piani alti verranno infangati e il mio blog decollerà. Sai che ne sono capace. - Disse riferendosi al caso del tassista. - Sarei il giornalista più giovane di New York. - Sbatté piano una mano sul tavolo senza nascondere il suo entusiasmo, ma Taylor non si lasciò coinvolgere dall’euforia del ragazzo.
- Reed… Se hanno sospeso me che ho un distintivo, cosa credi che potrebbero fare a un ragazzo? Non fare preoccupare me e i tuoi genitori. -
Lui sorrise. - Non mi accadrà nulla. Andiamo! Cosa potrebbero fare? Spararmi? Sono pur sempre poliziotti! -
- Ovvio che no, ma metterti in stato di fermo per intralcio alla giustizia, sì. E poi potrebbe non essere del tutto falso che io abbia dato fastidio a qualcuno. -
Peyton ascoltava in silenzio, sorseggiando il caffè e constatando che quel ragazzo, seppur non condividesse neanche un decimo di DNA con Mac, era uguale a lui. Così cocciuto nel trovare la verità, così puro d’animo da non vedere il marcio che poteva nascondersi dietro le cose, così spontaneo, così buono da voler aiutare quelli a cui voleva bene. Taylor aveva perso l’ingenuità del ragazzo, ma non la bontà d’animo.
- Non voglio intralciare le loro indagini. - Rispose Reed Garrett. - Voglio solo raccogliere informazioni vere e scriverle sul blog. Non è giusto che i giornali ti accusino di qualcosa che non hai fatto, quindi io voglio darti una voce. -
Mac sorrise e improvvisamente sentì un calore strano all’altezza del petto.
- … Lo so. Quello che posso dirti è che, secondo me, qualcuno ha interesse che la verità non esca. Vedila come una ripicca personale per cose successe in passato. In questo momento sta semplicemente sfruttando la situazione, ogni cavillo burocratico per vincere la partita in maniera pulita. E tu, se vuoi giocare, devi sapere come farlo e come muoverti. Se vai alla cieca solo per cercare lo scoop o per fare uscire la verità, rischi di andarci di mezzo anche tu. -
Il ragazzo non rispose. Si limitava a guardare Mac negli occhi percependo, finalmente, tutta la sua preoccupazione. Taylor continuò. - Se proprio ci tieni a scrivere qualcosa sul tuo blog, puoi riportare quello che ti ho detto. Non metterti nei guai provando ad indagare per conto tuo. Ti ho sempre chiamato quando avevo notizie certe da poter dare alla stampa. Quando non l’ho fatto era perché eravamo senza prove, e le speculazioni portano sempre problemi. Intesi? -
Reed annuì poco convinto, non riuscendo a nascondere agli occhi attenti del detective le sue vere intenzioni.
- Ehi. quella faccia non mi convince. Ricordati che faccio interrogatori. - Scherzò.
Il ragazzo affondò il viso nella tazza della cioccolata per nascondere un sorriso e Mac scosse la testa.
- Sei testardo come tua madre. -
- Lei vorrebbe che ti aiutassi. - Mac non rispose, abbassando lo sguardo sul tavolo e guardando la sua foto stropicciata sulla prima pagina del NY Times.
- Penso di sì, ma senza metterti nei casini. - Bevve un altro sorso di caffè. - Capirai crescendo che i nostri lavori sono entrambi nati con uno scopo nobile: il mio per proteggere, il tuo per informare. Ti accorgerai che non è più così. Incontrerai molte persone che pur di avere un tornaconto butteranno fango sugli ideali di chi invece ha preso quella strada per un motivo molto più profondo. -
- È ingiusto, Mac. - Non gli venne altro da dire e Taylor buttò giù un boccone di amarezza. Lui sapeva fin troppo bene cosa fosse l’ingiustizia della vita. - Tu sei sempre stato impeccabile nel tuo lavoro, io ti ho visto. Dovrebbero tenerne conto, no? -
- … Non funziona sempre così. Benvenuto nel mondo degli adulti. -
Reed finì il resto della cioccolata in un sorso, poggiando poi la tazza vuota sul tavolino.
- Ah, un’altra dritta. - Continuò Mac. - Non fare mai i nomi. Finché non nomini qualcuno non possono denunciarti per diffamazione. Se qualcuno si sente toccato da ciò che scrivi è perché ha la coscienza sporca, e fare la prima mossa contro di te vorrebbe dire ammettere ciò di cui viene accusato. Non parlo di me, ovviamente. -
- Va bene… Devo andare adesso. - Si alzarono tutti e tre dal tavolo, e dopo aver lasciato le banconote sul ripiano, Taylor raggiunse Peyton e il ragazzo oltre la soglia del bar.
Prima di andarsene Reed lo abbracciò, venendo subito ricambiato dal detective che, affettuosamente, gli mise una mano sui capelli.
- Non fare casini, Reed. Questa volta non potrò aiutarti, sono disarmato. - Gli disse piano all’orecchio. La verità era che aveva il terrore di non avere la fortuna della volta scorsa. Aveva sognato in loop per settimane la scena di Reed con il collo insanguinato, non riuscendo a togliersi dalla testa quella sensazione di panico e senso di colpa verso Claire per non averlo protetto.
- Promesso. - Dopo pochi secondi il ragazzo sparì nella folla di New York, diretto verso casa. O almeno questo era ciò che pensava Taylor. Peyton sorrise intenerita. Non sospettava minimamente dell'esistenza di quel ragazzo, e vederlo in un rapporto del genere con Mac non poteva che farle piacere.
- È un bravo ragazzo. - Disse mettendogli una mano sul braccio. - E tu sei così paterno con lui. -
Mac annuì, tornando a guardarla dopo averlo perso di vista. - Faccio del mio meglio. -
Si incamminarono entrambi nella direzione opposta, quella in cui stavano andando prima di fermarsi per la cioccolata.
- Si vede che ti vuole bene. Immagino che tu lo conosca da quando era piccolissimo. - Il detective negò. Peyton non lavorava ancora nel laboratorio quando lui e Stella ebbero il primo approccio con Reed, e durante il caso del tassista lei era a Londra, quindi si era persa un po' di novità.
- In realtà no, lo conosco da poco. Essendo rimasta incinta al liceo, Claire lo diede in adozione per dargli la possibilità di una vita migliore e per legge non ha potuto cercarlo fino ai suoi 18 anni. È stato lui a trovare me. -
Lei sorrise. - Un giovane segugio. -
- Già. Una sera vide Stella uscire dal mio appartamento, era venuta a portarmi il regalo per il mio compleanno. Così iniziò a seguirla per giorni e lei mi confessò di sentirsi osservata, finché una mattina si fece scoprire. Dopo averlo inseguito tra le auto e averlo messo contro il muro capii il motivo di quel comportamento: pensava che Stella fosse sua madre e stava solo cercando il coraggio di avvicinarla e parlarle. -
Peyton ascoltò in silenzio, sinceramente dispiaciuta per la sfortuna che aveva colpito Mac e il ragazzo.
- Spero solo che non si metta di nuovo nei guai. Quando eri a Londra è finito in ospedale, è stata questione di minuti, se fossimo arrivati poco più tardi non credo ce l'avrebbe fatta. Se è testardo almeno la metà di sua madre, so già che non mollerà la presa finché non avrà raggiunto il suo obiettivo. -
Reed corse nuovamente a perdifiato nella direzione da cui era venuto che, casualmente, era la stessa per raggiungere il tribunale e il distretto dove lavoravano Taylor e il suo team. Nei pressi del tribunale il ragazzo si fermò, nuovamente senza fiato. Voleva raggiungere il distretto di Mac nella speranza di ritrovare la donna riccia che aveva erroneamente scambiato per sua madre. Gli era sembrata una di cui potersi fidare ma, soprattutto, gli era sembrato di capire che tra lei e il detective ci fosse un buon rapporto, e se lui era nei guai, quella donna forse poteva essere la chiave per aiutarlo.
Come una manna dal cielo vide proprio lei scendere gli scalini del tribunale e andargli inconsapevolmente in contro, e non appena furono uno di fronte all’altra Stella si fermò. Si ricordò subito di quel ragazzo, di come era scappato in mezzo al traffico e di come Mac lo avesse preso per il cappuccio e attaccato brutalmente al muro per impedirgli la fuga.
- Reed? Sei tu? -
Il ragazzo si leccò le labbra in un moto imbarazzato. - Ehm, sì. Tu sei Stella, vero? La collega di Mac. -
Lei sorrise. - Sì. Se fossi arrivato dieci minuti fa l’avresti beccato, è andato via da poco. -
- L'ho beccato! - Sorrise. - Mi ha offerto una cioccolata e abbiamo parlato un po'. Mi ha spiegato la situazione. Tu sai dirmi chi prenderà in carico l'indagine? -
Stella non trattenne un sorriso, notando una somiglianza impressionante con Mac.
- Hai già deciso di seguire le sue orme, detective? - Scherzò. - Non sappiamo nulla. Siamo stati tutti sollevati dal caso. -
- Sì, beh, mi ha spiegato che è il protocollo se sei coinvolto con una persona sospettata o la vittima, per questioni di… Integrità? -
- Qualcosa del genere. - Sorrise il detective Bonasera. - Ad ogni modo non ho novità, purtroppo. -
Reed annuì un po’ deluso. Sperava vivamente che Stella potesse dare una svolta a quella situazione di stallo.
- Non è che potresti darmi qualche notizia quando saprai qualcosa? Sto cercando di raccogliere più informazioni su eventuali sviluppi dell’indagine. Ho intenzione di scrivere un articolo per scagionare Mac, da quello che ho capito è tutto costruito a tavolino. -
Stella sorrise intenerita. - Non è così facile, Reed. Credo che Mac ti abbia spiegato cos’è successo, il tuo è un gesto nobile, ma non credo che basti. -
- Certo. - Rispose prontamente il ragazzo. - So anche i rischi che corro, ma non posso e non voglio starmene con le mani in mano. Possibile che non ci sia nulla che possiamo fare? -
Lei sospirò. In quel momento si sentiva impotente tanto quanto Reed, e non era abituata. Era sempre stata una donna forte, più di quanto lei pensasse in realtà, e Mac in persona glielo aveva ribadito più volte. Eppure in quel frangente si sentiva con le mani legate dallo stesso sistema che lei tanto amava, perché le aveva permesso di mandare in prigione persone senza coscienza. La voglia di lottare di Reed la fece sentire un po’ in colpa, perché sapeva che lei stava fondamentalmente perdendo tempo a commiserarsi per non poter fare nulla.
Vedendola pensierosa, Reed parlò ancora.
- Senti! Non sarai coinvolta, fammi solo sapere a chi affideranno le indagini. Poi me la vedrò io in qualche modo. -
- Non posso farlo. - Soffrì nel dirlo. Quel ragazzo provava un grande affetto nei confronti di Taylor nonostante non fosse suo padre. - Non posso darti un incarico del genere. -
- Allora lavoriamoci insieme! -
Il detective Bonasera sorrise ancora. - Se non lo sapessi, direi che sei proprio il figlio di Mac. Cosa vorresti fare, una sorta di squadra di detective e reporter della verità? -
- Qualcosa del genere. - Sorrise ritrovando l’entusiasmo. - Dobbiamo aiutarlo. -
A quelle parole il cuore di Stella saltò un battito. Non poté fare a meno di pensare che poco meno di un mese prima Mac aveva rischiato la vita per lei, rimediando delle contusioni al costato che lo avevano obbligato a limitare i movimenti per non vedere le stelle.
- Ah, al diavolo. Dammi dieci minuti. - Disse in direzione di Reed. Prese rapidamente il telefono dalla tasca dei jeans e cercò in fretta il nome di Danny sperando che non fosse già a casa.
- Messer. -
- Danny? Sono Stella, ascolta… Davanti al tribunale c’è un bar, è dall’altro lato della strada. Vediamoci lì tra venti minuti. Chiamo anche Flack e Sheldon. Tu porta Adam e Lindsay. -
L’altro non ebbe il tempo materiale per elaborare il tutto, riuscendo solamente a balbettare parole confuse.
- Che-Che succede? -
- Fidati di me! Venite! - Senza aggiungere altro chiuse la chiamata e sotto lo sguardo divertito del ragazzo, telefonò anche a Don.
Nel giro di cinque minuti tutti i membri del team erano stati avvisati dell’appuntamento e Reed non sarebbe riuscito a esprimere a parole il mix di emozioni che l’aveva travolto nell’immaginare i colleghi di Mac uniti per lavorare insieme sotto copertura.
- Preparati. - Disse Stella guardando il ragazzo. - Adesso vedrai tutta la squadra di Mac al completo. -

 

To be continued...

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Capitolo 17
*** Capitolo XVII ***


Capitolo XVII

In meno di mezz’ora tutti fecero capolino all’ingresso del bar, scorgendo Bonasera e il ragazzo seduti ad un tavolino in fondo, totalmente in disparte dagli altri clienti del locale. I primi a raggiungerli furono Danny e Flack, che presero posto di fronte ai due.
- Eccomi, accidenti, ho fatto una corsa! Spero che sia importante perché ho dato buca a Jessica, mi ucciderà. - Esclamò Don aggiustandosi la giacca. - Che succede? Il ragazzo si è perso? - Domandò riferendosi a Reed. Sheldon comparve all’improvviso, togliendo le mani dalle tasche della giacca e accomodandosi tra Stella e Flack.
- Stella, è successo qualcosa? - Erano tutti visibilmente preoccupati per essere stati chiamati all’improvviso e con tanta fretta, ma Bonasera ancora non si era decisa a soddisfare la loro curiosità. Solo quando tutti furono presenti fece per parlare, ma Danny la bruciò sul tempo.
- Aspetta, aspetta. Chi è il ragazzo? - Non che non si fidasse di lui, se era in compagnia di Stella sicuramente c’era un motivo dietro, ma la domanda fu lecita.
- Lui è Reed, il figlio di Claire. -
Tutti sapevano chi fosse Claire. Nessuno toccava mai l’argomento, ma il passato di Mac Taylor non era un segreto all’interno del team.
Messer sgranò gli occhi. - … Claire la moglie del capo? - Bonasera si limitò ad annuire e nessuno fiatò per qualche secondo.
- Lui è il motivo per cui vi ho chiamati qua. - Iniziò Stella. - Ha saputo della situazione in cui è Mac e vuole fare qualcosa. Dobbiamo aiutarlo, ragazzi. Mac si è sempre fatto in quattro per noi, non possiamo lasciare che Sinclair l’abbia vinta in questo modo. Dobbiamo fare qualcosa per tirarlo fuori da questa situazione. Non deve pagare colpe che non ha, e soprattutto non deve pagare solo perché è scomodo per i superiori. -
Nessuno parlò. Sheldon abbassò gli occhi sul tavolo pensando che Stella avesse ragione. Tutta quella situazione era così surreale che li aveva inibiti al punto da renderli inermi, passivi, quasi rassegnati ad un destino scritto da qualcun altro. Nessuno di loro, però, avrebbe reagito così in circostanze diverse. Forse il fatto che tutto quello stesse accadendo a Mac era il fulcro del problema. Un po’ come la morte: loro ci lavoravano tutti i giorni. Erano a stretto contatto con scene orribili, con cadaveri e tragedie, ma un lutto in famiglia sarebbe stato affrontato diversamente da ognuno di loro.
Il primo a parlare fu Danny. - Ci sto. - Sbatté una mano sul tavolo, come a voler risvegliare tutti gli altri dal torpore in cui erano caduti.
Flack sospirò. - Ragazzi, per quanto tutto questo sia bello e nobile, se ci arrestano per intralcio alla giustizia sono cazzi. -
- Fanculo alla giustizia! Io non ho visto giustizia dentro al tribunale un’ora fa, ma solo una pagliacciata architettata a dovere dall’avvocato per farci dire quello che voleva! Sapete cosa vi dico? Che se ci arrestano faccio ricorso per accanimento senza prove. Dov’era l’arma del delitto a Central Park? E il cadavere? Eh? Hanno dato Mac in pasto alla stampa solo perché ha pestato i piedi a quel bastardo di Sinclair. -
Flack non rispose. Non sapeva cosa dire di fronte alla sfuriata di Messer, perché Danny aveva ragione.
- Come mai il ragazzo è coinvolto? - Intervenne Hawkes dando voce al dubbio di tutti.
- Ha un blog di cronaca. - Spiegò Stella. - È deciso a scagionarlo ad ogni costo. -
Danny sorrise divertito. - Davvero? Boom, sta già iniziando a seguire le orme del capo. -
Reed non aveva ancora avuto il coraggio di parlare di fronte a tutti. Sapeva che il team di Mac era composto da persone competenti, e lui inizialmente aveva avuto paura di fare la figura del ragazzino. Invece si era dovuto ricredere. Per quanto tutti i presenti fossero degli adulti con ottime credenziali, intelligenti e a tratti geniali, gli erano sembrate persone molto alla mano, preoccupati tanto quanto lui per il loro amico, oltre che capo.
- Ho visto Mac poco fa, abbiamo parlato di quello che è successo e vorrei raccogliere informazioni per scrivere un articolo. Sul giornale ho letto solo bugie, penso sia giusto che qualcuno scriva anche per lui, per dare la sua versione dei fatti. - Nessuno osò interromperlo, commossi per l’attaccamento che stava dimostrando per quell’uomo che qualche mese prima gli aveva salvato la vita. - … Ecco io… Mi chiedevo se poteste darmi qualche informazione quando le avrete. -
Flack scosse la testa. Per quanto volesse aiutare Mac, sapeva che non poteva comunque farlo contro le regole.
- Questo non possiamo farlo, ragazzo. Finiremmo tutti in casini legali, tu e noi. - Disse risoluto, non avrebbe sentito ragioni su questo.
- Ha ragione. - Concordò Danny. - L’unica cosa che possiamo fare è lavorare al caso per conto nostro. -
Hawkes mise nuovamente le mani in tasca. - Proponi di lavorare parallelamente al caso di Mac in laboratorio nonostante possano beccarci in ogni istante? -
- Sì. - Messer non ci pensò neanche prima di rispondere. - Avanti, Sheldon! Siamo i più intelligenti lì dentro, o Mac non ci avrebbe scelti per il team! Ce la faremo, dobbiamo solamente stare attenti e lavorare quando siamo sicuri di poterlo fare. Io non me ne sto zitto in questo modo. -
Hawkes lo guardò per qualche secondo, non trattenendo un sorriso divertito.
- Va bene. Ci sto. -
Don si passò una mano sul viso, visibilmente più preoccupato rispetto a Danny e Sheldon.
- Ragazzi, detesto fare il guastafeste, ma… -
- Flack! - Messer si girò di scatto verso l’amico, avendo già capito dove volesse andare a parare. Don ricambiò lo sguardo, combattendo una guerra interiore che lo stava logorando lentamente. Mac non era solo un collega per lui. Nessuno, tra i presenti, considerava gli altri “solo dei colleghi”. Lavoravano insieme ogni giorno, facendo spesso le nottate sui casi per assicurare i colpevoli alla giustizia, aiutandosi, portandosi i caffè per non cedere alla stanchezza a causa delle ore piccole. Non potevano essere solo colleghi. Erano molto di più e questo legame nessuno lo metteva in discussione, ma Flack era un poliziotto onesto e sapere di infrangere le regole per combattere un’ingiustizia lo faceva barcollare. - Cristo santo, come fai ad essere così indeciso? Mac ti ha salvato la vita. Te lo ricordi, no? In quel palazzo, quando è esplosa la bomba. Ti ha chiuso una cazzo di arteria a mani nude, non ci ha pensato, l’ha fatto e basta! Perché sei suo amico! E noi ce ne stiamo qui seduti ad un tavolo a discutere se farlo o no. - Rise nervosamente mentre gli altri lo guardavano in silenzio. - Stiamo solamente perdendo tempo, stiamo giocando al gioco di Sinclair senza capire che siamo le sue pedine, e finché non prendiamo iniziative giocheremo una partita che è già persa. - Li guardò uno a uno sperando di aver smosso gli animi di tutti. E funzionò.
Tutti a quel tavolo erano stati aiutati da Mac almeno una volta.
Flack, dopo l’esplosione della bomba.
Sheldon, durante il caso della rapina al market architettato da Casey Shane.
Stella, l’ultima e più eclatante qualche settimana prima.
Danny, che quando era stato in ospedale per il ricovero del fratello, aveva sempre avuto la spalla di Mac su cui piangere nei corridoi del reparto.
Reed, durante il caso del tassista killer, portato tempestivamente in ospedale dopo che Mac gli aveva bloccato l’emorragia al collo a mani nude.
Lindsay, quando era stata coperta e giustificata con Quinn Shelby, durante le valutazioni del team, per negligenza sul posto di lavoro.
Adam era stato salvato indirettamente durante il caso della cocaina, quando dei criminali armati avevano fatto irruzione nel laboratorio per recuperare tutti i chili di droga sequestrati. Mac aveva sgomberato l’edificio da solo, venendo poi definito eroe sui giornali. Non era una cosa personale, ma in quell’uomo Adam aveva trovato una figura paterna, qualcuno che apprezzasse le sue potenzialità sfruttandole al massimo. Un uomo buono che gli aveva dato l’occasione di dimostrare che le sue abilità da nerd non erano da sfigato, ma utili per incastrare i criminali.
Ognuno di loro gli doveva tanto, ne erano consapevoli.
Flack sospirò di nuovo. - … Io sono lo sbirro senza un master in chimica o biologia. Cosa dovrei fare? Non posso di certo lasciare la pattuglia e andare sulla scena del crimine da altri colleghi. - Era il suo modo per dire che accettava e Reed sorrise.
Sheldon alzò le spalle. - La tua posizione è la più complicata, ti consiglierei semplicemente di tenere d’occhio Sinclair e avvisarci se scopri che intenzioni ha. Sei quello più a contatto con lui, dopotutto. -
Danny annuì mentre Don si prese qualche attimo per riflettere.
- Quindi dovrei sorvegliare una bomba a orologeria e dirvi quando sta per scoppiare, corretto? -
- Boom. - Disse Messer per rimanere in tema.
Flack lo guardò male. - Non fa ridere adesso. Va bene! Dite a Mac che dovrà offrirmi una cena a base di pesce quando questa storia sarà finita. -
Adam, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, prese parola.
- Dovremmo dividerci i compiti, giusto? -
Hawkes annuì, incrociando le braccia al petto. - Immagino di sì. Stella e Flack, voi potreste occuparvi delle indagini, mentre io, Danny, Lindsay e Adam delle analisi in laboratorio. Ovviamente Flack, quando dovrai lavorare ad altro, io e Messer siamo a disposizione per sostituirti. -
Don fece un cenno del capo in direzione di Sheldon mentre gli occhi di Reed brillavano dall’emozione.
- Wow, un’indagine parallela sotto copertura! Io posso iniziare a scrivere il primo articolo in cui racconto quello che mi ha detto Mac. Funzionerà, me lo sento. Alla fine riusciremo a prendere quel bastardo. -
Danny squadrò il ragazzo per qualche secondo. - … Sei proprio sicuro di non essere il figlio di Mac? -
Reed sorrise. - Sì, a meno che non frequentasse mia madre già ai tempi del liceo. -
Stella guardò Messer. - L’ho detto anch’io, forse frequentarlo gli sta trasmettendo per osmosi il suo modo di fare. -
Il ragazzo alzò le spalle. - Se volete farò il test del DNA. -
Danny diede una botta al tavolo. - Parla anche come lui, non ci credo! Ѐ il capo in miniatura! - Messer sembrava tornato bambino, divertito da quella situazione surreale.
Mentre si alzava, Reed lasciò al centro del tavolo un tovagliolo con scritto sopra il proprio numero di cellulare.
- Io devo scappare, ho un sacco di cose da scrivere e voglio studiare il primo articolo nei minimi dettagli. Questo è il mio numero, se volete salvarvelo. Grazie ancora di tutto. - Senza aggiungere altro afferrò lo zaino e corse fuori dal locale.
Rimasti da soli, i membri del team si presero qualche secondo per metabolizzare quello strano incontro, scambiandosi occhiate divertite e sorprese. Quel ragazzo era così simile a Taylor da destabilizzarli.
- Ragazzi, sono scioccato. - Commentò Danny.
- Già, ma non perdiamo tempo. - Tagliò corto Hawkes. - Sappiamo che Mac ha assimilato il GHB dal sangue della vittima, che è entrato in circolo nel suo corpo dalla ferita che aveva dietro la nuca. E siamo fermi lì… -
- Risollevate gli animi. - Intervenne Flack. - Prima di andare in tribunale ho avuto modo di dare un’occhiata alle denunce delle persone scomparse, e udite udite: Chantal Trevis, 17 anni, non è rientrata a casa stanotte. -
Danny fece una smorfia confusa. - E che diavolo c’entra con Mac? Perché dovrebbero essere collegati? Dici che chi ha architettato tutto questo vuole incastrarlo con l’accusa di omicidio di una minorenne? -
Flack alzò le spalle. - Questo non lo so, ma come hai detto prima non abbiamo l’arma e non abbiamo il corpo. Questa ragazzina è sparita poche ore prima che Mac venisse aggredito ed abbandonato a Central Park. Forse è solo una coincidenza, ma ora come ora è l’unica pista che abbiamo. -
- Bene. - Rispose Danny. - Allora corriamo. -

Stella e Flack salirono in auto mentre Sheldon e gli altri tornarono in laboratorio. Lei e Don rimasero in silenzio per un po’ mentre lui guidava verso l’indirizzo di Chantal Trevis. Non c’era bisogno di dire nulla, in realtà. Il clima che c’era stato al locale, poco prima, aveva scaldato il cuore di tutti. Sapevano di fare la cosa giusta aiutando Mac, e Stella era convinta che tutti, nel profondo, avessero avuto da subito quell’intenzione, ma non avevano avuto il coraggio di fare il primo passo.
Messi di fronte all’opportunità di farlo nessuno si era tirato indietro e questo le suscitò un sorriso spontaneo.
Flack se ne accorse. - Ehi, tutto bene? -
- Sì. - Rispose continuando a sorridere. - Ripensavo a prima. È bello che siamo tutti disposti ad aiutare Mac. Insomma, guardaci. Dovremmo essere tutti a casa, invece noi stiamo andando dai genitori di questa ragazza e gli altri sono tornati in laboratorio. -
Don non disse nulla, girando piano il volante per seguire una curva.
- Beh, è la cosa giusta. Non volevo fare il guastafeste prima, è che Sinclair è un bastardo. Se ci saranno ripercussioni su alcuni dei nostri… -
- Lo so, Flack, ma ognuno di noi ha scelto autonomamente. Se ci saranno conseguenze le accetteremo. -
Lui annuì, frenando poco dopo di fronte alla casa della famiglia Trevis. Flack bussò un paio di volte e poco dopo un uomo comparve alla porta. Stella non fece in tempo a dire nulla, i loro distintivi li annunciarono al loro posto.
- L’avete trovata? - Fu la prima cosa che si sentirono dire. In quanto poliziotti l’uomo pensò che fossero andati per comunicare qualche novità, ma Don fu costretto a spezzare l’entusiasmo dell’uomo.
- Purtroppo no, Signor Trevis. Possiamo entrare? - Chiese Flack. L’altro si fece di lato permettendo ai due agenti di entrare in casa. La moglie era poco distante dalla porta, le mani strette sul petto in attesa di buone notizie.
Stella si schiarì la gola. - Siamo qui per sua figlia, ma vorremmo farvi alcune domande per avere un quadro della situazione più completo. Diteci tutto quello che sapete, anche il dettaglio più insignificante può essere d’aiuto. -
L’uomo si passò una mano tra i capelli, probabilmente era la quarta volta che spiegava il tutto agli agenti.
- Ieri sera Chantal è uscita con le sue amiche, saranno state le 10:00 PM. Dovevano andare in discoteca con l’auto di Evelyn. Guida lei essendo la più grande, sapete… Poi più nulla. -
La madre, qualche metro più indietro, singhiozzò. - Alle 4:00 AM mi ha scritto che avrebbero preso un ultimo drink e sarebbero tornate… -
Stella annuì. - Sa in che locale avevano intenzione di andare? -
La donna annuì. - Al Colorado, una discoteca non molto distante da Central Park. -
Flack notò subito il particolare, prendendo poi il taccuino dalla giacca.
- Potreste darci gli indirizzi delle amiche di Chantal? -
- Certo, nessun problema. -

Quando Flack posteggiò di fronte alla casa di Evelyn, l’orologio di Stella segnava le 9:45 PM. Le strade di New York erano molto più tranquille a quell’ora, lasciando spazio solamente ai taxi, qualche ambulanza e le auto di chi, per quella sera, aveva in programma divertimento e locali.
Non si poteva dire lo stesso per i due detective, che nuovamente si ritrovarono a bussare alla porta di una famiglia ignara delle tragedie che ogni giorno si consumavano per le strade della città.
Li accolse una ragazza. - Evelyn? - Chiese Flack. - Polizia di New York. - Alzò il distintivo.
- Sì. Sono nei casini? -
- Dipende. - Intervenne Stella. - Dobbiamo farti qualche domanda sulla tua amica Chantal. Non è tornata a casa ieri sera. O forse dovremmo dire stamattina. -
- Quando l’hai vista l’ultima volta? - Incalzò ancora Don che, nel frattempo, aveva messo le mani in tasca.
La ragazza scrollò le spalle. - Ieri sera, nel locale. Stavamo bevendo qualcosa quando ad un certo punto si sono avvicinati due tizi. Volevano offrirci da bere. Poi lei se n’è andata con uno di loro. - Spiegò brevemente Evelyn.
- Quanti anni avevano questi tizi? - Domandò Bonasera.
- Boh, saranno stati sulla trentina. - Lei e Flack si scambiarono un’occhiata incredula.
- Scusami, tu quanti ne hai? - Stella temeva già la risposta della ragazza.
- Io 19, Phebe e Chantal 17… -
- Che cosa? - Sbottò il detective Bonasera. - E voi avete lasciato andare una diciassettenne con un trentenne?! - Era incredula. Incredula e sconvolta di come un ragionamento così basilare non fosse passato neanche di striscio nella testa della ragazza.
Evelyn si indispettì a quelle parole. - Non gli abbiamo mica chiesti i documenti prima che ci offrissero da bere! E poi era già successo altre volte! -
Flack rise nervosamente, scostando lo sguardo altrove sperando di calmarsi.
- Non pensare che questa sia una giustificazione, anzi! Avete commesso una grossa leggerezza! -
Stella si sistemò nervosamente i capelli. - Dove l’avete vista l’ultima volta? -
- In discoteca, parlavano al bancone. -
- Che tu sappia potrebbe averla invitata a casa sua? Conosci il nome di questo tizio? - Incalzò ancora Bonasera.
- Sì, uno si chiama Tony e l’altro Andy. Non so altro, era la prima volta che li vedevamo. -
I due poliziotti si guardarono capendo che non avrebbero ricavato altro da quella ragazza, però avevano qualche punto su cui lavorare.
- D’accordo. Rimani rintracciabile, potremmo richiamarti per qualche altra domanda. - Evelyn annuì richiudendo la porta mentre Stella e Flack tornavano verso la loro auto.
- Tony e Andy. - Commentò lei. - Ci sono solo 7 milioni di persone a New York, come indizio non è un granché considerando che sono nomi parecchio comuni. - Lui si limitò a guardarla con riluttanza, aprendo poi la portiera per rimettersi al volante. - Ma cos’ha questa generazione? Noi che siamo adulti paradossalmente abbiamo più senso di protezione tra di noi. Guardaci ora con Mac! O viceversa, lui con noi. E loro lasciano andare una diciassettenne con un trentenne senza avere la minima paura che possa succedere qualcosa! - Stella non riusciva a capacitarsi di come un’amicizia potesse essere così superficiale.
- Questa è la generazione del menefreghismo. - Continuò Flack partendo con l’auto. - Diavolo, sto parlando come mio padre. - Rise divertito.
Le risate si smorzarono in fretta e il silenzio calò ancora nell’auto. Lui e Stella provavano seriamente a far finta di nulla, come se andasse tutto bene, ma non potevano fare a meno di pensare a Mac e alla situazione in cui era.
- … Andiamo al Colorado e parliamo con i dipendenti. Se sono stati al bancone saranno stati gli ultimi a vederla con questo tizio. - Tornò serio Don.
Stella annuì, domandandosi poi se coinvolgere Reed fosse stata la decisione giusta.
- Va bene. - Si limitò a rispondere.
- Informi tu Reed delle novità? - Flack notò subito che c’era qualcosa che non andava, quindi provò a distrarla.
- No. - Disse Stella. - Questo caso non c’entra con Mac. Non ancora, almeno. -
Don annuì concorde. Quel ragazzo gli aveva fatto una buona impressione, ma era piccolo, inesperto e soprattutto non conosceva le loro procedure. Dargli troppo margine d’azione sarebbe stato pericoloso per tutti.
Quando venti minuti dopo entrarono nella discoteca, Stella faticò a farsi largo tra la folla per raggiungere il bancone. Flack le stava dietro, cercando di ignorare le spinte che riceveva ad ogni passo dai ragazzi ubriachi già alle dieci di sera.
- Ehi! - Urlò Bonasera una volta arrivata al bancone. Fu costretta a gridare a causa della musica alta. - Eri di turno ieri sera? -
L’altro sorrise. - Ciao, bellezza! Sì, perché? Vuoi il mio numero? -
Flack arrivò da dietro con il distintivo in bella vista. - Vuoi anche il mio? -
Il barista sbiancò. - I-Io… Scusate, non pensavo foste agenti. -
Stella, tutto sommato, non si lasciò toccare più di tanto dalle parole del ragazzo. Si era sentita dire cose decisamente peggiori di quella, quindi con tranquillità prese la foto di Chantal per poi appoggiarla al bancone.
- Hai visto questa ragazza? Sappiamo che ieri sera era qui in compagnia di un uomo sui trent’anni di nome Tony. -
Il barman abbassò lo sguardo sulla foto, osservandola per qualche secondo.
- Sì, era qui sul tardi, saranno state le 3:00 AM, massimo le 4:00 AM. Ha ordinato da bere con due tizi e con uno dei due ci flirtava palesemente. -
- Ha visto se si sono allontanati insieme? - Domandò Flack.
- Credo di sì, c’è un sacco di gente la sera e io devo servire i cocktail. Li ho visti andare verso l’uscita, non so altro. -
Bonasera annuì, allungando poi sul bancone il proprio biglietto da visita.
- D’accordo, se ti ricordi qualcos’altro non esitare a chiamarmi. -
L’altro prese il biglietto. -  Posso chiamarla anche per invitarla a cena? -
Lei non fece in tempo a rispondere, lo fece Don al posto suo. - Tu provaci, magari mi presento io. -
I due detective uscirono e Stella si lasciò andare in un sospiro sconsolato.
- Altro buco nell’acqua… Ma almeno abbiamo confermato la versione della madre, fino alle 4:00 AM era viva. - Salì di nuovo in macchina, ma questa volta erano arrivati al capolinea della loro indagine. Guardò Flack nella speranza che lui sapesse dove andare come prossima tappa, ma in quel momento squillò il cellulare di lei. Bonasera lo prese dalla tasca dei pantaloni, “Reed”.
 - Reed! Tutto bene? - Rispose.
- Ciao Stella. Dovete venire qui immediatamente. - Esordì il ragazzo.
Sentendo il tono agitato di Reed, Stella si allarmò. - Dove sei? È successo qualcosa? -
- Io sto bene, mi trovo vicino ad un canale di scolo con un’amica e… C’è un corpo. Un corpo avvolto in un lenzuolo. -
Bonasera rimase interdetta per un attimo. - E tu che diavolo ci fai lì a quest’ora? Dammi l’indirizzo! -
- Subito… -

 

To be continued...

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Capitolo 18
*** Capitolo XVIII ***


Capitolo XVIII

Quando Flack frenò, Stella non poté fare a meno di notare che quella fosse una zona piuttosto squallida per un’uscita tra ragazzi. I palazzi circostanti sembravano disabitati, non c’era una luce accesa visibile dalle finestre e gli unici rumori in sottofondo erano abbastanza sinistri. Dell’acqua che gocciolava con un ritmo regolare da una grondaia dava un’aria sinistra a quella zona già sfortunata per la posizione e la poca cura da parte del comune. Il cemento era palesemente rovinato, i lampioni davano un’illuminazione scarsa e la poca acqua che scorreva nel canale di scolo davanti a loro contribuiva nel dare al tutto un aspetto lugubre e poco accogliente.
- La prossima volta portala in un posto un po’ più romantico… - Commentò Stella una volta raggiunto Reed. I due ragazzi se ne stavano sotto un lampione, lei era visibilmente scossa, lui un po’ meno. Forse frequentare Mac Taylor gli aveva fatto sviluppare una certa propensione a quel tipo di circostanze.
Reed sorrise imbarazzato. - Lei è Jessy… -
- Dovresti accompagnarla a casa. - Suggerì Bonasera mentre la ragazza, sconvolta, osservava la donna infilarsi i guanti. Prestando attenzione Stella iniziò a togliere il telo da sopra il corpo, fino a mostrare il viso di una ragazza di non più di vent’anni in un abito da sera. Il fascio di luce proveniente dalla torcia di Flack arrivò tempestivo, illuminando la ragazza e poco altro di quello che aveva intorno.
- Stella… - Disse Don. - Prendi la foto di Chantal Trevis. - Lei infilò una mano nella tasca interna della giacca, estraendo la stampa che Flack aveva fatto prima di presentarsi al bar di fronte al tribunale.
- È lei, Flack. A Mac non piacerà, ma devo chiamare Peyton come medico legale. -
Reed fece qualche passo in avanti, avvicinandosi alla scena. - Io posso restare? -
- Assolutamente no. - Rispose perentoria Stella prendendo il cellulare dalla tasca. - Peyton? Abbiamo trovato un corpo, raggiungici appena possibile. Certo, ti mando l’indirizzo. Grazie. -

Lei non ci mise più di tanto a raggiungere Don e Bonasera sulla scena. I due, nel frattempo, avevano recintato la zona con del nastro giallo che mai mancava nelle auto di servizio. Peyton scese dalla propria auto stringendo in mano la valigetta del suo kit, e solo quando fu abbastanza vicina ai colleghi si accorse della presenza dei due ragazzi, riconoscendo Reed.
- Che ci fa lui qui? - Domandò a Stella.
Intervenne Flack. - Incontro galante… Figliolo? Fossi in te la riporterei a casa. Sai, dubito che lei voglia trattenersi. -
- D’accordo. - Rispose lui, riluttante. - Ma chi è il morto? A che ora risale il decesso? C’è l’arma del delitto? -
- Questo non c’entra con Mac. - Lo fermò Stella. - Non possiamo dirti nulla. -
- E se non fosse così? Se fossero collegati? -
Bonasera sospirò. - In quel caso verrai avvisato. Buonanotte. - Lo liquidò in fretta. Il ragazzo sbuffò, ma comprese che quando si trattava di lavoro Mac e il suo team si trasformavano.
Vedendolo allontanarsi in compagnia della ragazza, Stella affiancò Peyton già impegnata ad esaminare il corpo.
- Causa della morte? -
- Almeno trenta colpi di arma da taglio. È morta dissanguata in poco tempo. - Stella prese la torcia nuovamente per illuminare la zona intorno al corpo. Ammesso e non concesso che l’arma fosse stata abbandonata nel canale di scolo e che non fosse stata trasportata via dall’acqua, trovare tracce sarebbe stato un miracolo.
Peyton estrasse il termometro dal corpo della ragazza, leggendo poi la temperatura.
- Non credo sia affidabile per stabilire l’ora del decesso, la temperatura dell’acqua potrebbe aver alterato quella del corpo. - Lo posò, controllando quindi il rigor mortis. - E il freddo potrebbe aver accelerato anche il rigor, a vederla così ti direi che sia morta tra le 6:00 AM e le 8:00 AM. -
- Lo stesso orario di Mac! - Esclamò Stella. - Non può essere una coincidenza! - Cercò gli occhi di Flack per avere supporto morale.
- Credo di no. -

Non impiegarono molto nel portare il corpo in laboratorio, e una volta lì, Peyton, Stella e Flack si riunirono in sala autopsie per capire insieme cosa fosse successo. In breve tempo arrivò anche Sheldon, volendo rendersi utile per accelerare i tempi. Dopotutto lavorare di notte avrebbe diminuito il rischio di essere scoperti, e se quel caso era veramente collegato con quello di Mac avrebbe fatto volentieri le ore piccole.
- Segni di stupro? - Chiese Flack, temendo un po’ la risposta che gli avrebbero dato.
- Non ho ancora controllato. - Rispose Hawkes. - Vuoi farlo tu? Sai, essendo una ragazza… - Disse rivolgendosi a Peyton. Lei annuì, facendo poi i dovuti controlli.
- Non sembra. Non ci sono proprio tracce di un rapporto neanche consensuale. - Disse dopo un po’.
- Quindi perché ucciderla? - Sheldon non riusciva a capire.
- Forse avrà lottato e semplicemente in preda all’impulso e alla frustrazione l’avranno colpita. Qui c’è il contenuto dello stomaco. - Terminò lei consegnando un barattolo a Stella.
- Se dentro c’è il GHB, molto probabilmente è collegata con Mac. - Ragionò Hawkes a voce alta. - E sarebbe coerente con la teoria della droga dello stupro essendo stati in discoteca. -
Peyton non rispose, limitandosi a prelevare dei campioni dalle unghie della ragazza. Flack, visibilmente stanco, la osservava in silenzio cercando di trovare una risposta e risolvere il prima possibile la situazione e Stella, confusa, guardava il contenuto dello stomaco come se racchiudesse tutte le risposte dell’universo.
Quanto Peyton finì di fare l’autopsia, salirono tutti insieme al piano del laboratorio e Sheldon si mise immediatamente al lavoro per analizzare l’ultimo pasto di Chantal.
- Ancora non capisco cosa c’entri Mac. - Disse Hawkes mentre attendeva i risultati delle analisi.
Peyton sospirò. - Forse li ha visti mentre la aggredivano. Conoscendolo potrebbe essere intervenuto e loro l’avranno colpito per renderlo inoffensivo… -
- Può essere. - Concordò Stella. - Ma è stata trovata in un canale di scolo, Mac non fa quella strada per venire al lavoro. -
- Magari li ha seguiti… - Continuò Hawkes.
- A Central Park, dove hanno trovato Mac, il sangue era diluito con acqua. Analizziamo entrambi i campioni, quello del canale di scolo e quello del parco. Forse coincidono. -
- Lo faccio io. - Si propose Stella che, fino a quel momento, era rimasta seduta ad ascoltare i ragionamenti degli altri. Voleva rendersi utile anche lei, l’attesa era snervante e tenersi impegnata, forse, l’avrebbe aiutata a non farsi consumare dall’ansia.
Dopo aver analizzato la composizione di entrambi i campioni d’acqua, Stella si girò verso gli altri scattando come una molla.
- L’acqua corrisponde, è la stessa di Central Park. Mac è stato a contatto con questa ragazza. -
- Anche il DNA. - Aggiunse Hawkes. - Il sangue è lo stesso della ragazza di stasera. -
Flack intervenne, voleva capirci qualcosa. - Okay, okay, ma qual è l’ordine cronologico? I ragazzi vanno in discoteca, lui le dà un drink corretto con il GHB, escono dal locale e forse lui la aggredisce. È mattina presto, Mac esce per venire in ufficio, assiste alla scena e interviene, ma in due contro uno lo tramortiscono. La domanda è: com’è finito Mac a Central Park con l’acqua del canale di scolo? -
- Siamo sicuri che fossero in due? - Domandò Sheldon.
- Il barista ha confermato di sì. - Intervenne Stella. - E poi Mac è addestrato, contro uno solo non penso avrebbe avuto difficoltà. Probabilmente lui ne ha visto uno aggredire la ragazza e l’ha affrontato, l’altro li ha visti e l’ha colpito alle spalle. -
- Sheldon, tu avevi detto che Mac era stato colpito da un oggetto come un bastone o una mazza da baseball. Dobbiamo trovarlo. - Disse Peyton, ricordando a tutti il tassello mancante.
Hawkes si girò verso l’amica, annuendo. - Torniamo sulla scena a cercarlo? -
- Va bene. - Rispose Stella. - Tu vai pure a casa a riposare. - Disse in direzione di Peyton.
Flack sospirò. - Io vado ad avvisare la famiglia… - E senza aggiungere altro uscì in direzione dell’ascensore.
- Sei sicura che non vi serva il mio aiuto? - Domandò Peyton.
Stella annuì sorridendole. - Certo, finché non troviamo un altro corpo tu sei libera. - Lei annuì mentre il resto della squadra si preparava per tornare al canale di scolo.

Sheldon e Stella non ci misero più di un quarto d’ora a tornare sulla scena mentre Flack, con dispiacere, era andato a dare la notizia ai genitori di Chantal. Il nastro giallo della polizia, messo precedentemente da Bonasera dopo la chiamata di Reed, circondava ancora la zona dove avevano trovato la ragazza. Lo superarono entrambi, abbassandosi di poco per tornare con i piedi in quell’acqua sporca e poco invitante.
Si armarono di torcia e pazienza. Ormai era innegabile che i casi fossero collegati e avevano tacitamente deciso di intensificare gli sforzi di notte, quando c’erano meno possibilità di essere scoperti. Tecnicamente il caso di Chantal non era il caso di Mac, quindi lavorarci non era del tutto contro le regole. Almeno questo era ciò che Stella continuava a ripetersi mentre, con testardaggine, continuava a illuminare senza successo il canale di scolo nella speranza di trovare qualcosa di simile a un’arma del delitto.
Sheldon, poco distante da lei, se ne stava abbassato a fissare qualcosa dentro l’acqua.
- Credo di aver trovato qualcosa. - Spezzò il silenzio di quella strada così inquietante che, per poco, Stella non sussultò.
- L’arma? - Si avvicinò stando attenta a non scivolare, fino a fermarsi al suo fianco.
- Credo proprio di sì, guarda. - Nella mano destra, protetta rigorosamente dal guanto in lattice, stringeva un attizzatoio da caminetto nero.
- Non troveremo mai il DNA di Mac qua sopra, è stato in acqua fino ad adesso… - Disse sconsolata lei. - Ma poi chi va in discoteca con un attizzatoio? -
Sheldon lo analizzò rapidamente con gli occhi. - Probabilmente era in macchina, in questo caso sarebbe premeditato. -
Stella ragionò in silenzio per qualche secondo, poi parlò.
- Dici che la scena primaria è questa? A prima vista non sembrava perché non c’era sangue, ma l’acqua potrebbe aver ripulito gran parte della zona. Forse Mac è arrivato qui inseguendo i ragazzi e svenendo è caduto in acqua. Ma perché spostarlo a Central Park sotto gli occhi di tutti quando qua non l’avrebbe trovato nessuno? - Osservò senza capire.
- L’unica spiegazione che saprei dirti è che qualcuno ha voluto deliberatamente addossargli la responsabilità dell’omicidio. - Disse Hawkes.
Si guardarono negli occhi e Stella non poté fare altro che dargli mentalmente ragione.
Quando rientrarono a casa l’orologio segnava le 4:00 AM passate, e Stella non ebbe neanche la forza di farsi una doccia. Si lasciò cadere stremata sul letto dopo essersi tolta le scarpe, dando una rapida occhiata al telefono prima di riposare qualche ora.
“Reed”. Aprì il messaggio: “Allora? La vittima ha a che fare con Mac?”. Sorrise di fronte alla tenacia del ragazzo, ma decise di non dirgli nulla sul momento. Prima di riferire notizie voleva essere sicura al 100% che i casi fossero collegati, ma le risposte definitive le avrebbero avute il giorno dopo.
La mattina successiva Sheldon si mise immediatamente al lavoro sull’attizzatoio trovato nel canale di scolo, e dato che chiaramente i casi erano collegati, incaricò Adam di controllare i filmati delle telecamere di sorveglianza che davano su Central Park.
I risultati delle analisi dell’attizzatoio non furono positivi come speravano: Hawkes era riuscito a trovare piccole tracce epiteliali, ma il DNA era troppo rovinato dall’acqua per dare un risultato affidabile. Il campione risultava avere dei loci in comune con il DNA di Taylor, ma in un tribunale una prova del genere non avrebbe avuto valore.
La scartarono ai fini del caso, ma in cuor loro sapevano che, in realtà, quella era la prova che collegava Mac al caso della ragazza.
Adam, invece, lavorò sui video per un paio d’ore. Andò avanti e indietro almeno cento volte, zoomando per cercare dettagli e qualsiasi cosa che potesse dare risposte alle loro domande, finché nel silenzio del laboratorio si sentì urlare.
- Sheldon! -
Hawkes si girò, scattando come una molla verso la stanza in cui stava lavorando Adam. Non ci mise neanche venti secondi a raggiungerlo, sperando che avesse trovato qualcosa.
Una volta affiancato il ragazzo, Adam ingrandì il video messo in pausa che stava visionando per la ventisettesima volta.
- Pneumatici! La vedi questa strada? - Indicò una via all’interno del parco - Qui hanno trovato Mac. La prospettiva è diversa ovviamente, Danny e Stella sono entrati da quest’altro lato, ma da qui è coperto dagli alberi. Insomma, i segni delle ruote si fermano qui. Ho fatto un calco, dovrebbero essere di un suv se consideriamo la larghezza delle ruote. Ho anche trovato la marca: Goodyear. -
Sheldon sorrise. - Fantastico, Adam. - Gli diede una pacca sulla spalla.
- Ehi, non ho finito. Vuoi sapere un’altra buona notizia? Ho già ristretto il campo. Le marche di auto principali che utilizzano questa marca sono Audi, Nissan e Tesla. -
Hawkes sorrise. - Avviso Flack. -

 

To be continued...

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Capitolo 19
*** Capitolo XIX ***


Capitolo XIX

Quando Don uscì dall’ascensore percepì nettamente un altro clima all’interno del laboratorio. La scoperta di Adam aveva risollevato gli animi di tutti, e parlando con Sheldon erano arrivati ad un ottimo punto da cui ripartire.
- Se Mac ha davvero seguito quei tizi, avrà sicuramente fermato un taxi al volo. Non può averla fatta a piedi. Quindi ora c’è un altro problema: come troviamo il tassista che l’ha aiutato a seguire quest’auto? -
Hawkes scrollò le spalle. - Questo non lo so, ma sicuramente è più facile che avere come possibile aiutante una persona su 7 milioni. -
Avendo la conferma del collegamento dei casi, Stella diede appuntamento a Reed durante la pausa pranzo. Probabilmente Bonasera non arrivò a contare tre squilli perché il ragazzo, impaziente di ricevere notizie, rispose subito.
- Stella? -
- Vieni al bar di ieri. Ti aspetto lì. - Si limitò a dire lei. Preferiva non dare molte informazioni per telefono.
- Arrivo. - Chiusero entrambi la chiamata. Quando Reed entrò nel bar non ci mise molto ad individuare Stella, già seduta al tavolo in fondo a cui, qualche ora prima, il team di Taylor si era organizzato per scagionare il capo. Lei alzò un braccio per farsi notare, aspettando che la copia in miniatura di Mac la raggiungesse al tavolo prima di dare un sorso al proprio cappuccino. Reed prese posto davanti a lei non prima di aver ordinato un caffè.
- Ciao. - Iniziò Stella. - Allora? Com’è andato il primo articolo? -
- Ciao. Alla grande, ho scatenato un casino. - Sorrise entusiasta. - L’ho postato stamattina alle 5:30 AM, ho fatto dieci mila click in quasi sette ore, ti rendi conto? La gente è impazzita, sono arrivati un sacco di commenti. L’opinione però è divisa, c’è chi crede a Mac e chi, invece, preferisce aspettare gli sviluppi dell’indagine. -
Stella lo ascoltò in silenzio, pensando che l’entusiasmo e l’energia di quel ragazzo le ricordassero quelli che aveva lei quando aveva iniziato quel lavoro come semplice poliziotta. Nel tempo, forse, li aveva un po’ persi, ma la fame di giustizia si era indubbiamente ingigantita.
- Okay, allora… Non posso dirti tutti i dettagli, quindi fatti bastare le informazioni che ti dirò per scrivere il secondo articolo. La ragazza di ieri è collegata. Sui vestiti di Mac c’era la stessa acqua del canale di scolo. Dalle analisi fatte alla ragazza risulta che fosse positiva al GHB, proprio come lui, ma in quantità decisamente superiori. Mac è risultato positivo perché il sangue di lei è entrato nel suo corpo attraverso la ferita che Mac ha sulla nuca. Quindi la ragazza è stata drogata, e quello che noi crediamo, e preciso crediamo, è che lui abbia assistito ad un’aggressione e che sia intervenuto per salvarla. Da quel che sappiamo, però, i ragazzi erano in due, uno deve averlo aggredito da dietro. -
Reed si scrisse tutto rapidamente su un appunto del cellulare, e anche se sembrava che non stesse ascoltando una parola del racconto del detective Bonasera, in realtà girò il telefono verso di lei per farle vedere il blog.
- Ho ricevuto un commento un paio di ore fa, si tratta di un tassista che ha dichiarato che ieri mattina, intorno alle 6:35 AM, un uomo che si è dichiarato della polizia di New York lo abbia fermato per inseguire una Nissan grigio chiaro. Poi si sono fermati in una zona isolata e Mac gli ha dato più soldi del necessario, dicendogli di tenere il resto. -
Stella sgranò gli occhi. Non aveva detto nulla a Reed della macchina, eppure tutto combaciava.
Il caffè del ragazzo arrivò in quel momento e lui, quasi a voler brindare, ne prese un lungo sorso.
- Noi… Noi abbiamo trovato tracce di pneumatico nei pressi di Central Park. Facendo varie ricerche incrociate siamo arrivati alla conclusione che le auto che più usano quel tipo di gomme sono appunto Audi, Nissan e Tesla! - Non ci poteva credere, quell’uomo aveva in mano la chiave del caso. - Reed. Contatta il tassista e digli di andare in centrale a testimoniare. Può scagionare Mac! - Lei si passò una mano tra i capelli, incredula e felice.
Felice fino a che non vide Mac Taylor varcare la porta del bar e, ignaro di tutto, avanzare verso il bancone.
- Oh, no. Questo è un problema. -
- Cosa? - Reed alzò le sopracciglia senza capire. 
- C’è Mac! Nasconditi! - Sussurrò, come se lui potesse sentirla nonostante il rumore del locale. - Accidenti a lui, non sa proprio starsene in vacanza! Li vorrei io due giorni di pausa! -
Il ragazzo sgranò gli occhi. - E dove mi metto? Non possiamo semplicemente dirgli che stiamo prendendo un caffè? -
Stella tornò a guardarlo in preda all’ansia. - Tu non conosci Mac Taylor. Quell’uomo farebbe un interrogatorio anche alla sua ombra. - Sospirò. - Vai sotto al tavolo, veloce! - Sussurrò.
Reed fu tempestivo, fece appena in tempo a scivolare sotto al tavolo prima che l’occhio attento del detective notasse la chioma riccia di Stella. Lui la salutò con un cenno del capo, giusto per toglierle ogni dubbio sul fatto che l’avesse vista.
Dopo aver preso un bicchiere di caffè nero, Mac ringraziò la donna al bancone per poi raggiungere la collega.
- Ciao, cosa fai qui? Una pausa? -
Lei sorrise nel tentativo di risultare credibile. - Ciao, Mac! Esatto, e tu? Pensavo che ti stessi godendo queste giornate di riposo. Al posto tuo io lo farei. -
Taylor prese un sorso di caffè bollente senza staccarle gli occhi di dosso.
- Strano, solitamente lo prendi in laboratorio. - Osservò. - No, lo sai che detesto non avere niente da fare. - L’occhio dell’uomo si spostò sul tavolo a cui era seduta lei. Stella lo imitò, notando solo in quel momento quel dettaglio, quel maledetto dettaglio che senza ombra di dubbio era stato notato anche da Taylor. Il bicchiere di Reed era rimasto sul tavolo, di fronte a lei. Peccato che nessuno fosse seduto sul divanetto.
Chiuse gli occhi, rassegnata.
- D’accordo. Ho invitato un amico a bere un caffè. -
Mac bevve un altro sorso. - Ma non mi dire. Per caso è quello sotto il tavolo? - Accennò un sorriso divertito.
- Già… -
Sconfitto, Reed riemerse dagli abissi con un imbarazzo palese sul viso.
- Ciao, Mac. - Disse rimettendosi seduto, piantando poi lo sguardo sul proprio bicchiere. Non aveva il coraggio di guardarlo, sapendo che avrebbe incontrato solamente occhiate di rimprovero.
Taylor li guardò a turno, prima lui, poi Stella.
- Me la dai tu una spiegazione? - Domandò in direzione della collega.
- Siediti. - Annuì lei. Il detective afferrò la sedia di fronte a lui, spostandola giusto il poco che bastava per farsi spazio e prendere posto tra i due. Non aggiunse altro, rimanendo in attesa che Stella gli spiegasse quell’assurda situazione.
- Prima che tu ti arrabbi, posso solo dirti che Reed ti ama come un figlio. - Stella tentò di percorrere la strada più sentimentale nella speranza di ammorbidire un po’ Mac. Lui, dal canto suo, lanciò un’occhiata al ragazzo per poi tornare a guardare l’amica. - Ѐ stato lui a risollevare il morale di tutti, eravamo veramente a terra. Ha convinto tutto il team a svolgere un’indagine parallela per aiutarti. -
Taylor alzò le sopracciglia, incredulo. - … Voi cosa? - Attese qualche secondo prima di riprendere a parlare, sforzandosi di trovare le parole che meglio esprimessero tutto quello che aveva in mente. - Siete ufficialmente impazziti tutti quanti? Se Sinclair lo scopre vi fa il culo. -
Era raro che Mac si esprimesse in quel modo, e quando accadeva non era un buon segno.
- Lo so. Flack, infatti, era molto sulle spine. Ci abbiamo messo un po’ a convincerlo. - Sorrise colpevole, sperando di allentare la tensione.
- E fammi indovinare, siete capitanati da Danny? -
- Mac! - Lo fermò lei. - Ascoltami. Devi credermi, è successo tutto per una coincidenza. Sì, è vero, ci siamo organizzati per indagare comunque sul tuo caso, ma Chantal, la ragazza a cui sei collegato, è stata trovata per pura fortuna. Solo lavorandoci abbiamo scoperto che fosse legata a te. Quindi tecnicamente non abbiamo fatto niente di male. -
Lui si passò una mano sugli occhi. - Stella, per quanto io possa apprezzare e ringraziarvi, non voglio che finiate anche voi nella mia situazione. Non posso permettere che rischiate di perdere il lavoro, l’ho sempre fatto da dirigente del laboratorio e lo farò anche adesso. -
Stella si sporse sul tavolo con un’espressione estremamente seria in viso.
- Beh, neanche noi. Non sei stato tu, Mac! Abbiamo la prova! Abbiamo sempre lottato per incastrare i veri colpevoli e dovremmo gettare la spugna proprio ora che stanno condannando un innocente?! Tu non ti sei mai tirato indietro per noi, lasciaci ricambiare. -
Taylor sospirò, scuotendo la testa ancora incredulo per tutto quello che stava ascoltando.
- Siete fortunati che il caso di Chantal sia apparentemente distaccato, ma quando scopriranno che sono collegati e che voi ci avete lavorato lo stesso? Che cosa direte, ci hai pensato? - La incalzò lui, guardandola serio.
Reed tentò di prendere le difese di Stella. - Ma ci sono le prove! Non possono fare nulla se quelle ti scagionano, no? -
Mac ignorò il ragazzo, troppo nervoso per la negligenza dell’amica per mettersi a spiegare a Reed le procedure del dipartimento.
- Lo sai che uscirà questa cosa, Stella. Vedranno che avete lavorato al mio caso, ma sfruttando quello di Chantal. Ѐ lo stesso giochetto che fa Sinclair, i cavilli burocratici sono il suo pane quotidiano, con la differenza che lui è il capo. -
Stella lo guardò negli occhi scuotendo la testa.
- Cosa avremmo dovuto fare? Starcene con le mani in mano mentre ti accusavano ingiustamente di omicidio? Reed su questo ha ragione, dovevamo intervenire. -
Mac sbuffò. - Chi altro è coinvolto a parte te, Danny e Flack? -
- … Tutti. - Ammise Bonasera.
- Anche Peyton? -
Lei fece per parlare, ma ogni parola le sembrava sbagliata e fuori luogo.
- Lei… Beh, indirettamente. Ho dovuto chiamarla quando abbiamo trovato Chantal. -
Taylor sospirò ancora, per l’ennesima volta, non riuscendo a trovare pace. Al tavolo calò un silenzio pieno di tensione, colpevolezza e imbarazzo. Mac capiva benissimo lo stato emotivo di Stella e di Reed, ma contemporaneamente si sentiva responsabile per lei e tutti gli altri membri della squadra. Lei, dal canto suo, sapeva perfettamente quanto Mac fosse attaccato al regolamento per essere certo di aver fatto tutto senza errori. Era sempre stata la sua arma. Facendo tutto secondo il protocollo, nessuno aveva mai potuto trovare un appiglio per andargli contro o rinfacciargli eventuali errori.
Reed teneva ancora lo sguardo basso, tremendamente a disagio per la tensione che c’era tra lui e Mac. Taylor se ne accorse, pensando che probabilmente averlo ignorato poco prima fosse stata una reazione eccessiva. Si girò nella sua direzione, notandolo con il capo chino.
Sospirò. - … Mi hanno detto che stanotte eri ad un incontro galante. Ad un canale di scolo. Non credo sia il posto migliore per un appuntamento. -
Il ragazzo alzò lo sguardo su di lui, lasciandosi sfuggire un sorriso divertito e imbarazzato.
- Non… Non era la mia prima meta. Ho girato parecchio prima di trovare un posto un po’ più appartato. Ed è stato lì che ho trovato il corpo… La ragazza che era con me ha urlato per circa due minuti. Cronometrati! -
Mac sorrise. - Mi sa che ti servono un paio di dritte. -
- Ti metti a cronometrare le ragazze mentre urlano? - Commentò Stella, sollevata del fatto che la tensione si fosse stemperata così rapidamente.
- Tu dove portavi mia madre? Avanti, dammi qualche consiglio. -
- Ragazzo. - Iniziò Mac. - Sei a New York, il paradiso di bar, locali, cinema e divertimento. Hai l’imbarazzo della scelta. Solo… Cerca di avere un po’ di gusto, non puoi portare una ragazza in una strada abbandonata. La voce che tu debba spendere grandi cifre per sorprenderle è una leggenda metropolitana, basta semplicemente essere originali. -
Reed era sul punto di rispondere, ma una notifica del cellulare attirò la sua attenzione. Era la mail, il tassista gli aveva risposto.
- Stella! Ha risposto! - Esultò. - Ha detto che andrà oggi in centrale a testimoniare. -
Non capendo, Mac lanciò un’occhiata alla collega. Vedendolo spaesato lei capì di doverlo aggiornare sulle ultime novità.
- Reed ha pubblicato l’articolo stamattina. Un tassista l’ha letto e ha commentato dicendo quello che è successo, è un testimone! Ha detto che hai assistito all’aggressione di Chantal Trevis, l’hai fermato al volo e gli hai fatto inseguire un’auto. -
Lui ascoltò in silenzio, annuendo avendo trovato finalmente le risposte che cercava.
- Se mi chiamano in centrale e mi vede, forse avranno la certezza totale che fossi veramente io. -

Passò circa mezz’ora da quando Reed se n’era andato per lavorare sul secondo articolo, e Mac rimase da solo con Stella. Lui era visibilmente in tensione, non faceva altro che pensare a Sinclair e al tassista che avrebbe potuto scagionarlo definitivamente da quelle stupide accuse. Non vedeva l’ora di sbattergli in faccia le prove che dimostrassero la sua innocenza e ripulire la sua reputazione ormai infangata.
Il cellulare del detective squillò all’improvviso mentre parlava amichevolmente con Bonasera, e Mac rispose al primo squillo come se aspettasse la telefonata più importante della sua vita.
- Taylor. -
- Detective? - Dall’altro lato del telefono la voce di una donna lo tranquillizzò, stranamente. Sapeva di averla già sentita, ma non riusciva ad associarla ad un viso. - Sono il detective Dana Foster. Qui c’è un uomo che dichiara di averla vista tre quarti d’ora prima del suo ritrovamento a Central Park. Potrebbe venire? -
Lui guardò Stella. - Arrivo subito. -
Gli sembrò strano entrare in quegli uffici vestito da civile, senza pistola e senza distintivo, sentire addosso gli sguardi degli altri come se provassero a scavargli nell’anima.
Mac tirò dritto verso la sala interrogatori senza guardare nessuno. La maggior parte delle occhiate che riceveva non erano di persone realmente preoccupate per lui, ma curiose, morbose, avide di sapere cosa fosse successo per poterne parlare al bar dopo il lavoro. Non c’era reale interesse nel capire cosa fosse successo, e Taylor non aveva interesse nel dedicare loro attenzione.
Dopo aver bussato un paio di volte alla porta in legno con le veneziane tirate giù, Mac aprì la porta che mille volte aveva varcato con in mano i fascicoli dei casi.
Non stavolta.
Se la richiuse alle spalle, trovandosi davanti un uomo che sapeva di non aver mai visto in vita sua seduto al tavolo al centro della sala. A prima vista sembrava avere circa quarant’anni, moro, barba curata e occhi scuri. Nessun dettaglio particolare che saltasse agli occhi di Mac. 
Di fronte a lui il detective Foster, una giovane donna dai capelli corti e biondi.
- Detective Taylor. - Esordì lei. - Quest’uomo sostiene di averla caricata sul suo taxi. -
- Sì! Sì, è lui! - Mac lo guardò attentamente per qualche secondo, ma il viso del tassista non gli diceva nulla.
Non poté fare altro che porgergli la mano per dimostrargli riconoscenza per il gesto che stava facendo.
L’uomo la strinse con vigore. - Davvero non si ricorda di me? Mi ha persino pagato $10 in più, e mi ha detto di tenere il resto. -
- Purtroppo no. - Sospirò Mac. - Non ricordo nulla di quanto successo. Sono stato ritrovato privo di sensi a Central Park con una ferita alla nuca. Se quello che dice è vero, e cioè che mi ha aiutato a inseguire quell’auto, la ringrazio. Lei è un brav’uomo. -
Il tassista sorrise. - Non deve ringraziarmi, è la pura e semplice verità. Ho letto l’articolo su internet e mi sono ricordato di lei. -
Il detective Foster si schiarì la gola. - Quindi ieri mattina il qui presente detective Taylor è salito sul suo taxi identificandosi come agente e chiedendole di inseguire un suv Nissan grigio chiaro, è corretto? -
- Sì. - Annuì l’uomo. - Poi mi ha dato $25 ed è corso via, verso l’auto. -
- Ha visto cos’è successo dopo che sono sceso dal suo taxi? - Chiese Mac.
- No. Avevo finito il mio lavoro e me ne sono andato… E poi avevo paura che succedesse qualcosa, lei è corso via con la mano sulla fondina. Però ho la targa! Ho pensato che se la polizia stesse seguendo quell’auto fosse una cosa importante, no? - Frugò nella tasca destra dei pantaloni, tirando poi fuori un foglietto stropicciato su cui, effettivamente, c’era scritta la targa.
Taylor si limitò a guardarla, senza permettersi di toccare il pezzo di carta per evitare di inquinare le prove.
Ci pensò il detective Foster a prendere il biglietto. - Il detective Taylor le ha spiegato perché volesse seguire quella macchina? -
L’uomo annuì. - Sì, disse di aver visto qualcuno caricare in auto una ragazza. -
- Le ha specificato in che condizioni era la ragazza? - Continuò lei. 
- No. Aveva troppa fretta. -
Mac guardò l’uomo, poi la collega, rimanendo in silenzio e con le mani in tasca.
- D’accordo. La ringrazio, Sig. Brown. Si tenga a disposizione. -
L’uomo annuì per poi alzarsi e uscire dalla stanza, lasciando il posto a Stella che entrò, raggiungendo Mac.
- Tu sei proprio sicuro di non ricordare niente? Com’è possibile? - Gli domandò sospirando Dana.
Taylor si girò lievemente, mostrandole la ferita ancora visibile che aveva sulla nuca.
- Si chiama commozione cerebrale. -
- È stato colpito alla testa con un attizzatoio, c’è mancato poco che non finisse in coma o peggio! - Intervenne Stella.
Dana sgranò gli occhi. - Diavolo! Come mai sul rapporto ufficiale non risulta? -
- Chiedilo a Sinclair. - Rispose Mac con risentimento.
Lei lo guardò dispiaciuta. - Beh, questo va segnato, bisogna indagare. -
Taylor rise piano, le mani ancora nelle tasche. - A Sinclair non interessa indagare. -
Dana avanzò di un paio di passi, avvicinandosi al detective.
- Ma a me sì, e lui non può andare contro l’evidenza. -
Mac annuì. - Apprezzo la tua onestà. Che intendi fare? -
- Innanzitutto controllare a chi appartiene questa targa. - Sventolò il biglietto lasciato dal tassista.
- Ti lascio l’onore. - Rispose Taylor.
- Grazie. - Gli sorrise lei passandogli accanto. Poi lasciò la stanza, chiudendo delicatamente la porta dietro di sé.

 

To be continued...

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Capitolo 20
*** Capitolo XX ***


Capitolo XX

Mac guardò Stella e roteò gli occhi. Conosceva fin troppo bene quell’espressione e sapeva già dove sarebbero andati a parare. Lui non fece in tempo a dire nulla, infatti, che la collega lo anticipò.
- Sai? Credo che voglia qualcosa in cambio. - Ammiccò.
Lui si limitò a guardarla di sbieco, rimanendo immobile in attesa che Dana tornasse.
- Dipende da cosa vuole. -
- Ah, io credo di saperlo. - Sorrise lei. - Una notte di fuoco. -
Mac fece la sua solita espressione. - Che non avrà, allora. - Concluse con decisione.
- Ti sto solo mettendo in guardia. Lei ci proverà con te. - Lui sospirò. Affrontare quei discorsi lo metteva sempre a disagio.
- Questo l’ho intuito anch’io, Stella. Sto cercando di dirti che non mi interessa. -
Lei gli diede una gomitata affettuosa. - Ti conviene, sennò avviso Peyton. -
Mac le lanciò un’occhiata. - Credevo che io e te fossimo una squadra, e invece scopro che mi tradiresti così. - Finse risentimento, ma scherzava.
Stella alzò le spalle, come a chiedergli scusa. - Solidarietà femminile. -
Taylor non poté evitare di scuotere la testa sorridendo. - Dì alla tua solidarietà di stare calma, non ha motivo di allarmarsi, te l’assicuro. -
Lei fece per rispondere, ma un rumore di tacchi fece intuire a entrambi che Dana stesse tornando. Dopo pochi secondi, infatti, rientrò dalla porta.
- Eccomi. L’auto è una Nissan del 2006, risulta intestata ad un certo Drew Bedford. -
Mac sgranò gli occhi voltandosi immediatamente verso Stella. La loro espressione parlò per loro, perché il detective Foster rimase turbata.
- … Che succede? Lo conoscete? -
Taylor annuì. - Fin troppo bene, ma dovrebbe essere in carcere. Ero presente al suo arresto. -
Stella non ebbe il coraggio di parlare, l’esperienza di Drew l’aveva colpita profondamente, specialmente per i risvolti che si erano scoperti legati al passato di Mac a Chicago.
- Dov’è detenuto? -
- Rikers Island. -
Dana prese il cellulare dalla tasca per telefonare all’istituto di detenzione appena menzionato da Taylor.
- Buonasera, detective Foster. Ci risulta un’auto in circolazione intestata ad uno dei vostri detenuti. Il nome è Drew Bedford. Volevo chiederle se si trova ancora lì attualmente oppure se abbia ricevuto qualche permesso. Bene, grazie, arrivederci. -
Mac e Stella la fissarono per tutto il tempo senza avere il coraggio di aprire bocca. Fu lei, dopo aver chiuso la chiamata, a dare loro la notizia.
- Ha ottenuto un permesso per buona condotta appena venti giorni fa. Libertà vigilata, hanno detto che ha la cavigliera. -
Mac scosse la testa incredulo. Lui e Bonasera si scambiarono un’occhiata piena di rabbia e rassegnazione, ma avevano entrambi le mani legate.
- Cosa ha fatto? - Domandò Foster.
- Ha provato ad uccidermi. - Taylor fu sintetico e diretto come al solito. - È ancora fuori per la libertà vigilata? -
Dana annuì. - Sì, e grazie alla targa ho anche il suo indirizzo. Andrò a parlargli sperando di trovare qualcosa su cui lavorare. Eventualmente potresti venire con me, Stella. -
Mac sarebbe voluto intervenire e dire di no. Drew era stato molto abile mesi prima ad entrare in punta di piedi nella vita di Stella, e voleva che lei gli stesse il più lontano possibile.
- Del caso Bedford ci occupammo mesi fa e Sinclair ne è a conoscenza perché c’era anche lui quando Drew provò ad uccidermi. Nel frattempo tra me e il capo ci sono stati attriti, e sono sicuro che ora, se può evitare di farmi un favore non si lascia scappare l’occasione. Per ora occupatene tu, eventualmente chiedi consiglio a Flack, ma non coinvolgerlo in prima persona. Sono tutti sollevati dal mio caso. -
La donna annuì di nuovo, non aspettandosi che dietro ci fosse un tale casino.
- Vi terrò aggiornati. - Lui e Stella annuirono, uscendo poi dallo stanzino e lasciando gli uffici pieni di agenti indaffarati.
- Vai a casa. - Gli disse Bonasera. - Ti farò sapere se ho novità. Non prendertela con Peyton, fino a questa notte ne sapeva quanto te. E avresti dovuto immaginare che quel ragazzo avrebbe mosso mari e monti per te. Non accettava la situazione, non accettava di essere impotente mentre venivi massacrato dai media. -
Ci furono attimi di silenzio. Mac mise le mani in tasca per ripararle dal freddo del tardo pomeriggio ed espirò dalla bocca, creando una piccola nuvola di vapore.
- Non voglio che rischiate per me, tutto qua. -
- Finiscila. Dai, ci sentiamo dopo. - Taylor incassò una botta amichevole sul braccio, guardando poi l’amica allontanarsi a piedi in direzione del laboratorio.
Mac lasciò di proposito che lei lo anticipasse, prendendo poi la stessa direzione con passo rilassato. Quando arrivò davanti al palazzo in cui lavorava da anni, aprì le ante come se tutta la situazione incasinata in cui era fosse una mera fantasia, avvicinandosi quindi alla guardia che autorizzava l’ingresso.
- Buonasera, sono Taylor. Dovrei salire negli uffici per un paio di minuti, ho dimenticato le chiavi nello spogliatoio. -
L’uomo, ovviamente, lo riconobbe subito. E si ricordò anche di come era uscito quella mattina: a mani vuote, passo furioso e un’espressione indecifrabile che mai aveva visto sul viso sempre composto del detective. Era credibile che avesse scordato qualcosa data la fretta con cui era uscito.
- Certo. - Gli sorrise. - Entri pure. -
- Grazie. -
Mac lo superò andando verso l’ascensore, ma invece di premere il tasto del piano dei laboratori, andò dritto in obitorio dove era sicuro di trovare Peyton.
Percorse il corridoio a passo spedito temendo che qualcuno potesse vederlo dentro i laboratori senza autorizzazione, quindi aprì le pesanti porte della sala delle autopsie e se le richiuse rapidamente alle spalle.
Si girò poi verso sinistra, dove i letti di acciaio occupavano la maggior parte dello spazio all’interno della camera mortuaria. Lei era lì, china su un corpo parzialmente coperto da un lenzuolo, che osservava delle ferite al torace aiutata da una lente d’ingrandimento.
Mac accennò un sorriso, bussando poi un paio di volte con le nocche sulla vetrata, che divideva l’obitorio dall’ingresso, per attirare la sua attenzione.
Lei si girò subito, sorridendo dopo la sorpresa iniziale. Dopo aver posato la lente sul ripiano che aveva lì accanto lo raggiunse nel piccolo corridoio oltre il vetro e lui, approfittando del fatto che fossero soli, le lasciò un bacio sulle labbra.
- Ti devo parlare. - Esordì subito dopo.
Il sorriso di Peyton si smorzò di colpo sentendo quelle parole, diventando improvvisamente seria.
- Cosa è successo? -
- Temo che per qualche giorno dovremmo evitare di vederci. - Disse senza troppi giri di parole.
Il cuore di lei saltò un battito. - … Perché? -
Mac prese un respiro profondo, guardando verso il soffitto nel tentativo di stirare i muscoli del collo.
- Da dove inizio… I tizi che hanno ucciso Chantal Trevis hanno usato un’auto intestata ad un certo Drew Bedford. Drew in realtà si chiama Andy, ed è il fratello di un mio amico di Chicago. Qualche mese fa ha tentato di uccidermi per vendetta personale. Non voglio che arrivi anche a te, si è finto interessato a Stella per mesi, le mandava regali in ufficio, la invitava fuori a cena e tutto solo per arrivare a me. Sono anche disarmato, se dovesse provare a farti qualcosa non potrei neanche intervenire. -
- Ed io dovrei starmene in disparte sapendo una cosa del genere? - Rispose dopo aver ascoltato in silenzio.
- Certo. Se succede qualcosa quando esci da casa mia? O se mi vedono entrare a casa tua? Non scherzare, Peyton. Non deve sapere niente. -
Lei lo fissava con aria allibita, sconcertata di come lui pretendesse che lei stesse tranquilla sapendo una cosa del genere.
- E se ti aggredisce mentre sei solo in casa?! -
- Io so difendermi. -
- E io so usare un bisturi. - Incalzò lei.
Mac non trattenne un sorriso. - Lo sai usare sui cadaveri, non sulle persone vive che tentano di ammazzarti. La mia comunque non era una richiesta, era un’informazione. - Disse categorico.
Peyton non aggiunse altro, capendo che discutere di questo con Mac sarebbe stata una guerra persa in partenza. Era pur sempre un poliziotto, un uomo addestrato a difendere gli altri prima di se stesso, non avrebbe mai ceduto a nessun ricatto.
Vedendola così, lui sentì lo stomaco chiudersi.
- Sono solo preoccupato per te. - Aggiunse, sperando di calmarla.
- E io per te… -
- Ma io sono già coinvolto, tu invece no. E devi rimanerne fuori. - Disse mettendole una mano sulla guancia.
Lei gli riservò uno sguardo preoccupato.
- Mi spieghi come faccio a stare tranquilla sapendo che c’è un pazzo che vuole vendicarsi e che, per giunta, sei disarmato? Dici che ti sorveglia? -
Mac scosse piano la testa sospirando. - Non lo so. Non credo, me ne sarei accorto, immagino. Penso che il suo obiettivo fosse farmi incolpare dell’omicidio di Chantal Trevis, ma ora che abbiamo scoperto che c’è lui dietro, forse passerà al piano B. -
L’espressione sul viso di Peyton peggiorò a quelle parole. - Ossia farti del male? -
- Sono solo ipotesi. - Tentò di calmarla.
Lei si passò una mano tra i capelli non riuscendo a togliersi di dosso il senso di ansia che da qualche minuto si era insinuato nella sua testa. Mac se ne accorse. Era pentito di averle dato un dispiacere, ma non poteva rischiare di metterla in pericolo.
- … Mi dai un pensiero in meno se so che tu non corri rischi. - La guardò negli occhi azzurri, notandoli lucidi.
Peyton deglutì per poi annuire concorde.
- Va bene, ma promettimi che starai attento. -
Taylor non fece in tempo a risponderle, fu costretto ad accoglierla tra le sue braccia e stringerla, così come fece lei. Rimasero così per un po’, in silenzio, con lui che le accarezzava la schiena nel tentativo di trasmetterle un po’ di sicurezza.
La suoneria del cellulare di Mac li destò entrambi, interrompendo quel momento così intimo e tranquillo che erano riusciti a ritagliarsi in tutto quel caos.
“Sinclair”.
Prese un respiro prima di rispondere. - Taylor. -
- La aspetto nel mio ufficio. - Si limitò a dire.
- Mi dia cinque minuti. - Le loro conversazioni si erano ridotte a questo, semplici scambi di informazioni comunicate col tono più formale di cui fossero capaci.
- Era Sinclair. - Spiegò posando il telefono nella tasca interna della giacca. - Mi vuole parlare. -
- Spero per reinserirti. -
Lui alzò le sopracciglia, non troppo convinto. - Il suo tono non era molto predisposto al dialogo pacifico. - La guardò sorridendole. - Ti lascio con il tuo amico. - Indicò il cadavere ancora sul letto di acciaio con un cenno del capo.
Lei sorrise divertita. - D’accordo, ti chiamo stasera. -
Taylor annuì. - Fa’ attenzione quando torni a casa. -

Bussò due volte per annunciarsi, non tanto per rispetto, dopodiché Mac aprì la porta senza attendere il permesso di Sinclair. Si scambiarono un’occhiata gelida non appena il detective comparve da dietro il legno, studiandosi mentre Taylor chiudeva la porta dietro di sé.
Mac avanzò verso il centro della stanza, fino a fermarsi tra le due poltrone posizionate di fronte alla scrivania del suo capo.
Fu proprio lui a iniziare. - Nonostante il caso sia ancora aperto, i risultati delle analisi la escludono come sospettato. - Mac ascoltava in silenzio con le braccia lungo i fianchi, curioso di sentire fino in fondo il discorso di Sinclair prima di iniziare il proprio. - Si riprenda pistola e distintivo. - Li posò entrambi con un certo disappunto sul ripiano e Taylor li prese con calma.
La fondina tornò al suo posto, attaccata alla cintura sul lato destro, mentre il distintivo dall’altro lato e Mac fece il tutto senza mai staccare gli occhi da quelli di Sinclair. Attese qualche secondo prima di parlare, ma vedendo che il capo non aveva altro da aggiungere, prese fiato.
- Ho solo una domanda: perché? Perché non perde mai occasione per provare a rovinarmi? Non capisco se è una cosa personale o se sono semplicemente sfortunato io e lei sfrutta chiunque sia in una posizione spiacevole per acquisire credibilità agli occhi dei cittadini. - L’altro non rispose. - Eppure, con un po’ di modestia, potrei dire di aver sempre seguito il protocollo alla lettera e, per quanto riguarda lei, di averle salvato il culo più volte. -
- Lei è un uomo intelligente, Taylor. - Iniziò Sinclair. - E molto spesso chi ha questa caratteristica non fa una bella fine. -
Mac annuì. - Potrei essere d’accordo se cercassi di pestarle i piedi, ma a me non interessa nulla di ciò che fa lei. Io mi limito a risolvere i casi, e lei ci mette la faccia con i media. Entrambi siamo contenti. Ma sa cosa? Forse ho capito. - Attese qualche secondo, poi infilò le mani nelle tasche della giacca. - Ho capito qual è il problema. Io non sono immischiato nel loop infinito di ricatti in cui è lei. Non c’è niente con cui qualcuno dei piani alti mi possa ricattare, sono totalmente anonimo per quanto riguarda gli scandali e, soprattutto, non mi faccio comprare per due spiccioli. Perché sa bene che potrei entrare anche io in questo giro. Di informazioni ne avrei tante, ma non mi interessa usarle. - Disse riferendosi ai files che lesse sulla chiavetta USB*.
Sinclair serrò le labbra, ritenendosi fortunato che Mac fosse totalmente disinteressato a quel genere di carriera. Nella sfortuna, almeno, gli era andata bene.
- Ma la avverto. - Continuò Taylor. - Non permetterò più che il mio lavoro venga messo in discussione perché lei ha bisogno di cavalcare i disagi degli altri per stare a galla. Così come non tollererò più che la mia vita privata venga utilizzata per accusarmi di avere disturbi emotivi, utilizzati poi come basi per accuse inesistenti. Ho rischiato più volte la vita per questo distintivo, ed essere accusato da qualcuno che se ne sta tutto il giorno alla scrivania non lo accetto. Quindi, Sinclair, se si sta chiedendo come agirò la prossima volta, o direttamente adesso se sarò costretto, le informazioni di cui sono a conoscenza non saranno più solo un segreto mio e suo. -
Sinclair impallidì, diventando visibilmente teso per quella situazione in cui Mac l’aveva costretto.
- Ammetto che ci vuole un certo coraggio a ricattare il proprio capo, detective Taylor. Devo dargliene atto. -
Il detective allargò leggermente le braccia. - Cosa potrebbe accadermi di peggio rispetto a quello che è già successo? -
- Cos’è che vuole, Taylor? Che le riaffidi l’indagine sul suo caso? -
Mac sorrise. - Oh, adesso sono io quello a cui lecca il culo. Addirittura va contro i protocolli. -
- Le sto offrendo una possibilità! - Ribadì alzando il tono della voce. Quella era l’unica carta che Sinclair potesse buttare sul tavolo. Mac aveva letteralmente una scala reale e lui poteva solamente sperare che ciò che aveva da offrire potesse bastare al detective per non rovinarlo.
- Sì, mi sta decisamente leccando il culo. - Rise ancora. - La possibilità me la prendo. E le darò tutte le prove che dimostreranno che non sono stato io. Chiuderò il caso come ho sempre fatto. - E senza aggiungere altro afferrò la maniglia della porta e uscì.

Quando le porte dell’ascensore si aprirono, Mac Taylor fece ritorno dentro il laboratorio con un’espressione decisamente più rilassata e vittoriosa. Tutti notarono il distintivo alla sua cintura e corsero ad abbracciarlo.
- Capo! Sei tornato! - Esclamò Danny.
- Siamo tornati. - Lo corresse il detective. - Tutti quanti. Siamo tornati sul caso. -
- Stai scherzando? - Rise Sheldon non riuscendo a capacitarsi di come ci fosse riuscito.
- Chiudiamolo e prendiamo quel bastardo. - Quella risposta valeva più di qualsiasi altra cosa.

 

To be continued...
 

*: per chi non lo sapesse (o non se lo ricordasse), durante un caso Mac e il suo team entrarono in possesso di una chiavetta USB. Questa pennetta era di un'avvocato (la vittima del caso, se non ricordo male) e conteneva materiale riguardante praticamente ogni pezzo grosso di NY. Essendo obbligato a leggere questi file per il caso, Mac trova un fascicolo riguardante anche Sinclair (se non erro era stato accusato di molestie nei confronti di una donna e lui, per paura che questa diceria uscisse sui giornali, lo aveva detto alla moglie prima che scoppiasse lo scandalo, ditruggendo quindi il matrimonio).
Durante il caso di Clay Dobson, Mac e Sinclair arrivarono già ai ferri corti, e Taylor fu costretto a giocarsi la carta della pennetta per salvarsi la carriera.

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Capitolo 21
*** Capitolo XXI ***


Capitolo XXI

- Drew Bedford! Apri! Polizia di New York! - Si annunciò Flack dopo aver bussato alla porta.
Il ragazzo aprì poco dopo con un’espressione stralunata in viso e Don, in compagnia del detective Dana Foster, comparve nel suo campo visivo.
- La polizia? Sì, entrate. - Si fece da parte per fare spazio ai due agenti, che varcarono la soglia guardandosi in giro. Flack, ovviamente a conoscenza del passato di Drew, iniziò senza troppi giri di parole, deciso a finire quella storia il prima possibile.
- Mi perdonerai se ti do del tu, vero Andy? - Usò il suo vero nome sperando di scatenare qualche reazione, ma non percependo nulla, continuò. - Bene. Ci risulta che sei proprietario di una Nissan grigio chiaro su cui l’altro ieri mattina è stata caricata una ragazza. Ragazza che è stata trovata morta in un canale di scolo. Immagino che tu non ne sappia nulla, vero? -
Drew alzò di poco le mani. - Ehi, ehi, piano. Io sono in libertà vigilata. Me l’avranno rubata. -
- Hai sporto denuncia? - Incalzò Flack.
- No. - Dana rispose al posto del ragazzo, dato che aveva già controllato la targa e relative denunce allegate.
- Mi sa che vi è sfuggito il concetto che sono in libertà vigilata. Non posso di certo prendere la macchina, quindi come faccio a sapere se me l’hanno rubata? -
- Ehi, abbassa i toni ragazzino, perché mi sa che la prossima cosa che mi sfugge è il mio amico a cinque dita. - Disse mostrando il pugno destro chiuso.
Drew rise strafottente. - Che fa, agente, mi minaccia? -
- Io li chiamerei ceffoni educativi. Ricominciamo da capo. Dov’era posteggiata l’auto l’ultima volta che l’hai usata? -
- Non me lo ricordo, sono stato mesi in carcere. -
Don lo guardò con riluttanza. - Fammi vedere la cavigliera. -
- Eccola qua. - Drew sbuffò, alzando il pantalone e mostrando l’aggeggio attaccato alla caviglia. - Controllate pure, non mi sono mosso da qui. -
- Conoscevi Chantal Trevis? - Domandò ancora Flack.
- Mai sentita. -
I due agenti si scambiarono un’occhiata capendo che senza mandato non avrebbero risolto nulla.
- Rimani a disposizione. - Concluse Dana, precedendo Don fuori dalla porta.
Flack si mise al volante sbuffando. Ripensò a quello che Drew aveva fatto a Mac e Stella e a stento riuscì a trattenere l’istinto di scendere e prenderlo a calci fino al carcere, ma tutto era nelle loro mani. Dovevano dimostrare che dietro a tutto quel casino c’era lui, per poi mandarlo al fresco con un ergastolo, se tutto fosse andato per il verso giusto.
- Ascolta… - Dana lo destò dai suoi pensieri. - Cosa sai dirmi sul detective Taylor? In via del tutto confidenziale, ovviamente. -
Flack fece per dire qualcosa, ma rimase con la bocca aperta non del tutto sicuro di aver capito la domanda. Si prese il tempo della curva per pensare ed evitare di andare a sbattere.
- In che senso? -
Lei gesticolò imbarazzata. - Sì, beh, insomma… Cosa gli piace? Che gusti ha? Tu lo conosci bene, no? -
Lui metabolizzò la cosa, decidendo di essere totalmente sincero con lei. Non tanto per Dana, quanto per l’amico ed evitargli situazioni imbarazzanti.
- Mac ha già una relazione. -
- Ah. - Rispose delusa. - Con la collega riccia, vero? - In fondo li aveva visti entrare insieme nella sala interrogatori e sembrava avessero un bel feeling.
- No. - La corresse Don. - Con un medico legale del laboratorio. Mi dispiace. -

Quando Flack bussò alla vetrata di Mac, vide il detective curvo sulla scrivania ad esaminare le prove del caso di Chantal, deciso più che mai a scagionarsi e a trovare il vero assassino della ragazza. Stella, seduta di fronte a lui, lo aiutava a ricapitolare tutto quello che avevano capito fino a quel momento.
- Don, entra. - Disse Taylor alzando di poco lo sguardo.
- Senti, Drew ha la cavigliera. Se è coinvolto ha sicuramente mandato qualcun altro. Però mi domando: ha organizzato tutto lui? E perché? - Chiese avvicinandosi.
Mac scosse la testa non avendo le risposte alle domande di Flack.
- L’unica cosa che posso fare è chiedere il mandato per perquisire casa sua. Se l’auto non è nei paraggi potrebbe essere dal tizio di nome Tony. -
Don annuì, ma nonostante lo scambio di informazioni fosse concluso rimase di fronte alla scrivania del detective.
- Che c’è? - Domandò Taylor.
- C’è che a quanto pare hai fatto colpo. Il detective Foster, o forse dovrei dire meglio Dana, mi ha chiesto cosa ti piace. Io le ho risposto che sentimentalmente sei già occupato, e lei mi ha chiesto se la fortunata fosse Stella. -
Solo in quel momento lei alzò la testa dalle prove.
- Possibile che tutti quelli che ci vedono pensano che stiamo insieme?! -
Mac rise sinceramente divertito, ma al contempo era preoccupato per quello che aveva detto Flack.
- Non ho tempo per queste cose. - Sospirò sapendo di non poter affrontare un triangolo del genere.
- Auguri. - Furono le ultime parole di Flack prima di uscire dall’ufficio.

L’orologio segnava le 9:15 PM e il detective era ancora seduto alla scrivania a cercare una risposta, tentando di districarsi in quel groviglio di indizi e prove sparsi su tutta la sua scrivania.
Sospirò all’ennesimo ragionamento che terminò in un vicolo cieco. Strinse il pollice e l’indice alla base del naso nella speranza di bloccare sul nascere il principio di mal di testa.
- Mac?! - Il detective alzò gli occhi in direzione della porta, non accorgendosi di avere visite, forse complice l’ora. Era Peyton.
- Ciao. Sei ancora qui? Credevo avessi finito da un po’. -
- Il mio amico aveva molte cose da dirmi. - Scherzò riprendendo le parole di lui riferite al cadavere. Poi sorrise. - E anche tu, credo. Sinclair ti ha riammesso. - Era l’unica spiegazione che giustificasse la sua presenza al laboratorio.
Taylor posò una fotografia sulla scrivania, insieme a tutte le altre, alzandosi poi dalla sedia.
- Già. Abbiamo avuto un’amichevole conversazione in cui ho alzato parecchio i toni. Hai già chiamato un taxi? - Chiese poi, sempre preoccupato per l’ossessione maniacale di Drew nei suoi confronti.
- No. - Ammise Peyton.
- Andiamo. Ne dividiamo uno. -

N
el frattempo Drew Bedford guardava con poca attenzione la televisione a basso volume, stando scompostamente seduto sul divano di casa. Ancora non riusciva a capire come avessero fatto a collegarlo all’omicidio della ragazza, eppure i media sembravano realmente accaniti contro Taylor. Dopotutto era sempre stato quello il suo piano, convergere tutti i sospetti verso il detective e rovinargli non solo la carriera, ma la vita.
Afferrò il vecchio Nokia che teneva sempre a portata di mano e chiamò Tony.
- Dimmi. - Rispose lui diretto avendo letto il nome.
- Ascolta, ripulite bene la macchina, non devono trovare neanche un capello! Un’ora fa sono venuti due della polizia a fare domande. Avete fatto come vi ho detto? -
- Certo! - Sbottò irritato l’altro, innervosito dalla poca fiducia che Drew stava dimostrando. - Infatti hanno sospettato dello sbirro. -
- Ora non più! -
- Guarda su internet! - Continuò Tony. - C’è un cazzo di blog di cronaca che ha postato la testimonianza di Taylor e di un tassista. -
Drew rimase in silenzio qualche secondo, poi sorrise avendo avuto improvvisamente un’idea.
- Dimmi il nome. - Si leccò le labbra. - Vediamo chi è questo simpaticone. - Chiuse la telefonata senza aggiungere altro, sperando che Tony fosse in grado di seguire le istruzioni che gli aveva dato senza grossi problemi.
Accese il portatile con rabbia e cercò il blog, trovando quello di Reed come primo risultato. Lesse con attenzione i due articoli che il ragazzo aveva pubblicato fino a quel momento e nonostante il suo enorme disprezzo verso Mac e il suo team, non fece a meno di pensare che fossero stati fottutamente bravi a ricostruire il puzzle.
Ma Drew non si diede per vinto. Pensò che parlare direttamente con l’autore di quegli articoli avrebbe dato un brivido in più a quell’audace ragazzo che con tanto coraggio si era schierato dalla parte di Taylor.
Cliccò quindi sull’indirizzo e-mail di Reed: “ho delle informazioni da darti, possiamo vederci?”.

Mac si assicurò che Peyton chiudesse bene il portone dell’appartamento prima di far ripartire il taxi, e quando il cellulare gli vibrò nella tasca della giacca pensò che fosse lei. Invece il nome sullo schermo era diverso: “Reed”.
“Ciao, Mac. Scusa l’ora, volevo informarti che una persona mi ha scritto, vuole darmi informazioni. Ci vedremo domani sera. Appena finirò di parlargli ti aggiornerò. Buona notte”.
Leggendo l’sms, al detective sembrò di vivere un déjà vu. Era successa la stessa cosa con il tassista killer e sapere che un tizio misterioso voleva parlare con Reed del caso non lo faceva stare affatto tranquillo.
“Non ci andare, non sai chi potresti incontrare”.
Il ragazzo rispose poco dopo. “Probabilmente un altro testimone che ti ha visto e che potrà fornirmi qualche altro particolare. Stai tranquillo”.
Taylor non riuscì a trattenersi dallo scuotere la testa. Si sentiva responsabile come se fosse suo padre e sentirsi dire di stare tranquillo equivaleva a gettare benzina sul fuoco.
“Ti ricordi com’è andata con il tassista? Sono tornato sul caso, ti avviserò io appena avrò altro”. Digitò rapidamente senza rileggere da quanta fretta aveva nel farlo desistere.
“Avanti, Mac, più gente può darci particolari e prima riusciremo a ricostruire come sono andate le cose”.
Mac sbuffò. “Hai già abbastanza aggiornamenti da parte di Stella, cosa credi che possa dirti in più uno sconosciuto che non lavora al caso?”.
Reed sbuffò. Mac aveva ragione, poteva essere pericoloso, ma una domanda continuava a solleticare la curiosità del ragazzo: e se quel tizio fosse stato la chiave per risolvere il caso?
Giocherellò con la penna fissando l’ultimo messaggio ricevuto dal detective. Si fidava di lui, e sapeva anche che quello che gli diceva era per il suo bene e non per sabotare la sua carriera giornalistica, ma lui voleva rischiare. Voleva veramente avere quella marcia in più che magari poteva rivelarsi utile per scagionarlo.
Si alzò dal letto di scatto, raggiungendo la scrivania con due falcate. Cliccò sulla pagina della mail ancora aperta e rispose al tizio misterioso: “Salve. Se ha qualcosa di urgente può anche scrivermelo qui”.
La risposta arrivò dopo qualche secondo, come se l’informatore stesse aggiornando di continuo la posta elettronica in attesa di continuare la conversazione.
“Preferirei a voce. La mail potrebbe essere pericolosa per lo scambio di certe informazioni”.
Reed sbuffò ancora. Per quanto volesse dare ascolto a Mac sapeva che alla fine, il giorno dopo, avrebbe ceduto alla curiosità.

Il giorno seguente, durante il pomeriggio, la squadra della scientifica di New York iniziò la perquisizione dell’abitazione di Drew Bedford. Taylor aveva ottenuto il mandato senza troppe pressioni e si presentò a casa del ragazzo con tutti, Stella compresa. Voleva che Andy fosse sotto pressione psicologica, che capisse che c’era lui in persona dietro le analisi del caso e che senza se e senza ma lo avrebbe rispedito in carcere.
Mentre controllavano ogni centimetro dell’appartamento, Mac si assicurò di non stare a più di due metri da Stella, ricordandosi ancora di come Andy si fosse intromesso nella sua vita con astuzia.
- Capo? - Danny parlò per primo. - Manca l’attizzatoio. - Disse illuminando il camino con una torcia. Lui si avvicinò osservando l’intera zona. Sembrava tutto nella norma, ma Messer aveva ragione.
- Non sembra aver acceso il fuoco di recente, però. È tutto pulito. -
Vedendoli riuniti a ragionare tutti insieme, Flack li raggiunse.
- Non avreste dovuto trovare le sue impronte sopra, allora? - Chiese Don arrivando da dietro.
Stella sospirò. - Considera che è stato immerso nell’acqua per ore, e per cancellare delle impronte basta pulirlo con un fazzoletto. -
Mac annuì. - Esatto, magari l’ha semplicemente pulito prima di prestarlo agli assassini. Se l’acqua cancella le impronte, le cancella tutte. Se mancano solo le sue significa che sono state tolte prima. -
Drew, seduto comodamente sul divano, li fissava con un’espressione tranquilla in viso. Il sorriso di chi sapeva di avere la vittoria in tasca, però, divenne presto un ghigno sadico quando i suoi occhi si fissarono sulla schiena del detective di Chicago.
- Ma che maleducato che sono, detective Taylor. Sapevo che ti eri sposato, ma non ti ho mai fatto gli auguri. Sai, me l’ha detto mio fratello... Ma è anche vero che non abbiamo mai avuto modo di scambiare due parole. -
Danny si girò di scatto verso il ragazzo, scambiandosi un’occhiata con Flack. Mac, invece, rimase in silenzio. Incassò senza rispondere, continuando a fissare il camino come se potesse dargli le risposte che cercava.
- Fai silenzio. - Sbottò Flack trovando di pessimo gusto il giochino del ragazzo.
- Perché? È cortesia fare gli auguri a un amico, non è così, Mac? Come sta Claire? L’ultima volta che l’ho vista era così sorridente e così entusiasta all’idea di tornare a New York, era originaria di qui lei, vero? Beh, aveva ragione. Devo dire che è una città che lascia letteralmente senza fiato. -
Stella, vedendolo immobile, gli prese un avambraccio. - Mac, ignoralo… - Gli sussurrò.
Era impossibile ignorare, lo sapevano tutti. Sapevano tutti quanto dolore provasse Mac nel ricordarla, e in quel momento non avrebbero saputo cosa dirgli.
- Adesso basta. Stiamo lavorando se non te ne fossi accorto! - Danny mosse due passi in direzione del divano. - Vedi di chiudere quella bocca se non vuoi terminare la tua libertà vigilata tra cinque minuti. -
Drew sorrise divertito. Sapeva bene che le minacce di Messer erano solamente parole al vento, non c’era nulla di illegale in quello che stava facendo. Mac, con lo sguardo fisso a terra, continuava a stare in silenzio.
- Sai… - Continuò Bedford. - Mi sono sempre chiesto cosa avesse trovato in te. Lei è veramente bella. -
- Qui manca un attizzatoio. - Intervenne Stella per interrompere quella tortura.
Drew spostò immediatamente lo sguardo su di lei, fissando gli occhi nei suoi.
- Può darsi, la casa non è mia. Sono in affitto dato che sono in libertà vigilata. -
- E non hai mai acceso il camino da quando sei qui? -
Lui sorrise. - No, dolcezza. - Tornò quindi a fissare la schiena di Taylor. - Quindi, Mac? Quando ci vediamo tutti e tre per un caffè? Offro io. -
Il detective uscì da quello stato di trance apparente, rimettendo nella tasca interna della giacca la torcia. Si girò piano verso di lui, ancora comodamente seduto sul divano, non riuscendo a capire se provasse più rabbia o disgusto.
- È ammirevole, sai? Parlo del fatto che tu stia provando a usare questi trucchetti psicologici per attaccarmi. Non funziona, Andy. Non funziona perché ho già provato tutto il dolore che potessi provare. E sentirti nominare Claire come se nulla fosse non riapre nessuna ferita, e sai perché? Perché è già aperta e non guarirà mai. E tuo fratello non tornerà in vita facendo così. Tu tornerai lo stesso in galera e io continuerò con il mio lavoro. Tutto resterà invariato, quello che stai facendo non cambierà proprio niente. - Il tono rassegnato con cui parlava lasciò tutti di pietra, anche Andy.
Stella lo guardò con enorme dispiacere, mentre Flack avrebbe voluto abbracciarlo e dirgli che poteva contare su di lui.
Drew lo fissò con odio, ma riuscì a ricomporsi subito. - L’unica cosa che mi fa piacere sapere è che hai una ferita che ti tormenterà per sempre. Ma non basta. Non basta per quello che hai fatto, e io non finirò da nessuna parte. -
Non trovando spiragli per un dialogo, e non volendo in ogni caso avere una conversazione con lui, Mac gli diede di nuovo le spalle pensando che tornare a perquisire l’appartamento fosse l’unica cosa da fare.
- Capo… - Messer gli si avvicinò.
- È tutto a posto, Danny. Continuiamo a lavorare. - Mac stroncò lì il discorso. Voleva solamente non pensare a tutto quello che aveva detto Andy e concentrarsi sulle prove e sul caso. Si disse più volte in mente che Chantal meritava giustizia e che in quel momento fosse la priorità, ma il suo cuore era da tutt’altra parte.
Quando finirono di esaminare la casa di Drew, Stella e gli altri si resero conto di non aver trovato nulla di concreto che collegasse il ragazzo all’omicidio di Chantal. Andy li guardò uscire a mani vuote con un’espressione di autentico piacere, e quando Mac si mise alla guida del suv del dipartimento sbuffò per scaricare lo stress. 
Stella, seduta accanto a lui, non ebbe il coraggio di dire nulla. Ripensava ancora alle cattiverie che Drew aveva detto a Mac e sapeva che lui era ancora lì con la testa.
- Forse ho un’idea. - Inaspettatamente, Mac parlò di altro, sembrando all’apparenza impassibile e prendendo una curva a gomito in terza. - Non ci resta che geolocalizzare l’automobile. Ogni veicolo ha un sistema di rintracciamento. -
Lei annuì mostrando un sorriso forzato. - Sì, se siamo fortunati ci porterà all’auto prima che riescano a pulire le prove. -

 

To be continued...

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Capitolo 22
*** Capitolo XXII ***


Capitolo XXII

Reed arrivò puntuale all’indirizzo che aveva ricevuto per e-mail. Si guardò in giro, la casa dell’informatore era nel Bronx, più precisamente la 310 Newman Avenue. La strada era deserta e gli alberi spogli a causa dell’inverno contribuivano a dare un aspetto ancora più spettrale al posto in cui si trovava. Solo le auto posteggiate ai lati della strada facevano intuire che quelle case fossero abitate, perché per il resto sembrava un quartiere fantasma.
Non una luce alle finestre, non una voce. Il tutto era avvolto da un silenzio innaturale. Il ragazzo prese coraggio e oltrepassò il cancello della casa, e mentre percorreva il vialetto privato che l’avrebbe condotto alla porta, accese prontamente il registratore portatile che teneva nella tasca dei pantaloni.
Bussò due volte, la porta non tardò ad aprirsi.
- Ciao, ti stavo aspettando. - Lo accolse cordialmente Drew. Lui entrò guardandosi rapidamente intorno, la casa era modesta, ma non sembrava ci fosse nulla di sospetto. Ah, questo era il risultato delle mille paranoie che gli aveva messo in testa Mac.
- Allora? Sei un aspirante giornalista? - Iniziò Andy. - Prego, siediti. - Indicò il divano. Il ragazzo si accomodò, guardandolo poi con un lieve sorriso.
- Sì, ho un blog di cronaca in cui cerco di riportare la verità. Cosa volevi dirmi? -
- La verità, eh? - Drew rimase in piedi, passeggiando lentamente nel salotto. - Ho letto i primi due articoli sul caso del detective. Scrivi molto bene, devo farti i miei complimenti. Come mai ti sei preso tanto a cuore questo caso? -
Reed sorrise imbarazzato per quella domanda. In cuor suo sapeva bene il perché, ma non l’aveva mai confessato a nessuno e dirlo per la prima volta ad alta voce gli sembrava stupido, anche perché non sapeva come Mac avrebbe potuto interpretare un pensiero del genere.
- Ecco… Diciamo che in un certo senso il detective Taylor è mio padre. Cioè, non lo è. Quasi. -
Andy rise, confuso. - In che senso? O lo è o non lo è. -
- Non lo è, sono il figlio di sua moglie. Ex moglie. - Si corresse alla fine. Dopotutto sua madre era morta.
Gli occhi di Drew iniziarono a brillare di colpo. Iniziò a credere che forse Dio esisteva, perché quello non poteva essere solamente un colpo di fortuna. Aveva davanti il figlio di Claire, l’unica cosa al mondo che potesse collegare Mac all’amore della sua vita.
- Ma non mi dire… Claire, vero? -
Reed sgranò gli occhi non aspettandosi che quel ragazzo potesse conoscerla.
- … Conoscevi mia madre? - Riuscì solo a domandare.
- Certo. - Sorrise. - E anche Mac Taylor. -
Nella sua ingenuità, Reed pensò che quella fosse una cosa positiva. Capì di sbagliarsi nel momento in cui Drew mise una mano dietro la schiena, estraendo dal retro dei pantaloni una pistola di piccolo calibro.
- Adesso te la racconto io la verità sul detective Taylor. Non è altro che un codardo, un figlio di puttana che ha lasciato morire un amico! - Maneggiò la pistola con poca attenzione, rischiando di far partire un colpo accidentale. Reed sentì il sangue gelarsi, pensando che avrebbe dovuto dare ascolto a Mac e non credere alle parole di uno sconosciuto solo per avere uno scoop in esclusiva.
- Questo è Mac Taylor. Poteva salvare una vita quella volta. Poteva premere quel dannato grilletto, ma non l’ha fatto! E adesso gira con la sua bella pistola alla cintura, sfoggiando quell’inutile distintivo! Adesso non ha paura di usare la pistola, eh? Non è altro che un codardo, non merita la pietà di nessuno. -
- Io… Non so di che parli! - Provò a farlo ragionare il ragazzo, ma ad Andy non interessava un parere esterno, troppo concentrato a fare il suo monologo.
- Non c’è niente da sapere! Doveva solo sparare per salvare un amico e non l’ha fatto! Questo non è da eroi! Forse… Forse invecchiando ha preso un po’ più di coraggio quel bastardo. -
Reed tremava nonostante cercasse di stare immobile sul divano.
- Se non ha sparato forse non poteva farlo… -
- Non ha voluto! - Sottolineò la differenza.
- … Perché non provate a chiarire? -
Andy lo raggiunse con tre falcate, puntandogli la pistola alla testa. Era stanco di sentire tutte quelle inutili e patetiche giustificazioni per il poliziotto.
- Chiarire? - Rise nervosamente. - Non c’è nessun malinteso da chiarire. L’unica cosa che mi rende felice è vederlo soffrire. Già il fatto che soffra come un cane per la morte di tua madre mi dà gioia! Ma questo! Ah, questo è proprio un colpo di fortuna, tu sei addirittura il figlio di Claire! Chissà come si sentirà in colpa quando saprà che anche il figlio della sua adorata moglie è morto. Se sarò fortunato, i sensi di colpa che avrà saranno così tanti che si ammazzerà da solo. -
Reed provò a parlare, ma il labbro inferiore gli tremò così tanto da impedirgli di farlo. Solo deglutendo riuscì a recuperare un minimo di lucidità.
- … Toglimi una curiosità. Ci sei tu dietro tutto questo, vero?... Era tutto studiato per far sospettare di Mac. -
Drew sogghignò. - Sì. Sì, sono stato io. - Allargò le braccia stringendo la pistola nella mano destra. - E sai qual è la cosa divertente? Che io da solo ho messo in crisi lui e la sua squadra di geni. - Sospirò come se si fosse tolto un peso dal petto. Si avvicinò al ragazzo, appoggiando poi entrambe le mani sul bordo dello schienale del divano, ai lati del viso di Reed. Sorrise mostrando i denti, divertito nel vedere gli occhi arrossati e pieni di lacrime del ragazzo terrorizzato sul suo divano.
- Non vedo l’ora di vedere la sua faccia quando troverà il tuo corpo, anche se purtroppo non credo che soffrirà più per te che per Claire. - Sbuffò quasi seccato, come se stesse parlando di un gioco. - Alla fine tu per lui non sei un cazzo di niente. Però è comico, l’unico legame che gli è rimasto con lei sta per sparire. -

Danny e Sheldon, nel frattempo, erano nel garage di un certo Tony Costello, ovvero nel posto in cui avevano geolocalizzato la Nissan. Avevano preferito tutti che andasse Hawkes con lui dato che Lindsay era alla fine della gravidanza e intanto Mac, stancamente seduto alla sua scrivania, prese un sorso di caffè in un gesto ormai diventato automatico.
La chiacchierata con Andy si era rivelata più critica del previsto, Taylor sapeva di aver accusato ogni parola, ogni sillaba pronunciata dal ragazzo, anche se sul momento aveva fatto finta di niente. Era stato a tanto così dal mettergli le mani addosso e questa cosa lo spaventava. Sapeva di non essere mai stato un tipo violento, ma quel giorno aveva avuto la prova che toccare l’argomento sbagliato avrebbe potuto scatenare reazioni che mai avrebbe pensato di avere.
Ringraziò silenziosamente la sua razionalità e il suo autocontrollo. Sapeva di poter fare affidamento sempre su di loro in quei casi.
- Mac! - La voce di Stella era in lontananza nel corridoio, ma gli arrivò dritta alle orecchie. Aprì l’anta di vetro correndo guardandolo con occhi preoccupati. - Sto provando a chiamare Reed da un’ora, ma non risponde! -
Taylor aggrottò le sopracciglia, afferrando poi il telefono per provare a telefonargli lui stesso.
Spento.
- Perché mai dovrebbe aver staccato il telefono? - Si chiese guardandola.
Lei scrollò le spalle. - Non lo so. Forse gli si è scaricato, ma mi ha detto che aspettava delle informazioni, mi sembra strano… -
In quel momento, nella testa di Mac, accadde di nuovo quello che Stella chiamava flusso di coscienza. Automaticamente collegò tutti i punti trovando la risposta.
Con orrore lui guardò di nuovo Bonasera, arrivando all’ultima conclusione a cui avrebbe voluto.
- È da Drew. - Scattò in piedi. - Drew, Andy, corrisponde al nome che Evelyn ha dato a te e Flack. Il tizio della discoteca. -
- Ma ha la cavigliera, non può essere andato in quel locale! - Gli ricordò lei.
Preso dal dubbio, Mac si abbassò sulla propria scrivania e dopo aver aperto il programma di localizzazione, inserì il numero di telefono di Reed. Il computer ci mise un minuto circa prima di dare al detective l’ultimo punto in cui le celle si erano agganciate al cellulare del ragazzo.
- L’ultima posizione è nel Bronx. - Disse girandosi verso di lei.

Mac guidò in fretta verso la casa di Drew, con le sirene accese fino a tre isolati prima della via in cui pensava fosse intrappolato Reed. Posteggiò al volo lasciando il suv leggermente storto, scendendo in fretta per raggiungere la porta dell’abitazione il prima possibile.
- Polizia di New York! Apri! - Bussò due volte, ma non ottenne risposta. Stella lo affiancò poco dopo, deglutendo per calmarsi. Taylor la guardò serio, tenendo la pistola con la mano destra accanto al viso, puntata verso l’alto.
- Al mio tre. Pronta? - Lei annuì con convinzione mentre lui si metteva davanti alla porta a un metro di distanza. - Uno. Due. Tre. - Con un calcio prese in pieno la serratura, sfondandola senza troppi problemi.
- Andy! Mani in alto! Polizia! - Fu il primo ad entrare e puntare il ragazzo, comodamente seduto sul divano.
- Ciao, Mac! - Lo salutò tranquillamente Andy. - Perché hai sfondato la porta? -
Il detective continuava a tenerlo puntato trattenendo a stento la rabbia. - Dov’è Reed? -
- Chi? - Chiese fingendo di non sapere.
- Stella, controlla le stanze. - Lei non fece in tempo ad aprire la prima porta che il ragazzo si alzò di colpo, mettendosi davanti.
- Ah-ah! Avete già controllato casa mia in lungo e in largo! -
- Togliti, Andy! - Mac alzò il tono della voce, seguendolo con la pistola mentre si muoveva per la stanza. Lui si girò in direzione del detective senza nascondere un’espressione disgustata.
- Quanto sei coraggioso adesso! Anni fa non hai reagito così per mio fratello! -
- Hai ragione. - Annuì il detective. - Adesso se vuoi ti dimostro che sparo. -
Si guardarono per qualche secondo, ma che ai due sembrò un tempo infinito. Taylor non voleva sparargli, non voleva mai sparare, in realtà. Lo faceva solamente quando era costretto, e in quel momento non lo era. Almeno finché Drew non prese la pistola con cui aveva minacciato Reed, nascosta preventivamente dietro la schiena, bloccata dai jeans.
Gliela puntò contro con il braccio che tremava d’ira.
- Posala! Non sfidare la mia pazienza! - Gli intimò Taylor. Stella rimase bloccata con la pistola a mezz’aria, puntata alle gambe del ragazzo. Avrebbe voluto alzare la mira di colpo e sparare, ma esitò. Non sapeva se prendere un’iniziativa del genere fosse la scelta giusta perché Mac stava prendendo tempo.
- Il ragazzo è morto! - Disse di punto in bianco sorridendo. Voleva godersi l’espressione del detective nell’apprendere che l’ultima testimonianza del passaggio di Clair su quel pianeta fosse sparita.
Anche Stella si girò verso di lui, pallida in viso.
- No. - Rispose Mac tenendo le braccia tese e la pistola ben puntata sulla sua testa. - No, non l’hai fatto sul serio. - Solamente Bonasera notò una punta di terrore nella sua voce.
- Oh sì invece. -
- Getta la pistola. Adesso. - Incalzò il detective. Non voleva sparare, avrebbe provato fino all’ultimo secondo a trovare una via alternativa a quello, ma Drew non lo stava aiutando.
Un tonfo improvviso destò tutti e tre. Sembrava come se qualcuno avesse battuto un colpo sordo sul legno.
- Stella! Vai! - Disse solamente Mac. Lei uscì dal raggio visivo di Andy sicura che se lui l’avesse seguita con la pistola, perdendo così la mira su Taylor, lui gli avrebbe sparato per difenderla.
Drew, infatti, la ignorò, preferendo tenere la pistola puntata sul detective. Dopo aver controllato tutte le stanze aprì l’armadio della camera del ragazzo, e Reed cadde a terra.
Era legato e imbavagliato, gli occhi lucidi. Aveva pianto da poco e Stella lo intuì senza grosse difficoltà.
- Stai bene? - Gli chiese togliendogli il bavaglio. Reed prese fiato come se fosse in apnea da ore, ancora terrorizzato per la pistola che aveva avuto sulla tempia.
- … Sì. - Rispose con un filo di voce.
Andy comparve sulla soglia, sulla faccia aveva il solito ghigno divertito per quell’assurda situazione. Ci mise meno di un secondo per puntare la pistola contro entrambi.
- Gettala! - La voce di Mac si fece più vicina e Stella lo vide comparire alle spalle di Drew. La glock del poliziotto si appoggiò alla nuca del ragazzo, facendogli capire che non scherzava, che non erano più minacce al vento.
Sentendo il freddo del metallo a contatto con la pelle, Andy deglutì. Serrando con rabbia i denti si trovò costretto ad allentare la presa sulla pistola, lasciandola lentamente cadere a terra tra lui e Reed. Appena toccò terra Stella si allungò per prenderla, mentre Mac afferrava i polsi di Drew per mettergli le manette.
- … L’avrei ucciso veramente se non fossi arrivato in tempo. - Sibilò con odio Andy. - So che è il figlio di Claire! Me l’ha detto lui, che stupido. -
- Stai zitto. - Rispose Taylor, per poi spingerlo verso l’uscita.
Dopo essere stato slegato, Reed abbracciò Stella istintivamente. Lei ricambiò sinceramente preoccupata, quando vide il ragazzo prendere dalla tasca dei jeans un registratore e premere il tasto di stop.
Bonasera sorrise incredula. - Hai registrato tutto? -
- Certo. - Ricambiò il sorriso.
- Bravissimo! Questa è una confessione. - Lo aiutò ad alzarsi, assicurandosi poi che non fosse ferito. - Andiamo, ti riportiamo a casa. -
Quando uscirono di casa fecero appena in tempo a vedere Mac che legava la cintura a Drew. Reed lo raggiunse tenendo lo sguardo basso sicuro di ricevere l’ennesimo rimprovero da parte di Taylor, ma subito dopo aver sentito la portiera chiudersi, le braccia dell’uomo lo strinsero forte.
Il ragazzo chiuse gli occhi ricambiando l’abbraccio.
- Stai bene? - La voce di Mac, calma e rassicurante, gli arrivò all’orecchio senza tracce di rimprovero, ma solo preoccupazione.
- Sì. Grazie… - Il detective non rispose, limitandosi a dargli una pacca leggermente più forte sulla schiena.
- Andiamo. Lo porto in centrale e poi ti accompagno a casa. -

Quando Mac frenò davanti al dipartimento Stella tirò giù dall’auto Drew con poco garbo, un po’ anche per vendicarsi di quello che le aveva fatto mesi prima.
- Danny è già qua con Tony. - Disse a Taylor che aveva il finestrino abbassato. - Credo lo stia già interrogando. -
Lui annuì. - Dammi mezz’ora e sono qui, lui è tutto tuo. - Indicò Andy con un cenno del capo. Si sorrisero, e mentre Bonasera scortò dentro Drew, il detective fece retromarcia per rimettersi in corsia e portare Reed a casa.
Mac guidava piano, lasciandosi quasi portare dal traffico di New York. Il sole, ormai basso tra i grattacieli della metropoli, era fastidiosamente ad altezza occhi. Tutto intorno a lui aveva un’affascinante e calda sfumatura arancione e, mentre guardava la strada davanti a sé attraverso il vetro, l’uomo percepì una strana sensazione di pace. Forse era la consapevolezza di aver risolto tutto, di essersi ripulito ufficialmente dalle accuse, di aver salvato Reed. Non lo sapeva. Sentiva solamente una piacevole sensazione di tranquillità in tutto il corpo, mentre gestiva il volante con calma.
- È vero quello che ha detto quel tizio? Che hai lasciato morire suo fratello? - La voce di Reed lo riportò alla realtà nel momento in cui fu costretto a fermarsi a un semaforo. Mac alzò lo sguardo sullo specchietto retrovisore, incontrando gli occhi scuri del ragazzo.
- Non è andata proprio così, ma è quello che Andy si ripete da una vita. - Rispose lui, ripartendo poco dopo quando scattò il verde.
- E com’è andata? -
Taylor alzò di poco il viso nel tentativo di riparare gli occhi chiari dal sole, ma fu inutile.
- Avevo 14 anni, e io non ho avuto il coraggio di sparare a un tizio che stava pestando a morte un mio amico, il fratello di Andy e Jimmy. Anche se avessi premuto il grilletto non sarebbe cambiato niente, quell’uomo gli aveva fracassato il cranio a pugni. -
Reed annuì, frugandosi in tasca e porgendogli il registratore portatile.
- Cos’è? - Domandò.
- Un registratore. C’è tutta la conversazione e la confessione. - Spiegò lui. Al semaforo successivo il detective prese il registratore guardando Reed riconoscente.
- … Ti avevo detto niente guai o sbaglio? - Disse ancora, fissandolo di nuovo dallo specchietto retrovisore.
Il ragazzo aprì la bocca per rispondere, richiudendola subito dopo con aria colpevole.
- A mia discolpa posso dire che non potevo di certo immaginare di finire proprio in casa del colpevole. - 
- Ma io ti avevo detto di non andare. Eri in contatto diretto con Stella, cosa vuoi di più? - Lo stava sgridando esattamente come un padre.
- Volevo solo prendere informazioni e poi darle a lei. Pensavo che sarebbe stato d’aiuto sia per l’indagine sia per l’articolo. -
Mac sospirò prendendo l’ennesima curva. - Sei stato fortunato che mi abbiano restituito la pistola ieri sera. -
Reed abbassò lo sguardo. - Mi dispiace, Mac. Ma se questo è servito ad aiutarti lo rifarei altre cento volte. - Il detective lo guardò ancora dallo specchietto, sentendo l’istinto di stringerlo forte.
Una volta arrivato davanti alla casa del ragazzo, scesero entrambi per scambiarsi un ultimo abbraccio.

- Tony Costello ha confessato. Ha detto che su istigazione di Andy, quella sera lui e un altro ragazzo, omonimo di Drew, sono andati al Colorado, avvicinando poi Chantal e le sue amiche. Hanno approcciato con loro e intorno alle 4:30 AM hanno lasciato il locale. Tony ha poi invitato Chantal a casa sua, dove le ha offerto un caffè con il GHB, mentre una delle altre due ragazze è andata con il secondo ragazzo, amico di Tony. Chantal ha perso i sensi, quindi lui l’ha presa in braccio caricandola nel suv. Voleva portarla da Andy, l’altro ragazzo, per stuprarla a turno e poi ammazzarla, lasciandola nel canale… Ed è qui che entri in gioco tu. Sappiamo che hai fermato un taxi e li hai inseguiti fino al canale di scolo, dove hai trovato la Nissan. Sei sceso e sei corso fino al canale, ma hai trovato solo Tony che stava per abusare della ragazza. Gli hai urlato: “Fermo! Polizia!”, avete avuto una colluttazione in cui hai anche avuto la meglio, ma Andy ti ha colpito da dietro con l’attizzatoio. Hai perso i sensi e sei caduto in acqua. Poi hanno ucciso la ragazza, posizionandola su di te in modo da coprirti col suo sangue. Lei è stata avvolta nel lenzuolo, tu sei stato caricato in macchina e lasciato a Central Park. -
Mac ascoltò in silenzio le parole di Stella, rabbrividendo per quel racconto atroce e privo di umanità. Si sentì in colpa per non essere riuscito a fare abbastanza, scostando poi lo sguardo verso sinistra, in direzione della stanza degli interrogatori.
- Dove sono quei due? - Chiese solo.
- Nelle celle. Stanno aspettando che arrivino gli addetti al trasporto per il carcere. -
Taylor non aggiunse altro, superando Stella per poi fermarsi davanti alla cella di Drew, sbattendo una mano sulle sbarre di ferro.
- Dimmi una cosa! - Provò a trattenersi, ma il tono della voce lasciò trasparire solamente rabbia. - Tutto questo era pensato per me? Per vendicarti? O hai solamente colto la palla al balzo perché li ho visti? … Chantal è morta perché volevi incastrare me o perché volevate semplicemente stuprarla? -
Drew alzò gli occhi dal pavimento, sogghignando nel percepire i sensi di colpa di Mac.
- Che differenza fa? Ti senti responsabile della morte di quella ragazzina? Non può che farmi piacere! -
- Voglio solo capire cos’hai in testa! - Sbottò il detective.
- … Diciamo che sei apparso nel momento giusto. - Sogghignò.
Mac scosse la testa. - … Volevi stuprarla a prescindere. Hai solamente pensato di cogliere l’occasione. - Lo guardò schifato non riuscendo a fare a meno di pensare alla ragazza che aveva avuto la sfortuna di incontrare Tony al locale. - Non meriti altro se non marcire in cella. E mi assicurerò io stesso che questo accada stavolta. -
Andy si alzò dalla panca di legno della cella, avanzando a passo lento verso le sbarre. Si fermò a pochi centimetri da Taylor, riuscendo a sentire il suo respiro.
- Dì un po’, quanto tempo è passato dalla morte di Claire? Sette anni? Otto? Hai una nuova donna? -
- Non nominarla. - Sibilò Mac. - Il suo nome nella tua bocca è un insulto all’umanità. -
- Chi tace acconsente. - Sorrise Andy. - Spero che ti accada di nuovo. -
- Vuoi una risposta? No, non ce l’ho. Buon divertimento in cella. -

 

To be continued...

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Capitolo 23
*** Capitolo XXIII ***


Capitolo XXIII

Quando Mac tornò nell’atrio dove aveva lasciato Stella, lei non c’era già più, probabilmente ritenendo che lui avesse bisogno di passare qualche minuto da solo con Andy. Ci pensò Dana ad accoglierlo con un sorriso, andandogli in contro passando in mezzo alle scrivanie a passo deciso.
- Caso risolto! È stato piacevole lavorare con voi. -
- Già. - Concordò lui. - Si è risolto tutto per il meglio. - Rispose per cortesia. Dopo quello che gli aveva riferito Flack non sapeva come comportarsi con lei.
- Ascolta Mac, mi stavo chiedendo se potessimo vederci, non so, per un caffè. - Non si sorprese, in cuor suo si aspettava, prima o poi, un tentativo di approccio. Fece per risponderle, ma il cellulare arrivò in suo soccorso. “Danny”.
- Scusami un attimo. Taylor. - Rispose.
- Capo, lo so che Tony ha confessato, ma volevo dirti comunque che nella Nissan abbiamo trovato tracce di sangue. Il DNA coincide col tuo, conferma che ti hanno caricato su quell’auto per scaricarti a Central Park. -
- Perfetto. Lascia tutto sulla mia scrivania, chiuderò il fascicolo appena torno. - Chiuse la chiamata, poi tornò a guardare la collega.
- Mi dispiace, Dana. Io ho già una persona e… -
- È solo un caffè. - Lo interruppe lei. - Non c’è niente di male. -
- Questo lo so, ma sappiamo entrambi il motivo che c’è dietro. -
Lei sorrise. - Non cercare il caso da risolvere dove non c’è, detective. Voglio solamente offrirti un caffè dato che abbiamo chiuso il caso. Tutto qui. Spero ti vada bene questo del distributore automatico. - Disse con aria scherzosa per farlo rilassare. Mac abbassò lo sguardo. Forse aveva ragione, forse era vero che cercava sempre problemi anche dove non c’erano, ma era più forte di lui.
- D’accordo. - Sospirò arrendendosi. - Ma non più di cinque minuti, mi stanno aspettando in laboratorio. -
Alla fine era sicuro di se stesso e del fatto che verso la collega non avesse nessun genere di interesse. Non ci vide nulla di male, in fin dei conti quante volte era uscito a bere con Stella? Eppure con lei aveva un rapporto molto più intimo e personale rispetto al detective Foster, ma non era mai successo nulla anche se spesso li avevano erroneamente scambiati per una coppia.
Decisero poi di salire al piano dei laboratori dove il servizio ristoro era decisamente più di qualità, con una stanza equipaggiata di ogni comfort. Si versarono a turno il caffè già presente nella brocca, mantenuto caldo per chi avesse bisogno di staccare la spina per qualche minuto. Mac aveva fretta di tornare nel suo ufficio, avendo poco interesse in quella pausa caffè forzata a cui aveva ceduto per educazione e gentilezza.
- Allora? - Iniziò lei guardandosi intorno. Non era mai stata a quel piano. - Quali sono i tuoi interessi? -
Taylor prese un sorso di caffè. Era la conversazione più noiosa che avesse mai avuto.
- Musica, cinema, teatro. -
Lei sorrise come se avesse sentito le cose più assurde. - Ma davvero? Anch’io! -
Il detective sfoggiò un sorriso di circostanza. - Già. Sono interessi piuttosto comuni. - La vide agitare con attenzione il bicchiere di caffè per raffreddarlo, probabilmente nella speranza di mandare via l’imbarazzo di quell’incontro privo di qualsiasi feeling.
- Potremmo andare a teatro qualche volta, che dici? - Tentò lei.
Mac prese fiato, alzando poi lo sguardo dal caffè e fissandolo nei suoi occhi nella speranza che capisse una volta per tutte.
- Dana, te l’ho detto, sono impegnato. Se devo andare a teatro o al cinema o da qualsiasi altra parte, ci vado con lei. -
Lei provò a sorridere divertita, ma l’occhio attento del detective interpretò bene l’espressione della collega, e il sorriso era più una manifestazione di delusione e stizza.
- Le piace il teatro? -
Mac annuì, bevendo poi un sorso. - Certo, ci siamo andati spesso. - Lei annuì accettando la cosa. Taylor era uno di quegli uomini d’altri tempi che credevano veramente nella persona che avevano accanto, dedicando tutto ciò che riuscivano a dare senza cedere alle tentazioni di altre avventure.
- Adesso devo andare. - Disse finendo il fondo del bicchiere. - Mi stanno aspettando per chiudere il caso. -
- Va bene. - Annuì ancora. - Grazie ancora per il caffè. - Si avvicinò a lui in quello che il detective interpretò come un abbraccio di congedo, ma quando capì le vere intenzioni fu tardi. Il cuore di Mac si fermò per un secondo quando si ritrovò le labbra di Dana sulle proprie, ma ebbe la prontezza di metterle una mano sulla spalla per allontanarla subito.
La guardò per qualche istante con la bocca leggermente aperta senza sapere cosa dire, il cervello letteralmente in standby.
- Ma che ti salta in testa? - Riuscì solamente a dire con il tono più stralunato di cui era capace.
- … Mi dispiace, hai ragione. - Furono le uniche parole che disse Dana, ma a cui Mac non riuscì a credere per neanche un secondo. Fece per risponderle, ma con la coda dell’occhio vide Peyton ferma nel corridoio con un foglio in mano e gli occhi puntati su di lui. La sua mano ancora sulla spalla della collega per tenerla ferma, lontana da lui.
Mac chiuse gli occhi in un moto di rassegnazione, realizzando in che situazione si fosse cacciato senza volere, e non ebbe esitazione nel superare Dana e uscire dalla stanza. Passò abilmente in mezzo ad un paio di dipendenti senza scontrarli fino a fermarsi di fronte a lei, che lo fissava inespressiva per nascondere la rabbia e la tristezza che l'avevano travolta.
- Peyton. Non è come sembra. - Si sentì stupido nel dire una frase fatta come quella, ma sul momento fu l’unica cosa che il suo cervello riuscì ad elaborare.
- Scusa se ti ho interrotto. Ero venuta a portarti il referto! - Gli mollò il foglio con poco garbo contro il petto, accartocciandolo leggermente, e senza aggiungere altro girò su se stessa per andarsene.
Mac prese il foglio con una mano per non farlo cadere, ma non lo guardò neanche, troppo preoccupato di chiarire quel malinteso. La seguì, afferrandole una mano.
- Fermati e ascoltami. -
Lei si girò fulminea. - Lasciami, Mac. - Gli occhi erano piantati in quelli del detective, gelidi, non credendo a una sola parola di scuse dell’uomo che aveva di fronte.
- Se hai visto tutto, avrai anche visto che è stata lei e che io l’ho subito allontanata. - Provò a parlare con la solita calma che lo distingueva. Per un attimo pensò avesse funzionato perché lei continuava a fissarlo con gli occhi lucidi, ma le sue speranze crollarono non appena Peyton si liberò dalla presa del detective, andando verso l’ascensore.
Ci entrò di corsa stufa di ascoltare, premendo poi il tasto per tornare in obitorio. Mac mise una mano tra le porte appena in tempo per farle riaprire e salire insieme a lei, e fu lui a schiacciare nuovamente il tasto per scendere. Neanche lo guardava, tenendo lo sguardo fisso sui piani scritti sui bottoni per tenere la mente occupata e non pensare a quello che aveva visto qualche minuto prima.
Fu costretta a guardarlo negli occhi solo quando Taylor la prese per le spalle con entrambe le mani, il foglio stretto ancora nella sinistra.
- Guardami. E ascoltami. Ha fatto tutto lei, io non potevo saperlo, e tu non devi pensare che io sia coinvolto in quello che hai visto. D’accordo? - Sospirò. - E poi in ufficio? Davanti a tutti? Andiamo, lo sanno tutti di noi due, se avessi voluto farlo di nascosto avrei scelto un altro posto, non credi? Di certo non davanti a Danny, Stella e tutti quelli che potevano avvisarti. -
Peyton lo ascoltò in silenzio ragionando sulle parole pronunciate da Mac. Aveva ragione, a pensarci a mente fredda aveva perfettamente ragione, ma sul momento si era lasciata guidare dall’istinto senza soffermarsi troppo sui fatti. Sapeva anche che lui non era quel genere di persona, soprattutto dopo tutto il dolore che aveva provato per Claire.
Lo abbracciò di colpo, nascondendo il viso contro la sua camicia e sentendo immediatamente le sue mani sulla schiena. Si sentì tremendamente stupida, fare quelle scenate non era per niente da lei. Così come dubitare di un uomo come Taylor, che sul posto di lavoro a stento si lasciava andare con lei, figuriamoci con un’estranea.
Approfittando che fossero soli nell’ascensore gli lasciò un bacio pieno di scuse sulle labbra prontamente ricambiato dal detective, che spostò una mano dalla sua schiena alla guancia. Quando l’ascensore diede il contraccolpo frenando al piano, furono rapidi a staccarsi poco prima dell’apertura delle porte.
- Allora? - Si schiarì la gola provando a darsi un tono. - Cos’è questo referto? - Chiese provando a leggere qualcosa nonostante fosse stropicciato.
Peyton lo guardò qualche secondo trattenendo un sorriso.
- Il referto autoptico di Chantal Trevis da inserire nel fascicolo del caso. - Spiegò. Si scambiarono un’ultima occhiata, poi lei fece due passi uscendo.
- A dopo. - Le disse Mac, ricevendo in cambio un sorriso. Le porte si richiusero e lui schiacciò nuovamente il tasto del piano del laboratorio con il cuore che aveva ripreso ad avere un battito normale.
Quando le porte metalliche si aprirono, Dana era lì davanti ad aspettarlo.
- … Era lei? - Tentò di assumere un’aria colpevole, fallendo miseramente agli occhi di Taylor, che si limitò a guardarla con lo sguardo più sdegnato che sapesse fare.
- Sì. Era lei. - La superò senza aggiungere altro, entrando poi nel proprio ufficio dove Danny, diligentemente, aveva appoggiato sulla scrivania i test del DNA.
Lei provò a seguirlo, ma l’occhiata che lui le riservò la fece desistere e tornare sui propri passi. Allontanandosi incrociò Stella, che ignara entrò nell’ufficio di Mac tranquillamente, come era solita fare.
- Credo di sapere cosa facesse nella tua stanza. - Pessimo momento per fare una battuta, ma la faccia del suo capo le fece intuire subito che il tempismo, quella volta, non era stato uno dei più fortunati. - O forse è andata anche oltre… - Disse capendo la gravità della situazione.
- Decisamente oltre. - La corresse Mac sistemando i fogli dentro al fascicolo del caso.
- Vieni a prendere un caffè con me? Così ti distrai. - Era una strategia che aveva sempre funzionato con lui. Mac sbuffò sonoramente posando tutte le prove dentro uno scatolone giallo.
- Se prendo un caffè adesso, probabilmente mi portate al pronto soccorso con i battiti a duecento. -
Stella rise divertita. - Forse hai ragione. Allora facciamo così, appena usciamo di qui ti porto al nostro locale. -
Il detective posò l’ennesimo foglio dentro la scatola. - Vuoi provare di nuovo con l’alcol? -
- Voglio solo farti rilassare un po’. - Rispose lei fingendosi piccata.
Lui annuì sorridendo, ma appoggiandosi stancamente alla scrivania con entrambe le mani. Non era proprio in vena.
Stella lo capì. - Facciamo un’altra sera, va bene? Sarebbe stato carino festeggiare la chiusura del caso, ma hai altro per la testa. -
Mac, ancora appoggiato al ripiano, scosse il capo.
- Hai ragione. Mi dispiace, Stella. Ho avuto dei giorni infernali. - Una mano gli si appoggiò sulla sua, costringendolo ad alzare lo sguardo.
- Lo so, stasera riposati. - Gli sorrise.
Lui annuì apprezzando la comprensione dell’amica. Non dissero altro, non serviva. Si conoscevano troppo bene da capirsi solamente guardandosi negli occhi.
Stella gli lasciò la mano e silenziosamente raggiunse la porta.
- Ah! Quasi dimenticavo. - Si fermò di colpo, girandosi verso Mac. - Flack vuole che tu gli offra una cena a base di pesce. - Rise.
Lui aggrottò le sopracciglia, non capendo. - E perché? -
- Per sdebitarti. -
Taylor non trattenne la sua solita espressione. - Gli offrirò del pesce. - Sorrise.
- Buonanotte, Mac. -
- Buonanotte, Stella. -

Quando uscì dall’edificio diede una rapida occhiata all’orologio che aveva al polso, pensando che a breve Peyton sarebbe dovuta uscire per la fine del turno. Sperava non avesse il suo stesso vizio di fare straordinari improvvisati, quindi si appoggiò al muro sul lato sinistro della porta, sapendo che lei avrebbe svoltato a destra.
Non tardò molto, Taylor aspettò non più di cinque minuti prima di vederla uscire avvolta nel cappotto, col passo deciso ma elegante. Si staccò dal muro lasciandosi trasportare dal flusso di gente sul marciapiede, fino a prenderle una mano da dietro. Peyton sussultò, voltandosi senza immaginare di trovare proprio lui nella folla.
- … Mac! -
- Ciao. - La affiancò. - Ti va se mangiamo qualcosa? So cucinare degli ottimi cheeseburger. - Lei non trattenne un sorriso ricordando perfettamente quella sera a casa sua. La prima, ad essere sinceri, che aveva dato ufficialmente il via alla loro relazione.
Sentì le guance infuocate come se fosse un’adolescente e scostò lo sguardo di lato, sulle persone intorno a loro, pensando che quella attenzione ai dettagli fosse una delle cose che più amava di lui.
- Va bene, detective. - Gli sorrise.

 

To be continued...

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Capitolo 24
*** Capitolo XXIV ***


Capitolo XXIV

Da quella sera passarono circa due settimane. Furono dei giorni tragici per tutti perché Jessica Angell, la fidanzata di Flack, morì durante una sparatoria. Mac tenne un discorso commovente di fronte a tutti gli agenti presenti una volta appresa la notizia, lui per primo sconvolto dalla perdita di una ragazza con cui spesso aveva collaborato sulle scene. Don, all’apparenza impassibile, si sentì morire. Rimase in piedi per inerzia, ma a tenerlo lucido era solamente la voglia di trovare il tizio che aveva sparato a Jessica e sfogare su di lui tutta la rabbia che provava in quel momento.
L’unico che potesse capire il suo dolore era Mac, ma Flack non cercò mai il suo conforto né lui riuscì a stargli vicino come avrebbe dovuto. Forse perché erano uomini, forse perché Taylor non lo aveva visto crollare, forse perché, semplicemente, il lavoro era troppo e non avevano mai avuto veramente cinque minuti per sedersi e parlarne. Di fatto, Flack aveva nascosto bene il suo dolore, come Mac d’altronde aveva fatto per Claire, e nessuno si preoccupò più di tanto. Don aveva avuto la stessa reazione del detective Taylor di fronte al lutto: si era buttato letteralmente nel lavoro. Era una tattica che funzionava per tenere la testa impegnata e non essere costretti e rivivere in loop quella scena all’infinito, per mettere in pausa quel costante dolore all’altezza del petto che spezzava il respiro.
Quella mattina Mac era seduto nel suo ufficio, Stella e gli altri erano già a lavoro su vecchi casi irrisolti, mentre lui sbrigava faccende burocratiche per Sinclair.
Due colpi sulla vetrata gli fecero alzare lo sguardo.
- Volevi vedermi? - Peyton comparve dalla porta, attendendo un suo cenno del capo prima di entrare e raggiungerlo, fermandosi davanti la scrivania. Con un gesto della mano Taylor le indicò una delle due sedie invitandola ad accomodarsi.
- Sì. - Disse soltanto, appoggiandosi poi allo schienale. La guardò serio in attesa di una qualsiasi reazione di lei, che non tardò ad arrivare.
- Non fare quella faccia! - Sorrise. - Mi fai preoccupare. -
- Perché? Hai combinato qualcosa? - Rispose prontamente Mac.
- Certo che no, stavo scherzando. - Continuò lei senza capire la gravità della situazione.
- Bene, perché io invece sono serio. - Il detective si staccò dallo schienale, posando poi le braccia sulla scrivania per sporgersi in avanti. - Così non va bene, Peyton. Ero stato chiaro da subito, la nostra vita privata non avrebbe mai interferito sul lavoro. Te lo ricordi, vero? - Gesticolò con la penna.
Il sorriso di Peyton si spense in un attimo. Non capiva a cosa si stesse riferendo perché sapeva di non aver fatto nulla e, soprattutto, non si aspettava di avere vantaggi sul lavoro solo perché stavano insieme.
- Ma di cosa stai parlando? -
Mac scosse la testa, fissandola sempre con occhi severi e irremovibili.
- Hai l’ultima possibilità per dirmelo tu. Se lo faccio io è peggio. - L’espressione di lei era indecifrabile. Continuava a pensare a cosa potesse riferirsi, ma più si sforzava e meno trovava una spiegazione al comportamento di Mac. Taylor si sforzò di rimanere ancora serio, ma guardandola così spaesata non riuscì a trattenere un sorriso divertito.
- Sto scherzando. - Tornò ad appoggiarsi allo schienale mentre Peyton sentiva il pavimento crollare sotto i piedi per lo spavento. - Ho una cosa per te. - Annunciò guardandola in viso.
Lei sentì il cuore accelerare, sorridendo improvvisamente sollevata. - Cosa? - Lo vide allungare il braccio destro verso il cassetto della scrivania, da cui estrasse una busta da lettere chiusa, ma non sigillata.
- Dovrebbe essere una specie di regalo di Natale, ma sono costretto a dartelo prima. - Gliela allungò sporgendosi sul ripiano e Peyton, commossa, la prese rigirandosela tra le mani. Aspettò qualche secondo prima di aprirla, sperava di capire cosa fosse, ma la busta era bianca e su nessuno dei due lati c’erano scritte che potessero darle qualche indizio. Notò che era leggera, quindi dentro doveva esserci un foglio, un biglietto o qualcosa del genere.
Vinta dalla curiosità la aprì, sbirciando non riuscendo a trattenere un sorriso. Quando vide il biglietto aereo per Londra sgranò gli occhi, alzando lo sguardo su di lui con un’espressione di gioia.
- Mac! Non dovevi!... -
Lui le sorrise con affetto. - Invece sì, è giusto che tu vada dalla tua famiglia durante le vacanze. -
- Perché non vieni con me? - Sapeva che probabilmente lui avrebbe rifiutato, ma tentò lo stesso.
Lui inspirò. - Non ho dei bei ricordi a Londra. - Ammise senza problemi Taylor, riferendosi alle chiamate notturne in hotel e al fatto che poi lei l’avesse lasciato. Era strano, ma ogni volta che pensava a quella città sentiva un mattone all’altezza dello stomaco.
Peyton annuì decidendo di non insistere. - E poi qualcuno dovrà pur restare qui a difendere New York. - Aggiunse Mac scherzando.
- Grazie. - Gli sorrise con amore apprezzando immensamente il gesto di lui.
- Prego. - Peyton si alzò stringendo la busta tra le mani, girando intorno alla scrivania e lasciandogli un bacio sulla guancia, all’angolo della bocca. Lui percepì il viso diventare improvvisamente bollente, ricambiandole il sorriso quando lei disse che sarebbe tornata in obitorio.
La guardò per tutto il tempo mentre aspettava l’ascensore, tornando poi a dedicarsi ai documenti quando la vide sparire oltre le porte metalliche.

Senza che se ne accorgesse passarono rapidamente un paio d’ore, tempo in cui, stranamente, nessuno chiamò per segnalare cadaveri o aggressioni. Quando Taylor rialzò gli occhi dai fogli per stirare il collo indolenzito, si trovò davanti Quinn.
- Ciao, Mac. - Lui rimase interdetto per qualche secondo, appoggiandosi poi allo schienale senza toglierle gli occhi di dosso.
- Quinn? Che ci fai qui? Vi manchiamo così tanto in New Jersey? - Scherzò girandosi una penna tra le mani.
Lei sorrise, avanzando con il suo solito andamento sensuale che sfoggiava solamente in sua presenza.
- Potrebbe essere. In realtà so che hai un nuovo medico legale. La Dottoressa Driscoll, se non erro. -
Il detective Taylor annuì. - Sì, è tornata da poco in quel ruolo. -
- Tornata? - Domandò non capendo.
- Lascia stare, è una lunga storia. - Agitò una mano come a dare poca importanza a quel dettaglio. - Devi esaminare anche lei, vero? -
- Esatto. - Confermò Quinn. - Non penso ci saranno grossi problemi se lavora come il resto del tuo team. -
- Rimarrai sicuramente soddisfatta, garantisco io. - Gli sfuggì un sorriso. - Scendi di cinque piani, la troverai lì. - Le indicò l’ascensore con la penna e lei, poco prima di uscire, gli riservò un’occhiata palese che Mac colse, ma che ignorò.
Quando Quinn arrivò al piano della sala autopsie faticò a trovare Peyton a causa del via vai di medici legali. Notò lei perché era l’unica china su un corpo, intenta ad osservare una ferita con le lente d’ingrandimento per poi annotare su un foglio ciò che aveva dedotto.
- Buongiorno. - Si annunciò. - Lei è la Dottoressa Driscoll? - Peyton alzò gli occhi sulla donna.
- Sì. -
- Molto piacere, il mio nome è Quinn Shelby, del dipartimento del New Jersey. Sono qui per esaminare il suo lavoro ed assegnarle un punteggio in base a come si atterrà alle procedure e, in generale, a come svolgerà il suo lavoro durante le indagini. Non si preoccupi, il detective Taylor è stato già informato su tutto. È un procedimento che lui e il suo team hanno già ampiamente superato, ma mi è stato riferito che lei è passata da poco in questo ruolo, quindi… -
Peyton ascoltò in silenzio, sorridendole quando finì di spiegare.
- Ma certo, nessun problema. -
- Perfetto, allora. Possiamo iniziare. -

Danny, nel frattempo, aveva perso la sua battaglia personale contro il sonno. Lucy, di appena due settimane, aveva sconvolto i suoi ritmi e quelli di Lindsay e Messer faticava sul serio a rimanere lucido e concentrato sul lavoro.
Quando la mano di Flack gli si posò pesantemente sulla spalla, Danny saltò sulla sedia.
- Capo! Non sto dormendo, stavo solo riposando gli occhi! -
- Ehi, ehi, rilassati bell’addormentato, non sono Mac. - Rise divertito Don. - Dormito poco? -
Messer si tolse gli occhiali, passandosi stancamente una mano sugli occhi.
- Sì, Lucy si sveglia ogni due ore, di questo passo finirò sul letto di Sheldon o Peyton già pronto per l'autopsia. -
- Ed ha appena due settimane! Sei ancora all’inizio, fattene una ragione. Ti faccio svegliare io. - Si sfregò le mani Flack. - Stavo raggiungendo Mac, è arrivata una segnalazione di un uomo che è tornato a casa ed ha trovato la moglie morta. - Spiegò molto brevemente capendo che il cervello dell’amico doveva ancora carburare.
Messer annuì mezzo addormentato. - Sì. Sì, ci sono, però guida tu. -
- Lo davo per scontato. -
Quando arrivarono sulla scena sia Don sia Danny rimasero a bocca aperta. La casa moderna con open space lasciava ben intuire il tenore di vita della vittima e del marito, lasciando un po’ di amaro in bocca in tutti tranne che in Mac, già abbassato accanto alla vittima per studiarne le cause della morte.
Messer lo raggiunse con il kit pronto a iniziare il suo lavoro, se non che qualche secondo dopo arrivarono anche Peyton e Quinn, che li raggiunsero dopo aver oltrepassato il nastro giallo. Taylor si limitò a guardarle trovando estremamente imbarazzante averle presenti contemporaneamente, ma confidò nella sua estrema professionalità sperando che l’avrebbe aiutato nell’evitare situazioni scomode.
Q
uando Peyton si abbassò di fronte a lui, dall’altro lato del cadavere, Mac non riuscì a fare a meno di guardarla mentre si sistemava i capelli dietro un orecchio.
- Ho già esaminato il corpo e mi sono fatto un’idea di quello che possa essere successo, ma aspetto il tuo parere. - Lei lo guardò accennando un sorriso complice. - Vediamo se sono stato bravo con la mia analisi. - Terminò lasciandole la parola.
Come di prassi Peyton controllò il battito e se le pupille rispondessero agli stimoli luminosi, e dato che erano assenti entrambi confermò il decesso della vittima. Esaminò rapidamente con gli occhi il corpo della donna, traendo la conclusione più ovvia a cui era arrivato anche il detective.
- Unico taglio alla gola che ha reciso la carotide, è morta dissanguata in poco tempo. - Prese il termometro e lo infilò nel fegato, leggendo poi il numero che apparve sullo schermo dopo qualche secondo. - Considerando la temperatura e il rigor, non devono essere trascorse più di un paio d’ore. -
Mac ascoltò in silenzio, poi intervenne. - Non ci sono armi da taglio sulla scena, ma ho trovato tracce direzionali da quella parte. - Indicò l’uscita. - Ovunque sia andato l’assassino o si è ferito o non ha pulito l’arma. -
Taylor prese poi una delle mani della donna, notando che lo smalto non era sbeccato e che non c’erano evidenti tracce sotto le unghie.
- Non sembra abbia lottato, forse conosceva chi l’ha aggredita. - Alzò lo sguardo sulle braccia. - Ecchimosi… Direi ante mortem. -
- È stata percossa, perché non ha provato a difendersi? - Chiese Peyton continuando a guardare con dispiacere la donna sdraiata accanto a lei.
Flack, che era stato in silenzio fino a quel momento per annotare ogni dettaglio sul taccuino, intervenne.
- Forse non era la prima volta che accadeva oppure non ne ha avuto la possibilità. -
Mac sospirò. - Se vieni aggredita da una persona che conosci non hai l’istinto immediato di difenderti. Forse hanno iniziato a parlare, lei era tranquilla, poi la discussione è degenerata e c’è stata l’aggressione. -
Quinn, nel frattempo, segnava in silenzio sul proprio quaderno delle annotazioni piccoli appunti. Vederli lavorare insieme era d’ispirazione, erano tutti molto competenti e in sintonia tra loro, riuscivano a incastrare i ragionamenti di ognuno come ingranaggi perfetti, arrivando in modo rapido e lineare alle conclusioni esatte.
- Quando è stata fatta la chiamata al 911? - Domandò ancora Taylor.
- Circa mezz’ora fa. - Rispose Don per poi allontanarsi in direzione di Danny.
Mac tornò a guardare il corpo della donna. La sua esperienza gli suggeriva che quello fosse un delitto passionale, ma il marito aveva allertato la polizia, pensò quindi che fosse stupido commettere un omicidio e denunciarlo subito dopo. Non era esattamente il miglior piano per depistare i sospetti.
Flack tornò poco dopo accompagnato da Messer ed entrambi avevano un’espressione poco consona per la tragedia a cui stavano lavorando.
- Guardate qui. - Iniziò Don. - Cialis! - Mostrò una scatolina di medicinali tenuta cautamente con un guanto sfuso, in modo da non lasciare impronte.
- Al marito della signora serviva un piccolo aiuto. - Si aggiunse Danny. Nessuno parlò, tantomeno Taylor che stava ancora osservando la donna.
- Sarebbe un peccato buttarli. Mac? - Lo interpellò Flack. - Perché non li prendi tu? Sono sicuro che qualcuno apprezzerebbe molto. -
Peyton arrossì di colpo, rimanendo a testa bassa e non azzardandosi a scostare lo sguardo dal cadavere per evitare di farlo notare a tutti.
Taylor alzò gli occhi su Don, indeciso se rispondergli o ignorarlo.
- Ti garantisco che non ne ho bisogno. Grazie del pensiero. - Disse nel modo più diplomatico possibile.
Quinn, sorpresa, li guardava con un sorriso imbarazzato. - State veramente parlando di questo? -
- No. - Disse prontamente Mac per stroncare il discorso. - Vero, Flack? - Lo guardò seriamente.
- Va bene, va bene. Vado a posarlo. - Alzò le mani con aria innocente, un po’ indispettito perché nessuno tranne Messer era stato allo scherzo e Taylor sospirò, indeciso se sorridere e lasciarsi andare per un minuto o se fare il capo e tenerli in riga.
Danny tornò sulla scena poco dopo non riuscendo a trattenere uno sbadiglio, dettaglio che non sfuggì al detective.
- Com’è la paternità? - Domandò Mac rialzandosi. Lui spostò gli occhi sul capo.
- Bella, peccato però che da questo non ci si possa mettere in ferie. -
Taylor non trattenne un sorriso. - Abbiamo quasi finito, in laboratorio ti aspetta un caffè. -
- Noi andiamo. - Si intromise Peyton. - Hanno caricato il corpo sul furgone. Quando rientrerete probabilmente avrò qualche dettaglio in più da darti sulla donna. -
- D’accordo. - Rispose il detective. - A dopo. -
Lei e Quinn lasciarono l’appartamento prima di tutti lasciando che la squadra della scientifica finisse di raccogliere tutte le prove. Mac aveva già scattato le foto al suo arrivo, ma le avrebbe analizzate con più calma in ufficio, magari con qualche delucidazione in più ad autopsia finita.
Mezz’ora dopo tornarono in laboratorio e Taylor andò nel suo ufficio per iniziare a ragionare su quello che avevano, disponendo in ordine le foto che aveva scattato e iniziando a cercare informazioni sulla vittima. Rovistando tra i suoi effetti personali trovarono il portafoglio. La donna si chiamava Rachel Hill, 37 anni, agente immobiliare come gli aveva cortesemente suggerito il biglietto da visita nello stesso scompartimento della carta d’identità. Sposata con Bruce Nolan da sei anni, lui un geometra in carriera. Nessun figlio.
Mac si passò una mano sul mento, all’apparenza sembrava una famiglia come un’altra, ma tutti quegli anni di lavoro gli avevano insegnato a non lasciarsi ingannare dalle apparenze. Si alzò deciso ad andare in obitorio, se voleva fare qualche passo in avanti aveva bisogno di informazioni in più. Quando lui raggiunse le due donne vicino al lettino le salutò entrambe, rivolgendosi poi a Peyton.
- Dimmi che hai scoperto qualcosa. -
Lei sorrise. - Ovviamente sì. Ho trovato ecchimosi su tutto il corpo, ma principalmente su schiena e braccia. In più, c’erano lesioni sul cuoio capelluto nella zona della nuca. -
Mac provò a simulare la presa con le braccia come se avesse un corpo immaginario davanti a sé. Alzò il braccio sinistro all’altezza della testa tenendolo piegato, il pugno stretto, fingendo di stringere qualcosa. Con il braccio destro simulò di tagliare la gola all’aria.
- Quindi l’ha afferrata da dietro, tirandola dai capelli. Gli schizzi non l’avranno sicuramente colpito e presumibilmente l’assassino non si è ferito né sporcato. -
Lei annuì. - C’è dell’altro. Era incinta, approssimativamente quindici settimane. -
Taylor incassò la notizia trovando il tutto ancora più triste. Lei proseguì.
- Ti ho già prelevato un campione di DNA in modo da confrontarlo con quello del marito, quando lo convocherete… -
Lui prese la vaschetta di plastica con dentro il campione.
- Grazie. Tienimi aggiornato se scopri dell’altro. Vado a fare due chiacchiere con il marito. -
Dopo aver fatto un cenno con il capo ad entrambe, Mac lasciò l’obitorio per tornare al piano superiore. Quinn, nel frattempo, si era appuntata molte cose sul foglio della valutazione.
- Mac aveva ragione: sei molto brava. - Disse improvvisamente.
- La ringrazio. - Rispose sorridendo. Non riuscì a trattenersi al pensiero che lui avesse messo una buona parola per lei.
- Ah, dammi del tu. - Disse Quinn amichevolmente. - Sai, il posto che ora occupa Mac era conteso tra me e lui. Alla fine ha vinto lui. - Disse lasciandosi cullare dai ricordi. Peyton le lanciò un’occhiata, non aspettandosi minimamente una confessione così confidenziale da parte della donna.
- Beh, non è andata poi così male. Hai un sacco di responsabilità anche ora. Vi conoscete da molto, allora. -
Lei sorrise malinconica. - Oh, sì, da parecchio. Eravamo freschi di studio. -
Peyton capì immediatamente che tra i due c’era stato qualcosa. Gli occhi di Quinn parlavano chiaro, non si trattava semplicemente di un rapporto di lavoro o amicizia, ma decise di non domandare, forse per discrezione, forse per paura di scoprire cose che non voleva sapere. Decise di dedicarsi solamente alla donna sdraiata di fronte a lei che, in quel momento, aveva decisamente la priorità.

 

To be continued...

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Capitolo 25
*** Capitolo XXV ***


Capitolo XXV

 Un’ora dopo Mac entrò nella sala interrogatori. Il marito della vittima era già seduto al tavolo, le mani incrociate sul ripiano freddo, in attesa di avere notizie sulla tragedia cui aveva assistito qualche ora prima.
Taylor prese posto di fronte a lui, studiando l’uomo per capire se il dolore nei suoi occhi fosse autentico o di facciata.
- Signor Nolan, mi dispiace per la sua perdita, ma dovrò comunque farle qualche domanda. Se la sente? -
- Sì. -
Il detective prese fiato. - Quando ha visto sua moglie l’ultima volta? Inteso prima di chiamare il 911. -

- Stamattina, prima di andare a lavoro. Sono uscito di casa per le 6:30 AM. -
- Capisco. - Disse Mac. - E come mai è tornato a casa? -
- Avevo dimenticato il cellulare. Quando sono rientrato l’ho trovata in quello stato… -
Taylor proseguì. - Non c'erano segni di effrazione nel vostro appartamento, vuol dire che sua moglie conosceva l'assassino dato che ha aperto la porta. Sa se qualcuno avesse problemi con lei? Se volesse farle del male? Forse qualche contrasto sul lavoro... -
L'uomo scosse la testa, sforzandosi di pensare alle ultime conversazioni avute con la donna, ma non si ricordava di nessuna lite.
- No... Eravamo una coppia normale in procinto di creare una famiglia... - Trattenne a stento le lacrime e Mac pensò fosse sincero.
- Posso vedere le sue mani, Signor Nolan? - L'uomo annuì senza opporre resistenza, posandole entrambe sul ripiano di acciaio. Il detective Taylor le osservò attentamente, non notando nessun tipo di segno.
Flack si staccò dal muro, avvicinandosi poi al tavolo.
- Dovrebbe darci l'indirizzo del suo ufficio, Signor Nolan. Dobbiamo confermare il suo alibi. -
- E un'ultima richiesta, dopodiché potrà andare. - Intervenne ancora Mac. - Dobbiamo prelevarle un campione di DNA per poterla escludere dai sospettati. -
- Va bene... Non c'è problema. - L'uomo collaborò ad entrambe le richieste degli agenti, dando a Flack l'indirizzo e lasciando che Mac prelevasse il campione di saliva. Non avendo altro per trattenerlo, i due agenti lo lasciarono andare dopo avergli ricordato di tenersi reperibile per qualsiasi circostanza.
Una volta tornato al laboratorio, Mac entrò nella stanza in cui Danny stava analizzando le prove raccolte sulla scena, o almeno così sembrava. Messer fissava il microscopio con gli occhi persi nel vuoto, incantato a guardare chissà cosa.
Taylor si avvicinò piano, schioccandogli poi le dita vicino all’orecchio sinistro.
- Ehi, tutto bene? -
Danny sussultò. - Eh!? Capo! Stavo… Stavo… Riflettendo. - Provò a giustificarsi, ma il sorriso sul viso del detective gli fece intuire che non era credibile neanche un po’.
- Finisci di analizzare quel campione e vai a farti una dormita di un’ora. -
- Davvero? - Messer sgranò gli occhi, incredulo per ciò che aveva appena sentito.
- Sì, ma non un minuto di più. Intesi? Ti lascio qui il campione di DNA del marito, confrontalo con quello del feto e vedi se c’è riscontro. -
- Agli ordini. -
Mac uscì dalla stanza tornando nel proprio ufficio, dove iniziò a mettere insieme i pezzi del puzzle, nonostante ne avesse pochi. Non passò più di mezz’ora che entrò Stella.
- Ho analizzato i residui sotto le unghie della vittima. Il DNA non combacia con quello del marito e non c’è nessun riscontro nel codis. -
Il detective fece un’espressione indecifrabile, concentrata, indispettita per quei risultati che non combaciavano e gli rendevano tutto più difficile. Ad interrompere i suoi ragionamenti fu lo squillo del telefono fisso che teneva sulla scrivania, a cui rispose dopo pochi secondi.
- Taylor. -
- Mac, c’è altro che devi sapere sulla vittima. - Era Peyton che lo chiamava dall’obitorio. - Ho trovato tracce di liquido seminale, nulla indica che fosse un rapporto non consensuale. -
- Sei riuscita a prelevare un campione per il test del DNA? - Chiese il detective. Forse così avrebbero avuto qualche speranza di incastrare l’assassino.
- Sì, mando su uno dei ragazzi. -
- Va bene, grazie. - Riposò la cornetta guardando Stella. - La vittima ha avuto un rapporto sessuale poco prima di morire, ma il marito ha detto di essere tornato a casa e di averla trovata già così. Se è uscito alle 6:30 AM e ha chiamato il 911 alle 8:00 AM, c’è un amante. Ma questo darebbe un movente al marito. -
Sospirò. Questo metteva in discussione tutte le certezze che il colloquio con il Signor Nolan gli aveva dato.
- Hai già parlato con il marito? - Domandò Stella.
- Sì. - Sbuffò girandosi una penna tra le mani. - Mi è sembrato sincero, ma con un amante di mezzo… A meno che il figlio non sia dell’altro uomo. La gravidanza potrebbe essere il motivo della discussione. -
Stella annuì, trovando sensato il ragionamento. - Hai già i risultati? Se il DNA del marito e del feto coincidono, si va ad esclusione. -
- No, se ne sta occupando Danny. - Scostò lo sguardo dalla collega per posarlo sui fogli sparsi sulla scrivania. - Forse il bambino era dell’amante, lei gliel’ha detto, lui non ha voluto prendersi le sue responsabilità, la lite è degenerata e lui l’ha uccisa. -
Purtroppo Taylor descrisse uno scenario plausibile a cui loro erano abituati, ma qualcosa non tornava nella testa del detective Bonasera.
- Però non capisco. Lei aveva una relazione stabile con un uomo convinto che il bambino fosse suo. Perché l’amante avrebbe dovuto preoccuparsi per un eventuale coinvolgimento? Avrebbe potuto tranquillamente dirle di crescerlo con il marito. -
Mac la ascoltò in silenzio, era giusto prendere in considerazione ogni ipotesi.
- Forse lei voleva lasciare il marito e crescere il bambino con il padre biologico. Oppure lui voleva costringerla a divorziare, ma lei ha rifiutato. Questo sarebbe un movente. - Sospirò lasciandosi andare contro lo schienale della poltrona. - Ci sono troppe opzioni, non ci resta che attendere i risultati del test del DNA. -
Flack fece la sua comparsa in quel momento attirando l’attenzione di entrambi.
- Buco nell’acqua. Attualmente la vittima aveva tre clienti in sospeso: due sarebbero dovuti andare dal notaio insieme a lei la settimana prossima, mentre il terzo era ancora alle prime fasi della trattativa. -
Mac sospirò. - Quindi apparentemente nessuno ha un movente. Si ritorna al delitto passionale. -
- Ci sono novità? - Domandò Don incrociando le braccia al petto.
- Eccome se ci sono. - Fu Danny a rispondergli, aggiungendosi alle persone presenti nell’ufficio di Taylor. - Il DNA del feto non corrisponde a quello del marito. -
Flack non trattenne un ghigno divertito. - Beh, è chiaro che la signora volesse qualcuno che non aveva bisogno di aiuto per carburare. -
Stella fulminò Don, mentre Mac fece un enorme sforzo per trattenere una risata.
- Andiamo, Flack, è un discorso serio. - Lo riprese il detective.
L’altro alzò le mani, andando sulla difensiva. - Va bene, allora diciamo che preferiva una Maserati a una vecchia Cinquecento. - Danny sorrise, l’umorismo di Flack era sempre una garanzia per Messer.
- Sì, diciamo così. - Concordò Taylor provando a rimanere composto.
Don tornò improvvisamente professionale, scostando gli occhi da Danny e riportandoli su Mac.
- Il nome dell’azienda della vittima era la Thebesthomerent, e rullo di tamburi… Il nome del direttore è Maximilian White. -
Il detective non se lo fece ripetere due volte, alzandosi dalla scrivania pronto ad andare.
- Andiamo a fare due chiacchiere con il Signor White. - Disse.
- Sì, magari scopriamo chi ha la Maserati. - Concordò Flack ricevendo l’ennesima occhiata da parte di Stella.
Taylor sospirò, constatando che non sarebbe stato in grado di affrontare tutta la giornata in quel modo.
- Aggiorniamoci tra mezz’ora, sarà sicuramente in pausa pranzo ed è molto probabile che andando in ufficio a quest’ora non troveremmo nessuno. - Osservò Stella. Don e Mac annuirono, tornando ognuno alle proprie mansioni.

Nel frattempo Peyton approfittò della momentanea pausa caffè di Quinn per andare dal proprio armadietto. Aveva appena terminato di ricucire il corpo di Rachel Hill, quindi decise di soddisfare la curiosità a cui poco prima, a causa della mole di lavoro, non era riuscita a dare ascolto. Sentiva il cuore martellarle nel petto mentre apriva la busta e tirava fuori il biglietto aereo regalatole da Mac. Guardò la data di partenza e di ritorno: dal 22 al 27 Dicembre. Sorrise intenerita per quel gesto così altruista, poi lo rimise nella busta posandolo nuovamente in borsa, domandandosi dispiaciuta con chi avrebbe trascorso il Natale. Ipotizzò con Stella, in fin dei conti non sarebbe stata la prima volta che i due si facessero compagnia durante le festività ed era serena nel sapere che il 25 lui non sarebbe rimasto da solo sul divano di casa.
Giunta quasi in obitorio pensò che, magari, gli avrebbe parlato di nuovo per convincerlo a partire con lei, quando un capogiro improvviso la obbligò a fermarsi ed appoggiarsi al muro per non cadere.
- Ehi! Ti senti male? - La voce di Quinn le arrivò forte e chiara alle orecchie, facendola girare verso destra. La donna le appoggiò preoccupata una mano sul braccio, pronta a sostenerla nel caso perdesse l’equilibrio.
- Non è niente, devo aver avuto un calo di zuccheri. -  Minimizzò Peyton, staccandosi poi con cautela dal muro.
Quinn le diede rapidamente un’occhiata, notando effettivamente un pallore insolito che poco prima non aveva notato.
- Ti sei alzata di colpo? Sei a digiuno? Forse dovresti mangiare qualcosa… - Disse visibilmente preoccupata.
Peyton annuì debolmente, accennando un sorriso imbarazzato. Non le era mai capitato.
- No, effettivamente non ho ancora pranzato. -
- Prenditi mezz’ora. - Le disse amichevolmente Quinn. - Qua avete dei ritmi molto serrati, specialmente sotto le direttive di Mac, lui non conosce pause. - Scherzò per smorzare l’imbarazzo.
Costretta dalle circostanze ad accettare, Peyton annuì andando in direzione dell’ascensore e salendo quindi al piano dei laboratori. Quando le porte metalliche si aprirono, la prima cosa che lei vide fu appunto Mac, impegnato a camminare avanti e indietro di fronte alle fotografie della scena appese sulla vetrata dell’ufficio, una mano puntata sul fianco e l’altra appoggiata sulla nuca. Lui si accorse della sua presenza solamente quando la vide apparire all’improvviso dietro al vetro, non trattenendo un sorriso all’idea di saperla supervisionata dalla sua vecchia conoscenza.
- Ciao. Come va con Quinn? - Chiese divertito.
- Bene, è una brava persona. Mi ha gentilmente concesso mezz’ora di pausa per mangiare qualcosa, ho avuto un capogiro poco fa. Forse un calo di zuccheri. -
Il sorriso sul volto del detective si spense subito, lasciando spazio alla sua solita espressione seria.
- Stai male? - Domandò avvicinandosi preoccupato.
- No, sto bene, dico davvero. -
- I cali di zuccheri non avvengono così a caso. Stamattina hai fatto colazione? - Indagò lui.
- Certo. - Provò a sorridere per tranquillizzarlo, ma Mac Taylor non si faceva di certo andare bene la prima prova che gli capitava sotto gli occhi, abituato com’era ad analizzare le cose mille volte.
- Ti accompagno in ospedale? - Chiese guardandola da capo a piedi, come ad assicurarsi che fosse tutto a posto.
Peyton sgranò gli occhi. - Mac! Non ti sembra di esagerare? L’ospedale è eccessivo. -
- E dove vorresti andare per fare un esame del sangue? -
- Dico davvero, sto bene. - Sospirò lei. - Stai tranquillo. -
Lui la guardò negli occhi per qualche secondo per assicurarsi che lei dicesse la verità. L’ultima cosa che voleva era che Peyton minimizzasse il problema per non perdere ore di lavoro.
- Vuoi prenderti il resto della giornata e andare a casa? Lo dico io a Quinn. -
Lei scosse la testa. - No, il tempo di un panino e torno. -
- Non dire assurdità. - La contraddisse subito Mac. - Andiamo a mangiare qualcosa di decente. -
Peyton sorrise. - Il detective Mac Taylor che lascia tutto per venire a mangiare con me? Devi essere davvero preoccupato, allora! - Lui sorrise scostando lo sguardo, capendo di essere stato colpito e affondato senza possibilità di ribattere.
- Una pausa farà bene ad entrambi. - Disse prendendo la giacca dall’appendiabiti. - Cosa vuoi mangiare? - Le chiese poi indossandola e sistemando il colletto.
- Qualcosa di veloce. Quinn mi aspetta. -
- Sfrutterai a pieno la tua ora di pausa pranzo. - Disse mettendole una mano sulla schiena per accompagnarla fuori dall’ufficio. Non avrebbe accettato discussioni su questo, perché per quanto Mac passasse in ufficio più ore dell’orologio, non aveva mai imposto i suoi ritmi agli altri della squadra. Sapeva di poterselo permettere non avendo una famiglia e non riuscendo a godere di tante ore di sonno. La salute dei membri del team, però, aveva sempre avuto la priorità su tutto.
Una volta usciti dall’edificio lui e Peyton attraversarono la strada, entrando in una tavola calda in cui spesso Mac si era ritrovato a fermarsi per recuperare le energie senza allontanarsi troppo.
Occuparono un tavolo vicino alla vetrata e lui continuava a fissarla per assicurarsi che stesse realmente bene. Dopo aver ordinato un’insalata lei e un hamburger lui, Peyton alzò lo sguardo sul detective.
- Allora? Hai già una pista da seguire per quanto riguarda il caso? - Sorrise.
Taylor sospirò, appoggiando poi le braccia sul tavolo.
- Non proprio. - Ammise. - Sappiamo che il figlio non era del marito, quindi resta da capire chi fosse l’amante. È tutta la mattina che cerco di capire chi possa avere il movente migliore: il marito può aver scoperto il tradimento, l’amante potrebbe averla costretta a divorziare o, al contrario, averle detto di non voler sapere nulla del bambino. Oppure la gravidanza non c’entra nulla e si tratta di contrasti sul lavoro, forse qualche collega era invidioso della sua carriera ed è tutto una enorme coincidenza. Non lo so. - Sospirò ancora non riuscendo ad uscire dal groviglio di pensieri che aveva in testa.
- Non vi resta che parlare con… - Peyton non fece in tempo a terminare la frase, un improvviso conato la costrinse ad alzarsi in fretta, lasciando il detective interdetto, seduto al tavolo, incapace di capire cosa stesse succedendo.
Mac riprese lucidità solamente dopo qualche istante, alzandosi anche lui e seguendola fino alla porta del bagno ormai chiusa. Non sentendo rumori bussò due volte.
- Peyton? Tutto bene? - Lei non rispose. Si sentì solamente lo sciacquone del water, seguito poi dalla serratura della porta. Quando Peyton uscì, l’espressione di Taylor era ancora più preoccupata di quando erano in ufficio.
- Vai a casa. Ora. Hai la giornata libera. - Disse irremovibile.
Lei sbuffò. - Mac, adesso va meglio. -
- Sei bianca come un lenzuolo. - Le fece notare lui con le mani ai fianchi.
- Devo aiutarvi con il caso, e poi Quinn mi aspetta e… -
- L’autopsia l’hai già fatta. - La fermò il detective. - E a Quinn spiegherò io il motivo della tua assenza. Vai a casa. -
Peyton lo guardò negli occhi per qualche secondo, capendo infine che non avrebbe avuto possibilità di fargli cambiare idea. Si limitò ad annuire sospirando, ormai arresa.
- Ti faccio mettere il pranzo da parte. - Dopo averle lasciato una carezza sulla guancia si allontanò, andando al bancone e spiegando brevemente la situazione alla ragazza dietro la cassa.
Lei intanto uscì dal locale, pensando che prendere un po’ d’aria l’avrebbe aiutata a sentirsi meglio. Mac la raggiunse poco dopo tenendo in mano le due porzioni da asporto. Con gli occhi cercò un taxi libero, ma a quell’ora sarebbe stato complicato.
- Sei sicuro che non ci sia bisogno di me? - Chiese sentendosi in colpa.
Lui le porse il suo pranzo. - A chi altro vuoi fare l’autopsia? Il tuo lavoro è finito, e poi ci sono Sheldon e Sid. Ti sto dicendo di andare a casa in quanto capo. -
Lei prese il sacchetto con dentro l’insalata senza sapere cosa rispondere, mentre Taylor fermava un taxi giallo con un cenno della mano.
- Se peggiori, chiamami. D’accordo? - Le disse mentre lei saliva in auto.
- Va bene. - Chiuse la portiera, il finestrino lasciato mezzo abbassato dal passeggero precedente. - Ah, Mac? - Lo richiamò.
Lui si avvicinò. - Dimmi. -
Per un attimo Peyton fu tentata di chiedergli cosa ci fosse stato tra lui e Quinn. Aveva capito che doveva essere successo qualcosa tra loro in passato, ma non ebbe il coraggio di domandare. E, soprattutto, si vergognò del principio di gelosia che sentiva morderle la bocca dello stomaco.
- Niente… Solo che ti amo. -
Mac rimase immobile. Gli sembrò di sentire il sangue fermarsi nelle vene mentre la guardava con le labbra dischiuse e il taxi che partiva, lasciandolo come uno stupido in procinto di dire qualcosa. Avrebbe voluto risponderle anche io, ma pensò di non essere in grado di dirlo perché il ricordo di Claire era sempre lì, stampato in mente come un monito. I sentimenti per Peyton non li avrebbe mai messi in discussione, ma in cuor suo temeva che ammetterlo avrebbe voluto dire dimenticare Claire, e questo lo terrorizzava.
Stella lo trovò così, fermo sul ciglio della strada e lo sguardo perso verso l’orizzonte, a fissare un taxi ormai sparito nel traffico di New York.
- Mac! Che stai facendo, aspetti qualcuno? - La voce di Stella lo destò improvvisamente, riportandolo con i piedi per terra e facendogli dimenticare momentaneamente quella dichiarazione così spontanea e improvvisa.
- Eh? No… No. - Riprese contegno. - Ho dato la giornata libera a Peyton. Non stava bene. - Spiegò semplicemente.
- Capisco. Spero non sia nulla di grave. -
- Non penso, probabilmente sarà l’influenza. - La raggiunse sul marciapiede. - Mangiamo qualcosa e andiamo da questo White? -
Lei gli sorrise. - Sì, altrimenti non penso di arrivare a fine turno. - Mac annuì, attendendo poi Stella davanti l’ingresso della tavola calda. Nell’attesa chiamò Quinn direttamente sul telefono personale.
- Mac Taylor, adesso mi chiami addirittura sul mio cellulare privato? - Taylor colse il tono scherzoso della donna, ma sapeva che sotto c’era comunque un flirt velato che lei non si lasciava mai scappare.
- Quinn, ho dato a Peyton la giornata libera. Stava veramente male. - Disse solamente. - Se non hai altro da fare lì, sei libera anche tu. Probabilmente domani starà meglio. -
La sentì sospirare. - Diavolo, allora non era solo un calo di zuccheri. Va bene, avvisami quando potrà tornare a lavoro. Ci aggiorniamo. -
- Certo. - Le rispose Mac, poi chiuse la chiamata.

 

To be continued... 

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Capitolo 26
*** Capitolo XXVI ***


Capitolo XXVI

Quando lui e Stella entrarono nell’azienda dove lavorava Rachel Hill erano le 3:11 PM. Mostrando il distintivo non trovarono intoppi nel raggiungere l’ufficio del Signor Maximilian White, alla bellezza del trentaduesimo piano e una vista invidiabile su New York. Una volta arrivati davanti la porta, Mac bussò due volte.
- Avanti. - La risposta dell’uomo arrivò dopo pochi secondi, e i due detective entrarono per poi richiudere la porta.
- Con chi ho il piacere di parlare? - Domandò White, palesemente stranito di avere visite non avendo appuntamenti segnati in agenda. Mac sfilò prontamente il distintivo dalla cintura.
- Detective Taylor e detective Bonasera, siamo qui per farle qualche domanda su Rachel Hill. - Spiegò brevemente.
- Oh, sì, nessun problema. - Disse mettendosi più comodo sulla poltrona dietro la scrivania. - Cosa volete sapere? -
- Solo se potesse avere problemi con qualcuno. - Continuò Mac.
L’uomo scosse la testa con aria pensierosa. - Non che io sappia, perché? Le è successo qualcosa? -
- È morta. - Rispose prontamente Stella. L’uomo sbiancò dopo aver sgranato gli occhi.
- State scherzando? -
Mac infilò una mano nella tasca interna della giacca, tirando fuori la foto del viso della donna sdraiata sul letto dell’obitorio.
- Le sembra che stia scherzando? - Continuò il detective.
Il Signor White si sporse sulla scrivania per avvicinarsi alla foto. La guardò incredulo, non capendo come fosse possibile che in poche ore la vita si fosse ribaltata in quel modo. Approfittando del fatto che lui si fosse appoggiato al mobile, Mac osservò le mani dell’uomo: erano curate, senza ferite e alla sinistra notò la fede.
- Mio Dio… - Riuscì solamente a dire. - Com’è successo? -
Taylor posò la fotografia nella giacca. - È quello che stiamo cercando di capire. Quando l’ha vista l’ultima volta? -
Maximilian si passò una mano sul volto. - Ieri, qua in ufficio. -
- Le è sembrata tranquilla? - Domandò Stella cercando di capire le emozioni dell’uomo.
- Sì… Insomma, sì. Era tutto come al solito, abbiamo lavorato, me l’avrebbe detto se avesse avuto qualche problema. -
Mac alzò un sopracciglio. - C’era così tanta confidenza tra di voi? - Insinuò. Il Signor White fece una pausa capendo perfettamente dove volesse andare a parare il detective, indispettendo quindi lo sguardo.
- Eravamo colleghi e basta, se è quello che vuole sapere. Lei non ha amici sul lavoro? Non si confida con nessuno? - Lui e Stella si scambiarono un’occhiata. Taylor sapeva benissimo che tra i due poteva esserci una semplice amicizia, ma insinuare e provocare era una strategia del suo lavoro, e non se ne sarebbe di certo privato.
- La mia era solo una domanda, Signor White. Se sente così tanto la necessità di sottolineare che non ci fosse altro, forse ho centrato il punto. - Continuò Mac.
- Senta! Non è così! - Iniziò ad agitarsi l’altro. - Ho capito quello che sta cercando di fare, con i vostri giri di parole sperate di farmi dire qualcosa in modo da rigirare la frittata a vostro favore. Ve lo ripeto: eravamo colleghi. -
- D’accordo. - Lo assecondò Taylor. - Allora le chiedo solamente la cortesia di fornirci un campione di DNA in modo da poterla escludere dalla lista dei sospettati. -
White sorrise indispettito. - Avete un mandato? -
- Non ancora, ma sarà questione di un paio d’ore. Se non ha nulla da nascondere non vedo perché rifiutare. - Nel dirlo, Mac si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che potesse avere sopra il DNA dell’uomo. Non trovò niente, nessun bicchiere, bottiglia o mozzicone di sigaretta. L’ufficio era pulito e ordinato e decise di non insistere oltre dopo l’ennesimo rifiuto dell’uomo.
Usciti dalla stanza Stella chiuse la porta, sospirando per la piega che stava prendendo il caso.
- A quanto pare abbiamo trovato la nostra Maserati. - Disse Mac con un sorriso accennato mentre accendeva il motore dell’auto.
Stella sbuffò divertita. Quei riferimenti erano decisamente di basso livello, ma non riusciva a ignorarli. Soprattutto se a fare battute era uno come Taylor.
- E a quanto pare è pure sposato. Se aveva una relazione con lei, potrebbe aver avuto un movente. -
Il detective annuì girando il volante. - Questo spiega anche perché non ha voluto fornire un campione di DNA. -

Passò poco più di un’ora quando i detective Taylor e Bonasera tornarono nell’ufficio di Maximilian White, ma quella volta il mandato era piegato in quattro parti nella tasca interna della giacca di Mac. Raggiunta nuovamente la porta dell’ufficio dell’uomo, il detective bussò ancora, annunciandosi come Polizia di New York prima di girare il pomello ed entrare. L’ufficio li accolse con un silenzio irreale, la poltrona alla scrivania vuota e tutto al proprio posto, esattamente come i due agenti ricordavano quando se n’erano andati non molto tempo prima.
Mac e Stella si lanciarono un’occhiata e, istintivamente, lui portò la mano sulla fondina.
- Signor White? - Taylor lo chiamò ancora una volta. Gli sembrava strano non trovarlo in ufficio, ma pensò che tutto sommato potesse essere uscito con un cliente.
Tolse quindi la mano dalla pistola dopo aver dato un’ultima occhiata alla stanza. Il tappeto, al centro dell’ufficio, era esattamente nella stessa posizione di prima, quindi Mac escluse che ci fosse stata una lotta in loro assenza.
E fu proprio in quel momento, mentre il detective osservava il tappeto e Stella dei documenti ordinatamente posati su degli scaffali, che Maximilian uscì da sotto la scrivania stringendo nella mano destra una pistola di piccolo calibro, puntandola verso Taylor.
Mac fece appena in tempo a vederlo con la coda dell’occhio, l’istinto di poliziotto gli fece muovere la mano destra per afferrare l’arma alla cintura in un moto automatico, ma White fu più veloce.
L’uomo esplose un colpo mentre la mano del detective si posò sulla pistola, facendolo cadere all’indietro sul tappeto che stava osservando qualche secondo prima. Stella si girò fulminea, estraendo l’arma e sparando al braccio dell’uomo che, intanto, si stava puntando la pistola alla tempia.
White urlò dal dolore mentre Mac era a terra, supino, la mano destra prontamente sulla ferita all’altezza della clavicola sinistra.
- Mac! - Stella non ci pensò due volte a correre da lui, abbassandosi accanto all’amico per capire se stesse bene.
Il viso di Taylor era contratto in una smorfia di dolore, un po’ per il proiettile che l’aveva appena colpito, un po’ per la pressione che stava esercitando sulla ferita per limitare la fuoriuscita del sangue.
- Sto bene, non ti preoccupare. - Le disse capendo che fosse spaventata.
- Chiamo il 911. - Con estremo sangue freddo Stella prese il telefono dalla tasca dei pantaloni, chiamando il numero a cui era abituata a rispondere. - Pronto, sono il detective Bonasera. C’è un agente a terra e un civile ferito, serve un’ambulanza alla sede della Thebesthomerent, tra la 10ma e la 2nda. Grazie. - Chiusa la rapida telefonata, Stella corse a vedere le condizioni di White. L’uomo gemeva di dolore, mentre dal braccio destro usciva poco sangue. Raccolse la pistola dell’uomo dopo aver infilato un guanto, poi per assicurarsi di non farlo morire dissanguato, Bonasera tolse la cravatta a Maximilian, usandola poi per bendargli il foro d’entrata del proiettile. Strinse forte causando all’uomo un urlo di dolore, poi tornò da Mac, ancora sdraiato, la gamba sinistra stesa a terra, quella destra sollevata, con il ginocchio leggermente piegato. La mano destra era sporca di sangue, così come la camicia e la giacca.
- Resisti, stanno arrivando i medici. - Gli disse lei preoccupata.
Taylor aprì gli occhi per guardarla. - Fa parecchio male, quindi è un buon segno. Stai tranquilla. - Disse con voce dolorante.
Lei annuì poco convinta, lanciando un’occhiata alla porta nella speranza di vedere entrare i soccorsi.

Un’ora dopo Mac era seduto sul letto d’ospedale. La camicia e la giacca erano da buttare, e a coprirgli il petto c’era solo la fasciatura che gli bendava la clavicola sinistra e parte del pettorale destro. Era stato ricucito senza troppi problemi, i medici lo avevano rassicurato sul fatto che il proiettile non avesse causato danni. L’unica cosa che consigliavano era il riposo, ma quello Taylor non l’avrebbe mai preso in considerazione.
La porta si spalancò poco dopo, e quando Mac alzò gli occhi si ritrovò davanti Flack.
- Come stai? - Gli occhi azzurri di Don erano sbarrati, probabilmente terrorizzati di rivivere l’episodio di Jessica.
- Bene. Quel tizio non ha una buona mira. - Provò a ironizzare. - Come sta White? Voglio che lo imbottiscano di antidolorifici, non scamperà l’interrogatorio con il sottoscritto. -
- Sta bene. - Entrò anche Stella. - Ho prelevato un campione del suo sangue e l’ho portato in laboratorio. Tu come stai? - Chiese apprensiva accostando la porta.
- Sto bene. - Tentò di ruotare la spalla sinistra con cautela, ma i punti tiravano e un bruciore atroce gli attraversò il petto. Non trattenne una smorfia di dolore.
- Non sforzarti, Mac… - Continuò lei.
- Figlio di puttana. - Sibilò Taylor con la mano destra sulla ferita. - Ha fatto finta di uscire e mi ha sparato quando non guardavo nella sua direzione. -
La porta si aprì nuovamente di colpo e Peyton, forse ancora più pallida di come Mac l’aveva lasciata, fece il suo ingresso nella stanza d’ospedale.
- Mac! - 
Lui alzò lo sguardo su di lei. - Ti avevo detto di rimanere a casa. Chi ti ha avvisata? -
- Io. - Ammise Stella senza timore. Sapeva di aver fatto la cosa giusta.
- Sul serio pensavi che me ne sarei rimasta tranquillamente a casa dopo aver saputo che ti avevano sparato? -
Il detective annuì. - Certo. Io sto bene, i dottori hanno tolto il proiettile e non ho perso neanche tanto sangue. Ho subito tamponato la ferita. -
Peyton si lasciò cadere stancamente sulla sedia più vicina. L’effetto dell’adrenalina era svanito di colpo non appena si era accertata che lui stesse bene.
Mac continuava a fissarla, preoccupato più per lei che per se stesso.
- Hai capito cos’hai? -
- Sì. - Annuì piano facendo vagare lo sguardo per la stanza, assicurandosi di non posarlo mai sul viso del detective. Stella capì subito il disagio di lei, intuendo che probabilmente avessero bisogno di qualche minuto per parlare.
- Ho capito, vi lasciamo da soli. Vieni, Flack! - Senza dare modo a Don di capire cosa stesse succedendo, Bonasera gli afferrò la camicia all’altezza del petto, tirandolo fuori senza tanti complimenti.
- Ehi! Ma che modi! - Si lamentò inciampando. Mac sorrise mentre la porta della camera veniva richiusa, poi tornò a guardare Peyton, vedendola deglutire.
- Spero non sia nulla di grave. - Disse tornando a riferirsi alla causa del suo capogiro.
Lei sorrise. - No. No, non è niente di grave. - Si decise ad alzare lo sguardo, puntando gli occhi azzurri in quelli di lui, che la fissava dall’alto del letto. - Sono incinta. - Disse tutto d’un fiato.
Trattenne il respiro mentre lo guardava. Mac divenne una statua, pietrificato di fronte a quella notizia così bella e così inaspettata da spegnergli ogni genere di ragionamento logico. L’unica cosa che riuscì a fare fu sgranare gli occhi e battere un paio di volte le palpebre, incredulo, aspettando che lei gli dicesse “sto scherzando!”. Ma Peyton era serissima, e il silenzio di Taylor le stava facendo interpretare quella reazione come un pessimo segnale.
- Tu… Sei… Tu sei… Sei… Da quando? - Non riuscì a parlare senza balbettare, ancora non totalmente lucido.
- … Cinque settimane secondo il test. -
Con un colpo di reni Mac scese dal letto, raggiungendola con due passi. - Sul serio? - La guardò negli occhi senza mai interrompere il contatto visivo. Lei sbarrò i suoi, annuendo mentre Mac le accarezzava una guancia, non riuscendo a trovare le parole giuste per descrivere ciò che provava.
- Dovresti tornare a letto. - Disse Peyton lasciandogli un bacio sulla mano, realizzando solo in quel momento che lui fosse sceso.
- Avrei dovuto capirlo dai sintomi… -
- In realtà all’inizio non l’ho capito neanche io. - Ammise lei. - Ero troppo presa dal caso. Quando sono tornata a casa Lindsay mi ha telefonato e, quando mi ha chiesto cosa avessi, le ho descritto i sintomi. Mi ha consigliato lei di fare il test. -
Mac annuì. - Dopotutto lei ci è già passata. - La guardò ancora una volta, non resistendo nel darle un bacio sulla fronte. - Stai meglio ora? -
- Sì, ma non è un malessere costante. Va e viene. E poi dovresti preoccuparti per te, vai a sdraiarti. -
Il detective sbuffò. - Non starò mai in quel letto, esattamente come tu non starai mai a casa anche se te l’ho ordinato. -

- Ma qui devi! - Continuò lei. - Anche perché i medici ti obbligheranno a farlo. -
Il detective scosse la testa. - Firmerò per uscire. Ho un assassino da trovare e un tizio che non sa sparare da interrogare. -
- No, innanzitutto perché hai perso sangue. Ti ricordo che ti hanno sparato! Dovranno monitorare le tue condizioni. E poi anche lui è ricoverato qui, dubito che possa andare da qualche parte. Ci vorrà del tempo prima che esca. - Tentò di farlo ragionare, ma Mac non sarebbe rimasto fermo a letto neanche se l’avessero legato.
Taylor sospirò. - Stella gli ha sparato al braccio, penso che l’abbia preso di striscio. Starà bene in poco tempo. -
- Secondo te cosa stanno dicendo? - Domandò improvvisamente Flack, le braccia conserte e gli occhi fissi sul labiale di Mac e Peyton nella speranza di interpretare i discorsi attraverso il vetro. Stella si girò verso Don non riuscendo a capacitarsi di quanto fosse pettegolo.
- Non lo so. Diavolo, tu e Danny siete proprio due comari. -
- Ero solo curioso, dannazione. - Provò a giustificarsi, ma Bonasera non fece in tempo a rispondere perché Messer le fece squillare il cellulare.
- Bonasera. -
- Stella! - Il tono di Danny era palesemente preoccupato, la notizia era arrivata in fretta in laboratorio. - Come sta Mac? Ho saputo che gli hanno sparato. -
- Sta bene, la pallottola non ha creato nessun danno per fortuna e l’operazione è andata liscia come l’olio. - Lo tranquillizzò lei.
- Ottimo. - Lo sentì sospirare di sollievo. - Sicuramente starà scalpitando per uscire. -
Stella rise. - Lo conosci fin troppo bene anche tu. Hai novità sul DNA? - Cambiò discorso.
- Certo. E indovina? Boom. Il DNA del feto ha 12 loci in comune con quello di White. -
- Che bastardo. Ecco perché ha reagito così. Ti ringrazio Danny, ti raggiungeremo tra poco. Dubito che riusciremo a tenere Mac in ospedale ancora per molto. -
- Ehi ehi! - Flack le diede una gomitata complice per attirare la sua attenzione. - Stanno discutendo! - Sussurrò indicando il vetro con un cenno del capo.
- A dopo. - Disse ancora lei per poi chiudere la telefonata. Guardò poi dentro la stanza di Mac, vedendolo in piedi.
- Mac Taylor! - Lo riprese lei entrando. - Che ci fai in piedi?! -
Il detective si girò nella sua direzione, consapevole che avrebbe dovuto lottare anche contro Stella.
- Sto bene! - Guardò prima Bonasera, poi Peyton. - Mi hanno sparato a una spalla, non a una gamba. -
Stella sospirò, capendo che non avrebbe cambiato idea neanche sotto minaccia.
- Mi ha chiamato Danny. Maximilian White è il padre del bambino che aspettava Rachel Hill. - Rivelò la notizia. Flack e Taylor si scambiarono un’occhiata.
- Ecco la Maserati! - Esclamò Don sorridendo. Mac lo seguì a ruota, non trattenendosi.
- Chiamo il medico. - Disse quindi il detective. - Devo uscire da qui. - Schiacciò il pulsante per chiamare un dottore in camera.

 

To be continued...

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Capitolo 27
*** Capitolo XXVII ***


Capitolo XXVII

Dopo aver firmato il foglio delle dimissioni e aver ascoltato le raccomandazioni del medico, Mac indossò con cautela la maglia di ricambio che Flack gli aveva gentilmente portato.
- Sei sicuro di avere tutto l’occorrente per la medicazione? - Chiese Stella mentre salivano tutti in auto. Taylor prese posto davanti, accanto a Don.
- Sì. - Rispose allacciandosi la cintura mentre Flack metteva in moto. - Me l’ha ripetuto tre volte, come se non sapessi cambiare una fasciatura. -
- Fallo, però! -
- Sappiamo la prognosi di quel bastardo? - Cambiò prontamente discorso Mac.
- Tre giorni. - Rispose Don. - Ma forse con un po’ di pressione potremmo già averlo stasera. Alla peggio domani. -
Taylor scosse la testa non riuscendo a non pensare al momento in cui si era reso conto che gli avevano sparato.
- Piuttosto vengo a interrogarlo qua. -
Flack rise prendendo una curva. - Avvisami in caso, voglio conoscere la Maserati. - Sentendo per l’ennesima volta quella battuta, Peyton chiese spiegazioni.
- Posso sapere cos’è questa storia della Maserati? -
Mac guardò prontamente fuori dal finestrino, passandosi poi una mano sugli occhi. Ci pensò Stella a farle un riassunto.
- Stanno paragonando i due uomini della vittima a una Maserati e a una vecchia Cinquecento in base a chi usasse il Cialis. - L’espressione del detective Bonasera rispecchiava quella di una maestra alle prese con dei bambini, facendo sorridere Peyton.
- Le classiche battute sulle prestazioni a letto. - Annuì. - Tipico degli uomini. -
- Vi correggo entrambe. - Intervenne il detective Taylor. - Io non ho detto nulla, parla al singolare. - Disse guardando Stella dallo specchietto retrovisore.
- Ma ti fa ridere. - Lo riprese lei.
- Mi fa ridere Flack, non la cosa in sé. Non mi interessa con chi andasse a letto la vittima. - Provò a difendersi Mac. Sentendosi tirato in causa, Don gli diede una gomitata amichevole.
- C’è sempre quella scatolina a disposizione, se vuoi. -
- La cosa divertente è che, la maggior parte delle volte, siete voi che vi create paranoie inutili. - Disse ancora Peyton. - Vi fate problemi dove non ci sono. Le donne guardano altro. -
Il detective sospirò in direzione di Flack.
- Io non ho nessuna paranoia, mi sono limitato solamente a dire a Don che quella roba non mi serve, ma visto che a me non crede, diglielo tu, no? -
Sentendo quell’assurda insinuazione, sorrise anche lei.
- Lo vedi? - Sbottò Flack. - Ride anche lei! Dove sono le vostre teorie femministe? -
Taylor si passò nuovamente una mano sulla fronte, lanciando un’occhiata a Peyton dallo specchietto come a dire “digli la verità”Intuendo, lei annuì dando una rapida occhiata alle mani che teneva in grembo per raccogliere il coraggio di uscire allo scoperto.
- D’accordo, ehm… Flack, Stella: a luglio Mac sarà padre. -
Il suv sbandò improvvisamente a sinistra, invadendo la corsia accanto. Don gestì prontamente il volante per tornare nella propria, mentre Mac, istintivamente, aveva afferrato la maniglia della portiera. Stella urlò.
Taylor era rimasto basito tanto quanto gli altri. Non si aspettava di certo che lei annunciasse la notizia con “dire la verità”, si riferiva più che altro al fatto che, per fortuna, non avesse ancora bisogno di farmaci.
- Sei impazzito?! - Sbottò Mac voltandosi verso Flack, notandolo con gli occhi sgranati.
- Scusa! - Disse lui ancora sconvolto. - Devo ancora elaborare la notizia. -
- Congratulazioni! - La testa di Bonasera comparve tra i due sedili. Regalò un sorriso sincero a Mac, contenta di pensare che finalmente, dopo tanta sofferenza, anche per lui fosse arrivata un po’ di felicità.
- Sì… Congratulazioni. - Fece eco Don. Non sapeva realmente cosa dire nonostante lo elettrizzasse l’idea di un piccolo poliziotto con le sembianze di Mac Taylor.
- Grazie. - Risposero all’unisono, imbarazzati.

La mattina dopo, anche complici le condizioni dell’uomo, le pressioni del Dipartimento fecero sì che il Signor White fosse seduto nella sala interrogatori. Di fronte a lui, Stella e un furioso Mac Taylor occupavano le due sedie dall’altro lato del tavolo.
- Cosa sperava di risolvere sparandomi? - Domandò il detective mascherando bene il risentimento.
Maximilian sospirò sconfitto. - Di evitare l’arresto. - Ammise. - Anche perché avevo in mente di suicidarmi. -
Taylor annuì. - E invece le verrà aggiunto un altro capo d’accusa. Complimenti, doveva essere il suo giorno fortunato. -
- Aggiunto? - Domandò White stando attento alle parole usate dal detective. - Aggiunto a cosa? -
Stella lo fissò negli occhi con freddezza. - All’omicidio di Rachel Hill. -
- Voi siete pazzi, non avete prove. - Rispose lui sistemandosi meglio sulla sedia.
- Vogliamo parlare del suo movente? - Intervenne Mac. - Rachel era incinta e il bambino era suo. -
White rise. - Non potete dimostrarlo. Sì, mi ha detto di essere incinta! - Ammise l’uomo. - Continuava a dire che fosse mio, voleva che lasciassi mia moglie e mi prometteva che lei avrebbe divorziato. Le ho detto di no, non avrei di certo buttato all’aria la mia vita privata e la mia reputazione sul lavoro. -
Il detective perse la pazienza di fronte al suo incessante mentire di fronte all’evidenza. Afferrò il bordo del tavolo con la mano destra e lo spinse verso l’uomo. Il discorso raccapricciante di Maximilian gli fece ribollire il sangue più del solito. Mac era sempre stato un uomo buono, con grande rispetto per donne e bambini, e si sarebbe schierato moralmente in ogni caso dalla parte di Rachel, ma in quel momento poteva perfettamente capire come ci si sentisse nel sentirsi dire dalla propria donna che era incinta.
- Possiamo dimostrarlo eccome! - Alzò il tono di voce. - Il DNA del feto non corrisponde a quello del marito, ma al suo! Le analisi parlano, e il fatto che lei non sia in grado di gestire la sua vita privata e lavorativa, non le dà il diritto di toglierla agli altri! L’ha già fatto con quella donna, e poi ci ha provato anche con me! -
Si fissarono negli occhi per una decina di secondi, tempo in cui il silenzio calò nello stanzino. L’unico rumore che rimbombava nelle orecchie di Mac era il battito accelerato del suo cuore.
- Di cosa era colpevole quella donna, eh? L’errore l’avete fatto in due, chi le ha dato il diritto di toglierle la vita? - Domandò ancora.
- Ero alle strette! - Sbottò l’uomo. - Voleva che ci mettessimo insieme e che mi prendessi cura di suo figlio! Io non potevo farlo, ho cercato di spiegarglielo! - Le giustificazioni che provava a campare in aria avevano l’effetto opposto sui detective, Stella si limitava a guardarlo senza trovare gli aggettivi per descriverlo.
- Lei non aveva nessun obbligo legale nei confronti di Rachel. - Rispose Mac riprendendo il controllo delle proprie emozioni. - Forse morali, ma la legge non considera questo. Poteva semplicemente ignorarla e continuare la sua vita mentendo a sua moglie. Invece ha optato per ucciderla. E non contento, di sparare a un agente. -
L’uomo non trattenne una risata nervosa. - Ignorarla? Lavoravamo insieme, dannazione! -
- Queste sono solamente scuse che lei si racconta per giustificare quello che ha fatto. - Lo fissò negli occhi cercando di trovare un barlume di pentimento, ma lo vide solamente deglutire perché aveva capito di non avere più scampo. Non si sentiva minimamente in colpa per l’omicidio e Taylor non provò neanche un po’ di pietà nell’immaginarlo in cella.
Con la mano fece un cenno all’agente fuori dalla porta, che rapidamente entrò per scortare fuori l’uomo dopo averlo messo in manette.
Rimasto solo con Stella, Mac prese il fascicolo chiuso sul tavolo.
- Il caso più veloce della mia carriera. - Commentò provando a ironizzare.
Lei gli sorrise. - Potrai raccontarlo a tuo figlio. - Disse sentendosi strana nel pronunciare quelle parole riferite a lui. Si guardarono capendo di provare entrambi la stessa sensazione di alienazione.
- … È strano anche per me pensarlo. - Sorrise. - Dobbiamo ancora metabolizzare la notizia. Tutti quanti. -
Stella ricambiò il sorriso, appoggiandogli poi una mano sul braccio sinistro.
- Non vedo l’ora. -

Dopo aver lanciato un’ultima occhiata all’agente che scortava l’uomo in manette, Mac scese in obitorio per vedere come procedeva la valutazione di Quinn.
Superata la vetrata subito dopo la porta, intravide Peyton impegnata ad esaminare un corpo in fondo alla sala, mentre Quinn, qualche metro più distante, scriveva di tanto in tanto degli appunti sul proprio foglio. Taylor raggiunse la collega in pochi passi.
- Ciao. Come va? - Lei si girò sussultando non appena riconobbe la voce del detective. Era più forte di lei, le avrebbe fatto quell’effetto per sempre.
- Mac! - Le sfuggì un sorriso sollevato nel vederlo sano e salvo. - Dovresti prenderti qualche giorno di riposo. - Gli suggerì tentando di nascondere il velo di preoccupazione. Era arrivata anche a lei la voce che gli avessero sparato, e dire che si fosse preoccupata era un eufemismo.
- Non è poi così grave, mi hanno ricucito senza complicazioni. - Minimizzò come sempre.
- Sei il solito! … - Sorrise in un modo inequivocabile che Mac colse subito. Era abituato a quell’atteggiamento, ci aveva avuto a che fare per anni, ma decise semplicemente di ignorare. - A volte mi domando se tu non sia fatto d’acciaio! -
Lui sorrise divertito. - Mi sarebbe piaciuto esserlo quando mi hanno sparato, almeno mi sarei evitato la sutura. - Si guardarono negli occhi, in quelli di lei era chiara l’attrazione che avesse nei confronti del detective. - Per il resto? Come prosegue la valutazione? -
Quinn abbassò lo sguardo sulla cartelletta che teneva in mano, dando un rapido sguardo a tutto quello che aveva scritto fino a quel momento.
- Molto bene, non c’è nulla da dire. È professionale, precisa, metodica… Controlla le cose tre volte, mi ricorda qualcuno. - Gli lanciò un’occhiata divertita che trafisse Mac da parte a parte. - La supererà a pieni voti. Avevi ragione. -
- Mac? - La voce di Peyton li interruppe, costringendo entrambi a girarsi nella sua direzione. - Posso parlarti un momento? -
- Certo. Dammi un minuto. - Disse voltandosi verso Quinn, poi seguì la compagna poco più in là.
- Ha confessato? - Gli chiese lei una volta in disparte.
Taylor annuì. - Sì, lo stanno già portando via. - Peyton tirò un sospiro di sollievo, rincuorata dal fatto che un altro pazzo fosse stato tolto dalla circolazione.
- … Stasera casa mia o casa tua? - Lo guardò con un leggero disagio. Sapeva bene quanto lui fosse restio a parlare di fatti privati sul luogo di lavoro, ma era stato più forte di lei.
Il detective rimase in silenzio per qualche secondo, tentando con tutto se stesso di mascherare un sorriso.
- Non è molto professionale, dottoressa Driscoll. Stavamo parlando di lavoro. - Lei scostò lo sguardo altrove, facendolo vagare tra i lettini e alcuni scaffali oltre la figura dell’uomo.
- Lo so, è che sono preoccupata per te. Ti hanno sparato e non voglio che tu rimanga solo stanotte. - Tornò a guardarlo negli occhi accorgendosi che lui non le aveva mai tolto lo sguardo di dosso. Si sentì arrossire.
- … Facciamo da me, lì ho tutto l’occorrente per disinfettare la ferita. Chiamami se stai male, io torno in laboratorio. - Lei sorrise intenerita. L’aveva chiamato perché era preoccupata per lui, e alla fine era stato lui ad essersi dimostrato in pensiero per lei. Avrebbe voluto dargli almeno una carezza sulla guancia, ma sentiva gli occhi di Quinn perforarle la schiena.
Senza aggiungere altro Mac la superò, facendo poi un cenno di saluto all’altra donna. Prima di rimettersi a lavorare Peyton gli lanciò un’ultima occhiata, osservandolo mentre camminava con il suo solito portamento elegante oltre la vetrata che divideva l’entrata. Il rumore dei tacchi le fece intuire che Quinn si stesse avvicinando mentre lei, tranquilla, si era già riabbassata sul corpo per proseguire con il proprio lavoro.
- Ti piace, vero? - Quella domanda a bruciapelo lasciò l’inglese di sasso. Deglutì a vuoto provando a cercare una risposta sensata da darle, ma qualunque cosa le sembrava fuori luogo, scontata, inutile. Era come se lei avesse già capito, e infatti l’anticipò. - Si vede da come lo guardi. -
Peyton, ormai spalle al muro, alzò lo sguardo su Quinn. - Ah sì? Beh, Mac è un uomo notevole. -
L’altra sorrise, sistemando la cartelletta tra le mani e alzando un sopracciglio. La conversazione stava prendendo una piega interessante.
- Cosa intendi per notevole? - Indagò.
Peyton scosse le spalle mentre si apprestava a ricucire il corpo steso sul lettino, non trovando grandi difficoltà nel dare aggettivi a uno come Taylor.
- Ha molti pregi: è un uomo buono, coraggioso, elegante, intelligente, attento. -
Quinn sorrise. - Sì, non c’è che dire. Ti piace proprio. -
- Piace anche a te, vero? - Fu Peyton a lasciarla senza parole con quella domanda. L’aveva capito anche lei, aveva capito che tra i due c’era stato qualcosa, quindi perché non cogliere l’occasione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa?
Si guardarono per alcuni secondi e Quinn sorrise, scoprendo i denti bianchissimi.
- Siamo due attente osservatrici. Colpevole! - Ironizzò. - Non ti nascondo che abbiamo flirtato parecchio anni fa. -
- E lo fate ancora? - Chiese istintivamente Peyton.
- No, tranquilla. - Replicò con onestà. Sapeva bene di non avere alcuna possibilità con Mac, ma se lui aveva una storia con quella donna, le sembrò semplicemente cattiveria gratuita metterle strane idee in testa. - Ormai è acqua passata. Sono io che provo ancora qualcosa per lui. Anzi, è sempre stato così, in realtà. - Peyton fece per dire qualcosa, ma Quinn abbassò lo sguardo sul foglio per non farle vedere gli occhi lucidi.
Decise di rimanere in silenzio, attendendo che fosse lei a riprendere la parola.
- … Ci siamo dati solo un bacio. Uno solo, ma lui era sposato. - La guardò senza vergognarsi dei ricordi. - Da quel giorno mi ha ripetuto così tante volte che era stato uno sbaglio e che amava sua moglie, che ho iniziato ad odiare quelle parole… Sicuramente tu sarai più fortunata. -
Peyton la guardò in silenzio, intuendo quanto dovesse aver sofferto per il rifiuto di Mac.
- Quindi lui non ti ha mai ricambiata? - Ebbe il coraggio di domandare dopo poco.
- Non credo, o penso che avrebbe provato a cercarmi una volta libero... - Ammise.
- E allora perché ti avrebbe baciata? - Domanda legittima.
Quinn sospirò. - Sono stata io, in realtà. Lui avrà ricambiato per quanto, un secondo? - Abbassò lo sguardo sentendosi tremendamente sciocca. A parlarne con un’estranea, alla luce dei fatti era palese che Taylor non ricambiasse, quindi perché insistere? Eppure non riusciva. Non riusciva a staccarsi da quel pensiero che forse, un giorno, lui avrebbe cambiato idea.
- E tu a lui piaci? - Domandò trovando la forza di rialzare lo sguardo.
Peyton chiuse l’ennesimo punto sul petto del corpo, dando poi un’occhiata a Quinn.
- Penso proprio di sì. Aspetto suo figlio. - L’altra sgranò gli occhi, non riuscendo a trattenere una smorfia di estremo stupore.
- Ecco… Ecco perché stavi male! Sei incinta! - Rise incredula scuotendo la testa. - Santo cielo, già me lo vedo a trattare con un bimbetto che non vuole mangiare le verdure o che non vuole andare a dormire! -
Peyton non trattenne una risata divertita. Era uno scenario decisamente probabile e immaginare il detective alle prese con un bambino era forse una delle cose più comiche che potesse vedere.
- Devo sperare che prenda da lui, allora. -

La mattina dopo Mac Taylor era operativo come se non avesse un foro di proiettile appena ricucito, e alle 7:40 AM era già sulla scena di un corpo ritrovato in un posteggio che si affacciava su Richards St, vicino a Coffey Park. Di fronte a lui Peyton stava già analizzando il corpo e quando lo vide si limitò a sorridergli senza rimproverargli che fosse in servizio. Guardandosi intorno vide solamente Stella oltre loro, notando la strana assenza di Don.
- Ciao. - Disse rivolto ad entrambe e fermandosi accanto al corpo. - Notizie di Flack? Pensavo di trovarlo qui. -
Stella, impegnata poco più in là nell’analizzare il terreno, alzò lo sguardo sul detective.
- Non saprei, non lo vedo da ieri sera. -
- Hai provato a chiamarlo? - Domandò con una punta di preoccupazione.
- Sì. L’ultima volta che ho provato è stato prima di venire qui, ma il telefono è staccato. -
Il detective annuì guardando l'uomo a terra. - D’accordo. Ci penserò io. -
Rimasero in silenzio per qualche secondo, poi Mac si abbassò accanto a Peyton, che nel frattempo aveva estratto il termometro dal fegato della vittima.
- Causa della morte: colpo d’arma da fuoco. Gli hanno sparato minimo dieci colpi, sembra un’arma automatica. L’ora della morte risale indicativamente a 6 o 8 ore fa. - Spiegò lei guardandolo. Taylor non disse nulla mentre infilava i guanti, scostando poi il colletto della giacca dell’uomo e notando il collo privo di segni. Gli aprì poi un occhio per assicurarsi che non ci fosse emorragia petecchiale, e non c’era. Ebbe quindi la conferma che gli spari non erano un modo per coprire la vera causa della morte.
Notò solo in quel momento il portafoglio spuntare dalla tasca destra dei jeans, quindi lo prese, aprendolo. Dentro c’erano un centinaio di dollari, una carta di credito American Express e tutti i documenti. Da una tasca secondaria spuntava una fotografia e Taylor la sfilò. Una donna dai capelli lunghi e castani sorrideva verso l’obiettivo, con lei un bambino di non più di un anno.
- Non cerchiamo un ladro. La vittima si chiamava Jason Climb, 29 anni. - Parlò ancora Mac controllando i documenti dell’uomo. Dopo averlo messo in una busta di plastica tornò a controllare il corpo, notando che l’incisivo superiore sinistro era scheggiato.
Prese la torcia per illuminare meglio. - Cerchiamo eventuali bossoli e tracce che possano indicare che l’assassino si sia ferito. Sembra che qualcuno volesse regolare i conti, quest’uomo è pieno di contusioni e ferite da difesa, magari è riuscito a graffiare chi l’ha ucciso. -
- D’accordo. - Rispose Stella, mentre Peyton si alzava pronta a tornare in obitorio insieme al corpo.

Un’ora dopo Mac varcò la soglia del proprio ufficio non avendo minimamente dimenticato la strana assenza di Flack. Dopo aver appeso la giacca all’appendiabiti si arrotolò le maniche della camicia nera fino ai gomiti, provando nuovamente a telefonare a Don.
Spento. Imprecò a denti stretti, prendendo nuovamente la direzione dell’ascensore nonostante fosse arrivato da meno di un minuto. Una volta sceso al piano delle scrivanie dove quotidianamente faceva interrogatori si guardò rapidamente intorno sperando di trovarlo sulla sua solita sedia, ma come si aspettava trovò la postazione vuota.
Un poliziotto di alto rango si fermò dietro il detective bloccandogli ogni via di fuga.
- Taylor. - Mac trattenne un sussulto, voltandosi e sfoggiando un sorriso di circostanza falso come una banconota da tre dollari.
- Tenente Saith. - Rispose lui.
- Stava cercando qualcuno? - Domandò con astuzia l’agente, ma il detective era abituato a sguazzare in quell’acquario di squali, e aveva la risposta pronta.
- Sì, proprio lei. Ha due minuti? -
- Anche cinque. Mi dica, detective. Si tratta di Flack? -
Mac rimase qualche attimo interdetto, poi annuì. - Esatto. Mi ha riferito di non stare molto bene oggi, quindi gli ho dato la giornata libera. Spero non sia un problema per lei. - Infilò le mani nelle tasche dei pantaloni per ostentare sicurezza. Sapeva che i poliziotti erano addestrati a leggere il linguaggio del corpo, quindi perché non utilizzarlo di proposito a proprio vantaggio.
Il tenente annuì, probabilmente fingendo di credere alle parole di Taylor.
- Certo che no. Lei è sicuro di voler garantire per Flack? - Domandò il tenente.
- Certo. - Rispose Mac senza esitare. - Lui l’avrebbe fatto per me. - Si scambiarono un’occhiata strana, in cui il detective percepì un fondo di preoccupazione per Don, perché chiaramente non aveva ancora elaborato la perdita di Jessica.
Mentre risaliva al piano del laboratorio non riusciva a fare a meno di sperare che non si fosse cacciato nei guai.
Una volta arrivato al piano del proprio ufficio, Taylor andò a passo spedito da Adam, trovandolo attaccato a uno dei computer a smanettare sui dati del caso di quella mattina.
- Ah, capo! - Esclamò lui vedendolo. - Ho messo le impronte della vittima nell’afis e… -
- Non sono qui per il caso, Adam. - Lo fermò Mac. L’altro lo guardò sorpreso, non aspettandosi una risposta del genere. - Voglio che triangoli il cellulare di Flack, e appena hai un risultato devi avvisarmi. -
La sua espressione non lasciava dubbi: non stava scherzando. Adam annuì senza fare troppe domande, certo che se il capo gli avesse chiesto una cosa del genere doveva avere i suoi buoni motivi. Lo guardò lasciare la stanza a passo spedito, probabilmente diretto verso il proprio ufficio.
Fu lì che si diresse infatti, mentalmente stanco già alle 10:12 AM. Iniziò a guardare i documenti sulla scrivania che probabilmente gli fecero perdere la cognizione del tempo, perché venne destato solamente da Stella che, con tre tocchi sulla porta di vetro, lo costrinse ad alzare lo sguardo.
- Posso? - Domandò vedendolo occupato.
Lui le fece un cenno con il capo. - Certo, entra pure. -
Bonasera si fece avanti, arrivando fino alle poltrone di fronte alla scrivania.
- Ho parlato con la moglie. Mi ha detto che, prima di sposarla, Jason era stato in carcere dieci anni. Ultimamente stava mettendo la testa a posto, Mac… Specialmente per lei e il bambino. Ha detto che della gente è venuta a cercarlo. -
- Dici per riportarlo nel giro della malavita? -
- Non lo sa. - Sospirò Stella. - Dice che Jason non voleva coinvolgerla. -
Mac annuì. - Se fosse vero sarebbe comprensibile. E se le avesse mentito? - Si avvicinò rapidamente alla tastiera del computer e digitò il nome dell’uomo sul database. - Jason Climb: arrestato per spaccio e sparatoria. Un bel tipo, insomma. - Le lanciò un’occhiata.
Lei alzò le sopracciglia. - Già. Vedo se Danny ha scoperto qualcosa dai proiettili e ti faccio sapere. Tu hai notizie di Flack? - Chiese preoccupata.
Mac sospirò. - Ho chiesto ad Adam di triangolare il suo cellulare. Ti chiedo il favore di sostituirmi durante la mia assenza. -
- Vuoi andare da solo? -
- Sì. - La guardò negli occhi. - Credo di essere quello che lo capisce meglio di tutti. -
Stella annuì pensando che avesse ragione. - D’accordo, ma fai attenzione. -

 

To be continued...

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Capitolo 28
*** Capitolo XXVIII ***


Capitolo XXVIII

Non passò molto tempo prima che Adam riuscisse a rintracciare Flack. La posizione risultava nel Bronx, in quella che Mac riconobbe come la casa di Terrence Davis, un ragazzo che da qualche tempo era l’informatore di Don su alcuni traffici in città.
Uscì in fretta dopo aver avvisato solamente Stella, salendo poi sul suv con mille domande in testa. Si rese conto solo in quel momento che, in quelle settimane, aveva fatto molti errori con Don. Gli stessi che tutti quanti avevano fatto con lui quando era morta Claire. La loro abilità nel mascherare il dolore aveva fatto credere agli altri che stessero bene, senza far trapelare che, in realtà, soffrivano esattamente come il primo giorno. Mac strinse il volante sentendosi in colpa. Non era stato un buon amico per Flack ultimamente, e non si sarebbe perdonato se gli fosse successo qualcosa per colpa della sua superficialità. Don era uno dei suoi più cari amici, chi se non lui avrebbe potuto e dovuto stargli accanto in quel momento così delicato?
Sbuffò svoltando in una stradina secondaria, posteggiando lì l’auto per evitare di lasciarla in bella vista vicino al marciapiede. Una volta sceso coprì attentamente pistola e distintivo con il cappotto, sarebbe stato folle farsi identificare come poliziotto in quella zona. Raggiunse la casa di Terrence a passo spedito, dopodichè bussò due volte. Il ragazzo aprì leggermente la porta dopo poco, sbirciando con timore dall’interno.
- Terrence Davis? - Domandò Mac.
- Chi vuole saperlo? -
- Detective Taylor, sono un amico di Flack. So che è qui. - L’uomo lo squadrò da capo a piedi per qualche secondo, poi aprì totalmente la porta per farlo entrare.
- Non ci avete messo tanto a scoprirlo. - Commentò richiudendola.
Taylor entrò tenendo le mani nella tasca del cappotto. - No. Voglio solo sapere se sta bene. -
- Sta bene. - Lo rassicurò Terrence. - Ha solo preso una botta in testa. Era ubriaco marcio, è stato fortunato che fossi lì. -
Il detective lo guardò negli occhi. - Ti ringrazio per essere intervenuto. Posso parlargli? -
L’altro gli indicò il bagno con un cenno della mano. - Avete cinque minuti. -
Mac girò lo sguardo verso la stanza, mentre la porta d'ingresso si richiudeva dietro le spalle di Terrence. Sentì l’acqua scorrere e poi chiudersi, e rimase in silenzio pensando a quello che avrebbe detto a Flack per spronarlo, per scusarsi, per fargli passare il dolore che lo stava facendo sbandare in quel modo.
Don uscì ignaro di trovarsi davanti Taylor, e lo sguardo che si scambiarono fu piuttosto freddo.
- Mac?... Cosa ci fai qui? -
- Secondo te? -
Flack allargò le braccia, avanzando di un paio di passi e avvicinandosi all’amico.
- Sapere cosa ci faccio qui, immagino. -
- No. Sapere cos’hai. - Mac lo guardò negli occhi cercando di capire cosa gli passasse in testa, ma il viso di Don era solamente stanco e segnato dai postumi della sbornia.
- Non ho niente, puoi tornare in laboratorio se era questa la tua preoccupazione. -
- Non mentirmi! - Sbottò il detective, avvicinandosi di due passi. - Cosa dovrei fare, lasciarti stare? Lasciarti libero di ubriacarti e non presentarti al lavoro? Ti ho coperto io per oggi. -
Si guardarono negli occhi e Don non ebbe il coraggio di dire nulla. Mac aveva ragione su tutti i fronti, ma era più forte di lui.
- Puzzi di birra, Flack. - Continuò Taylor. - E sono solo le 11:00 AM. -
L’altro sospirò cambiando totalmente espressione. - Mac… Io… Mi dispiace, okay? Avrei dovuto avvisare che non sarei venuto in ufficio. E non potevo prevedere che mi avrebbero aggredito nella metropolitana. -
- Il problema non è l’aggressione, Flack! - Rispose il detective. - Il problema è che da stamattina ti sei scolato quante birre? Quattro? Cinque? Cosa speri di risolvere facendo così? Non riporterai in vita Jessica in questo modo. -
Gli occhi di Don si riempirono di lacrime e Mac capì perfettamente lo sforzo che stava facendo per non scoppiare a piangere davanti a lui.
- … Io lo so cosa si prova. Vuoi che sia sincero con te? - Lo guardò negli occhi, mentre Flack serrava i denti per trattenere il nodo in gola. - Non passerà. Non passerà mai. Se speri che con il tempo ti dimenticherai di lei, non accadrà. Ci saranno solamente giorni in cui semplicemente non ci penserai, ma è una ferita che non guarirà mai! Hai capito? Mai! E prima accetti che dovrai convivere con questo dolore, prima riuscirai a superarlo. -
Per un attimo Mac si pentì di aver usato un tono così forte, ma in cuor suo sperava di scuotere l’anima di Flack per farlo uscire da quello stato di trance in cui era entrato.
Don continuava a fissarlo con sguardo spento, senza energia, solamente le lacrime che rendevano i suoi occhi azzurri più brillanti del solito.
- Se fossi arrivato cinque minuti prima, forse… - Sussurrò solamente, ma si fermò sentendo la voce rompersi per il pianto che a stento riusciva a trattenere.
Taylor deglutì. - Io ero al telefono con Claire quando è morta. Ci sono passato prima di te, farti le paranoie su quello che avresti potuto fare non cambierà nulla, continuerai a soffrire lo stesso. Questo atteggiamento non lo allevierà, quindi riprenditi, vieni al lavoro e vai avanti. È l’unica cosa che puoi fare… -
Flack alzò lo sguardo al soffitto nella speranza di cacciare indietro le lacrime, ma non funzionò e una risata nervosa sfuggì al suo controllo.
- Mi manca terribilmente. - Ammise senza guardarlo. - Tu almeno avrai un figlio. -
Mac aggrottò le sopracciglia. - Questo non cambierà le cose, Flack. Se credi che Peyton possa cancellare Claire sei fuori strada. E lo stesso sarà per te quando troverai un’altra persona. Puoi solo andare avanti, ma niente cancellerà né Jessica né Claire. Niente. -
Don annuì infilando le mani in tasca, mentre una lacrima gli solcava la guancia sinistra. Se la asciugò rapidamente, detestando sembrare così debole di fronte a Mac, così incapace di saper gestire i suoi sentimenti nonostante fosse un poliziotto avvezzo alla morte.
- Sfogati. - Gli suggerì il detective. - Più ti trattieni, peggio è. - Ironico dirlo da parte sua, che non era riuscito a versare neanche una lacrima da quel maledetto giorno.
Flack avrebbe voluto rispondere, ma si limitò a scuotere la testa abbassandola, consapevole di non riuscire più a trattenere le lacrime che, silenziose, avevano iniziato a bagnargli il viso. Istintivamente Mac lo afferrò per la maglia, attirandolo più vicino a sé per abbracciarlo. Stretto tra le braccia dell’amico, Don pianse tutte le lacrime che non era riuscito più a versare uscito dall’ospedale, mentre Taylor si pentì di non averlo fatto prima. Non avrebbe saputo descrivere a parole il bene che voleva a Flack e si sentì male all’idea di averlo lasciato solo nel momento del bisogno.
I
stintivamente strinse la mano che teneva all’altezza della spalla, stropicciandogli la camicia. Non seppe dire quanto rimasero abbracciati, ma Taylor attese che a staccarsi per primo fosse Flack, temendo che altrimenti lui avesse potuto pensare di essere un peso.
- Grazie, Mac… - Disse asciugandosi gli occhi con una mano.
- No… Avremmo dovuto fare questo discorso tempo fa. - Lo guardò negli occhi. - A me non lo fece nessuno. - Sorrise tristemente.
Don gli diede una pacca amichevole sul braccio. - Non fa niente. Sono stato io l’idiota. Potevo semplicemente parlartene, avresti capito. -
Mac sorrise, Flack aveva ragione. - Ti dò uno strappo a casa. Ti ho fatto segnare il giorno libero. -

Quando Mac si assicurò di vedere Flack entrare in casa, ripartì in direzione del laboratorio. Si sentiva strano, con un mattone all’altezza del petto che gli impediva di respirare ogni volta che pensava al bambino che sarebbe arrivato in pochi mesi. Era contento, sapeva di esserlo perché quando Peyton gli aveva detto di essere incinta gli si era fermato il cuore dalla gioia, ma aveva paura di andare avanti.
Era consapevole che non avrebbe mai dimenticato Claire, pensava davvero le cose che aveva detto a Flack, ma avere un figlio da un’altra donna significava accettare di andare avanti del tutto. Non si trattava più solamente di essersi innamorato di Peyton, ma di avere una famiglia. Una famiglia a tutti gli effetti senza Claire, e questo lo mandò in crisi. Pensò di non essere pronto ad affrontare tutto questo, a vivere un cambiamento così radicale, a voltare pagina e scrivere tutto da capo. Pensò che fosse assurdo, di conseguenza si sentiva in colpa anche nei confronti del bambino, che avrebbe meritato solamente un’attesa felice da parte sua, e non rimorsi. Sospirò girando il volante e provando a convincersi che non ci fosse nulla di male in quello che gli stava accadendo. Lo sapeva, razionalmente lo sapeva, ma non riusciva a farsi passare quel senso di ansia che lo stringeva alla gola.
Quando tornò in laboratorio, non fece in tempo a fare cinque passi che Danny arrivò da dietro correndo.
- Mac! Ho delle novità. - Taylor si girò, vedendo Messer con dei fogli in mano.
- Ho analizzato i residui che abbiamo trovato sotto le unghie, c’era del DNA, così l’ho inserito nel codis e boom, corrisponde ad un certo Kevin Morgan. -
Il detective annuì provando a ricostruire i fatti.
- Quindi probabilmente Kevin e Jason hanno parlato, l’intenzione era quella di riportare Jason nel giro, ma lui non voleva perché aveva una moglie e un figlio. Hanno discusso, ma la lite è degenerata. -
Danny allargò le braccia mentre Sheldon li affiancò qualche secondo dopo.
- Mac, ho i risultati dell’ibis: i bossoli rinvenuti sulla scena corrispondono ad un AK47. -
Mac corrugò la fronte. - Un AK? Come fa una persona a girare con un fucile e non essere vista da nessuno? -
Hawkes alzò le spalle. - Andiamo a chiederglielo? -
- Mi procuro il mandato. - Disse Taylor allontanandosi.
Dopo aver telefonato al procuratore, il detective continuò a consultare i documenti che aveva sulla scrivania, svolgendo con precisione i propri compiti burocratici. Stella lo raggiunse una ventina di minuti dopo, stringendo in mano due bicchieri di caffè caldo. Uno dei due finì sulla scrivania di Mac.
- Grazie. - Disse solamente lui fermandosi e bevendone un sorso.
Lei gli sorrise. - Hai parlato con Flack? -
Il detective annuì. - Sì. L’ho accompagnato a casa, domani tornerà in servizio. - Sospirò capendo che lei voleva sapere come fosse andata. - Sta relativamente bene, era scosso per Jessica. -
Lei bevve un sorso di caffè. - È un bene che abbia parlato con te, io non avrei saputo cosa dirgli. Tu invece cos’hai? Ti vedo un po’ giù. -
Taylor la guardò non capendo. - Nulla, dev’essere ancora la preoccupazione per Flack. Non credo che un giorno di riposo possa rimetterlo in sesto, ma probabilmente venire in ufficio potrebbe distrarlo. Quindi non saprei neanche cosa consigliargli. -
Lei lo guardò intensamente, indecisa se credergli o meno. Era sempre stata brava a leggere tra le righe, complici anche gli occhi del detective che parlavano per lui.
- Eppure dovresti sapere cosa dirgli, e credo proprio che tu l’abbia fatto. Quindi dimmi cos’hai. -
- Non l’ho fatto, Stella. - Scosse la testa. - Ognuno vive il lutto a modo proprio, il mio modo di affrontarlo potrebbe non funzionare con lui. -
Lei annuì non totalmente convinta della spiegazione datagli da Mac. Era sicura ci fosse dell’altro, ma per il momento decise di non insistere oltre.
- Avvisami quando hai il mandato, vengo con te se non hai nulla in contrario. -
Taylor le fece un cenno con la mano. - Va bene. -

- Kevin Morgan? Polizia di New York, apri la porta. - Mac bussò due volte, Stella accanto a lui aveva già la mano pronta sulla fondina. Le precauzioni non servirono perché la porta si aprì poco dopo, ma l’immagine di Mac steso a terra e il sangue che gli imbrattava la camicia era difficile da dimenticare.
- Cosa volete? - Domandò da dietro la porta. La catenella di sicurezza gli permise di aprirla solo di dieci centimetri, il giusto che bastava per poter comunicare con l’esterno.
- Farti qualche domanda. - Rispose Taylor sperando nella sua collaborazione. L’uomo li squadrò per qualche secondo, chiudendo poi la porta per togliere la catena. Lo sentirono armeggiare col metallo e con la serratura.
Li guardò male quando lui e Stella varcarono la porta. Quel Kevin era un tizio mulatto dall’aspetto decisamente poco raccomandabile. Sul fascicolo che avevano nel database c’era scritto che avesse trentun anni, ma a vederlo ne dimostrava almeno una decina di più. Le treccine spettinate gli davano un’aria sciatta e i denti tutt’altro che sani aiutavano a dargli un quadro piuttosto disastrato. L’unica cosa che sembrava fosse leggermente più curata era la barba, ma scompariva in mezzo a tutto il resto.
- Ehi, non potete senza un mandato. - Si lamentò, ma Mac fu tempestivo nel tirare fuori il foglio dalla tasca interna della giacca. Kevin sbuffò non potendo fare altro che arrendersi di fronte al pezzo di carta.
- Conosci quest’uomo? - Il detective tirò fuori un altro foglio, mostrandogli la fotografia di Jason. L’altro rimase impassibile.
- No, chi sarebbe? -
Taylor decise di tagliare corto. - Davvero? Strano, perché lo abbiamo trovato stamattina con dei colpi di AK in tutto il corpo, e indovina? C’era il tuo DNA sotto le sue unghie. Quindi ti rifaccio la domanda: conosci quest’uomo? - L’espressione di Mac lasciava intendere che non avrebbe ammesso altre menzogne.
Kevin non disse nulla, non sapendo se credere alla storia del DNA o se pensare che fosse un bluff dell’agente per farlo confessare. I due si scrutarono per qualche secondo, quindi Mac prese nuovamente l’iniziativa.
- Ascolta, Kevin. Le prove portano a te. Non abbiamo ancora trovato l’arma con cui è stato ucciso Jason, ma tu sei il primo indiziato. Quindi o mi dai una spiegazione valida, o un alibi quantomeno credibile, se lo hai, o ci metto meno di un minuto a metterti le manette. -
- D’accordo, d’accordo! - Cedette capendo di non poter fare altro. - Volevo che rientrasse nel giro, ma lui era fissato con sua moglie e suo figlio e ha rifiutato. - Il detective lo fissò in silenzio, facendogli capire con lo sguardo che una spiegazione del genere non sarebbe bastata.
- Che c’è? Non l’ho ammazzato! Gli ho dato un paio di pugni perché mi ha fatto incazzare, ma era vivo quando me ne sono andato. Era inutile discutere con uno come lui, non avrebbe cambiato idea. -
Taylor scosse la testa. - Io, invece, credo che le cose ti siano sfuggite di mano. - Insinuò.
- No! -
- Allora spiegami chi altro potesse volerlo morto a parte te! -
Kevin esitò qualche secondo. - Non ne ho idea! -
- Beh, fattela venire in fretta, come ti ho detto sei il nostro primo indiziato. Il procuratore non aspetta altro che vedere l’arresto di un sospettato. - Mac lanciò il proprio amo nella speranza che l’altro abboccasse. Era l’ennesima guerra psicologica che il detective decideva di affrontare, ma in un primo momento sembrò non funzionare. Kevin deglutì senza spiccicare parola, e dopo aver lanciato un’occhiata a Stella, Mac guardò scocciato l’orologio che portava sempre al polso sinistro.
- D’accordo, hai fatto la tua scelta. Non abbiamo tutto il giorno. -
- Va bene! - Disse improvvisamente, capendo di essere stato messo alle strette. Fece addirittura un passo indietro per prendere le distanze da Taylor. - Va bene! Ma voglio protezione. Se scoprono che ho parlato sono un uomo morto! -
- Protezione? - Ripeté Mac. - Prima dammi un nome. Se giudicherò valida la tua informazione, allora avrai un accordo come informatore della polizia. -
Kevin esitò ancora, ma ormai era tardi per tirarsi indietro.
- Shein Mcdual. -
- E chi sarebbe? - Domandò severo.
L’altro sospirò. - Il capo. Voleva che Jason tornasse nonostante fosse uscito da poco, invece lui si è trovato un lavoro e una donna. Shein ha sempre provato a convincerlo, ma lui non voleva sentire ragioni. Così ieri ha mandato me. - Spiegò Kevin.
- Avevi l’ordine di ammazzarlo? - Chiese Taylor.
- Dovevo dargli un ultimatum. - Precisò l’uomo. - Se non fosse tornato nel giro, l’obiettivo sarebbero stati il figlio e la moglie. Quando gli ho detto così è stato lui ad aggredirmi. -
Mac fece una smorfia. - Che uomini d’onore. Ma ancora non riesco a capire come sia morto se dovevi solamente dargli un ultimatum. - Insinuò ancora Mac.
- Non lo so! Quando me ne sono andato era vivo! - Sbottò Kevin.
- L’indirizzo di questo Shein? -
- Cristo, volete proprio farmi ammazzare. -

 

To be continued...

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Capitolo 29
*** Capitolo XXIX ***


Capitolo XXIX

- Quell’uomo è terrorizzato, Mac. Parlare deve essergli costato molto. - Disse Stella una volta usciti. Taylor si mise alla guida non potendo non essere d’accordo con la collega, Kevin era palesemente spaventato, per questo il detective aveva apprezzato la collaborazione, promettendo a se stesso che avrebbe mantenuto la parola sull’accordo di protezione.
- Me ne sono accorto anch’io. - Disse mettendo in moto. - Infatti vorrei agire subito, prima che questo Shein possa organizzare una contromossa. - Mentre guidava la cintura gli sfregava sulla ferita e con un gesto stizzito, il detective la spostò nella speranza di trovare un po’ di sollievo.
A Stella non sfuggì, beccandolo mentre non tratteneva una smorfia di dolore.
- Come va la spalla? - Chiese con un filo di preoccupazione.
Capendo di essere stato beccato, Mac tornò impassibile come sempre, ringraziando il cambio automatico del suv che gli permetteva di guidare con una sola mano.
- Mi dà fastidio, ma è sopportabile. La cintura sta mettendo a dura prova i miei nervi. - Ammise girando il volante con la mano aperta.
- Perché non ti prendi un giorno di riposo? - Lo guardò sperando di ricevere un’occhiata da parte del detective. Occhiata che arrivò non appena Taylor raddrizzò l’auto sulla corsia. - Ti hanno sparato, prenditi del tempo. Se un giorno stai a casa con Peyton non succede niente. -
Mac girò di poco il capo. - Lo sai che non posso. - Rispose, tornando poi a fissare la strada.
- O non vuoi? - Lo corresse lei. - Spera solo che tuo figlio sarà più accondiscendente di quanto non lo sia tu. -
Lui sorrise. - Lo so che non vedi l’ora di rinfacciarmelo. Chiama Danny. - Cambiò discorso di punto in bianco. - Digli di organizzare degli uomini, si va nel Bronx. -

Circa un’ora dopo la polizia era appostata intorno all’edificio indicato da Kevin. Erano arrivati a sirene rigorosamente spente e come avevano provato mille volte durante le esercitazioni, le auto erano state posteggiate in modo da bloccare eventuali vie d’uscita con altri veicoli.
Taylor prese un giubbotto antiproiettile dal bagagliaio, sistemando dolorante le spalline per assicurarlo bene al busto. Diede poi una rapida occhiata ai colleghi, che come lui si stavano preparando rapidamente per fare irruzione e approfittando del fatto di essere in disparte, Mac tirò fuori la pistola. Mirò il muro di fronte a sé, tenendo la mano sinistra sotto quella destra in quello che era un tentativo di mira. Voleva capire se fosse in grado di tenere la pistola, ma i punti alla ferita gli tiravano. Pensò che alla peggio avrebbe sparato con una mano sola, il rinculo della pistola non era poi eccessivo e sapeva di riuscire a controllarlo anche con solo la mano destra.
- Sei in grado di muoverti velocemente con quel braccio, Mac? - La voce di Danny lo destò improvvisamente obbligandolo a girarsi nella sua direzione. Il detective abbassò la pistola, rimettendola nella fondina e dando tregua alla ferita che non smetteva di bruciare.
- Stavo cercando di capirlo. - Ammise.
- Se dovessi avere problemi, questa volta stai nelle retrovie. Non rischiare, Mac. A luglio sarai padre, e ti assicuro che tenere fra le braccia il proprio bambino appena nato è un’esperienza che vale la pena di essere vissuta. - Continuò Messer guardandolo negli occhi. Mac sentì il cuore saltargli un battito. Danny aveva ragione, e con parole semplici era riuscito a fargli entrare in testa un concetto tanto scontato che a stento, in quel momento, gli aveva sfiorato la mente.
- Hai ragione. - Disse solamente il detective. - Fai attenzione anche tu. -
Messer sorrise. - Certo, ho tutta l’intenzione di tornare dalla mia principessa stasera. - Gli diede una pacca sulla spalla destra, colpendo di proposito quella sana, poi si allontanò per lasciarlo solo per gli ultimi secondi che gli agenti si stavano prendendo per organizzarsi.
Un minuto dopo la polizia fece irruzione, trovando cinque tizi impegnati a parlare di chissà quale losco affare nel salotto dell’abitazione. Dalla loro c’era l’effetto sorpresa, che contribuì ad evitare che gli altri non sparassero neanche un colpo. Gli agenti riuscirono ad immobilizzarli uno a uno.
Il detective Taylor si sentì sollevato per come si era concluso il blitz, non si sarebbe perdonato il suo mancato intervento se fosse partita una sparatoria e vedendo tutti i presenti ammanettati, abbassò l’arma tornando fuori. Prese un respiro profondo non riuscendo a nascondere lo stress, desiderando con tutto se stesso tornare quello di prima. Non si sentiva utile con una ferita che gli faceva vedere le stelle al primo movimento del braccio sinistro, e l’idea di starsene a casa a guardare la TV per velocizzare la convalescenza non la prese neanche in considerazione.
Riprese posto sul suv mentre gli altri agenti caricavano i sospettati nelle auto, e percependo il suo stato d’animo, Stella lo raggiunse poco dopo sedendosi accanto a lui.
- Come va la spalla? - Chiese soltanto. Aveva notato che Mac, poco prima, aveva tenuto la pistola mirata leggermente più in basso, probabilmente per non sforzare troppo il braccio sinistro.
- Abbastanza bene. - Rispose sinceramente. Non poteva lamentarsi, dopotutto. Era stato ricucito due giorni prima e pretendere di non sentire neanche un po’ di dolore sarebbe stato sciocco da parte sua. Taylor era solamente impaziente di tornare operativo al cento per cento.
- Avete già pensato dove starete? - Stella cambiò argomento senza preavviso con l’intenzione di distrarlo. Mac non colse subito, mettendo però in moto il veicolo per seguire il resto degli agenti in direzione della centrale.
- Cosa? - Replicò lui.
- Tu e Peyton. - Spiegò. - Avete già deciso dove abiterete? Verrà lei da te o cercherete una casa nuova? - Sorrise impaziente di sapere la risposta.
Mac arrossì leggermente. - Non ne abbiamo ancora parlato. C’è ancora tempo per questo. -
Lei non trattenne un sorriso. La verità era che non vedeva l’ora di conoscere quella creaturina che nel giro di qualche mese sarebbe nata. E il solo pensiero che fosse il figlio di Mac la mandava fuori di testa.
- Hai ragione, è che sono in ansia. Sono impaziente di diventare zia. - Ammise. - E quando tu cercherai di metterlo in riga, lui verrà da me. E io ti convincerò a lasciargli fare quello che vuole. Sappilo! - Si girò divertita.
- Non ci pensare neanche. - Replicò serio il detective. - Non intendo passare per quello cattivo per colpa tua. -
Stella lo guardò non riuscendo a togliersi il sorriso dalle labbra.
- Cattivo no, forse autorevole. -
Taylor annuì. Si rispecchiava molto in quella parola: severo quanto bastava, rispettoso delle regole, ma non eccessivo e indisponente.
- So già come andrà a finire: tutti gli sforzi che faremo per educarlo verranno prontamente demoliti da te e Flack. - Rise anche lui. Nonostante i sensi di colpa, non vedeva l’ora di conoscere quel bambino e immaginare come sarebbe cresciuto.
- Mi dichiaro colpevole. - Scherzò Stella. Mac sorrise di rimando prendendo dolcemente una curva, lanciandole poi un’occhiata.

Una volta tornati in centrale, Taylor osservava Shein dallo stanzino adiacente alla sala interrogatori. Da dietro il finto specchio lo scrutava con sguardo serio mentre se ne stava seduto scomposto sulla sedia, in attesa che qualcuno entrasse per torchiarlo, mentre con gli incisivi superiori giocava con un piercing che aveva sul lato destro del labbro inferiore.
Mac si soffermò sul viso dell’uomo, così bianco da sembrare anemico, il pizzetto scuro risaltava ancora di più sulla pelle così chiara. I capelli neri pettinati all’indietro come un mafioso d’altri tempi, aiutati a rimanere in quella posizione probabilmente dal gel, e una spessa catena d’oro di media lunghezza gli cadeva sul petto, appena sopra il colletto della canottiera bianca, come ad ostentare una ricchezza che tutto il resto del suo aspetto contraddiceva.
La porta si aprì alle sue spalle, facendolo voltare verso Flack.
- Li abbiamo schedati tutti. Mi puzzano, ti avviso. - Gli confidò incrociando le braccia al petto.
- Perché? - Domandò perplesso Mac. Don alzò le spalle non sapendo dare una vera e propria spiegazione.
- Non saprei dirti, istinto. Sembrano troppo tranquilli. - Scostò lo sguardo dal vetro per posarlo negli occhi di Taylor. - O sanno di avere le spalle coperte o sono semplicemente stupidi. -
- Ed è quello che ho intenzione di scoprire. - Senza aggiungere altro il detective superò Don, lasciando lo stanzino ed entrando nella stanza degli interrogatori. Flack lo raggiunse pochi secondi dopo, chiudendo la porta e girando lentamente intorno al tavolo come un avvoltoio.
Mac era già seduto di fronte a Shein, che non smetteva di alternare lo sguardo da un detective all’altro. Sembrava che la situazione lo stuzzicasse, si sentiva un leone al centro dell’arena contro due povere gazzelle che speravano di batterlo facendo gioco di squadra. Il problema era che, in realtà, lui era solamente un povero coglione che giocava a fare il braccio di ferro con due poliziotti incazzati, stanchi e tutt’altro che intenzionati a farsi prendere per il culo dal primo scappato di casa che giocava a fare il criminale.
Taylor lo osservò per un minuto abbondante in attesa di qualche sua reazione. Cercò di capire cosa gli frullasse in testa, di interpretare il linguaggio del corpo o qualsiasi altra cosa che avesse potuto tradirlo, ma Don aveva ragione. Shein era tranquillo, quasi a suo agio e Mac iniziò a pensare che fosse fatto di qualche sostanza. Non riusciva a trovare altre spiegazioni che giustificassero quel comportamento.
Stanco di vederlo impassibile, il detective aprì il fascicolo sul tavolo, tirando fuori le foto della scena del crimine e mettendole in modo ordinato di fronte a Shein.
- Che roba è? - Domandò lui.
- Strano che tu me lo chieda. - Replicò Taylor. - Non dirmi che non riconosci Jason. -
- Dovrei? -
- Dovresti, visto che volevi così tanto che tornasse a lavorare per te. -
Shein sorrise schioccando la lingua contro il palato.
- Sai quanti coglioni come lui vedo ogni giorno? Secondo te posso ricordarmi i nomi di tutti? - Disse quasi vantandosi.
- No, ma forse di quelli che ammazzi dovresti, perché se non sei in grado di darmi un alibi finisci in manette. Dov’eri ieri sera? -
L’uomo sorrise scoprendo i denti. - A casa. E se volete un testimone, mi dispiace per voi: non ho idea di come si chiami la gentile signorina che ha passato con me la notte. -
Stanco di quei giochetti, Mac sbatté pesantemente la mano destra sul tavolo. Si staccò quindi dallo schienale della sedia sporgendosi in avanti senza mai staccare gli occhi da quelli dei Shein.
- Basta perdere tempo. Se confessi potrei mettere una buona parola con il giudice e magari non farti dare l’ergastolo. -
- Confessare cosa? Un omicidio che non potete provare e che volete addossare a me? - Ghignò l’uomo. Con un gesto di stizza si aggiustò la collana con i pollici, tirando su col naso e lanciando un’occhiata a Flack, ancora in piedi alla sua destra. Fu proprio Don a parlare.
- Fai meno lo spiritoso, Romeo. In questo momento i miei agenti stanno smantellando casa tua e quella dei tuoi simpatici compagni di giochi. Se l’arma che avete usato per uccidere Jason è in una di queste case, siete fottuti. -
Le ciglia di Shein tremarono per un secondo, Mac Taylor se ne accorse, ma l’uomo riprese immediatamente il controllo. Era indubbiamente bravo a nascondere le proprie emozioni, ma il detective sapeva come avrebbe potuto fregarlo.
- Molto bene, allora. Mani sul tavolo. - Mac incurvò leggermente le labbra verso l’alto in un sorriso che già pregustava la vittoria, mentre Flack infilava le mani nelle tasche dei pantaloni con un’espressione inequivocabilmente soddisfatta.
- Perché? - Chiese Shein con aria riluttante.
- Puoi darci la canottiera, altrimenti. - Proseguì Don, avendo capito perfettamente l’idea del collega. - Non mi sembri un tipo che si fa la doccia ogni giorno, scommetto quello che vuoi che ieri sera avevi quella stessa canotta. -
- E questo che c’entra?! -
- Stub test. - Disse solamente Taylor. - Se hai sparato, troveremo tracce di polvere da sparo sulle tue mani o sulla canottiera. Ti sarai toccato il petto almeno una volta da ieri sera, no? Basta poco a trasferire i residui dalle mani al cotone. -
Shein sbiancò, diventando più pallido di quanto non fosse già, deglutendo a vuoto e sentendo la lingua più secca di un pezzo di legno.
- Mani sul tavolo. - Disse ancora Mac.
- No. No, non voglio. Non potete farlo. -
Don non se lo fece ripetere due volte. Con due falcate andò dietro la sedia dell’uomo e con poco garbo gli afferrò entrambi i polsi, posandoli con un tonfo sul tavolo di alluminio.
- Che cazzo fai?! - Sbottò.
- Possiamo eccome. - Replicò Flack. Taylor ci mise poco a tirare fuori dalla giacca il tampone per il test, passandolo rapidamente su il dorso e il palmo di entrambe le mani.
- Sarai trattenuto fino alla fine delle indagini e, ovviamente, fino ai risultati del test. - E senza aggiungere altro il detective uscì mentre Shein veniva ammanettato e portato via.

Le perquisizioni degli agenti portarono dei risultati. Nelle case di Shein e di un altro tizio arrestato durante la retata, un certo Landolini, vennero trovati degli AK 47 negli armadi con doppiofondo. I due si erano divisi i dieci fucili in parti uguali e, per comodità, Danny iniziò ad analizzare quelli di Shein, mentre Stella quelli ritrovati nell’abitazione di Landolini.
Spararono nella gelatina con tutti e dieci per confrontare le striature dei proiettili, passando poi alle impronte presenti sulle varie armi. Nonostante Shein e Landolini avessero provato a fregarli, le impronte di Shein risultarono su uno dei fucili trovati a casa del complice, e il proiettile sparato come test risultò compatibile con le striature di uno di quelli rinvenuti sulla scena. A confermare il tutto ci pensò il risultato dello stub test, che provò che Shein avesse scaricato otto colpi nel corpo di Jason.
Con sollievo e un leggero dolore alla ferita, Mac Taylor poteva ritenersi soddisfatto di poter mettere tutte le prove e il fascicolo chiuso in uno scatolone e posarlo su uno scaffale del suo ufficio.
Guardò l’orologio, mentre quasi tutte le luci del laboratorio erano già spente: le 9:48 PM. Sospirò massaggiandosi piano la clavicola sinistra.
Prese poi la giacca appesa all’appendiabiti dirigendosi verso l’ascensore.

 

To be continued...

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Capitolo 30
*** Capitolo XXX ***


Capitolo XXX

Passarono poco più di dieci giorni da quando gli avevano sparato e la ferita stava iniziando a dargli meno noie del solito. Il medico aveva tolto i punti a Taylor proprio il giorno prima, ma aveva raccomandato al detective di non sospendere assolutamente la cura di pillole che gli aveva prescritto. Mac, in giro per la città nel suo giorno libero, sospirò più sollevato creando una piccola nuvola di condensa, fermandosi per qualche secondo davanti all’enorme albero di Natale che addobbava il complesso del Rockefeller Center, tra la 50esima e la 5a. Sorrise pensando involontariamente alle parole che Stella gli aveva detto qualche settimana prima: “non c’è niente come il Natale a New York”.
Aveva ragione. Anche se il detective sentiva sempre un peso all’altezza dello stomaco da quando aveva parlato con Flack, non poteva negare a se stesso che ovunque posasse lo sguardo, nonostante non vedesse visi familiari, sentiva uno strano calore nel petto. La città pareva trasformata in quel periodo dell’anno, e a Mac sembrava realmente di vedere più bontà negli occhi degli sconosciuti. Ogni volta, però, sorrideva amaramente dandosi mentalmente dello stupido. Razionalmente sapeva benissimo che non era la neve, l’atmosfera natalizia o una festa che aveva lo scopo di far girare l’economia a cambiare le persone. Eppure, ogni tanto, gli piaceva pensare che tutti gli addobbi e l'aria di festa che si respirava potessero influenzare positivamente gli animi di tutti.
All’ennesimo semaforo rosso per i pedoni diede un’occhiata all’orologio da polso per assicurarsi di non essere in ritardo. Constatò di non esserlo, ma nonostante questo fu uno dei primi ad attraversare le strisce pedonali quando scattò il verde.
Peyton lo stava aspettando a mezzo isolato da lì, all’angolo tra la 42esima e la 5a, sicuramente infreddolita dato che quella notte aveva nevicato parecchio. Le strade erano pulite, ma i marciapiedi erano totalmente imbiancati. La vide ferma all’angolo di fronte a lui, divisi dall’ultimo attraversamento pedonale. Sorrise notando che lei non l’avesse visto tra la folla.
- Ciao. - La salutò quando la raggiunse.
Lei si girò. - Eccoti. - Gli sorrise dolcemente, dandogli poi un bacio e prendendolo sottobraccio.
- Allora? La valigia è pronta? - Chiese mentre iniziarono ad incamminarsi lungo il marciapiede innevato.
- Praticamente sì. Devo solo aggiungere le ultime cose, ma lo farò poco prima di chiuderla. -
Mac annuì. - Alla fine sono stato obbligato a farla anche io. - Iniziò. - È incredibile, ho uno strano rapporto con quella città. -
Lei lo guardò sorpresa, fermandosi. - Verrai anche tu? -
Si fermò anche il detective, girandosi indietro per guardarla. - Non potevo di certo farti andare da sola dopo la notizia che mi hai dato. -
- Guarda che non devi preoccuparti, andrà tutto bene. -
- Ormai ho comprato il biglietto. - Replicò.
Ripresero a camminare. - Mi era parso di capire che non avessi tanta voglia di vedere Londra. -
Lui esitò qualche secondo. - Sono io che associo brutti ricordi a Londra, ma non è poi così male. -
- Sei carino a fare questo sacrificio per me. - Sorrise, sbilanciandosi poi di lato per lasciargli un bacio sulla guancia.
- Non è un sacrificio. - Si girò a lanciarle un’occhiata. - Londra non ha colpe, dopotutto è solo una città. -
Lei sorrise, decidendo di cambiare discorso. - Chissà come reagiranno i miei alla notizia… -
- Non sanno ancora nulla? -
- No. Sanno solamente di noi due, ma ho pensato che sarebbe stato meglio dirgli a voce del bambino. -
Mac concordò, anche se faceva ancora una fatica immensa nell’abituarsi all’idea.
- Reed lo sa? - Domandò ancora Peyton.
- Non ancora, non ho avuto modo di vederlo ultimamente. Lo farò appena possibile. -
Lei fece per rispondere, quando poco più avanti, la voce di una donna attirò l’attenzione di tutti.
- Al ladro! Fermatelo! Mi ha rubato la borsa! - Per deformazione professionale, Mac aguzzò la vista per scorgere il ladro tra la folla. Non faticò molto, complice la fortuna che scelse di far scappare l’uomo proprio nella sua direzione. Taylor attese di averlo vicino prima di afferrarlo con entrambe le mani per la giacca e buttarlo per terra.
- Cazzo! - L’uomo cadde di schiena sul marciapiede, venendo poi preso dalle braccia e girato a pancia in giù con la faccia nella neve sporca. In meno di cinque secondi si ritrovò ammanettato e, mentre tossiva, si sentì sollevare di peso. Una volta in piedi per poco non cadde addosso a Mac, che prontamente lo mise stabile sui suoi piedi.
- Auguri di buon Natale. - Disse il detective Taylor. - Sei riuscito a beccare un poliziotto tra tutta questa gente. -
- Che culo… - Borbottò l’uomo alzando gli occhi al cielo.
Peyton, nel frattempo, aveva raccolto da terra la borsa della signora derubata, mentre la gente intorno si era fermata per guardare la scena.
- L’avete fermato! - La donna arrivò correndo a piccoli passi per non scivolare sulla leggera patina di ghiaccio e, vedendo il ladro ammanettato, capì di essere di fronte alle forze dell’ordine.
- Oh, agente, lei è un angelo! - Poi guardò Peyton che, gentilmente, le stava porgendo la borsa. - Grazie mille, signorina. E tu! Stronzo! - Si avvicinò pericolosamente al tizio ammanettato dandogli una borsettata sulla spalla.
- Ehi! Basta così! - Intervenne Mac facendo allontanare la signora. Poi si diede una rapida occhiata in giro sperando di scorgere tra la folla una pattuglia in servizio, ma con disappunto vide solamente gente impegnata negli ultimi acquisti di Natale.
- Avanti, cammina. - Disse spingendo in avanti l’uomo. Taylor pensò che probabilmente nell’isolato successivo avrebbe trovato dei colleghi, o almeno era quello che si augurava.
- Stavo facendo acquisti natalizi! - Tentò la strada dell’ironia, ma con Mac si rivelò solamente un buco nell’acqua.
- Non ti serviranno nella cella del dipartimento. -
L’uomo sbuffò, notando solo in quel momento che accanto al detective stava camminando anche Peyton. Pensò che probabilmente fossero colleghi. Le lanciò un’occhiata palesemente interessata, cosa che non sfuggì a Mac dato che lo stava scortando.
- Ehi, ciao zuccherino! - Commentò poi a voce alta.
- Mi correggo: cammina in silenzio. - Ribadì il detective venendo, però, totalmente ignorato.
- Bambola, se riesco ad uscire domani ci vediamo? Non ti derubo, promesso. -
Mac lo strattonò, infastidito. - Ho detto in silenzio! -

- Ahia! -
Peyton non trattenne un sorriso di fronte alla reazione del detective.
- Temo di doverti deludere. - Replicò lei alle squallide avances dell’uomo.
La presa di Mac Taylor si strinse sui polsi già ammanettati dell’uomo, mentre con passo spedito lo indirizzava lungo il marciapiede alla ricerca di un paio di agenti. Sconsolato, stava già per mettere mano alla tasca della giacca di pelle per prendere il cellulare e chiedere una pattuglia, ma scorse due agenti in divisa una cinquantina di metri più avanti.
- Detective Taylor. - Disse mostrando il distintivo quando li raggiunse. - Scortatelo in centrale, accusa di tentato furto. -
- Ma certo. - Rispose uno dei due, afferrando poi l’uomo per un braccio. Mac si riprese le manette, sostituite prontamente da quelle del collega.

Quando lui e Peyton rientrarono a casa di Mac un paio d’ore dopo, il cellulare di Taylor trillò per un sms proprio mentre girava la chiave nella serratura. L’altra mano impegnata a tenere un sacchetto con le prime compere per il nascituro. Una volta entrato posò gli acquisti sul tavolo, mentre lei chiudeva la porta con la catenella di sicurezza. Solo allora Mac prese il telefono per vedere chi fosse, sperando non si trattasse di qualche omicidio. Era Reed.
“Ciao, Mac! Credo che ci sia un hacker in circolazione, non riesco più ad accedere al mio blog e, come se non bastasse, la Bank of America ha segnalato un furto di non so quanti milioni dal conto dei clienti”.
Lo lesse un paio di volte per capacitarsi, poi si lasciò sfuggire una risata scettica.
- Stiamo scherzando… -
“Magari è un problema del tuo blog e il fatto della banca è scollegato” gli rispose non dando realmente importanza alla notizia. Il cellulare trillò dopo pochi secondi.
“Non hai guardato il telegiornale?”
“Sono tornato a casa ora. Adesso lo guardo”.
Senza dire nulla raggiunse il salotto, prendendo il telecomando appoggiato sul tavolino tra il divano e il televisore. Accese sul canale dove solitamente, a quell’ora, davano il notiziario.
“... -on è successo più di quaranta minuti fa, migliaia di clienti della Bank of America stanno denunciando bonifici partiti dai propri conti correnti. Non si sa ancora chi sia il beneficiario che sta ricevendo il denaro, ogni IBAN è differente dall’altro, ma il direttore assicura che tutti i tecnici sono impegnati per recuperare fino all’ultimo centesimo. Non sappiamo dire se sia un hacker o qualche altro genere di attacco informatico. Per il momento, la somma rubata ammonta a tre milioni e mezzo di dollari… -
Mac ascoltò in silenzio, la mano che stringeva il telecomando ancora a mezz’aria e le labbra dischiuse, come in procinto di dire qualcosa, ma bloccato dallo stupore.
- Peyton, dove hai il conto? - Chiese all’improvviso senza staccare gli occhi dallo schermo. Lei, ancora ignara del disastro finanziario in atto, era in cucina per decidere cosa avrebbero mangiato per pranzo. Si girò verso di lui, vedendolo bloccato davanti la TV.
- Alla Chase Bank, perché? -
- Hanno rubato tre milioni e mezzo di dollari alla Bank of America. Temono sia un hacker. - Posò nuovamente il telecomando sul tavolo per raggiungerla in cucina. - Anche Reed sta avendo problemi con il suo blog, forse è collegato. - Spiegò iniziando a cambiare idea.
Peyton girò le due fettine di carne, già sul fuoco. - Non c’è che dire, non vi annoiate mai qui a New York. - Sorrise nel sentire le mani di Mac abbracciarla da dietro per poi lasciarle un bacio sul collo.
- Vero, ma finché non ci sono cadaveri non sono affari nostri. - Replicò con calma.
- Hai ragione. Tu che banca hai, invece? -
- Anche io la Chase Bank. - In un gesto d’affetto le posò la mano destra sul ventre ancora piatto, facendo una carezza indiretta a quel bambino così inaspettato ma altrettanto atteso. Lei sorrise appoggiando la schiena al petto del detective, chiudendo gli occhi e godendosi il momento di tranquillità.
Il canale della TV cambiò, togliendo il telegiornale in sottofondo e mettendo un altro canale che comunque parlava dei tre milioni e mezzo rubati. Poco importava su quale canale si sintonizzasse, i discorsi delle trasmissioni erano tutti concentrati sul disastro che aveva colpito migliaia di newyorkesi.
Mac si staccò leggermente da Peyton, voltandosi verso il salotto con aria interrogativa.
- … Un cortocircuito? - Ipotizzò lei, troppo razionale come lui per credere che ci fosse qualche alta motivazione dietro.
- In quel caso si sarebbe spenta. - Il detective tornò davanti alla TV, seguito prontamente da lei, non prima di aver messo il fornello al minimo.
Mac non fece in tempo a prendere il telecomando che il canale cambiò ancora, lasciandolo basito.
- Hai detto che parlavano di hacker, come fa a controllare anche i dispositivi come i televisori? -
Taylor scosse piano la testa, gli occhi piantati sullo schermo mentre il canale tornava sul primo notiziario che aveva messo.
- … -oblemi con i dispositivi elettronici, quindi fate attenzione ai vostri computer, cellulari o televisori. - Spiegò la giornalista.
- Magnifico. - Mac si lasciò cadere sul divano dietro di lui, disarmato. - In laboratorio va tutto ad elettricità. -
Peyton sospirò capendo la gravità della situazione. Non era un loro problema quello della banca, ma se tutto ciò che andava ad elettricità era compromesso, i criminali avrebbero avuto carta bianca fino a che questo pazzo fosse rimasto a piede libero. Stranamente, nonostante i problemi dei dispositivi, il cellulare di Mac squillò ancora.
- Taylor. -
- Mac! - La voce di Danny arrivò a fatica, probabilmente per i disturbi del segnale. - Qua al laboratorio è tutto in tilt. -
- Lo so, sto guardando il telegiornale per quel che riesco. La TV sembra impazzita. - Replicò il detective, rassegnato.
- Quindi anche a casa tua ci sono problemi? -
Taylor sospirò. - Ci sono problemi in tutta New York. Evitate di fare analisi se i macchinari non funzionano come dovrebbero. Rischiate solamente di basarvi su dei risultati falsati. -
- Va bene. Dannazione, Adam! Non potevi specializzarti in hackeraggio? - Lo sentì inveire contro l’amico, probabilmente lì vicino.
- Ehi, questo tizio è un genio, sta facendo rimbalzare il segnale su ogni antenna disponibile in città! - Ed eccolo Adam, in sottofondo, probabilmente esaurito e al quinto caffè della mattinata.
Mac sorrise. - Lavorare così è impossibile. Se non riuscite a risolvere, prendetevi la giornata. Sinclair capirà, mi auguro. Rimanete in servizio come agenti. -
- D’accordo, capo. Ci aggiorniamo. - Chiusero entrambi la chiamata.
Il detective fissò ancora la TV, lanciando poi uno sguardo a Peyton. Non che potessero fare molto, non era il loro campo dopotutto.

Il giorno dopo la situazione, per quanto possibile, peggiorò. O semplicemente Mac la percepì decisamente più in prima persona dato che da una mezz’ora abbondante stava lottando inutilmente contro il computer del suo ufficio. Ad ogni click del mouse gli si aprivano pagine a caso sullo schermo, e più cercava di chiuderle, più ne apparivano. Il detective sapeva bene di aver iniziato a combattere una guerra persa in partenza, ma era più forte di lui.
All’ennesima finestra che gli comparve sul desktop, Mac per poco non lanciò il mouse, spazientito da quel fastidioso quanto efficace metodo per impallargli il computer.
- Mac! - La voce di Flack lo fece girare in direzione della porta. - Devi venire a vedere! -
Taylor sospirò, già esausto alle 8:23 AM. - Che altro c’è? -
- Vieni con me, questa cosa giuro che non me la spiego! - Don sembrava seriamente stupito, e notando gli occhi sgranati dell’amico, Mac non poté resistere alla curiosità che, in fondo, lo aveva stuzzicato. Arrendendosi nella lotta contro il computer, il detective lasciò il posto alla sua scrivania e seguì Flack nel garage dove lasciavano i suv del dipartimento.
- È stata segnalata una rapina ad un supermarket tra la 18esima e la 24esima, quindi sono salito in auto per andare sul posto e guarda! - Aprì la portiera dal lato guidatore, sporgendosi poi verso l’interno e accendendo la radio sulla frequenza della polizia. Mac lo guardava con le mani sui fianchi, sentendo gli agenti dare le classiche comunicazioni di servizio. Il detective non fece in tempo a chiedere spiegazioni, che dalla radio arrivarono due scariche. Come se il segnale fosse disturbato, le voci dei colleghi sparirono, e al loro posto partì una canzone.
Taylor guardò Flack, le mani ancora sui fianchi, immobilizzato nel tentativo di capire cosa stesse succedendo.
- Sono i Coldplay? - Chiese Mac, interdetto.
- Sì, sono i Coldplay. Sulla frequenza della polizia. O hanno cambiato lavoro o c’è qualcosa che non va! -
Taylor non trattenne una risata nervosa. Stavano rasentando la soglia del ridicolo.
- È impossibile lavorare in queste condizioni. - Disse passandosi una mano sulla nuca.
- Lo so, ma non possiamo fare nulla. Vieni con me al supermercato? -
- D’accordo. - Sospirò. - Tanto in laboratorio siamo bloccati. - Fece il giro dell’auto salendo accanto a Don che, intanto, aveva messo in moto.
- … Conosci i Coldplay? - Gli chiese Flack all’improvviso, mentre si metteva la cintura. Mac gli riservò un’occhiata contrariata, infastidito dall’insinuazione che lui potesse non conoscere una band tanto famosa.
Don rise divertito, adorava prenderlo in giro.
- I want something just like this! Doo-doo-doo, doo-doo-doo. - Senza vergogna Flack cantò a pieni polmoni mentre usciva dal garage del dipartimento, prendendosi un’altra occhiata da Taylor. Probabilmente l’ultima cosa che il detective si sarebbe aspettato da quella giornata era un concerto di Don nell’auto di servizio. E lui come unico spettatore.
- Flack, per favore… - Disse per fargli capire di smetterla.
- Doo-doo-doo, doo-doo-doo! - Per tutta risposta Don si girò verso di lui, intonando a tempo della canzone e fingendo di avere nella mano destra un microfono invisibile.
Taylor si passò una mano sulla fronte: non avrebbe sopportato tutta la giornata in quel modo. L’allegria di Don venne bruscamente interrotta da un improvviso cambio di frequenza.
“… -oke,  I'm just a broken-hearted man
I know it makes no sense but what else can I do?
And how can I move on when I'm still in love with you?”
In auto calò il silenzio, mentre le note dei The Script accompagnavano i pensieri di entrambi i detective.
“Come posso andare avanti se ti amo ancora?”. Era una domanda a cui né Flack né Mac sapevano dare una risposta e Taylor, percependo ancora il mattone sullo stomaco, scostò lo sguardo oltre il finestrino alla sua destra per nascondere i pensieri, come se l’amico potesse leggerglieli attraverso gli occhi.
Don cambiò stazione con un dito, dando un colpo secco al pulsante.
- Vediamo se c’è un po’ di Rock’n’roll se proprio dobbiamo ascoltare questa roba… -
“ … -ere stood a log cabin made of earth and wood
Where lived a country boy named Johnny B. Goode
Who never ever learned to read or write so well”
Trovarono qualcosa di un po’ più allegro ed entrambi sembrarono più rilassati mentre le note di Chuck Berry risuonavano nel suv.
Il buonumore datogli dalla canzone non durò molto, infatti la frequenza cambiò ancora, fermandosi sul singolo storico degli Hoobastank.
“... -ve found a reason for me
To change who I used to be
A reason to start over new
And the reason is you”
Flack spense la radio, deglutendo a vuoto. Il ricordo di Jessica era sempre lì, in un angolo della sua mente, solo in attesa di essere riportato alla luce da qualche subdolo ricordo, come le canzoni che stavano passando in radio.
Mac, a pochi centimetri da lui, stava vivendo la stessa cosa, se non peggio. La guerra interiore che combatteva da giorni si era riaccesa: ammettere di non avere la forza di andare avanti oppure ricominciare da capo grazie a un nuovo motivo?
La frenata lo destò prima che potesse darsi una risposta e dando una rapida occhiata fuori, Taylor vide il supermarket oltre il finestrino. Scesero entrambi in silenzio, ancora feriti dai testi sentiti in radio.
- Polizia di New York, avete chiamato voi per la rapina? - Il primo ad entrare fu Mac, avvicinandosi rapidamente all’uomo dietro al bancone.
- Oh, per fortuna siete arrivati. Sì, sono stato io. - Un uomo sulla cinquantina dai capelli brizzolati e dall’aria spaventata accolse i due agenti.
- Sa spiegarci cos’è successo? - Domandò Flack una volta affiancato il collega.
L’uomo sospirò. - Erano in tre, non siamo riusciti a vederli in faccia perché indossavano un passamontagna. Ci hanno puntato le pistole e hanno chiesto i contanti. Poi sono usciti di corsa. -
Mac scosse la testa sentendosi impotente. - Purtroppo le telecamere di sorveglianza sono fuori uso. Ha notato qualcosa di particolare? Qualche accento? -
L’uomo ci pensò qualche secondo. - Sì, due erano americani, il terzo forse aveva un accento ispanico. Probabilmente messicano. - Scrollò le spalle non del tutto convinto.
- Com’erano vestiti? - Domandò ancora Taylor.
- Maglietta e pantaloni della tuta… Decisamente anonimi. Potrebbe essere chiunque. - Replicò l’altro con disappunto.
- Lo capisco. - Disse ancora il detective. - Purtroppo le sto facendo le domande che potrebbero aiutarci a capire chi è stato. Capisce anche lei in che situazione stiamo lavorando. -
Il signore annuì, capendo che il poliziotto di fronte a lui aveva tutta l’intenzione di aiutarlo, ma aveva le mani legate.
- La terremo informato. - Aggiunse prima di uscire. Tornato all’auto trovò Flack impegnato a parlare alla ricetrasmittente, in un ultimo, disperato e inutile tentativo di mettersi in contatto con i colleghi.
- Qui detective Flack, qualcuno mi riceve? - Attese qualche secondo, Mac lo guardava speranzoso. - Qualcuno che non siano i Coldplay. - Specificò ironico, ma nessuno rispose.
Taylor non trattenne un sorriso, salendo poi al posto del passeggero.
- Ricordami perché sono venuto a una rapina senza cadavere? - Sbuffò chiudendo la portiera.
Don mise in moto. - Perché i macchinari del laboratorio sono fuori uso, New York è nel caos e tu non hai niente da fare. -
Mac annuì facendo la sua solita espressione, arrendendosi di fronte alla risposta del collega.

 

To be continued...

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Capitolo 31
*** Capitolo XXXI ***


Capitolo XXXI

Una volta rientrato in laboratorio, il detective Taylor tornò nel suo ufficio con la speranza che il computer avesse smesso di farlo impazzire e tentò un secondo approccio. Approccio che fallì miseramente, perché al primo click del mouse comparvero tre finestre di errore di Windows.
- Ancora niente neanche da te? - Lui alzò lo sguardo su Stella che lo guardava dalla soglia della porta con aria sconsolata.
- No. - Sbuffò. - Mi arrendo, ha vinto l’hacker. Non ho intenzione di passare la giornata a chiudere pagine! -
Lei sorrise divertita. - Nemmeno io. Lo prenderò come giorno di riposo anticipato prima delle feste. - Rimasero entrambi in silenzio per qualche secondo, poi lei avanzò di qualche passo entrando definitivamente nell’ufficio di Mac.
- Se vuoi posso farti compagnia io a Natale mentre Peyton è a Londra. - Alla fine la voce le era arrivata.
- Tranquilla, ho comprato anche io il biglietto. A lei lo avevo preso prima di sapere la novità, ma alla luce dei fatti… -
Stella lo guardò comprensiva. - Sono contenta, così darete insieme l’annuncio alla famiglia. - Conoscendo Mac Taylor, c’era da aspettarselo che non l’avrebbe lasciata sola sapendo che fosse incinta.
Lui sorrise. - Già… -
Lei lo studiò per qualche secondo, trovando strano l’atteggiamento del detective. Per come lo conosceva, sapeva di non doversi aspettare grandi festeggiamenti o comportamenti sopra le righe, era pur sempre un uomo composto e riservato, ma negli occhi di Mac leggeva un velo di… tristezza? Non ne era sicura, ma percepì che qualcosa non andava.
- Tutto bene? - Non riuscì a trattenersi, preoccupata per l’amico.
Lui la guardò, non capendo il motivo della domanda.
- Sì, perché? -
- Ti vedo strano, dovresti emanare allegria da ogni poro. - Finalmente le cose iniziavano a girare per il verso giusto per Taylor, eppure lui non riusciva a godersi il momento.
Mac abbassò lo sguardo sui documenti che aveva sulla scrivania, non riuscendo a sostenere quello di Bonasera. Scosse poi la testa, come a sminuire tutti i pensieri che soffocavano i suoi sforzi di essere felice.
- È solo che Londra non è proprio la mia città preferita. - Disse una mezza verità. Tra Mr. 333 e il ricordo di Peyton che aveva trovato una scusa per rimanere lì senza di lui, l’Inghilterra non era esattamente la sua prima meta per le vacanze.
Stella sorrise tristemente. - Credo proprio che dovrai fartene una ragione. -
- Già. E poi il tè alle 5:00 PM, ti prego... - Scherzò.
- Non ho mai sopportato il tè. - Gli diede manforte Stella.
- E guidano al contrario. - Aggiunse lui, ridendo.
Lei gli andò dietro. - Stai tranquillo, Mac Taylor. Vedrai che questa volta andrà bene, ritornerete a New York in due. Anzi, in tre. - Il detective tornò serio, lasciando che il sorriso che gli increspava le labbra si spegnesse lentamente. Come al solito, Stella era riuscita a centrare il punto senza il bisogno che lui dicesse niente. - E se Londra dovesse giocarle un altro brutto scherzo, prendila di peso e caricala sull’aereo. -
Sorrisero entrambi all’idea di quella scena, mentre Mac la guardava non sapendo quantificare il bene che le voleva.
- Grazie, Stella… - Disse solamente.
Il sorriso di lei si ampliò. - Non dirlo nemmeno. -
Passarono un paio di giorni, e per quanto la situazione finanziaria fosse critica, Mac notò che non si verificarono mai incidenti causati da malfunzionamenti di dispositivi elettronici o in qualche modo riconducibili all’hacker. Nella sua mente da poliziotto stava già delineando un profilo psicologico dell’uomo, definendolo come un ladro, ma non assassino.
Sforzandosi di rimanere tranquilli, la mattina del 22 partirono per Londra.
Il decollo fu tranquillo. Il detective aveva avuto la fortuna di trovare il posto accanto a Peyton ancora libero, e si era ritrovato tra lei, alla sua destra, lato finestrino, e un altro tizio che puzzava esageratamente di tabacco.
Lei venne travolta da un’inevitabile sensazione di déjà vu mentre osservava New York, meravigliosamente illuminata dal sole, allontanarsi sempre di più sotto di loro.
Sorrise, mentre Mac aveva già preso le parole crociate dalla tasca del sedile davanti per passare il tempo e tenere la mente attiva.
Peyton si girò a guardarlo, vedendolo scrivere con precisione le lettere nelle caselle.
- … Che c’è? - Domandò lui dopo un po’ sentendosi osservato. - Stai male per la pressione? - Chiese pensando che l’altitudine potesse darle fastidio.
- No. -
- Nausea? -
Lei sorrise. - È tutto a posto, papà. - Taylor assottigliò lo sguardo come a farle intendere di non prenderlo in giro.
- Vuoi fare le parole crociate con me? Non c’è molto divertimento, però. Sembrano pensate per dei bambini. - Lei si sporse verso di lui, notando che aveva già completato metà quadrato.
- Leggimene una. -
- 10 verticale, 5 lettere: gas presente nell’atmosfera terrestre che da anni preoccupa gli ambientalisti. - Si girò poi verso di lei, curioso di vedere la sua reazione.
- Ozono. Hai ragione. - Mac sorrise, scrivendo la risposta. - … Come ti piacerebbe chiamarlo? - Il detective venne colto di sorpresa con questa domanda. Sollevò la penna dalla rivista, girandosi poi verso Peyton. Aveva pensato tanto a dei possibili nomi da dare, ma si era soffermato prevalentemente su due.
- Ne ho pensati un paio. Tu hai qualche idea? -
Lei annuì. - Pensavo che Susan sarebbe carino per una femminuccia. - Mac fece una smorfia poco convinta. Susan Taylor suonava malissimo. - Mentre per un maschietto, Daniel. - Proseguì lei.
Daniel non era male, ma sapeva già che avrebbe scatenato l’orgoglio di Danny. Sorrise immaginando già Messer con l’ego gonfiato per avere lo stesso nome del figlio del capo.
- Avevo pensato a Samuel, altrimenti Elizabeth. -
- Mi piace Samuel. Sono belli entrambi, in realtà. - Si scambiarono un’occhiata. Sembrò strano a tutti e due aver risolto il dilemma del nome in così poco tempo. Non che avessero esperienza di litigi per i nomi da dare ai figli, però era risaputo che, di solito, non fosse un’impresa facile mettersi d’accordo.
Taylor sorrise. - Scommetto che Elizabeth lo approvi per la Regina. -
- Ammetto che sarebbe un bel ricordo della mia Inghilterra. -
Lui tornò a guardare le parole crociate, inserendo l’ennesima parola.
- Beh, mi dispiace per te, ma io spero in un maschio. -
- Non ti facevo il classico uomo che vuole un maschio come primogenito. - Scherzò.
- Non è per questo, infatti. - Precisò il detective provando a incastrare una parola nel quadrato. - Se nascesse una femmina, so che potrei abusare del fatto di avere libero accesso ai nomi di tutta New York, o di poter mandare una pattuglia dove voglio e quando voglio. - La guardò. - … O delle manette. -
Peyton non trattenne una risata, immaginando già le difficoltà dei ragazzi che avrebbero fatto la corte alla loro bambina nel caso fosse nata una femminuccia.
- Sai quante ragazzine ho trovato a Central Park? - Continuò Taylor. - O nelle strade dimenticate di New York? Al porto o nei magazzini, e non erano ragazze di strada, nella maggior parte delle volte erano di buona famiglia, eppure finivano per essere ritrovate nelle zone più malfamate. E ti dirò di più, quasi sempre il fidanzato è coinvolto. E io dovrei starmene tranquillo sapendo che mia figlia esce di notte a New York? Non scherziamo, Peyton. Dopo tutti i casi che ho visto, sarei stupido a non preoccuparmi. -
Sentendo quei discorsi, inevitabilmente il tizio accanto a Mac lo guardò con aria disgustata pensando che qualsiasi lavoro facesse quell’uomo, probabilmente era terribile. Taylor se ne accorse, ma non provò neanche a giustificarsi con lui ripetendo a se stesso che non avrebbe comunque capito.
Scosse la testa tornando a dare attenzione alle parole crociate.
- Capisco il tuo discorso, ma dovresti darle un minimo di fiducia. - Replicò Peyton.
- Certo, ma escludendo Manhattan la sera, specialmente Central Park. Per non parlare del Bronx o del Queens, che sono posti da cui stare lontani anche in pieno giorno. - Gesticolò con la penna. - Tu dovresti capire più di chiunque altro. -
Lei annuì. - Lo capisco e sono d’accordo, eppure ho la sensazione che lo faresti anche con un maschio. Ho visto come ti comporti con Reed. - Peyton ricordava perfettamente l’incontro con quel ragazzo, aveva sentito Mac raccomandarlo almeno cinque volte di non mettersi nei guai.
Il detective scosse la testa. - Per quanto sia triste ammetterlo, per un maschio sarei preoccupato per motivi diversi. Salvo rapine e brutti giri in cui potrebbe finire. -
Taylor si prese un’altra occhiataccia dal tizio alla sua sinistra, ma Peyton gli rispose prima che lui potesse dirgli qualcosa.
- Dubito che con un padre come te potrà finire in brutti giri. - E se Mac aveva preso quella frase come un complimento, non si poteva dire lo stesso per il passeggero accanto a lui, che fece un’espressione piena di compassione per il bambino che doveva nascere.

Quando la sera atterrarono a Stansted Mac percepì un’orribile sensazione di disagio, come se sapesse che quello non era il posto in cui doveva essere e stesse forzando le cose.
Si impose di ignorarla, anche se l’imbarazzo all’idea di rivedere i genitori di Peyton lo teneva per la gola. La volta precedente non aveva avuto modo di instaurare chissà che rapporto con loro, e soprattutto non aveva idea di cosa lei gli avesse raccontato per giustificare il fatto che non l’avesse più raggiunto a New York.
Era tutto così strano, così surreale che si sentì terribilmente sciocco ad essersi ripresentato lì dopo ciò che era successo con Peyton, temendo di apparire ai loro occhi così disperato da perdonarla nel giro di due giorni, subito dopo il suo ritorno negli Stati Uniti.
Invece, contrariamente a quanto potesse immaginare, i genitori di lei lo accolsero con il sorriso, abbracciandolo come se fosse un parente che non vedevano da anni. 
Gli fece strano vedere due Inglesi sciogliersi in atteggiamenti del genere, solitamente conosciuti per essere persone fredde e distaccate. Il padre di lei, Jacob, gli strinse la mano con vigore non nascondendo il piacere di rivederlo accanto alla figlia.
- Sono contento di rivederti, Mac. - Gli disse solamente, ma gli occhi gli brillavano e non la smetteva di stringergli la mano.
Lui gli sorrise. - È un piacere anche per me. - Poi deglutì a vuoto, sentendo addosso gli occhi di Margaret, la madre. Strinse la mano anche a lei, cosa che la donna ricambiò per dovere più che altro, preferendo abbracciarlo e dargli due pacche sulla schiena.
- Spero che tu non abbia di nuovo intenzione di lasciarlo, cara! - Il detective non trattenne un sorriso pensando che, forse, aveva visto problemi dove non c’erano. Gli tornarono in mente le parole del detective Foster, che l’aveva accusato di cercare il caso dove non c’era. Probabilmente aveva ragione. Probabilmente era per colpa di quel suo modo di fare se non riusciva a godersi i bei momenti.
Peyton sorrise alle parole della madre. - No, tranquilla. Questa volta tornerò con lui a New York. -
Il cuore del detective saltò un battito, gli faceva male ricordare ogni volta, ma in cuor suo sperava, un giorno, di poter guardare quell’episodio con il sorriso e senza la punta di timore che potesse accadere ancora.
- Lo spero, tesoro! Non lo trovi da nessuna parte uno come Mac. - Gli mise affettuosamente una mano sulla guancia, disarmando totalmente Taylor che raramente non era in grado di gestire una situazione.
- Andiamo, finirete i saluti in macchina. Ci aspetta un’ora di strada. - Intervenne il padre.
- Hai ragione. - Concordò Margaret staccandosi rapidamente dal detective. - Sarete affamati e stanchi, seguiteci. -
Quando i genitori di lei gli diedero le spalle per incamminarsi verso l'uscita, lui e Peyton si scambiarono un'occhiata divertita.

Una volta saliti in auto, il padre di Peyton guidò in direzione di Londra. L’aeroporto di Stansted era fuori città, ma per fortuna a quell’ora il traffico era moderato e non ci misero un tempo eccessivo per raggiungere la capitale inglese. Per comodità passarono prima nella zona di Russell Square, il quartiere dove Mac aveva prenotato l’hotel, per fargli fare il check-in e togliergli il pensiero di posare la valigia.
Quando il detective li raggiunse nuovamente non fu difficile trovare un pub dove fermarsi a mangiare qualcosa di tipico. Se glielo avessero chiesto solo qualche anno prima, Taylor non avrebbe mai creduto di apprezzare così tanto fish & chips, eppure doveva ammettere a se stesso che non fosse poi così male. La cena proseguì tranquilla. Tutti percepivano un leggero imbarazzo, ma ognuno si impegnò per non farlo pesare agli altri, cercando di intavolare discorsi e fare finta che tutto fosse come la volta precedente.
Verso le 10:00 PM i genitori di Peyton riportarono Mac in hotel, notando la stanchezza sul viso di entrambi.
Quando il detective entrò in stanza si guardò intorno. Sulla sinistra, una porta in legno si affacciava direttamente su un bagno piuttosto spazioso per essere quello di una camera d’albergo. Poco più avanti, subito dopo il corridoio di due metri, dalla sinistra spuntava un letto matrimoniale, alla cui destra, di fronte a lui, due tende bianche coprivano la grande finestra che occupava la parete opposta all’entrata.
Fece qualche passo in avanti e a stento riuscì a prendere una boccata d’aria. Si sforzò enormemente per ignorare i ricordi di Mr. 333 che, ogni notte, gli aveva fatto squillare il telefono della camera alle 3:33 AM.
Scosse la testa dandosi del paranoico, mentre lasciava cadere la valigia contro il muro, poco distante dalla piccola scrivania che aveva di fronte al letto. Si tolse con calma la giacca e le scarpe, passando poi alla camicia che, stranamente, in quel momento gli dava fastidio. Il colletto stringeva come un cappio e più tentava di riempire i polmoni, meno aria sentiva di avere nel petto.
Stancamente si tolse i jeans, posandoli sulla sedia della scrivania insieme alla camicia. Si lasciò cadere sul materasso, all’indietro, incolpando il jet lag per lo stato d’animo in cui si trovava. Non passarono dieci secondi prima di darsi da solo dell’idiota. Il jet lag lo avrebbe sofferto molto di più al ritorno, e in qualsiasi caso non c’entrava nulla con il mattone che da giorni aveva sullo stomaco. Con riluttanza scostò le coperte, infilandosi nel letto senza neanche la forza di indossare una maglietta e dei pantaloncini. Pregò di addormentarsi in fretta per non pensare, quindi chiuse gli occhi provando a regolarizzare il respiro, percependo improvvisamente ogni rumore diventare sempre più ovattato e lontano. I passi che ogni tanto sentiva provenire dal corridoio dell’hotel sparirono, così come le auto che, fuori dalla sua finestra, tenevano viva la città nonostante fosse tardi. Aprì gli occhi e deglutì a vuoto quando di fronte a sé non vide Londra.
Sapeva di essere a New York. Riconosceva le strade, i palazzi, i negozi che vedeva decine di volte al giorno girando in lungo e in largo per lavoro, ma per quanto fosse tutto uguale, era contemporaneamente tutto diverso. Diverso dalla solita routine a cui era abituato.
Le strade erano cosparse di fogli, documenti, cartacce volanti che non accennavano a smettere di confonderlo, giornali sparsi qua e là e un silenzio surreale regnava nelle strade a tre corsie incredibilmente deserte.
Era l’unico sul marciapiede, spaesato e accecato dal sole alto nel cielo che dava un aspetto paradossalmente spettrale e angosciante a quella che era una delle arterie principali della Grande Mela.
Mac sapeva bene dove si trovava. Alla sua destra, a pochi metri da lui, il monumento commemorativo del World Trade Center non smetteva di ricordargli quel maledetto giorno.
Alzò gli occhi verso l’alto, riuscendo a intravedere il cielo terso in quella nebbia di fogli che continuavano a cadere lentamente al suolo mentre ondeggiavano a destra e sinistra, mossi dal vento. A differenza di quel giorno, però, l’aria era pulita, respirabile, fresca. Non c’erano nubi di polvere a intasargli i polmoni o a fargli lacrimare gli occhi, ma sapeva che era già tutto finito. La sensazione di vuoto, desolazione e impotenza era la stessa.
Aveva freddo. Aveva terribilmente freddo, tanto da sentire le mani gelate. Strinse i pugni sperando di scaldarle, mentre sentiva dei passi cadenzati avvicinarsi sempre di più.
Una voce lo chiamò. - Mac. - La riconobbe subito.
Strinse i denti per darsi forza, mentre le lacrime iniziavano ad offuscargli la vista. Taylor si girò piano verso la persona alle sue spalle, trovandosi davanti Claire.
Non riuscì a parlare, il nodo che aveva in gola gli fece morire le parole sul nascere. Era la prima volta che la sognava dopo il 9/11 e si era sempre tormentato per questo. Se ne era sempre fatto una colpa, ripetendo a se stesso che se non riusciva a sognarla dopo la tragedia che era successa, era perché forse non l’amava abbastanza.
E invece, in quel momento, lei era lì, di fronte a lui. Sempre bellissima, uguale al giorno in cui si erano salutati sull’autobus senza immaginare che sarebbe stata l’ultima.
- … Claire. - Riuscì a sussurrare dopo un po’. - … Amore, cos’è questo posto? - Istintivamente si portò una mano all’altezza della clavicola sinistra, lì dove sapeva di avere la ferita ricucita da poco. Non sentì dolore e Mac pensò che, quindi, fosse un sogno. Oppure di essere morto anche lui.
Lei gli sorrise, mentre milioni di fogli ancora cadevano tutt’intorno a loro.
- Sono contenta di vedere che stai bene. - Era davvero così? Stava bene? Non lo sapeva nemmeno lui. Ci provava con tutte le sue forze a stare bene, a sforzarsi di non pensare a tutto il dolore che aveva dentro, e bene o male ci riusciva grazie al lavoro e agli amici, ma sapeva perfettamente di non essere in grado di andare avanti del tutto. Non riusciva a lasciarsi alle spalle un amore interrotto per il volere di altri e non per il suo, per le guerre di altre persone, per gli interessi di quelli che sedevano al tavolo di chi prendeva le decisioni per il resto del mondo. Avevano deciso anche per lui quel giorno, e Mac non riusciva ad accettarlo. Razionalmente sapeva di doverlo superare, sapeva di aver perso tutto quello che aveva costruito negli anni e che non ci sarebbe stato modo di riaverlo, ma quando si presentava l’occasione di andare avanti i sensi di colpa erano troppo pesanti da mandare giù.
- Non guardarmi così, amore mio… Voglio che tu sia felice, te lo meriti. - Per quanto le parole di Claire volessero essere di incoraggiamento, ebbero l’effetto contrario sul detective.
Taylor abbassò lo sguardo, sentirsi chiamare in quel modo distrusse ogni sua difesa.
- Mi dispiace… - Confessò. - Non ho fatto abbastanza per te, ti ho dedicato poco tempo. Avrei… Avrei dovuto fare un sacco di cose diversamente. Ero troppo preso dal lavoro, e ora invece è tardi. Non potevo sapere… -
Non riuscì a guardarla in faccia. Avrebbe voluto dirle così tante cose, ma in quel momento non riusciva a fare altro che colpevolizzarsi. Teneva gli occhi puntati a terra percependo lei avvicinarsi, sentendo poi una mano appoggiarsi sulla sua guancia.
- Tesoro mio, tu mi hai amata e questo mi basta, non cambierei neanche un secondo passato insieme a te. Nessuno poteva sapere. -
Mac tenne ancora gli occhi bassi, fissi sulle proprie scarpe, la gola gli doleva terribilmente.
- … Ho incontrato una persona. - Ammise l’ennesima colpa, perché per quanto lui sapesse di amare Peyton, in quel momento gli sembrava la cosa peggiore che potesse fare nei confronti di Claire.
Lei gli alzò delicatamente il viso, costringendolo a guardarla negli occhi.
- Lo so. - Gli sorrise dolcemente. - Non sentirti in colpa per questo, lei mi piace. E sono contenta per il bambino in arrivo. - Mac chiuse rapidamente le palpebre un paio di volte nella speranza di cacciare indietro le lacrime. - Sarai un buon padre, ho visto come ti comporti con Reed, e a proposito: grazie per avergli salvato la vita. -
A lui scappò un sorriso che, nonostante stonasse con gli occhi lucidi, era sincero.
- Sto facendo del mio meglio con lui, ma è già grande… Ed è testardo quanto te. - Claire sorrise divertita, accarezzandogli la guancia con il pollice ed asciugando una lacrima sfuggita al suo controllo.
- Sì, è una caratteristica di noi Conrad. -
Senza aggiungere altro Mac fece un passo in avanti, annullando del tutto lo spazio tra loro. La strinse forte, appoggiando stancamente la fronte alla sua spalla e piangendo in silenzio tutte le lacrime che in quegli anni non era mai riuscito a versare.
Sentiva Claire accarezzargli i capelli per tranquillizzarlo come se fosse un bambino, probabilmente aveva capito che lui stesse piangendo perché le lacrime le scivolarono addosso. Taylor provò a trattenersi in ogni modo, ma il dolore quella volta fu più forte.
- … Mi manchi. - Disse dopo un po’, sentendosi estremamente stupido. Per quanto si sforzasse, non riusciva a fare un discorso compiuto che fosse più di cinque parole.
- Anche tu, amore mio, da morire. Ma è giusto che tu vada avanti. Voglio che tu lo faccia. - Aspettò qualche secondo prima di continuare, cercando anche lei la forza per pronunciare quelle parole. - Finché resterai attaccato al nostro ricordo continuerai a soffrire e non te lo meriti. -
- Non puoi chiedermelo. Non puoi chiedermi di dimenticarti. - La implorò con la fronte ancora appoggiata alla sua spalla.
- Non devi farlo. Io continuerò a vivere qui dentro. - Gli posò una mano sul petto, all’altezza del cuore. - Non c’è niente di male se ti sei innamorato di un’altra donna dopo tutti questi anni, ma voglio che mi prometti solo una cosa. - Fece una lieve pressione sul petto di Mac, allontanandolo il giusto per permettergli di guardarla in faccia.
- … Cosa? -
- Voglio che tu stia attento. Ci sono ancora tante persone che hanno bisogno di te, tra cui Reed e tuo figlio. Non fare l’eroe. - Lui non riuscì a dire nulla, si limitava a guardarla negli occhi nel tentativo di imprimere ogni dettaglio in mente, terrorizzato dall’idea che, un giorno, si sarebbe dimenticato del suo viso.
Annuì debolmente perfettamente consapevole che non l’avrebbe ascoltata, ma non riuscì a contraddirla. Aveva immaginato così tante volte di vederla, che averla davanti a lui lo bloccò totalmente e Mac, ancora una volta, aveva la percezione di stare sprecando forse l’ultima occasione che aveva per passare del tempo con Claire in quel modo stupido. La sentiva scivolare via come sabbia tra le dita, mentre non faceva altro che fissarla incredulo invece di dirle tutto quello che avrebbe voluto.
- Sai… Qualche sera fa Reed mi ha rivolto una domanda. - Continuò Claire. - Quando lo vedrai, digli che la mia risposta è moltissimo. - Gli accarezzò la guancia ancora una volta.
- … Che domanda? Ti ha sognata? -
Lei negò. - No. Mi ha chiesto se sono orgogliosa di lui. -
Mac abbassò lo sguardo. - In tutti questi anni non sono mai riuscito a farlo… A sognarti. Non ho mai capito perché. -
- Non eri pronto. - Disse semplicemente lei. - C’era troppo dolore in te, adesso lo stai elaborando permettendoti di andare avanti. -
Taylor non riuscì a nascondere gli occhi lucidi, non avendo la forza di contraddirla. In realtà lui soffriva ancora, solamente che si era innamorato di Peyton e, consapevole che Claire non sarebbe più tornata, aveva capito che sarebbe stato stupido privare entrambi di un’occasione.
- Voglio prendermi cura anche di Reed, è l’unica cosa che mi rimane di te. - Le confidò guardandola.
- Lo stai facendo egregiamente. -
- … Anche se si mette sempre nei casini. - Sorrise rassegnato. - Però credo di piacergli un po’. -
Claire gli mise un indice sul naso, come a prenderlo in giro. - Ti adora. -
Mac sentì gli occhi pungere terribilmente e alzò lo sguardo al cielo per trattenere le lacrime. Quando lo riabbassò su di lei la vide sorridere, ricevendo un inaspettato bacio leggero sulle labbra.
Lui sapeva di sognare, ma era tutto così reale, così uguale a come se lo ricordava, così perfetto. Istintivamente la strinse forte non riuscendo a non ricambiare quel contatto che gli era mancato come l’aria. Silenziosamente si chiese se fosse la cosa giusta da fare, per Claire, per se stesso, per Peyton e per il bambino, ma non riusciva a fare un passo indietro. Non riusciva ad imporsi di non volere qualcosa che aveva desiderato per anni.
Fu lei a interrompere il bacio dopo un po’, mettendogli delicatamente una mano sul petto.
- Adesso devo andare, amore mio. So che non mi dimenticherai mai, così come io non dimenticherò te. -
- … No… Non di nuovo. - Suonò come una supplica, ma lei non poteva assecondarla.
- Sii felice, Mac. - Istintivamente la strinse di più, anche se in cuor suo sapeva che non avrebbe funzionato.
- Claire! - In un secondo, il tempo di un battito di ciglia, davanti a sé vide solamente New York deserta e i fogli che, stanchi, continuavano a cadere dal cielo. Le lacrime uscivano sole dagli occhi, per inerzia, senza neanche il bisogno di chiuderli.
Un attimo dopo si ritrovò catapultato nel buio, seduto nel letto dell’hotel, a fissare la TV appesa al muro col fiato corto e il cuore a mille come se avesse corso per chilometri.
Il ricordo del sogno era ancora vivido e senza che se ne rendesse conto, Mac stava piangendo anche nella realtà. Dopo anni stava buttando fuori tutto il dolore che aveva accumulato e, con sua sorpresa, il blocco che da giorni sentiva allo stomaco era sparito.
C’era solo tanto, troppo dolore al cuore che ancora non riusciva ad alleviare, ma come aveva detto lui stesso a Flack, quello non l’avrebbe abbandonato mai.
Si alzò dal letto diretto verso il bagno, per poi guardarsi allo specchio. Non era abituato a vedere i suoi occhi azzurri arrossati e lucidi di lacrime, ma piangere si stava rivelando così liberatorio che, per un attimo, pensò che se si fosse lasciato andare poi sarebbe stato meglio.
Non riuscì a farlo. Non del tutto, almeno. Avrebbe voluto piangere più forte, urlare e sfogare tutta la rabbia che aveva per l’ingiustizia che lui e altre migliaia di persone avevano subito quel giorno, ma non era da lui. Non era da Mac Taylor.
Si sciacquò il viso sperando di calmarsi, mischiando lacrime e acqua, ma continuò a piangere in silenzio per un paio d’ore annegando nei ricordi finché, stremato, crollò di nuovo nel letto.

 

To be continued...

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