Le Discrete e Aspecifiche Profezie di Sibilla Cumina, Strega Amatoriale

di Mairyelf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** 1.1 - Tempesta ***
Capitolo 3: *** 1.2 - Tempesta ***
Capitolo 4: *** 2 - EVEnti sospetti ***
Capitolo 5: *** 3.1 - L'Apostolo delle Genti ***
Capitolo 7: *** 3.2 - L'Apostolo delle Genti ***
Capitolo 8: *** 4 - The Show Must Go On ***
Capitolo 9: *** 5 - Acqua e cenere ***
Capitolo 10: *** 6.1 - Chiedere è lecito... ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


0


Brano tratto da

“Le Discrete e Aspecifiche Profezie di Sibilla Cumina, Strega Amatoriale”
Pagina 1




Introduzione

 
Questa autrice desidera salutare con un abbraccio caloroso e un fazzoletto le anime sofferenti che si troveranno questo tomo tra le mani.

No, Giuseppe Trevisan nato a Pastrengo in provincia di Verona in 16 aprile 1973, non parlo con te, e nemmeno
con quella tua povera figlia che lasci sempre a casa da sola e che ora sta curiosando tra le tue cose per trovare qualcosa da fare.
Cara, lascia che ci pensi tuo padre, è pericoloso per una ragazzina della tua età.

 
Dicevo, questa autrice vuole abbracciare e ringraziare con calore questi lettori per la loro scelta di cominciare le sue aspecifiche profezie e, com’è buon costume, chiedere, col vostro benestare, di presentarsi.

Il mio nome è Sibilla Cumina, la mia professione è quella di strega amatoriale. Il cammino della vita è stato da me percorso durante il XIV secolo, tempo di noia e di morti in culla. Per questo motivo la mia dote mi ha condotta lontano, nel futuro, fino a voi e prima di voi, facendomi divenire un’attenta estimatrice e appassionata amante de’ Le Belle e Accurate Profezie di Agnes Nutter, Strega.

In quanto donna curiosa e previdente, nel solo senso letterale del termine, per mio diletto e vostro piacere ho scelto di mettere in campo le mie doti di strega per redigere quella che è la mia unica previsione dello spicchio di futuro tra l’Armageddon e la Seconda Venuta. 

Ma siate avvisati: questo tomo esiste per raccontare l'intera vicenda – nelle sue parti più basse e in quelle più alte, in quelle più divertenti e in quelle più tristi, in quelle più romantiche e in quelle più strazianti – poiché io stessa non conosco il futuro prima che lo conosca la mia penna.

Laddove Nutter il futuro lo vedrà con gli occhi, quest'autrice, suo malgrado, lo scrive con mano. 

E poi, chissà, se un giorno iddio deciderà di scrivere la propria versione, quest'umile veggente e questi lettori potranno allora scoprire quanto la sua mano avrà realmente visto e quanto, invece, sarà rimasta ingannata.

Come si suol dire, ai posteri l'ardua sentenza.

 
E tu, Giuseppe, volgi il tuo sguardo al cielo e quand’esso prenderà le sembianze d’un disco d’ombra, seguilo attraverso la via più tortuosa e consegna questo volume a colui che incontrerai. L'Apocalisse è ancora una volta vicina.
 

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Capitolo 2
*** 1.1 - Tempesta ***


1.
 
 Da qualche parte vicino Verona
Luglio 2023


 
Era una brutta giornata.

Tutte erano state brutte giornate sotto quella nuvola perenne di un chilometro di raggio. Si muoveva ai trecento chilometri orari, circa, fermandosi solo qualche ora sopra ai tetti di alcuni bar.

Un fenomeno meteorologico insolito, che persisteva da un annetto e sul quale fior fior di scienziati si arrovellavano senza sosta. Certo, se i telegiornali avessero saputo che al centro di quell’acquazzone di un chilometro di raggio ci stava una Bentley nera del 1926, sarebbero stati ben felici di usarla come capro espiatorio – al posto di quella scomodissima questione della crisi climatica che faceva prudere le mani alla gente sbagliata. Peccato che nessuno potesse rendersene conto, o se ci riusciva, per qualche motivo se ne dimenticava subito.

Take me to Church
I'll worship like a dog at the shrine of your lies.

CROWLEY. Gracchiò la radio della Bentley con la voce di Freddie Mercury[1].

I’ll tell you my sins so you can sharpen your knife.

CROWLEY!

Crowley fece un verso simile a un grugnito.

AH, CI SEI. BENE. ABBIAMO LASCIATO PASSARE LA NUVOLA PERCHÉ SEI DEPRESSO, MA I DANNI CLIMATICI CHE STAI PROVOCANDO NON SONO AUTORIZZATI. FERMATI O VERRÀ QUALCUNO A FARLO.

«Non sono io, idiota» sbuffò Crowley. 

Un attimo di silenzio.

BE’, NEMMENO IO.

«Non li guardi i telegiornali?»

PERCHÉ?

Crowley si prese il ponte del naso da sotto gli occhiali, esasperato. I piani bassi avevano cambiato il demone della circoscrizione Italiana due anni prima – con Bergamo del 2020, il precedente aveva preso una bella, immeritata promozione – e quello nuovo ancora non aveva capito nulla.

L’imbecille aveva sprecato tempo a portare certe organizzazioni anti-governative al nord, come se ci fosse stato bisogno del suo intervento per farlo, e non si era ancora reso conto che le recenti grandinate e acquazzoni non dipendevano da loro.

«Lascia stare.»

SENTI, VOLEVO PARLARTI DELLA PROPOST-

Crowley spense la radio della Bentley e la voce tacque. In altre circostanze non sarebbe servito a nulla, ma di solito a lui bastava desiderare qualcosa con abbastanza intensità affinché quello si avverasse.

Di solito.

La Bentley sfrecciò attraverso le colline, portandosi dietro il suo nuvolone, e si fermò davanti al cancello in ferro battuto di una villa; Crowley tamburellò con le dita sulla portiera e quello si aprì, cigolando come fosse terrorizzato. E non era il solo. Mentre l’auto attraversava il vialetto, le vigne che lo fiancheggiavano schizzarono dritte come soldati nonostante la pioggia scrosciante. Crowley pensò che più tardi sarebbe passato a fare un controllo qualità. In quell’anno si era comprato una cantina sociale e, come ovvio, tre quarti di tutto il vino prodotto se li era scolati lui, quindi ci teneva che il prodotto fosse ottimo.

La villa in cui abitava era mastodontica, tutta su un piano, con archi di pietra a vista e un porticato lungo tutto il perimetro. Non c’entrava nulla con il moderno appartamento di Londra e a Crowley andava benissimo così, non voleva vedere più nulla di vagamente inglese o con fantasie tartan. Permettersi quella casa era stata una bazzecola: nei suoi seimila anni sulla Terra aveva accumulato un mucchio di soldi – tutti non tracciati, ovviamente, che multimiliardario sarebbe stato altrimenti? – e quell’acquisto ne aveva eroso solo una parte.

Parcheggiò la Bentley al coperto e anche la pioggia si spense. Smontò e attraversò a grandi falcate il piazzale di ciottolato davanti casa, poi afferrò la maniglia della porta d’ingresso e la aprì con poca grazia. Si accorse solo allora che fuori era il tramonto; le foglie delle viti erano dipinte di un caldo colore aranciato e l’aria sapeva di erba bagnata. Alzò gli occhi al cielo. Inspirò. «Tsk.» E si sbatté la porta alle spalle.

La sua casa era nera e sapeva di fuliggine. Come nero e al sapore di fuliggine era il suo umore. Crowley si avviò in cucina, una stanza del tutto innecessaria per un demone come lui, ma fondamentale se non si voleva avere un frigorifero messo a caso nel soggiorno. Non era mai stato uno puntiglioso, ma certe cattive influenze nel corso di sei secoli lo avevano piano piano cambiato.

Sibilò nel rendersi conto di dove la sua mente stesse andando, aprì l’anta del freezer, estrasse un sacchetto di piselli congelati e la richiuse con un tonfo. Le piante che si era portato dall’appartamento inglese tremarono, ma quel giorno non aveva voglia di prendersela con loro.

Attraversò il soggiorno e uscì ciondolando dalla porta sul retro. Fuori, un bel giardinetto rigoglioso si sviluppava intorno a un piccolo stagno artificiale, sulle cui rive il demone dagli occhiali scuri andò ad accucciarsi. Le papere che abitavano il giardino, le quali avevano imparato a riconoscere il passo strascicato di Crowley a metri di distanza, uscirono dal canneto per circondarlo. Lui allora prese il sacchetto di piselli surgelati e, come faceva da un anno a quella parte, iniziò pigramente a gettarli uno per uno nello stagno.

C’era qualcosa di ipnotico nel vedere quegli animali buttarsi al loro inseguimento e schizzare acqua ovunque nel tentativo di accaparrarsene uno. Per lui era come un richiamo del vuoto, una vocina in fondo alla sua testa che ogni tanto gli domandava: “E se ti tuffassi anche tu?”

Sarebbe morto. In un momento di noia, il laghetto lo aveva fatto benedire.

Un piede più avanti e, puff, addio demone Crowley. Un pensierino ce lo aveva pure fatto…

Din don

Il campanello.

Din don

Strano, nessuno andava a fargli visita.

Din don

Diiiiin doooon

Dindondindondindondindon

Pausa.

Silenzio.

Din don

«Diamine, arrivo!» Sbraitò Crowley, mollando tutto il sacchetto in pasto alle papere e dirigendosi verso l’ingresso. E anche quel giorno, il richiamo del vuoto non aveva vinto.
 
[1] Che da due anni a quella parte cantava Take me to Church di Hozier in una chiave tanto malinconica da rendere Adele allegra.
 
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Spazio autrice: 
Benvenuti in questa mia FanFiction a tema Good Omens! Dopo mesi di elaborazione del lutto per il finale della seconda stagione e un vuoto incolmabile per la mancanza della terza, ho deciso di provare a scrivere la mia versione del futuro dei nostri beniamini. Personalmente, adoro lo stile scanzonato e super ironico dell'opera cartacea originale, quindi ci ho tenuto tantissimo a riproporlo anche qui. Certo, io non sono nemmeno un pelo della barba di Neil Gaimann e/o Terry Pratchett, ma l'ironia mi piace e usarla nello scrivere mi diverte tantissimo, quindi spero che abbia intrattenuto/intratterrà anche voi.😊
Spero di ritrovarvi nei prossimi capitoli!
- Tara

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Capitolo 3
*** 1.2 - Tempesta ***


Lo schermo del citofono mostrò a Crowley due macchiette di uomini, uno più largo che lungo e l’altro sottile come uno stecco. Osservavano l’interno della sua proprietà allungando il collo e bisbigliando tra loro così piano che solo il citofono di un demone avrebbe potuto recepire cosa stessero dicendo.

«Bele le vegne…» (Belle le vigne.)

«L’è vera. Ghema da dimandarghe cosa i ghe dà par tegnarle cosita ben.»  (È vero. Dobbiamo domandare loro cosa gli diano per tenerle così bene.)

«Eh, Giani, ma questi iè pieni de schei, miga come noialtri poareti.» (Eh, Gianni, ma questi sono pieni di soldi, mica come noi poveracci.)

«Cosa volete?» Latrò Crowley dal citofono. I due presero a guardarsi intorno sorpresi, come se fosse stato dio stesso a parlare con loro.

«Ehm… Buongiorno, son Bepi, el vicino.»
(Ehm... Buongiorno, sono Bepi, il vicino...)  Disse con una voce acuta quello tarchiatello, la cui panza da birra minacciava di abbattere la cancellata con un solo colpo. «Elo chi che s’ha fermà la nuvola?» (è qui che si è fermata la nuvola?)

Il demone ormai aveva imparato a non farsi domande riguardo il genere umano e i quesiti che partoriva. «No.» Rispose e premette il tasto per spegnere il citofono ma, come ogni tanto accadeva, quello rimase comunque acceso. Crowley sibilò. Le case italiane erano molto più indisciplinate di quelle inglesi, doveva essere una questione culturale.

Gianni sfogò un’esclamazione molto colorita, che tirava in ballo animali e i Piani Alti – e che questa autrice si riserverà di non ripetere. «Te l’avea dito mi che l’era ‘na casada.» (Te l'avevo detto che era una cazzata.)

Crowley ghignò; c’era qualcosa nella completa mancanza di Timor di Dio di quelle parti che lo intratteneva assai.[1]

«Go capio, Gianni, ma arda chi sa ghe scritto.» (Ho capito, Gianni, ma guarda qua cosa c'è scritto.)

Bepi sollevò un grosso volume dall’aria polverosa, che il demone notò solo in quel momento, e lo passò al compagno. Quest’ultimo aprì sulla prima pagina e iniziò a leggere con fare ottuso.

«Le Discrete e aaa- aspe-aaspe-aspecifote? vabbè, quello, profezie di…» 

«No quelo! Lezi chi!» Interruppe Bepi, indicando alcune righe con un dito cicciotto. (Non quello! Leggi qui!)

Crowley era rimasto fermo a “profezie”. Ebbe un brivido lungo la schiena, che si fermò nel punto esatto da cui di solito uscivano le sue ali. Non di nuovo.

Gianni andò avanti a leggere, ma poi alzò la testa. «Non go capio un casso, Bepi.» (Non ci ho capito un cazzo, Bepi.)

«Te si proprio stupido! Ghe scritto che mi, Bepi, nato a Pastrengo en provincia de Verona, go da portar sto libro ‘ndo ghe nuvolo par fermar l’Apocalisse.» (Sei proprio stupido! C'è scritto che io, Bepi, nato a Pastrengo in provincia di Verona, devo portare questo libro dove c'è nuvoloso per fermare l'Apocalisse.)


Apocalisse.

«Ma chi ghe scrito Giuseppe, miga Bepi» Osservò Gianni, che di tutte quelle righe aveva capito solo quella cosa. (Ma qui c'è scritto Giuseppe, mica Bepi.)

«Vedito alora che te si stupido? Son mi Giuseppe! I me amici i me ciama Bepi, ma mi son Giuseppe.» (Vedi allora che sei stupido? Sono io Giuseppe! I miei amici mi chiamano Bepi, ma io sono Giuseppe.)

«Ma dai! Nol saea mia!»
(Ma dai! Non lo sapevo!) Fece Giovanni, detto Gianni, rendendosi forse conto che anche i suoi amici lo chiamavano Gianni, ma lui era Giovanni. Poi indicò il libro e guardò l’altro con occhi sgranati. «E ti te capise sta roba?» (E tu capisci questa roba?) Chiese, con l’aria di chi aveva appena scoperto che il proprio amico era la reincarnazione di Dante Alighieri. Se solo avesse saputo chi fosse Dante Alighieri.[2]  

«Te sarè mia mato!» Si indignò quell’altro. «Me l’ha dito me fiola sa ghe scrito.» (Non sarai matto! Me l'ha detto mia figlia cosa c'è scritto.)

«Ah, ecco. E quindi sa fema?» (Ah, ecco. E quindi che facciamo?)

«Andate via.» Suggerì Crowley tramite il citofono. Non voleva saperne più nulla di profezie, di libri o di apocalissi. Per quanto lo riguardava, poteva pure andare tutto in malora. Una guerra nucleare? Prego, facessero pure, tanto se non ci pensava l’Apocalisse ci avrebbero comunque pensato gli umani a estinguersi da soli.

«Posso lasarghe chi el libro?» Provò Bepi con una certa reverenza. Doveva essersi reso conto che l’altoparlante da cui arrivava la voce del proprietario di casa aveva iniziato a fumare. (Posso lasciarle qui il libro?)

«No!»

I due uomini sobbalzarono. Bepi si strinse il libro al petto, mentre Gianni corse via. «Va ben, va ben. El ne scusa par el disturbo!» Balbettò il primo e si allontanò pure lui con la coda tra le gambe. (Va bene, va bene. Ci scusi per il disturbo!)

Crowley tornò in salotto, prese una bottiglia di vino dalla rastrelliera che copriva una parete intera e si gettò su una delle sue poltrone di pelle nera. Profezie. Ancora profezie. Scolò metà bottiglia con un sorso. Era la volta buona che si trasferiva su Alfa Centauri insieme a quei due ladri melensi di Gabriele e Belzebù. Aveva diritto di precedenza, lui; l’idea di occupare quel sistema era stata sua e non era giusto che un'altra coppia ci andasse. 

Un'altra… Ingollò l’altra metà di vino e scagliò la bottiglia contro la parete. «In malora!»


Tre o forse quattro, da ubriachi si tende a perdere il conto, litri di Merlot dopo e il demone era partito.

«La profezia! Certoh! Guarda come mi portano la profeziah…» Biascicò. «Crowleeey, ssalva la Terra, Crowleey.» Si alzò in piedi inciampando nel tavolino davanti al divano e per poco non fece volare la bottiglia che teneva in mano (che era la quarta, o forse la quinta…). «Stupida Terra. E io vado su Alfa Centaurr-auri. Ci pianto le piante. La ci cresce il vino, sì!» Rimase a fissare la parete di fronte, quella dove aveva fatto installare il televisore.

Era acceso ed emetteva un fastidiosissimo piiiiiiii.

Crowley pulì le orecchie con i mignoli, poi si cavò gli occhiali e strizzò le palpebre un paio di volte. «Seeeeh, ci cresce il vino su Alfa Centauri.» Concluse.

Ma la televisione non aveva finito.

Piiiiiiii. “Ehm, prova, prova... Come funziona questa cosa? O Cielo, è la prima volta che lo faccio. C’è nessuno? Demone Crowley?”

Il televisore parlava. E con l’accento di un macchiettistico poliziotto inglese.

Crowley guardò la bottiglia che teneva in mano, poi la televisione, poi di nuovo la bottiglia. Forse era lì che era finito il laudano. Nel dubbio, bevve un altro sorso.

“Mi sente?” Continuò la televisione. “Perbacco, devo aver sbagliato qualcosa.”

“Allora?” Si domandò la televisione cambiando voce.

Crowley si chiese se fosse il caso di tornare sobrio. «Naaaaaaah.»

“Sento qualcuno! Demone Crowley, sono Muriel, mi riceve?”

Il demone ruttò.

“Deve essere lui.”

Crowley decise di cambiare stanza. Prese un’altra bottiglia di vino, perché una per mano era meglio che una e basta, e si trasferì in camera propria, buttandosi di pancia sul grosso letto matrimoniale.

Peccato che anche lì ci fosse un televisore e anche quello iniziò a parlare.“Demone Crowley, so che mi aveva chiesto – con non troppa cortesia, mi permetterà di dire –  di lasciarla in pace, ma è davvero molto urgente e non sapevo chi altri chiamare e quindi…”

Crowley soffocò un grido frustrato in un cuscino. «Cosa deve fare un demone per ubriacarsi in pace?» E tutto il vino che aveva bevuto tornò lentamente da dov’era venuto. «Ascoltami bene, Muriel, perché non te lo ripeto più. Non hai bisogno di un travestimento da parrucchiere per parlare con la gente; se non paghi le bollette ti tolgono la luce e l’acqua; i fiammiferi sono nel secondo cassetto a destra della credenza nell’ingresso.» Biascicò mettendosi seduto. «E perché ora non usi il telefono?»

“Avevo paura che fosse tracciato”.

«Tracciato? Ma che- Muriel, quante serie TV poliziesche hai guardato? Non devi usare i tuoi miracoli per chiamare me

“I servizi segreti americani hanno orecchie ovunque” fece l’altra voce familiare dall’altro capo del televisore. 

«Anatema Device. Quale piacere.» Sbottò il demone, un po’ sorpreso, un po’ indifferente. Aveva iniziato a connettere un paio di puntini e le conclusioni a cui stava arrivando gli facevano venire voglia di ubriacarsi di nuovo. O di trasferirsi su Alfa Centauri. «Cosa ci fai alla libreria?»

“Non lo so, speravo me lo dicessi tu, Crowley. L’altro giorno ho trovato un foglio nella cesta dei panni sporchi e visto che il caso non esiste, quel foglio conteneva una profezia di Agnes.”

«Tsk.» Ti pareva. «Non erano finite con l’Armageddon le profezie? E tu non avevi un figlio o qualcosa del genere a cui badare?» Come Crowley facesse a sapere che lei e quel tecnico incapace avessero avuto un figlio era un segreto suo e della Bentley.

“Agnes ci aveva fatto recapitare altre profezie, ma io e Newt le abbiamo bruciate. Non tutte, a quanto pare. E Benedict è a casa con suo padre, grazie dell’interessamento.” Rispose spiccia Anatema. “Quindi, cosa sai della Seconda Venuta?” 
 

 
 
[1] Da qui la sua passione per fermarsi al bar più volte a settimana, tra le 17 e le 23, quando il grafico indicante questo tipo di esclamazioni per minuto raggiungeva il suo picco. Il tutto era ancor più divertente se per caso fuori dal bar c’era parcheggiata una Panda verde del ’99.
[2] Crowley lo conosceva. Lo aveva incontrato verso il 1312 in un bar a Verona. Non doveva essere un buon momento, perché appena aveva osato parlare di politica, quello si era alzato ed era corso via sbraitando qualcosa come “non donna di province, ma di bordello!”. Il demone non l’aveva più rivisto.

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Capitolo 4
*** 2 - EVEnti sospetti ***


2.



Qualche giorno prima

 
 
Eva Trevisan aveva quindici anni – quell’età in cui la faccia era piena di brufoli, le mestruazioni bussavano alla porta con la stessa prevedibilità e simpatia di una telefonata spam, gli ormoni odiavano il mondo e il cervello iniziava a capire che, soprattutto se eri una ragazza, anche il mondo odiava te.

Si trovava in una casa priva di condizionatore, impegnata a sopravvivere all’estate più calda mai registrata sulla Terra dall’inizio dei tempi[1]. Era sdraiata a stella marina sul suo letto con la tavola periodica stampata sulle lenzuola, teneva la testa rivolta di lato per riuscire a vedere lo schermo del cellulare e un ventilatore puntato in faccia per non sudare tutto il litro d’acqua che si era appena finita di bere.

Aveva passato le ultime due ore ad affogare la propria noia nell’incommensurata ignoranza del web, ma allo scadere della seconda si stancò anche di quello, sbuffò, abbandonò il telefono tra le lenzuola e si sdraiò a pancia in su. «Fa caldo.» E nell’esatto istante in cui lo disse, il cielo i oscurò e iniziò di colpo a piovere. Un vero e proprio temporale si scatenò sulla sua casa con la stessa velocità con cui si spegneva una luce.

Un rombo di motore in lontananza e tutto era tornato esattamente come prima. Tutto tranne l’espressione sulla faccia di Eva, che era rimasta paralizzata con gli occhi a palla e la bocca aperta.

«Ma che ca-» Balbettò appena riuscì a riprendersi. Si affacciò alla finestra, che visto il caldo teneva aperta, e si sporse fuori.

Nulla sembrava essere diverso da prima: i campi di famiglia erano coperti dalle solite piante di granturco rigoglioso; le stalle in lontananza erano sempre del loro colore grigiastro ed emanavano sempre il loro odore pungente; la solita nuvola nera di pioggia correva ai trecento chilometri orari verso l’orizzonte celeste. Eva sbatté le palpebre un paio di volte per essere sicura di non aver preso un abbaglio. La nuvola c’era ancora e non aveva niente di solito.

«Mamma!» Sbraitò correndo in soggiorno.

Sua madre era appisolata sul divano e si svegliò di soprassalto con gli occhi sgranati. «Odìo, sa succede?»

«Guarda fuori!»

«Odìo, cosa ga ciapà fuoco adesso?» Boccheggiò sua madre saltando in piedi. «Ndoe?»

Eva indicò il cielo con enfasi. «Guarda!»

Sua madre si attaccò alla finestra e scrutò ansiosa l’orizzonte un paio di volte, per poi fissare la figlia, confusa. «Cosa?»

Eva guardò nella direzione in cui puntava il suo stesso dito e vide solo il cielo limpido. Ritirò la mano piano, come se la nube potesse riapparire da un momento all’altro, aggrottando le sopracciglia. «C’era…»

Sua madre la guardava sempre meno allarmata e sempre più impaziente.

«Niente, ho visto una cosa strana. Tipo una nuvola.»

«Ma dito di fumo?»

«No, non mi pareva fosse fumo, no…» Che avesse pure sentito piovere a quel punto lo tenne per sé.

«L’importante è che non fusse mia fogo. Che di st’ano ema za perso abbastanza raccolto.»

Eva annuì, condiscendente. «Sì, devo aver visto male, scusa. Torno di là.»


Fece come aveva detto, pensosa. Spiegare a sua madre cosa aveva visto era fuori discussione: una volta ci aveva provato, cinque anni fa, quando aveva cercato di spiegarle che degli omini molto piccoli, con delle pale molto piccole, erano sul serio apparsi da una buca loro giardino. La ramanzina che le aveva fatto – “Non te ghe mia da prendar en giro to mama, Eva. Con tutto quel che fao par ti” – era stata sufficiente a placare qualsiasi altro spirito immaginativo. Avrebbe trovato da sola una soluzione.

Per ora le alternative erano due: o stava impazzendo lei, o stava impazzendo il mondo. La seconda non era poi così improbabile, dopotutto. Pochi giorni prima una grandinata da record aveva distrutto moltissimi raccolti nel circondario – i loro campi si erano salvati per miracolo – quindi aveva senso supporre che il fenomeno di quel giorno fosse collegato. Ed Eva, che era una ragazzina acculturata e se c’era qualcosa che conosceva bene era il problema ambientale, impiegò un istante a trovare il vero colpevole di tutti quei fenomeni.

«Maledetto capitalismo.» Sussurrò tra sé e sé.

Dopodiché, rinvigorita dalla carica anticonformista che rinvigoriva ogni adolescente, acciuffò il ventilatore per l’asta e lo spostò vicino alla parete dove aveva la scrivania con il portatile. Si sedette e iniziò la sua ricerca. Un istante dopo il suo fenomeno era già apparso tra i risultati della ricerca: tutti sembravano dare la colpa al cambiamento climatico, ma Eva era una donna di scienza e fermarsi alla superficie non faceva certo per lei.
 

Due ore dopo sapeva tutto di temporali, nuvole sospette e strani eventi meteorologici, ma nulla si riconduceva a quello che aveva visto lei. Mentre l’inquietudine e un certo terrore che il collasso climatico fosse più vicino di quanto pensasse iniziavano a farsi strada dentro di lei, udì la porta di casa aprirsi.

«Son rivà!» Annunciò la voce di suo padre dall’ingresso.

Eva approfittò al volo della scusa per distrarre i pensieri nella sua mente. Raggiunse suo padre in pochi secondi, ma lui era già svaccato sul divano, lamentandosi di essere stanco e affamato.

«Ciao, pa’! Com’è andata oggi?» Lo salutò.

Quello le rivolse uno sguardo vacuo per qualche istante, prima di biascicare: «Ah, ciao Eva, me portaresito un bicer de acqua da frigo? To mare l’è drio far da magnar, vera?»

Eva aveva già smesso di ascoltare l’uomo, che in ogni caso ripeteva sempre la stessa linea di dialogo ogni giorno, e aveva rivolto tutta la propria attenzione a un volumetto che era stato buttato sul tavolino davanti al divano.

Era certa che non venisse da quella casa, anche perché tutti i libri che avevano erano nella libreria in camera sua.

Lo prese in mano senza troppi convenevoli. Doveva essere molto antico; aveva la copertina rivestita in pelle non trattata, priva di titolo, con le pagine giallognole che, se aperte, emanavano un leggero odore di muffa e terriccio.

«E questo?» Domandò a suo padre, sventolandogli il libro davanti.

«Ah, chel lì l’ho catà soto terra drento ‘na scatola de latta mentre sera drio vangar.» (Ah, quello l'ho trovato in una scatola di latta sotto terra, mentre stavo vangando) Spiegò. «Seto se ghe pronto da magnar?» (Sai se c'è pronto da mangiare?)

Forse era stato messo in una sorta di “Capsula del tempo”, rifletté Eva. Per quel giorno ne aveva avuto abbastanza di nuvole, per un po’ poteva pure fare finta che fosse stata la sua immaginazione e per dedicarsi ad altro. «Posso prenderlo?»

«Cossa? Ah, sì, sì, fa come te ol. Mi olea brusarlo. Ma ghe pronto o no?» (Cosa? Ah, sì, sì, fai come vuoi. Io volevo bruciarlo. Ma c'è pronto o no?)

Eva fece finta di non aver sentito le ultime parole e schizzò in camera propria portandosi dietro il libro. Si sedette alla scrivania – sembrava un volume delicato e non voleva rischiare di rovinarlo – domandandosi se quello non fosse una sorta di diario segreto appartenuto a un qualche contadino vissuto decenni prima.

Con una delicatezza disumana, sollevò la copertina, poi il risguardo, che era di un bel rosso borgogna impreziosito da uccelli in volo stilizzati, e lesse il titolo.
Le Discrete e Aspecifiche Profezie di Sibilla Cumina, strega amatoriale

Non quello che si sarebbe aspettata. Ma nemmeno per sbaglio. La cosa più spinta che avesse osato pensare nel mentre che sollevava la copertina era un volume di letteratura erotica.

«In che senso profezie discrete e aspecifiche? E poi non era Sibilla Cumana? Cos’è ‘sto libro?»

Voltò anche la pagina del titolo e si ritrovò davanti un foglio bianco; voltò quella pagina e ne trovò un’altra bianca; tornò indietro ed era apparsa un’introduzione. Mollò il libro di scatto e saltò in piedi strillando. 

«Eva?» Le gridò sua madre dalla cucina. «Tutto ben

Eva deglutì, fissando il libro come se fosse una bomba pronta ad esplodere. «Sì, tutto bene.»

«Lavati le mani che tra poco c’è pronto!»

Non rispose a sua madre e continuò a fissare il libro: era aperto sulla pagina dell’introduzione, che prima era stata una pagina vuota. Si avvicinò di nuovo e lo prese in mano, facendo scorrere le pagine sotto le dita; sembravano tutte compilate con una grafia fitta, ma appena si fermava in un punto, qualsiasi esso fosse, la pagina era vuota. Eccezion fatta per l’introduzione.

«Deve essere un qualche effetto ottico. Tipo un’illusione.» Tentò di autoconvincersi. In realtà la sua mente era già partita in un quantitativo tale di congetture che avrebbe potuto riempire un altro volume come quello.

Tornò alla prima pagina e, un po’ tremando, un po’ fremendo, iniziò a leggere. Due righe e stava impazzendo.

«Giovanni Trevisan, nato a… O porca, o porca, ooo porca vacca!»

Poi si offese.

«Troppo pericoloso per me, cosa?»

Poi smise di capire a cosa diavolo l’autrice si stesse riferendo.

Poi ebbe paura e gettò il libro dalla finestra. 

Poi, qualche giorno e un'altra nuvola impazzita dopo, lo recuperò dall'aiuola e iniziò a tormentare suo padre affinché facesse quello che il libro voleva che facesse.
 
[1] Affermazione opinabile, in quanto alcuni testimoni diretti sostenevano che nel millenovecentoequalcosa un’estate in cui faceva caldo c’era già stata. Citando: "Anche quando ero giovane io faceva caldo."
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Spazio autrice:
Sono felice di presentarvi Eva! Lei è un mio personaggio originale, il mio pizzico di prezzemolo in questa fan fiction. Spero tanto che nel tempo imparerete a volerle bene! Lei è una piccola cosina carina, un mix di energia, entusiasmo e sano cinismo. State sicuri che ne farà di tutti i colori, sia per sè che per i nostri beniamini.
😂
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e di ritrovarvi al prossimo!
- Tara

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Capitolo 5
*** 3.1 - L'Apostolo delle Genti ***


3

Tessalonica
51 d.C.


 
Quella mattina a Tessalonica tirava un piacevole venticello.

Il demone Crowley giunse in città all’alba, insieme a una carovana di mercanti, domandandosi, senza troppa premura, cosa ci facesse lì.

Non essendo il tipo che amava darsi pena, la prima cosa che fece una volta arrivato fu acciuffare da uno dei carri un pallio e indossarlo su una sola spalla come andava di moda tra gli uomini in quel periodo.

A quel punto sgattaiolò via, lasciando ai mercanti la scelta se scannarsi a vicenda o se seguire il ragionamento più logico e pensare che, magari, quel tizio strano con dei vetrini neri sulla faccia fosse il vero colpevole.

Perché il dubbio? Nella carovana c’erano un ebreo e un samaritano.

Un piccolo miracolo demoniaco dopo e la stoffa della sua veste divenne nera come se fosse stata intinta nell’inchiostro. Si aggiustò gli occhiali nuovi, non troppo diversi da quelli che aveva indossato a Roma, diede una pettinata alla lunga barba fulva con le mani e fece con un sorrisetto soddisfatto. La moda umana gli piaceva, cambiava in fretta.

Di andare a Tessalonica glielo avevano ordinato i Piani Bassi. O meglio, questo era quello che Crowley pensava di aver capito, dal momento la nuova moda di quelle parti era diventata comunicare con l’aruspica. E lui non era mai stato un esperto.

Una tattica antiquata, quella, che il demone trovava viscida e disgustosa e che gli aveva fatto rimpiangere i tempi in cui doveva interpretare il volo degli uccelli. Certo, in quel periodo erano a corto di personale –  i cancelli dell’Inferno erano stati aperti da poco e non poteva aspettarsi che qualcuno gli spiegasse le cose di persona – ma il giorno in cui laggiù si sarebbero adeguati alla pergamena sarebbe stato comunque un giorno meraviglioso.

L’arte dell’aruspica, dicevamo, non era per nulla il suo forte. La disposizione delle viscere della povera bestia che gli era piovuta morta davanti gli aveva suggerito, nell’ordine: “Noce di cocco”, “Prurito al cuoio capelluto” e “Tessalonica”. Nulla che qualcuno di diverso da un demone avrebbe considerato sensato o promettente, ma Crowley, che in quel periodo detestava discutere con i suoi Inferiori, eccolo lì.

Giunto nella provincia greca per volere del fegato di un piccione.

Entrato in città, l’aria gli diede subito l’impressione di avere qualcosa di familiare, ma pensò dovesse trattarsi di uno dei tanti effetti dell’Impero Romano e del suo essere tanto vasto da rendere qualsiasi luogo in cui mettesse piede uguale all’altro. Quel tipo di uniformità forzata che mal sopportava, ma della quale, in quanto demone, non faceva per sua fortuna parte.

Tessalonica, quantomeno, manteneva vividi i propri tratti ellenistici, che spiccavano nel numero di edifici colonnati e di templi egizi, e nella quasi totale assenza di busti dell’imperatore Claudio. Questo, Crowley lo apprezzava. Che fosse una città commerciale, invece, riusciva a capirlo dalla calca: le strade pullulavano di carretti e di persone sbraitanti.

Si stava godendo la sua passeggiata, guardandosi la città senza riflettere troppo sul proprio obiettivo, quando la corrente di persone parve di colpo iniziare a fluire tutta nella stessa direzione.

«Finalmente.» Sibilò tra se, felice che tutto andasse secondo i suoi piani. Era certo che prima o poi la folla avrebbe fatto il lavoro sporco al posto suo: gli umani avevano un certo naso quando si trattava di eventi importanti. Erano come le formiche, ne bastava una e tutte le altre la seguivano.

Il flusso lo portò in una piazzetta circondata da blocchi di marmo su tre lati e da un grosso edificio colonnato sul quarto. Sui blocchi si stava sedendo la folla, in ascolto di un uomo che parlava a gran voce al centro.

Sembrava un predicatore, dimostrava tra i quaranta e i cinquant’anni, non troppo alto di statura, aveva una veste sdrucita e consumata, una lunga barba incolta e alcuni capelli sparuti sul capo. Al demone bastò ascoltare poche parole del suo discorso per capire che quello, con buone probabilità, era il motivo per cui si trovava lì.

«E io, mie fratelli, vi dico: non temete! Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo…»

La gente pendeva dalle sue labbra. Crowley, ascoltò quella frase e poi gli prestò solo un orecchio. Qualcos’altro, quello che rendeva l’aria in città così familiare, aveva già attirato l’attenzione di tutto il resto del suo corpo.

«…quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell'aria, e così saremo sempre con il Signore.…»

Seduta impettita su uno dei blocchi di marmo, con la schiena dritta e le mani posate in grembo, stava una figura dall’aspetto radioso. Indossava una toga candida, uno degli abiti più scomodi del periodo, ma che sembrava creata apposta per lui; aveva capelli corti, ricci e chiari come nuvole all’alba e occhi azzurri come il cielo di mezzogiorno. Lui solo, agli occhi del demone, spiccava tra tutti, come se fosse in grado di irradiare luce propria. Crowley fece un sorrisetto e si avviò, giocoso.

«…Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti voi ben sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore.»

«Qui per ascoltare l’operato dei Piani Alti, Aziraphale?» Sibilò Crowley scivolando al fianco dell’angelo.

L’angelo sussultò, portandosi le mani al petto. «Crowley!» Lo guardò con gli occhi sgranati, poi lo squadrò dall’alto in basso, con un’impercettibile delusione nella voce. «Niente vesti romane?»

«Nah.» Crowley accucciò vicino a dove stava seduto l’angelo. «Tra i commercianti il male divampa prima.» Poi fece un cenno verso predicatore, che continuava imperterrito a parlare e a sbracciarsi. «Quello chi è?»

Aziraphale si aggiustò sulla seduta e alzò il mento, orgoglioso. «Lo chiamano l’Apostolo delle Genti. Un bell’acquisto, se devo dire la mia.»

Crowley strizzò gli occhi, poi ebbe un’illuminazione. «È quello cascato da cavallo!»

Aziraphale trasalì e gli tappò la bocca, facendo sorrisetti costernati alla gente che li circondava. «Sì. Sì, è quello…» Bisbigliò. Poi, come se si fosse reso conto del contatto fisico, tolse in fretta la mano, svelando un sorriso sardonico del demone.

«Crowley…»  

«Hai capito i Piani Alti. Alla fine t’ho fatto un signor favore.»

Aziraphale si accucciò per essere alla sua altezza e continuò sussurrando. «Non dobbiamo parlare di queste cose!»

«Suvvia, angelo. Faceva ridere e l’ho fatto io. Non lo saprà nessuno.»

L’altro aprì la bocca per controbattere, ma il predicatore rivolse loro uno sguardo di fuoco e si zittì di colpo. Crowley guardò in tralice il Profeta delle Genti, o come si chiamava, ma si alzò in piedi e fece cenno con la testa al suo compare di seguirlo. Aziraphale lo seguì spazzolando via la polvere dalla veste.

«Mettono posti in cui sedersi e nemmeno li puliscono…» Lo sentì il demone bofonchiare.

«Quindi» continuò Crowley quando furono dal lato opposto della piazza, «Quali sono i tuoi ordini?»

«I miei ordini? Perché?»

«Bah, i miei mi hanno fatto sapere di arrivare fin qui, ma non ho idea del motivo. Considerato che ci sei tu, immagino il contrario di quello che spetta a te.»  

«Non dirmelo. Ancora la storia dell’aruspica?» Gli domandò Aziraphale con una smorfia disgustata in faccia. «Siete proprio dei barbari, voialtri. Ai piani bassi non hanno ancora le pergamene?»

«Belzebù ha preso il concetto di scrivere su pelle animale troppo alla lettera»

L’angelo indicò il predicatore con la testa. «Devo difendere quell’uomo. Un lavoraccio, non ho tregua.» Piagnucolò. «Ovunque vada lo arrestano e cercano di giustiziarlo.[1] L’ultima volta ho dovuto evocare un terremoto.»

Il demone si portò le lenti degli occhiali sulla punta del naso e lo fissò.

«Ohh, non guardarmi così. Erano sbarre di ferro e di certo non mi sarei messo a piegarle a mano.» Si aggiustò le maniche della tunica, come se solo menzionare l’azione le avesse rovinate. «Ho una dignità.»

«Quindi devo farlo ammazzare?» Riflettè Crowley, già pensando a come avrebbe potuto cavarsela quella volta. Magari l’avrebbe trasformato in un cavallo; sarebbe stato abbastanza ironico.

«Ammazzarlo?» Sussultò l’angelo. «Non credo, noi siamo in viaggio da anni. Ti avrebbero mandato prima.»

Crowley ringhiò. «Odio pensare.»

In quel preciso momento alcune grida di panico si levarono dalla folla, insieme a un gruppetto di lance in lontananza. Aziraphale sollevò la testa e si mise subito in allerta. «Eccoci.» Si rivolse al demone con aria dispiaciuta. «Devo andare.»

«No, no. Vengo anche io.» Decise Crowley sul momento, voltandosi verso il predicatore. Schioccò le dita e la folla si aprì per lasciarli passare. «Prego, angelo, dopo di te.»

«Sei sicuro che sia una buona idea?» Tentennò Aziraphale, giocherellando con le proprie stesse mani. «Insomma, quella volta che abbiamo collaborato per la storia di Giobbe, noi… Io…»

«Abbiamo fatto quel che ci riusciva.» Lo interruppe Crowley, sbrigativo. «Andiamo.»
 
 
[1] Facendo una sommatoria poco approssimativa, Aziraphale aveva salvato la sua vita ventitré volte. Ventiquattro contando anche il naufragio di quattordici giorni al largo di Creta.

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Nota autrice:
Grazie per aver letto anche questo capitolo! Spero tanto che vi sia piaciuto.😊 Per scrivere questa parte ho raccolto informazioni per ore, sia leggendo la Bibbia stessa che altre fonti. Ovviamente per dovere di trama non ho scritto tutto ciò che ho imparato, ma è stata un'esperienza molto formativa XD. Come avrete notato, ho deciso di dividere i capitoli in più parti, così da parte mia riesco a gestire meglio la stesura e la correzione, e per chi legge credo (spero!) possa essere utile avere un caricamento in più per far riposare gli occhi.
In secondo luogo, non sono un'esperta di EFP, lo ammetto, ma vagando in queste settimane ho trovato una comunità di Good Omens attivissima e piena di storie interessanti (che intanto ho tra le preferite e dovrò assolutamente recuperare quando avrò tempo!) Per cui vorrei approfittarne per dire che se per caso aveste voglia di fare due chiacchiere al riguardo, io sono disponibile molto volentieri
In ogni caso, spero di ritrovarvi nei prossimi capitoli!
- Tara

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Capitolo 7
*** 3.2 - L'Apostolo delle Genti ***


«Cosa sta succedendo?» Domandò Aziraphale trafelato quando giunsero davanti all’apostolo.

«Le vie del Signore sono infinite, fratello Azaria. In questo gior-»

«La comunità ebraica non ha apprezzato che si parlasse di un’altra religione davanti alla loro sinagoga.» Lo interruppe Crowley, accennando all’edificio alle loro spalle. «Da quanto siete qui?»

Aziraphale tentennò, poi abbassò la testa. «Tre giorni…»

«Quanto, scusa?»

«Tre giorni!» Sbottò l’angelo.

Crowley iniziò a fumare dai piedi, poi prese un respiro profondo e il fumo gli rientrò nelle suole dei sandali. «Bene. Suggerirei di levarci di torno.» Diede uno spintone all’apostolo mandandolo lontano dal centro della piazza, poi si rivolse ad Aziraphale, inclinando la testa. «Azaria

«Nome umano.» Gli sussurrò l’angelo. «L’ho usato una volta tempo fa.»

«Devo prendere nota o…»

«Oh no, no, va bene Aziraphale.»

«Attenzione!» Crowley prese l’angelo per una manica e lo trascinò verso di sé appena in tempo, perché una lancia sfrecciò a velocità allarmante nel punto esatto dove prima c’era la sua testa. Quando ce l’ebbe a una spanna dal volto, lo guardò negli occhi da sotto le lenti. «Okay, via.»

Senza attendere la reazione dell’angelo, ma tenendo sempre la sua toga stretta in pugno, Crowley si buttò in mezzo alla folla, raggiunse l’Apostolo delle Genti – che si stava difendendo come poteva con una spada trovata chissà dove – e lo prese a braccetto, correndo come un treno.

«Viaviaviavia.»

«Scusi, ma lei chi è?» Piagnucolò il predicatore, segnandosi una piccola croce in fronte. «Che Dio abbia pietà di noi.»

«Se non taci e ti muovi dovrai sperare che io abbia pietà di te.»

La piazza veniva sommersa dalle urla delle persone e dal clangore delle armi, mentre il demone tentava in ogni modo di preservare il proprio corpo mortale e quello degli altri due.

Ad un certo punto Aziraphale scivolò fuori dalla sua presa e con un gesto del braccio si mise davanti a un’anfora che stava volando verso di loro. Il vaso, invece di affondare nella stoffa della lunga manica, vi esplose contro con un suono metallico, come se quella fosse fatta di ferro.

«Razza di incivili, questa è manifattura pregiata!»

«Fottiti!» Sbraitò qualcuno tra la folla.

Aziraphale si indignò e gonfiò il petto come una colombella. «Maleducato!»

Un istante dopo, Crowley miracolò una pietra che stava volando verso l’angelo, facendola diventare un mazzolino di non ti scordar di me. «Non fermarti a discutere!»

Bastò quel momento di distrazione di entrambi, una delle poche volte in cui Crowley sbatteva le palpebre, e l’apostolo era andato. Sparito. Volatilizzato.

«Oh, no…» Aziraphale iniziò a guardarsi intorno nel panico, mentre la folla rischiava di schiacciarli. «Oh, cielo! Paolo!»

«Porc- Di qua!» il demone si buttò in un vicolo, trascinando con sé l’angelo.

Nonostante i loro corpi non avessero bisogno di respirare come quelli umani, Aziraphale sembrava comunque in iperventilazione, con il panico scritto negli occhi. «E ora che facciamo?»

«Si sarà perso tra la folla.» Crowley si affacciò dal vicolo e cercò di distinguere il viso dell’apostolo nella massa. «Avete un punto di ritrovo?»

Aziraphale sembrava avere il cervello immerso nella nebbia. «Sì, no, credo… Non lo so, non ricordo!» Balbettò. «Oh, sciocco me, come faccio ora? Gabriel si era raccomandato, non posso sbagliare con Paolo.» Iniziò a camminare avanti e indietro nel vicolo, portandosi dietro lo sguardo del demone. «Mi declasseranno! Tornerò un cherubino! E chi fa di nuovo carriera da lì? Il grado di principato l’ho raggiunto solo perché è nato il genere umano…»

«Aziraphale…»

«Non è facile fare carriera in Paradiso. Non quando gli Arcangeli sono stati creati per questo e noialtri no. Oh, stupido, stupido Aziraphale. Mi metteranno tra gli angeli scribi. Inventeranno il trentottesimo grado solo per me!»

«Angelo.»

L’angelo si fermò e si mise impettito, come imitando qualcuno. «Paolo di Tarso è fondamentale. Deve annunciare la Seconda Venuta. Quindi non fare danni come sempre, capito, Aziaphale?» Poi si accartocciò su sé stesso. «Nessuno Lassù mi darà più un incarico importante…»

«Angelo!» Sbraitò Crowley.

Aziraphale lo guardò. «Cosa!»

Crowley diede un'altra inutile occhiata alla folla e si voltò verso l’angelo. «Gabriel è in paradiso a tormentare cherubini e tu sei qui. Nessuno sta pensando a declassarti.»

«Ma tu non temi i tuoi? Non sai nemmeno cosa devi fare e abbiamo perso l’unico indizio.»

Crowley pensò che non fosse il caso di rispondergli che no, i suoi non li temeva perché non avrebbero avuto nessuno con cui sostituirlo e perché era sicuro di aver appena ottenuto quello che cercavano, così ripiegò. «Per questo adesso andiamo a cercarlo.»

Aziraphale sembrò calmarsi un poco a quelle parole, come se sapere di non essere da solo ad affrontare i propri doveri gli desse conforto. Dopotutto, loro due erano le eccezioni, lo avevano capito entrambi 2551 anni prima, ma l’angelo sembrava restio a rendersene conto. «E dove?»

«Avevate un punto di ritrovo? Magari è andato là.» Riprovò, ora che gli pareva lucido.

L’angelo si illuminò di colpo, come solo lui riusciva a fare. «Crowley! Vecchia serpe, certo!»

«Visto? Non ci voleva molto, angelo.»

«Ero nel panico, va bene?» Si schermì lui, aggiustandosi la toga. «Seguimi.»

Fuori dal vicolo, il caos generale stava lentamente andando a scemare. Aziraphale infilò una via secondaria con sicurezza, mentre il demone con gli occhiali da sole gli andava dietro, attento che nessun residuo bellico volante li colpisse.

«Il Paradiso ti fa così paura, Aziraphale?» Chiese d'un tratto, a bruciapelo

«Paura?» Aziraphale sussultò e poi alzò il mento. «Oh, no, non ho paura del Paradiso. Solo molta premura di fare la mia parte. Per il bene e la luce.»

«Quindi hai paura di fallire.»

«Si capisce! Se il bene e la luce fallissero, i tuoi vincerebbero e sarebbe terribile.»

«Hai mai pensato, che so, al grigio nel mezzo?» Buttò lì il demone.

«Grigio?» L’angelo ridacchiò. «Non esiste grigio, Crowley.» Lo ammonì, con fare paternalista. «Quello è ciò di cui gli umani si convincono per sentirsi liberi di fare la cosa sbagliata. Ma si ingannano. Nel mondo ci sono il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, il bianco e il nero. È ineffabile.»

«Come uccidere i figli di Giobbe?»

Aziraphale si fermò e per poco il demone non gli finì addosso. Tacque qualche secondo, prima di rispondere. «Noi non possiamo giudicare gli intenti del Piano Ineffabile. Se quello che abbiamo fatto fosse stato davvero sbagliato, di certo il Paradiso avrebbe preso provvedimenti.» Si asciugò le mani sulla veste e riprese a camminare, di colpo più veloce.

«Tu dici?» Crowley lo sapeva, lo sentiva, che nel profondo più profondo di quella testolina riccioluta nemmeno lui ci credeva.

Ma Aziraphale no. Non ancora. «Certamente.»

«Ah, eccoci!» Esclamò qualche istante di silenzio dopo. «La casa di Giaso-o- O cielo.»

Davanti all’edificio, una domus romana in piena regola con due piccole tabaernae sul davanti e un accenno di atrio all’interno, stavano tre uomini circondati da una folla recalcitrante. Due dei tre erano già stati legati, mentre il terzo, Paolo di Tarso, Apostolo delle Genti, Tizio Cadutodacavallo, stava cercando invano di sfuggire a decine di mani che volevano acciuffarlo.

Crowley lo fissò per un po', pensoso, poi un sorrisetto malsano gli apparve in volto e un sibilo serpentino gli sfuggì dalle labbra. Aveva avuto un'idea.

Aziraphale gli diede un'occhiata di sfuggita, concentrato sugli uomini, poi si rese evidente conto di quello che aveva visto e ritornò sul demone. «No, Crowley, no.»

«Eddai.»

«Assolutamente no!»

«Ma sarebbe divertente.»

«Cosa penserebbe la folla!»

«Che dio l’ha trasfigurato?»

«Non essere blasfemo!»

«Sono un demone, angelo. È il mio lavoro.»

«Non puoi trasformarlo in un cavallo, Crowley.»

Il demone sbuffò, un po' per scherno, proprio come un cavallo. «Va bene. Quindi come gli impediamo di essere catturato di nuovo?» Indicò l’apostolo. «Guarda, l’hanno preso.»

Aziraphale girò su sé stesso un paio di volte, cercando delle soluzioni nei dintorni.

«Lo stanno legando, eh. Io te lo dico.»

L’angelo lo guardò e nei suoi occhi si accese il panico, ma questa volta dal panico scaturì una scintilla. Una folgore che Crowley aveva imparato a riconoscere e adorare, perché prometteva sempre bene.

«Per il futuro ti consiglio Atene. Le frittelle dolci sono, come diresti tu, paradisiache.» Disse in fretta.

Un istante dopo, un cavallo nero come la pece e uno bianco come una colomba stavano correndo a briglia sciolta tra la gente. I presenti saltarono di lato, colti di sorpresa e incerti su cosa diavolo stesse succedendo. Il cavallo bianco prese in groppa i tre uomini, mentre quello nero iniziò a scalciare e saltare come imbufalito, impedendo alla folla di opporsi agli eventi – fu un miracolo se quel giorno nessuno si fece del male. Poi, come se nulla fosse accaduto, le due bestie corsero via, in due direzioni opposte.

L'evento, di per sé, fece scalpore solo in quel preciso momento e ben presto molti lo dimenticarono, ma c’è chi dice che il cavallo nero, prima di andarsene, avesse fatto un occhiolino a quello bianco.

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Spazio autrice:

Sì, l'ho fatto davvero. No, non me ne pento e non lo farò mai😂. Az e Crowley sono il mio posto sicuro, la mia coppia preferita e, soprattutto, il mio duo del caos. Ognuno è libero di pensarla come vuole, ma dal mio punto di vista non è assolutamente improbabile che, almeno una volta in seimila anni, siano diventati dei cavalli al solo scopo di fare casino. Considerato poi i precedenti del soggetto per cui l'hanno fatto... No, non me ne pentirò mai. (Avrei voluto scrivere che questa fosse una scena biblica, attentamente studiata e riproposta, ma purtroppo devo confessarvi che il testo è lacunoso e che questo è frutto della mia mente malata.😂)
Aggiornamento in leggero anticipo per festeggiare la conferma della terza stagione! è passato più di un giorno e io continuo a infartare quando mi appaiono post al riguardo su Instagram. Ho iniziato un rewatch per festeggiare? Sì, ma non ditelo in giro. Dovrei star studiando. 
Spero che questo capitolo pieno di caos vi sia piaciuto! Come sempre sono super felice di leggere i vostri commenti!
Alla prossima,
- Tara
 
P.s.
Per chi c'è dall'inizio: sto sperimentando con la formattazione del testo. In questo capitolo ho deciso di mettere uno spazio tra ogni riga, un po' com'è il mio documento Word. Secondo voi è meglio o peggio?

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Capitolo 8
*** 4 - The Show Must Go On ***


4

 
Da qualche parte vicino a Verona
Presente
 

Cosa sai della Seconda Venuta?

Cosa sapeva della Seconda Venuta, Crowley in quel momento avrebbe tanto voluto non ricordarlo. «Hai presente la Bibbia?» Chiese.

“Uh, io sì! Io sì!” Esultò Muriel.

“Certo che ho presente la Bibbia, Crowley!” Rispose Anatema, stizzita.

«Non si sa mai. Non eri tu quella delle Belle Profezie?» Considerato la fede che lei a suo tempo riponeva in quel libro, non si sarebbe stupito se avesse soppiantato l'intera Bibbia. «Comunque. Il tizio che è caduto da cavallo ci ha scritto qualche capitolo, mi pare.»

“A volte è come parlare con Agnes.”

«Cosa! Con lei non potevi parlarci. Al massimo interpretavi.»

“Ma certo! Paolo di Tarso, l’Apostolo delle Genti. Sono una sua grande fan! Vissuto tra il 4 e il 67 dopo Cristo, fu uno dei più prolifici lavoratori per il Paradiso. Tredici delle sue lettere sono state ammesse al canone biblico. Le conosco a memoria: tempo fa le ho dovute categorizzare tutte per ordine alfabetico, e poi per numero di parole, e poi per il numero di volte in cui si ripeteva la parola Signore. Nella prima lettera ai Corinzi sono sessantanove[1], mentre in quella a Tito nemmeno una! Poi se si vuole analizzare la-”

«Sì, quello. Bravo, Muriel.»

“Cosa c’entra?” Chiese Anatema.

“Io lo so! Paolo di Tarso fu il primo profeta del Nuovo Testamento ad annunciare la Seconda Venuta!”

«Sentito, Anatema?»

“Ottimo, quindi? Sappiamo cosa c’è scritto sulla Bibbia, Crowley. Ci serve sapere cosa ne sai tu.”

Il demone si ributtò di schiena sul letto, sprofondando tra le lenzuola nere con un grido esasperato. «Io so quello. Fine. The end. Fin. Finis. Owari. Caput.»

“Ha detto fine in diverse lingue. Credo. Non sono esperto in queste cose.” Sentì Muriel bisbigliare.

"Lo immaginavo, però grazie, Muriel."

Crowley arricciò il naso e tirò su la testa. «Ma voialtri due da quando fate comunella? Sappiamo, ci serve…»

“Oh, giusto, certo." Muriel cambiò tono, come se dovesse fare un rapporto ufficiale. "La signorina Device è arrivata alla libreria qualche giorno fa chiedendo dell’Arcange- e- ehm di  me! Sì, di me. Di nessun altro.”

Risbatté il capo sul materasso.

A Londra, nella libreria dell’uomo che si fa chiamare caduto, contatta colui che caduto è davvero.” Iniziò a recitare Anatema. “Fuoco, fiamme, la seconda fine. Forse il mondo sarà salvato, se ciò che è diviso tornerà un intero.” Sospirò. “Questa è la profezia. La prima parte non è stata difficile da decifrare. La libreria dell’uomo che si fa chiamare caduto: A. Z. Fell. & Co.”

Crowley rabbrividì.

“La signorina Device mi ha subito riconosciuta come angelo.” Disse Muriel, ridacchiando.

“Qualche anno fa non sarei stata in grado di cogliere la differenza, ma avendo già un precedente…” Precisò Anatema.

“A quanto pare la nostra aura è bordata d’oro!” Fece l'angelo, fin troppo entusiasta.

«Wow, è fantastico, Muriel. Quindi colui che è caduto davvero dovrei essere io?» Arrivò al punto il demone, che stava contenendo la propria voglia di andarsene solo perché il letto era troppo comodo per alzarsi.

“Sì!”

“Esatto”. Fecero in coro i due.

Crowley teneva lo sguardo fisso sul soffitto. Se l’era fatto dipingere come fosse una galassia: la sola idea di guardare – per non parlare di andare – in alto lo disgustava fin nelle ossa, così si era portato lo spazio in casa. Certo, il pittore non aveva idea di quale fosse la precisa configurazione della Via Lattea e il demone aveva dovuto dargli un piccolo aiuto dei suoi, ma il risultato non era venuto per nulla male. Poi, un giorno, si era reso conto che pure le belle sfumature dello spazio infinito gli portavano alla mente cose che non voleva ricordare, così aveva smesso di guardarlo. Fino ad allora. Si ritirò su, scottato.

«Spiacente di deludere, signore, ma io non so nulla.» Due passi e fu davanti al televisore. «Anatema, lascia in pace il piccoletto e tornatene a casa. Muriel, non metterti contro i tuoi superiori e se ti serve qualcosa usa il telefono.»

“Demone Crowley, lei non capisce!”

«Na-nah, Muriel, tu non capisci.» Si avvicinò quanto più poteva allo schermo. «Non devi metterti contro il Paradiso, chiaro?»

“Ma…”

«Niente ma, putto.» Lo interruppe Crowley. «I tuoi piani alti hanno il Libro della Vita. Credi si farebbero delle remore ad eliminare un cherubino?» No, non lo voleva sulla coscienza. Una certa elettricità iniziò ad accumularglisi sulle punte delle dita. Non si sarebbe affezionato a un altro angelo per poi vederlo di nuovo sparire da un giorno all’altro dalla sua vita.

Muriel tacque un istante, probabilmente presa in contropiede, poi ricominciò, mesta. “Lei crede davvero che il Supremo Arcangelo potrebbe-”

Un fulmine cadde dal cielo dritto sulla casa del demone, esplodendo con un colpo secco.

«No.» Sibilò Crowley, aprendo e chiudendo i pugni per scaricare l’energia. «Ma stanne fuori comunque, per il tuo bene. Ciao.»  Staccò la presa dalla corrente e strisciò di nuovo sul letto con il viso rivolto verso il basso. Arrivò al cuscino e gli tirò una testata. Sconfitto.
***

«Ciao? È un tipo di cibo? Cos’era quel botto? Demone Crowley?» Domandò Muriel, rivolta allo schermo.

«Ha detto ciao in italiano.» Sbuffò Anatema. «E credo non abbia altro da aggiungere.»

Muriel provò a dare qualche colpetto innocente – più delle carezze energiche – al vecchio televisore a tubo catodico che aveva trovato in uno sgabuzzino della libreria. «Accidenti, questo è un guaio. Il demone Crowley è l’unica persona disponibile che abbia già fermato un’Apocalisse.» Guardò Anatema. «Oltre a lei, ovviamente.»

Anatema affondò nella poltrona davanti alla scrivania. Avevano portato lì il televisore e lo avevano poggiato su una pila di libri; Anatema sapeva bene che non bisognava fidarsi dei mezzi di comunicazione distribuiti sul mercato. Non per le cose importanti. Il Governo sarebbe stato in grado di tracciarle, e chi avrebbe spiegato loro che avevano modo di credere che la seconda Apocalisse era vicina e che un demone in Terra forse sarebbe stato in grado di fermarla? Di certo, non lei. «Io non aggiusto ossa con uno gesto.» Disse. «Quindi lui e l’angelo si detestano del tutto?»

Muriel sobbalzò, gettando in fretta un vecchio telo sul televisore, come lo avevano trovato. «Oh, non saprei! Di certo non si parlano.» Abbracciò l’apparecchio e si mise a sussurrare, come se il demone dall’altra parte potesse ancora sentire. «Il demone Crowley non apprezza nemmeno il più piccolo riferimento ai suoi trascorsi con il Supremo Arcangelo. Ho rischiato abbastanza a menzionarlo una volta.»

Anatema ignorò l’ultima parte; i drammi tra due creature soprannaturali non erano ciò di cui le importava al momento. «E il Supremo Arcangelo non si fa vedere.» Rifletté, ripetendo quello che Muriel le aveva detto appena aveva messo piede in libreria.

«I suoi compiti sono molto più alti, ora. Non può permettersi di tornare sulla Terra a piacimento. E poi…» Abbassò ancora di più la voce. «Tecnicamente è lui a comando della Seconda Venuta, quindi…»

Anatema sbuffò, stringendo al petto il foglietto con l’ultima profezia di Agnes. «Quindi è finita.» Il suo sguardo vagò tra gli scaffali pieni di libri e si fermò fuori dalla vetrata, in mezzo alla gente. Entro poco, nulla di tutto ciò avrebbe avuto più senso. Sarebbero morti tutti, sotto le fiamme del cielo e lo sguardo giudicante del Figlio dell’Uomo. Certo, cinque anni fa si erano salvati, ma c’era Agnes con lei. E una coppia improbabile di entità sovrannaturali pronte a ribellarsi ai loro superiori. Ora c’erano solo lei e un angioletto dimenticato in una libreria. L’unica cosa a consolarla era che, forse, suo figlio Benedict in un anno di vita non aveva accumulato abbastanza peccati da essere condannato.

Si mise le mani davanti alla bocca, soffocando un singhiozzo. «Non è giusto…» Aveva passato tutta la sua vita a seguire alla lettera le profezie di Agnes. Lei era nata per impedire l’Apocalisse e, incredibile ma vero, ce l’aveva pure fatta. Questo per vedere comunque il mondo finire in cenere qualche anno dopo. La sua casetta, la sua famiglia, la stabilità che si era creata con immensa fatica dopo aver imparato a vivere con la propria testa. Tutto destinato al macero.

«Oh, cielo. Piange…» Muriel iniziò a guardarsi intorno, agitata, borbottando tra sé e sé. «Cosa si fa quando un umano piange? Oh, accipicchia. Oh, caspiterina. Pensa, Muriel, pensa.»
La donna scosse la testa, tirando su col naso. «Non preoccuparti. So che da qualche parte ci dev’essere una soluzione, ma ora non riesco a vederla. Penso alla mia famiglia, a mio figlio e…» Gli occhi le si riempirono di nuovo di lacrime.

Muriel trasalì. «Oh, no, mi spiace, io…» Le posò una mano sulla spalla, la tolse, la rimise. Pensò che forse non voleva essere toccata e la tolse di nuovo. Si girò dall’altra parte – forse era il caso di darle un po’ di privacy, ma non voleva far passare l’idea di essere indifferente, o cielo, cosa doveva fare? – e il suo sguardo cadde sulla scrivania con il televisore. Davanti allo schermo c’era un fazzolettino in cotone bianco, stirato e piegato, con delle iniziali ricamate in nero.
A. J. C.

«Giusto!» Troppo nel panico per domandarsi come fosse apparso lì, prese il fazzoletto e tra le mani e lo porse ad Anatema con un sorriso incerto. «Ecco.»

***
 
Dall’altro capo dell’Europa, Crowley era steso a pancia in giù sul letto e aveva ancora una mano in aria, con le dita a riposo dopo averle fatte schioccare. Soffiò come un serpente contro il cuscino. Stupide case italiane con il loro stupido carattere testardo. E stupido demone con la sua stupida indole.

Che diavolo era?

Letteralmente. Che razza di demone avrebbe fatto quello che stava per fare?

Non lo sapeva, non gli importava. Tentò, inutilmente, di incutere un po’ di terrore divino sulle pareti stuccate di nero di casa sua, acciuffò un paio di occhiali dal comò degli occhiali – le sue frequenti ubriacature lo avevano reso necessario come supporto al portaoggetti della Bentley – e uscì sbattendo la porta.

Fuori era mattina inoltrata: la sua sbronza doveva essersi protratta più di quanto pensasse. La nebbiolina tipica dell’alba si era già diradata, lasciando spazio a uno scenario di colline verdeggianti punteggiato da qualche casa in distanza.

«Quando torno dovete essere verdi come loro!» Gridò alle vigne di sua proprietà, indicando quelle lontane. «O devo ricordarvi cos’è successo all’uva fragola?[2]» Il vigneto fremette, scosso da una brezza fatta di panico, e si colorò di un bel verde acceso mentre il demone raggiungeva la Bentley. Crowley montò in auto e accese il motore, uscendo dalla cancellata con la stessa destrezza e spinta di un tassista sottopagato in centro città. La sua nuvola nera lo seguiva, fedele.

«Adesso, Bentley. Troviamo il matto di ieri, prendiamo il libro, lo diamo ad Anatema e ci richiudiamo in casa per il resto dell’eternità.» Spiegò alla sua auto, che rispose riproducendo The Show Must Go On dei Queen.
 
[1] Chiunque abbia commentato la casualità, finirà all’inferno con questa autrice.
[2] La prima volta che il demone aveva bevuto del Fragolino, pochi giorni dopo essersi trasferito, aveva pensato che il suo sapore dolciastro sarebbe piaciuto parecchio a una certa persona. Come reazione, aveva buttato tutta la sua scorta e impedito alla cantina sociale di produrne altro. La pianta l’aveva donata lui stesso al vicino. Ma questo le altre non lo sapevano.

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Nota autrice: 
Grazie di essere arrivati in fondo anche a questo capitolo! Sono sempre felice di ritrovarvi :D
Mi faccio viva per una piccola nota: come forse avrete avuto modo di notare, Muriel nel testo cambia continuamente pronomi dal maschile al femminile. Questa è una mia scelta deliberata per rendere il fatto che in originale, ci si riferisce a l*i con il neutro. So che potrei utilizzare lo schwa, ma trovo che rallenti la lettura e la fruibilità del testo, quindi ho preferito questa alternativa.
Spero che non vada a inficiare sulla chiarezza del testo. Nel caso, come sempre, sono super aperta al dialogo e ai consigli!
Spero di ritrovarvi anche nei prossimi capitoli.
Alla prossima,
Tara.

p.s. Sì, nella Prima lettera ai Corinzi, il nome Signore compare davvero 69 volte.

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Capitolo 9
*** 5 - Acqua e cenere ***


5

Da qualche parte vicino a Verona
Presente

 
 
C’era una cosa che un vero padre doveva essere in grado di fare quando le circostanze lo richiedevano e Giuseppe, detto Bepi, padre modello, ne era un vero esperto. Quella cosa era mentire. Perché l’arte del contar balle, per il padre medio, era una questione di vita o di morte, la sottile barriera che si trovava nel mezzo tra la propria pace interiore e una marea di rotture di scatole.

E fu in virtù della propria maestria, che alla domanda: «Allora, hai consegnato il libro?» postagli a bruciapelo dalla figlia una volta rientrato a casa, l’uomo fu in grado di rispondere: «Sì» e fuggire in bagno a gambe levate.

Insospettabile.

O così credeva.

Perché se non l’avesse creduto, forse si sarebbe reso conto della manata che Eva si era tirata in faccia non appena lui era uscito dalla porta. La ragazzina lo sapeva che non avrebbe dovuto fidarsi di lui, ma con quel poco di ingenuità dei suoi quindici anni ci aveva comunque sperato. Si ripromise che non avrebbe commesso di nuovo lo stesso errore.

«Quindi, papà» Partì alla carica mezz'ora dopo, quando si furono accomodati tutti a tavola per la cena, «Come ha reagito?»

«Eh? Ci?»

«Colui al quale hai consegnato il libro…» Strinse gli occhi in una fessura. «Perché gliel’hai consegnato, vero?» 

Suo padre deglutì una sorsata generosa del vinello che gli piaceva gustarsi a ogni pasto. «Eh sì, eh, che ghe l’ho dato. Eh. L’ha dito: “Grassie, tanto gentile, dopo el lezo. Arrivederci.”» (Eh sì, eh, che gliel'ho dato. Eh. Ha risposto: "Grazie, molto gentile, dopo lo leggo. Arrivederci")

«Mh mh e poi?»

«E poi, cossa? L’ha tolto el libro e l’è ‘na drento.» (E poi, cosa? Ha preso il libro ed è andato dentro.)

«E com’era fatto?»

«Senti, Eva, son straco, non romparme le bale.» (Senti, Eva, sono stanco, non rompermi le palle.)

La madre, intanto, rivolgeva la testa da un capo all’altro della tavola come un tifoso del tennis seduto sugli spalti durante una partita.

«Ma io voglio solo sapere com’era, uffa!»

«Come l’era, come l’era… L’era n’omo, sa uto che fusse? Dime ti sta fiola, mai ‘na olta che la me dimanda come l’è nà nei campi!» (Com'era, com'era... Era un uomo, cosa vuoi che fosse? Dimmi tu questa figlia, mai una volta che mi chieda com'è andata nei campi.)

«Dai, dai, Eva.» Si inserì sua madre. «Non star a pensare a ‘ste robe. Sono stupidaggini. Hai finto i to’ compiti, piuttosto?»

«La prima settimana di vacanza.» E aveva pure studiato tutto il programma di matematica e fisica dell’anno seguente, per quello. Quell’estate era una noia mortale. «Perché non mi vuoi dire com’era fatto?» Indagò verso suo padre.

L’uomo sbatté sul tavolo il tovagliolo con cui si era appena pulito la bocca. «T’ho dito che non te ghe mia da rompar! Te si sempre drio pensar ale casade! L’anno che ven te mando da to sio a tirar zo i perseghi, altro che bale!» (Ti ho detto che non devi rompere! Stai sempre a pensare alle stupidaggini. L'anno prossimo ti mando nei campi di tuo zio a raccogliere le pesche.)

Eva sbuffò e incrociò le braccia sul petto, immusonita. «Quello è sfruttamento minorile...» Borbottò tra se e sé. Non valeva la pena discutere con una testa di rapa come quella di suo padre. Finì di mangiare in silenzio, chiudendosi in camera subito dopo cena, per estremo sollievo dei suoi genitori.

 
***
 
Che la loro figlia avesse cominciato a mettere insieme i pezzi dell’accaduto con una meticolosità degna della CIA, il signore e la signora Trevisan non ne avevano idea; e il fatto che Eva si fosse addormentata con la testa sulla scrivania piuttosto che sbucare in salotto con una lente d’ingrandimento e una pipa fu solo un colpo di fortuna.

Fatto sta che la mattina seguente, Eva tirò su il capo di scatto, con un foglio appiccicato in fronte, svegliata da un acquazzone improvviso. Si guardò intorno spaesata, non riuscendo a collegare dove si trovasse, ma lo schianto di un fulmine diede un colpo ai suoi neuroni, riportandola alla realtà con un mezzo infarto. Sentendo il cuore batterle nelle orecchie, guardò fuori dalla finestra: pioveva così tanto che il cielo era buio, rischiarato solo da qualche lampo. Ma quella volta non sembrava voler passare in un battito di ciglia. 

«Oh, cacchio cacchio.» La voce mentale di sua madre che le sbraitava di non far bagnare i vetri la fece scattare in piedi e correre verso la corda della tapparella, ma si raggelò quando arrivò a un nulla dalla finestra. Da fuori giunsero un rombo di motore e uno strillo di freni.

Eva trattenne il fiato.

Si affacciò solo fino agli occhi per guardare oltre le tendine: nel cortiletto ciottolato davanti casa sua stava parcheggiata un’auto nera che sembrava uscita direttamente da uno dei film d’epoca che guardava sua nonna. La portiera si aprì di scatto e ne scivolarono fuori due cose: un assolo di chitarra elettrica che fece tremare i vetri e un uomo alto, dinoccolato, vestito completamente di nero. Indossava un paio di occhiali da sole – nel bel mezzo di una tempesta – e aveva capelli mossi, lunghi fino alle spalle, di un colore che sfumava dal fulvo delle radici a un rosso acceso sulle punte.

Eva si appiattì contro il muro. Era l’uomo nel disco d’ombra, lo sapeva. Non c’erano altre spiegazioni plausibili. Cominciò a sudare freddo, vagliando tutte le opzioni possibili che potessero averlo portato lì. Sapeva che suo padre non gli aveva consegnato il libro, non era una sciocca e iniziava a temere che quel tizio inquietante fosse venuto in cerca di vendetta.

Alla faccia dell’estate noiosa.
 
Lo schiocco della portiera che si chiudeva la spinse con un sobbalzo ad affacciarsi di nuovo, ma dovette serrare gli occhi per non restare abbagliata. La tempesta era finita di colpo, il sole splendeva alto nel cielo e l'uomo era perfettamente asciutto.

Ora, prendete una mente brillante, mettetela davanti a una serie di eventi inspiegati e inspiegabili: quello che otterrete sarà una centrale nucleare di pensieri che esplodono e muoiono senza sosta uno dietro l’altro. O, per essere più chiari, la testa di Eva in quegli istanti. Con abbastanza attenzione, si sarebbe potuto pure vedere del vapore uscirle dalle orecchie.

La conclusione a tutti quei pensieri fu uno sguardo lanciato alla libreria ad arco che stava sopra la sua scrivania, in particolare verso una famosa saga fantasy su un giovane mago e i suoi innumerevoli problemi con un vecchio pazzo privo di naso, un corpo docenti manipolatore e un paio di amici emotivamente infantili.

Ma non è possibile! Ci sono troppi di buchi di trama!

Quando sentì i sassi del piazzale scricchiolare sotto i passi dell’uomo, tornò a guardare fuori. Lui stava ciondolando, con una camminata che la ragazza si sentì di definire solo come a caso, verso la sua porta d’ingresso.

Eva fece qualche passo indietro sulle punte dei piedi. «Cacchio cachhio cacchio cacchio cacchio

Din-don

«Cacchio cacchio cacchio cacchio cacchio. Mamma!»

Corse fuori da camera sua, ma di sua madre neanche l’ombra. Era sola in casa. Il campanello suonò di nuovo e la ragazza sobbalzò. Tenendosi una mano sul petto per cercare di impedire al suo cuore di saltare fuori, zampettò verso l’ingresso. Con mano tremante, prese la cornetta del citofono. «Sì?»

Dall’altro lato provenne uno sbuffo simile a un sibilo. «Uhm, vive qui Giuseppe… Trevison?»

«Trevisan?»

«Lui.»

La ragazzina strinse la maglietta del pigiama con la mano che aveva sul petto. Non credeva che suo padre avesse davvero parlato con quell’uomo: pensava le avesse mentito, come faceva sempre, per non sentire lei e la mamma lamentarsi. «Vive qui, ma non è in casa.» Rispose, con la voce un po’ tremante.

Lo sconosciuto fece un verso di disappunto che, in altre circostanze, la ragazza avrebbe trovato quasi buffo.

«Ehm, posso fare qualcosa?»  

«Hai visto un libro vecchio che ha l’aria di contenere profezie?»

Riprendendo la questione della mente brillante e delle situazioni inspiegabili e inspiegate, è necessario capire che qualsiasi persona sana di mente dinnanzi a una situazione del genere avrebbe risposto “Certo che no, che domande sono?” e avrebbe atteso che lo sconosciuto voltasse i tacchi. Ma come alcuni uomini geniali una settantina d’anni prima si erano messi a progettare un’arma di distruzione di massa per puro autocompiacimento, così Eva in quel momento decise di arrivare in fondo alla questione. Avrebbe pensato alle conseguenze più tardi.

Prese la chiave d’ingresso dal chiodo su cui era appesa, la infilò nella toppa del portoncino di legno massiccio e la fece girare. Fece sbucare prima la testa e poi, quando fu sicura che lo sconosciuto non avesse intenzione di irrompere in casa, il resto del corpo.

«In realtà sì.»
 
***

Bepi tagliò il piccolo germoglio con un gesto esperto, poi sfilò una cordicella dalla matassina che teneva appesa in vita e iniziò a legare il resto del tralcio sul fil di ferro di supporto. Le viti erano piante estremamente delicate, andavano curate con attenzione se l’anno dopo si voleva avere la cena in tavola.

«Mi scusi, buon uomo, perché taglia i germogli?»

«Eh, parchè secondo ti? Parchè sennò la pianta non la riesse mia a far cressar tutti i grappoli.» Borbottò, poi i suoi occhi si sgranarono e lui si voltò di scatto. «Ma chi casso…» La cesoia gli sfuggì di mano, piantandosi di punta nel terreno in mezzo ai suoi piedi. «Porco de quel d-» (Eh, perchè, secondo te? Perchè sennò la pianta non riesce a nutrire tutti i grappoli.)

«No!» Strillò come un pavone l’uomo che gli aveva appena parlato. «Oh, Signore, perdonalo perché non sa quello che dice.» Continuò affannato, facendosi il segno della croce.


Bepi guardò il damerino sbucato in mezzo al suo vitigno come un santone indiano avrebbe guardato un rave party nel proprio giardino. Era un tizio abbastanza corpulento, vestito con farfallino e panciotto; aveva dei capelli ricci color bianco panna che a Bepi ricordarono quelli di alcuni ragazzetti alternativi che aveva visto fuori dalla scuola di sua figlia. Doveva essere straniero, nessun italiano si sarebbe conciato in quel modo; forse inglese: dalle soap opera che guardava sua madre, aveva imparato che gli inglesi erano persone dai gusti frivoli. Quasi quanto i francesi.

L’uomo si stava aggiustando il panciotto, borbottando tra sé e sé. «Perbacco, come parla questa gente, ci mancava poco che…»

«Ma ci casso sito ti?»

Nel venir chiamato, l'uomo spostò lo sguardo su Bepi. «Oh, ma certo. Mi perdoni di essere entrato nella sua proprietà senza permesso, sono solo un passante. Avrei qualche domanda da farle.»

«Alora falle e dopo levate dai coioni.» (Devo tradurre?
)

L’uomo chiuse gli occhi e sospirò, poi sorrise. «So che lei dovrebbe essere entrato in possesso di un particolare libro…»
Quindi era uno che studiava, uno intelligente. Ma Bepi, che era ignorante, non scemo, non si fece raggirare. Strinse gli occhi. «E ti come feto a saerlo?»

«Oh, ehm, l’ho saputo al… bar? Me l’ha detto il signor… Gianni?» Il tizio si prese il colletto con un dito e lo tirò, per respirare meglio. Bepi ebbe l’impressione che stesse sudando, ma visto com’era vestito e il caldo che faceva non si creò il problema.

Raccolse le cesoie da terra e ricominciò a lavorare, pensando che Gianni avrebbe dovuto farsi i cavoli suoi. «Non ghe l’ho pi el libro.» Sbottò.
«L’ho brusà.» (Non ce l'ho più il libro. L'ho bruciato.)

«Misericordia! Bruciato!?» L’uomo sembrò avere un mancamento e si appoggiò a una vite con una mano. «Perché mai?»

«No tocar che casca la pianta!» Gli sbraitò e l'uomo fece un saltello indietro, mulinando le mani.
(Non toccare che cade la pianta!)

«Saprebbe dirmi dove l’ha bruciato?»

Bepi si fermò un secondo a quella richiesta assurda, ma poi si rese conto che quel tizio doveva essere matto. Oltre che
 gay; più gay di un albero pieno di scimmie sotto ossido di azoto. Non sapeva neppure cosa fosse l'ossido di azoto, ma qualcosa gli diceva che quella era l'unica definizione corretta. «.» Disse e gli indicò, oltre i capi, lo spiazzo tra i suoi capannoni dove la sera prima aveva acceso il piccolo falò. «Sito bon de lesar la sindro?» Si voltò con un sorrisetto a guardare l’uomo, ma quello era sparito nel nulla. (Sei capace di leggere la cenere?)

Bepi decise che in serata sarebbe andato al bar a bere.


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Nota autrice: 
Mi scuso per il ritardo nella pubblicazione, non sono sparita! Spero che le vostre feste siano trascorse serenamente <3
Io ho avuto qualche problema familiare ed è stato un bel caos gestirlo, quindi non ho avuto proprio tempo di mettermi seduta a scrivere, ma ora dovrebbe essere tutto più tranquillo. Ci tenevo in questo spazio a ringraziare tantissimo i commenti che mi sono arrivati in questo periodo, li ho letti e apprezzati moltissimo, anche se risponderò solo in questi giorni. <3 Sono felice e grata per voi lettori. 
Al prossimo capitolo!
- Tara
 
p.s.
Fan di Harry Potter, mettete via torce e forconi! Prima che scoppino casini, mi dissocio da quanto detto nel corso del capitolo a proposito. A parlare era il personaggio, non l'autrice. Io sono la prima ad aver letto e amato la saga a suo tempo e, seppur oggi tutta la questione J.K.R. non mi aiuti per nulla a vedere l'opera di buon occhio, la citazione è stata fatta per due soli motivi:
- è un riferimento facilmente intuibile da tutti
- dovevo far intuire, narrativamente, lo snobbismo di Eva
Niente di più, niente di meno. 

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Capitolo 10
*** 6.1 - Chiedere è lecito... ***


6

Da qualche parte vicino a Verona
Presente

 
 
Crowley, demone tentatore, causa di alcuni grandissimi conflitti mediatici e serpe del Paradiso Terrestre, se ne stava in quel momento seduto su una poltroncina a fiori color cipria, nel salotto di una ragazzetta appena incontrata che per qualche motivo gli ispirava simpatia.

Forse ad attrarlo erano stati i capelli dello stesso colore dei suoi, o magari le lunghe trecce, o forse ancora quell'aria saccente di chi sapeva di possedere informazioni importanti, restava il fatto che in quel momento si trovava in attesa di lei come una vecchia pettegola attendeva la propria comare. 

«Hai pure le calze spaiate?» Domandò quando la giovane sbucò dalla cucina e poggiò sul tavolino davanti a lui un paio di bicchieri d’acqua.

Lei sollevò la testa per guardarlo, aggrottò le sopracciglia e si sedette sul divano dietro di sé. «No, non sono Pippi Calzelunghe.» Borbottò. «E non ho neanche ucciso mio padre come il più buono dei rossi, s’è per quello.»

Crowley annuì pensoso, domandandosi di colpo se quella volta prima di addormentarsi nel XIV secolo non avesse per sbaglio creato uno spauracchio.[1] Ciò avrebbe spiegato il perché per due secoli buoni la gente avesse continuato a guardarlo storto.

«Perché cerca il libro di profezie?»

Crowley si riscosse. «Perché…» Scrollò le spalle. «Mi serve.»

«Lo sa che se vuole può toglierseli gli occhiali da sole, vero?»

«Sto bene così.»

«È ipersensibile alla luce?»

«Uhm, no?»

«E allora perché li indossa?»

Crowley strinse gli occhi da sotto le lenti nere. «Fai un sacco di domande.»

«Sono curiosa. E la domanda è solo una, ma in varie versioni.»

Al demone sfuggì una smorfia divertita. «Com’è che ti chiamavi?»

«Eva.»

«Ho conosciuto una Eva tanti anni fa…» Oltre seimila anni fa. E non aveva nulla a che fare con questa di Eva. «Bisogna sempre stare attenti a fare domande, ragazzina, fidati.»

«Chiedere è lecito, rispondere è cortesia.» Rimbrottò lei e il demone avrebbe tanto voluto concordare. Ma chiedere non era sempre lecito. Soprattutto se eri un angelo. O un demone. O un qualsiasi dipendente che non si trovasse al vertice della piramide alimentare capitalista.

Crowley sbuffò. «Dov'è il libro?»

«Glielo dico solo se mi dice il perché degli occhiali.»

A quel punto il demone si domandò se non fosse il caso di fare un piccolo miracolo demoniaco, darle una spintarella a fare quello che voleva lui, e finire lì quella baggianata. Ma poi ragionò sul fatto che, in fondo, quella conversazione si prospettava la più interessante da un anno a quella parte – sproloqui con contadini ubriachi sul significato della vita esclusi.

«Non mi piace mostrare gli occhi alle persone.» Disse. Non gli pareva di avere nulla da perdere nell’ammetterlo.

«Perché?»

«Inquietano tutti.» Quasi tutti, gli suggerì la sua mente, ma la zittì.

La ragazzina arricciò il naso, squadrandolo dalla testa ai piedi. «Andare in giro vestito di nero e con degli occhiali neri in una macchina nera è meglio?»

«È stile.» Sibilò.

«Stile da becchino?»

Il demone scattò, punto dritto nell'orgoglio, e alzò il braccio per schioccare le dita. «Basta dom-» Iniziò, ma il miracolo demoniaco che stava per pronunciare gli morì in gola con un rantolo frustrato nell’esatto momento in cui si rese conto di quello che stava facendo. Non sarebbe stato giusto, alla fine stava solo facendo qualche domanda. Tolse gli occhiali di scatto e fissò Eva dritta negli occhi. «Toh. Contenta?»

La ragazzina sobbalzò da seduta, attaccandosi con la schiena al divano. Si era zittita di colpo, ma Crowley le lesse comunque sulle labbra una parola simile a fico.

«Il libro l’ha trovato mio padre scavando in uno dei nostri campi.» Iniziò sicura dopo un attimo di shock e continuò snocciolandogli tutta una serie di informazioni sul volume, quello che conteneva e sul perché fosse convinta che andasse a lui. Più parlava, più il demone si convinceva che sarebbe dovuto rimanere a casa propria.

«Perché è lei l’uomo nel disco d’ombra, no?» Gli domandò a bruciapelo al momento opportuno del racconto. «La nube passa sempre insieme alla sua auto…»

Crowley, che durante il racconto si era svaccato storto sulla poltroncina come era solito fare con tutte le poltroncine che gli capitavano, si sedette dritto. «Come fai a saperlo?»

La ragazzina si pulì le unghie sulla t-shirt celeste e sul suo viso apparve un sorrisetto soddisfatto. «Primo pilastro del metodo scientifico.» Disse, come se fosse ovvio. «Osservazione.»

Crowley continuò a guardarla in silenzio, pensoso. Era strano. Il suo non-miracolo avrebbe dovuto impedire a chiunque di collegare lui o la sua auto alla nube; lo aveva studiato apposta. Aveva funzionato per un anno, non era possibile che si interrompesse da un giorno all’altro.

Schioccò le dita «Immobile.» Le ordinò, ma la ragazzina sbatté le palpebre, guardandolo come fosse un pazzo. Schioccò di nuovo le dita, ma questa volta lei lo interruppe.

«Che sta facendo?» Iniziava a essere preoccupata.

«Secondo pilastro del metodo scientifico.[2]» Crowley indicò il bicchiere sul tavolino. «Sperimentazione.» L’acqua, che non aveva bevuto, mutò in vino sotto lo sguardo allibito della ragazzina. «Mmh. Pessimo segno.» Commentò Crowley, maledicendo mentalmente chiunque si divertisse a infilarlo ogni volta in quelle situazioni.

Eva era rigida sul divano e non certo a causa di un suo anti-miracolo. «Come ha-»

Il demone schioccò ancora le dita. «Sia la luce.» Sussurrò guardando fuori dalla finestra e il cielo intorno alla casa si sgomberò di colpo da ogni nuvola. A quel punto indicò lei e mentalmente le ordinò di stare calma. Schioccò le dita, ma l’atteggiamento della ragazza non mutò. «Non funziona. Oh, merda merda merda

Crowley poteva chiaramente percepire che la ragazzina stava per avere un collasso, ma era troppo occupato a non avere una crisi lui stesso. «Vino, luce, occhi assurdi… Lei è… È… Insomma, non può essere Gesù!»

Il demone si strozzò con la saliva che non produceva. «Gesù!? E cosa te lo fa pensare? Gli occhi, i vestiti o questa?» Tirò fuori la lingua biforcuta da serpente, preda di un attacco di idiozia causato dallo stress. La ragazzina se l'era cercata, aveva cominciato lei.

«Mi sto sentendo male.»

«Non ci provare!» La prese per le spalle. «Mi serve quel benedettissimo libro.»

«Lei è un demone!»

«Poteva capitarti di peggio.»

«Ah be’, allora va bene, scusi se mi sono preoccupata!»

Crowley la lasciò andare e si allontanò in cerca di una soluzione. Lui era bravissimo a imitare gli umani, non ad averci a che fare. Non era mai stato lui quello cortese, ragionevole e accomodante; da solo non aveva idea di come gestire un momento di panico, soprattutto se ne faceva parte pure lui: preferiva guardarli da lontano, risolverli rimanendo nell’ombra. Il suo guardo cadde nella stanza adiacente, la cucina, e una lampadina gli si accese in mente.

Corse di là guardandosi intorno. La cucina era una stanza spaziosa, con pensili in legno che correvano su due delle quattro pareti, una piccola credenza con un mix di piatti e libri sulla sinistra, e al centro un tavolo da pranzo in legno. Proprio lì, sotto una cupola a retina per tenere lontani gli insetti, il demone notò un piatto ricolmo di crostatine alla frutta.

Lo prese in mano al volo, ma di colpo tentennò: c’era qualcosa di strano nell’aria. Un che di caldo e accogliente, che però non dipendeva né dal mobilio in legno, né dal forte profumo di vaniglia emanato da una candela accesa poggiata sul ciglio della portafinestra aperta.

Ignorò per un istante quella sensazione e portò il piattino con i dolci alla frutta in salotto, ficcandolo tra le mani di Eva. «Mangia. Aiutano a calmarsi. Io torno tra poco, non ti muovere.»

«Ho appena scoperto che lei è un demone e non dovrei muovermi!?» Gli strillò dietro lei, ma era già tornato in cucina.

Quella sensazione, come quando i raggi del sole scaldavano la pelle, la conosceva bene, troppo bene. «Un miracolo.» Sibilò. Attraversò la stanza e si affacciò alla porta-finestra, starnutendo a causa della candela sotto di lui: aveva il naso troppo fino per quelle fragranze. Saltò fuori e si guardò intorno, convinto a un certo punto di vedere un guizzo d’ali bianche, ma non notò nulla del genere. Tornò dentro, guardandosi ancora intorno e allora lo vide.

Poggiato sulla credenza vicino agli altri libri – tutti ricettari – stava un volume in pelle che poco o nulla centrava con il resto delle copertine che lo circondavano. Emanava un calore flebile, come quello di un termosifone acceso da poco. Sembrava impregnato di aura miracolosa. Il demone seppe che era ciò che cercava, Le Discrete e Aspecifiche Profezie di Sibilla Cumina, Strega Amatoriale.

Lo prese in mano lentamente, senza sapere cosa aspettarsi ma, dopo gli ultimi eventi, molto più inquieto di quanto non fosse quella mattina. Ricordando quanto gli aveva raccontato Eva, fece scorrere le pagine fermandosi di tanto in tanto, e il risultato fu proprio come quello che gli era stato descritto. Pagine scritte, pagina vuota, pagine scritte, pagina vuota. Si rese solo conto che, ora, oltre all’introduzione si erano compilati un altro paio di fogli. Decise che li avrebbe tenuti per dopo.

Tornò al risguardo per analizzarlo in cerca di indizi, ma non vi trovò nulla di nuovo, se non un piccolo dettaglio: gli uccelli, piuttosto che stilizzati come quelli descrittigli dalla ragazzina, erano delineati in oro e con una certa precisione anatomica.

«Pft.» Crowley voltò la pagina stizzito. «Usignoli.»  
 

 
 
[1] L’unica cosa che aveva fatto era stato qualche piccolo dispetto ai suoi vicini di casa, quel tanto che bastava a tenere loro e le loro pulci lontani dalla sua proprietà. Nulla che altri prima di lui non avessero già fatto: mettersi un paio di corna da demone, sbraitare la notte, perseguitarli con false maledizioni… Le solite cose. Il collegamento con i capelli lo avevano fatto gli umani.
[2] Che il demone conosceva bene perché, verso il XVII secolo, in cerca di una bella conversazione sull’astrologia, aveva fatto visita a Galileo Galilei per un goccetto. Che era degenerato presto in un sorso. E in un bicchiere. E in varie bottiglie. Non ricordava i dettagli della conversazione, se non uno sproloquio di Galileo sul suo metodo e un suo commento simile a: «Se sapeste, Galileino mio, che la Terra è pure tonda.»

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