H_UL

di Orso Scrive
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Benvenuti sul canale! ***
Capitolo 2: *** I. Lunedì sera in un appartamento ***
Capitolo 3: *** Video1: La Casa nel Bosco ***
Capitolo 4: *** II. Mercoledì notte, sopra un’auto parcheggiata in una strada deserta ***
Capitolo 5: *** Video2: La storia della Casa nel Bosco ***
Capitolo 6: *** III. Venerdì pomeriggio, in una casa adiacente a un affittacamere senza clienti ***
Capitolo 7: *** Video3: Passi nei sotterranei della Casa nel Bosco ***
Capitolo 8: *** IV. Sabato ***
Capitolo 9: *** Video4: Che cosa succede nella Casa nel Bosco?! ***
Capitolo 10: *** V. Un altro lunedì ***
Capitolo 11: *** Avviso agli utenti del canale ***



Capitolo 1
*** Benvenuti sul canale! ***


Benvenuti sul canale!

 

 

Notte.

Per forza.

Non può essere che di notte.

È nella notte che accadono le cose strane e sinistre. Le cose insolite.

Di giorno c’è luce, c’è rumore. C’è vita.

Ma la notte, le cose cambiano.

Il buio.

Il silenzio.

La morte.

Il gruppo procede adagio. Vanno avanti senza parlare. Il rumore è rotto soltanto dal suono dei loro respiri affannosi, e dallo scricchiolio che produce la ghiaia quando la schiacciano sotto la suola dei loro stivali. Cric-cric. Attorno a loro, è tutto parecchio confuso, si stenta a riconoscere i particolari.

Sono ombre. Zaini in spalla, felpa nera, pantaloni mimetici, scarponi, cappellini neri con ricamato sopra il nome del loro gruppo.

H.UL.

Tra le mani, reggono l’attrezzatura che serve al loro mestiere.

Eddie, che non si vede quasi mai, è addetto alla videocamera. Le sue riprese sono affannose, spesso la mano gli trema facendo ondeggiare le immagini e un lamento gli sfugge dalle labbra. Si capisce che non vorrebbe trovarsi lì. Che ne farebbe volentieri a meno.

Loris stringe in una mano la torcia, per illuminare la scena. Con l’altra sorregge un microfono per captare i suoni più reconditi. Anche lui è nervoso, emana paura a ondate. Sembra quasi che l’abbiano costretto, ad andare insieme agli altri. Proprio quella notte, in cui avrebbe preferito starsene a casa a dormire.

Creep è il duro del gruppo. Lui non ha nessuna paura. È sempre il primo a infilarsi in ogni buco, a strisciare dentro ogni singolo pertugio, curioso di scoprire che cosa troverà dall’altra parte. Non si lascia certo intimidire. Anzi, è sempre pronto a esclamare un gioioso «Ecco!» ogni volta che il rilevatore di campi elettromagnetici che regge in mano si attiva. Perché, si sa, ciò che loro cercano, emette campi elettromagnetici. È la regola base. Nessuno la metterebbe in dubbio. E, naturalmente, nello zaino ha numerosi altri congegni sofisticati e rivoluzionari che, se solo il mondo non fosse un luogo così ottuso, gli varrebbero come minimo il Premio Nobel per la Scienza.

E poi c’è lei.

Morticina, la medium del gruppo. I capelli lunghi e neri, gli occhi iridescenti, il colorito pallido, le labbra dipinte. La felpa sempre abbastanza aperta, la cerniera abbassata a mezzo seno, per non mostrare ma nemmeno per nascondere. Così, giusto per essere certi di attirare anche quella fetta del pubblico che, alle loro ricerche, non si interessa più di tanto. Lei non stringe nessuno strumento, tra le mani. Non ne ha bisogno. Lei li sente. Lei parla con sensazioni e percezioni paranormali.

La telecamera fissa, montata sul treppiede, li inquadra tutti e quattro. Impavidi, camminano sul sentiero, cinto dal bosco, mentre avanzano in direzione di una vecchia e tetra casa nera, a malapena visibile sullo sfondo. Una casa che sembra uscita dal set di un film horror, o magari da un parco dei divertimenti. Forse lo è davvero, chissà. La qualità video, per via dei mezzi a disposizione, lascia il tempo che trova.

All’improvviso, il gruppo si ferma. All’unisono, quasi con un volteggio coreografato, si voltano verso la telecamera fissa. I loro volti sono sgomenti, le espressioni spaventate. Hanno visto qualcosa. Forse, lo hanno sentito. Chi può dirlo. Anche cercando di perdere le diottrie contro lo schermo, o sparandosi in cuffia l’audio a tutto volume, non si riesce a capire che cosa li abbia spaventati tanto.

Ma ecco, Creep indica la telecamera.

Ammicca, sorride.

«Noi siamo gli H.UL, Hunters of Unusual. Andiamo a caccia di insolito. Se amate il brivido, seguiteci nelle nostre avventure! E, mi raccomando, iscrivetevi al canale e attivate la campanellina degli avvisi per restare sempre aggiornati e non perdervi nessuna novità!»

Poi tutti e quattro sorridono e salutano con la mano.

La musica, che fino a quel momento è stato un sottofondo quasi impercettibile, a malapena intuibile – quasi, non lo avresti nemmeno detto, che ci fosse – cresce a dismisura, coprendo ogni altro suono.

L’immagine, già buia, sfuma in un nero assoluto, e sullo schermo resta soltanto la scritta. Lettere rosse, che sembrano grondare sangue.

 

H_UL Hunters of Unusual.

Noi non abbiamo paura, e voi?

Seguiteci e condividete!

Un nuovo video ogni lunedì, mercoledì, venerdì e sabato!

 

 

Poi il video finisce e compaiono i suggerimenti di quelli correlati.

 

 

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Capitolo 2
*** I. Lunedì sera in un appartamento ***


I.

Lunedì sera, in un appartamento

 

 

La stanza appariva piuttosto caotica. Non che fosse una novità, anzi.

L’armadio, pieno all’inverosimile, non si era rilevato sufficientemente capiente da accogliere tutto. Così, magliette, pantaloni e biancheria erano ammucchiati un po’ qua e un po’ là, alla rinfusa. Un mucchio informe era stato gettato sul materasso, in via provvisoria. Altri erano finiti sul pavimento o sotto il letto, e nessuno si era ancora preso la briga di recuperarli. Qua e là, facevano capolini pupazzi vecchi e nuovi – per lo più, si trattava di orsetti – libri di vario genere, cavi elettronici da collegare a dispositivi finiti chissà dove, giochi da tavola abbandonati e un intero assortimento di oggetti dalla natura indeterminata.

Daniele, sbocconcellando la brioche alla marmellata che, di fatto, stava costituendo tutta la sua cena, entrò nella stanza. Come sempre, restò un momento a guardarsi attorno, chiedendosi come fosse possibile che si creasse tutto quel disordine. E dire che loro ci provavano anche, a riordinare. Magari ogni due o tre mesi, ma anche quello era provarci, in fondo. Ma la cosa, a quanto pareva, andava ben al di là delle loro possibilità.

Valeria era seduta alla scrivania. Con una mano occupata da una lattina di birra, i capelli lunghi e tinti di verde che le finivano di continuo davanti agli occhi, stava pigiando sopra i tasti del computer, scrivendo qualcosa. Il suo intento, aveva detto, era quello di mettere per iscritto la sua esperienza, in modo da far conoscere a quanta più gente possibile quello che le era capitato dal momento in cui aveva letto quel libro maledetto intitolato In morte di Edith Mayer. Tuttavia, rivivere quei momenti si stava rivelando più complesso del previsto. Molto più complesso del tentativo di tenere in ordine la stanza, giusto per essere precisi.

Sorrise, quando lo vide entrare, e lasciò perdere il computer.

«Non dirmi che quella è la tua cena», disse, accennando alla brioche confezionata che il ragazzo stava sbocconcellando.

Lui fece un gesto di rimando.

«Non dirmi che, quella, è la tua», replicò.

Lei fece un vago cenno, che non voleva dire né sì né no, e bevve un lungo sorso di birra.

Dopo essersi conosciuti e aver vissuto insieme quella strana avventura che aveva finalmente permesso alla ragazza di liberai del fantasma che l’aveva perseguitata per tanti anni, avevano capito di voler continuare a stare insieme. C’era qualcosa che li legava, che li teneva uniti l’uno all’altra. Non avrebbero saputo dire nemmeno loro che cosa fosse, quel legame. Sapevano che era così e basta.

Ma la vita non era facile.

Non lo era per niente.

A fronte di tanti proclami e di starnazzamenti da parte di politici più o meno pasciuti, che si portavano a casa stipendi da quindicimila euro al mese, di posti di lavoro non ce n’erano. C’erano gli annunci, questo sì. Ma, alla maggior parte di questi annunci, quando si faceva domanda, non rispondeva mai nessuno. E, spesso e volentieri, erano tanto assurdi da essere palesemente una burla fatta e finita. Come quel supermercato che cercava un addetto per disporre i vasetti di conserve sottolio sugli scaffali, purché avesse maturato almeno – almeno – tre anni di esperienza in quel settore.

«Questi vogliono la laurea in scatolettologia, con master in tonno pinna gialla e dottorato in peperoncini dolci ripieni», aveva commentato Daniele, quasi incredulo, quando quell’annuncio gli si era parati davanti agli occhi.

Così, costretti ad accontentarsi di lavori saltuari che, il più delle volte, terminavano prima ancora di cominciare, Valeria e Daniele si erano dovuti accontentare di prendere in affitto una stanzetta in un appartamento condiviso con altre persone. E, lo avevano scoperto molto presto, quelle altre persone erano dei disperati sempre pronti ad approfittare di ogni occasione per appropriarsi di qualunque cosa fosse rimasta incustodita. Per questo motivo, erano costretti a tenere tutte le loro cose ammucchiate in un’unica stanza, sperando che bastasse questo a preservarle.

In quel determinato momento, erano entrambi senza lavoro. Daniele, proprio quel mattino, si era sentito rispondere che il supermercato a cui si era rivolto sulla base di un annuncio perenne di “cercasi personale” era già al completo. Grazie, le faremo sapere più avanti se avremo ancora bisogno. E il contratto mensile di Valeria in una ditta di pulizie si era concluso una settimana prima, e le era stato detto che, per adesso, non si poteva rinnovarlo.

Ma non c’era traccia di disperazione, nei loro sguardi. Erano felici, perché erano insieme. Insieme erano giunti fino a quel punto e insieme sarebbero andati avanti.

«Tanto, a ogni vita ne fa seguito un’altra, ormai lo sappiamo», aveva commentato un giorno Valeria, quando la disperazione si era fatta sentire con più foga del solito. «Se non ci va bene in questa, ci andrà meglio nella prossima.»

Daniele, quella volta, non aveva saputo far altro che annuire.

Dopo aver chiuso la porta a chiave – precauzione che si rendeva necessaria anche quando erano entrambi in camera perché, se si fossero addormentati lasciando aperto, chiunque sarebbe potuto entrare a compiere una perquisizione alla ricerca di chissà quale immaginario tesoro – Daniele scavalcò i mucchi di roba sparsa in giro e si avvicinò a Valeria.

Spostati i libri di magia, esoterismo e paranormale che lei aveva ammucchiato sulla sedia al suo fianco – tutti provenienti da un mercatino dell’usato che si teneva ogni prima domenica del mese e che permetteva di spendere davvero pochissimo portando a casa titoli ormai introvabili – si mise a sedere al suo fianco.

«Come va il libro?» domandò, rubandole un sorso di birra.

Lei si abbandonò contro lo schienale della sedia e fissò lo schermo del PC. Sfarfallava un poco. Nell’angolo in basso a sinistra, alcuni puntini si muovevano come formiche uscite dal formicaio. Prima o dopo sarebbe stato necessario sostituirlo, ma per adesso non c’erano risorse economiche tali per poterselo permettere. Per precauzione, Valeria teneva ogni file sopra una chiavetta USB.

«Va’», disse, scrutando le parole che aveva appena scritto. «Ancora non me la sono sentita, di descrivere i sogni che facevo… però, mi sto concentrando su quella donna che ci salvò dalla villa, mentre crollava tutto.»

Daniele sorrise a quel ricordo.

«Mi piacerebbe rincontrarla, prima o dopo», confessò.

Valeria, che stava cominciando a trafficare con le sigaretta per accendersene una, gli diede di gomito.

«Ti sei preso una cotta per Aurora, confessalo», disse, ammiccante.

Il ragazzo fece un sorriso.

«Altro che cotta. Mi sono innamorato. E come si fa a non innamorarsi di Aurora, in fondo?»

Valeria, che aveva infilato la sigaretta in bocca, non replicò. Salvò i progressi del suo file di scrittura – ancora troppo corto, per i suoi gusti – e rimosse la chiavetta. La toglieva sempre, per timore che, se si fosse bruciato all’improvviso, il computer si sarebbe portato nella tomba anche tutti i dispositivi collegati in quel momento. Le piaceva immaginarselo mentre, esalando gli ultimi bip elettronici, esclamava: “Andrò all’inferno, ma non ci andrò da solo!”

Poi, con un clic del mouse, chiamò sulla schermata la pagina principale di YouTube.

«Oh, bene!» disse. «Gli H.UL hanno caricato un nuovo video!»

Daniele si sporse in avanti.

Un’altra delle cose che avevano scoperto subito dopo essersi incontrati la prima volta, era stata la comune passione per i video degli Hunters of Unusual. Non a caso, dopotutto, si erano conosciuti in rete, su un forum di appassionati del paranormale. Erano entrambi più che certi della genuinità dei video dei loro eroi. Anzi, se soltanto non fossero stati tutti e due troppo timidi per mettersi in mostra, avrebbero volentieri seguito i loro passi, facendo video mentre andavano alla ricerca di fantasmi e altre cose insolite.

Il ragazzo avvicinò un po’ di più la sedia a quella di Valeria. Sfiorò le sue dita con la mano, e lei ricambiò la leggera carezza. Così vicini, si sentivano sicuri, protetti. Non c’era difficoltà che potesse mettersi sulla loro strada. Erano certi che, insieme, avrebbero vinto contro il mondo intero.

Ma, adesso, era arrivato il momento di dimenticarsi per qualche minuto del mondo intero.

«Dai, fai partire», disse Daniele.

Valeria annuì e spostò il cursore su PLAY.

Il video cominciò.

 

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Capitolo 3
*** Video1: La Casa nel Bosco ***


Video1: La Casa nel Bosco

 

 

Cric-cric.

È il rumore dei pesanti scarponi che calpestano il sentiero, a malapena visibile nell’oscurità. La terra battuta è nascosta sotto uno strato di pietrisco, foglie secche, rami caduti. L’immagine è un po’ confusa, mossa. Eddie deve aver messo un piede in fallo. Una radice, un sasso, qualcosa del genere.

«Porco di quel…» La sua imprecazione, soffocata prima che sia troppo tardi, rende meglio di tante altre spiegazioni quello che è appena accaduto.

«Attento», si sente la voce sempre apprensiva di Loris, da qualche parte sulla sinistra, nel buio.

Lo stesso buio, ma questa volta a destra, da cui giunge anche il sussurro mistico di Morticina.

«Sì, fai attenzione, perché qui siamo a mille miglia dalla civiltà, e se qualcuno di noi si facesse male, sarebbero guai seri.» Lo dice con il suo solito tono, caldo, morbido e vellutato. Le luci di una città e i fari delle automobili che si vedono a breve distanza, oltre gli alberi, sembrano raccontare tutta un’altra verità. Nessuno ci bada.

Poi, davanti alla videocamera, appare Creep. Sicuro, come sempre. Del tutto padrone della situazione.

«Ci siamo quasi», annuncia. «Guardate…» La sua voce cresce di intensità, si riempie di eccitazione. «Guardate!»

Indica qualcosa di fronte a sé.

Dapprima non si vede nulla, solo una confusione di buio contornato dai rami degli alberi, illuminati dalla torcia di Loris e ripresi dalla mano per niente ferma di Eddie. Ma le cose cambiano molto presto.

Dal nero pece della notte, emerge qualcosa.

I contorni si fanno più nitidi, le immagini più dettagliate. La messa a fuoco migliora.

Là, tra gli alberi e i rovi che se ne stanno a poco a poco impossessando, c’è un vecchio edificio abbandonato. Sembra diroccato, anzi a guardare meglio lo è senz’altro. Una cascina, una casa colonica di mattoni forati, costruita con poca spesa. Il tetto è sfondato in più parti. Viene da domandarsi come possa ancora reggersi in piedi, malconcia com’è. Ha tutta l’aria di essere stato abbandonato da tantissimi anni.

«Benvenuti», torna a parlare Creep, con la voce accesa dall’imminenza dell’avventura, «alla Casa nel Bosco!»

A questo punto, lo schermo si oscura per lasciar partire la sigla.

Nero assoluto.

Una musica lugubre, di pianoforte, simile a una marcia funebre, che si accompagna ai battiti di un cuore spaventato. Dal nero emergono figure spettrali e indistinte, spaventose. Una di esse viene avanti in fretta, lasciando andare una risata da anima dannata. La musica del pianoforte cede il posto a un tono più ritmico, suonato con i sintetizzatori. Infine, quando le mani dell’orribile creatura stanno per afferrare gli spettatori, la figura svanisce e al suo posto, in un crescendo musicale, appare il nome del gruppo.

 

H_UL Hunters of Unusual

 

E, subito sotto:

 

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* * *

 

«Che cazzo di posto», non riesce a trattenersi Eddie. La voce gli trema, piena di paura. «Ma perché ci siamo venuti?! Non potevamo restarcene a casa, stasera?»

Nessuno si prende la briga di rispondergli. Che bisogno ci sarebbe? Loro è lì, che devono stare. Lì e da nessun’altra parte.

«Attenti a dove mettete i piedi, c’è pieno di ferri e di calcinacci», avvisa invece Loris. Nel dirlo, corre il rischio di inciampare davvero.

«E c’è anche pieno di ortiche!» quasi strilla Morticina. Una delle ortiche deve avergli sfiorato la mano, perché l’accento mistico, questa volta, non si è fatto sentire.

Creep, senza badare ai commenti lamentosi dei compagni, va per primo. Intrepido come sempre, sfida i rovi che paiono volerglisi stringere addosso. Li scaccia senza indugi. Non fa nemmeno caso alle spine che gli penetrano nel dorso della mano. Almeno, non sembra farci caso. In quello stesso istante, Eddie lo inquadra senza volerlo, e immortale la sua espressione dolorante.

Ma è un istante soltanto.

Creep torna in sé. Fa un cenno imperioso in direzione della parete frontale dell’edificio.

Al pianoterra si notano alcune finestre. Alcune sono sbarrate, con assi inchiodate alla meglio. Alcune, però, sono prive di infissi, ma non permettono comunque di vedere alcunché. Il buio è troppo fitto.

CRASH

«Cos’è?! Cos’è?!» urla Eddie, facendo roteare la telecamere di qua e di là.

«Cazzo, cominciamo proprio bene!» ansima Loris, puntando ovunque il fascio luminoso della torcia.

«Io sento…» mugola Morticina, tornata mistica, «io sento qualcosa di strano e indefinito… una voce che dice… “andatevene”! Forse, dovremmo ascoltarla!»

Ma Creep non ha nessuna intenzione di andarsene. Di certo, non si lascia condizionare da quei cagasotto dei suoi compagni d’avventura.

«Non è niente!» esclama. «È solo caduto qualche calcinaccio dal tetto!»

Tra gli altri tre corrono sguardi rapidi, che la videocamera di Eddie cerca di immortalare, pur con tutte le difficoltà del buio e di una bassa risoluzione. Anche aumentare a dismisura gli ISO per accrescere la sensibilità del sensore non è che abbia giovato granché. D’altronde, non ci sono ancora abbastanza iscritti al canale per poterlo monetizzare e, di conseguenza, per acquistare nuove attrezzature, più appropriate. Ma gli H.UL ci stanno lavorando.

«Ah, benissimo», dice la voce ironica di Loris. «Cadono calcinacci dal tetto… magnifico, proprio.»

Riavutosi dalla sorpresa e dall’attimo di sgomento, il gruppo riprende a camminare. A passo lento, guardandosi attorno, si avvicinano il più possibile alla vecchia casa. Di fronte a loro, si para un uscio. È aperto, non c’è traccia di porta o di altre barriere che possano impedire l’accesso.

«Ma come cazzo è possibile?!» esclama Eddie.

«Ma vi rendete conto che non c’è la porta?!» dice Loris, isterico. «Ma vi pare una cosa normale?!»

Morticina scuote il capo, fissando il varco oscuro.

«No, per niente», mormora. «Però nulla è normale, in questo luogo.»

Il fatto che l’edificio sia abbandonato e fatiscente, quasi del tutto distrutto, e che la maggior parte degli infissi siano spariti o crollati al suolo, o rubati da chissà chi e chissà quando, sembra non interessare, agli H.UL. La sola cosa strana e inspiegabile, al momento, è l’assenza di una porta.

Inspiegabile per tutti, meno che per Creep.

Lui una spiegazione ce l’ha.

La sola spiegazione logica, fattuale e possibile.

«È perché la porta dell’Inferno è sempre aperta», sussurra. «È perché la porta del Regno di Satana è sempre pronta ad accogliere chiunque decida di varcarla. La difficoltà non è entrare… la difficoltà è sapere come fare a uscirne…»

Eddie lascia andare un singulto. Loris geme forte. Morticina, pur restando silenziosa, comincia a respirare forte. Le sue dita scendono ad afferrare la piccola croce che tiene al collo, e che le è scivolata nel solco in mezzo al seno, e la stringe con fare spasmodico.

Creep si ferma davanti alla porta.

In volto, gli appare un’espressione quasi satanica.

«Benvenuti all’Inferno», dice.

L’immagina sfuma e appare la scritta:

 

Non perdetevi il prossimo video!

Appuntamento a mercoledì!

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Capitolo 4
*** II. Mercoledì notte, sopra un’auto parcheggiata in una strada deserta ***


II.

Mercoledì notte, sopra un’auto parcheggiata in una strada deserta

 

 

«Che coglioni, Manfredino. Posso dirlo? Che coglioni. C-h-e-c-o-g-l-i-o-n-i.»

Il sottotenente Aurora Bresciani sottolineò quel concetto sbuffando una nube di fumo che finì tutta in faccia al tenente Alberto Manfredi.

«Ormai l’hai detto, che cosa me lo chiedi a fare?»

I due agenti del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale erano seduti sulla vecchia Fiat Punto blu di Manfredi da quasi tre ore. L’appostamento fuori dal museo era stato ordinato dal colonnello Iannaccone in persona. L’ufficiale aveva ricevuto una soffiata sulla possibilità che, in quella notte, avvenisse un furto al museo, e aveva inviato Alberto e Aurora a vigilare.

Ma chi cazzo vuoi che venga a compiere un furto al Museo del Cavatappi, porco di quel…?

Ovviamente, Manfredi si astenne dal dire ad alta voce quella cosa. Aurora non sapeva che cosa ci fosse nel museo e, per l’incolumità dei propri testicoli, Alberto era consapevole di non doverlo dire mai.

Mai e poi mai.

Per nessuna ragione al mondo.

A una richiesta di chiarimenti della collega, il tenente si era limitato a bofonchiare: «È un museo comunale, piccolo ma caratteristico, pieno di reperti preziosi.»

«Comincio ad averne le palle piene, Manfredino, ti avverto», disse lei, con tono nervoso. Minaccioso. «E mi rimane una sola sigaretta nel pacchetto.»

Consapevole che, qualunque tentativo di farle comprendere che gli ordini che ricevevano non dipendevano da lui, Alberto trovò la forza per fare un sogghigno.

«Non sapevo che tu avessi le palle, ma adesso che me lo hai rivelato, comincio a capire molte cose. Cose che, fino a questo punto, non mi erano molto chiare. Adesso hanno un senso, ecco.»

Lei non rispose nemmeno. Si lasciò cadere contro il sedile, spandendo fumo e cenere da tutte le parti. Alberto non si curò di lamentarsi. Come sempre accadeva quando ci si sedeva sopra lei, la sua macchina si stava a poco a poco tramutando in una discarica puzzolente. Ormai aveva rinunciato a chiederle la cortesia di adoperare almeno il posacenere.

Sto zitto, almeno risparmio il fiato, ché di ossigeno ce n’è già pochissimo, dentro questa specie di fumeria.

Si sporse in avanti e, con la manica del giubbotto, asciugò il vetro appannato.

Quella specie di finestra che si creò davanti agli occhi, gli rivelò l’anonima strada di una qualunque cittadina di provincia, in mezzo alla pianura, da qualche parte dell’Italia del Nord. Le due carreggiate e i marciapiedi erano illuminati dalla luce arancione dei lampioni. La sagoma del municipio, adiacente al Museo del Cavatappi, era un’ombra a malapena distinguibile, al di là di un giardinetto curato e cinto da siepi. Poco lontano, si vedeva l’insegna luminosa di un anonimo discount.

Non aveva nome.

Solo “Discount”.

Come se chiamassero un supermercato “supermercato”, un’edicola “edicola” e un centro commerciale “centro commerciale”. Capisco voler puntare meglio al concetto, ma qui si esagera.

Più in là, si intravedevano alcuni capannoni industriali. In giro, in quell’anonima e fredda notte infrasettimanale di gennaio, non c’era anima viva, a parte loro.

Manfredi fissò una telecamera di sicurezza, appesa sopra un palo. Era chiaramente spenta.

Piuttosto che fare lo sforzo di accenderla, preferiscono lasciarci qui tutta la notte. Per quella miseria che chiamano stipendio, poi.

«Se qualcuno ci stesse osservando in questo momento, penserà o che siamo due disperati rimasti senza tetto – e, con il cesso di macchina con cui vai in giro, è facilissimo crederlo – oppure che stiamo facendo la sveltina più lunga della storia», commentò Aurora.

Alberto guardò fuori dal vetro per ancora qualche secondo, poi si lasciò andare contro il sedile. Prese dal cruscotto una bottiglietta di chinotto già mezza consumata e la stappò. Bevve un breve sorso.

«Quando sei così acida, piuttosto che farmi una sveltina con te, mi farei sparare», replicò il tenente. «Scommetto che, in momenti come questi, ti crescono i denti pure nella figa.»

«I denti nella figa, tenente!» ripeté Aurora, fingendosi sconvolta. «Ma come sei volgare, a dire figa! Non lo sai che non si dice figa, Manfredino? Figa è una parolaccia e le parolacce non si dicono, figa!» Sottolineò il concetto battendosi una manata da camionista sulla parte interessata.

Trascorse un minuto in quasi totale silenzio.

«Comunque», riprese poi Aurora, «io non sono acida. Io mi limito a constatare.»

«Ah, sì?» sbottò Alberto, guardandola di sottecchi. «E che cosa constati, si può sapere?»

Lei fece un sorriso che non piacque per niente a Manfredi.

Un sorriso che avrebbe potuto definire in un solo modo.

Pericoloso.

«Constato tre cose: la prima, che sto sprecando tempo prezioso che potrei impiegare in modo più proficuo; la seconda, che mi rimane soltanto una sigaretta; la terza che, in virtù delle prime due, la tua vita comincia a essere in serio pericolo, Manfredino. Sai, quando mi obbligano a stare per ore intere in una macchina e finisco le sigarette, io divento nervosa, e se divento nervosa divento dispettosa, e quando sono dispettosa, io…»

Alberto sbuffò.

«Sì, sì, ho capito», brontolò. Guardò l’orologio sul cruscotto. «Senti, adesso è quasi mezzanotte. Facciamo che restiamo qui ancora, che ne so, un paio d’ore e…»

Aurora lo frenò con un cenno imperioso.

«Non pensarci nemmeno, Manfredino», intimò. «Io adesso mi fumo la mia sigaretta. Poi, appena l’ho finita, tu accendi il motore e schiacci quel pedale fino a che non troviamo un distributore automatico. Sono stata chiara?»

Per essere chiara, lo sei stata. Ma io ho chiaro anche a chi toccherà subire la collera di Iannaccone, se qui il furto avviene per davvero e noi non lo sventiamo. Di certo, non a te.

«Senti», disse Alberto. «Facciamo un patto: tu ora tiri fuori il telefono e ti guardi un video. Uno a tua scelta. Poi, dopo averlo finito, ti fumi la tua sigaretta. Se, dopo video e sigaretta, qui non è ancora successo nulla, ce ne andiamo fuori dai coglioni e chi s’è visto s’è visto.»

Aurora soppesò per un momento quelle parole. I suoi occhi verdi mandarono un bagliore che fece paura ad Alberto. Poi, però, lo sguardo le si addolcì.

«Accordato, Manfredino», disse. «Un video e una sigaretta e poi si va. Ma devi darmi il tuo telefono, il mio ha la batteria scarica.»

«E ti pareva», borbottò Alberto.

Prese dalla tasca il suo vecchio smartphone tutto rotto e aprì YouTube.

«Allora, che cosa ci guardiamo?» domandò. «Una compilation di cartoni animati di Paperino?»

Lei sorrise.

«Così mi tenti…» Indicò lo schermo. «E quelli? Chi sono?»

«Chi, questi?» domandò Alberto. «H.UL», lesse. «Boh, sono tipo dei cacciatori di fantasmi. Me li suggerisce qualche volta l’algoritmo di YouTube, ma non mi interessano… figurati se io credo a quelle baggianate…»

«Sei sempre il solito incredulo, Manfredino», lo prese in giro lei. «Scommetto che, se ti mettessi in testa che non esiste nemmeno la figa, non ci crederesti neppure se ti sventolassi la mia sotto il naso e ti dicessi di leccarmela per sentire che sapore ha.»

«Che discorsi», borbottò lui.

«Da’ qua», disse Aurora, strappandogli il telefono di mano.

Con un movimento rapido del dito, premette il tasto PLAY.

 

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Capitolo 5
*** Video2: La storia della Casa nel Bosco ***


Video2: La Storia della Casa nel Bosco

 

 

L’interno è buio. Dal soffitto scrostato pendono ragnatele simili a tende. La polvere si solleva a ogni passo. Resti di mobili sfasciati dall’umidità e dal tempo sono accatastati contro le pareti. Vecchi pannelli di Eternit sono gettati in un angolo. L’odore non si percepisce, attraverso il video, ma si capisce che la puzza di muffa deve essere terribile.

«Angosciante», mormora Morticina. Più mistica che mai.

«Che ne dite se ne torniamo indietro e andiamo a prenderci un panino all’Autogrill?» propone Loris, con una punta di speranza nella voce.

Nessuno gli bada.

Per prima cosa, si guardano attorno. Sono entrati in quella che, a suo tempo, doveva essere una cucina, almeno a giudicare da un vecchio fornello arrugginito che giace a terra, fatto a pezzi. Una porta, alla loro destra, immette nel resto dell’edificio. C’è anche una porticina più piccola, sulla sinistra, tutta mangiata dai tarli.

Eddie ci si avvicina.

La spinge.

I cardini cigolano.

Davanti alla telecamera, a malapena illuminata, compare una stanza chiusa. Doveva essere una dispensa, considerata la vicinanza della cucina. Oppure la legnaia, dato che, per scaldare questa casa, doveva per forza esserci una stufa, sparita da tempo chissà dove.

Ma Creep ha ben altre idee, in testa.

Lui sa cose che nessun altro conosce.

«Cazzo!», esclama, apparendo da dietro le spalle di Eddie. «Dev’essere questa! La stanza delle torture!»

Poi, con il solito crescendo rossiniano, parte la sigla ormai nota.

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* * *

 

Gli H.UL sono radunati in quella che, senza nessuna esitazione, hanno identificato come la stanza delle torture.

Gli sguardi di tutti sono puntati su Morticina, che annuisce. Giocherellando con la croce che di solito tiene in mezzo alle tette, la ragazza comincia a raccontare la storia della Casa nel Bosco.

«Ovviamente, non posso rivelare chi mi ha detto le cose che sto per dire su questo posto», annuncia, «ma è una storia che tutti conoscono, nella zona. La conoscono ed è per questo che, qui, non ci viene mai nessuno.»

Creep annuisce.

«Continua», la invita.

«Si dice che, tantissimi anni fa, in questa casa vivesse un uomo. Un uomo molto povero, ma che desiderava essere ricco. Un giorno, una strega che passava di qui, e alla quale lui aveva offerto una cena pur avendo pochissimo da mangiare, decise di mostrargli il modo per diventare davvero ricco.»

Eddie agita la telecamera.

«E come avrebbe dovuto fare?» chiede.

«Una rapina, magari?» ridacchia Loris.

Morticina scuote la testa. È dannatamente seria.

Seria e mistica.

«No», replica. «La strega disse all’uomo che, se avesse voluto essere ricco, l’unica soluzione sarebbe stata quella di fare un patto con il diavolo. Poi, fattasi accompagnare dall’uomo nei sotterranei della casa, compì un rituale, attraverso il quale evocò nientemeno che Satana in persona.»

La mano di Eddie trema. Loris impreca sottovoce.

Tutti, ma non Satana. Lui no.

«Merda», fa Creep, eccitato.

«Satana disse all’uomo che lo avrebbe reso ricchissimo ma, in cambio, egli avrebbe dovuto compiere ogni giorno un sacrificio per lui», riprende Morticina. «Il sacrificio sarebbe consistito nel catturare una preda umana – uomo o donna che fosse – condurla in questa stanza in cui ci troviamo, e torturarla fino quasi alla morte. Poi l’uomo avrebbe dovuto lasciare la stanza, perché a quel punto sarebbe arrivato il demonio, che avrebbe completato l’opera cibandosi delle carni ancora pulsanti della vittima.»

«Ma siamo fuori?» sbotta Loris.

«Cazzo, cazzo, cazzo!» fa Eddie, muovendo la videocamera.

Morticina scuote la testa.

«Non è finita», soggiunge. «Perché l’uomo, bramoso di diventare subito ricchissimo, afferrò la strega, la condusse qui e, usando gli strumenti più micidiali e impensabili, la torturò fino a renderla in fin di vita… ma, prima che il diavolo potesse venire a mangiarla, ella lanciò una maledizione sull’uomo…»

Il respiro di Morticina si fa pesantissimo. La voce mistica oltre il pensabile.

«E ora», dice ancora, e la sua voce adesso è roca, come se provenisse dall’oltretomba, «ora lei è qui! La sento! Parla attraverso di me! Andate via, andate via! Andatevene o anche voi farete la fine delle vittime del diavolo!»

Mentre parla si agita, si mette le mani nei capelli. Poi avvicina le dita alla cerniera della felpa e l’abbassa ancora un po’, quel tanto che basta a non incorrere nella censura ma che serve a far aumentare il numero degli iscritti al canale.

«Cazzo, calmati!» fa Loris, provando ad afferrarla per tranquillizzarla.

Eddie li inquadra entrambi.

Poi Creep strilla, entusiasta: «Guardate, guardate!»

La videocamera corre sul suo viso, e poi sullo strumento supersofisticato che regge in mano. Sembra una specie di telecomando nero, senza tasti, con un’antennina alla sommità. Un giorno deve essergli caduto, perché è tenuto insieme con il nastro isolante. Accanto alla piccola antenna c’è una lampadina a led. Si illumina di rosso.

«Si illumina, si illumina!» dice Creep.

«Cazzo!» fa Loris, terrorizzato.

«No, no, no!» geme Eddie.

Ma è la voce di Morticina, a gelare tutti.

«Lui, lei, il diavolo… sono qui!»

Poi l’immagine sfuma nel nero.

 

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Appuntamento a venerdì!

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Capitolo 6
*** III. Venerdì pomeriggio, in una casa adiacente a un affittacamere senza clienti ***


III.

Venerdì pomeriggio, in una casa adiacente a un affittacamere senza clienti

 

 

“Il getto scrosciante della doccia impedì alla ragazza di sentire la porta del bagno aprirsi. I cardini mandarono un leggero cigolio, ma lei non lo percepì neppure. Forse il suo timpano lo fece, ma l’impulso che giunse al cervello venne fagocitato e frammezzato da mille altre sensazioni.

Tutta intenta a darsi piacere da sola, Hope non avrebbe sentito nemmeno una cannonata, se fosse esplosa in quel momento. L’acqua bollente le scaldava il corpo arrossato, il vapore le esaltava i sensi. Sensi che, però, erano tutti rivolti in se stessa, ai pensieri conturbanti che le stavano sconvolgendo la mente, mentre le sue dita lavoravano con ritmo sostenuto dentro di lei.

La sagoma si stagliò nella penombra del bagno. Il suo respiro era roco, e si sommava ai mugolii di piacere della giovane. La divisa da infermiera che si era tolta era abbandonata sul pavimento. Una mano guantata la sfiorò, tremando appena.

Poi la figura si rizzò e rimase per qualche secondo a osservare la ragazza nella doccia. Ne ascoltò i gemiti, ne spiò i movimenti, immaginò il piacere che, a ondate, si spargeva dentro di lei.

Il pugnale apparve come un’ombra di morte oltre la tenda. Poi calò, lacerando la tela. La lama d’acciaio penetrò a fondo nel petto di Hope, mozzandole il respiro. Impedendole persino di urlare. Cadde riversa sulla ceramica, arrossandola col proprio sangue. La mano continuò a muoversi dentro di lei, quasi obbedendo a un riflesso incondizionato. Poi il killer delle belle infermiere – come ormai lo chiamavano i giornalisti – strappò la tenda e si chinò su di lei, il coltello stretto in mano.

L’ultima cosa che gli occhi di Hope videro fu la sagoma di un uomo completamente abbigliato di nero, con un impermeabile e un cappello a tesa larga, i guanti di pelle e gli occhiali scuri sugli occhi.

La lama terminò il suo lavoro.”

 

«Uhm…»

Stacco le dita dalla tastiera, pensoso.

Non sono affatto certo del risultato.

La storia del killer delle belle infermiere continua a non convincermi troppo. Non è tanto l’idea in sé, a rendermi dubbioso. Un thriller basato sulla caccia all’assassino fa sempre la sua figura. Un classico Giallo, secondo la definizione che ne danno gli americani: sesso, sangue, intrighi, inseguimenti. Finora ha fatto fuori Crystal, Bella, Pamela (con l’accento sulla prima sillaba), Hannah e adesso anche Hope. La prossima vittima potrebbe essere Maddy, ma lei in teoria dovrebbe salvarsi, diventando l’eroina della storia. Oppure questo ruolo potrebbe averlo Tiffany, devo ancora capirlo con precisione. E poi, ho già in mente il colpo di scena finale: l’assassino non è altri che lo stesso Detective Malone che dovrebbe dargli la caccia e arrestarlo.

Storia già sentita? Può darsi. Ma dove la si trova, al giorno d’oggi, una storia mai sentita prima?

«L’importante è come uno la racconta», mi dico.

Però, è proprio questo che non mi sta convincendo. Mi sembra che manchi il tono, a questa storia. È come se non volesse crederci fino in fondo. E io con lei, ovviamente.

Sospiro e spingo indietro la sedia.

Mi alzo.

La bottiglia del Vecchio Jack, appoggiata accanto al computer, sembra invocarmi. Decido di ignorarla. A trentadue anni, non sono ancora tanto vecchio da potermi permettere di diventare un alcolizzato che non riesce a stare senza bere per più di cinque minuti – anche se, a dire il vero, il solo dire “trentadue” mi mette i brividi… ma perché non posso averne venticinque per il resto della vita? Cioè, senti come suona bene, “venticinque”…

«No, Vecchio Jack, scusami, sono ancora giovane», barbuglio.

Il fatto che, da quando mi sono seduto a scrivere, me ne sia già scolata una buona metà, non fa testo. Quello che uno fa mentre scrive non è controllabile o, tantomeno, giudicabile. In quel momento, lo scrittore è assente da se stesso ed è dentro la storia. Il suo corpo, quindi, agisce all’insaputa della sua mente.

«Ehi, che idea!» mi dico.

Altro che la storia di un killer frustrato e vendicativo che va in giro a far fuori belle infermiere perché, da piccolo, una di loro – la più bella di tutte – gli strattonò il pisellino, facendogli male. Potrei davvero pensare di mettermi a scrivere questa: uno scrittore che, mentre lavora al suo romanzo, vi si immerge a tal punto da non rendersi conto di star facendo davvero fuori tutta quella gente, della cui morte sente al telegiornale la sera, mentre consuma la cena.

«Forse è la volta che scrivo davvero qualcosa di decente», mi dico.

Vado alla finestra. Mi passo la mano sulla barba e allontano dagli occhi i capelli come al solito troppo lunghi, mentre guardo attraverso il vetro un po’ macchiato.

Dall’altra parte del cortile, l’affittacamere “La Tana di Orso” è tutto chiuso e vuoto. Circa un anno fa, quando la nebbia che caratterizzava questo posto è scomparsa, ho preso la decisione di chiuderlo. Solo che, al contrario di quanto avevo pensato di fare, sono ancora qui, in questa vecchia casa.

Qualcosa mi ha impedito di andarmene.

Forse, non me la sono sentita.

In fondo, in questa casa ne ho passate così tante, che andandomene mi sembrerebbe di lasciare qualcosa di importante. Orso se ne andrebbe, ma non del tutto; un po’ di Orso resterebbe qui. E io sono già abbastanza magro – diciamo pure scheletrico, via – da non potermi permettere di lasciare troppi miei pezzi in giro. Finirei coll’essere proprio invisibile. E, anche se a volte non mi dispiacerebbe possedere la facoltà di scomparire, preferisco che gli altri mi vedano, finché si può.

C’è stato un tempo in cui, quando avevo dei dubbi sulle mie storie, mi rivolgevo a Mary. Le raccontavo la trama e lei, dopo avermi immancabilmente detto “tu sei malato”, mi dava qualche consiglio molto utile. Adesso, però, Mary non è più qui. A volte mi domando se ci sia mai davvero stata, o se mi sia immaginato persino lei. Conoscendomi, ne sarei stato capace. E, però, mi manca. Cavolo, se mi manca.

Torno a sedermi al tavolo. La mia assenza è stata breve, ma non abbastanza da impedire alle bolle, le mille bolle blu, di cominciare a danzare come salvaschermo. Le guardo incantato per alcuni secondi, come spesso mi accade. Poi muovo il cursore per farle dissolvere.

Davanti a me, ricompare la pagina del testo. La solita lineetta lampeggia appena dopo l’ultima parola che ho scritto.

«Allora che faccio?» borbotto.

Non so di preciso a chi mi stia rivolgendo. Forse al mio gatto che dorme sulla sua poltrona (che poi, un tempo, era la mia)? Se è così, lui non mi degna di uno sguardo e continua a sognare di andare all’inseguimento di topi. Ma i topi hanno riflessi troppo acuti, per pensare che quel pigrone possa prenderne anche soltanto uno.

Che fare, dunque?

Proseguo con il killer delle belle infermiere, o passo subito alla scrittore assassino inconsapevole? Oddio, volendo potrei fare entrambe le cose. Due storie sono meglio di una, mi dico sempre.

Ma l’idea di cominciare qualcosa da capo, adesso come adesso, mi spaventa. Ho sempre orrore del vuoto, io. Ecco perché, quando vedo una pagina bianca, mi affretto a riempirla. E, al medesimo tempo, il pensiero di proseguire a far fuori infermiere che si masturbano sotto la doccia non è che mi ecciti più di tanto.

«Sai che faccio?» dico a chissà chi.

Forse, se mi sentisse adesso, Mary direbbe che sono matto da legare.

«Mi guardo un video su YouTube. Magari mi distraggo un attimo, e trovo un po’ di ispirazione.»

Apro la schermata principale del sito internet.

Come sempre, conosce i miei gusti e mi fa suggerimenti appropriati.

Video che trattano di storia, altri che parlano di misteri e di UFO, i videoclip dei miei gruppi e cantanti preferiti. Altri ancora con ragazze, più o meno belle – ma presumo che si tratti di gusti personali – che si provano abiti trasparenti. Oddio, a essere sincero, questi non è che mi interessino più di tanto. Un giorno, per caso, ne ho visto comparire uno e l’ho guardato. Da quel momento in avanti, nonostante i miei reiterati tentativi di fargli capire che no, le ragazze che provano abiti trasparenti non mi interessano, il sito continua a propinarmeli.

Lascio perdere l’ennesima tizia che mostra i capezzoli attraverso la tela di un abitino bianco e guardo cos’altro mi propone YouTube.

Ovviamente, abbonando i video dedicati al mio personaggio del cinema preferito, l’archeologo con la frusta e il cappello. Di fianco, ci sono alcuni esploratori che entrano in alcune case abbandonate per scoprirne segreti e meraviglie. Il faccione barbuto del mio cantante del cuore fa capolino praticamente di continuo.

E, sotto ancora…

«H.UL», leggo. «Hunters of Unusual. Questi mi sono nuovi, non li conosco. Be’, perché no? Proviamo a dargli un’occhiata.» Fisso lo schermo del PC, rivolgendomi direttamente a YouTube. «Sperando che poi, se non mi piacciono, non continui a suggerirmi i loro video, vero?»

Quello, proprio come il mio gatto, non si degna di rispondermi.

Tanto ci sono abituato, a essere ignorato. Uno in più, uno in meno, non fa differenza.

Schiaccio il segnalino triangolare che vuole dire PLAY e il video comincia.

 

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Capitolo 7
*** Video3: Passi nei sotterranei della Casa nel Bosco ***


Video3: Passi nei sotterranei della Casa nel Bosco

 

 

«Cazzo, sono qui, adesso!» dice Creep.

Si avverte l’eccitazione nella sua voce. È chiaro che, la presenza degli spiriti e dei demoni, in quel luogo, lo stia facendo impazzire di gioia.

Gli altri tre H.UL, vicino a lui, non sembrano pensarla allo stesso modo. Hanno facce tese, espressioni guardinghe. Persino Morticina ha abbandonato la sua solita calma ieratica e misticheggiante per inscenare una pantomima terrorizzata.

Hanno lasciato la legnaia – pardon, la stanza delle torture – e, a passi lenti, si stanno avviando nel resto della casa. Procedano piano, guardandosi attorno con circospezione. Sembra che, da un momento all’altro, debba succedere qualcosa.

Qualcosa di terribile.

La videocamera tremante, retta dalla mano malferma di Eddie, immortala i vari ambienti della casa man mano che il gruppo li attraversa.

Stanze vuote, per lo più. Stanze che, se mai hanno avuto qualcosa da raccontare, hanno perduto la loro voce tantissimo tempo fa. Ora sono soltanto muri scrostati, soffitti malconci, finestre mancanti da cui entrano alberi e rovi.

Ma non tutte le stanze appaiono completamente abbandonate.

In alcune, davanti alla videocamera sfilano graffiti a bomboletta spray e pennarello lasciati sulle pareti. Organi maschili dai colori sgargianti e dalle dimensioni improbabili. Frasi oscene. Numeri di telefono che, se contatti, promettono lavoretti di vera estasi. E, in quello che doveva essere il salotto, compare un vecchio materasso ammuffito, pieno di macchie giallognole. In terra, gettati qua e là, mucchi di profilattici usati, di scatole di medicinali, di bottiglie di vino, di birra e di bibite. Viene spontaneo domandarsi come abbia fatto tanta gente a passare di qui, senza rendersi conto di essere in un posto così spettrale. Come possano, quelle persone, aver fatto chissà che cosa, qui dentro, senza essere perseguitati dagli spiriti e dai demoni che hanno scelto la Casa nel Bosco come propria dimora.

Ma la risposta è ovvia.

Loro erano gente comune.

Non erano gli H.UL.

«Mi sembra di aver sentito qualcosa», dice all’improvviso Loris.

Tutti si fermano.

I nervi tesi.

Sensi all’erta.

Respiri affannosi.

L’immagine sfuma e comincia la sigla del canale.

 

H.UL - Hunters of Unusual.

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* * *

 

«Sentite, io faccio una proposta.»

La voce di Eddie emerge dal buio. Tutti si voltano verso di lui. Sguardi in camera, ma per un buon motivo. Del resto, questa non è finzione.

Questa è realtà.

Pura realtà.

«Sentiamo», dice Morticina. Ha sempre la mano sollevata ad accarezzare la croce al collo. La cerniera della felpa si è abbassata ancora di qualche centimetro. Adesso, si vede persino il pizzo del reggiseno, con le coppe che contengono un seno plasticoso, che ha tutta l’aria di aver fatto la conoscenza di un chirurgo estetico.

«B-bene», la voce di Eddie trema. Come è giusto che sia. «Mi pare che qui abbiamo visto a-abbastanza, no? È chiaro che c’è qualcosa che non va. Insomma, ricapitoliamo: abbiamo visto la stanza delle torture, abbiamo sentito i rumori, abbiamo avuto la conferma che, in questo posto, vivono fantasmi e almeno un demone. Credo che ce ne sia abbastanza, n-no? Che ne dite, allora, di tornarcene a casa?»

Loris annuisce con foga.

«Non sono mai stato tanto d’accordo con qualcuno in vita mia!» esclama.

Tutti si girano verso Creep. La videocamera effettua uno zoom sul suo viso. Il capo del gruppo è lui. L’ultima parola spetta a lui e a lui soltanto.

Come sempre.

«Allora», dice Creep. Tono pratico, sicuro. Per nulla spaventato. «Allora», ripete. «A me pare che, questo, sia un luogo molto interessante. Forse il più interessante che abbiamo mai visitato. C’è molta più attività che nella Chiesa di Satana, o che nella Villa dell’Assassino. Mi sembra persino più attivo dell’Ospedale del Dottore Pazzo o del Castello del Re Squartatore, rammentate?»

Un coro di mugolii fa eco alle sue parole.

Tutti ricordano.

Ricordano più che bene.

Addirittura, si stanno ancora domandando – a distanza di mesi e di anni – come abbiano fatto a uscirne vivi, da quei postacci.

Ma la risposta è semplice.

È stato per via del loro sangue freddo.

E, soprattutto, è stato perché loro sono gli H.UL.

«Sì», ammette Morticina. Mistica oltre l’immaginabile. «Per essere interessante è interessante. Avverto una grande energia. Un’energia negativa, ma fortissima. E sento qualcosa che mi attrae verso laggiù.»

Il suo dito, lungo e bianco, con l’unghia smaltata di nero, si solleva a indicare una scala di pietra che scende in profondità. L’effetto è involontariamente comico, perché, sulla parete all’imbocco delle scale, c’è disegnato un pene mastodontico, con tanto di scroto pendente.

«I sotterranei…?» mormora Loris. «Cazzo, ragazzi, ma è là sotto che…»

«…che la strega ha evocato il diavolo!» conclude Creep per lui. Più eccitato che mai.

Di nuovo, la concentrazione è su di lui.

Sono ancora tutti in attesa della sua parola.

L’ultima.

Quella che farà la differenza.

«Quindi sì», riprende Creep, «è chiaro che dobbiamo scendere là sotto. So bene che vorreste andarvene, che preferireste che ce ne tornassimo a casa. Ma non dimentichiamoci che abbiamo un compito. Una missione. Noi, tutto questo, non lo facciamo per noi. Lo facciamo per la scienza di domani. Stiamo scrivendo una nuova pagina della ricerca paranormale, ed è nostro dovere andare avanti. Non abbiamo il diritto di tirarci indietro. Così come Galileo non si tirò indietro quando scoprì la Relatività, così come Newton non si lasciò intimidire di fronte alla scoperta dell’America, così come Darwin non batté ciglio nel momento in cui inventò la prima bomba atomica, anche noi dobbiamo proseguire senza paura. Nel nome della scienza e della verità, noi dobbiamo andare avanti. Come disse una volta John Lennon, il grande suonatore di tromba dell’America degli anni ‘20, allorché scoprì il sesto principio della termodinamica, “un piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l’umanità!”»

Il suo monologo è stato breve, ma intenso.

Gli H.UL non resistono.

Applaudono, commossi.

Tutti si sono accesi di curiosità, di passione. Tutti, adesso, sentono gravare su di sé il fardello di quella missione che sono stati chiamati a compiere.

Non possono più tergiversare.

È il momento di andare avanti.

Devono affidarsi ai loro sensi, alle loro percezioni, ai meravigliosi strumenti di cui dispongono.

«Andiamo», dice Eddie, all’improvviso risoluto.

«Sì, andiamo», gli fa eco Loris.

Anche Morticina sta per dire qualcosa.

Non fa in tempo.

TUMP – TUMP – TUMP

Tutti trattengono il respiro.

«Passi», sussurra Creep.

TUMP – TUMP – TUMP

«Passi nei sotterranei», mormora Loris.

«Mi sto cagando addosso», informa Eddie.

TUMP – TUMP – TUMP – SSSTTTTTRRRR

«Trascinamento», spiega Creep, a mezza voce.

Morticina fa un passo in avanti.

«È lui», sussurra. «È il demonio in persona. Sta trascinando la sua lunga coda. È pronto a mettere le mani su una nuova vitttima…»

Lo sguardo di Creep si accende. Sembra uno psicopatico, adesso.

Uno psicopatico pronto a tutto.

«Andiamo», dice. «Se vuole una vittima, andiamo a portargliela.»

La tensione aumenta a dismisura.

Una tensione palpabile.

Una tensione appena appena smorzata dai graffiti presenti sulle pareti. Proprio alle spalle di Loris, è disegnata una donna stilizzata che succhia un pene grosso come un cannone. E, al suo fianco, c’è un uomo fatto di peni – corpo di pene, testa di pene, braccia e gambe di pene – che si masturba, schizzando da tutti i suoi numerosi peni.

Una tensione che cala all’improvviso quando Eddie, per sbaglio, mette il piede su un preservativo usato e per poco non scivola in terra.

«Porco boia, che schifo!» gli scappa detto, mentre l’immagine traballa tutta.

Ed è con questa confusione di immagini che, sulle parole di Creep, termina il video.

«Andiamo.»

 

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Capitolo 8
*** IV. Sabato ***


IV.

Sabato

 

Sabato mattina, nel quartier generale del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale

 

«E quindi, Manfredi, si ritenga un miracolato se mi limito a segnalarla per inadempienze! Meriterebbe che la spedissi a dirigere il traffico in centro a Napoli, come minimo! Le avevo dato un incarico ben preciso e avevo garantito a mio nome che il preziosissimo Cavatappi del Nebbiolo di Vittorio Emanuele II sarebbe stato al sicuro! Invece, non solo lei ha abbandonato l’appostamento, contravvenendo a tutti gli ordini ricevuti e permettendo così il furto, ma non ha nemmeno risposto al telefono quando è stata avvisato dal custode del Museo! Se solo avesse risposto, avrebbe potuto intervenire in modo tempestivo e fermare i ladri prima che si defilassero! Che cosa devo fare io, con lei, Manfredi?! Che cosa?! Me lo dica lei, per pietà, perché io non lo so più!»

Il colonnello Iannaccone aveva fatto quella tirata stando seduto dietro la scrivania. Aveva parlato tutto di fila, senza mai riprendere fiato, sputacchiando da tutte le parti. Era diventato rosso come un sole al tramonto. Sembrava prossimo a conflagrare dall’interno.

Non è colpa mia, se non ho risposto, pensò Alberto. Abbiamo guardato quel video e la batteria del telefono si è scaricata completamente.

Qualcosa, nel profondo del suo cuore, gli suggerì che fosse più saggio e prudente rimanere in silenzio.

«Non dice nulla?!» abbaiò Iannaccone. Sollevò il braccio in modo plateale, indicando la porta. «E allora, fuori di qui! Fuori! Subito! Non voglio rivederla mai più, Manfredi! E lunedì mattina veda di presentarsi in orario, in caserma!»

«Agli ordini, signor colonnello!», replicò Alberto.

Poi, prima che Iannaccone ci ripensasse e lo bloccasse per fargli un altro cazziatone, o per dirgli che aveva deciso di trasferirlo a fare la guardia all’Ambasciata d’Italia in Mali o qualcosa di simile, si affrettò a imboccare la porta e a defilarsi.

Aurora lo aspettava fuori nel corridoio, appoggiata al muro con le braccia conserte sotto il seno e l’aria indolente di chi non abbia nessun pensiero al mondo.

«Ah, sei qui», borbottò Alberto, offeso. «Hai visto che bello? Tu mi hai obbligato ad abbandonare l’appostamento per andare a cercare quel cavolo di distributore di sigarette, e io mi sono dovuto beccare la solita tirata. E ora vedrai che mi decurteranno le spese per il rimborso di quello stramaledetto cavatappi da quella miseria che chiamano stipendio.»

La donna dai capelli rossi fece una delle sue irresistibili smorfiette.

«Manfredino, questa è una lezione di vita», disse, con aria innocente. «Tu devi imparare a non ascoltarmi e a importi. Sei o non sei il tenente, mentre io sono il sotto? E, allora, impara a sfruttarlo, quel sotto mancante.»

Alberto fu sul punto di commentare qualcosa.

Preferì non farlo.

Tanto, in qualsiasi modo la giri e la rigiri, alla fine l’ha sempre vinta lei.

«Mi offri almeno un caffè?» sbottò.

«Non si dica che la tua amica Aurora ti rifiuta un caffettino, tenente», replicò lei.

Scesero di un paio di piani, in silenzio. Alberto aveva le mani in tasca e continuava a bofonchiare tra di sé.

«Oh, quante storie, per una tirata d’orecchi», fece lei.

Allungò la mano e gli scompigliò i capelli.

«Ahio, stai ferma, con quelle brutte manacce», borbottò lui. «Che poi, parli parli, ma poi le tirate d’orecchio, chissà perché, me le becco sempre io…»

Aurora fece un ampio sorriso.

«Hai voluto farti promuovere, in modo da prendere più soldi in busta paga? Adesso, pagane le conseguenze…»

Finse di tastarsi nelle tasche dei jeans e del giubbotto di pelle.

«Oh, a proposito di pagare, non è che puoi anticipare tu gli spicci con cui ti offro il caffè? Non ne ho portati con me. Poi, appena li ho, te li restituisco…»

«Tegna che non sei altro, sei peggio di quel tirchio scassaballe di Iannaccone», commentò Alberto.

Si guardò attorno, per essere certo che il colonnello non fosse per caso a portata d’orecchi. Per fortuna, non si era mosso dal suo ufficio. Alberto riteneva che, avido com’era, ne uscisse il meno possibile per non consumare la suola delle scarpe.

Vecchio caprone tirchioso rompicoglioni.

A malincuore, mise mano alla tasca del giubbotto dove teneva le monetine e ne prese alcune. Controllò il prezzo sul display della macchinetta.

«Cazzo, cinquanta centesimi per un caffè, ma siamo impazziti?! Questo è un furto…! Cioè, cinquanta centesimi per un po’ d’acqua calda e di polverina nera!»

«E poi hai il coraggio di dare degli avari agli altri, Manfredino», fece Aurora. «Ma, si sa, la prima gallina che canta ha fatto l’uovo.»

Dopo aver preso i due bicchierini di plastica con i caffè fumanti, andarono a posizionarsi vicino alla finestra. Guardarono il cortile sottostante, con l’andirivieni degli agenti e dei passanti. Le auto passavano in successione, una dopo l’altra, sulla strada poco più in là. Aurora, ignorando in modo plateale il cartello “vietato fumare” appeso alla parete, prese dalla tasca il pacchetto delle sigarette e se ne accese una.

Caffè, finestra, sguardo nel vuoto, voglia di vivere pari a zero, una ragazza accanto e l’odore del tabacco nelle narici. Per un momento, Manfredi ebbe la sensazione di essere tornato studente.

Magari… che bello che era, quando potevi vivere fregandotene del mondo intero, tanto il futuro non esisteva.

Aurora, con la sigaretta stretta tra le labbra e il caffè nella mano sinistra, prese dalla tasca posteriore dei jeans il suo telefono.

«Hai visto?» disse. «È uscito il nuovo video degli H.UL. Conclude quello che abbiamo guardato mercoledì, credo. Vabbe’ che ci siamo persi la prima e la terza parte, ma almeno vediamo come va a finire, no?»

Alberto le si appoggiò contro la spalla.

«Vediamo, dai», brontolò. «Almeno non penso a tutto il resto.»

Aurora schiacciò PLAY.

 

* * *

 

Sabato pomeriggio, tra le viuzze di un piccolo paesetto sperduto chissà dove

 

Tolgo le mani di tasca, per il tempo necessario a spingermi di nuovo in su gli occhiali che mi sono scivolati lungo il naso. Le rimetto dov’erano fino a un momento fa.

Non è che faccia freddo, a dire il vero. Anzi, diciamo pure che fa caldo. Sembra già di essere in primavera. Tra un po’, il detto “non ci sono più le mezze stagioni” sarà vecchio e superato. A breve varrà soltanto “non ci sono più le stagioni”. Si passerà dall’estate all’estate, con un giusto un breve periodo – sempre più breve – di fresco nel mezzo.

E andremo avanti così fino a quando il pianeta, stufo di sopportarci, si darà una scrollata e ci butterà giù tutti. La Terra se la caverà e andrà avanti, come sempre ha fatto nel corso degli cinque miliardi di anni o giù di lì. Ne ha passate di peggio, di molto peggio. Più che altro, mi domando se abbia un senso, pensare a quando noi non ci saremo più. Se nessuno potrà rendersene conto, esisterà ancora qualcosa?

Be’, forse, se è vero che noi siamo anime immortali che abitano in corpi mortali, continueremo a renderci conto di ogni cosa e a vedere tutto. Solo, lo faremo in modi del tutto nuovi, diversi, per adesso ancora inimmaginabili. Magari, smetteremo di essere umani e diventeremo… che ne so io, di che cosa diventeremo.

Ma poi, esiste davvero l’anima immortale, o è solo una fantasia? Un modo per aggrapparsi alla vita, per esorcizzare la paura di una morte inevitabile, conclusiva e totalizzante? A volte, me lo pongo, questo dilemma. Sono un ateo incorreggibile, d’altra parte. Ateo e anarchico, non dimentichiamolo mai. E la risposta è sempre diversa. Varia a seconda dei giorni. Dipende anche da come sono io, in quel momento, se tendo all’ottimismo o al pessimismo… e, soprattutto, dipende da quanto Vecchio Jack è rimasto nella bottiglia.

Svolto in una viuzza. Dietro un cancello, un enorme cane nero comincia ad abbaiare e a fare salti nel tentativo di uscire in strada e sbranarmi. È una cosa che si ripete ogni giorno, tutte le volte che passo di qui. E, come ogni giorno, mi fa sobbalzare e ha il potere di strapparmi al solito cumulo di pensieri anticlimatici e privi di un inizio e di una fine che mi accompagnano ovunque vada, qualunque cosa faccia.

Pensare troppo è un problema, sapete? Soprattutto, se siete dei tipi piuttosto solitari come lo sono io. Per questo avverto sempre la necessità di mettermi lì a scrivere. È il mio modo di raccogliere i pensieri e di indirizzarli verso qualcosa di fisico, di concreto.

Mi fermo a guardare il cane. Lui, percependo la mia presenza, abbaia ancora più forte e compie salti che potrebbero valergli almeno una medaglia d’argento. Per fortuna non è ancora arrivato a vincere l’oro. Quando accadrà, dovrò sperare che le gambe non mi tradiscano, altrimenti saranno cazzi.

«Lo sai che queste velleità omicide non servono a nulla?» borbotto.

La replica è un abbaiare feroce, condito da latrati e ringhi che non promettono nulla di buono. Sono certo di avergli visto una specie di sogghigno sul muso. Ho anche tradotto dal canese all’italiano le sue parole: «Dici così solo perché sono chiuso qui dentro. Potessi uscire, non diresti una parola.»

Riprendo la mia passeggiata.

Ormai conosco queste stradicciole così bene che potrei quasi percorrerle a occhi chiusi. Passo davanti alla finestra dove, fino a qualche anno fa, una tizia si metteva in posa e faceva vedere le tette a tutti quelli che camminavano qui davanti. Io, per inciso, ci passavo almeno dieci volte al giorno. Poi, un giorno, una sua vicina di casa – una vecchia bisbetica, brutta, antipatica e perbenista – la denunciò per atti osceni. Da quel momento, basta tette. Che vita grama.

Mi fermo per un momento davanti a un grande portone. Sollevo gli occhi, alla finestre con le ante chiuse. Qui abitavano il professor Bernasconi e Sophia. Mi ero preso una bella sbandata, per quella donna. Purtroppo, se n’è andata, chissà dove. A volte, quando passo di qui, spero di vedere quelle ante aperte, e la luce accesa dietro i vetri. Una speranza che non ho abbandonato. E, quando succederà, prenderò il coraggio a due mani, metterò da parte la mia eterna timidezza e suonerò il campanello.

«Eh, vecchio Orso, ti fai troppi film mentali», brontolo.

Vabbe’, per oggi penso di aver camminato abbastanza. Sento le idee prorompere dal cervello. Sembrano un fiume in piena. Meglio approfittarne e andarmene a casa a scrivere. Voglio concludere al più presto la storia del killer delle belle infermiere, così poi passo all’altra, quella dello scrittore assassino. Magari, lo scrittore avrà un gatto. Potrei chiamarlo Miagolino, perché no?

Sono arrivato.

La porta di casa si chiude dietro di me. Il mio gatto comincia a strusciarmisi contro le caviglie. Qualcuno potrebbe pensare che sia il suo modo per darmi il bentornato, di esprimere la felicità nel rivedermi. In realtà, lo fa soltanto perché pretende di ricevere la pappa. Come se lo affamassi, poi.

Assolto il compito di dare da mangiare alla bestia – che, come sempre, si lancia sul cibo perdendo qualsiasi interesse nei miei confronti – mi lascio cadere sulla mia poltrona, davanti allo schermo del computer. Mando via le bolle.

YouTube è rimasto aperto. Vedo subito che, i tizi che ho guardato ieri, hanno fatto uscire un nuovo video. Deve essere quello che conclude il precedente.

Mi prende una certa curiosità di sapere come va a finire.

«Vabbe’, anche se si vedeva che era tutto finto, non era poi male», mi dico. «Dai, guardiamo come si conclude.»

Schiaccio PLAY.

 

* * *

 

Sabato sera, tra le strade del centro di una città qualunque

 

Era inverno, eppure sembrava già primavera. L’aria era appena appena fresca, come quando si esce a camminare in una serata d’aprile. Soltanto una folata di vento tagliente, di quando in quando, rotolava giù dalle montagne e andava a sferzare il viso ai due ragazzi, per ricordare che, dopotutto, la natura sa ancora fare il suo corso, nonostante tutto. In ogni caso, il freddo che aveva cominciato a farsi sentire in autunno era sparito chissà dove. In cielo, non si vedeva l’ombra di una nuvola. Se le luci a led dei lampioni non avessero fagocitato il riverbero degli astri, il cosmo avrebbe di certo offerto uno spettacolo incantevole. Un altro sogno impossibile e inutile del giorno d’oggi.

Stretti l’uno all’altra, quasi si sorreggessero a vicenda per non finire risucchiati nel piatto niente del mondo contemporaneo – quel mondo di cui entrambi avevano una discreta dose di paura, e dal quale si sentivano in un certo modo respinti ed evitati – Daniele e Valeria si fermarono all’estremità dell’attraversamento pedonale, sperando invano che qualche automobilista si decidesse a dare loro la precedenza. Ma le auto sfrecciavano l’una dopo l’altra, impazzite. Alcuni automobilisti, temendo di doversi fermare, acceleravano di proposito, per dimostrare a se stessi e agli altri di essere i soli, veri e unici padroni della strada. Qualcuno, addirittura, faceva i fari o suonava il clacson per avvertire di non passare, perché altrimenti li avrebbe investiti.

Valeria stringeva in mano una sporta da cui usciva profumo di kebab. Daniele aveva sottobraccio una bottiglia di lambrusco, che tintinnava ogni volta che la avvicinava ai bottoni del suo cappotto. Durante la settimana tiravano la cinghia, ma almeno al sabato si concedevano qualcosa di diverso dal solito.

Lambrusco e kebab. Il più strano dei connubi. Anche quello, in fondo, era un segno dei mutamenti dei tempi. Il simbolo di un mondo che, man mano che si allargava, si restringeva in se stesso, avvicinando usi e costumi tra loro lontanissimi. Uno dei tanti simboli.

«Sai cosa mi ha detto, il Matteo, quando gli ho accennato al fatto che l’unico vino che mi piaccia sia il lambrusco?» borbottò Daniele, mentre l’ennesima automobile lanciata a folle velocità sfrecciava davanti a loro, nemmeno avessero scelto di attraversare un autodromo. Nel suo tono c’era un’intonazione offesa, come se quel Matteo lo avesse ferito nell’anima.

«Conoscendolo, posso quasi immaginarlo», replicò Valeria, sorridente, «ma dimmelo lo stesso.»

«Mi ha detto, testuali parole: “il lambrusco è un’aberrazione! Vino – rosso – frizzante. Che schifo! Vino rosso con dentro l’acqua gassata, insomma! Un’aberrazione”.» Fece una smorfia. Pareva offeso a morte. «Ma ti pare normale?! Cioè, come cavolo fai, a parlare così del lambrusco?! E poi, è mai possibile che, ogni volta che esprimo una mia preferenza, chiunque debba sentire l’immediata necessità di darmi contro?!»

Valeria sorrise ancora.

«Tu hai ascendenze emiliane, caro mio. Lui no. E si vede.»

La strada, verso entrambi gli orizzonti, in quel momento apparve sgombra da qualsivoglia veicolo. Soltanto un aereo, con le luci rosse e verdi lampeggianti sulle ali, si fece vedere, nel cielo innaturale dei lampioni, ma quello non li interessò affatto. La mano della ragazza si strinse attorno a quella dell’amico e, finalmente, poterono guadagnare la tanto agognata altra parte della carreggiata.

«Alleluia», disse Daniele. «Temevo che ci avrebbero costretti a cenare sul marciapiede, se andava avanti così.»

Valeria ridacchiò.

«Ho talmente fame che, ancora un paio di minuti, e lo avrei fatto davvero.»

Senza lasciarlo andare, lo trascinò in direzione di un bar che si trovava poco lontano. Nonostante fosse sabato sera, era già chiuso – era una zona di periferia davvero poco frequentata. Tuttavia, i tavoli e le panche che si trovavano sotto il plateatico esterno erano lasciati a libera disposizione di chiunque avesse cercato un posto dove riposarsi. Fu lì, che andarono ad accomodarsi i due amici.

Il plateatico era in penombra, illuminato dai lampioni allineati lungo la strada. Anche un distributore di sigarette, accanto alla porta d’ingresso al bar, emanava un flebile chiarore. Ce n’era abbastanza per non mangiare al buio.

Mentre Valeria tirava fuori dalla sporta le scatole di cartone che contenevano i loro kebab – Daniele aveva chiesto quello nella piadina, perché aveva un difficile rapporto con il panino del kebab, che puntualmente gli si rovesciava tutto sul giubbotto, quando provava ad addentarlo – il ragazzo cominciò a trafficare con la bottiglia di lambrusco. A rischio di distruggersi le unghie, riuscì finalmente a sradicare l’involucro di plastica che avvolgeva il tappo di sughero. Poi, spingendo con le dita, riuscì a stapparla.

«Be’, allora, cincin», disse Daniele.

Non avevano pensato di portarsi dei bicchieri. Valeria prese la bottiglia che l’amico le porgeva e se la portò alle labbra, per prenderne un sorso. Poi la restituì a Daniele, che bevve a sua volta. Per uno strano istante, parvero intenti a compiere qualche misterioso rito tribale.

Cominciarono a mangiare in silenzio. Nonostante tutti i suoi sforzi, Daniele riuscì lo stesso a rovesciarsi sul giubbotto metà del contenuto della sua piadina. La salsa gli inzuppò anche i peli della barba corta che aveva sul mento e sulle guance.

«E ti pareva…» bofonchiò, cercando di ripulirsi alla meglio con un fazzolettino di carta.

Valeria, che aveva modi molto più signorili e raffinati, e riusciva a mangiare senza tramutare in una pattumiera il posto dove sedeva, gli lanciò un’occhiata.

«Di birra e di…» cominciò a dire.

«Questa non è birra e non è nemmeno l’altra cosa», si lagnò lui.

La ragazza ridacchiò. Era troppo abituata alle difficoltà che Daniele sapeva manifestare nei confronti della vita, per indispettirsi o schifarsi. Del resto, se non fosse stato per la capacità di entrambi di affrontare davvero la vita, non si sarebbero mai conosciuti, né incontrati. Ma, a ben vedere, dal momento in cui si erano visti la prima volta, avevano affrontato la vita come pochissimi altri potevano dire di aver fatto.

«Sai», disse a un certo punto Valeria, «a volte mi domando se non dovremmo fare anche noi come gli H.UL e andare a caccia di fantasmi.»

Daniele fu scosso da un brivido che minacciò di fargli volare di mano il resto della sua piadina.

«No, grazie», bofonchiò. «E non è perché mi viene male al cuore al solo pensiero di mettermi a parlare davanti a una telecamera.» Scosse il capo. «Non è solo quello, almeno. Una volta mi è bastata. Finché continuiamo a interessarci di queste cose guardando video e leggendo libri, mi sta benissimo. E se capita di imbattersi in qualcosa… be’, siamo pronti, penso. Ma andarmi a cacciare in modo volontario in un altro posto tipo Villa Mayer… no.» Scosse la testa con decisione. «No, proprio no.»

Valeria sorrise. Annuì. Anche se le era rimasta in corpo un’immensa curiosità, pensava davvero di averne avuto abbastanza anche lei. Non credeva che ne valesse la pena. Era meglio lasciarlo fare agli altri, se ci tenevano tanto.

«A proposito», disse.

Prese dalla tasca del cappotto il cellulare e lo mise sul tavolo, appoggiandolo contro la bottiglia del lambrusco. Si collegò a YouTube e controllò gli ultimi aggiornamenti.

«Dovrebbe esserci l’ultima parte del video della Casa nel Bosco», aggiunse.

Il video, infatti, c’era.

Daniele, che aveva finito di spartire la piadina con il suo giubbotto, le si fece più vicino. Girò per un momento lo sguardo verso un tale che si stava avvicinando al distributore di sigarette – e che, al solo vederli, fece dietrofront e si allontanò a passo rapido, nemmeno avesse temuto di essersi appena imbattuto in due serial killer – e tornò a concentrare la sua attenzione sullo schermo del telefono dell’amica.

«Dai», disse. «Vediamo come va a finire.»

Valeria fece un cenno.

Il suo dito premette il tasto PLAY.

 

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Capitolo 9
*** Video4: Che cosa succede nella Casa nel Bosco?! ***


Video4: Che cosa succede nella Casa nel Bosco?!

 

 

«Andiamo», dice Creep.

Sicuro di sé, comincia a incamminarsi verso le scale che conducono nel sotterraneo. Gli altri, in silenzio, lo seguono. Sembrano impavidi, pronti ad affrontare qualunque cosa sia in agguato là sotto. Soltanto i loro respiri, affannosi, accelerati, come se cercassero l’ossigeno, tradiscono la paura che hanno in corpo.

Adesso, dal piano interrato non giunge più alcun rumore. I passi sembrano essersi interrotti. Non che la cosa sia rassicurante, comunque.

«Ci sta aspettando», sussurra Morticina. Mistica oltre il limite delle capacità umane. «Sa che stiamo andando da lui.»

«Cazzo, cazzo, cazzo», piagnucola Loris.

Punta il fascio luminoso della torcia contro il vano delle scale. Lì si fermano tutti e quattro, in ansiosa attesa che qualcuno faccia il primo passo. Naturalmente, sanno già tutti che sarà Creep il primo a scendere. Come sempre.

Lo strumento nella mano del capo degli H.UL si illumina. Emette persino un leggero segnale acustico, cosa che non ha mai fatto fino a questo momento. Forse si stanno scaricando le batteria, molto semplicemente.

Ma lui ha una spiegazione per quel BIP.

«È sotto», annuncia Creep. «È forte!» Trattiene a stento una risata di gioia, per l’imminenza dell’avventura.

Tutti gli sguardi – compreso quello della videocamera – si puntano nel buio assoluto del sotterraneo. Il panico cresce, insieme alla velocità dei loro cuori. Il battito diventa tanto forte che lo si sente in sottofondo per tutto il video.

Poi parte la sigla.

 

H.UL - Hunters of Unusual.

Iscrivetevi al canale - attivate la campanellina degli avvisi - condividete!

 

* * *

 

«Piano.»

«Fate attenzione, si scivola.»

«I gradini sono sconnessi.»

«Ma chi ce lo fa fare?»

Aiutandosi a vicenda, prendendosi per mano ogni volta che qualcuno rischia di scivolare sulla pietra consunta e polverosa degli scalini, ricoperti di detriti, gli H.UL cominciano finalmente a scendere nel misterioso sotterraneo.

Il luogo dove, stando alla storia che hanno raccontato, venne evocato il demonio.

C’è sempre un diavolo, nei loro racconti. Un diavolo e, naturalmente, una strega. Sono i loro personaggi preferiti. Si prestano bene a ogni storia. Basta cambiare un po’ il contesto, fare qualche modifica alla trama, e il gioco è fatto.

La tensione cresce a dismisura. Non a caso, questo è il video conclusivo. Quello per cui ti viene da chiederti se ce la faranno, e soprattutto come. Perché gli spettatori, ben comodi sulle poltrone, sul letto o sul divano, dall’altra parte dello schermo, lo sanno più che bene: se ci fossero loro, in quella situazione, non ne uscirebbero vivi.

Ma, d’altronde, dietro lo schermo non c’è gente qualsiasi.

Lì ci sono gli H.UL.

Loro, con certe cose, ci vanno a nozze.

Pane quotidiano.

Il gruppo arriva in fondo alle scale. Si ferma.

Il buio, nel sotterraneo, è assoluto. La sola torcia di Loris fa fatica a squarciare il velo di tenebre che li circonda da ogni parte. Eddie è costretto ad accendere il faretto posizionato sopra la videocamera. Persino Morticina, venendo mano alla scelta di avere sempre le mani libere, toglie una torcia dallo zaino e l’accende.

Adesso ci si vede meglio.

Il sotterraneo è formato da vari ambienti, con pareti in mattoni e la volta a botte. I vari ambienti sono separati l’uno dall’altro da delle pareti, nelle quali si aprono basse porticine. Dal soffitto, pendono enormi ragnatele, oltre ad alcuni ganci arrugginiti e acuminati. Alcuni vecchi attrezzi agricoli sono abbandonati qua e là, sul pavimento polveroso. Niente graffiti di peni o di altre cose oscene, lì sotto.

In compenso…

«Cazzo!» sbotta Loris.

«Oooh, porco mondo!» fa Creep.

«No, no, non è possibile!» strilla Morticina. Non c’è niente di mistico, adesso, nella sua voce.

La videocamera segue i loro sguardi. Eddie sussulta, muovendo e distorcendo le immagini. Quando torna a mettere a fuoco, sullo schermo compare qualcosa di inaspettato.

Su una delle pareti, c’è scritto H.UL IN HELL. E sotto, sul pavimento, in vernice rossa, è stato tracciato un pentacolo. Tra i raggi della stella a cinque punte, si intravedono dei simboli misteriosi e inesplicabili. Solo che, quella, non è vernice.

«Cazzo, è sangue!» dice Creep.

E la sua voce, per una volta, ha perso l’intonazione strafottente che ha di solito. Per una volta, sembra veramente spaventato. Se di solito recita, be’ stavolta gli sta venendo davvero bene.

Roba da vincere un premio.

«Come, s-sangue?!» fa Morticina.

Trema. Ha perso la sua solita aurea mistica.

«Aspettate, ragazzi, non scherziamo», dice Loris. «Creep, ma quando sei venuto in esplorazione per fare il sopralluogo, lo hai tracciato tu, il pentacolo, o…?»

SBAM

Il rumore è improvviso.

Forte.

Molto forte.

E vicino.

«Ahh!» grida Morticina.

Una nube di polvere copre la scena. Non si vede più nulla.

È una confusione di immagini. Poi si sente Eddie affannato, i suoi piedi che corrono veloci…

«Di qua, di qua!» grida da qualche parte la voce di Creep.

«Mi ha preso, mi ha preso, mi ha preso!» strilla Loris.

Eddie si volta all’improvviso.

«Cazzo!» gli scappa detto. La torcia di Loris rotola sul pavimento, abbandonata.

«MI HA PRESOOOOOOHHHH…!» La voce di Loris muore in un gorgoglio.

«Nooo!» grida Creep, chissà dove.

Le immagini sono ancora più confuse, mentre Eddie corre a vuoto, nella vana ricerca della scale. Ma quelle sembrano scomparse. Sparite chissà dove.

Come se non fossero mai esistite.

Come se non ci fosse più un’uscita.

D’altra parte, come ha detto Creep all’inizio di questa avventura, “la porta del Regno di Satana è sempre pronta ad accogliere chiunque decida di varcarla. La difficoltà non è entrare… la difficoltà è sapere come fare a uscirne…”

«Cazzo, cazzo, cazzo!» mugugna Eddie, affannato.

Si sposta qua e là, velocissimo.

Entra in una stanza e lì ritrova Morticina.

Solo che non è sola.

Davanti a lei c’è una figura. Una figura nera, con grandi corna sulla testa, la coda e grandi mani dalle unghie lunghe e affilate. Morticina piange, strilla, cerca di dire parole di senso compiuto. Non ci riesce.

Il diavolo le afferra il viso, la costringe ad aprire la bocca, la bacia con voluttà. Con una mano, le strappa di dosso la felpa, lasciando finalmente del tutto a nudo quelle parti del suo corpo che hanno sempre fatto la differenza tra un maggiore e minore numero di iscritti al canale. La solleva da terra, e lei scalcia.

Inutilmente.

Il demonio vede la croce appesa al collo. Fa una risata. Una risata satanica, è proprio il caso di dirlo.

Eddie volta le spalle e fugge.

«AAAAHHHH!» grida, in preda al panico.

Nota un movimento.

È Creep.

Solo che…

«Nooo!» strepita Eddie, ritraendosi.

Non vuole avvicinarsi a Creep.

Soprattutto, non vuole toccarlo.

Non adesso che è stato scuoiato vivo e appeso a uno dei ganci che pendono dal soffitto.

Eddie corre.

La videocamera corre con lui.

Almeno, finché non la lascia cadere. Finisce sul pavimento e lì rimane, immobile. Continua a inquadrare. Registra una porzione di pavimento polveroso e un pezzo di muro pieno di muffa, che si perde nel buio.

Si vedono i piedi di Eddie, illuminati dal faretto, correre verso l’oscurità.

Poi un grido strozzato, un breve tafferuglio.

Più niente.

Una mano putrescente, dai lunghi artigli, afferra la telecamera.

Confusione di immagini, rumori disturbati.

Sullo schermo, per un breve istante, appare un volto.

Un volto dalla pelle rossa, gli occhi di fuoco, le corna sulla fronte e una lunga barba da capra sul mento.

Fissa lo schermo.

All’improvviso, sorride.

«Iscrivetevi al canale, mettete un like e non dimenticate la campanellina degli avvisi!» dice, con la voce di un essere dell’oltretomba.

Poi tutto si spegne, senza avvisi, senza nulla.

Appaiono i suggerimenti dei video correlati.

 

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Capitolo 10
*** V. Un altro lunedì ***


V.

Un altro lunedì

 

 

Lunedì mattina, nella solita, vecchia casa davanti a un affittacamere vuoto

 

 

“Tiffany sollevò le mani davanti al seno – florido e nudo, pesante ma capace di sfidare la forza di gravità, tanto che le puntava verso la faccia e non sembrava avere una chiara percezione del concetto di andare verso il basso, come se le leggi della gravitazione universale non valessero per quelle tette gigantesche – nel tentativo di parare la coltellata. Inutilmente. La lama si fece largo nel petto dell’infermiera, squarciandolo in modo orribile.

«Nooo! Tiffany!» gridò Maddy, arrivando di corsa.

La sua presenza non era stata contemplata, dal killer delle belle infermiere. Non aveva considerato che, in quella casa, ci fossero due infermiere, anziché una soltanto.

Con il respiro affannato, il killer si rizzò in piedi. Tenne stretto in mano il pugnale, dalla cui lama gocciolò sangue che gli imbrattò le calzature di cuoio lucido e nero. Attraverso le lenti scure degli occhiali che gli ombreggiavano il viso, fissò la nuova venuta.

Maddy era mezza nuda. Indossava soltanto un accappatoio, aperto sul davanti. Sotto, si vedeva tutto.

Lei e l’altra sgualdrina dovevano aver passato la notte insieme! Ma, adesso, avrebbero pagato entrambe!

Il killer mosse un passo verso di lei. Sollevò il coltello, preparandosi a colpire. Maddy, in lacrime, gli occhi fissi al corpo riverso di Tiffany, non sembrò nemmeno vederlo.

In quel momento, accadde l’impensabile.

Tiffany ebbe uno scatto improvviso e afferrò le caviglie del killer. Gli diede un forte strattone, facendogli perdere l’equilibrio. L’uomo cadde in avanti, proprio sopra il suo coltello. La lama gli si conficcò nel cuore. Gli occhiali e il cappello gli scivolarono dalla testa, e Maddy, in quel momento, lo riconobbe.

«Detective Malone!» urlò. «Lei!»

Ma il killer delle belle infermiere non poté risponderle.

Era morto.”

 

«No, no», borbotto. «Non ci siamo.»

Troppo frettolosa, questa soluzione. La tensione si stempera troppo alla svelta, senza un vero e proprio momento in cui il climax aumenti fino a poterlo sentire vibrare tutto attorno come una corrente elettrica. Forse, il coltello non dovrebbe penetrare nel cuore del killer, in modo da non ucciderlo subito. Così, quando Maddy si china su Tiffany per darle l’ultimo bacio, lui si rialza all’improvviso e torna alla carica, e a quel punto Maddy lo uccide in modo definitivo.

Sì, potrebbe essere una soluzione già migliore…

Il problema, nelle mie storie, non è tanto lo svolgimento. Quello, per quello che mi riguarda, va persino troppo per le lunghe. È il finale, che mi frega sempre. Sento di essere arrivato alla fine, e quindi metto il turbo, con tutto quello che ne consegue.

«Non va bene, così, Orsetto mio», mi dico da solo. «Non va bene per niente.»

Come diceva quello, è il viaggio, quello che conta, non la destinazione. Poi vabbe’, dipende anche da dove uno deve andare. Se la destinazione è il supermercato, o lo sportello dell’INPS, viaggio e destinazione uno li passa alla stessa maniera, imprecando contro il mondo intero.

Ma poi, lo so, c’è anche altro.

Scrivere, il lunedì mattina, è sempre un grosso problema. Il lunedì mi ricordo di essere un disoccupato cronico, senza altro scopo nella vita se non quello di continuare a respirare – cioè, a spandere in giro anidride carbonica – fino a quando arriverà il momento di smettere di farlo. E, di lunedì in lunedì, mi accorgo di essere sempre più vicino a quel momento. Ogni tanto, mi trovo persino a pensare alla frase che potrebbe comparire sulla mia lapide. “Mi è passata l’insonnia”, cose così. Oppure “eccesso di melatonina”.

Questo mi fa fare tutto male. Tendo ad avere fretta di finire le cose. E poi, ormai, questa storia del killer delle belle infermiere mi ha stancato, al di là di tutto.

«Oh, se la faranno andare bene così», borbotto, salvando il file e chiudendolo.

Il mio gatto, che tanto per cambiare sta dormendo sulla sedia, agita la coda nel sonno e continua a sognare di riuscire a catturare un topo, una volta o l’altra. Illuso. Ci sono due cose veloci, in natura: la luce e i topi. Ma sulla prima, qualche volta, mi assalgono dei dubbi.

Uno dei tanti dubbi esistenziali che mi accompagnano ovunque vada, qualunque cosa faccia.

Mi alzo e vado alla finestra.

Oggi è una giornata piuttosto grigia, ma non c’è quella nebbia da cui traevo sempre la vera ispirazione. Da lì sì, che venivano fuori delle belle idee. La nebbia è come un manto che racchiude e nasconde tantissime cose: basta smuoverla un po’, e saper afferrare tutto ciò che offre. C’è dentro così tanta roba, nella nebbia, che quasi stentereste a crederlo, se soltanto provassi a raccontarvi tutto quello che ho visto. Come faceva, quella vecchia canzoncina? Cosa c’è, nella nebbia in Val Padana? Ci son cose che a dirle non ci credi. Non ci credi, nemmeno se le vedi. A parte il fatto, che non le vedi…

Ecco.

Per un momento fisso la casa di fronte, dall’altra parte della strada. Ci abitava una vecchia che veniva sempre a lagnarsi della musica troppo alta. Ora è morta. Spero che continui a esserlo ancora per tanto tempo. Ma, casomai dovesse pensare di risorgere, ho già pronto lo stereo con tutti i dischi dei Black Sabbath e le colonne sonore di John Carpenter per tenerla a bada.

«Vieni, vieni pure, vecchio zombie: Orso è qua che ti aspetta al varco», mugugno.

A proposito di zombie e altre schifezze del genere.

È da sabato che non faccio che ripensare a quel dannatissimo video degli H.UL. Ma che cazzo! Sono stati davvero bravi, con gli effetti speciali, glielo riconosco. Sono riusciti a togliere il sonno persino a me, che con mostri, fantasmi e affini ho a che fare almeno tre volte alla settimana. Io sono quello che, per conciliare il sonno, guarda film horror e splatter, per intendersi. Venire turbato da un video scrauso di YouTube era un’esperienza che, ancora, mi mancava all’appello.

«Chissà se hanno già messo il video nuovo», mi dico.

Vederli in un nuovo contesto, di nuovo vivi e incolumi, mi aiuterà a dimenticare l’orrore dell’altro giorno. Perché va bene tutto, ma con quelle scene horror hanno davvero esagerato. Erano davvero realistiche.

Fin troppo.

E che cazzo.

Vado a sedermi di nuovo al computer. Le mille bolle blu danzano ancora una volta di fronte ai miei occhi. Le caccio via. Chissà dove vanno a finire, quando le allontano muovendo il cursore del PC.

Me lo domando sempre.

Non ho ancora trovato una risposta.

Ma, a certe cose, non esiste risposta, no?

Così come non mi spiegherò mai come sia possibile che, la bottiglia di Vecchio Jack che ho aperto giusto ieri sera, sia già vuota per due terzi. Misteri.

Apro il browser e vado su YouTube. Il trattino comincia a lampeggiare nella barra di ricerca. Scrivo H.UL e…

«Ecco, questa sì, che è una sorpresa…»

 

* * *

 

Lunedì pomeriggio, in una caserma dei Carabinieri

 

«Chiami la tua bella, Manfredino?»

Alberto, seduto alla scrivania, abbassò lo smartphone e diede un’occhiata ad Aurora, che entrò con i suoi soliti modi da valchiria nell’ufficio. Tanto per cambiare, parve occupare tutto lo spazio disponibile, facendo rimbombare il pavimento con il suo passo pesante, amplificato dagli anfibi militari che non si levava mai. I suoi capelli rossi parvero mandare bagliori di fuoco, e gli occhi verdi lampeggiarono come smeraldi illuminati dal Sole.

«Non ti hanno insegnato a bussare, quando entri nell’ufficio di un tuo superiore?»

Il sottotenente Bresciani si lasciò cadere di peso sulla sedia davanti al tenente Manfredi.

«Un superiore?» chiese, stupita. Si guardò attorno. «E dov’è?»

Mentre lo diceva, prese dalla tasca il pacchetto delle sigarette. Ne infilò una in bocca e l’accese. Alberto si girò a guardare con ostentazione verso il cartello che indicava il divieto di fumo. Aurora lo ignorò completamente.

«Comunque», borbottò Manfredi, con aria contrariata, «non stavo chiamando nessuno. Stavo solo facendo una ricerca su Internet. Mi tocca usare il mio telefono perché gli aggeggi che ci sono in questo ufficio risalgono al Mesozoico Superiore e sono lenti come la fame. Volevo vedere se, per caso, su qualche sito, è apparso l’annuncio di vendita del cavatappi di Vittorio Emanuele II.»

Aurora scoppiò a ridere. Lo fece tanto forte che cominciò a tossire, spandendo un’enorme nuvola di fumo tutto attorno.

«Razza di ciminiera che non sei altro», bofonchiò Alberto. Agitò la mano, nel vano tentativo di allontanare la cappa grigia che gli aleggiava attorno.

«Scusa, Manfredino», disse lei. «Ma non è colpa mia… mi fai sbellicare! Non dirmi che vuoi rimediare e tornare nelle grazie del colonnello ritrovando il reperto che ti sei fatto soffiare da sotto il naso.»

«Che tu mi hai fatto soffiare», precisò il tenente, con una punta di fastidio nella voce.

«Che pignolo che sei, Manfredino», borbottò Aurora. Si schiarì la gola, infiammata dalla tosse e dal fumo. «E vedi di non ricominciare: ti ho già detto che, quando io dico o faccio qualcosa, è solo per metterti alla prova. Sei tu, che non devi sempre leccare ovunque io appoggi la mia figa d’oro, anche se immagino che la tentazione sia irresistibile.»

Alberto spalancò gli occhi.

Fece per dire qualcosa.

Ci ripensò.

Lasciamo perdere, tanto non serve a nulla.

Giocherellò per qualche istante con il telefono, che aveva appoggiato sulla pila di documenti che teneva sulla scrivania. Poi spostò lo sguardo su Aurora, che stava fumando beata come se non avesse null’altro da fare al mondo.

«Sei venuta per dirmi qualcosa, o solo per fumare?» domandò.

«Vengo sempre nel tuo ufficio per fumare, Manfredino», puntualizzò lei. «Nel mio è vietato farlo.»

Una vena si gonfiò sulla fronte di Alberto. Una stilla di sudore gli solcò la tempia sinistra.

«Veramente, se non te ne sei accorta, sarebbe vietato anche qui dentro!» sbottò.

«Lo so», replicò la donna dai capelli rossi, più seria che mai. «Ma, se qualcuno sentisse puzza di fumo nel mio ufficio, darebbe subito la colpa a me. Qui dentro, invece, il cazziatone te lo becchi solo tu. Per non parlare della multa. Da quello che ho capito, fumare in un luogo pubblico dove è vietato farlo, comporta una sanzione amministrativa dai cinquecento ai cinquemila euro. Dovresti pensarci, Manfredino.»

«Io… tu…»

Alberto avvertì la necessità di bere.

Prese dal ripiano la bottiglietta d’acqua, tolse il tappo e la tracannò in due sorsi.

Non ho parole. Taccio. Un bel tacer non fu mai scritto, come diceva quello. Uno che la sapeva davvero lunga, secondo me.

«Comunque», andò avanti Aurora, sventolando la sigaretta che teneva tra le dita, e facendo volare cenere su tutto il ripiano della scrivania del tenente, «ero venuta anche per un altro motivo.»

«Ah… e sarebbe?»

Senza chiedere il permesso, Aurora afferrò il telefono di Alberto dalla scrivania.

«Fai pure», bofonchiò lui.

Lei sbloccò lo smartphone con il codice – che conosceva alla perfezione – e aprì la pagina di Internet. Senza nessuna pietà, cancellò tutte le ricerche che il tenente aveva effettuato per provare a ritrovare il cavatappi rubato, e aprì YouTube.

«Volevo vedere se, quei tipi, hanno messo una spiegazione, per il video dell’altro giorno», disse.

Alberto fece una smorfia. L’acqua che aveva appena bevuto minacciò di risalirgli dallo stomaco e di affiorargli dalle labbra. La ricacciò indietro a fatica.

«Che schifo», biascicò. «Non so perché certe robe siano consentite. Va bene tutto, e non voglio certo mettermi a fare il rompicoglioni come uno Iannaccone qualsiasi, ma in certi casi io farei intervenire la polizia postale per vietarli, certi obbrobri…»

Aurora aggrottò la fronte.

Fissò lo schermo, interdetta.

«Mi sa che qualcuno ti ha preceduto, Manfredino.»

 

* * *

 

Lunedì sera, di nuovo in una camera in un appartamento, con la porta chiusa a chiave

 

 

Il disordine era quello di ogni giorno.

Di ogni mattina, di ogni pomeriggio e di ogni notte.

Una caotica confusione in cui i due amici sapevano ritrovarsi e orientarsi. Quell’insieme di oggetti che formava la parte visibile delle loro vite che si erano avviluppate e unite a triplo filo.

Sdraiata sul letto, le mani intrecciate dietro la testa e le gambe distese, con i piedi allungati sulle ginocchia di Daniele, Valeria osservava il soffitto senza realmente vederlo. Seguiva il corso di alcune ragnatele che nessuno si era mai preso la briga di togliere. Perché farlo, poi? Se quella stanza era la loro casa, quelle ragnatele erano la casa dei ragni. Con quale diritto, privarli della loro abitazione? E poi, in estate, catturavano le zanzare, quando si riversavano a sciami impazziti attraverso le finestre aperte. Alleati formidabili.

«Arrivato niente, oggi?» domandò la ragazza. Era la domanda che, puntualmente, ripeteva ogni lunedì. Conosceva già la risposta, perché – a parte qualche rara variante – era sempre la medesima.

Daniele le strinse i piedi tra i polpastrelli, massaggiandoli.

«Niente», disse. «Io, comunque, le domande le ho fatte. Ho inviato richieste e curriculum. Se poi a nessuno interessa avermi come dipendente, non posso certo impormi, o obbligare chicchessia ad assumermi. Almeno, il cuore in pace, me lo sono messo.»

Valeria fece una specie di mugolio, forse di assenso, forse di piacere.

«Ce lo siamo messi in pace in due, il cuore», disse. «Nessuna risposta nemmeno per me. Forse non sono abbastanza di bella presenza, non so.»

Daniele sorrise, guardandola.

Per quello che lo riguardava, non c’era al mondo nessuna creatura di più bella presenza di Valeria.

«E il libro?» domandò.

Lei fece una specie di smorfia, gonfiando le guance.

«Anche oggi, mi sono uscite sì e no due parole. Però, sono comunque due parole in più, che ieri non c’erano. Giusto?»

«Giusto», approvò l’amico.

«Ma, prima o poi, ci toccherà fare qualcosa di più, immagino», proseguì la ragazza.

Sulle labbra di Daniele si allargò un altro sorrisetto.

«Possiamo sempre fare una rapina», sghignazzò.

«O, magari, rapire un riccone e chiedere il riscatto», soggiunse lei, ridacchiando.

«E allora, perché non trovare un riccone o una riccona a cui tenere compagnia, magari già bello vecchio, per poi farci lasciare tutto in eredità?» aggiunse lui.

Valeria allargò ulteriormente il sorriso, sempre impegnata a studiare il soffitto e a godersi il massaggio che Daniele le stava facendo ai piedi.

«Io, più che a un’eredità, punterei a qualcuno che ci prenda in simpatia e ci faccia un sacco di regali», disse, con fare pratico. «Le eredità è meglio evitarle. Saltano sempre fuori un mucchio di guai: gente che si intromette, parenti scontenti, avvocati, tribunali…»

Daniele annuì.

«Hai ragione, mi sa», borbottò. «Oh, al massimo, possiamo sempre andare sulla statale a dare via il culo e a offrire pompini al miglior offerente.»

Valeria fece un cenno.

«Non mi tiro indietro», confessò. «Dopo tutte quelle che ho passato, fare lavoretti da cinquanta euro sarebbe la cosa meno brutta.»

Quell’accenno fece riaffiorare alla mente di Daniele una domanda che lo stava assillando fin da sabato notte, quando avevano guardato il video degli H.UL. Ne erano rimasti tanto turbati che, dopo aver spento il telefono, erano rimasti immobili e in silenzio al tavolo del bar per quasi due ore. Alla fine, infreddoliti a causa del vento che aveva cominciato a soffiare più forte, erano riusciti a riscuotersi ed erano tornati a casa. Da quel momento, non ne avevano più voluto parlare. Una specie di tacito accordo.

Adesso, però, era arrivato il momento di infrangerlo.

«Secondo te…» borbottò il ragazzo, stringendo un po’ più forte tra le mani i piedi dell’amica, «… secondo te… era tutto finto?»

Lo sguardo di Valeria lasciò perdere quelle strane cicatrici nell’intonaco che erano le ragnatele. Si puntò in quello di Daniele, che sembrava quasi implorarla di dargli una risposta affermativa.

Scosse la testa.

«Non lo so…» sussurrò. «Davvero, non lo so… lo spero, ma…»

«…ma sembrava così reale», concluse per lei Daniele.

Valeria annuì, senza aggiungere altro.

Ritrasse le gambe e si accoccolò contro il cuscino. Daniele si spostò sul materasso per andare a sederle accanto. Lei prese il telefono dal comodino.

C’era un solo modo per conoscere la verità su quell’ultimo video degli H.UL.

Effettuarono l’accesso a YouTube.

Entrambi fecero un sobbalzo, quando videro quello che apparve sullo schermo.

Valeria e Daniele si guardarono negli occhi.

Allibiti.

 

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Capitolo 11
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