Tre

di LubaLuft
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - The Crying Game ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Il fascino discreto della follia ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - … Tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - 24 metri ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Soundcheck ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - In volo ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - In bilico ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Lacrime e vodka ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Dopo la pioggia ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - Le conseguenze delll’amore ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - Parlando di notte ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 - Persone normali ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 - Qualcosa è cambiato ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 - Dolce e amaro ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 - Due ***
Capitolo 16: *** Epilogo - Addio alle Armi ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - The Crying Game ***


È la prima volta che mi cimento in una storia AU.

Tooru, Hajime e Wakatoshi sono i protagonisti di questo triangolo, e sullo sfondo si muovono altri personaggi, che mi sono divertita a infilare in abiti nuovi senza però stravolgerli troppo nella loro indole. O almeno, spero di essergli rimasta il più possibile fedele.

Pubblico il primo capitolo, per vedere un po’ che aria tira 😉

 

Ps: piccolo spoiler iniziale su un film che adoro, “La moglie del soldato” - ebbene sì, vado dritta sul finale ma il film ha ormai i suoi anni (quasi 32!) e magari lo avete già visto…


Uno


Shinjuku. Domenica sera.

“Davvero un film del cazzo!...” esclamò Tooru, stringendosi nel suo paletot blu. Aveva freddo e il maglioncino di filo di cotone che aveva messo non gli bastava. Infilò le mani nelle tasche dei suoi chinos.

“Oh, andiamo…! Invece ti è piaciuto, altroché…” Tetsurō gli allungò uno schiaffo sulla nuca.

“No! Insomma… Fergus non può finire dietro le sbarre a raccontarle favola della rana e dello scorpione… non dopo tutto quello che hanno passato! Dèi del cielo…”

“Intendi dire raccontargli Tooru, Dil è un transessuale, ricordi…?” aggiunse Kōtaro.

Tooru si fermò di colpo. Camminava in mezzo ai suoi amici, che si fermarono a loro volta e si girarono verso di lui.

Adorava andare al cinema con loro, era sempre tutto un dibattito, dopo. E sarebbe stata dura tenere il punto su La Moglie Del Soldato perché la verità era che il film gli era piaciuto, eccome… ma in quel momento sentiva di avere un disperato bisogno di felicità pura, senza sbavature,

Don’t want no more of the crying game…No, decisamente non ne voleva più, non dopo l’ennesimo ‘buco sentimentale nell’acqua’ del quale era reduce. Un uomo più grande, conosciuto a una convention a Ōsaka, che però non voleva impegnarsi in una relazione a distanza. Soprattutto, non era innamorato di lui, prova ne erano certe foto su Instagram nelle quali amoreggiava con un tipo totalmente anonimo se paragonato a lui, diamine! - fortunatamente, l’amor proprio di Tooru sorgeva sempre al momento giusto, come il sole sul mare, e alla fine metteva tutto a posto.

“Perché ti sei fermato?” Chiesero gli altri due, quasi in coro.
“Ma che capelli avete?” Li apostrofò lui ridendo.
“I soliti di sempre!” Esclamò Kotarō passandosi una mano fra i suoi ciuffi ribelli, nero-argentati.
Tetsurō scosse il capo con un ghigno beffardo e tirò fuori un pacchetto di chewing-gum dal suo chiodo nero.
“È evidente che non avete ancora provato il mio nuovo gel a lunga tenuta!” sorrise Tooru aggiustandosi gli occhiali sul naso.
“Il nuovo gel della Glowline vorrai dire? Tooru… non è che se ti inventi un claim pubblicitario poi il prodotto che pubblicizzi è tuo…” 
Obiettò Tetsurō, iniziando a gonfiare e far scoppiare palloncini di gomma al gusto fragola.
Clack! E ancora clack… 
Era terribilmente sexy… e terribilmente etero.
 
Tooru si ricordava ancora di quando era arrivato a Tokyo da Sendai per frequentare l’università, ormai cinque anni prima.
Era andato direttamente in ateneo per incontrare la persona con la quale forse avrebbe condiviso un appartamento,
 

Qualche giorno prima di partire, aveva risposto ad un annuncio sulla bacheca online degli studenti: Kurō Tetsurō, anni 19, studente di ingegneria, chitarrista, cerca coinquilino…eccetera eccetera. Il prezzo era buono, la zona anche. 

Quando lo aveva visto per la prima volta, nella biblioteca della sua facoltà, gli era preso un colpo: alto, una cresta di capelli neri sparati in ogni direzione, occhi sottili come quelli di un gatto. Parlava a bassa voce eppure quella voce lo aveva trapassato da parte a parte.

Bello e dannato, sin dal primo momento.

Dopo che gli aveva mostrato la sua stanza e il resto della casa, Tetsurō gli aveva offerto un caffè e poi aveva preso in mano la sua Fender, e quando l’aveva collegata all’amplificatore e aveva iniziato a cantarci sopra The Headmaster Ritual degli Smiths, Tooru si era messo letteralmente a tremare.

Glielo aveva detto subito, che era gay, e Tetsurō gli aveva rivolto uno sguardo pieno di interesse.
“Parli chiaro e mi piace. Io sono etero, ma non ho problemi a condividere i miei spazi con te.”

Sei mesi dopo, avevano messo su una specie di fratellanza, con Tetsurō che si sorbiva le sue angosce per gli esami, che aspettava un eternità poter usare il bagno, che si commuoveva quando, di rientro da un concerto, Tooru gli faceva trovare la cena in caldo.

Quando Tooru, di punto in bianco, era stato mollato dal suo ragazzo dell’epoca, un compagno di corso, Tetsurō lo aveva abbracciato e consolato per una notte intera, dopo averlo trovato in bagno, seduto sul pavimento con la schiena appoggiata alla vasca e le mani nei capelli. 

Se lo era proprio portato a letto… platonicamente.
“Sono così depresso che non mi passerebbe neanche se ti vedessi nudo.” Aveva piagnucolato Tooru.
“Se vuoi mi spoglio...”
“No…!”
E finalmente si era addormentato addosso a lui come un bambino.

Dove c’era Tetsurō, c’era anche Kōtaro Bokuto che, se possibile, era ancora più matto del suo coinquilino.

Kōtaro studiava chimica e suonava il basso nella loro band, gli Owling Cats nome che non significava assolutamente nulla - Gatti Appollaiati, forse? - ma del resto uno era fissato con i gatti e l’altro con i gufi, e non si erano mai messi d’accordo su quale dei due animali far prevalere.

Più o meno un anno dopo averli conosciuti, Tooru era stato l’unico a mettere fra parentesi l’università per iniziare a lavorare. Aveva scelto comunicazione e marketing e, tempo un paio di stage, lo avevano preso come creativo in un prestigiosa agenzia di pubblicità, ricoprendolo di soldi piuttosto facili e anche piuttosto comodi. 

Continuava però a restare, suo malgrado, tenacemente attaccato a quel loro strano sistema ternario: uno che veniva pagato per far vendere gel per capelli, uno che progettava ponti ma finiva per interessarsi davvero solo quelli della sua chitarra e uno che spiegava loro per filo e per segno i possibili danni dell’acrilammide sull’organismo umano, indicando con dito ricurvo e voce mortifera la padella nella quale avevano appena fritto la tenpura.

“Andiamo a mangiare qualcosa?” Propose proprio Kōtaro. 
“Già, perché no?”
“Io passo.” Rispose Tooru iniziando ad agitare il braccio per attirare un taxi. “Domani sono in missione.”
“Per conto di Dio?”  Chiese Kōtaro ridendo.
Tooru si fermò a riflettere un istante. “Beh, più o meno sì. Wakatoshi Ushijima per noi è quanto di più vicino a un Dio, in questo momento.”
Quell’Ushijima? Quello della Jima Airwaiys? che ha ereditato la compagnia aerea da suo nonno…?”
“Esattamente. Siamo in gara per gestire la loro comunicazione. Domani consegnamo il progetto, sarà una campagna di re-branding. Io voglio quella commessa…”
“Eccolo, il Grande Re in azione!” Lo canzonò Tetsurō.
“Puoi dirlo forte!”

Se c’era qualcosa di cui Tooru non dubitava, erano le sue capacità al lavoro. Sapeva farsi ascoltare e trasmettere le sue idee e soprattutto sapeva tirare fuori il meglio dal suo team. Esattamente come un alzatore su un campo di pallavolo.

Avrebbe ottenuto il budget di quella campagna, l’avrebbe modellata alla perfezione, fatta volare alta come un aereo.

Salutò i suoi amici e salì in taxi, con la mente già sulle ali sinuose di un A380, nel buio della notte, oltre le boe luminose dei grattacieli, verso le onde invisibili del mare di stelle che lo sovrastava. 


****


Hajime Iwaizumi aspettava, in macchina.
La cravatta gli risultava insopportabile, quella mattina. 
Provò ad allentare il nodo, ma la morsa che gli stringeva il collo non dipendeva da solo da quello, lo sapeva. 
Un movimento, all’esterno del cancello della villa, attirò la sua attenzione.
Era Wakatoshi Ushijima, nel suo abito impeccabile, alle nove spaccate, come suo solito.
Hajime ci aveva messo un po’ di tempo a uscirne e ogni tanto una stilettata di delusione mista a rabbia lo colpiva ancora al fianco.
Ammirò il suo capo che si avvicinava a passi lenti e misurati alla sua auto di lusso.
Wakatoshi alto e piazzato, vestito sempre alla perfezione. I capelli corti che incorniciavano i suoi lineamenti virili, gli occhi di un verde scuro come quello dei cedri di Nagano. La voce, bassa e profonda.
Aprì lo sportello posteriore accomodandosi sul sedile di pelle.

“Buongiorno.” Disse Hajime con voce neutra.

L’altro rispose con un cenno della testa e uno sguardo duro come il cemento.

Hajime partì, e partì anche il suo cervello, dirottato in un passato neanche tanto lontano da quegli occhi d’aquila che aveva appena incontrato sul vetro dello specchietto.

 
Una sera calda e umida, poco tempo prima, Wakatoshi aveva giocato a tennis da solo, nel suo club esclusivo, contro una macchina che sparava palline e ai cui proiettili aveva risposto con la potenza del suo braccio mancino.
Era ormai tardi e non c’era più nessuno, solo Hajime dietro una rete a combattere con se stesso e la sua insana attrazione per quella statua d’acciaio.
Gli aveva portato la borsa da palestra nello spogliatoio, su sua richiesta.
Mentre rivedeva quelle scene, il corridoio in penombra, il silenzio che rimbombava solo dei loro passi, le sue mani, sulla pelle del volante, tornarono a sfiorare la pelle dell’altro.
La schiena contro il muro, il peso di quel corpo scolpito che gravava sul suo, le sue dita su quei muscoli ancora sudati, tesi e perfetti in ogni loro fibra.
La bocca di Wakatoshi sulla sua, in un atto predatorio, le mani di lui che gli tiravano fuori la camicia dai pantaloni.
Il suo silenzio, innaturale, mentre risucchiava dalle labbra di Hajime suoni inarticolati, sintomo del suo abbandono ormai pressoché totale. 
Aveva fatto di lui ciò che voleva, quell’unica volta, quell’unica terribile e magnifica volta.
 

Non si era mai sentito così, domato anche nella sua rabbia. 

Perché Hajime era rabbioso, la sua era una rabbia piena di solitudine e insoddisfazione, una rabbia di cui l’altro si era solo servito per un suo capriccio o per una sua curiosità  - com’era scoparsi il proprio autista dopo un allenamento di tennis? - e prova ne era la sua bella e ricca fidanzata, con la quale era prossimo al matrimonio.

O era tutta una messa in scena?

Una facciata, un alias di comodo per nascondere le sue vere inclinazioni.

Ma no…  magari gli piacevano semplicemente sia gli uomini che le donne, se il tema era dominare l’altro in ogni sua fibra. Un po’ come i suoi aerei dominavano i cieli.

Dopo quell’amplesso che gli aveva fatto dimenticare la rabbia, per un lungo, pulsante, ansimante, luminoso istante della sua vita, Wakatoshi aveva cancellato tutto con un colpo d’ala, violento, rapace quanto quello che lo aveva sospinto in alto con lui, poco prima.

“Puoi andartene, se vuoi. O restare. Nel primo caso, ti verrà corrisposto un intero anno di stipendio. Per quanto mi riguarda, fra di noi non è accaduto nulla.”

Per te, brutto figlio di puttana.

 

“Dove la porto?”

Ma già lo sapeva, conosceva il nome di quella nota agenzia di comunicazione. Voleva solo sentire la sua voce che comandava, lo 

stesso tono con il quale quella sera gli aveva ordinato di girarsi… o era stato Hajime a ordinargli di dargli ciò che voleva? A un prigioniero si concede ogni tanto un’ora d’aria e respirare la sua pelle era stato come respirare aria in quota, rarefatta al punto da farlo diventare affamato.

“Prima fermati al fioraio qui all’angolo.”

Come ogni lunedì, il mazzo di fiori per la sua fidanzata. Metodico in tutto. 

“Certo, come vuole, signor Ushijima”


****

 
Aveva parcheggiato proprio di fronte all’ingresso del palazzo tutto vetri all’interno del quale aveva sede l’agenzia.
Dalle porte girevoli, un via vai di gente dall’aspetto curato, dai modi sicuri, occhiali scuri e sorrisi bianchi, strette di mano, valigette in pelle.
Poi, quello strano personaggio che correva a perdifiato nella sua direzione, evidentemente in ritardo.
Capelli castani scarmigliati, un paio occhiali enormi, un paletot blu scuro che gli delineava il fisico snello e le spalle armoniose, gambe lunghe in un paio di chinos color corda.
Scarpe sportive ma eleganti e la borsa porta notebook che ondeggiava sulla schiena.
“Dèi…” imprecò mentre scivolava veloce accanto al suo sportello. Un attimo e fu catturato anche lui dalle porte girevoli.

Le labbra di Hajime si aprirono in un sorriso involontario. Gli succedeva sempre così quando qualcosa lo incuriosiva. 

Quel ragazzo correva verso qualcosa di importante.
 

Anche Hajime voleva qualcosa di importante verso la quale correre.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Il fascino discreto della follia ***


Due

La sera del primo incontro ufficiale con Reiko Onagawa, Wakatoshi si era preparato accuratamente.

Non che di solito non curasse il proprio aspetto. Lui era sempre elegante, stirato, senza pieghe, come se l’attrito con il mondo esterno non avesse alcun effetto su di lui.

Soprattutto, sapeva gestire ogni situazione con freddezza, calcolo, determinazione. Sapeva vestire ogni suo gesto di una sottile patina di perfezione. 
Un uomo di classe sa anche sputare con classe, così diceva suo nonno. E poi gli diceva anche che per quanto l’indole umana fosse fondamentalmente debole e preda di atteggiamenti e pulsioni che sfuggivano continuamente al suo controllo, quelli come gli Ushijima erano invece in grado di dominarla. Una volta dominata la propria indole, dominare quella degli altri era un gioco da ragazzi. Tutto stava ad analizzare bene ogni contesto, gli individui che ne facevano parte, il fine che li spingeva all’azione, ciò che per loro era vitale. E una volta compreso l’insieme, ottenere ciò che si desiderava era piuttosto semplice.
 

Attaccato alla bombola d’ossigeno, durante i suoi ultimi mesi di vita, il vecchio si era anche prodigato affinché suo nipote, orfano di entrambi i genitori e ormai prossimo a ereditare un impero, scegliesse una futura moglie adatta a stargli accanto nel difficile compito di guidare l’impresa di famiglia. Un omiai, un matrimonio combinato che avrebbe unito il clan Ushijima a una famiglia altrettanto potente e danarosa. 

 
Wakatoshi aveva sfogliato a lungo le fotografie che il curatore patrimoniale di suo nonno gli aveva fatto avere. Tutte splendide ragazze, provenienti da famiglie ricche e prestigiose, incardinate nella tradizione più rigida, pronte solo a figliare e a vigilare sulla servitù.
Ci aveva riflettuto qualche giorno poi aveva scelto di incontrare Reiko perché c’era un particolare di lei che lo aveva colpito: il suo sguardo freddo e altero e il fatto che nelle sue foto non apparisse neanche il minimo accenno a un sorriso. 
Wakatoshi era fondamentalmente un anempatico e come tale preferiva circondarsi solo di persone fatte come lui. L’ imprevedibile lo turbava, il caos lo destabilizzava, la debolezza lo disgustava. Era per quel motivo che aspirava a trovare una fotocopia di se stesso. 
 

Anche Reiko doveva averlo apprezzato e dopo un primo incontro a casa di lei, era ufficialmente iniziata la loro frequentazione, priva del benché minimo contatto fisico e caratterizzata da una serie di rituali ricorrenti: fiori e cena il lunedì, pranzo il mercoledì, tennis il giovedì. Tutte le volte, una persona di fiducia della famiglia Onagawa li accompagnava con discrezione.

Quando poi il vecchio Ushijima era morto, Wakatoshi aveva molto apprezzato di Reiko la serena indifferenza che aveva mostrato durante i riti familiari e la cerimonia funebre. Non si trattava di una mancanza di rispetto verso suo nonno ma di un atteggiamento trasparente, frutto di una chiave di lettura delle vicende altrui come estranee alle proprie e come tali osservabili con il giusto distacco.

In seguito a quel primo incontro, erano andati a cena insieme diverse volte. Avevano discusso di politica, letteratura, di viaggi. Avevano parlato il giusto, con le parole che venivano spinte fuori attraverso le maglie di una sana reticenza. Nessuno dei due voleva davvero mostrarsi all’altro, e comunque non ce n’era bisogno perché era tutto già deciso.

Questo era Wakatoshi Ushijima: una superficie continua, chiusa, blindata, organizzata.

 
A volte però poteva capitare che nel suo orizzonte geometrico senza increspature emergesse improvvisa, una pulsione, una voglia
E le voglie andavano soddisfatte nella giusta maniera: lasciandosele poi alle spalle. 
Suo nonno, del resto, lo aveva messo in guardia: nella costruzione di una personalità vincente, era fondamentale il controllo di tutto.
 

Una sera, aveva avuto voglia. 

Stava giocando a tennis da solo, da più di un’ora, e non gli era sfuggito lo sguardo di Iwaizumi, il suo autista, che lo aspettava dall’altra parte della rete di protezione per riportarlo a casa. Erano giorni che Wakatoshi lo teneva d’occhio, che ne analizzava gli scostamenti dal consueto, che gli vedeva tremare le mani 
Giorni che si sentiva i suoi occhi puntati addosso, attraverso lo specchietto retrovisore.
 
Ne era infastidito, percepiva quell’interesse come una specie di sconfinamento nel suo territorio, e il suo era un territorio di caccia.
 
Quello della caccia era forse l’unico istinto con il quale a volte Wakatoshi doveva faticare, per tenerlo a bada, e quella sera era uscito dal proprio recinto.
 

Non era stato difficile. Un uomo debole è una porta senza chiave, altro detto di suo nonno.

La porta di Iwaizumi era spalancata, e lui era entrato e lo aveva spogliato di ogni resistenza. Aveva letto la confusione e il desiderio nei suoi occhi, l’abbandono nel suo respiro, la sua stessa voglia ma sbagliata, perché nata dal presupposto sbagliato, quello di voler condividere con Wakatoshi qualcosa di intimo.

Wakatoshi, invece, non era abituato a condividere, solo a prendere.

 
Lo aveva schiacciato contro il muro, nel buio desolato dello spogliatoio del club. Non si era neanche asciugato il sudore di dosso, così com’era lo aveva sopraffatto, afferrandolo per un polso con la presa ferrea della sua mano sinistra, stringendo quel polso come aveva stretto fino a pochi minuti prima il manico della sua racchetta.
Un esperimento, quasi, analizzato con distacco mentre allo stesso tempo si partecipava alla reazione osservata. 
Le sue mani misuravano l’altro alla ricerca di tutti i suoi punti deboli, perché il fatto stesso che non avesse reagito al suo assalto ma che lo avesse accolto senza riserve significava tutta la sua debolezza. La urlava, nel silenzio dello spogliatoio. 
Mai essere deboli. 
Così, quando Iwaizumi era venuto, gli aveva coperto la bocca con una mano per non sentirlo. Lui aveva solo ringhiato
 
Dopo, la loro partita si era chiusa come se nessuno l’avesse mai giocata. Wakatoshi lo aveva assaggiato e lo aveva sputato, con eleganza, come fa un sommelier con un vino da testare - quello di un vitigno come tanti in una bottiglia come tante.
Però, doveva ammettere che l’assaggio gli era piaciuto. Il fatto che avrebbe presto diviso il talamo con una moglie era totalmente secondario alla consapevolezza che erano gli uomini a interessargli veramente. 
Ciò nonostante, avrebbe fatto il suo dovere di marito modello, manager modello, gustandosi le proprie imperfezioni come aveva fatto con Iwaizumi: liberandosene subito dopo. 
Dopo quella sera, Iwaizumi aveva deciso di continuare comunque a lavorare per lui. Aveva continuato a guidare la sua macchina e a fissarlo dallo specchietto retrovisore, rifiutando di andarsene con un anno di stipendio pagato. 

Perché? 

Wakatoshi se lo era chiesto e aveva continuato a chiederselo anche quel lunedì mattina, mentre Iwaizumi stava guidando verso la sede di una nota agenzia creativa, in gara per l’affidamento della comunicazione della Jima Airways.
La sua era una curiosità sincera ma se la tenne per lui. Nel suo sguardo, riflesso nello specchietto, gli sembrava di leggere già la risposta alla sua domanda: quell’uomo non aveva più un grammo di orgoglio, era tutto svanito in quello spogliatoio, contro il muro.
 

Si era divertito a mandarlo dal fioraio per prendere il solito mazzo di rose da far recapitare a Reiko.

 
Orgoglio.
C’era sicuramente qualche massima di suo nonno sull’orgoglio ma in quel momento gli sfuggiva.


 

****



 
“È già arrivato!?” Chiese Tooru con un filo di voce.
Chiuse la porta del suo studio e poi vi si appoggiò di schiena, per riprendersi.
Non aveva più fiato, dopo quella corsa.
Aveva preso l’unico treno della metropolitana di Tokyo che poteva rompersi proprio quel giorno e l’ultima mezz’ora l’aveva fatta praticamente volando.
Tobio Kageyama, Shoyo Hinata e Yachi Hitoka, i suoi collaboratori, alzarono gli occhi dai file che stavano visionando 
“Ciao Tooru!” Lo salutò Yachi con la sua vocetta.
“Sì, Ushijima è arrivato ed è in sala riunioni con il direttore commerciale. Niente paura, stanno parlando di tennis…” rispose Shoyo.
“Avete fatto la modifica che vi avevo chiesto?” 
“Comunque ciao anche a te.” Sibilò Tobio.
“Tobio, rispondimi e non farmi incazzare che stamattina non è aria...”
“Vi prego, non litigate!”  Yachi schizzò in piedi in un accesso d’ansia.
Tobio allora indicò Shoyo con un dito.
“Sì, la modifica è stata fatta ma prima questo cretino ha avuto la bella idea di perdersi l’ultima bozza. Ho dovuto svegliare quelli dell’IT per ripescarla nel server.”
“Ah-ah…” replicò Shoyo “Come quella volta che tu hai…”

“STOP!”

Tooru si avventò sul mega schermo che mostrava le cartelle, tutte ordinate, di quel progetto: il claim, declinato nelle varie forme che poteva assumere la comunicazione: digitale, out-of-home, stampa, televisione e radio. I costi. I testimonial, le location. Le voci.

Lì sopra c’era tutto, elencato per filo e per segno, e c’erano anche le sue ultime notti insonni, durante le quali si era affacciato alla porta di Tetsurō per vederlo dormire sul suo letto con addosso la sua maglietta dei Clash, languido come un gatto, e per tentare di assorbire per osmosi la sua tranquillità.

Tutto era stato riversato su quel desktop.

Era pronto.
Inforcò gli occhiali, bevve un sorso d’acqua e marciò verso la sala riunioni.

****


Wakatoshi, seduto al tavolo ovale, stava già visionando una serie di documentazioni, soprattutto case history di campagne pubblicitarie che avevano per oggetto compagnie aeree o, in generale, vettori commerciali. 
Gli sembravano lavori fatti bene, ma non sarebbe stato semplice ottenere la sua commessa. Quello che il direttore commerciale dell’agenzia -  che aveva sorridente davanti a sé -  il direttore creativo -  altrettanto sorridente - e i suoi sottoposti non sapevano, era che la Jima Airways aveva appena vinto la gara per la sponsorizzazione della squadra nazionale maschile di pallavolo.
La notizia sarebbe stata ufficializzata in una conferenza stampa quello stesso lunedì, a mezzogiorno. Erano le dieci, e a quel punto Wakatoshi aveva deciso di mettere sul tavolo quell’ulteriore opzione - giusto per vedere come se la sarebbero cavata con quell’imprevisto.
 
Qualcuno bussò alla porta.
“Avanti.”

Un giovane che aveva più o meno la sua stessa età entrò nella stanza con un portatile e una periferica Usb.

Il direttore creativo prese la parola.
“Signor Ushijima, le presento Tooru Oikawa, nostro senior account. Il team da lui coordinato si è occupato del progetto.” 

Wakatoshi restò seduto mentre il giovane si inchinava di fronte a lui. Quando sollevò nuovamente il viso, lo osservò meglio. Aveva un incarnato chiaro, sul quale brillavano due occhi nocciola, magnificati dalle lenti degli occhiali.

Sul collo del giovane - sotto pelle, in trasparenza - un piccolo vaso sanguigno pulsava veloce: segnale di uno stato di calma solo apparente. 
La sua mano tremava impercettibilmente mentre infilava la Usb nel suo notebook. 
Una goccia d’ansia di troppo e l’autocontrollo sarebbe uscito dagli argini. 
 

Wakatoshi, che amava quel genere di situazioni e godeva delle difficoltà altrui perché gli ricordavano tutto il lavoro che aveva fatto per neutralizzare le proprie, attese l’inizio della presentazione con i suoi recettori uditivi pronti a cogliere in Oikawa qualsiasi possibile défaillance, quando la sua voce sicura, vellutata, lo colse di sorpresa e iniziò a illustrare il progetto di rebranding senza alcuna incertezza.

Qualcosa allora accadde alla sua psiche, che non era stata forgiata per processare la reazione che quella voce morbida suscitava in lei. 

Ascoltò con attenzione tutta la presentazione del progetto anche se già sapeva che avrebbe affidato a quell’agenzia il compito di riposizionare la sua compagnia aerea nel mercato pubblicitario giapponese. Ascoltò con pazienza e con impazienza allo stesso tempo, ma nulla di tutto questo trapelava all’esterno. Si concentrò sulla vena che pulsava sul collo di Oikawa, ora più lenta, e sulle sue mani che non tremavano più. 

“Che cosa ne pensa, signor Ushijima?” chiese il direttore creativo con un tono falsamente neutro. 

Wakatoshi lo ignorò. Per quanto lo riguardava, in quel momento nella stanza c’erano solo lui e Oikawa, divisi da un tavolo ovale.

“Prima è necessario fare un passo indietro. Sono cambiate le regole di ingaggio.” Rispose allora Wakatoshi. Tirò fuori dalla tasca della giacca la copia del comunicato stampa che riguardava la sponsorizzazione della nazionale di pallavolo, svelando le carte che aveva tenuto ben nascoste fino a quel momento.

Il direttore creativo lo lesse tutto d’un fiato e si illuminò come una supernova.

“Ma è una notizia splendida! La nazionale di pallavolo sponsorizzata dalla sua compagnia aerea! Siamo perfettamente in grado di gestire anche una comunicazione pubblicitaria di brand integrata in un contesto istituzionale, e a tal proposito abbiamo proprio un gruppo di lavoro dedicato a questo tipo di…”

Wakatoshi allora tagliò corto e indicò Oikawa.

“Voglio lui.


 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - … Tre ***


Tre

Hajime sentì il cellulare che vibrava nella tasca della giacca.

Sul display comparvero le iniziali U.W. e il messaggio "Pranzerò con il Direttore Commerciale dell'agenzia e poi sarò in riunione. Torna a riprendermi qui alle quattordici."

Erano solo le undici e trenta. 

Scese dall'auto. Tanto valeva farsi un giro e mangiare qualcosa lì nei dintorni.

Un cigolio lo fece voltare verso l'ingresso del palazzo. 
La porta girevole di vetro e acciaio riversò in strada un gruppetto di persone che avevano tutta l'aria di andarsene allegramente a pranzo da qualche parte.

Hajime riconobbe il giovane con gli occhiali che un paio di ore prima aveva visto correre come un matto lungo il marciapiede, verso l’ingresso: era in compagnia di un piccoletto dai i capelli arancioni, che discuteva animatamente con uno spilungone dall'aria scazzata, e di una biondina smilza che sembrava una studentessa del primo anno di liceo.

Tanto valeva seguirli e pranzare nel loro stesso locale, almeno sarebbe andato sul sicuro senza spendere una fortuna. Quello non era un quartiere in cui poter trovare facilmente un'izakaya o un posto a buon mercato, e quelli non gli sembravano proprio avere un inquadramento da manager facoltosi

Arrivato però al primo incrocio, il gruppo si divise: la strana coppia e la ragazza di infilarono in un fast food, il giovane con gli occhiali proseguì verso una strada laterale che si allontanava gradualmente dalla lussuosa zona degli uffici.

 

Entrò in un locale sulla cui insegna c’era scritto No Name. 

Il nome, piuttosto insolito, incuriosì Hajime che entrò subito dopo di lui.

A quell’ora il posto era abbastanza affollato, i tavolini erano quasi tutti pieni, ma al bancone del bar non c’era stranamente nessuno. 
Hajime lo vide che si dirigeva proprio da quella parte e che si sedeva a una delle estremità. Si scelse quindi un posto dalla parte diametralmente opposta alla sua.

Il giovane non si decideva a ordinare, controllava il cellulare e ogni tanto si girava verso l’ingresso, evidentemente aspettava qualcuno.

Hajime invece osservava lui. Chissà se la sua corsa di quella mattina aveva dato i suoi frutti, se era arrivato in tempo, qualunque cosa avesse da fare.

Quelli come Wakatoshi, invece, arrivavano sempre in tempo, senza dover correre. Qualcun altro correva per loro.

Anche Hajime aveva voglia correre e invece restava seduto nella macchina di uno squalo senza scrupoli con il quale, almeno nella sua mente, una sera neanche troppo lontana aveva fatto l’amore. 
Ci aveva fatto l’amore, nonostante lui gli avesse ringhiato nell’orecchio e gli avesse tappato la bocca con una mano. 

Continuava ancora a pensare a quella sera, a quelle mani, a ciò che aveva provato, alla perfezione del corpo di lui e alla doccia fredda del dopo. 

Pensieri intrusivi che non portavano da nessuna parte, ora che tutto era svanito come in un sogno alcolico.

Tornò a concentrarsi sul ragazzo con gli occhiali. Era un bel tipo. Se ne sentiva attratto, tanto per cambiare. 

Che cosa lo attraeva? Forse il suo aspetto fisico, nel complesso, il suo abbigliamento informale ma curato, il profilo, i capelli scarmigliati, le mani? 
Le mani, soprattutto, che martoriavano il tovagliolo di carta, le lunghe dita che ticchettavano sul vetro del bicchiere. L'impazienza, l'attesa che non riusciva a nascondere?

O forse era la sensazione che fosse completamente diverso da Wakatoshi. Poteva essere a tutti gli effetti una persona normale… una persona e non una statua d’acciaio - o una specie di serial killer.

Stava riflettendo sulla possibilità di avvicinarsi a lui e di chiedergli un consiglio su cosa ordinare quando fu costretto a deviare velocemente lo sguardo.

La coda dell’occhio restò però a vagare su di lui, mentre un ragazzo alto e con i capelli scuri, appena entrato nel locale, gli si avvicinò silenziosamente come per fargli una sorpresa.

Un bel ragazzo, in jeans attillati, anfibi e chiodo, il passo felpato come quello di un gatto. Lo raggiunse e lo ghermì ai fianchi, facendolo saltare letteralmente sullo sgabello. 

Il giovane con gli occhiali si voltò allora verso il nuovo arrivato e dopo avergli sorriso lo abbracciò forte.

Un contatto stretto e prolungato, pieno di confidenza e complicità.

 

Quell’ultimo gesto mise Hajime in allerta. Ebbe una specie di piccola scossa che rimescolò in disordine i suoi pensieri. Una scossa che conosceva bene. Il ragazzo con gli occhiali era forse come lui, aveva le sue stesse inclinazioni? Quel tipo figo come una rockstar se la intendeva con lui?

Fu allora che il ragazzo con gli occhiali agganciò il suo sguardo. Per qualche secondo, le iridi dello sconosciuto si affacciarono sulle sue e non sembravano sorprese o interdette. Sapeva di essere osservato, lo aveva stanato.

Allora Hajime batté subito in ritirata, confuso. Sentiva che per come stava messo,  se avesse avuto il coraggio di avvicinarlo non gli avrebbe chiesto che piatto ordinare ma direttamente il suo numero di telefono. Si alzò senza consumare, uscì e tornò alla macchina.


****


Tooru aveva notato quel ragazzo che aveva più o meno la sua età e che si era seduto all’altro capo del bancone.

Uno come Tooru, che viveva di intuizioni creative, osservava con attenzione il mondo esterno e chi lo popolava.

Intanto, per iniziare, quel tipo gli sembrava profondamente a disagio in giacca e cravatta. Non gli appartenevano proprio, si vedeva. Soprattutto, uno così in tiro non entrava in un locale come il No Name, che quando era a pieno regime, e aveva il palco montato, diventava il regno di quelli come Tetsurō e Kōtaro, cioè una vera gabbia di matti. 

Da quando si era seduto all'altro capo del bancone, quel ragazzo non aveva degnato neppure di uno sguardo il menu e non si era neppure preso da bere. E poi aveva notato le sue occhiate, percepito la curiosità nei suoi confronti, malcelata, mimetizzata senza grandi accortezze. Un pesce fuor d'acqua, chissà...

Non appena fu uscito, Tetsurō, che si era allungato oltre la spalla di Tooru per seguirlo con lo sguardo, tornò a guardare il suo amico e con un ghigno sottile e aria saputa esclamò “Io quello l'avevo visto qui fuori, un quarto d'ora fa. Stavo parlando al cellulare e l’ho visto camminare dietro di te e seguirti qui dentro. Non voleva pranzare, piuttosto voleva sapere che cosa avresti mangiato tu

“Beh, non ha aspettato la mia ordinazione…” rispose Tooru  comicamente deluso.
“Devo smetterla di abbracciarti in pubblico, Tooru-chan. Io ti rovino la piazza e tu la rovini a me.” 
“Tetsurō… se sei ancora illibato è solo perché mi sono messo una mano sulla coscienza e non ti sono saltato mai addosso. Avrei dovuto farlo anni fa e forse tu avresti capito che puoi amare solo me alla follia.”
“Chi ti dice che io non ti ami già alla follia?”
“Non mi provocare! Piuttosto, che cosa c'è dentro quel tubo di plastica?” Chiese Tooru indicando un portaprogetti che il suo amico teneva appeso a una spalla.
“È la locandina del concerto di sabato prossimo. Sono venuto ad attaccarla personalmente qui, fuori la porta del locale. Prima però voglio tutti i dettagli del tuo trionfo di oggi.” Chiese Tetsuro, tornando finalmente serio.
“Beh, ho rischiato grosso, ero in ritardo e sono arrivato in riunione per il rotto della cuffia.”
“Che tipo è questo Ushijima?…”

Solo in quel momento, a quella domanda, Tooru fece a mente il conto delle sue emozioni e realizzò di essere ancora a mille, come se non avesse più smesso di correre da quando era uscito di casa.

C’erano però diverse ragioni, dietro il suo stato d’animo.

La prima era sicuramente l’obiettivo che aveva raggiunto con i suoi compagni di squadra. Proprio in quel momento, Wakatoshi Ushijima era a pranzo con il suo capo per approfondire le questioni burocratiche ed economiche legate alla presa in carico della campagna. L’accordo di quel giorno era un traguardo prestigioso per la sua agenzia e lo era anche per lui.

Da lì, però, era partito anche tutto il resto: da quella voce bassa e profonda e da quel voglio lui che aveva zittito il suo capo.

Tooru era rimasto colpito dal giovane manager e non era una sensazione del tutto piacevole.  C’era qualcosa che non lo lasciava tranquillo, qualcosa che parlava al suo tronco encefalico e gli diceva di stare in guardia e, contemporaneamente, lo attraeva. Non c’era bisogno di scomodare Kōtaro e la sua chimica per capire che il cliente n.1 della sua società gli piaceva oltremodo.

Decise di tenere per sé quelle considerazioni, non perché non si fidasse di Tetsurō ma perché era abbastanza confuso e non riusciva a togliersi dalla mente quegli occhi, che sembravano di velluto e allo stesso tempo erano feroci come quelli di un’aquila, e brillavano verde scuro in un incarnato perfetto.

Forse si sentiva così proprio a causa del suo sguardo, che aveva sentito pesare su di lui come piombo? Durante la presentazione, aveva avuto la sgradevole e allo stesso tempo meravigliosa sensazione di essere parte integrante del progetto analizzato, di essere pesato e misurato, di essere messo in approvazione. Di essere motivo di interesse.

Eppure, non c’erano affinità di alcun tipo, fra di loro, per provenienza, aspetto fisico, modalità espressive. Wakatoshi Ushijima non era un tipo da Tooru Oikawa, e viceversa.

Decise di mettere da parte quelle sensazioni e di lasciarle decantare.

Quel tale lo aveva incontrato in un momento di massima tensione e la sua proverbiale e inopportuna sensibilità gli aveva provocato come al solito una quantità confusa di allucinazioni emotive. 

Acqua in bocca con Tetsurō, che gli avrebbe dato il tormento per sapere tutto.

Per Tooru, quel tutto era già troppo.


****

 

Una settimana dopo, alle dieci del mattino, un numero privato comparve sul display del cellulare di Tooru.

“Pronto?”

“Buongiorno, signor Oikawa. È la direzione generale della Jima Airways, sono la segreteria del signor Ushijima. Mi scusi se la contatto con così poco preavviso, ma il signor Ushijima voleva sapere se oggi era libero a pranzo.”

Tooru avvertì un brivido lungo la schiena. Non erano a ridosso della deadline di consegna del progetto e la prossima riunione in agenzia era prevista solo per la settimana successiva.

Di cosa voleva parlare che non potesse essere affrontato in call o dopo una mail alla sua attenzione?

Tuttavia, l’alternativa a quell’invito a pranzo sarebbe stato spiluccare qualcosa con Hinata, Kageyama e Yachi oppure rispondere a un messaggio whatsapp nel quale Kōtaro proponeva con entusiasmo a lui a Tetsurō un panino alla yakisoba, da mangiare insieme alla mensa della facoltà chimica, dove si era messo a fare l’assistente per gli esami.

“Sono libero.”

“Le mando una macchina alle dodici. Lei gioca a tennis?”

“Beh, si ma…”

“Per l’attrezzatura, nessun problema.”

“Ok…”

“Grazie. A dopo.”

Nelle due ore successive, Tooru tentò di ricordarsi qual era stata l’ultima volta che aveva giocato a tennis, ma per quanto si sforzasse non ci riuscì.

Non ci riuscì anche perché era sovraccarico di lavoro. E nervoso per quel pranzo last minute.

Alle dodici scese al piano terra, in portineria, dove gli dissero che un’auto di una certa lussuosa casa automobilistica italiana lo aspettava fuori, proprio accanto all’ingresso.

La macchina in questione brillava al sole, nera e cromata, silenziosamente aggressiva come il suo proprietario.

Tooru non era intimidito, ma curioso. Il lusso non lo attraeva in sé ma in generale gli piaceva capire se era un mezzo o un fine, se era un modo per godersi davvero la vita o se serviva solo a lasciare che gli altri se ne convincessero.

Sì avvicinò, aprì lo sportello posteriore e salì.

Gli bastò alzare lo sguardo verso lo specchietto retrovisore per riconoscervi gli occhi del misterioso ragazzo del No Name. Seduto al posto di guida.

Dopo qualche secondo che si dilatò, si allungò in una durata del tutto mentale e imprevista per entrambi, quello stesso giovane in giacca e cravatta raddrizzò lo sguardo sulla strada e dopo aver mormorato un buongiorno restò completamente zitto per tutta la durata del viaggio, a parte qualche monosillabo.

Una situazione totalmente nuova, per Tooru, che non si era affatto dimenticato di lui e che ora, spostandosi lentamente verso il finestrino, cercava una visuale per osservarlo meglio. 

Se in quel locale gli era sembrato a disagio in quella divisa elegante, ora che guidava una Maserati lo sembrava ancora di più.

La macchina intanto lasciò il centro, in direzione di una zona periferica nota per centri sportivi esclusivi e ville pazzesche.

Ehi-ehi-ehi! Avrebbe gridato Kōtaro con estremo stupore.

Il giovane continuava a guidare muto, finché la radio non passò una canzone dei Depeche Mode, It’s no good. 

Alzò il volume quanto bastava. L’impianto stereo di quella macchina era da urlo.

I'll be fine
I'll be waiting patiently
'Til you see the signs
And come running to my open arms
 
When will you realize?
Do we have to wait 'til our worlds collide?
Open up your eyes
You can't turn back the tide
 

C’era una strana simbiosi fra quella musica e il suo modo di guidare.

Veloce e attento, un impercettibile movimento d’aria che si infilava dal finestrino ai suoi capelli, le mani morbide sul volante. Lo sguardo totalmente concentrato sulla strada. Correva come se fuggisse da qualcosa, ma la macchina era silenziosa e scivolava come sull’olio.

E lentamente Tooru iniziò a farsi domande specifiche che andavano oltre la contingenza. Si chiedeva chi fosse davvero, da dove venisse, per quale motivo aveva scelto di lavorare per Ushijima. 

E perché non parlasse… e sulla faccia della terra, Tooru era forse l’unico con cui riuscissero a parlare tutti.

Arrivarono a destinazione.
La Maserati oltrepassò un cancello che dava su una curatissima distesa d’erba, disseminata di campi da tennis, piscine, strutture sportive. In cima a una collinetta, una struttura circolare tutta vetri. Doveva essere il club con annesso ristorante.

Tooru era pronto a scendere ma si fermò.

“Se le piacciono i Depeche Mode, questo sabato i miei amici suoneranno proprio al No Name. È una serata-tributo.” Si fermò un istante, e poi “A proposito di nomi… Io sono Tooru Oikawa. Dōzo yoroshiku.

“Hajime Iwaizumi” rispose quello dopo qualche secondo. “Dōzo yoroshiku.

Tooru a quel punto scese dall’auto, anche se non ne aveva più alcuna voglia.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - 24 metri ***


Quattro

 

Hajime sapeva già del concerto. 

Dopo che quella mattina aveva tagliato la corda ed era uscito dal locale, aveva aspettato fuori, seduto a un tavolino nel bar di fronte. Tooru e il suo amico con il chiodo erano usciti più o meno una mezz’ora dopo di lui e, prima di allontanarsi, il chiodo aveva appeso al muro accanto all’ingresso un manifesto che annunciava il concerto tributo ai Depeche Mode per il sabato successivo.
Hajime era rimasto a osservarli, gli sembravano molto affiatati. Si allontanarono ridendo e il ragazzo con gli occhiali a un certo punto aveva preso a braccetto il suo amico rockettaro.

Durante la settimana successiva, era passato un paio di volte al locale verso l’ora di pranzo, ma si era solo affacciato al volo perché non aveva il tempo di fermarsi. Non lo aveva incontrato.

Di sera, dopo il lavoro, ci era andato diverse volte, ma sempre senza fortuna.

Hajime ne aveva comunque approfittato per rilassarsi, e ci era riuscito: un ragazzo normale come tanti, in jeans, felpa e giubbotto da moto, senza l’armatura elegante che era costretto a portare tutti i giorni per non far sfigurare Wakatoshi ed essere degno della sua Maserati.

Solamente in quelle occasioni di svago si accorgeva di quanto negli ultimi tempi si fosse auto limitato, chiuso in se stesso e nelle sue difficoltà di relazione. 

Aveva tagliato totalmente i ponti con la sua famiglia, dopo aver dichiarato loro la propria natura “deviata” (così l’aveva definita suo padre). Gli era dispiaciuto solo non poter più vedere i suoi fratelli minori, ma sicuramente la sua famiglia lo aveva già additato come un esempio da non seguire. O come un errore da dimenticare.
Erano mesi che non sentiva più nessuno di loro.

La rabbia che aveva dentro a causa di quell’ingiustizia era l’altra faccia della luna, quella nascosta, che orbitava attorno alla sua routine senza farsi notare eppure sempre presente, in agguato. Il suo lato luminoso, la sua sensibilità, ormai priva dei freni che aveva dovuto agganciarle quando viveva con i suoi, era invece libera di sognare, immaginare, ed era stato a causa di questa nuova libertà che lo sguardo distaccato e deferente che avrebbe dovuto tenere su Wakatoshi Ushijima si era trasformato in qualcosa di puro, contemplativo quasi, e di animale allo stesso tempo.

Il lato puro aveva cercato in Wakatoshi una impossibile dolcezza, quello animale lo aveva accolto con sottomissione, e gli era piaciuto e lo aveva anche odiato, con la stessa identica forza, perché lo aveva liberato per poi imprigionarlo di nuovo. 

Andò a sedersi sulla scalinata che dominava il campo da tennis principale. Vide Wakatoshi che sistemava le corde della sua racchetta. Poco dopo, Tooru lo raggiunse, vestito di tutto punto, come se avesse anche lui un ruolo in quel circo lussuoso alle porte di Tokyo, i cui spogliatoi, di notte diventavano però luogo di caccia come in un qualsiasi vicolo male illuminato.

Era difficile giocare contro Wakatoshi, che era mancino e aveva un braccio potente. I suoi riflessi erano eccellenti e aveva visto più di una partita finire velocemente e a zero. Quel giorno però, il suo capo suonava strano. Solitamente concentrato e silenzioso, scambiava parole con il suo ospite e i suoi servizi assassini erano più lenti. Volava meno terra rossa del solito, insomma.

Tooru giocava bene e ciò che lo colpiva, era la sua eleganza sinuosa, contrapposta alla forza granitica del suo avversario.
Lo colpiva anche il suo modo di camminare, come muoveva le spalle, come si passava la mano fra i capelli. Lo colpiva la sua leggerezza. 
Giocarono tre set, due a uno per Wakatoshi, poi sparirono da qualche parte a pranzo.

Hajime riprese la Maserati, uscì dal comprensorio e la guidò lungo una strada sterrata che costeggiava il confine del club e che terminava su una specie di terrazza. Da lì, si vedeva il grigio di Tokyo che arrancava verso il verde, come una goccia di piombo fuso.
Tirò il freno a mano. E reclinò il sedile. Dal tettuccio in vetro entravano piacevolmente i raggi del sole ma non prendeva pace. 
Era andato uno step oltre, e ora era geloso di entrambi, per quello che era accaduto e per quello poteva accadere. 

Anche il suo cuore pesava come piombo.

 

****

 

Da quanto Tooru poteva vedere, il pranzo sarebbe stato abbastanza veloce, il ristorante del club lavorava a pieno regime tra piatti tradizionali e internazionali (Kōtaro avrebbe sicuramente gradito un giro per le cucine a monitorare la temperatura dell’olio per la tenpura).

Aspettava Ushijima al tavolo a loro assegnato. Il manager tardava, era stato evidentemente trattenuto da una telefonata di lavoro.

Quando arrivò, Tooru, che se lo aspettava in abito elegante, restò senza parole davanti a quel ragazzo dalla carnagione olivastra, in una Lacoste verde scuro come i suoi occhi, e un paio di jeans neri.
I capelli disseminati di riflessi, ancora umidi. 

Iniziarono a mangiare in uno strano silenzio. Improvvisamente, la facilità di relazione generata dall’agonismo sul campo sembrava essere svanita su quel tavolo.
Tooru tentava di decifrare il suo sguardo, che sembrava diverso da quello che lo aveva soppesato e analizzato durante la riunione in agenzia ma che gli metteva ancora un leggero disagio.

Perché lo aveva voluto a pranzo?
Iniziò a sondare il terreno. 

“Il suo modo di giocare è interessante. Deve essere perché è mancino. Una questione di rotazione della palla, non mi capita spesso.” - non gli era mai capitato, in verità - “oppure si tratta  di qualcosa legato ai neuroni specchio. Voglio dire, io mi aspetto una mossa e lei gioca un tiro… mancino, appunto.”
Wakatoshi lo guardava sempre silenzioso.
“… Oppure, semplicemente ha un modo più creativo del mio di giocare.”
“Non brillo per creatività.”
“Tutti abbiamo qualcosa di creativo. È parte della nostra capacità di adattamento evolutivo, quella di improvvisare.”
“Io non sono il tipo che improvvisa.”
“Questo pranzo è improvvisato.”
A quell’uscita, un impercettibile spasmo muscolare attraversò il suo ospite. I tendini del collo e dell’avambraccio si irrigidirono, come anche le mani. Che si chiusero lentamente a pugno. 

“No. Non lo è.” rispose poi Ushijima con voce bassa. Si pulì la bocca con il tovagliolo e alzò gli occhi su di lui. Si erano improvvisamente inselvatichiti ed erano ancora più penetranti.

Tooru avvertì ancora quel brivido lungo la schiena, e gli piacque. Molto. Troppo. Che cosa aveva detto per provocarlo?

“È mai salito sopra un aereo?” Riprese Ushijima. 
“Certo…”
“Intendo proprio sopra.
“Beh… no. Ma che cosa c’entra?”
“Prima ero al telefono con il suo direttore creativo. Gli ho detto che questo pomeriggio verrà con me a Haneda, al nostro hangar.”
“Cosa?… Ma perché?”
“Il creativo qui è lei… io le do solo qualche spunto.”

 

****

 

Hajime li vide arrivare insieme. Tempo di lasciare il paese delle meraviglie. Per andare dove?

“Andiamo ad Haneda. All’hangar.”
“Certo, signor Ushijima.”

Si voltò per fare retromarcia, scoccando a entrambi un’occhiata veloce. Aveva la gola secca a guardarli. Wakatoshi era a caccia, e si vedeva. Si era vestito casual per ottenere prima il suo scopo? Era maledettamente bello, non ci voleva molto per capire che anche Tooru la pensava sicuramente allo stesso modo.
Sotto il cotone della polo si indovinavano i pettorali e i bordi a coste delle maniche cingevano perfettamente i bicipiti. Stava però leggendo qualcosa al cellulare, e non si accorse di essere oggetto di ammirazione da parte del suo autista.

Tooru invece lo guardò, e dalla sua espressione Hajime capì che neanche lui sapeva che cosa aspettarsi da quella situazione. 
In quei pochi, privati secondi lontani dai radar, Hajime provò allora a uscire dal guscio, a fargli capire che in quella macchina erano in tre. Che c’era anche lui, con loro. Il terzo incomodo, forse.

O forse, no?

“Posso mettere della musica, signor Ushijima?” Ma era Tooru che Hajime continuava a guardare.
“Va bene.” Disse Wakatoshi senza sollevare gli occhi dal telefono.E Hajime mise i Depeche Mode. Master and Servant.

Tooru continuava a guardarlo, attraverso lo specchietto, con un’espressione indecifrabile, un misto di sorpresa, confusione, curiosità.

There's a new game we like to play, you see
A game with added reality
You treat me like a dog, get me down on my knees
We call it 'Master And Servant'
We call it 'Master And Servant'
 

La Maserati prese l’autostrada, sempre liscia come l’olio. In lontananza, la sagoma dell’aeroporto.

 
Domination's the name of the game
In bed or in life, they're both just the same
Except in one you're fulfilled at the end of the day
Let's play 'Master And Servant'
Let's play 'Master And Servant'
 

Hajime fu il primo a rimettere i piedi a terra. Con Wakatoshi, l’affascinante e potente manager, si volava alto quel tanto che bastava per toccare altezze proibite e poi sfracellarsi.

Lui era caduto in piedi e ci sarebbe rimasto.

 

****

 

Ushijima si fermò davanti un'enorme costruzione in cemento e vetro. Un addetto alla sicurezza aprì una grande porta di metallo e fece loro strada attraverso una specie di enorme anticamera. Gli diedero un gilet fluorescente e un caschetto giallo di protezione, poi un’altra porta si aprì e Tooru restò senza parole, davanti alla carlinga di un A380 in revisione.

“Non male, vero?” La voce bassa di Ushijima, a pochi centimetri dal suo orecchio.
“No…”
“Mi segua.”

Ushijima lo condusse sotto quella specie di aquila addormentata. Fra l’ala e il muso della fusoliera, era parcheggiata un’enorme autoscala. Presero a salire, finché la curvatura della lamiera si fece più dolce e orizzontale. Erano arrivati sul tetto dell’aereo.

“Ventiquattro metri al suolo.” Disse Ushijima.
“Caspita…”
“Che cosa prova a stare quassù?”
“Non lo so… devo rifletterci. Però…” 

Tooru immaginò allora di saltare. Di volare. Visualizzò il tondo rosso della bandiera del Giappone, che era da sempre parte del logo della Jima Airways, sul quale, in trasparenza, si vedevano le cuciture di una palla da volley, e poi vedeva una figura stilizzata di un atleta fermo un attimo prima d schiacciarla.

Vedeva tutto questo stampato sulla carlinga di quel mostro bianco dalle ali spiegate. 

“Credo di aver avuto un'idea…”
“Non avevo dubbi. Quando ho detto che volevo lei, sapevo quel che dicevo.”

Tooru restò interdetto. Quelle parole ora suonavano diverse, misurate, normali. Forse era l'eco metallico dell'hangar, la luce fredda dei neon...

L’aveva portato lì apposta, per lavoro. Il tennis, il pranzo, l’aereo, erano tutti passaggi finalizzati all’ottenimento del risultato per il quale avrebbe sborsato diverse decine di migliaia di yen.

Improvvisamente, si sentì un idiota. Un perfetto idiota ma pieno di immaginazione e creatività.

Ushijima gli diede le spalle e tornò verso la scala.Ripartirono subito. 

In macchina, Hajime aveva spento la radio. Tooru lo osservava. Aveva la mascella indurita, contratta. Le dita battevano sul volante, fuori tempo. Guidava come se fosse  da solo, ignorandoli sistematicamente.

Uno strano silenzio scese sul viaggio di ritorno. Poi quando, ormai nel tardo pomeriggio, arrivarono sotto gli uffici dell’agenzia, il giovane manager parlò.

“Mi dispiace averla monopolizzata, questo pomeriggio. Aspetto la sua proposta.”
“Avrà presto mie notizie. Arrivederci.” Rispose Tooru congedandosi.


****
 

“Mi fermo a mettere benzina.” Disse Hajime.

“Va bene.”

Wakatoshi rispose distrattamente. Stava ancora pensando a Oikawa che gli diceva quanto poteva tirare fuori dalla sua campagna pubblicitaria in termini di redemption. 

Wakatoshi non si era mai occupato direttamente della comunicazione della compagnia aerea. Il suo ruolo, quando suo nonno era ancora vivo, era nel settore finanziario, dove non si dava alcunché spazio all’immaginazione ma solamente alle cifre brute e al conto economico. 
Niente creatività, niente improvvisazioni. Era stato sincero con Oikawa, parlando di sé. Nel suo lavoro era bravo, aveva stroncato sul nascere tutte le dicerie sul suo essere il nipote illustre, raccomandato o gestito in maniera particolare. Lavorava proficuamente in azienda già dai tempi dell’università, entrava in sede la mattina, lavorava tutto il giorno e poi rimaneva studiare fino a tarda sera.
Si era laureato con il massimo dei voti, senza alcun cedimento.

Cedere non era nelle corde di Wakatoshi e infatti non aveva ceduto al tentativo del direttore creativo dell’agenzia di farsi concedere una deadline più lunga per presentare l’ultima versione del progetto: la campagna di brand e quella di sponsor dovevano essere approvate insieme seppure fossero destinate a pianificazioni temporali diverse.Però aveva scommesso su quella sorpresa in aeroporto, e aveva vinto. Oikawa aveva un talento innato e aveva catturato un'idea dal nulla.

E poi… Stava pensando alla sua espressione, in piedi sul dorso della sua aquila bianca.
Stava pensando che se ne sentiva attratto.
Stava pensando a loro due, chiusi lì dentro, da soli. E forse non era solo una voglia, era un volo a luci spente e senza radar. Era..

“Stasera non mi occorre la macchina.” Disse poi. Aveva appena deciso di non incontrare Reiko.

“Allora la porto all’autolavaggio.”

Iwaizumi lo guardò dallo specchietto. 

“Non occorre. Puoi farlo domani mattina. Hai la serata libera.”

Wakatoshi aveva abbassato lo sguardo verso la sua valigetta porta documenti per recuperare il cellulare e annullare la cena, ma c’era qualcosa che stonava in quell’abitacolo e che lo distrasse dal suo intento.

Ecco cos’era. Iwaizumi non gli aveva risposto.

Non si era prodotto, come si conveniva, in un grazie signor Ushijima. Del resto, il suo datore di lavoro gli stava regalando una serata di riposo e gli era dovuta la giusta dose di riconoscenza.

Era una nota stridente quella mancata risposta e Wakatoshi non era abituato alle note stridenti.
Lo guardò nuovamente. 
Iwaizumi era lì che lo aspettava, nel suo specchietto.

Wakatoshi stava per aprire bocca ma quando lo fece Iwaizumi, senza distogliere gli occhi dai suoi, iniziò a parlare.

“Ha presente la canzone che ascoltavamo oggi, signor Ushijima? C’è un verso che dice Il nome di questo gioco è ‘dominio’, a letto o nella vita, è la stessa cosa…”

A Wakatoshi venne la pulsione di coprirgli nuovamente la bocca con la mano. Una fitta di disagio che camuffò però alla perfezione. 
Il comportamento di Iwaizumi era completamente avulso dalla routine, obbediva sicuramente a qualche ripicca o tentativo di provocazione che andava neutralizzato e subito.

“Ho cambiato idea. Stasera porterai la macchina all’autolavaggio.”

“Certo, signor Ushijima sono a sua completa disposizione. Fino alla mezzanotte di oggi, il mio ultimo giorno di lavoro.”

“Fai come vuoi.”

Hajime sorrise, e poi rise di cuore.




Mi affaccio un attimo perché mi piacerebbe molto, a questo punto, avere qualche parere sulla storia... se regge, se piace... così, tanto per ;-)...
Luba

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 - Soundcheck ***


Cinque 

 

Il giorno successivo alla sua strana esperienza nell’hangar di Haneda, Tooru si era messo subito al lavoro e aveva tradotto la sua idea in un bozzetto, conscio del fatto che poi avrebbe dovuto lasciare a Hitoka, l'esperta di grafica, l’onere di dargli la forma definitiva. 

Seduto sul tappeto accanto al divano, ripensava a Wakatoshi Ushijima e all’attrazione che provava per lui. Ripensava anche ad Hajime Iwaizumi che lo osservava dallo specchietto retrovisore e intanto metteva su i Depeche Mode.

“Ci sono…” mormorò Tetsurō con in mano uno spartito di basso che gli aveva dato Kōtaro.

Era sdraiato mollemente sul divano. Un gatto.

“Quindi? Che pezzo farete?…” chiese Tooru, distrattamente.

“Uno è Everything Counts, l’altro è questo.”

E gli allungò lo spartito.

Freelove? Bello…”

“Io alla voce e lui al basso. Stop. Sì, lo so, siamo dei pazzi… “

I pazzi sono coloro che poi aprono le vie ai saggi.

“Questa è tua?”

“No. Ma ci credo fermamente. Anche perché in questo momento mi ci sento abbastanza.”

“Pazzo o saggio?”

“Saggiamente pazzo…” e nascose la faccia dietro a un cuscino.

“Che cosa mi nascondi?”

E Tooru gli raccontò del pranzo con Wakatoshi al club, della partita a tennis e della gita ad Haneda.

Gli raccontò della sua voce profonda vicina al suo orecchio. Gli raccontò di come era bello con i capelli umidi e gli occhi verde scuro. Gli raccontò altri particolari, gli raccontò che, a pelle, gli sembrava un animale feroce tenuto a freno da una catena tutta mentale.

“Tutto qua, te lo dovevo dire.”

“Mmm… a proposito, anche io devo dirti una cosa. Stamattina sono passato dal locale con Kiyoko per sistemare la scenografia…”

“E chi è Kiyoko??”

“Lo so, avrei dovuto dirti prima di lei…è tipo la nostra nuova manager.”

Tooru si voltò verso di lui, che si raddrizzò e gli fece spazio sul divano.

“Kurō Tetsurō… sai bene che ogni ragazza che osi avvicinarsi a te deve prima avere la mia approvazione.”

Tetsurō lo guardò con i suoi occhi da gatto, velati di una tenerezza che solo uno come Tooru poteva suscitare in lui.

“Lo so… sabato sera la conoscerai e non ho alcun dubbio che ti piacerà. Quello che volevo raccontarti era però questo: sono passato dal locale per un soundcheck veloce con i loro amplificatori e ho beccato di nuovo il tizio in giacca e cravatta che quella mattina ti osservava, solo che non era in giacca e cravatta ma in jeans e felpa. Una bella felpa con cappuccio, giubbotto da moto. Finalmente l’ho visto mangiare.”

Tooru raddrizzò le orecchie. Lupus in fabula.

“E?…”

“Insomma, io e Kiyoko ci baciamo sul palco e lui ci fissa a bocca aperta. Io mi dico che forse non ha capito bene e allora prendo nuovamente il viso di Kiyoko fra le dita e la bacio di nuovo. Lui ci sta ancora guardando ma stavolta sorride. Oh, by the way, ha proprio un bel sorriso. A quel punto, io sarei tranquillamente sceso dal palco per dirgli che sì, sono etero e che fra me e te non c’è nulla di serio. Ma magari hai voglia di dirglielo tu...”

“Quindi per te la nostra amicizia non è nulla di serio? Ci manca poco che ti lavi anche la schiena!!”

“Sì, e io ti metto a letto con me quando sei depresso, ma non c’è bisogno che lo sappia il resto del mondo, no? Voglio dire, lui, il tizio, non deve per forza saperlo…”

“Hajime. Si chiama Hajime Iwaizumi.”

Tetsurō posò lo spartito.

“E come lo sai…?

“È l’autista di Wakatoshi Ushijima.”

Ehi-ehi-ehi!” Esclamò Tetsurō.

“Kōtaro, esci da questo corpo!”

“Quindi siete tre. E fra Hajime e Wakatoshi? C’è qualcosa?”

Tooru realizzò per la prima volta che poteva verificarsi anche quella possibilità.

“Ci stai riflettendo, eh?… Un vero triangolo.”

Tetsurō gli sorrise piegando indietro la testa, in modo che anche l’altro suo occhio sottile e magnetico, da sotto il ciuffo spettinato potesse metterlo a fuoco.
Tooru sospirò rumorosamente. Ma perché diavolo era così… etero??

“Tutto è possibile…” riprese Tetsurō. “Questa è una specie di equazione a due incognite. A te piacciono entrambi e non sai come stanno le cose fra di loro. Ora, io non so questo Wakatoshi, ma Hajime mi sembra abbastanza preso da te. Tocca capire se è preso anche dal suo capo. La cosa è estremamente interessante!”

Tetsurō, l’ingegnere, che uccideva il chiaro di luna parlando di equazioni, tutto sommato ci aveva preso: gli piacevano entrambi.

Sorrideva sornione.

“Perché quel sorriso da Stregatto?” Chiese Tooru sorridendo a sua volta.

“Sto pensando di cambiare brano e dedicarti I just can’t get enough…”

Finì a cuscinate.

 

****

 

Qualche giorno dopo, il venerdì mattina, Hitoka era china sul suo tablet. La sua piccola mano impugnava la penna e la muoveva sul vetro con lenta precisione. 

Traduceva in linee e forme ciò che Tooru aveva colto come un’intuizione nell’hangar di Haneda, fra le ali di un’aquila di metallo.

Hitoka era la disegnatrice del gruppo, l’artista a mano libera, così come Shoyo era quello che si dava da fare con le musiche o la location per uno spot e Tobio quello che editava il tutto perfettamente, preciso al millisecondo.  Ciascuno aveva il proprio talento e lo condivideva con gli altri, il loro gruppo funzionava così.

Sullo schermo della sala riunioni, il cursore lavorava sul logo della Jima Airways, in particolare sul sole rosso del Giappone. 

Una leggera, impercettibile ombreggiatura dava lentamente spessore e il cerchio diventava una sfera; altri piccoli tocchi e la sfera si trasformava in un pallone da volley. 

Tooru, Shoyo e Tobio assistevano in silenzio a quella creazione estemporanea, mentre altre linee apparivano: un braccio allungato verso una rete immaginaria, un altro alto e in tensione, un viso alzato verso la palla, il collo teso, il busto piegato per caricare il tiro, le gambe flesse dopo aver appena saltato.

Sotto il logo della Jima Airways, così trasformato, campeggiava la scritta 

日本のバレーボールチーム

“Sei una grande, Hitoka… fai davvero venire voglia di prenderlo, quell’aereo…” mormorò Shoyo trasognato.

“Detto da uno che ha paura anche degli ascensori…” sibilò Tobio.

“Piantala!..”

Iniziò la solita zuffa. Tooru si era ormai fatto l’idea che i due si piacessero e che fossero gelosi di Hitoka, perché convinti che lei avesse un debole per entrambi ma che non riuscisse a decidersi. Peccato che Hitoka avesse invece un debole per Kōtaro, lei stessa lo aveva detto a Tooru un giorno, dopo che avevano pranzato tutti insieme al No Name. Tooru le aveva suggerito di farglielo capire, Kōtaro era un bel tipo e ce li vedeva insieme, ma Hitoka era di una timidezza imbarazzante, quasi patologica.

Ritornando ai due bislacchi, non poteva prendere con loro quell’argomento, non voleva rischiare di metterli in imbarazzo. Forse avevano solo bisogno di una spinta e se ne avesse avuto l’occasione, gliel’avrebbe data. Non tutti erano come lui, che non si faceva alcun problema a mostrarsi com’era e non aveva difficoltà a esternare i suoi sentimenti.

Tornò ad ammirare il logo, rivisitato per la campagna sponsor.

Inevitabilmente, il pensiero andò a quella strana gita in aeroporto a cui lo aveva invitato Ushijima. Aveva pensato a lui in certi termini perché aveva male interpretato suoi modi, e una sottile delusione lo pervadeva ancora, ma almeno non si era esposto inutilmente.

Colpito e affondato dal suo fascino, era il momento di ritornare a galla.

“Oook! Lavoro fantastico. Lo porto dal capo e poi vediamo. Hitoka, sei in gamba!”

 

****

 

Il giorno dopo, sabato, Wakatoshi tirò fuori la Maserati dal garage. Perfetta come appena uscita dal concessionario. 

Sembrava non l’avesse mai guidata nessuno prima di lui. Iwaizumi l’aveva riconsegnata fresca di autolavaggio, la sera stessa delle sue dimissioni. 

Mentre la osservava, lucida e intonsa, Wakatoshi ripensava al comportamento del suo autista e il risultato della sua disamina era una spiacevole sensazione di fastidio misto a rabbia. Nonostante quanto accaduto tra di loro nello spogliatoio del club, Wakatoshi non aveva mai pensato a Iwaizumi se non come a una specie comparsa nel suo orizzonte, con le sue battute predefinite e rituali e ora, dopo la sua condotta assurda al ritorno da Haneda, nutriva il sospetto che si fosse preso una sbandata per Oikawa. 

Soprattutto, lo disturbava il fatto che Iwaizumi sapesse dove trovare Oikawa e che lui non potesse controllarne i movimenti. 

Oikawa. Tooru. 

Voleva arrivare a lui perché se ne sentiva fortemente attratto e non si trattava solo di un fatto fisico. C’era qualcosa nella sua vita, così distante dalla sua, che lo catturava. Era la prima volta che gli succedeva di andare oltre i confini del suo mondo e delle sue strutture, la prima volta che  provava una forma di curiosità empatica per un altro essere umano.

Accese il motore e fece un giro di prova. Durante quella settimana, si era servito di un autonoleggio di lusso, il nuovo autista avrebbe iniziato il lunedì successivo.

Quel giorno però voleva guidare lui.

Chiamò casa Onagawa per avvisare che alle dodici in punto sarebbe passato a prendere Reiko per portarla al club.

 

****

 

Il tempo con Reiko fu piacevolmente vuoto, come al solito.

Prima una partita a tennis, poi qualche mail di lavoro mentre lei si concedeva un trattamento estetico.

Poi, il pranzo. Il tavolo era lo stesso che aveva preso con Oikawa.

Reiko parlava del più e del meno con il suo tono monocorde e Wakatoshi ripensava intanto a lui e alla sua battuta sul pranzo improvvisato. Ripensava alla sua espressione, in piedi sul tetto dell’aereo, ventiquattro metri al suolo. 

Volava chissà dove, con la mente, oltre il tetto dell’hangar.

Improvvisamente, il suo cellulare vibrò. Apparve il numero dell’agenzia creativa.

“Perdonami, devo rispondere. Ushijima…” e si alzò dal tavolo.

Era il direttore.

“Mi scusi se la disturbo di sabato, signor Ushijima, ma volevo condividere con lei una buona notizia. Abbiamo una prima bozza del lavoro per la sponsorizzazione.”

“Mi fa molto piacere, ma in questo momento sono a pranzo allo Yamagata Sporting Club.”

“Ah, magnifico! Sto venendo anch'io da quelle parti, ho un appuntamento presso il cantiere del resort che stanno costruendo proprio lì accanto.”

“Allora mi raggiunga qui.”

“Perfetto. Sarò lì fra mezz’ora.”

 

****

 

La sera di sabato, Hajime era impaziente all’idea di poter rivedere Tooru… fuori della Maserati di Wakatoshi.

L’insieme confuso di sentimenti che provava per il suo ex capo e che gravava su di lui come una specie di nuvola si era come diradato di colpo, soffiato via da una folata di vento. 

La sua figura si era improvvisamente sgretolata, polverizzata, e questo perché Hajime era riuscito finalmente a uscire dalla sua gabbia. Si sentiva una persona nuova, senza più i sintomi di una malattia subdola le cui ricadute erano provocate da solitudine e disperazione.

Lo aveva fatto in maniera singolare, era vero, ma nulla era stato più bello e liberatorio che scrollarsi di dosso quella specie di giogo, l’effetto collaterale di una scena di sesso che era stata fine a se stessa, senza alcuna trama. Pornografia pura che lui, nella sua solitudine, aveva disperatamente voluto scambiare per altro.

Guardò l’orologio, erano le otto. Il concerto iniziava alle nove. Infilò il casco e scese in garage a prendere la moto.

Mentre correva verso il locale, gli tornò in mente la scena a cui aveva assistito qualche giorno prima al No Name, nella quale l’amico musicista di Tooru pomiciava con una bella ragazza. Aveva avuto la netta impressione che lui lo stesse facendo apposta, come per fargli arrivare l’informazione che gli mancava, e cioè che fra lui e Tooru non ci fosse una relazione sentimentale. 

Sorrise dietro la visiera del casco. Non avrebbe voluto metterla giù così diretta, ma provava la sana voglia di rimorchiarlo, finalmente qualcuno di normale in una serata normale.

 

****

 

Se Hajime era impaziente, Tooru invece non sapeva che cosa aspettarsi, dopo la telefonata che aveva ricevuto dal suo direttore creativo.

Lo aveva chiamato per dirgli che il signor Ushijima era molto contento del lavoro che avevano presentato e che, a proposito! Ma che splendida fidanzata aveva! Reiko Onagawa, si chiamava, figlia di industriali anche lei…

“La situazione diventa sempre più interessante” aveva sentenziato Tetsurō “La signorina in questione potrebbe essere un comodo alibi oppure partecipare attivamente delle inclinazioni del suo fidanzato. Magari le piace così…”

“La spiegazione più semplice è che mi sono fatto un film in testa.” Aveva risposto Tooru. E detto da lui, che sognava sempre in grande, la cosa aveva senso.

“È solo perché hai un disperato bisogno di innamorarti.” Aveva replicato allora Tetsurō. “Puro e semplice. A un certo punto punto, lo proviamo tutti. Ora andiamo, che ho il soundcheck.”

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 - In volo ***


Sei

 

Mentre stavano per uscire, un numero privato apparve sullo schermo del cellulare di Tooru. Lui, che rispondeva a chiunque durante la settimana lavorativa, al sabato sera lasciava cuocere tutti nel proprio brodo - tranne il suo capo, ovviamente.

Se si trattava di qualcosa di urgente, sarebbe arrivato anche un messaggio e poi avrebbe valutato se rispondere o meno. Ma quel numero sconosciuto squillava a lungo, insisteva.

Tetsurō gli fece capire che lo avrebbe aspettato di sotto. Il telefono si ammutolì e poi ricominciò a squillare.

A quel punto, Tooru decise di rispondere.

“Parla Oikawa...”

“Sono Wakatoshi Ushijima.”

L’autista, il manager, sua moglie e l’amanteTetsurō avrebbe apprezzato la battuta, ne era certo.

Quella voce, al telefono, risuonava ancora più profonda. Più pericolosa. Tooru non riusciva a spiegarselo, dovevano essere i suoi tratti soprasegmentali, che andavano dritti a segno e che gli provocava una reazione immediata: quella di voler ascoltare ogni sua parola. 

Fu esattamente in quel momento che Tooru decise di cedere. Lo chiarì subito con se stesso, restava solo da capire se e quando sarebbe accaduto. E dove, anche. 

“Mi scusi se la disturbo a quest’ora, ma avevo una proposta da farle.”

“La ascolto.”

“L’altro giorno, quando ha visitato l’hangar della Jima Airways, l’ho visto particolarmente interessato agli aerei e al loro funzionamento.”

“Beh… le assicuro che non mi capita spesso di scalare un aereo di linea. Comunque, sì. Il giocattolino alto ventiquattro metri non era male…”

Ushijima rise. Era la prima volta che Tooru lo sentiva ridere.

“Stasera ad Haneda è previsto un volo test. Si tratta di un nostro Boeing 747. L’aviazione civile sta monitorando gli effetti dell’inquinamento acustico sulle zone densamente abitate e pertanto sorvoleremo Tokyo con traiettorie e angolazioni particolari. Le interessa? Decolliamo alle ventuno e trenta.”

Era surreale, eccitante e quindi interessante.

“Mi scusi… ma posso chiederle perché non lo ha proposto alla sua fidanzata? Dopotutto è sabato sera.”

Tooru aveva dovuto necessariamente tirarla in ballo: se avesse risposto che ci sarebbe stata anche lei, avrebbe declinato l’invito senza problemi.

Ushijima rimase un istante in silenzio, poi rispose sicuro.

“La mia fidanzata soffre il mal d’aereo. E comunque non apprezza le grandi altezze, lei invece riesce a tirarne fuori ottime intuizioni.”

A quel punto Tooru si domandò se in aeroporto li avrebbe accompagnati Hajime, ma non aveva alcun titolo per chiedergli quell’informazione. Quello fu l’unico pensiero a provocargli un momento di disagio che percepì forte e chiaro: così come gli risultava impossibile stare lontano da Wakatoshi, allo stesso modo non voleva che Hajime subisse il loro incontro come un colpo basso. Hajime lo aveva incuriosito e lo attraeva, ma era sfuggente, silenzioso, enigmatico, mentre Wakatoshi era una specie di sogno proibito che si avverava. O una specie di incubo sotto mentite spoglie? 

“Se le interessa, dobbiamo però partire subito. Al momento non ho un autista e personalmente io non amo correre.”

Lo veniva a prendere lui. Questo significava che Hajime non ci sarebbe stato. La risposta alla sua domanda lo tirava fuori dal suo momento critico per infilarlo in un altro. Che cosa voleva davvero da lui, la giovane aquila bianca?

“Mi ha convinto.” Gli diede il suo indirizzo, mandò un messaggio a Tetsurō e gli disse dove andava, con chi, che cosa temeva e allo stesso tempo sperava che accadesse.

Tetsurō rispose solo togliti ogni dubbio… io stanotte dormo da Kiyoko!

 

****

 

Ushijima era ufficialmente diventato Wakatoshi, e lui era diventato Tooru all’improvviso, mentre viaggiavano in macchina verso Haneda.

La conversazione si fece informale, le voci si riscaldarono, si rilassarono.

Arrivati in aeroporto, Tooru si accorgeva di come ogni sua parola e gesto aprissero continuamente a nuovi equilibri, bucassero la realtà e la trasformassero in una specie di favola nella quale una strana magia dettava legge e non c’era posto per nessun altro.

Mentre camminavanofra i terminal, lui gli chiedeva della pubblicità che regnava ovunque, Tooru invece era curioso di come funzionasse un aeroporto.

Parlavano e si ascoltavano, e Tooru era sorpreso di quanto fosse semplice, naturale.

“Hai cenato?” chiese lui.

“No. In effetti avevo altri programmi… ma poi…”

Tooru si interruppe, gli occhi verde scuro di Wakatoshi lo sondavano. Poteva dirgli poi sei arrivato tu, ma come l’avrebbe presa?

Dopo che furono usciti da un lussuoso ristorante italiano nel terminal internazionale, Wakatoshi gli fece strada verso un’area che era di competenza di tecnici e operativi. 

Percorsero un lungo corridoio e un veicolo di servizio li portò all’hangar.

L’aereo era sull’enorme piazzale. Il portellone era aperto. Furono illustrate loro dai tecnici alcune procedure di sicurezza e poi lui gli disse che potevano salire.

“Vuoi vedere prima la cabina di pilotaggio?”

“Magari..”

In cabina, Tooru si sentì come un bambino al luna park, lui che non aveva neanche preso la patente.

Wakatoshi gli spiegò che cos’era l’avionica, quante ore di volo poteva fare un pilota, quanti modelli erano nella flotta della sua compagnia aerea.  

“Mio padre era pilota militare, poi è diventato pilota di linea.” Disse il giovane manager. “Sognava per me la stessa carriera. Quando è morto, mio nonno ha deciso che mi voleva con i piedi per terra, e quindi mi sono fatto strada nel management.”

“Il decollo è fra venti minuti.” Annunciò il comandante.

Girarono per quel mastodonte in lungo e in largo, poi Wakatoshi gli indicò la scala che conduceva alla zona executive.

“Andiamo a sederci di sopra. Una volta decollati potremo bere qualcosa.”

Certo. Come se fosse una cosa normale prendersi un drink con il proprietario nonché l’unico passeggero di un 747 vuoto.

Ma con Wakatoshi le premesse erano tutt’altro che normali e quindi bersi un cocktail con lui nei cieli di Tokyo era pura coerenza con quella follia che accelerava sulla pista. 

Durante il decollo, Tooru chiuse gli occhi. Poi li aprì e fuori dall’oblò improvvisamente brillavano le luci di Shinjuku.

“Ora possiamo alzarci. Vuoi da bere? Va bene del vino?”

“Sì grazie.”

Wakatoshi aprì il mobile bar del piccolo salotto in pelle nel quale si trovavano. Lusso estremo. Mancava solo l’alba dall’oblò e… 

Gli porse il calice con il vino.

Nella suite c’era un televisore, un impianto stereo. Incredibilmente, c’erano anche delle piante.

Parlarono ancora di quanto potesse costare il mantenimento di un velivolo del genere, di quanto cherosene servisse. Tooru era curioso e Wakatoshi sembrava apprezzare.

Era ammirato da tutto questo e si chiedeva che tipo di spot avrebbe potuto inventarsi per pubblicizzare la executive targata Jima Airways quando un vuoto d’aria li fece ondeggiare. Sia lui che Wakatoshi persero l’equilibrio ma Tooru gli finì praticamente addosso scoccandogli uno sguardo allarmato che l’altro risucchiò nei suoi occhi fermi. Determinati.

L’aereo ondeggiava ancora e il led che avvisava di allacciare le cinture si accese con un suono acuto.

Wakatoshi allora gli prese il viso fra le mani e lo baciò. Tooru, che si era irrigidito per via dell’equilibrio instabile, improvvisamente si trovò a fluttuare e non capiva se la sensazione di galleggiare a mezz’aria fosse dovuta alla gravità o alle labbra di lui sulle sue, la lingua sulla sua.

L’incertezza durò un niente e Tooru rispose a quel bacio con la stessa intensità. 

Poi Wakatoshi si staccò, guardingo.

“Fra mezz’ora atterriamo.” Disse lentamente, allungando nuovamente le mani su di lui. 

Stavolta più in basso.

“Andiamo da me.” Mormorò Tooru.

 

****

 

Hajime continuava a guardarsi intorno ma di Tooru nessuna traccia. Sul palco, si alternavano intanto le varie band che partecipavano al concerto. Gli Owling  Cats cantarono Freelove in una versione per voce e basso. L’amico di Tooru era magnetico al microfono, e anche il bassista era bravo. Allora perché Tooru non era lì a vederli? Eppure glielo aveva detto proprio lui del concerto…

Si prese un’altra birra. Attese ancora, ascoltò altri musicisti e quando il moro ritornò sul palco con il resto della band e attaccò Everything Counts, uno strano sospetto lo aggredì

Le mani avide afferrano più che possono… tutto ha un valore…

Osservò il suo smartwatch e aprì un’applicazione particolare, quella che lo legava ancora alla Maserati di Wakatoshi.  Non aveva pensato di disinstallarla. Selezionò la mappa e la vide ferma ad Haneda, nel parcheggio riservato della Jima Airways.

Si alzò e raggiunse il palco, affacciandosi dietro i pannelli del fondale.

Il moro chiacchierava con il suo bassista e la ragazza con la quale l’aveva visto in atteggiamento tenero.

Quando lo vide, gli sorrise e gli allungò una lattina di birra. 

“Bevi qualcosa con noi? Io comunque sono Tetsurō, lui è Kōtaro e lei è Kyioko”

“No grazie. Scusatemi ma… ho solo una domanda. Riguarda Tooru.”

Tetsurō continuava a sorridere ma con un’aria più seria. Gli si avvicinò, per una maggiore discrezione.

“Ti ascolto.”

“Sai se stasera aveva qualcosa da fare.. ad Haneda? Solo se puoi dirmelo…”

“Beh… so che andava fuori città con un amico. Magari era proprio per accompagnarlo in aeroporto?…”

“Grazie.”

E Hajime lo salutò con un cenno della testa ma Tetsurō lo raggiunse all’uscita. 

“Ehi… serve che lo contatti al cellulare?”

“No.”

“Ti do il suo cellulare?”

Hajime non riuscì a reprimere uno sguardo tentato.

Tetsurō tagliò la testa al toro.

“Andiamo, so che vi conoscete.”

“In realtà ci siamo fermati ai nomi.”

“Beh, si comincia così, no?”

“O non si comincia affatto…”

“Chi può dirlo?”

“Credo proprio che in questo momento potrei solo essere di intralcio. Ciao, comunque…. e bel concerto…”

Si voltò e uscì, le mani in tasca.

Solo quando fu solo, all’esterno, si lasciò andare e colpì il muro con un pugno. Doveva vederli con i suoi occhi.

Poco dopo, la sua moto sfrecciava in autostrada. Dal localizzatore, Hajime sapeva che la Maserati era ancora parcheggiata in aeroporto.

Contro ogni logica, sperava che non fossero insieme, per non sentirsi di nuovo arrabbiato, beffato. Solo. 

Quando fu nelle immediate vicinanze dell’uscita per l’aeroporto, si fermò in una piazzola e attese, gli occhi puntati sullo smartwatch. 

Sapeva da dove l’auto sarebbe apparsa, aveva fatto quel percorso con lui un’infinità di volte.

La macchina improvvisamente si mosse e Hajime accese il motore della moto. 

La vide immettersi sull’autostrada e le si accollò per un breve tratto, poi l’affiancò. I vetri erano oscurati ma Hajime ebbe l’impressione di vedere all’interno due figure, sedute entrambe davanti. 

Rallentò e tornò a seguirla, sgasando con rabbia. Erano insieme, era chiaro, ma aveva bisogno di vederlo con i propri occhi.

Li seguì in città, fino a un quartiere piuttosto anonimo, case basse, ballatoi, nulla che aveva anche fare con le zone altolocate che frequentava il suo ex-capo.

Parcheggiarono nel cortile e scesero. Tooru faceva strada, lui dietro. Però, com’erano cambiate le cose! Wakatoshi che seguiva - lui, che di solito precedeva. 

Lo seguì per le scale e una volta arrivati alla porta sul ballatoio, Tooru la aprì e l’altro la richiuse. 

Nessuna luce fu accesa, per scopare non ce n’era bisogno, in effetti. O almeno, nello spogliatoio del club erano stati praticamente al buio.

Ebbe il sospetto che Wakatoshi non volesse guardare realmente gli esseri umani con cui mescolava i propri umori, che preferisse non vedere nessuno se non se stesso. 

Anche stavolta c’era riuscito.

 

****


Il silenzio e il buio erano totali mentre Wakatoshi gli si avvicinava. Senza giri di parole o velleità creative volgarmente definibili come “preliminari”, quello stesso giovane dall’apparente freddezza accese improvvisamente un fuoco nel quale bruciò di tutto: soggezione, convenienze, distanze, opportunità.

Bruciò tutto in un respiro nel suo orecchio, che lo fece risuonare, vibrare, eccitare ancora di più.

Si ritrovò le sue mani addosso, grandi e calde, lente, inesorabili.

Le sentiva scivolare lungo i fianchi, aperte a registrare centimetro per centimetro la sua pelle.

Mai, in tutta la sua relativamente giovane vita, si era abbandonato senza alcuna rete di salvataggio, mai avrebbe pensato di fare con lui ciò che stava facendo, nel buio di casa sua, di spogliare e lasciarsi spogliare su un divano di stoffa da pochi yen, di volare anche più in alto dell’aquila di metallo nella quale era stato con lui fino a poco prima. 

Si trascinarono sul suo letto e Wakatoshi lo ghermì. Il suo corpo lo sovrastava, si muoveva su di lui ed ogni movimento era una vibrazione ingestibile, selvatica come un volo fra raffiche di vento.

E per tutto il tempo, con l’ultimo barlume di lucidità che gli rimaneva, Tooru comprese che al piacere che lo stava squassando si era mescolato qualcosa di simile alla paura, che rendeva tutto più eccitante, quasi tossico. 

Aveva paura di lui, lì al buio. Le sue mani gli stringevano i polsi, il suo peso lo schiacciava, la sua bocca lo divorava.

Poi, un attimo prima di venire, si liberò e gli affondò le dita nei capelli, gli occhi negli occhi verdi, che anche al buio continuava a vedere.

Sentì che anche lui era arrivato al suo stesso punto, fu lo scarto di un respiro a dirglielo. Tooru allora lo baciò in un lungo gemito, mordendogli il labbro.

Nella sua mente, l’aereo virò per tornare sulla pista. 

Dopo, Wakatoshi si sollevò lentamente, staccandosi dal suo corpo ancora ansimante.

Si alzò dal letto senza dire nulla. Non aveva detto nulla neppure durante.

Lo vide in piedi, contro il biancore lattiginoso della finestra. Fianchi stretti, spalle larghe - quella sinistra impercettibilmente più sviluppata della destra, a un metro da lui eppure lontano… quando sarebbe dovuto rimanergli accanto, per capirci qualcosa di più. 

Dov’era?






 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 - In bilico ***


Sette


Dopo la corsa in moto, Hajime ritornò al locale.

Sentiva la gola secca, la tensione di quella specie di inseguimento gli aveva prosciugato la saliva. E poi voleva parlare con Tetsurō, di cosa ancora non lo sapeva con certezza… forse voleva semplicemente dirgli che il suo amico alla fine era davvero andato a letto con Wakatoshi, e che qualsiasi altra ipotesi alternativa che potesse riguardare invece Hajime Iwaizumi non si sarebbe più verificata. O forse voleva chiedergli il numero di telefono di Tooru? O magari farsi solo una bevuta con lui, alle spalle di quei due?

Quando arrivò, il concerto era finito e il locale era vuoto, a parte uno strano tipo con i capelli lunghi e ossigenati, una fila di piercing a un orecchio e una sigaretta mezza fumata in bocca.

“Siamo chiusi ” Gli disse. Aveva una scopa e un sacco per l’immondizia. 

“Serve un aiuto?”

“Se proprio ti va…”  e gli indicò i vuoti da raccogliere sui tavoli. Tanti.

Dopo una mezz’ora di cocci e mozziconi, il tizio gli allungò una media fredda e senza schiuma, che Hajime tracannò avidamente. E poi, Hajime  rilanciò.

“Serve un aiuto qui? Sto cercando lavoro.”

“Che lavoro facevi?” Chiese il tizio, e sembrava interessato.

“Guidavo una Maserati.”

“Beh, qui si tratta di lavorare con la spina, soprattutto. E poi piatti semplici che cucino io. Niente a che vedere con le Maserati.”

Il tipo si sporse verso di lui. “Sei amico di Tetsurō Kurō?”

“Sì.” Hajime rispose senza esitazione, perché in effetti si sentiva davvero amico di quello strano ragazzo.

“Io sono il proprietario di questo posto, Keishin Ukai. Quando vuoi cominciare?”

Hajime restò un istante in silenzio.

“Perché, non ho già cominciato?” 



 

Durante quelle due settimane, Hajime scelse di coprire solo i turni serali. 

A pranzo era libero e girava con la sua moto, si allungava in palestra o verso il mare. A volte se ne stava a casa a leggere. 

Aveva scelto quella fascia oraria perché così avrebbe avuto meno occasioni di incrociare Tooru in pausa pranzo. In questo modo, sarebbe stato più semplice farsene una ragione. 

Solo una sera, passando accanto all’agenzia, lo aveva notato fuori all'ingresso ben oltre l’orario normale di lavoro. 

Si era fermato all’angolo senza togliersi il casco, finché gli occhi gialli della Maserati di Wakatoshi non erano spuntati dall’ombra del parcheggio multipiano, a fianco del palazzo degli uffici.

Era salito a bordo ed erano spariti chissà dove. 

Una fitta di qualcosa che ormai aveva definito come “gelosia rabbiosa autoindotta” gli aveva chiuso lo stomaco. D’altronde, Tetsurō glielo aveva pure chiesto: perché cercarsi un lavoro a meno di un chilometro dal suo ufficio? 

Proprio Tetsurō, se lo era ritrovato al bancone un paio di sere dopo il suo primo turno di lavoro.

“Ciao. Keishin mi ha detto di un mio amico di nome Hajime che ha iniziato a lavorare qui. Lo conosci?”
“Non so se è proprio un tuo amico…” aveva risposto lui sorridendo.

“Beh, a questo punto direi di sì.”

Tetsurō si era allungato sul bancone, le braccia incrociate. Un movimento felino e naturale. Aveva una voce calda e tranquilla, e un’innata capacità di mettere le persone a proprio agio. Gli aveva servito una birra e avevano subito iniziato a chiacchierare.

“Tooru lo sa che lavori qui? Lo hai visto?”

“No. Non l’ho più visto, almeno finora.”

“Posso dirglielo…?”

“No. E apprezzo che tu non l’abbia già fatto.”

“Però potrebbe capitare che vi incrociate. Se non vuoi che succeda, beh… lavorate entrambi e meno di un chilometro di distanza, qui si mangia bene e lui odia i fast food. Non mi sembra una grande idea, in tutta sincerità.”

Hajime ci aveva riflettuto e poi aveva risposto. “In tutta sincerità, qui lavoro bene e mi sento a mio agio. E non è solo perché vedo gente come me. Non te lo so spiegare.”

“E tu come sei, scusa?”

“Beh. Lo sai.”

“No, non lo so. E non mi importa. Mi importerebbe se mi piacessi in quel senso, perché a quel punto per me sarebbe fondamentale saperlo. Ma nel mio caso non lo è. Quindi, no, non mi importa.”

Hajime aveva sorriso, grato per quelle parole. Poi aveva dato voce alla curiosità.

“Lui… sta bene? È felice?...”

“In questi giorni ci stiamo sentendo poco, io sono pieno di lavoro e ho una trasferta a breve. Comunque, immagino che stia bene.”

Avevano parlato ancora un po’ e si erano scambiati i numeri di telefono. Era come avere un filo indiretto con Tooru. Sottile ma tenace. 

 

****

 

Tooru tentava di lavorare ma era con la testa oltre le nuvole: fuori pioveva ininterrottamente dalla mattina, e lui era da qualche altra parte, dove brillava invece un sole violento a cui non era abituato.  

Contava, anche quel giorno, le ore che lo separavano da lui. 

Erano passate due settimane da quel loro primo volo. Due settimane strane, piene di sensazioni che avrebbe voluto trasferire fuori di sé ma che per un motivo o per un altro, non poteva fare. 

Tetsurō, l’unico che sapeva di loro, era fuori a Nagano in trasferta di lavoro. Gli mandò un messaggio:

Mi manchi

La risposta di Tetsurō non tardò:

Anche tu, tesoro.

Tornò con la mente a Wakatoshi, che non gli aveva mai scritto nulla del genere.

Gli faceva sapere solo se e quando si potevano vedere, di solito con un preavviso di poche ore. Tooru si faceva trovare sempre pronto, spostava appuntamenti, annullava pranzi, interrompeva il suo lavoro solo per lui, per le cose che facevano insieme da qualche parte, da soli. Erano cose durante le quali Tooru spegneva il cervello e teneva accesi solo i sensi. Spegneva tutto perché c’era solo Wakatoshi, prima dopo e durante. 

Il prima erano poche parole - a volte anche goffe ma mai di circostanza e pertanto vere, da parte di entrambi. Ma erano poche, appunto.

Il dopo era un drink da qualche parte o a casa di Tooru, se si vedevano lì. 

Il durante era la tempesta perfetta dalla quale Tooru si lasciava trascinare. Avrebbe voluto forse più dolcezza nei loro abbandoni, che invece erano sempre sotto tensione, come se ogni volta fosse l’ultima prima di un cataclisma imminente. Wakatoshi non andava di fretta, questo no, ma esigeva, pretendeva una risposta totale a ogni sua mossa, il gioco lo conduceva solo lui. 

Dispensatore di baci, carezze, orgasmi, semplicemente non accettava doni spontanei da Tooru, che invece avrebbe voluto farglieli. Come in una coppia normale. 

Eppure, Tooru contava le ore, sempre.

Il suo cellulare vibrò. 

Alle 19, solito angolo. Andiamo da te.

 

****

 

Qualche mattina dopo, Wakatoshi era stato invitato a pranzo a casa di Reiko. Era un pranzo d’affari, né più né meno.

In macchina, valutava, analizzava, organizzava. Vedersi con Tooru era tutto sommato facile, bastava qualche accortezza per preservare privacy e discrezione… specialmente quando andava da lui, in quel quartiere anonimo che gente come lui normalmente non frequentava, si sentiva meno obbligato a guardarsi intorno con circospezione. 

Proprio quella sera avevano un appuntamento, per andare fuori città, ad Haneda. Una notte in un albergo di classe noto per la sua discrezione.

Tuttavia Wakatoshi, che  aspirava sempre a massimizzare investimenti e guadagni, aveva in mente un’idea di facile attuazione, che gli avrebbe semplificato la vita e fatto fare un salto di qualità al management della sua azienda.

Voleva proporre a Tooru di lasciare l’agenzia e di entrare alla Jima Airways come direttore marketing e comunicazione. Da lì a un paio di giorni, si sarebbe tenuta la conferenza stampa per la presentazione del logo di sponsorizzazione della nazionale di pallavolo, quale occasione migliore per agire? Se avesse accettato quel ruolo, Tooru sarebbe potuto stare al suo fianco alla luce del sole, mantenendo una facciata di normalità.

Poteva portarselo ovunque, anche all’estero. 

Poteva spogliarlo ovunque. 

Obbligò la sua mente a fermarsi, prima che fosse troppo tardi, prima che quel continuo strisciare animalesco che avvertiva fra le sue sinapsi, sotto pelle, nelle ossa prendesse il sopravvento. 

Era spaventoso, perdere il controllo, e gli capitava sempre più di frequente di pensare a lui in termini diversi, di chiedersi cose di lui che non sapeva e che non aveva mai approfondito. Parlavano molto ma raccontavano poco, e Wakatoshi sapeva che Tooru si teneva a freno, da solo, perché era cosciente del fatto che lui, invece, dava l’idea di non essere permeabile a nulla. 

A volte, quando si rivestiva subito dopo un rapporto sessuale consumato a casa di lui o altrove in un ritaglio di tempo, Wakatoshi lo osservava con la coda dell’occhio. Lui rimaneva sempre a letto quei cinque, dieci minuti in più, come se non volesse staccarsi da ciò che avevano appena fatto, e aveva un’espressione strana, quasi triste.

Perché era triste?

La soluzione poteva essere davvero quella di lavorare insieme. Wakatoshi aveva sempre la soluzione.

Arrivò puntuale davanti al cancello dell’immensa villa degli Onagawa. La videocamera di sicurezza si accese e il cancello si aprì. Da lì all’ingresso della villa c’erano un centinaio di metri di viale circondato da alberi.

La costruzione era moderna, concepita da un archistar americano di indubbia fama. Una famiglia che si professava iper tradizionalista e che viveva in uno splendido castello iper occidentalizzato. 

Mezz’ora dopo, era già seduto nella veranda che dava sul giardino, a bere un cocktail circondato dalle chiacchiere sommesse dei padroni di casa. 

Reiko tardava a scendere dalla sua stanza. Wakatoshi represse uno sbadiglio, la situazione si preannunciava lunga e tediosa, o almeno la conversazione era già partita piatta e piuttosto banale. Quando arrivò, Reiko era bella come sempre ma c’era qualcosa che le brillava negli occhi, qualcosa di diverso dal solito e che la rendeva insolitamente attraente. Cercò di capirne di più durante il pranzo ma senza successo.

Fu al termine del pasto, quando i genitori di Reiko si allontanarono verso il salotto, dove sarebbe stato servito il caffè, che la sua fidanzata, rimasti da soli, esordì dicendo “Wakatoshi, nell’ultima settimana ti ho fatto seguire.”
Wakatoshi la guardò con uno sguardo trasparente, il solito sguardo di serena circostanza che le offriva quando lei si rivolgeva a lui nella normale conversazione e che quindi non era perfettamente sintonizzato con le parole del tutto insolite che lei aveva appena pronunciato. 

“Hai sentito che cosa ho detto? Ti ho fatto seguire.”
“Scusami?...”

La osservò meglio. Gli occhi le brillavano di una luce allegra e cattiva. Ecco il perché di quella sua aria così diversa dal solito.

“So che ti vedi con un uomo. Non so chi sia, per il momento ho una serie di foto che vi riprendono entrare e uscire in certe ore del giorno e della notte da alberghi, resort e club. Ma credimi, è abbastanza."

Wakatoshi restò immobile, come pietrificato.

Una parte del suo cervello, quella razionale e affidabile, processava l’idea di essere stato scoperto e la analizzava come né più né meno avrebbe fatto con una mossa sbagliata a poker, un bluff venuto male, una puntata troppo rischiosa da non ripetere. Semplicemente, la mano successiva andava giocata con una attenzione diversa.

La parte più istintiva, invece, tentava di gestire l’onda emotiva provocata dalla vergogna di essere stato smascherato nella sua vera natura, vergogna di cui solo ora comprendeva veramente la portata. 

Restò in silenzio, perché per la prima volta era rimasto letteralmente senza parole.

“Ascoltami bene, Wakatoshi: se questa storia va avanti, io ti rovino sulla piazza. Se fosse una donna, me ne potrei anche fare una ragione, intendiamoci. Non è l’infedeltà in sé che mi disgusta, quanto il fatto che tu faccia determinate cose con un uomo. E quando dico che ti rovino, credimi, sono seria. Mio padre potrebbe morirne, se si venisse a sapere una cosa del genere dopo il nostro matrimonio. Stai attento a ciò che fai. Il nostro matrimonio si celebrerà fra quattro mesi, per quella data tu dovrai aver troncato questa… storia? Follia?... Trovala tu la definizione. Ora dirò ai miei che sei andato via perché hai avuto un contrattempo.”

Reiko gli diede le spalle e lo lasciò in veranda.

 

****

 

Quello stesso pomeriggio, Hitoka aveva salvato la versione definitiva del logo, al quale Tooru gli aveva chiesto di apportare alcune modifiche.

Tooru l’aveva approvata e ora il rendering finale era sulla scrivania del direttore creativo.

Era tutto pronto per la conferenza stampa, che si sarebbe tenuta da lì a un paio di giorni.

Andava tutto bene, non fosse stato per Wakatoshi, che non si era fatto sentire benché avessero un appuntamento fissato per quella sera. Dovevano arrivare fino ad Haneda, dove lui aveva prenotato una suite. 

Si sarebbero dovuti incontrare al solito angolo semibuio fra l’immobile dove aveva sede la sua agenzia e il parcheggio multipiano, ma Wakatoshi stranamente tardava.

Gli inviò un messaggio con un unico carattere: ?

Non ottenne risposta. Forse aveva avuto un contrattempo, tanto valeva andare a bere qualcosa nell’attesa.

Salutò alcuni colleghi che si erano attardati e uscì.

Si incamminò verso il No Name, l’unico posto dove sarebbe andato anche alla cieca.

A quell’ora avrebbe forse beccato qualcuno del giro di Tetsurō, con cui scambiare due chiacchiere. 

ll locale era affollato ma lui aveva il suo solito angolo al bancone ed era lì che puntò.

Si sedette, tolse la giacca e l’appoggiò sullo schienale basso dello sgabello. Faceva caldo e bastava la camicia.

Tirò fuori il cellulare per controllare eventuali risposte di Wakatoshi che però non arrivavano. Gli scrisse dove si trovava e di avvisarlo quando fosse arrivato, lo avrebbe raggiunto sulla strada.

Lanciò uno sguardo verso il bancone e quando vide che si stava avvicinando qualcuno del personale, si tolse gli occhiali e si stropicciò le palpebre. C’era da dire che era anche piuttosto stanco e sperò che quell’attesa si sarebbe consumata nel tempo necessario a farsi una birra.

“Che cosa ti porto?” Chiese una voce.

“Una media chiara.” Rispose Tooru sollevando lo sguardo, che rimase in bilico su un ragazzo in t-shirt nera. Aveva gli occhi nervosi e irrequieti di Hajime Iwaizumi.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 - Lacrime e vodka ***


Otto

 

Wakatoshi era seduto nella sua Maserati, nel parcheggio multipiano. 

Sapeva di essere in ritardo ma non era ancora riuscito a scrivere a Tooru che il loro incontro doveva saltare per un imprevisto. 

Che cosa era andato storto? Forse qualche segnale dato involontariamente a Reiko: una maggiore distrazione durante le loro conversazioni, una telefonata alla mercé di orecchie indiscrete, una scusa poco convincente per annullare un loro impegno e poter stare con Tooru.

Stare con Tooru.

Si passò una mano sugli occhi. Improvvisamente, l’idea stessa di non poterlo più vedere si appoggiava pesante sulle sue spalle, ed era una sensazione nuova. Opprimente.

Guardò fuori, oltre il parabrezza, la freccia che indicava l’uscita dal parcheggio, un invito a raggiungerlo e a caricarselo in macchina. Una cena in camera li attendeva, una notte intera, dopo. 

Tutto in fumo.

Un particolare attirò allora la sua attenzione: una quasi invisibile, minima, puntiforme frattura sul vetro del parabrezza. Un punto nevralgico che avrebbe potuto mandarlo in frantumi da un momento all’altro. 

Quello era dunque lui? Sull’orlo della rottura?

Prese il cellulare. Visualizzò quel punto interrogativo che bucava lo schermo. E poi il nome di quel locale, No Name.

Si poteva semplicemente non avere un nome? Non essere nessuno...

Accese il motore e uscì dal parcheggio.


****

 

“Mangi qualcosa?”

Hajime piegò la testa di lato, per sgranchirsi i muscoli del collo. Improvvisamente, si sentiva legato e rigido davanti agli occhi nocciola di Tooru, ancora più grandi senza occhiali. Teso all’inverosimile, eppure sapeva che sarebbe potuto accadere.

Tooru, ancora sorpreso, non rispose. Lavorava lì da quanto? E perché quella canaglia di Tetsurō non glielo aveva detto? Non poteva non saperlo. 

Lo guardò attentamente. Quella semplice maglietta nera con il nome del locale - il non nome, a voler essere più precisi - gli stava benissimo. Spalle e braccia da nuotatore, carnagione olivastra, muscoli a riposo ma guizzanti sotto pelle.

Erano però gli occhi a catturarlo, finalmente liberi dallo specchietto retrovisore. Più liberi del loro primo sguardo, quando lui era fuggito via. Lo fissavano, lo bucavano. Tooru si sentì a disagio ma era un disagio piacevole. Gli succedeva sempre se dall’altra parte, oltre all’aspetto fisico che lo attraeva, sentiva risuonare qualcosa di familiare, qualcosa di simile, di complementare.

Che cosa fosse, non lo sapeva ma c’era, anche in quel momento, forte e chiaro, in cui contava i minuti che lo separavano da Wakatoshi. Minuti che sembravano infiniti.

Si riprese.

“Scusami. No, prendo solo una birra, grazie.”

Hajime annuì e si allontanò con l’ordinazione.

Fu allora che si accorse di un messaggio apparso sullo schermo mentre lui era preso da altro.

Ti raggiungo

Tooru si ansiò. Era una buona idea aspettarlo lì? Ma non fece in tempo che sentì un tocco sulla spalla.

“Ciao. Scusami. Ho avuto un imprevisto.”

Sentì il cuore che da ristretto ritornava alle sue dimensioni normali. Era arrivato, finalmente.

“Non c’è problema. Io ho preso una birra. Mi fai compagnia?”

“No, grazie. Ma ti aspetto.”

Hajime, che stava riempiendo la sua pinta, non lo aveva perso d’occhio e l’arrivo di Wakatoshi gli mostrò oltre ogni ragionevole dubbio che Tooru era irrimediabilmente preso: vide la sua espressione sollevata, felice, la sua mano che gli lasciava una fugace carezza sul viso.

Vide la sua completa esclusione, nel gioco dominato da quel figlio di puttana. Afferrò la pinta e gliela portò.

Wakatoshi trasalì impercettibilmente quando lo vide arrivare ma riuscì a non darlo a vedere. 

“Ecco la tua pinta.” Allungò il liquido chiaro a Tooru, che bevve velocemente.

La situazione fra i tre, finalmente insieme in quel teatro improvvisato, era complessa. 

Tooru ormai sapeva che sia lui che Hajime erano stati con Wakatoshi, ne avevano conosciuto entrambi le mani fameliche e la sua inesorabile capacità di far cedere, abbandonare, di lasciar consumare.

Hajime li guardava, nei suoi occhi nervosi e inquieti montava una rabbia silenziosa. Tooru la vedeva vibrare nelle sue iridi.

Non era mai stato così a contatto con emozioni così primitive, amplificate con quella portata. Voleva andarsene con l’uno, dove voleva lui, passarci una notte intera, e restare anche con l’altro, perché nell’altro sentiva una parte di sé, nascosta chissà dove.

“Andiamo.” Disse Wakatoshi. Tirò fuori il portafoglio.

“Offro io.” Rispose Hajime incrociando le braccia.

“Grazie.” Rispose Tooru.

Hajime li guardò uscire. Afferrò la pinta vuota e la calò con forza nel lavandino dietro il bancone, frantumandola.

 

****

 

Quella notte, nella lussuosa suite di Haneda, avvenne qualcosa di nuovo, di insolito.

Tooru ebbe la sensazione che Wakatoshi volesse lasciar fare a lui. 

E Tooru lo guidò, gli indicò dove toccarlo e come, quando unirsi a lui.

Wakatoshi si trovò a muoversi dentro di lui come più gli piaceva. A chiedergli che cosa gli piaceva. A godere con lui.

Era possibile, quindi. 

“Vorrei poter stare con te alla luce del sole…” mormorò Tooru mentre si addormentava aggrappato a quel pensiero, schiacciato contro la sua schiena.

 

****

 

L’indomani, quando aprì gli occhi, era solo. 

Si tirò su a fatica e a fatica mise a fuoco l’ambiente in cui si trovava. Abbassò lo sguardo sul letto, sul punto in cui pensava di trovare Wakatoshi addormentato. Invece accanto a lui non c’era nessuno. Il cuscino sembrava intatto, il lenzuolo tirato. Come se in quel letto ci avesse dormito solo lui.

La stanza era perfettamente immobile, quasi dipinta. Sulla sedia accanto al letto c’erano solo i suoi vestiti.

Un nodo gli si chiuse attorno alla gola. Si alzò e si infilò i boxer. Silenzio assoluto.

Sulla scrivania accanto alla finestra c’era un biglietto. Meno male, un segnale di vita! Ma perché non lo aveva svegliato? Si rilassò, magari aveva avuto un’urgenza e non aveva voluto disturbarlo…

Prese il foglio e lesse il messaggio. Poi gli cadde dalle mani. Si piegò per raccoglierlo ma non ci riusciva perché le dita gli tremavano e tremava anche il pavimento, dietro le lenti improvvisate delle sue lacrime

Mi dispiace, ma è finita.

Quando sei pronto, alla Reception troverai un’auto che ti riporterà a Tokyo.

W.U.

 

****

 

Era tutto pronto per la conferenza stampa congiunta fra la Jima Airways e la Federazione Giapponese di Pallavolo. 

All’ultimo piano del grattacielo di Shinjuku, la sala eventi della sua agenzia creativa era tutto uno scintillio di led, colore e musica, gente dei media, giocatori di pallavolo famosi per le loro imprese: Daichi Sawamura, capitano e opposto, Yū Nishinoya, libero, Asahi Azumane, banda. Si conoscevano dai tempi del liceo ed erano fra i titolari in nazionale.

E poi alti papaveri delle istituzioni, e poi Wakatoshi Ushijima con la sua fidanzata Reiko Onagawa. 

Terribilmente belli, ricchi, potenti. 

E poi Tooru Oikawa, al bancone del bar interno, che mandava giù lacrime e una vodka. Il suo direttore lo aveva avvisato: ci sarebbe stato un momento, durante la presentazione del logo, nel quale lui e il suo team sarebbero stati chiamati a intervenire. 

Tooru allora si stava preparando, per affrontare al meglio la situazione. Era a pezzi e l’alcol rimetteva insieme, ricombinava la sua mente ancora sconvolta.

Il signor Ushijima, che dominava i cieli e i cuori, non lo aveva degnato di uno sguardo. Uno che fosse uno.

Lo aveva chiamato sul cellulare, in ufficio, cercato al club, ovunque lo avesse portato in quelle due settimane. Nulla di fatto.

Chiuso nella sua trincea inavvicinabile, eccolo ora con la sua bella ragazza al braccio, a regalare strette di mano e sorrisi.

Il momento arrivò, e Tooru era fortunatamente ancora abbastanza lucido. 

Lo schermo alle sue spalle mandava in loop lo spot da 30” nel quale gli aerei della Jima Airways volavano con la pallavolo giapponese verso nuovi orizzonti di gloria. Chissà se a Wakatoshi piaceva qualcuno di quei bei ragazzi presenti. Gli erano piaciuti sia lui che Hajime, del resto, due tipi un po’ diversi. Era di orizzonti aperti, Wakatoshi. Gloriosi e aperti.

Avrebbe voluto Tetsurō accanto ma quella sera avevano un concerto al No Name e non poteva esserci. Si morse il labbro, furioso con se stesso perché era infantile, perché voleva che il suo migliore amico lo stringesse, lo consolasse e poi lo prendesse in giro perché se la prendeva troppo per l’ennesimo stronzo che si era trovato sul suo cammino. 

Il direttore creativo prese la parola.

“… un lavoro attento… una partnership prestigiosa… brand awareness… impegno di tutto il team…”

Bla bla bla

“… giovani creativi… coordinati da Tooru Oikawa…”

Applausi. Pacche sulla spalla. Mentre lui voleva solo vomitare. Ma riuscì a reggere e a tornare al bar, dove si calò un altro bicchiere di qualcosa.

Tobio e Shoyo si dovevano essere accorti del suo stato perché se li ritrovò fra i piedi.

“Ehi, Grande Re, non esagerare…” disse Tobio con la faccia seria.

“Tobio ha ragione… capo...”

“Sto benissimo. Ma se vi può tranquillizzare, ora vado in bagno a sciacquarmi la faccia…”

“Ti accompagno?” Chiese Tobio.

“No. Ah, Tobio?” Gli posò le mani sulle spalle, con l’aria solenne di un fratello maggiore.

“Cosa?…”

“Tu sei innamorato di Shoyo, vero?”

“Ma che cazzo dici?” Esclamò Tobio sgranando i suoi occhi blu. Che soddisfazione vederlo paonazzo! E Shoyo, che guardava Tobio come fosse la prima volta? 

Ce n’era anche per lui! 

 “Anche tu, Shoyo? Giusto? Sei innamorato di questo rompiballe.”

Shoyo diventò una piccola torcia umana. Ora era Tobio che lo guardava sorpreso. 

Dopo essersi scrutati a lungo, i due se ne uscirono in coro con un “Ma che dici?” malfermo sulle loro labbra.

“Dico la verità. Cazzo, la verità! Non vi perdete! Non… non vi sprecate!…”

Li mollò al loro destino e cercò il bagno. Forse avrebbe dovuto davvero cacciarsi due dita in gola e tornare un minimo sobrio per non sputtanare il lavoro di tutti.

Aprì le porte a battente del lussuoso bagno dei manager e diede una spallata… a Wakatoshi.

“Mi scusi.” Disse lui.

Tooru allora esplose, un’esplosione silenziosa, come in un esperimento nucleare nel quale il lampo è accecante e corre più veloce del boato.

“Mi dai del lei, ora? Cos’è, ci sono delle telecamere anche qui dentro?” Sibilò.

Wakatoshi restò impassibile, ma Tooru era ormai stanco di quella statua lignea, coriacea.

“Sai che cosa faccio ora? Torno dentro e racconto tutto. Partendo da quel voglio lui che hai detto quel giorno, qui in sala riunioni. E provo a lanciare un sondaggio: perché Wakatoshi mi ha lasciato come l’ultimo degli stronzi?”

“Tooru. Ci siamo frequentati solo per due settimane. Tu capisci…

“Te lo dico io che cosa capisco: tu ti vergogni di come sei, di quello che fai. Vero? Sei un vigliacco. Guarda che lo faccio davvero, sai? Non ho nulla da perdere a raccontare la nostra storia di due settimane… breve ma intensa!”

E guadagnò l’uscita ma Wakatoshi, bianco come uno straccio gli si parò davanti.

Tooru allora si fermò, improvvisamente calmo.

Lo osservò bene. Gli occhi verdi, meravigliosi, risaltavano su quell’incarnato che sembrava aver smarrito fino all’ultima goccia di sangue. Un pallore che gli conferiva una bellezza diversa, umana quasi. 

Tooru allora sorrise, finalmente giunto alla conclusione. Prese fiato e parlò, fuori dai denti e dal cuore.

“Vuoi sapere che cosa mi è stato insegnato, qui dentro? Che davanti a un cliente è meglio arrossire che impallidire. Se tu mi avessi detto una sola parola, se ti fossi fidato di me, non ti avrei giudicato. Se non accetti ciò che sei, ci può stare,  avrei compreso. Ti avrei aiutato. Se invece tieni di più a ciò che pensa il mondo di te… beh, allora corri ai ripari, Wakatoshi. Soffrirai come un cane, perché dopo di me verrà qualcun altro del quale ti fregherà un minimo, con il quale farai certe cose e che ti chiederà conto di ciò che vuoi. E se tu non vuoi, allora ti ritroverai di nuovo da solo, con un pugno di mosche. E ora ti saluto.”

Wakatoshi lo vide andare via. Uno strano sollievo anestetizzava tutto il resto. Il sollievo dopo uno strano sogno che finisce e del quale, appena aperti gli occhi, si inizia subito a dimenticare - rimuovere - frammenti e immagini. 

Tentò di ricucirsi addosso la sua armatura inscalfibile, quella che gli aveva permesso di superare qualsiasi deviazione dalla ferrea norma che aveva scritto ovunque di se stesso. Sarebbe tornato tutto come prima. 

Tornò in sala. Gli invitati parlavano e bevevano allegri. Puntò un cameriere che preparava scotch. Ne prese uno doppio, liscio

Reiko lo raggiunse, con un sorriso di pietra. 

“Ci hai fatto caso, vero?”

“Di cosa stai parlando?” Rispose secco lui.

E Reiko indicò il megaschermo su cui ora era fissa l’immagine dell’immenso A380 che era stato già decorato e la cui nuova fiammante livrea era stata mostrata in tempo reale via collegamento con Haneda.

L’aquila bianca sulla quale lo aveva portato, per annusarlo meglio e capire se poteva prenderselo come tutti gli altri prima di lui, per lo stretto tempo necessario.

“Il giocatore di pallavolo, quello del nuovo logo… “ Disse Reiko con uno sguardo beffardo “Ti somiglia in maniera impressionante…! Ha il tuo profilo ed è mancino. Proprio come te…”

 

****

 

Fuori pioveva e faceva anche freddo, ma Tooru non lo sentiva, pieno d’alcol com’era.

Si fece una passeggiata sotto l’acqua, senza occhiali, il viso offerto alle gocce di pioggia per cercare sollievo. Sentiva le guance e la fronte in fiamme, e le ossa indolenzite. Pensò di andare al No Name ma temeva di fare casino e di bere ancora.

Si infilò, ormai fradicio, in stazione , dove prese ancora più freddo. Guardò l'orologio che aveva al polso e chiamò Tetsurō. Al terzo tentativo, il suo amico rispose.

“Ehi! Come è andata?”
“Da schifo…” 

“Tooru… ma dove sei?... E questa che sento è pioggia. Stai venendo qui?”
“No, sono alla stazione…”
“Ma che diavolo ci fai lì da solo? Raggiungici al locale, no?”

Tooru scosse la testa.

“No. Sono bevuto e fuori di me.”

“Tooru, che cosa è successo? C’entra Wakatoshi?”

“Mi ha lasciato.”
“Peggio per lui.”

“Non direi, sono io quello che sta a pezzi. Eppure, è come la cosa tutto sommato mi piacesse. Amo queste situazioni folli, in cui sono sempre io a pagare.”

“È perché hai il coraggio di viverle. Però…”
“Cosa?”
“Certe volte non ti capisco. Che cosa desideri davvero, Tooru?... Te lo sei mai chiesto con sincerità?” chiese piano Tetsurō. Non voleva essere invadente ma il suo amico suonava confuso come non mai, e quando era così aveva bisogno di parlare, raccontare.

“Desidero ciò che mi riempie ma anche ciò che mi svuota…  l’idea di essere l’unico e anche quella di essere un capriccio. Amo tutto questo, anche le lacrime che ho appena pianto. Ahaha, potrei scrivere romanzi rosa!...”

“Tooru, vedrai che passerà, come è sempre passata..” Ma nella  voce di Tetsurō, nonostante tentasse di mascherarla, saliva la preoccupazione. “Senti, qui abbiamo finito, ti raggiungo appena finiamo di smontare tutto, ok? Dammi venti minuti. Non rimanere in banchina, entra in un bar, un posto chiuso… ”
Ma Tooru, in preda a brividi convulsi, e alla febbre che saliva, non riusciva più a parlare.

“Tooru?…”
Il suo amico non rispondeva più. Era ora di correre.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 - Dopo la pioggia ***


Nove

 

Tetsurō non ebbe alcun dubbio e parlò con Hajime. Raccontarono a Keishin che Tooru era in difficoltà e corsero insieme via dal locale.

In sella alla moto di Hajime, puntarono verso la stazione di Shinjuku. Con il temporale, la banchina era diventata una galleria del vento e quando finalmente lo videro, Tooru era semi svenuto su una panchina.

Tetsurō dava indicazioni, chiamava un taxi, tentava di tenerlo su sveglio, mentre Hajime, seduto accanto a lui con i pugni contratti e la testa bassa, pregava di non trovarsi mai di fronte Wakatoshi, sentiva lo stomaco pieno di una rabbia nera che avrebbe potuto sfogare solo mettendogli le mani addosso.

Un’ora dopo, con un po’ di fatica, riuscirono a fargli salire le scale di casa. Appena dentro, Tetsurō lo spogliò completamente e lo rivestì di abiti asciutti. 

Lo mise a letto e finalmente si lasciò cadere esausto sul divano.

Hajime era rimasto sulla soglia della stanza di Tooru e guardava dentro.

“Hajime, non devi preoccuparti per lui. Domani mattina si sveglierà con l’emicrania e con tanta voglia di piangere…  e io appresso a lui, perché domani ho la presentazione di un progetto a cui lavoro da mesi. Ma ce la faremo, vedrai. Ora vai, ti chiamo domani.”

Hajime non aveva nessuna intenzione di andarsene. 

“Tetsurō, resto io con lui. Domani ho il turno serale… Se tu hai bisogno di riposare, vai pure da Kiyoko. Qui ci penso io.”

Tetsurō neanche tentò di convincerlo. Si cambiò perché era fradicio e gli indicò il suo armadio. 

“Anche tu sei bagnato. Cercati qualcosa di asciutto lì dentro. E grazie, so di lasciarlo in ottime mani…”

Chiusa la porta di casa, Hajime obbedì e aprì l’armadio di Tetsurō. Era infreddolito, a disagio per i nervi che lo avevano sopraffatto, a disagio anche perché era solo con Tooru e Tooru era sicuramente ancora da qualche parte con Wakatoshi, a soffrire per colpa di quel bastardo.

Tetsurō era stato piuttosto discreto al riguardo, tuttavia Hajime sapeva che doveva essere accaduto qualcosa di grave tra loro. Qualcosa di cui Hajime poteva solo farsi un’idea, e anche quella era abbastanza verosimile.

Si cambiò ma restò in boxer  e maglietta, dentro casa la temperatura era piacevole. Tracannò un bicchiere d’acqua e se ne portò un altro in camera di Tooru.

Per una mezz’ora restò su una sedia con le mani in mano, a osservare lui che respirava con un certo affanno. Aveva le guance arrossate e i capelli ancora umidi. 

Gli smuoveva tutto il cemento che si portava dentro, quel ragazzo semi svenuto preda della febbre.

Un cellulare iniziò a squillare e non era il suo. Hajime non tentennò e infilò una mano nella giacca di Tooru perché era certo che fosse Wakatoshi. 

Rispose.

“Sono Haijme.”

Dall’altra parte, un respiro profondo.

“Passami Tooru.”

Hajime si rivide in macchina a profondersi in sì signor Ushijima, no signor Ushijima, certo signor Ushijima.

“Te lo puoi scordare. Col cazzo che ci parli.”

Un altro respiro, più veloce.

“Stanne fuori.”

“Ma io ne sono fuori. Hai fatto tutto da solo, come al solito.”

Restò in attesa. Non gli avrebbe dato la soddisfazione di chiudergli la telefonata in faccia e di farlo rimanere con il telefono muto in mano,  per quanto lo riguardava poteva stare lì tutta la notte a comandare. O a implorare, che sarebbe stata la stessa cosa. 

Fu Wakatoshi a chiudere. Hajime rimise diligentemente il telefono nella tasca della giacca di Tooru. Poi si avvicinò al suo letto, sollevò il lenzuolo e si infilò dentro con lui, avendo cura di sistemare i cuscini sulla testata in modo da restare semisdraiato. 

Accanto a lui, Tooru intanto continuava a tremare e rabbrividire. Lo attirò lentamente a sé, passandogli un braccio dietro le spalle: era rovente.

Ciò che Hajime provò, nell’istante perfetto nel quale Tooru gli posò la testa sul petto e allungò un braccio sul suo addome, fu un rimescolio di sentimenti diversi che cozzavano tra loro, che facevano rumore nelle sue orecchie, il rumore impazzito del suo cuore. 

Tenerezza, paura, desiderio. Il pieno del corpo di Tooru fra le sue braccia aveva scacciato la solitudine dal suo e lo aveva riempito di nuove sensazioni. 

Tooru lo stringeva, chissà dov’era in quel delirio febbricitante, se era ancora con Wakatoshi, mentre invece Hajime era lì ad assorbire il suo tremore e a tremare anche lui. 

Chiuse gli occhi, assaporando il calore e il profumo di quel corpo che ora sembrava fragile, saggiandone la forma con carezze leggere e lente. 

Lo baciò sulla fronte bollente, gli scostò dal viso i capelli sudati, si prese i suoi respiri affannati. Se lui lo stringeva più forte, Hajime faceva altrettanto, se lui allentava la stretta, Hajime gli dava più spazio.

Solo a un certo punto, davanti alle sue labbra screpolate, dovette combattere per non cedere alla tentazione di bagnarle con le sue. Non poteva, anche se avrebbe voluto. 

Hajime non era Wakatoshi, non avrebbe approfittato della sua debolezza. Non si conoscevano e lui voleva prima di tutto conoscerlo. Sapere chi era, dirgli chi era lui.

Lo voleva lucido e consapevole, voleva chiedere e non estorcere. Per quella notte, si sarebbe accontentato di ciò che aveva in quel momento, un abbandono febbricitante di cui all’indomani Tooru non avrebbe sicuramente ricordato nulla.

Lentamente si lasciò scivolare supino accanto a lui, continuando a tenerlo fra le braccia. Sembrava tremare di meno, e anche il sudore era diminuito.

Il respiro sempre più regolare gli disse che si stava addormentando.

Hajime chiuse gli occhi, la fronte contro la fronte di Tooru. Si lasciò vincere dal sonno e da quella perfetta commistione di realtà e sogno che poteva definire felicità.

 

****

 

Reiko, creatura incantevole ed elegante, amante delle formalità e del bon ton, aveva preteso subito la sua libbra di carne. 

Nel castello dalle mille stanze degli Onagawa, nel silenzio della notte, mentre i suoi genitori dormivano un sonno di altri tempi. aveva invitato Wakatoshi a farsi un giro. 

D’altronde, faceva parte dell’accordo matrimoniale quello di avere una vita sessuale con lei. Meccanica.

Wakatoshi non se ne stupì, l’aria della vergine di ferro era una comoda maschera quando si trattava di vendere una certa immagine di sé, ma con lui non c’era più bisogno di fingere, improvvisamente erano saltati strati e strati di falsi perbenismi.

Lui aveva già avuto esperienze con l’altro sesso, con geishe moderne, per le quali aveva garantito suo nonno. Conosceva l’anatomia femminile, modi e maniere, sapeva cosa fare e quanto a lungo. 

Reiko rimase quindi  piacevolmente stupita quando lui le mostrò che non aveva alcun problema a congiungersi sessualmente con una donna. Lo stupore assunse la forma di mugolii e ansiti, ai quali lui non faceva minimamente caso. Farlo con una donna era come darsi piacere da solo ma tenendo le mani libere.

Tutto questo avveniva dopo che la voce di Iwaizumi gli aveva risposto al cellulare di Tooru. Una fitta di gelosia a saperli insieme lo aveva trapassato, imbestialito, incattivito, aveva scacciato via anche il rimorso per quanto aveva combinato.
Lui che provava rimorso.

Ecco per quale motivo non mostrò una particolare sensibilità o delicatezza durante il rapporto con la sua fidanzata. Fissava il muro, sul quale c’era una piccola crepa - forse per un mobile spostato senza attenzione dalla donna delle pulizie -  e immaginava di disegnare la stessa crepa sul viso di Iwaizumi.

Glielo aveva praticamente gettato fra le braccia.  

Più tardi, in garage, sotto la luce fredda del neon, gli cadde lo sguardo sul parabrezza. 

Fu allora che un’altra crepa gli saltò all’occhio. Improvvisamente vide tutto nero, e prima che potesse anche solo provare a controllarsi, il suo pugno sinistro si abbatté con forza sul vetro.

Un reticolo, come su una sottile lastra di ghiaccio, rivestì tutta la superficie. Tempo qualche secondo, e una pioggia di minuscoli pezzi di vetro ricoprì il cruscotto, i sedili di pelle della sua Maserati - l'emblema della sua vita che scivolava perfetta sulla sua strada   -  ed una patina di realtà che sarebbe stato complicato ripulire.

Tooru aveva ragione. Era rimasto da solo, con un pugno di mosche.

 

****

 

Il giorno dopo, Tooru aprì gli occhi per primo. Davanti a lui, di spalle, un ragazzo che dormiva profondamente. 

Non era molto lucido, e la testa gli esplodeva, ma era abbastanza in sé da sapere che non si trattava di Wakatoshi. Anche perché non si era mai svegliato accanto a Wakatoshi.

E non poteva essere Tetsurō perché aveva i capelli corti. E Tetsurō dormiva a pancia in giù.

Lo annusò. Sapeva di sudore e di una lieve essenza, agrumata.

Allungò una mano toccandolo fra le scapole e lui si mosse nel sonno, girandosi verso di lui.

Hajime Iwaizumi.

Tooru aveva un ricordo vago di lui accanto a Tetsurō, prima alla stazione e poi a casa. Poi più nulla, sprofondato nel delirio della febbre.

Il viso di Hajime, rilassato e inconsapevole, era bello. Ma era bello anche quando era sveglio e accigliato.

Pensò istintivamente di allungare un dito fino a sfiorargli le labbra ma si fermò. Preferì un colpetto di tosse.

A quel punto, il suo compagno di letto si svegliò. Aveva un’espressione comica, fra sorpresa e imbarazzo.

“Buongiorno. Non mi sono approfittato di te, vero?” disse allora Tooru.

“No, non lo hai fatto. E neanche io” Rispose Hajime, con l’ombra di un sorriso sulle labbra.

Tooru si sdraiò sulla schiena, a guardare il soffitto. Sbadigliò.

“L’unico che ne ha approfittato è stato Tetsurō. Dì la verità, ti ha incastrato qui per andarsene da Kiyoko.”

“No, non è andata così. Gli ho detto io di andare, che potevo darti un’occhiata perché oggi sono di turno di pomeriggio. Lui credo abbia da fare allo studio, stamattina.”

Il viso di Tooru si incupì. "Sono davvero uno stronzo...” mormorò.

“Sì, uno stronzo coi fiocchi. Come ti senti?”

“Stordito, confuso. E tu?”

Hajime, dopo quella notte passata a respirargli accanto, avrebbe voluto rispondere anche io, ma poi avrebbe dovuto anche spiegargli il perché, che la sua febbre aveva un’altra origine, e non era il momento.

“Io sto bene…”

Fu il turno di Hajime di girarsi sulla schiena e di guardare il soffitto.

Restarono in silenzio per qualche minuto, poi Tooru si tirò su e provò ad alzarsi, ma appena in piedi barcollò penosamente.

Hajime, che si era mosso di riflesso, si alzò dietro di lui e lo afferrò prima che inciampasse sulle sue stesse gambe malferme. Gli passò le braccia attorno alla vita e lo attirò a sé. Tooru si lasciò andare, di schiena, contro di lui.

“Ehi… piano, che non ti reggi in piedi. Ti serve qualcosa?” 

“Il telefono…” rispose Tooru, uscendo con un po’ di difficoltà da quell’abbraccio. Gli piaceva.

“Siediti. Te lo prendo io.”

“Grazie.”

Hajime gli porse il telefono. Tooru scorse le ultime chiamate e aggrottò la fronte. Wakatoshi lo aveva chiamato e la chiamata era stata presa. Di cosa avevano parlato?

“Mi sono permesso di rispondere io, e di non disturbarti. Eri febbricitante.”

Calò il silenzio. In quella stanza, ora erano in tre, con Wakatoshi convitato di pietra. Si guardarono per un lungo istante. Sapevano che avrebbero dovuto affrontare il discorso ma non capivano ancora in quali termini.

Fu Tooru a rompere il silenzio.

“Vuoi farti una doccia?”

“Vai tu. Io preparo la colazione.”

“Grazie, ma prima devo capire se mi viene da vomitare. Il capogiro di prima non mi ha fatto benissimo…”

“Una doccia ti rimetterà in sesto, vedrai.”

“Ok…. Mi hai convinto.”

In bagno, Tooru si guardò allo specchio. Aveva le occhiaie, era pallido. Uno straccio, una pezza da piedi gettata da un uomo egoista e ipocrita. 

Si sfilò la maglietta e sentì sulla stoffa lo stesso profumo agrumato che aveva sentito addosso ad Hajime. Allora ebbe come un flash, la sensazione, nella penombra della sua camera, di essere stato tenuto stretto, di aver sentito il calore di un altro corpo che scacciava i brividi dal suo. 

Delicato e sfuggente, Hajime Iwaizumi.

Dopo la doccia, lo trovò in cucina, affacciato alla finestra, con una tazza di caffè fra le mani.

In boxer e maglietta, come appena sveglio in un giorno come tanti. 

Non c’era stato mai nulla di normale, invece, con Wakatoshi. Tutto sparato alle stelle, tutto fuori da qualsiasi schema, tutto lussuosamente vacuo, riempito solo di un piacere sconsiderato e volatile, senza ormeggi.  Tooru sapeva che non gli era ancora passata completamente. Non era servito sfebbrare. Era come se fosse appena uscito dal cinema con ancora in mano il biglietto, tutto stropicciato.

Hajime si voltò verso di lui e ne intercettò lo sguardo colmo di pensieri. Avrebbe dato chissà cosa per farne parte ma possedeva solo un’infinita pazienza e un’altrettanto infinita capacità di sopportare le delusioni che la vita gli metteva sulla strada. 

Però non si sarebbe dato per vinto facilmente. Posò la tazzina.

“Ti va di fare un giro?”
“In teoria dovrei riprendermi e andare in ufficio… prima mi sono misurato la febbre e non ce l'ho. Ho anche preso un'aspirina. Sono un perfetto stakanovista pronto a dare il meglio di me anche oggi!” 

Pensò distrattamente che avrebbe dovuto affrontare Tobio e Shoyo, i quali lo avrebbero picchiato per averli sputtanati senza pietà. Ma magari erano contenti.
Qualcuno felice doveva pur esserci, in quella parte di universo!

“Se te la senti... allora ti accompagno.”

Poco dopo, Tooru si teneva a lui mentre la moto andava veloce. Era diverso che andare in Maserati, quella moto era come il suo pilota, scattava, rallentava, senza tregua. Si strinse a lui e Hajime tentò di non perdere il controllo, di tenersi forte mentre l’altro si appoggiava alla sua schiena.

Si riprese solo quando lo lasciò sotto il suo ufficio. 

“Allora quando esci, se ti va, mi trovi al locale. Mi paghi una birra quando ho staccato.”

“Ok”

“Promettimi che non ti metterai nei casini da qui a stasera, e che se ti senti male mi chiami. Ho registrato il mio numero sul tuo cellulare.”
“Lo prometto.”

Hajime sembrava indeciso se aggiungere qualcosa, e poi lo fece.

“Promettimi… che verrai.”

“Lo prometto.”

Occhi nervosi, inquieti e liquidi, a cui Tooru si stava lentamente abituando, occhi di chi era tormentato, scottato, di chi come lui era dall’altra parte con consapevolezza e ne accettava le conseguenze. 

Così diversi dallo sguardo rapace di Wakatoshi, che li aveva catturati entrambi.

Due illusi.

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 - Le conseguenze delll’amore ***


Dieci 

 

La Maserati di Wakatoshi era stata ricoverata in una nota clinica per automobili di lusso, ma per quanto solerti fossero i meccanici, il parabrezza nuovo tardava ad arrivare.

In altre circostanze, avrebbe fatto chiamare il servizio clienti della casa automobilistica per far presente a chi di competenza tutto il proprio disappunto, ma in quel momento lo stop forzato della sua lussuosa macchina era l’ultima delle sue preoccupazioni.

I giorni passavano e si sentiva come se qualcuno lo stesse avvitando lentamente a una superficie solida e resistente. Inchiodando, forse, era il verbo più adatto.

Non era abituato a provare certe emozioni. La sua ordinatissima esistenza, piena di tasselli al posto giusto, era stata scombinata da un ragazzo della sua stessa età ma completamente diverso da lui e per il quale sentiva di provare per la prima volta sentimenti che sfumavano verso tinte mai sperimentate. 

Tooru gli mancava.

Eppure, Wakatoshi era stato sempre sostanzialmente un solitario. Che cosa era cambiato? 

L’ultima notte, nella suite di Haneda, si era lasciato andare con lui completamente, per la prima volta. Lo aveva guardato a lungo, lo aveva respirato, lo aveva aspettato. 

Dopo, quando già stava pensando all’indomani e alla fine di tutto, se lo era sentito dietro la schiena, caldo, avvolgente. Gli aveva sussurrato qualcosa su di loro alla luce del sole e poi si era addormentato. In un universo alternativo al suo.

Al contrario, le parole che Tooru gli aveva detto due sere dopo, quando avevano discusso, non erano state totalmente processate, raffreddate, neutralizzate. 

Una in particolare lo  aveva marchiato e bruciava ancora.

Vigliacco.

Tuttavia, anche il solo ammettere di provare per Tooru qualcosa che andava oltre il semplice desiderio di possesso, non era già un'ammissione che gli costava un coraggio non indifferente?

Poteva esistere un luogo intermedio? Una terra di nessuno nella quale incontrarsi? Poteva chiedergli di fare un passo nella sua direzione? 

Doveva provarci: Wakatoshi Ushijima non lasciava mai nulla di intentato. Prima però doveva affrontare una questione sgradevole e di importanza fondamentale. 

L’interfono squillò. 

“La signorina Onagawa è arrivata.”

“Falla entrare.”

 

Eccola, la questione, lì con lui, nel suo studio, in cima al grattacielo che ospitava la presidenza della Jima Airways, in tacchi alti e sorriso tirato.

La bella Reiko.

Il loro fidanzamento procedeva bene, la sua famiglia aveva anche deciso di eliminare la discreta e silenziosa figura che li accompagnava ogni volta che uscivano insieme. 

La porta si aprì e si richiuse, e lo spostamento d’aria fece arrivare alle sue narici le note di un costoso profumo.

“Tesoro… come mai mi hai invitato qui?”

Si avvicinò e gli sfiorò le labbra con un bacio.

“Accomodati. Volevo mostrarti una cosa piuttosto riservata.”

Le diede le spalle e si avvicinò alla cassaforte. Dopo aver inserito la combinazione, aprì lo sportello e tirò fuori una periferica USB.

“Sai, anche io mi sono scoperto un po’ voyeur…”

Infilò la periferica nel suo computer.

Reiko si irrigidì.

“Anche a me piace il cinema.” Disse poi condividendone lo schermo con quello enorme che era appeso alla parete.

Avviò la registrazione. Si vedeva lei che camminava in una nota zona di negozi di lusso. Il video la riprendeva mentre entrava in una boutique e, con assoluta naturalezza, rubava un bracciale da uno scaffale pieno di accessori.

Davanti al video, Reiko aveva uno sguardo immobile e senza vita. Iridi enormi e vuote.

“Un caso eclatante di cleptomania. Ti faccio i miei complimenti: hai aspettato il momento giusto e hai ingannato anche le telecamere di sorveglianza. Sfortunatamente, chi lavora per me è esperto di spionaggio industriale.”

Reiko sorrise, continuando ad osservarlo con occhi smisurati.

“Vuoi chiamare la polizia?”

“Non esageriamo. Mi basterebbe un qualsiasi giornale scandalistico: “Ricca ereditiera inganna la noia rubando qua e là…”. Ho almeno un altro capitolo di questa fiction nel quale entri in un altro negozio di lusso e ne esci molto soddisfatta. Comunque, sono soprattutto curioso: perché lo fai?”

“Un po’ per la stessa ragione per la quale tu peschi le tue avventure nel torbido. Ti piace farlo di nascosto e portarti a casa il tuo bottino.”

“A proposito del fare le cose di nascosto: ho un'altra registrazione. Ma qui parliamo di un genere totalmente diverso. Una cosa per palati fini, in cui ti si vede in una posizione diciamo “tradizionale” ma in un’accezione diversa da quella che la tua famiglia tiene fra i propri capisaldi. Ah, garantisco che quella sei tu perché ti ho ripresa io. E se non mi vedi è perché ho oscurato il mio volto. Sei tu la protagonista assoluta.”

“Cos‘è, adesso ti diletti con il revenge porn? Ma non ti vergogni?...”

“Guarda che ti sbagli. Qui la vendetta non c’entra nulla. Questo è il mio salvacondotto. È uno scambio. Tu lasci andare me e io lascio andare te. Nessuno vedrà mai quei video. Mi aspetto la stessa cortesia da parte tua.”

Reiko tremava dalla collera. Wakatoshi capì che era il momento giusto per affondare.

“E comunque non ti toccherei più neanche con un dito. Ti conviene serbare il ricordo che hai di me.” 

Lei sollevò una mano e se la portò alla gola. Le nocche erano sbiancate, le dita piegate ad artiglio.

“Sarà una decisione presa di comune accordo. Semplicemente, non eravamo fatti l’uno per l’altra.”

Reiko chiuse gli occhi smisurati e con essi la sua collera.

Wakatoshi sapeva già di aver vinto.

 

****

 

Passarono diversi giorni e diverse furono le birre bevute insieme.

Se staccava presto dal lavoro, Tooru a volte si fermava al No Name per prendersi una cosa al volo, oppure capitava sul tardi, o da solo o in compagnia dei suoi amici. 

In quelle occasioni, specie se il locale era affollato per via di qualche concerto, lui e Hajime si scambiavano solo qualche sorriso e non parlavano granché.

Nessuno dei due però immaginava che dietro i loro sguardi in apparenza trasparenti o sfuggenti c’erano in realtà osservazione e analisi.

Così, Hajime notò che Tooru si stropicciava gli occhi spesso e volentieri, che quando era perso nei suoi pensieri osservava un punto nel vuoto e sorrideva lievemente. O che quando rispondeva al telefono metteva sempre gli auricolari, infilava le mani in tasca, alzava gli occhi al soffitto e muoveva ritmicamente un piede sotto lo sgabello.

Tooru, invece, notò che Hajime faceva di frequente quel gesto di sgranchirsi il collo piegando la testa di lato, che tamburellava con le dita sul bancone mentre ascoltava i clienti ordinare da bere. Che sorrideva sempre a tutti, che quando non aveva nessuno da servire si appoggiava al bancone, incrociava le braccia e guardava in basso mordendosi il labbro inferiore.

Qualche volta, sul tardi, capitava che Keishin lasciasse aperto solo per lui, Tetsurō e gli altri del giro. In quelle occasioni, Keishin cucinava qualcosa e poi restavano tutti lì a bere e a chiacchierare a oltranza.

Una sera, nella quale Tetsurō e la sua band si esibivano con brani inediti, Tooru si era portato anche Hitoka e Shoyo.

Aveva detto a Tetsurō che la sua collega aveva un debole per Kōtaro e Tetsurō, con felina maestria, aveva infilato qua e là nel concerto una serie di canzoni d’amore che avevano completamente sciolto Hitoka. 

Il passo successivo era quello di far notare a Kōtaro quanto lei fosse carina e soprattutto che lo guardava con un’espressione inequivocabile. 

Dopo il concerto, Tetsurō si era seduto fra i due, con tutta l’aria di voler continuare la sua opera.

Tooru si godeva la scena con Hajime, seduto al bancone.

“Osserva bene quel demonio di Tetsurō. Se li sta intortando tutti e due e loro non se ne accorgono nemmeno. Entro stasera si scambieranno i numeri di telefono, vedrai ...”

Hajime sorrise. “Beh, la fai semplice…”

“Lo è. Lei è dolcissima e lui, che si deprime per un nonnulla, ha seri problemi di autostima. Ci vuole una come Hitoka per farlo stare bene. Quanto a quello là…”

E indicò Shoyo, che si era aggregato all’ultimo momento, silenzioso e giù di tono.

“…Quello invece è disperato. E un po’ è anche per colpa mia perché ho combinato un casino.”

“Non stento a crederlo.”

“È andata così: la sera dell’evento ero talmente ubriaco che ho messo in mezzo lui e Tobio - quel collega spilungone che non ha mai riso in vita sua -  e ho straparlato dei loro reciproci sentimenti repressi.

Ho detto loro da bravo senpai che dovevano smetterla di far finta di nulla e dichiararsi.”

“Risultato?”

“Nessuno. Se non che ora quei due non dialogano se non a monosillabi, loro che non facevano altro che parlarsi sopra. Possibile che l’amore o la reciproca attrazione riescano a spostare così tanto le sicurezze delle persone da farle barcollare?”

 

Hajime voleva rispondergli sì e che lui non desiderava altro. Lui voleva barcollare, ma restò in silenzio.

Poi la porta del locale si aprì e Tobio, con un’espressione dura che mascherava il suo nervosismo, fece il suo ingresso nell’arena. 

“Lupus in fabula…” sghignazzò Tooru. 

Shoyo lo aveva visto entrare e scattò in piedi come una molla.

Tooru, continuando a osservarli, allungò una mano verso Hajime “Fammi un paio di birre che gliele porto…”

“Tooru…”

“Sì?...”

Tooru lo guardò e in quel momento si sentì letteralmente bevuto dagli occhi di Hajime. Una sensazione forte e chiara, che provava così distintamente per la prima volta. Restò confuso poiché in quel momento si trattava solo di loro, non di altri. Tutto ciò che aveva detto sull’amore riguardava anche quanto di irrisolto c’era ancora fra loro.

E poi sentì forte e chiaro anche il suo cellulare, che squillava.

Hajime abbassò lo sguardo.

L’espressione sul viso di Tooru, mentre guardava lo schermo del suo telefono, denotava sorpresa e disagio, curiosità e impazienza. 

Troppe reazioni perché quella fosse una telefonata normale.

“Scusami. Devo rispondere…”

Lo vide alzarsi e uscire fuori dal locale.

Hajime ebbe allora la certezza che si trattava di Wakatoshi.

Di lui non avevano mai ancora parlato esplicitamente. Non esisteva ancora uno schermo protettivo, una condivisione, una strategia per evitare che tornasse alla carica cavalcando fascino e potere. C’era, si muoveva, compariva nel loro orizzonte ancora fragile, che non racchiudeva ancora luoghi o tempi diversi da quelli rumorosi e impersonali come il locale nel quale si vedevano molto spesso ma mai da soli.

La prima e l’unica volta che erano stati soli, risaliva a quello strano mattino in cui si erano svegliati nello stesso letto e non erano stati capaci di rompere quella specie di atmosfera onirica affrontando subito la realtà.

Da quel giorno,  Wakatoshi si era trasformato in una specie di tabù e loro continuavano a girarci intorno.

Tornò ad asciugare i bicchieri, accigliato.

“Uno yen per i tuoi pensieri. E sappi che li terrò per me.”

Tetsurō.

Hajime posò lo strofinaccio. 

“C’è poco da pensare e meno ancora da dire.”

“Ti sbagli. C’è molto da dire… dovete solo iniziare a dirlo.”

Hajime fece un mezzo sorriso amaro, indicando la porta.

Tetsurō scosse la testa. 

“Io vi osservo. Fra di voi c’è un livello di confidenza e di… intimità, ecco, che è una cosa rara, davvero. 

Nonostante siate… conoscenti? Quasi amici?… Fra voi due c’è un’atmosfera strana, è come se foste molto di più e quel di più non abbia una forma precisa. Ci siete, l’uno per l’altro. Tooru con te sta bene, tu stai bene con lui. Quello che vi serve è liberarvi da ombre e ostacoli, liberarvi dall’imbarazzo di essere stati con lo stesso uomo. Può capitare - certo, è statisticamente difficile, ma a voi è successo, e dovete metterci una pietra sopra.”

“È uscito per parlare proprio con lui. Per parlare con le ombre e gli ostacoli che dovremmo mettere da parte…”

“Magari questa è proprio l’occasione giusta. Non lasciartela sfuggire, Hajime. Senti, mi fai due birre?”

“Per quei due? Stasera c’è il gioco delle coppie?” Indicando Tobio e Shoyo.

Tetsurō piegò la testa all’indietro e sorrise con i suoi occhi taglienti. 

Il ragazzo ci vedeva lungo.

 

****

 

“Perché mi stai chiamando?”

“Perché devo parlarti.”

“Mi sembra ovvio. Ma non hai risposto ancora alla mia domanda.”

“Al telefono è impossibile. Sono abituato a parlare di persona.”

“Certo, come quando mi hai mollato con un biglietto. Me lo potevi anticipare a voce, invece di regalarmi la solita scopata.”

“Non… era… una scopata.”

“No? Strano, aveva tutta l’aria di esserlo.”

“Non per me.”

“E per chi, allora? Di certo non per me, che solitamente mi piace pensare di fare l’amore. Ma va bene uguale. Posso sapere che cosa vuoi?”

“Ho lasciato Reiko.”

Tooru si imbufalì con se stesso perché  le mani che aveva infilato in tasca iniziarono a tremargli. Fissava il cielo e c’era una luna gialla, enorme. 

“E sei sicuro che questo abbia a che fare con me? Voglio dire, se obbedisci alla tua natura è solo a te che fai un favore.”

Wakatoshi restò prima in silenzio, poi sospirò.

Lui che sospirava.

“Ha anche a che fare con te, allora.”

Tooru, che obbediva ciecamente alla propria natura, non riusciva invece a obbedire al buon senso perché non era un uomo di buon senso. 

Tooru viveva all’esterno di se stesso. Sempre.

E in quel momento, anche se i suoi occhi fissavano la luna, la sua anima si guardava intorno e cercava lui.

“Dove sei?” Gli chiese.

“Dietro di te.” Rispose una voce profonda. 

Tooru si voltò e si trovò davanti gli occhi verdi di Wakatoshi. Scuri e stranamente morbidi. Non erano più geometrici e squadrati come due smeraldi, erano di una materia fluida che si incollava ai suoi.

Non lo vedeva da giorni ed era come se fosse passato solo un secondo. Si ricordò di quello sguardo, era lo stesso sguardo di quell’ultima notte.

Ritornò con la mente in quella camera lussuosa e richiuse la porta alle loro spalle. 

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 - Parlando di notte ***


Undici


Wakatoshi si era alzato dal letto, come aveva sempre fatto dopo essere stato con lui.

Spalle massicce, la sinistra leggermente più sviluppata. Fianchi stretti.

“E ora? Che cosa deciderà Wakatoshi Ushijima? Perché hai già deciso, vero?”

Wakatoshi si voltò verso di lui.

Il cosa lo aveva già deciso, era vero, ma per la prima volta incerto su come dirlo. 

Poi parlò, scegliendo le parole più adatte a veicolare quanto voleva comunicare: il condizionale per esprimere un’aspettativa, la voce lenta perché tutto venisse compreso, il tono interrogativo: la sua era una come preghiera, sotto mentite spoglie, davanti a una specie di altare. 

“Tooru… vorresti lavorare insieme a me? Alla Jima Airways, come direttore marketing e comunicazione?...”

Tooru si sdraiò su un fianco. Tentò di mantenere un tono leggero ma quelle parole dette in quel modo lo colpirono in pieno. Decise di glissare, di ridimensionare.

“Non c’era bisogno di finire a letto insieme, potevi chiedermelo semplicemente. Oppure ne hai talmente bisogno al punto da…”

Fu un lampo e Wakatoshi si fiondò di nuovo su di lui, inchiodandolo al materasso. Respirava forte e quel respiro scomposto ebbe il potere di restituire a Tooru la stessa identica eccitazione che lo aveva trasportato di nuovo tra nuvole calde come l’inferno.

“Non prenderti gioco di me, Tooru…”

“Non sto giocando. Sono estremamente serio.”

 “Io ho bisogno di te.” Wakatoshi lo disse lentamente, chinandosi, a un passo dalle sue labbra. Il suo respiro, il suo profumo, il tremito che lo scomponeva. 

Tooru assorbiva tutto questo, ma restò immobile e rilanciò “Mi ami?” 

“Non lo so…”

“Mi amerai?”
“Non lo so…!”

Wakatoshi allora si spostò, liberandolo dalla stretta con cui lo stava tenendo. Si mise a sedere sul letto. 

“C’è un unico modo per scoprirlo ed è viverlo. Perchè vuoi che lavori con te?”

“Perché così potremmo stare insieme, quando e come vogliamo. Nessuno farebbe domande, nessuno ci sbatterebbe su un giornale…”

Tooru si alzò, fronteggiandolo.

“Quando e come vuoi tu, vorrai dire. Oppure dove e come.”
“Sarebbe più semplice.”
“Sarebbe una falsa libertà.!
“Io non posso…”
“Cosa? Essere normale? Perché essere come sei è già normale!!”

Wakatoshi si passò le mani fra i capelli. Era improvvisamente esausto.

“No. Questo non è normale.”

“Perché?”

“Ascoltami, io provo qualcosa per te. Non mi è mai successo. Non è come con gli altri. Io voglio solo te. Non è sufficiente…?”

“Non mi hai risposto. Se con me stai bene, perché non è una cosa normale?”
Tooru si abbassò, obbligandosi a guardarlo negli occhi senza cedere. Se lui non riusciva a rispondere a quel semplice perché, allora doveva andare oltre.

“E vorresti tenermi nell’ombra? Per volermi meglio?”
“Non sposerò Reiko. Non sposerò nessuna.”
“E credi che sarà sufficiente? Mi basterà, quando vorrò prenderti per mano e non potrò farlo perché siamo in mezzo alla strada? O nel tuo CDA? O dove ti pare! Basterà a te?”
“Se sei con me, sì.”
“Ma a me non basterà. Io sono fatto così, Wakatoshi. Sono un fottuto egocentrico che vuole vivere la sua vita al cento per cento. Voglio restare me anche quando sono con te. Se mi metti in una gabbia dorata, io muoio. Ho detto ai miei com’ero fatto quando avevo quattordici anni. Non torno indietro.”

“Neanche per me?”
“Neanche per te. Mi dispiace. Non sei stato educato per elaborare le frustrazioni e le delusioni, e ti garantisco che non è un bene. Ma è il momento giusto per imparare a farlo.”


Wakatoshi si sentì stranamente leggero, messo finalmente a nudo. Non gli era mai accaduto di guardarsi com’era realmente, dal di fuori, e lo sguardo di Tooru non era accusatorio né denigratorio. Era uno sguardo trasparente.

La verità era cruda e liberatoria allo stesso tempo. 

Wakatoshi non aveva alcun antidoto contro il suo stesso veleno, lo capiva. Era Tooru che volava alto e lui, con tutti i suoi aerei, non si alzava da terra neanche mezzo centimetro.

Universi paralleli. 

Si rivestirono in silenzio.

 

****

 

Il cellulare vibrò. Era Tetsurō.

Aggiornamento: Kōtaro e Hitoka si sono scambiati i numeri di telefono. 

Tobio e Shoyo si sono ubriacati e ora si parlano a manetta. Sembrano altrove. Come i ragazzi che si amano di Prévert.”

“Con Prévert ti ho steso. Vero 😉?”

“E Hajime?”

“È andato via poco fa. Non mi ha detto dove andava ma un sospetto ce l’ho.”

Tooru rise della sua stessa pazzia immaginandoselo davanti alla porta di casa. Il letto ancora caldo e lui che bussava. Forse era il caso di cambiare le lenzuola. 

Dèi, Tooru, sei proprio uno stronzo…

Prese il cellulare e selezionò il suo numero.

Non era raggiungibile.


****


Hajime aveva girato in tondo, intorno a casa di Tooru, perché lo sapeva. Perché la sua indole insicura, delusa, lo tormentava e esigeva continuamente tracce, segni, prove che potessero aumentarne il tormento. Con Tooru aveva costruito un castello di carte e quella telefonata era stata il colpo di vento che lo aveva fatto crollare.

Seduto sulla sua moto davanti al vialetto d'ingresso, attese pazientemente.

Quando si ritrovò davanti Wakatoshi, una rabbia sorda e rassegnata lo investì.

Non fece però in tempo ad aprire bocca perché il giovane e potente dominatore dei cieli lo precedette.

“Però. Da autista a investigatore privato. O dovrei dire guardone?...”

“Proprio non ci riesci, vero? Devi prenderti tutto, rovinare tutto.”

“Ormai dovresti conoscermi… comunque hai ragione. È nella mia natura prendere senza negoziare.”

“E che cosa ne fai poi di ciò che afferri? Così, per capire se la mia esperienza è stata sufficiente.”

Wakatoshi sorrise. Incredibilmente, quella bestia selvatica era capace di reazioni umane spontanee.

“Non sono la persona giusta a cui fare questa domanda.” 

E indicò con lo sguardo le finestre illuminate dell’appartamento di Tooru.

Hajime mandò giù la sua curiosità morbosa. Infilò il casco, accese il motore e partì a razzo.


****



 

“Dove sei?”

“Sono appena arrivato a casa mia.”

“Hajime… ho bisogno di parlarti”

“No. Non mi devi spiegazioni. Chissà che cosa mi ero messo in testa.”

“Aspetta, è più complicato di così.”

“Ci sei stato a letto?”

“Sì, ma è finita.”

Hajime scoppiò in una risata isterica. 

“E dovevi andarci a letto per esserne sicuro? Tooru, tu sei fuori di testa!”
“E tu, allora?”
“Io?... Io cosa, scusa?”
“Ci sei andato a letto anche tu. E non mi pare che ti fosse passata quando ci siamo conosciuti!”

No, così non se ne usciva.

“Senti. Vediamoci e parliamone. Ti va?”

“Da te non ci vengo.”

“Sotto casa mia, dall’altra parte della strada… c’è un locale aperto fino a tarda notte. Ti aspetto lì.. Ti prego, Hajime.”
Tooru sentì un cigolio e il rumore del cavalletto della moto che veniva sganciato. Il tintinnio delle chiavi. Un rombo basso e continuo, al minimo dei giri.

Poi un profondo respiro.

“Ok aspettami.”


 ****

 

Erano quasi le due. Nel locale c’erano stati poco, nessuno dei due aveva granché voglia di bere. 

Il luogo era rumoroso e affollato e il loro silenzio decisamente fuori contesto.

Uscirono e si ritrovarono in giro per il quartiere, finché non arrivarono in un vecchio parco accanto a un altrettanto vecchio campo da baseball.

Il cancello di ferro era aperto. Salirono sulla gradinata di pietra e si sedettero. A distanza di sicurezza.

Hajime iniziò.

“Sono nato e cresciuto a Saitama. Ho passato anni d’inferno a scuola, ad ascoltare i ragazzi che mi piacevano raccontare come si erano fatti questa o quella, a farmi la doccia in palestra con gli occhi chiusi, a girare alla ricerca di qualcuno che fosse come me.”

“E non lo hai mai trovato?”
“Se per trovare intendi rimorchiarlo, beh, sì. E poi ci sono i love hotel anche a Saitama.”

“Capisco…”

Tooru infilò le mani nelle tasche del paletot, tirò su le ginocchia fino ad appoggiarvi il mento.

“Poi è cominciato il vero schifo, quando la mia bella famiglia ha deciso che non andavo bene com’ero. Allora me ne sono andato, è successo più o meno sei mesi fa. Così mi sono trasferito a Tokyo.”
 

“Da quanto tempo lavoravi per lui?”

“Da tre mesi. All’inizio ho lavorato in un’officina di lusso, poi tramite conoscenze ho saputo che cercavano un autista.”

Hajime si alzò e iniziò a saltare da un sedile all’altro. Poi si fermò. Restò in piedi a guardare il campo deserto.

Tooru lo guardò, curioso di sapere anche la sua versione di Wakatoshi. Era l’unico modo per disegnarlo completamente.

“La prima volta che vidi Wakatoshi è stato nel suo garage. Era in piedi accanto alla Maserati e mi ha dato le chiavi. Ero stato già assunto e quello era il mio primo giorno di lavoro. Ricordo che la cravatta era stretta e che sudavo. In macchina è andata meglio perché conosco abbastanza bene quel tipo di automobili e la sua era davvero magnifica, faceva ciò che le dicevo io senza problemi. Per tutto il viaggio, il mio capo non mi ha rivolto la parola.”

Tornò a sedersi. Non prendeva pace.

“Non mi parlava quasi mai. Il suo sguardo era sempre concentrato su qualcosa, non gli sfuggiva mai nulla: un alone sul polsino, una mattina che mi ero macchiato con il caffè, polvere sul parabrezza, un frammento di carta sul tappetino. Me lo faceva notare sempre. A volte mi sembrava di essere parte della sua Maserati, come se fossi anche io un accessorio. Credo sia partito tutto proprio dal suo sguardo.”

“Perchè?” Chiese Tooru, ma cercava conferma di quello che aveva provato anche lui, quella mattina in agenzia.

"Perché non mi faceva sentire trasparente. Da lì, il passo è stato breve… voglio dire, è un tipo affascinante. La sua voce, i suoi modi. Il suo fisico… mi sentivo attratto da lui e allo stesso tempo lo temevo, perché sapevo che non ne sarebbe uscito nulla di buono. Chissà, forse inconsciamente cercavo anche una forma di punizione: nel frattempo ero entrato in crisi, non mi accettavo, sentivo la mancanza dei miei fratelli. Ero solo, insoddisfatto, incazzato. E poi…”

Chinò la testa.

“Una sera mi ha letteralmente preso. A tradimento, ma sapeva che non aspettavo altro, che non desideravo altro. Mi si leggeva in faccia, credo.

Io non… ero più stato con nessuno e arriva lui e mi fa ciò che volevo mi facesse. Ed è stato… magnifico. Credo che in questo momento non ci sia nessuno al mondo che io detesti di più di quell'uomo, per come mi ha trattato, eppure… con lui non mi sono mai sentito così… vivo.”

Respirò a fondo.

“È più o meno tutto. Ora tocca a te. Anzi, no, non voglio saperne nulla.”

Schizzò di nuovo in piedi e gli si parò davanti.

Tooru, ancora seduto con le ginocchia al petto, sollevò lo sguardo.

“Ti sembrerà strano ma non c’è molto da dire. Se vogliamo parlare di come ti guarda, non ho nulla da aggiungere. Oppure di come ti prende...”


“Non mi interessa, Tooru, davvero. Tu eri più curioso di me, ora hai tutte le informazioni.

“Sei sicuro? Perché se ti parlo di lui ti parlo anche di me.

Hajime osservava come gli occhi di Tooru, grandi e quieti, brillassero nonostante l’oscurità. Occhi nei quali ormai sognava di perdersi.

“Ok. Ti ascolto.” Convenne, rassegnato.

“Quando ho conosciuto Wakatoshi, ho conosciuto anche te. Ti avevo notato. E tu avevi notato me. Al No Name non c’eri entrato per caso, vero?.”

“No.”

“Quel giorno, quando ci hai accompagnato in aeroporto, in macchina c’era un’atmosfera strana,  particolare… ho sospettato che tra di voi ci fosse qualcosa di complesso. E tu già mi incuriosivi, Hajime.”

“In quel momento ero totalmente confuso. Cioè… tu mi piacevi e anche lui… continuavo a pensarci. La sera del concerto però avevo deciso di parlarti. Anzi, volevo proprio rimorchiarti. Ma tu non sei venuto. Sei andato ad Haneda.”

“Come lo sai?” Chiese Tooru sorpreso.

Hajime arrossì.

“Vi ho seguito. Sapevo che eravate insieme ed ero… rabbioso. Per me è cominciato tutto quella sera.”

“Anche per me. E non ci ho più capito niente finché Wakatoshi non mi ha mollato.”

“Perché è tornato alla carica? E tu, perché gli hai aperto la porta?”

“Perché dovevo.”

“Gli dovevi qualcosa?”

“No. Perché dovevo capire che cosa volevo io… la sera in cui mi sono ubriacato, Tetsurō mi ha fatto una domanda. Mi ha chiesto che cosa desiderassi veramente e io gli ho risposto, in buona sostanza, che non lo sapevo. Che in una storia sentimentale desideravo sentirmi l’unico ma che mi andava bene anche essere un capriccio, un’avventura. Però stasera ero lucido, e l’ho capito.”

“È finita davvero?”

Occhi inquieti e nervosi. 

“Sì. È finita. È finita perché lui ha paura. Ti sembrerà assurdo, ma anche Wakatoshi Ushijima è un essere umano.”

“Certo, anche i serial killer lo sono.”

“Voleva una storia segreta, darmi un ruolo alla luce del sole e vivere il resto nell’ombra. Voleva che fossi l’unico ma non abbastanza da permettermi di esserlo fino in fondo. Era convinto potesse funzionare.”

“E perché non dovrebbe. Se è così bravo a scoparti?”
“Ora stai esagerando, Hajime!. Perché credi che a me interessi solo quell’aspetto? Scusa se te lo faccio notare, ma ho sempre avuto una vita sessuale libera, non mi sono mai nascosto, non sono arrabbiato con il mondo come te.”


Hajime strinse i pugni. Tooru si alzò per guardarlo bene in viso.

“Scusami. E non mi fraintendere. Non voglio dire che sono più in gamba di te, forse sono solo stato più fortunato perché ho avuto intorno persone che non mi hanno fatto desiderare di fuggire, perché non mi sono trovato come te dei muri davanti.”

Hajime sorrise, all’improvviso, e quel sorriso lo illuminò.

Creava uno strano contrasto fra i lineamenti che si ammorbidivano e gli occhi che erano ancora in guardia. Tooru si accorse di aver trattenuto il fiato davanti a quel cambiamento repentino.

“Dì la verità… ti sei mai innamorato di Tetsurō?” Chiese Hajime mentre anche i suoi occhi, alla fine, si ammorbidivano.

“Ahhh, questo è un tasto ancora dolente!…” rispose Tooru esacerbando il suo tono disperato.

Risero di gusto, poi Hajime tornò serio.

“ È finita anche se ci hai appena fatto l’amore?”

“Sì.”

“Sei triste?”

Tooru sospirò. “Beh… è complicato. Sento di aver fatto la cosa giusta e allo stesso tempo sì, sono profondamente triste. E poi un po’ sono anche felice, e mi sento come se non fossi più prigioniero.”

La successiva domanda che attraversò entrambi fu e ora?, ma rispondere era prematuro.

“È davvero tardi.” Disse Hajime guardando il cellulare.

“Sì, andiamo.”

Uscirono dal campo, camminando silenziosi fino alla moto parcheggiata davanti casa di Tooru.

Hajime montò in sella e infilò il casco.

“Ci vediamo?” Chiese Tooru. “Mi piace parlare con te… non so se per te è la stessa cosa ma… con te mi sento bene.”

“Certo… ci vediamo da Keishin.”
“No. Intendevo qualcosa tipo questa di farci un giro...”

Hajime lo guardò con estrema attenzione e poi gli rispose.

“Tooru. A me va bene, ma c’è una sola condizione: se per me non… provi nulla, se non vuoi altro… allora non chiedermi mai altro, neanche se ti senti solo o annoiato. Trattami da amico, anche se non ho la presunzione di essere come Tetsuro.”
 

Tooru rise.

“Hai scelto il termine di paragone sbagliato: Tetsuro resterà il mio sogno erotico for ever and ever. Non perdonerò mai la natura per non averlo fatto normale come me!... ”

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 - Persone normali ***


Dodici
 

 


La campagna pubblicitaria della Jima Airways era nel pieno dell’on air. Il logo della compagnia, adattato al contesto sportivo, aveva generato un aumento esponenziale nelle vendite di abbigliamento tecnico e gadget legati alla nazionale di pallavolo, e naturalmente aveva fatto comparire nelle riviste di settore meravigliose foto dei giganti con le ali che atterravano e decollavano dai principali aeroporti internazionali del mondo.

Tooru vedeva riprodotta ovunque l’immagine dello schiacciatore mancino che si era formata nella sua mente nell’hangar di Haneda. Dalla mente al cuore il passo era stato breve e ciò che era avvenuto dopo gli rimaneva ancora impresso, come un luminoso flash dopo una foto.

Non aveva più incontrato o sentito Wakatoshi, non aveva partecipato a conferenze stampa o eventi mediatici legati alla campagna di comunicazione. Però, ogni tanto, un pensiero che aveva lui come oggetto si infilava veloce nella sua testa per poi lasciarlo, così com'era arrivato. 

Quei pensieri depositavano piccole tracce e componevano lentamente un mosaico che gli restituiva l’immagine cristallizzata di ciò che era stato il rapporto con lui: un concentrato di potenzialità inespresse, di delusioni cocenti, di estremo appagamento, di fraintendimenti, di conflitti personali irrisolvibili, di premesse sbagliate. E per Tooru, le premesse erano tutto.

Era stato difficile ma non impossibile uscire dall’incantesimo. Il tempo e la sua proverbiale creatività avrebbero fatto il resto.

Allo stesso tempo, mentre si rimetteva in ordine, Tooru vedeva Hajime. La premessa con lui era stata chiara, e Tooru si era impegnato a tenere fede agli accordi, se così si poteva definire il loro patto. Nonostante Tetsurō continuasse a rincarare la dose martellando entrambi, l’uno all’insaputa dell’altro, su quanto bene stessero insieme.

Si vedevano al locale, andavano a correre, un paio di volte erano andati al cinema con Tetsurō e Kōtaro - e Hajime si era dovuto sorbire il loro solito cineforum, dopo. 

Un’altra volta, al cinema ci erano andati da soli, scherzando sulla possibilità di vedere un bel porno per sfogare poi in solitudine i loro bassi istinti.

Prendersi in giro era stuzzicante da una parte, e dall’altra serviva a stemperare. Tooru non voleva mandare a puttane un’amicizia che era nata così spontanea, sentiva che un passo falso avrebbe rovinato tutto.

Hajime aveva iniziato a ridere, e lo faceva spesso. All’inizio Tooru era rimasto stupito di quanto bella potesse essere la sua risata. Era come una finestra che si apriva su un panorama nuovo, con le tende che svolazzavano, e mostravano, e nascondevano. Tooru sentiva la sua curiosità, la costante che muoveva da sempre la sua vita, concentrarsi totalmente su di lui.

Una domenica, per il compleanno di Tooru, erano andati a pranzo dai suoi genitori.

Hajime era stato presentato come un amico ma la madre di Tooru lo aveva osservato con estrema curiosità e lo stesso avevano fatto suo fratello maggiore e sua sorella minore. Non gli erano sfuggite quelle occhiate e l’idea che quelle persone potessero sospettare qualcosa fra loro gli piaceva estremamente.

Al pranzo avevano partecipato altri familiari di Tooru, fra cui suo nipote Takeru che era impazzito per la moto di Hajime e che lo aveva subissato di domande. La casa era affollata, allegra e rumorosa.

Hajime era stato parecchio sulle sue, all’inizio del pranzo, poi si era ambientato ma più passava il tempo più un’ombra di tristezza si era infittita nei suoi occhi. 

Avevano guardato vecchie foto di Tooru di quando era piccolo, video e altro materiale di risulta nella scatola familiare dei ricordi e avevano rifiutato a malincuore l’invito a fermarsi anche a cena perché Hajime doveva lavorare.  

Al ritorno, in moto, Tooru si era stretto alla schiena del suo amico perché lo sentiva triste.  Probabilmente, per tutto il tempo aveva pensato alla sua famiglia, così diversa, fredda e respingente. 

Quando arrivarono sotto casa sua, Hajime era però più sereno.

“Grazie per questa giornata. È stato speciale. Tu sei speciale.”

Tooru rise passandosi una mano dietro la nuca.

“Ogni anno che passa infatti mi chiedo come sia possibile che il resto del mondo non se sia ancora accorto!”

Ma Hajime non rise con lui.

“Sono serio.”

Tooru avvertì un cambiamento improvviso nell’ equilibrio che si era creato fra di loro. 

Da quando si frequentavano, non aveva mai sforato, non si era mai spinto troppo oltre perché c’era un patto da rispettare. Tuttavia, in quel momento, mentre tornava serio, sulle sue labbra sentiva materializzarsi altrettanto seria, e urgente, la domanda vuoi salire? Forse era presto? Però…

 

Stava per fargliela veramente, quando Hajime aprì il bauletto della moto e ne tirò fuori una bustina.

“Per te.”

“Oh… grazie.”

Tooru aprì la busta e trovò due biglietti per il concerto dei Depeche Mode al Tokyo Dome.

Restò a bocca aperta. Il concerto era previsto due settimane dopo, di sabato sera, e Tooru sapeva per certo che i biglietti erano sold out da mesi.

“Ma… come hai fatto…?”

“L’officina presso cui lavoravo aveva in cura la Bentley del Re dei Concerti di Tokyo. Ho chiamato il mio ex capo. Gli ho dovuto promettere una settimana di lavoro a fondo perduto. Puoi andarci con chi vuoi.”

“Certo, come no, ci porto Tetsurō…!” Rispose Tooru con un ghigno divertito. Ma che discorso era?? 

Ma Hajime fece spallucce. Non stava giocando. Era convinto di quanto aveva appena detto: poteva andarci con chiunque, la scelta era sua.

Tooru si passò una mano sul mento, incerto su come rispondere, e poi decise che la situazione era strana ed era bella così: quel ragazzo era particolare, davvero, una scoperta continua.

“Senti, ma tu lavori quel sabato sera? Ti va di accompagnarmi al concerto?”

“In teoria sì, lavoro. Sabato poi è sempre incasinato. Però posso chiedere a Keishin se mi fa recuperare un altro giorno.”
“Beh, allora fallo per tempo, mi raccomando.”

“Ok. Grazie ancora per il pranzo.” Riaccese il motore e ripartì.

 

****

 

Wakatoshi passeggiava da solo per il terminal degli arrivi internazionali.

Il pavimento lucidato a specchio rifletteva le luci sparate dei negozi di lusso, e a ogni passo sembrava di camminare su una superficie liquida e cangiante. 

L’acquisizione di una compagnia aerea coreana in fase di ristrutturazione era stata appena completata con successo e bisognava subito organizzare a puntino la comunicazione. 

Per Wakatoshi, tutte le decisioni più importanti avevano sempre inizio in aeroporto. Camminare per i terminal lo spingeva a riflettere sulla natura profonda del suo business, che era fondamentalmente quello fare del volo un’esperienza straordinaria, e a mettere in pratica strategie e tattiche adeguate ad aumentare i ricavi e i guadagni.

Ciò che era straordinario andava raccontato in maniera straordinaria: non aveva dubbi, avrebbe affidato quel compito a Tooru, che era già stato in grado di provare il suo talento, ma avrebbe interagito con lui solo per lo stretto necessario.

Era passato quasi un mese da quando avevano definitivamente separato le loro strade, e incredibilmente aveva finito per lavorare davvero su di sé, poiché la ferita tardava a rimarginarsi. 

Era come convivere con una diagnosi inaspettata e una prognosi ancora riservata.

Sapeva che si vedeva con Iwaizumi. Immaginava i termini di quel rapporto e in certi momenti era sicuro che non gli sarebbe mai passata del tutto. Il motivo era chiaro: quella storia l’aveva soffocata lui sul nascere, lasciandola come cristallizzata in un limbo. Non era stato Tooru a rinunciare a lui bensì lui a Tooru, e aveva dovuto subito iniziare ad affrontare le frustrazioni che ne erano derivate. 

Eppure, proprio grazie a Tooru, i suoi neuroni specchio erano riusciti lentamente a lavorare e a far emergere una serie di riflessioni che avevano come oggetto chi fosse lui e che cosa volesse veramente dalla vita.

Mentre camminava preso dai suoi pensieri, un negozio con le porte chiuse e della carta a coprire le vetrine catturò la sua attenzione. L’interno era illuminato e si sentivano rumori metallici. Un cantiere?

Un addetto alla sorveglianza era di piantone davanti all’ingresso.

“Che cosa sta per aprire?”

Il tizio, forse intimorito dall’aspetto elegante e sicuro di Wakatoshi si inchinò con estrema deferenza e poi rispose “Si tratta di un negozio che vende cioccolato, signore.”

“Il mio negozio.” Disse alle sue spalle una voce sottile e tesa come una corda di violino.

Wakatoshi si voltò e si trovò davanti un giovane alto e magro, pallido e con una chioma rosseggiante che sembrava una piccola fiamma. 

“Sono Satori Tendō. Quel Satori Tendō.”

Un sorriso si aprì davanti all’espressione un po’ confusa di Wakatoshi, che non aveva ancora capito chi fosse.

“Mi scusi ma non credo di conoscerla.”

“Conosce Parigi?”

“Certo.”

“Rue Vieille-du-Temple, fra il terzo e il quarto arrondissement. Il mio primo negozio di fama internazionale. Ahhh, voi giapponesi continuate a deludermi, siete così provinciali!…”

Wakatoshi si irrigidì. Ma chi diavolo era quel tale?

“Mi scusi ma continuo a non riconoscerla.” Replicò Wakatoshi leggermente stizzito. “E comunque, sono stato abituato a presentarmi. Sono Wakatoshi Ushijima.”

“Padrone di una discreta fetta di cielo…. Io invece sono padrone di dolcezze ineffabili, che la sfido ad assaggiare sabato prossimo. Cacao delle Ande, nocciola tonda gentile, caramello salato…” Il giovane gli girava intorno, enumerando diverse prelibatezze e guardando per aria.

“Che cosa intende per sabato  prossimo?”

“Il negozio che vede ancora chiuso aprirà sabato e diffonderà aromi e profumi per tutto il terminal. È allergico al cacao? Alle nocciole o altra frutta secca?”

“N-no…”

Ma che razza di conversazione era quella?

“Comunque, Wakatoshi-kun, io l’avevo riconosciuta: la sua immagine stilizzata è su tutti gli aerei della Jima Airways, il creativo che ci ha lavorato sopra è un genio. Sa, una volta giocavo anche io a pallavolo, poi ho deciso che volevo fare altro...”

Lo strano personaggio continuava a raccontare di sé mentre apriva lentamente la porta del negozio. Lo salutò con un gesto della mano mentre un balenio dorato lo investiva. Poi la porta si richiuse come in un varco temporale.

Wakatoshi proseguì la sua passeggiata per il terminal, scuotendo la testa abbastanza divertito.

 

****

 

Hajime contava i giorni che lo separavano dal concerto. Aveva smesso di contare quelli che lo separavano da Tooru perché nella sua visione fatalistica delle cose non avrebbe potuto fare nulla per cambiare quanto c’era fra loro. Se doveva capitare, sarebbe capitato… e la cosa valeva anche in caso contrario, e in quel momento non stava capitando assolutamente nulla.

Erano un po’ di giorni che non lo vedeva, perché era sempre in agenzia, carico di lavoro. Anche lui era abbastanza occupato, con i suoi extra in officina per ripagare il suo ex capo del favore che gli aveva fatto con i biglietti del concerto. 

Era comunque al settimo cielo al  pensiero di andarci con lui. Non era scontato che lo chiedesse a lui, visto che i Depeche erano anche il gruppo preferito di Tetsurō.

Una sera in cui il locale era particolarmente tranquillo, in un momento di pausa decise di uscire fuori a prendere una boccata d’aria. Dall’altra parte della strada, sotto un lampione, gli si parò davanti una scena che gli mise in subbuglio la testa e lo stomaco.

Un ragazzo alto, appoggiato al palo, teneva stretto un altro ragazzo, più basso di lui, mingherlino. All’inizio non li aveva riconosciuti ma poi aveva capito che si trattava di Tobio e Shoyo.

Si parlavano e sorridevano, Shoyo dava piccoli colpi sul braccio di Tobio come per provocarlo o reagire a una provocazione, gli faceva segno di attraversare la strada e di entrare nel locale ma Tobio scuoteva la testa.

Poi smisero di parlare e si baciarono.

Il bacio divenne sempre più intenso e appassionato, le mani più contratte a stringere i corpi, che scivolavano l’uno sull’altro.

Tobio e Shoyo erano stati amici per molto tempo e poi si erano innamorati. Accadeva di continuo, accadeva lentamente, all’improvviso. Oppure non accadeva affatto.

Hajime strinse i pugni, si sentiva di nuovo solo e si era quasi pentito di quanto aveva detto a Tooru rispetto al loro rapporto. 

Era una deriva pericolosa, perché era la stessa che lo aveva fatto cedere con Wakatoshi, e in quel momento sentiva che gli sarebbe bastato anche solo essere una valvola di sfogo o un divertimento superficiale, senza complicazioni di alcun tipo. 

Pazienza se poi avrebbe rovinato tutto. 

Tobio intanto aveva abbassato le mani sui fianchi di Shoyo e ora l’abbraccio si era trasformato in bramosia. Hajime abbassò lo sguardo, rifuggendo quella scena, e rientrò nel locale.

Il cuore gli batteva all’impazzata e non c’era verso di calmarlo.

 

****

 

“Quel” Satori Tendō…

Wakatoshi era curioso e si era informato.

Satori Tendō, ex promessa della pallavolo giovanile giapponese, si era allontanato dallo sport per intraprendere la carriera di imprenditore del cioccolato.

Era un eccentrico e un logorroico, aveva l’abitudine di girare il mondo alla ricerca di ingredienti insoliti e particolari. 

Amava Bach, la letteratura francese e la pallavolo.

Recentemente, aveva rotto una relazione durata anni con uno chef stellato francese. La cosa aveva effettivamente avuto una certa risonanza mediatica ma Wakatoshi, che non amava il clamore e il gossip e ignorava sistematicamente quel genere di notizie, non ne sapeva assolutamente nulla.

Tuttavia, rimase qualche minuto a chiedersi se l’informazione più importante, e cioè che quel giovane eccentrico fosse gay, potesse essere o meno interessante per lui. In quel momento, decise che sì, era un’informazione interessante perché in un certo senso - almeno con se stesso poteva ammetterlo - il fatto che fosse di dominio pubblico la rendeva una specie di case history, nel suo genere.

Come era stato fare outing? Quando lo aveva fatto? E dopo, che cosa era accaduto? Del resto, Tendō era a modo suo un personaggio pubblico, forse meno esposto di lui, ma pur sempre conosciuto nel suo ambito.

Che cosa si provava a vivere liberamente la propria natura?

Andò a ritroso nel tempo e trovò un'intervista di qualche anno prima, in una nota rivista di business, nella quale Tendō affermava con soddisfatta decisione di avere una relazione con lo chef stellato, e a fondo pagina appariva una foto dei due sulle Alpi francesi abbracciati e innamorati - o almeno così sembravano.

Era normale esserlo pubblicamente? Era normale non provare imbarazzo?

Era la prima volta che Wakatoshi si poneva quel tipo di domande. Che considerava anche solo la possibilità di affrontare la questione.

Il sabato successivo, il corridoio del terminal era gremito di curiosi. Wakatoshi non era molto convinto di partecipare all’inaugurazione ma alla fine si ritrovò davanti a quello strano negozio che da cantiere misterioso si era trasformato in un tripudio di luci e arredi dorati. Vetrine piene di cioccolato in tavolette, cioccolato espresso, caffè e cioccolato, cacao d’alta pasticceria, strumenti per la preparazione di chissà che cosa.

Il proprietario, con la sua chioma rosseggiante, girava di vetrina in vetrina indicandone il contenuto come il direttore di un museo davanti a tesori di inestimabile valore.

Il negozio era gremito e Wakatoshi, che odiava sentirsi fuori posto in quella profumata situazione ai limiti del kitsch, si era già avviato all’uscita quando la corda di violino gli vibrò accanto.

“Wakatoshi-kun! Benvenuto!”

Satori Tendō in divisa scura da chef, con due file di bottoni che lo facevano ancora più sottile e allampanato. 

“Buonasera, signor Tendō.” Stava per aggiungere che voleva essere chiamato signor Ushijima ma non ci riuscì.

“La aspettavo!…. Venga con me.”
E Wakatoshi lo seguì senza porsi altre domande sui modi e le maniere più consone, incredibilmente era curioso.

“La prego, assaggi questo.”
Tendō prese una caraffa di porcellana, gli riempì una tazza e gliela porse. 

Wakatoshi la prese non senza una vaga sensazione di disagio. La avvicinò al naso e ne aspirò l’aroma pungente e dolce allo stesso tempo. Pepato, forse.

Bevve un sorso e la sua lingua si trovò avvolta da un fluido dalla densità perfetta nel quale si avvertiva solo un accenno di dolcezza, mentre la pienezza del cacao dominava. Era caldo e profumato, si sentiva altro che pungeva a tradimento ma era una sensazione piacevole, e prima che potesse solo dire che era buono, ne bevve un altro sorso. E poi l’ultimo. 

Tendō lo osservava serio.

“L’ho preparato stasera per la prima volta.”

“Davvero notevole.”
“È andata così. Più o meno una settimana fa, ho incontrato una persona. Di questa persona mi sono fatto un’idea: un carattere dominante, apparentemente uniforme ma in realtà cosparso di piccole scintille, come quella leggera nota pepata che ha sentito sulla lingua. E poi, non da ultimo, un accenno di dolcezza. Ho studiato ingredienti e dosi e il risultato è quanto ha appena assaggiato. Ecco…”

Infilò la mano in uno scaffale, prese un involucro e glielo porse. 

Una tavoletta incartata in una busta trasparente. Aveva un profumo inebriante.

“È un pezzo unico.” Sottolineò Tendō.

Wakatoshi, senza dire nulla, tirò fuori la carta di credito.

Tendō scosse la testa e alzò una mano.

“Non capisco.” Disse Wakatoshi.

“Wakatoshi-kun, non l’ho creata perché lei la comprasse. È un regalo. Ora mi scusi.”

La nota del violino era particolarmente bassa, quasi mesta.

E lo lasciò da solo.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 - Qualcosa è cambiato ***


Tredici

 

"Cazzo! Sono così emozionato per voi che ti perdono per non avermi portato al concerto con te. Dico sul serio…"

Tetsurō lo stava bombardando di messaggi e Tooru faticava a stargli dietro. Anche Kōtaro si intrufolava fra un messaggio e l’altro -  Ehi ehi ehi! 😋❤️ -  e il risultato era un trillo continuo mentre erano in fila per entrare.

Hajime lo guardava di sottecchi, con un’aria strana. L’aria di chi è curioso ma non fa domande. La sua aria, sempre discreta, a cercare sempre il raggio massimo dal punto in cui era lui per non interferire. 

Tooru temeva davvero che si sentisse fuori posto e decise di mandare tutti al diavolo per concentrarsi solo su di lui.

Anche lui era emozionato, e in tensione. Qualcosa rischiava di spezzarsi quella sera, lo sentiva, l'equilibrio era precario e forse sarebbe stato un bene. 

Il cellulare intanto continuava a trillare ma tanto con la musica non lo avrebbe più sentito.

 “Scusami, sono ancora quei deficienti dei nostri amici… rompono come non mai, fra poco Tetsurō mi chiederà di intrufolarmi nel backstage per scoprire se Dave Gahan porta o meno le mutande.”

“È bello…”

“Che cosa? Dave Gahan in mutande?”

“Che tu li definisca i nostri amici.”

Tooru allora registrò sulle retine il viso di Hajime, felice, sotto la luce dei fari che illuminavano a giorno l’ingresso dello stadio, mentre il negativo di quell’immagine, si scavava invece un posto nel suo cuore. In quel preciso momento si rese conto che si era innamorato di lui ma non poteva di certo dirglielo in mezzo a quella folla e al frastuono.

Era qualcosa da affrontare da soli.

I biglietti erano per la tribuna ma Tooru, che non riusciva a vedersi seduto immobile, voleva il prato, dove avrebbero potuto saltare e ballare. Glielo propose e Hajime accettò, e quando la voce profonda di Dave salutò lo stadio sulle prime note di Strangelove, tutto intorno a loro iniziò a vibrare. 

Faceva caldo. Ben presto si spogliarono e infilarono giubbotti e felpe nello zaino. 

Hajime, a un passo da lui, era attratto come un magnete dalle sue spalle, dalla sua schiena dritta, dai suoi capelli scarmigliati. 

Poter allungare una mano e sfiorargli il collo. Poterlo abbracciare, baciare, tutte occasioni che la musica rendeva meravigliosamente realistiche ma che lui non aveva il coraggio di afferrare. Erano dolorosi quei centimetri di distacco ma non riusciva a crederci fino in fondo.

Soprattutto, era stato lui a dirgli praticamente di stargli lontano, come poteva sperare ora che fosse lui a saltargli addosso?

La musica intanto incendiava l’atmosfera, rimbalzava immagini sensuali fra le loro menti, li faceva saltare sull’erba. Finché si spense tutto e al buio, disseminato di cellulari accesi, rimbombarono lente le note di A Question of Lust

Fragile 

Come un bambino tra le tue braccia
Sii gentile con me
mai di proposito
ti farei del male

 

Scuse
Sembra siano tutto quello che ricevi da me
Ma proprio come un bambino
Mi fai sorridere
Quando ti prendi cura di me
E tu sai....

 

Tooru ripensò allora alla notte in cui si era lasciato andare al dolore, alla rabbia e alla pioggia, e ripensò anche alla sensazione di essere stretto in un abbraccio. Non poteva sapere che Hajime stava pensando alla stessa cosa, al suo respiro affrettato dalla febbre e al suo corpo caldo.


È questione di desiderio
È questione di fiducia
È questione di non lasciare
che quanto abbiamo costruito
si riduca in polvere
sono tutte queste cose e anche di più
che ci tengono insieme

 

Davvero avevano costruito qualcosa che li teneva insieme? 

Nonostante Wakatoshi?

Grazie a Wakatoshi?

E Hajime provava ancora le stesse cose?

 

Si guardarono. 

 
Salutami con un bacio 
Quando sono da solo
Ma tu lo sai che io
Preferirei piuttosto essere a casa
 

Che cosa significava essere a casa? Forse non essere più soli, l’uno per l’altro?

Cambiò tutto, all’improvviso. Aspettarono con impazienza la fine del concerto.

 

****

 

Wakatoshi, in quegli stessi istanti, era seduto su una panchina del terminal, con in mano la tavoletta di cioccolato che Satori Tendō gli aveva regalato.

A quell’ora c’erano pochi viaggiatori in giro e i negozi chiudevano, uno dopo l’altro.

Un comandante con il suo vice - diretti forse al loro aereo, uno degli ultimi in partenza - gli passarono accanto, salutandolo con formale deferenza. 

Poco dopo, dalla direzione opposta, arrivarono tre sorridenti hostess di una nota compagnia mediorientale, una delle quali lo indicò alle altre convinta di non essere stata notata.

Lo conoscevano tutti, Wakatoshi-kun

E di nuovo, nella sua mente occhi spiritati, capelli rossi, voce tesa. Perché continuava a pensarci?

Aprì l’incarto, spezzò la tavoletta e ne mise in bocca un pezzetto. Era croccante e a differenza della cioccolata morbida che aveva bevuto, sembrava essere più persistente. Iniziò a succhiare lentamente quel pezzettino e mentre la cioccolata si scioglieva, quelle scintille di cui parlava Tendo stuzzicavano lingua e palato.

Un rumore di passi. Altri viaggiatori?

“Signor Ushijima…”

Era Satori Tendō. Aveva tolto la sua divisa da cioccolataio e ora vestiva un completo di alta sartoria. 

Wakatoshi infilò in tasca la tavoletta, si sentiva quasi colto in flagrante, ma di cosa non avrebbe saputo dirlo.

“Signor Tendō...”

La corda di violino. Tesa.

Wakatoshi si alzò in piedi. Tendō si inchinò.

“Volevo scusarmi con lei per i miei modi forse un po’ eccentrici. Anche se ho vissuto molti anni in Europa resto profondamente giapponese.”

Wakatoshi annuì.“Forse noi giapponesi siamo davvero un po’ provinciali, chissà.”

Tendō sorrise. Una strana smorfia in realtà, che gli dava un’aria piuttosto misteriosa.

Wakatoshi guardò l’orologio.

A quell’ora, nell’atrio principale del terminal restava aperto un locale noto per gli spiriti e soprattutto il whisky. 

“Mi accompagna a bere qualcosa? Così posso sdebitarmi per il cioccolato.” Chiese.

Così poteva soprattutto chiuderla lì e tornarsene a casa.

“Ma lei non è in debito con me. Perché mai continua a credere di esserlo?”

“Perché sono fatto così. Sono abituato a chiudere i conti.”

“Beh, io no. E questo non è un conto. Però, l’accompagno volentieri.”

Presero da bere. 

Satori gli raccontò di quando giocava a pallavolo come centrale, degli anni in Europa a lavorare il cioccolato. E poi i viaggi che aveva fatto per cercare certe speciali varietà di cacao, o angoli di città europee nei quali aveva scoperto piccole cioccolaterie artigianali che lo avevano conquistato e spinto a fare del suo meglio. 

Wakatoshi lo ascoltava, ma più di quanto gli raccontava, continuava a colpirlo la sua voce, che aveva una varietà incredibile di toni, tratti, sfumature. La corda non era più tesa, le note più gravi e tranquille. 

Lo osservava, colpito anche dalle sue mani affusolate che si muovevano delicate a mezz’aria mentre descriveva come si preparava una sachertorte seguendo la ricetta del noto hotel, ricordava episodi di viaggio o semplicemente interagiva con lui.

Si faceva in lui strada una consapevolezza tutta nuova che non esistevano solo il dominio e il calcolo nei rapporti umani, e che l’attrazione poteva anche partire dalla mente. 

Perché lui provava attrazione. Era l’unica ragione per la quale aveva annullato una cena di lavoro, preso la sua macchina, partecipato all’inaugurazione di un negozio che era la quintessenza della futilità e come se non bastasse, invitato il suo proprietario a bere un drink dopo che questo lo gli aveva dedicato una tavoletta di cioccolato.

Capì che desiderava conoscere meglio quel giovane strano, pallido come un fantasma, dotato di strani poteri e voleva farlo senza analizzare tutto unicamente dalla sua prospettiva, come faceva da sempre.

“E lei, signor Ushijima? Che cosa ha da raccontare? ”

Gli occhi di Tendō si erano fatti sottili e la voce emetteva note alte, chiare.

“Sono una persona molto riservata. Non ho molto da dire. Però questa… dovrei essere io, giusto?”

E Wakatoshi tirò fuori dalla tasca la tavoletta di cioccolato, il pezzo unico che parlava di lui.

“L’ho realizzata bene, vero? Ho passato una settimana a misurare gli ingredienti ad assaggiarla. Le piace?”

“Molto.”

“Potrei averne un pezzetto?”

Wakatoshi gli allungò l’incarto. Tendō staccò un piccolo frammento e lo mise in bocca.

Chiuse gli occhi. Lasciò che il cioccolato si sciogliesse nella sua bocca e bevve un sorso dal suo bicchiere. 

“Trovo che sia deliziosa con questo brandy. La nota pepata diventa più calda e persistente. Lei non crede, signor Ushijima?”

Silenzio. E poi “Sono Wakatoshi.”

 

****

 

Dopo il concerto, ripresero la moto, avvolti da uno strano silenzio.

Arrivati sotto casa di Tooru, Hajime puntò i piedi e fece scorrere il cavalletto sotto la moto. Tolse il casco e si passò una mano fra i capelli ancora sudati quando avvertì Tooru muoversi dietro di lui e poi un rumore secco, di plastica, che colpiva l’asfalto. 

Con la coda dell’occhio vide il suo casco per terra. Istintivamente si voltò verso di lui e si trovò le sue mani sul viso. Non fece in tempo a dire nulla che le labbra di Tooru erano già sulle sue. Ferme. Morbide. Desiderate come l’aria, l’acqua, come qualcosa di vitale.

Spalancò gli occhi, terrorizzato che quello fosse solo un sogno. Ma lo vedeva, invece, vicinissimo, e il suo respiro gli lambiva la pelle.

Poi le labbra di Tooru si aprirono e catturarono le sue. Lo stava baciando. Hajime rispose, lasciò cadere il suo di casco e ora erano in uno strano equilibrio sulla moto, che per quanto riguardava Hajime era ripartita e stava volando da sola da qualche parte.

“Dèi, che sapore buono che hai…” sussurrò Tooru staccandosi un attimo da lui.

“C-cadremo dalla moto…” Rispose lui. Poi scese e lo prese per mano, tirandolo giù.

Con i piedi per terra, ripresero da dove si erano fermati. 

Hajime il fatalista, che si accontentava di poter essere anche solo un amico, tormentato e inquieto, stava baciando il ragazzo dei suoi sogni davanti alla sua moto e sotto casa sua.

“Anche tu hai un buon sapore…” riuscì a dirgli a fatica, completamente fuori di sé. Stava accadendo a lui, una volta tanto a lui.

Carezze fra i capelli, respiri sul collo, braccia che stringevano e corpi che si risvegliavano.

Tooru sapeva che era arrivato il momento giusto per dirlo, per chiedergli vuoi salire? e sentirsi rispondere sì.

 

****

 
Mani nervose.
Vestiti sparsi.
Corpi finalmente liberi.
Nervi tesi.
E muscoli. 
E ossa.
 

Calore e sudore, ancora musica nelle orecchie, inebriante.

 
Tooru…
Io ti amo, Hajime.
Io… ti amo…
Io…
 

Si erano detti solo questo.

Lasciarsi andare come desideravano era un dono fatto di lentezza e attenzione, su quello stesso letto nel quale avevano dormito insieme, sperimentando un’attrazione che andava oltre il corpo.

Avvinghiati, a cercare lentamente centimetri di pelle che non si erano ancora mai toccati. A muoversi piano l’uno sull’altro, a chiedere, a dare. 

Occhi negli occhi, quelli di Tooru insolitamente grandi e quelli di Hajime, lucidi e finalmente calmi, che non sfuggivano più.

Finché tutto fu perfetto, per entrambi.

E poi il fiato che non ritorna. Fame d’aria. 

E poi, respiri.

E poi, silenzi.

 

****

 

Wakatoshi prese un ufficio di rappresentanza in aeroporto. Ci andava un paio di volte a settimana, approfittando della necessità di volare fino a Seoul per gestire tutti i retroscena legati all’acquisizione della nuova compagnia aerea.

L’ufficio era all’ultimo piano del terminal internazionale, con affaccio sulle piste.

Arrivava sempre in tarda mattinata, quando era sicuro di trovare già aperto il negozio al piano terra. Ci passava davanti senza fermarsi ed era certo di sentirsi sfiorare sulla schiena da un paio di occhi spiritati.

Un giorno, a metà mattinata, gli arrivò in direzione un vassoio con il caffè e un cioccolatino. Aprì l’incarto e si sorprese a trovare un biglietto all’interno, che recitava 
 

(secondo me) qualcosa è cambiato

Bevve il caffè e assaggiò il cioccolatino.

Il sapore era sempre molto deciso ma era davvero cambiato qualcosa. La nota pepata non si sentiva più come prima ma restava sullo sfondo una spezia, un aroma che non riusciva a distinguere perché si mescolava perfettamente al cacao. La nota dolce c’era sempre, in fondo, ma più evidente.

Lo strano aroma che non gli riusciva di riconoscere, e che gli era rimasto sulle dita, lo accompagnò per tutta la mattina finché non realizzò che si trattava di cannella.

Più di tutto, non riusciva a distrarre l’attenzione dal biglietto.

 

Non ne sarebbe mai venuto a capo da solo. Sì, qualcosa era cambiato.

Doveva chiedere spiegazioni a Satori Tendō.

Gli fece avere un biglietto di ringraziamento e un contestuale invito a raggiungerlo per un brandy quella sera, al solito locale per alcolisti raffinati aperto fino a tardi.

Era curioso, in imbarazzo, sempre in uno stato di attrazione che non aveva mai provato ancora per nessuno: il dato fisico e quello intellettuale erano legati a doppio filo, uno implicava l’altro. Soprattutto, Tendō non apparteneva ai suoi canoni fisici e intellettuali. Sembrava fatto di porcellana quasi trasparente, si immaginava le sue ossa di vetro. In più, la sua vasta cultura era soprattutto artistica e musicale, mentre Wakatoshi aveva studiato economia e finanza ad alti livelli.

Che cosa potevano avere in comune?

 

****

 

Quella sera, Tendō non si presentò all’appuntamento.

Wakatoshi restò colpito da quel mancato incontro e il giorno dopo, nonostante non avesse previsto di andare in aeroporto, ritornò appositamente per risolvere la questione.

Nel parcheggio dell’hangar, prima di avviarsi verso il terminal, si era chiesto però diverse volte se ci fosse davvero una “questione” fra di loro o se non si trattasse piuttosto di un gioco stupido mascherato da qualcosa di sofisticato.

Wakatoshi non amava giocare e già quel parlare tramite il cioccolato lo trovava un pericoloso scarto dal buon senso, in aggiunta a tutte le domande che si stava facendo su di sé e che, nonostante stesse dando loro delle risposte sincere, gli risultavano oltremodo scomode. Non aveva bisogno di altre complicazioni. 

Arrivato al negozio, ebbe la sorpresa di non trovarlo.

“Il signor Tendō è a Parigi.”
“Ah. E sa quando rientrerà a Tokyo?”

La commessa non nascose una certa reticenza nel rispondere.

“Non saprei. Il signor Tendō ci comunica le sue decisioni all’ultimo momento. È partito stamattina con il volo delle 7.”

Quindi il tempo per bere qualcosa con lui ce lo aveva avuto ma aveva deciso comunque di non presentarsi. Poco male, a lui non piacevano le persone inaffidabili, le persone eclettiche, le persone che non si lasciavano leggere.

Scosse la testa al pensiero di come era stato facile con Iwaizumi e anche con Tooru - facile portarli dove aveva voluto lui. Era stato facile anche sbarazzarsi di Reiko, comprare a due soldi una compagnia aerea in fallimento, mettere la faccia su scelte imprenditoriali coraggiose.

In tasca aveva ancora il biglietto allegato al cioccolatino

(secondo me) qualcosa è cambiato

Lo gettò nel primo cestino. Non era cambiato proprio nulla.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 - Dolce e amaro ***


Quattordici

 

Era come fluttuare in una bolla di sapone. Volare come una foglia. Planare come una piuma.

Era anche bruciare, impazzire dal desiderio, sbattere contro il muro dell’impazienza.

Era tornare a casa insieme, mangiare insieme, guardare un film insieme, raccontarsi ogni giorno una piccola parte di sé che ancora non conoscevano, era fare l’amore.

C’era solo un aspetto che, per contrasto, risultava ancora più doloroso: il distacco che sembrava irrecuperabile fra Hajime e la sua famiglia. Su quel fronte, Tooru non poteva fare nulla se non stargli ancora più vicino. 

Riusciva finalmente a capire la sua rabbia, il suo non sentirsi mai all’altezza. Con Wakatoshi, Hajime aveva raccolto le briciole e poi era stato alla larga anche da lui perché non voleva ricaderci nuovamente. Era per quel motivo che Tooru benediva ogni bacio, abbraccio, brivido che lui gli dava, era per quel motivo che gli parlava ininterrottamente, gli sussurrava all’orecchio ciò che sapeva lo avrebbe fatto stare bene. 

E lentamente Hajime, che non ci era abituato, iniziò a provare fino in fondo la felicità di vivere finalmente una storia normale e non più una serie di parentesi, aperte e subito richiuse, con gente più o meno disperata come lui. 

In certi momenti, ripensava addirittura a Wakatoshi: forse, alla fine, era un disperato anche lui, gli era mancato il coraggio nonostante il suo potere, il suo egoismo, ed era rimasto da solo, mentre Tooru ora si svegliava e si addormentava accanto a lui, ogni giorno.

Ma teneva tutto per sé. Non ne avevano più parlato. Era un’esperienza chiusa, dalla quale, imprevedibilmente, era scaturito alla fine qualcosa di buono.


****

 

Wakatoshi, intanto cercava notizie, e le trovava. 

Un certo tipo di stampa raccontava di un probabile ritorno di fiamma fra il noto imprenditore giapponese del cioccolato Satori Tendō e lo chef stellato con cui aveva rotto poco tempo prima. Alcune foto li ritraevano insieme, con occhiali scuri e abiti anonimi, in giro per Parigi. Non si scambiavano effusioni in pubblico, forse per blindare qualsiasi spiraglio. Mantenevano anzi un contegno piuttosto serio e distaccato, con l’evidente intento di sembrare solo amici.

Quale che fosse la realtà dei fatti, Wakatoshi sentiva salire una curiosità impaziente, quasi desiderasse di proprio di vederlo, quello spiraglio. Constatare che le cose fra quei due stavano effettivamente in un certo modo, che si erano rimessi insieme. Chiudere la porta a qualsiasi fantasiosa idea di proseguire quella conoscenza che era iniziata secondo modalità a dir poco assurde, che non gli appartenevano assolutamente.

Forse, alla fine era proprio quello il senso della frase sibillina scritta in rosso che aveva accompagnato il cioccolatino alla cannella: qualcosa era cambiato, sì, ma solo per Satori, e il fatto che se ne fosse andato in Francia a raggiungere il suo ex altro non era che la prova evidente. Forse aveva voluto significarglielo usando una specie di codice eccentrico come lui, fuori dai canoni. 

Chissà perché aveva usato la cannella per aromatizzare quell’amalgama di cacao e malcelato capriccio… ma poi, a lui che cosa gliene importava?

Tornò a sfogliare la sua agenda. La sua giornata era piena: solo incidentalmente ricordò che proprio quel pomeriggio avrebbe avuto un appuntamento con il direttore dell’agenzia di Tooru per la questione del rilancio della compagnia aerea coreana. E poi, tutta una serie di riunioni con vari capi area e il direttore finanziario. E poi… 

Uno squillo dalla sua segretaria.

“Signor Ushijima, c’è una chiamata intercontinentale per lei. Da Parigi. Il signor Satori Tendō. Mi ha chiesto di domandarle - testuali parole - se per lei … qualcosa è cambiato?” La donna aveva un tono fra il sorpreso e il divertito. 

Per me…?Wakatoshi si accorse di un lieve tremore della sua mano. La cosa lo mandò letteralmente in bestia, accelerò il suo battito, gli fece montare nel cervello una nube di rabbia mista a sollievo che faticava a dissolversi e si trasformava in un silenzio ostinato. Sapeva che dall’altra parte la sua segretaria aspettava indicazioni se passargli o meno la chiamata. Sapeva di volergli parlare e allo stesso tempo era convinto che non doveva farlo. 

“Sono molto impegnato.” 

“Lascio un messaggio?”

“Gli dica solo che per quanto mi riguarda non ci sono cambiamenti di cui discutere.”

“D’accordo.”

Poco dopo, un lieve bussare alla sua porta. Era la sua segretaria con un bigliettino in mano.

“Il signor Tendō si scusa per averla disturbata e si scusa anche per non essersi presentato al vostro appuntamento di lavoro. Ha lasciato il suo numero di cellulare.”

Glielo porse, si inchinò e uscì dalla stanza. Wakatoshi osservò il numero in silenzio.

C’erano otto ore di fuso orario tra il Giappone e la Francia e lui, invece di aspettare un orario più comodo, lo aveva cercato quando a Parigi era ancora notte fonda. 

Che gli fosse accaduto qualcosa?

Registrò sul cellulare il suo numero. Represse l’istinto di scrivergli un qualsivoglia messaggio e provò a concentrarsi, a fatica, sugli impegni del giorno.

 

****

 

Quello stesso pomeriggio, Tooru era in agenzia con i suoi colleghi a lavorare a un brief per una linea di prodotti di bellezza quando il suo capo lo chiamò sul cellulare.

“Sto andando alla Jima Airways da Wakatoshi Ushijima. Ti mando una macchina per raggiungerci. Portati Hitoka.”

Quella era la classica telefonata che implicava la sospensione di qualsiasi altra attività e un feedback immediato in termini di disponibilità e attenzione.

Implicava anche un po’ di coraggio da parte sua, ma fin dei conti, quale che fosse la misura necessaria per affrontare la situazione, Tooru sapeva che ne avrebbe posseduto sempre un grammo in più di Wakatoshi.

Alla notizia che avrebbe dovuto presenziare a una riunione ufficiale alla Jima Airways, Hitoka fu colta da uno dei suoi attacchi d’ansia e le sue ginocchia cominciarono a piegarsi. In macchina, Tooru le fece fare training autogeno, mentre lo faceva anche lui. Lo innervosiva il fatto di essere nervoso, e sapeva che se avesse chiamato Hajime avrebbe fatto innervosire anche lui. Però, ragionandoci meglio, capiva che il suo nervosismo non era causato tanto dal disagio di rivedere Wakatoshi quanto dalla voglia di dimostrargli che si era rimesso in gioco e che non lo temeva. O forse, che era definitivamente uscito dal suo gioco, più semplicemente.

Nella sala riunioni della prestigiosa sede centrale della Jima Airways, erano già sedute cinque persone, tutte in abito scuro e con la stessa espressione in volto - sembrava la polizia di Matrix al completo. Quelli non facevano volare aerei ma soldi, tanti soldi, e il carburante era la pubblicità.

E poi c’era Wakatoshi, a capo tavola.

Durante la presentazione e il successivo confronto, Tooru notò una ruga appena accennata sulla sua fronte e una piega lievemente triste della sua bella bocca, e non era certo per causa sua perché quando rivolgeva lo sguardo su di lui, i suoi begli occhi verdi erano chiaramente puntati altrove.

Tuttavia, nonostante la forma non proprio smagliante, il giovane manager si mostrò molto attento, sul pezzo. La riunione fu proficua e gettò le basi per la nuova campagna pubblicitaria, tutta dedicata al nuovo ramo d’azienda coreano. 

Al termine dell’incontro Tooru, che si era prima attardato nell’area break a  parlare con il direttore marketing e comunicazione - quello stesso ruolo che Wakatoshi aveva pensato di dargli per trovargli un posto legittimo accanto a sé, al di fuori di una camera da letto - rientrò in sala riunioni per recuperare il suo notebook e sulla porta si trovò proprio lui.

“Signor Ushijima…”
“Hai un minuto?”
“Certo. Per lei ho tutto il tempo. Mi paga profumatamente, del resto.”
“Non è una questione di lavoro.”
“È evidente che non lo è. Ci beviamo una cosa qui sotto?”
“Se il tuo fidanzato non è geloso.”
Tooru sorrise e rispose alla provocazione.

“No, non è geloso. Prendere un drink con te, a questo punto, diventa una cosa piuttosto normale. La prima cosa normale. A proposito di normalità: è un tema ancora delicato, per te?”

“Sì...” 

Fu allora che Tooru comprese che c’era qualcosa di strano nell’aria, perché Wakatoshi sembrava davvero aver preso quella domanda per una domanda, e non per una provocazione. 

Poco dopo, erano seduti a un tavolo del wine bar di lusso del centro direzionale.

Tooru lo osservava con attenzione. Nonostante la sua apparente freddezza, Wakatoshi possedeva una sua luce, che in quel momento trapelava dai suoi occhi verdi.

Una luce che si era infranta su qualcosa di più grande di lui - sulla paura, forse? -  frammentandosi in una specie di arcobaleno, come in un prisma. Durante la loro breve relazione, aveva avuto il privilegio di intravedere quei colori ed era stato a un passo dall’innamorarsene davvero, ma poi era andata diversamente.

Non aveva rimpianti, però, non dopo aver trovato Hajime. E aveva anche fretta di tornare da lui per cui esordì con un “Ti ascolto”, incrociando le braccia.

“Sarò breve. Che cosa hai trovato di attraente in me?”

A quella domanda da un milione di yen, che mai avrebbe immaginato di ascoltare dalla sua voce, Tooru sgranò gli occhi. Poi replicò

“La mia risposta serve a dare una spintarella alla tua autostima? Perché altrimenti, perdonami ma non capisco la tua domanda. Siamo andati a letto insieme e per un momento ho addirittura immaginato che avrei potuto avere una specie di futuro con te. Se non hai chiari i motivi per i quali ti ho trovato attraente… mi spieghi allora chi era la persona con cui mi vedevo?”

Wakatoshi restò in silenzio. Tooru comprese che il punto era proprio quello: non lo sapeva nemmeno lui. 

Provò a proseguire.

“Non sono stati i tuoi soldi. Per quanto, ammetto che nessuno mi ha mai rimorchiato con un giro in un aereo vuoto da 600 posti. Ma parlando seriamente… tu per me resti un mistero, Wakatoshi. Sei capace di prenderti tutto ciò che vuoi, salvo non avere abbastanza coraggio per volerlo poi davvero. Sei uno che agguanta, consuma, prosciuga, uno da cui tenersi alla larga, e poi lasci andare tutto in malora. Hajime è il tuo esatto opposto, per avere un benchmark, eppure… “

“Eppure?...”

Tooru fece una pausa. Non pensava che sarebbe arrivato a dirlo, ma la loro conversazione era nata così, con domande semplici e profonde allo stesso tempo.
“In te c’è una nota di fondo, che io ho sentito. Ed è quella che mi ha devastato, perché sei tornato a nasconderla subito dopo avermela mostrata. Eravamo ad Haneda, l’ultima notte, e tu mi avevi già mollato, ma io non lo sapevo. È stata una notte meravigliosa e quella nota dolce con cui mi sono addormentato si è trasformata in amaro al mio risveglio. C’era, nascosta da qualche parte, io l’ho assaggiata. Hajime crede che tu sia un serial killer, io invece credo che tu sia profondamente inconsapevole di ciò che sei davvero.”

Wakatoshi sembrava sinceramente colpito dalla sua disamina ed era uno spettacolo vederlo confuso.
“Ora posso fartela io una domanda?” rilanciò Tooru.

“Certo.”
“In questo momento, nella tua vita, qualcosa è cambiato?...”


****
 

…Più o meno una settimana fa, ho incontrato una persona... un carattere dominante… cosparso di piccole scintille… E poi… un accenno di dolcezza….

Una nota dolce, una nota di fondo. Dolce e poi amaro.

Erano le quattro del mattino e Wakatoshi non riusciva a dormire. Parlare con Tooru era servito solo a confonderlo di più di quanto già non fosse. Lo innervosiva l’idea che ci fossero aspetti del suo carattere che gli altri sembravano cogliere mentre sfuggivano totalmente alla sua propriocezione.

Afferrò il telefono e fece l’unica cosa sensata che poteva risolvere la situazione: chiamare quel numero.

“Pronto…?” Rispose Satori al primo squillo. Voce tesa.

“Sono Wakatoshi…” 

“Oh! Aspetta un attimo!... Oui, bien-sûr. Oui, merci à vous. A toute l’heurescusami, ma qui è mezzogiorno… Madame, je regrette, la boutique va fermerScusami ancora, dammi solo il tempo di chiudere...”

Uno scampanellio e un rumore di chiavi.

“Chiudere cosa?”

“Ma il mio negozio! Scusa, se mi chiami che a Tokyo sono le quattro del mattino, allora come minimo è… importante. Anche se…” e la voce tornò mesta “Quando ti ho chiamato io tu, invece… ma va bene lo stesso! Ora non ci disturberà nessuno. Cosa posso fare per te Wakatoshi-kun?”

Wakatoshi si accorse di avere troppe domande da fare e tutte insieme e, soprattutto, di non aver chiaro quale fosse l’ordine giusto per farle.

Poi iniziò.

“Perché non sei venuto al nostro appuntamento?”

“Ah… quindi volevi saperlo il motivo, alla fine…” la voce di Satori intanto si era come abbassata, stabilizzata. Tranquillizzata. 

Un profondo respiro. “Quella sera ho ricevuto una telefonata da Parigi, era la polizia. Una persona risultava scomparsa. Una persona a me cara. Ho passato la serata al telefono con amici e conoscenti e sono partito il giorno dopo con il primo volo utile...”

“Si tratta del tuo ex..?”

“Sì.”

Satori non sembrava sorpreso da quella domanda, dal fatto che fossero già arrivati a parlare di relazioni quando, almeno fino a quel momento, avevano avuto solo conversazioni ai limiti dell’assurdo sul sapore del cioccolato. Wakatoshi allora continuò.

“Siete… tornati insieme?”

“No. Ma lui sta attraversando un brutto momento. E non riesce a uscirne. È pieno di debiti e sta per vendere il suo ristorante. Io ho… avuto paura potesse accadere qualcosa di brutto. Ed eccomi qui…”

Wakatoshi avvertì come un sollievo che gli apriva la bocca dello stomaco. Erano ore che sentiva quella morsa e solo ora che si allentava comprendeva com’era stato per tutto il giorno: era stato male.

“Che cosa significa la frase su quel biglietto? Perché continui a farmi queste… domande assurde?”

“Vuoi davvero parlarne per telefono? Alle quattro del mattino? È una cosa un po’ complessa e fra mezz’ora mi ritroverò Madame de Batignolles qui alla porta del negozio, con tutte le sue amiche del baccarat, in astinenza dalle sue praline all’arancia!”

La voce di Satori era ora un intreccio di note alte, allegre, che si inseguivano. 

Forse a Parigi c’era il sole. Forse il sole era lui.

“Dovrei rientr…”

Wakatoshi prese allora una decisione, fermò la fuga dei suoi pensieri che procedevano disordinati e sbattevano contro le pareti squadrate della sua mente.

“Parto oggi, con il volo delle 7.”

Il respiro sorpreso di Satori attraversò cieli solitari, oceani d’acqua, chilometri e chilometri di aerovie deserte, gli arrivò dritto nell’orecchio e rimbalzò sul suo cuore.

“Rue Vieille-Du-Temple… all’angolo con Rue De La Perle… Ti aspetto.”

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 - Due ***



Quindici


Wakatoshi aprì la porta di vetro e legno di un piccolo negozio. Lo scampanellio argentino che aveva sentito al telefono annunciò il suo arrivo.

L’aroma di cioccolato, lo stesso che si sentiva nel negozio in aeroporto, era forte e arricchito dal profumo del legno laccato e della cera. Era un luogo d’altri tempi, silenzioso, accanto a negozi stravaganti: proprio davanti alla cioccolateria ce n’era uno con una vetrina colma di ceste di vimini nelle quali sonnecchiavano gatti di ogni tipo. L’école du chat, appunto.

Nel negozio di Satori c’era solo una signora che stava riempiendo un sacchetto di cioccolatini, e lo faceva con estrema attenzione, scegliendo accuratamente la mercanzia dagli espositori. 

I gesti misurati e lenti della donna lasciavano immaginare tutto il piacere che stava provando nell’atto di scegliere, e anche il suo sorriso era eloquente: era come se stesse visitando il Paese delle Meraviglie. La scena era magnetica e lo assorbì completamente per qualche istante, finché una voce familiare, dietro di lui, lo chiamò.

Wakatoshi-kun

Si voltò verso Satori, che gli si era avvicinato senza che lui se ne accorgesse. Alto e sottile, con la sua divisa nera da chef, i capelli rossi sparati ovunque, il colorito chiaro, diafano. 

Cosa doveva dirgli? Buongiorno? Salve? Che cosa ci faccio qui? E invece provò a dirgli solo “Alloggio all’Hotel…” senza riuscirci perché l’altro afferrò il suo bagaglio ed esclamò “Sei mio ospite ovviamente! Vieni con me!”

E aperta una porta laterale gli mostrò una rampa di scale di ferro battuto. “Casa e bottega!”

“Ma…”
“Ovviamente ti cedo il letto, io dormirò sul divano. Dammi la borsa.”

“No, non voglio disturbare…”
“Ma che dici? E poi, una colazione come la mia non la fai neanche in un 5 stelle.” Poi però fece un’espressione buffa. “Cioè, rettifico… forse in un 5 stelle superiore sì…”

“O forse no…” Rispose Wakatoshi con un sorriso che gli si disegnava sulle labbra. Tutto a un tratto sentiva cadere la tensione di fronte a quella spontaneità. Ancora non si erano detti nulla di serio e già sembravano a proprio agio l’uno con l’altro.

“Hai mangiato? Se vuoi c’è un posto qui dietro dove si mangia bene.”
“Ma tu non devi lavorare?...”

“No. Oggi sei qui e quindi chiudo prima. Domani poi ti porto in giro per la Ville Lumière, ho chi mi sostituisce. Aspetta un attimo… Je vous prie de m’excuser, Madame, il y a un imprévu e l’on doit fermer en avance. Je regrette terriblement… Merci pour votre compréhension!”

La signora accettò una tavoletta speciale come omaggio e se ne andò contenta.

In men che non si dica furono per strada. E poi Satori gli prese la mano.

“Vieni, di qua…” gli disse attraversando la strada.
Wakatoshi trasalì a quel contatto ma non si ritrasse. Satori lo guardò sorridendo sornione.

“Siamo nel Marais, ti assicuro che tenersi per mano fra uomini è l’ultima delle novità!”

E allora, pur senza guardarla, Wakatoshi avvertì nella sua mano quella di lui, più piccola nonostante le lunghe dita affusolate, e dopo un istante di incertezza a quelle dita intrecciò le sue.

Non aveva mai fatto nulla del genere in vita sua, neanche con Tooru, e guardandosi dall’esterno, in una strada affollata di persone normali che badavano ai fatti propri, vide la sua normalità. Stringeva le dita di uno strano tizio a cui aveva pensato ininterrottamente da quando aveva messo giù il telefono la notte prima, e ora capiva che era quel contatto che desiderava più di tutto, quella mano bianca nella sua.

Le ore successive passarono veloci e piacevoli, con Satori che gli mostrava il quartiere, salutava le persone che incrociava, gli sorrideva.

Più tardi, nel piccolo appartamento sopra il negozio, preparò una cioccolata calda e mise su un disco di musica classica. 

Erano seduti sul divano, alle due estremità. Davanti a loro, il tavolino con le tazzine.

“Conosci quest’opera? Sono le Variazioni Goldberg di Bach. Si tratta di un’unica aria interpretata con ben 30 variazioni. Ai più è nota per essere quella che ascolta Hannibal Lecter ne Il Silenzio Degli Innocenti prima di uscire dalla gabbia!...” 

“Ammetto la mia ignoranza…” rispose Wakatoshi. E poi non potè fare a meno di ripensare alle parole di Tooru, Hajime crede che tu sia un serial killer, io invece credo che tu sia profondamente inconsapevole di ciò che sei davvero.

Aveva ragione Iwaizumi. Un serial killer che esce dalla gabbia, ecco che cos’era. Stava per fare ad alta voce una battutaccia verso se stesso quando Satori parlò.

“Quest’opera per me… sei tu.”

“Io?...” 

“Sì. Ti ricordi quando parlavo del tuo carattere… Ecco, questa è la nota di fondo che cambia senza stravolgersi. Si lascia riconoscere.”


Wakatoshi posò la tazzina.

“Che cosa ne sai del mio carattere?” La domanda era formulata in maniera brusca ma il suo tono non lo era e la cosa lo stupì per primo. 

Anche Satori posò la tazzina. 

“Oh, non pretendo certo di raccontarti chi sei… ma posso dirti chi sei tu per me. È iniziata tempo fa: avevo contattato il tuo marketing per una proposta commerciale. Devi sapere che per un certo periodo di tempo il mio cioccolato è stato servito nella prima classe del TGV, e mi era venuto in mente che anche in un aereo avrebbe fatto la sua bella figura. Nonostante la mia interlocuzione ufficiale, non ho mai avuto riscontro dalla Jima Airways…”


Wakatoshi pensò istintivamente di licenziare il direttore marketing e comunicazione per non avergli detto nulla. Tooru avrebbe sicuramente fatto meglio di lui, se ne avesse avuto la possibilità. 

“… Tuttavia, sapevo chi eri tu e che cosa facevi. Che eri potente, sicuro di te, abituato a dominare. Mi avevi preso, ero curioso. Ho… approfondito, ecco.” Quest’ultima frase gli trasmise tutto il suo imbarazzo per quella confessione e per la prima volta da quando lo conosceva, il pallore del suo viso si imporporò lievemente.

Satori continuò.

“Poi, poco tempo fa, di rientro da Parigi, mi sono fermato una notte in un certo resort di lusso all'aeroporto di Haneda e ti ho rivisto.”


Wakatoshi sgranò gli occhi. Possibile che…

“Non eri solo, eri con un giovane che pendeva letteralmente dalle tue labbra. Io sapevo che eri fidanzato ufficialmente con Reiko Onagawa e la cosa mi stupì. No, anzi… mi mise addosso un’ansia indescrivibile!... Che cosa ci facevi lì con un uomo ?? Ti osservai e mi accorsi che anche tu eri molto preso da quel ragazzo. Gli sorridevi, eri luminoso, quasi. Siete saliti in camera insieme e non siete più scesi. Era ora di cena.”

Wakatoshi sentì un'ondata di calore che lo investiva e che faticava a gestire. Prese un altro sorso di cioccolato.

Satori smise di guardarlo e fissò invece il soffitto.

“Quella notte io… non ho dormito. E non perché avessi fantasie su voi due o su noi due. Eri solo tu a tenermi sveglio. Eri tu l’unica fantasia.”
Si alzò, nervoso e teso come la sua voce.

“Io pensavo… chissà com’è bello il suo viso dopo che… dopo che…”

“Dopo che…?” 

Ma Satori, sempre più imbarazzato, non finì la frase e continuò. “Poi, il mattino seguente, sono sceso a fare colazione, all’alba. Volevo… vederti, avrei aspettato tutta la mattinata, se fosse stato necessario. Volevo vederti felice con lui e mettermi così l’anima in pace. E ti ho rivisto, sì, ma doveva essere accaduto qualcosa tra di voi: tu eri scuro in volto, rigido, avevi un’espressione terribile. E poi, più tardi, quando te ne eri già andato, è sceso anche quel giovane… ed era disperato. Ha preso un caffè e prima di berlo lo ha mescolato a lungo, con gli occhi bassi. Credo che abbia pianto, e anche a lungo.”

Wakatoshi avvertì una morsa che tornava a chiudersi sul suo stomaco. Il dolore di Tooru gli sembrava ora ancora più reale, dopo che era stato osservato da altri occhi.

Fu colto da una stilettata di vergogna anche per come aveva trattato Iwaizumi. Per quanto era caduto in basso anche con Reiko. Per come gestiva la sua sete di dominio. Per il suo imprinting fatto di proverbi e follia. 

“E poi… poco tempo dopo ti ho rivisto, in aeroporto. Ti ho osservato a lungo: sempre pensieroso, come se stessi parlando con te stesso. Ti ho visto rassegnato, triste, spaesato e allo stesso tempo sicuro, pragmatico. Eri pur sempre Wakatoshi Ushijima, padrone di una discreta fetta di cielo. E io ero uno che sa lavorare bene il cioccolato.”

“Ricordo…”
“Quella sera… la sera in cui ti sei fermato davanti al mio negozio ancora chiuso, è stato bellissimo poterti parlare. E poi…”
“E poi hai preparato quel cioccolato, per me?”
“Sì. Sono partito dalla nota di fondo. La più bella, per me.”
“Chi ti da la sicurezza che quella nota esista davvero?”
“Il fatto che tu sia qui. Ci siamo frequentati per un tempo infimo ma mi è bastato per darmi il coraggio di scriverti quel biglietto. Secondo me era davvero cambiato qualcosa.”

Wakatoshi deglutì, affascinato e spaventato dall’idea di essere un libro aperto. 

“Perché la… cannella?”

Satori rise lievemente. “Ah, quelli sono i miei vezzi artistoidi: il mito dice che la fenice bruci su un nido costruito con spezie e cannella per poi rinascere. Tornare ad essere ciò che era ma cambiando. Rivivere con nuove possibilità. Io… sapevo che avevi rotto il tuo fidanzamento. Volevo fare parte di quel cambiamento.”

Satori tornò allora a sedersi, proprio accanto a lui, non all’estremità del divano. 

“Ti volevo dire tutto questo… ma poi sono dovuto partire di corsa per Parigi…”

Wakatoshi osservava quegli occhi spalancati, intensi e sentiva come ammaliato. Aveva iniziato ad accusare la stanchezza del viaggio e ora, a causa di quella voce fatta di note tranquille che lo accarezzavano, lo cullavano, che si muoveva nell’aria insieme alla musica di Bach, chiudeva lentamente i suoi.

Sprofondava nell’incoscienza e si rivedeva nel negozio in aeroporto mentre tentava di pagare a Satori la tavoletta di cioccolato, quello che invece era un dono pensato solo per lui. Si rivedeva arrabbiato per il loro appuntamento mancato, pieno di nervosismo al pensiero che potesse essersi riunito al suo ex e pieno di rabbia per la propria incapacità ormai manifesta di anestetizzare, spegnere, disinnescare i sentimenti che provava. Si vedeva prendere un aereo per Parigi e bussare al suo negozio. Le dita intrecciate. La cioccolata e la cannella.

Si addormentò quasi di colpo, sull’orlo di un nuovo desiderio.

Più tardi, quando aprì gli occhi, lo vide addormentato accanto a lui. Il disco girava ancora sul piatto, il cuore gli batteva ancora forte nel petto.

Allungò una mano e gli sfiorò il viso.

Satori aprì gli occhi.

“Oh…”

“Satori. Che cosa stavi dicendo prima, di quella notte ad Haneda… parlavi del mio viso?”
“Sì…”
“Voglio saperlo…perché pensavi al mio viso?” e si avvicinò di più al suo.

Satori sgranò gli occhi.

“Io… mi chiedevo… chissà com’è bello il suo viso dopo… dopo aver fatto l’amore…”

Confessò in un soffio ciò che il ragazzo davanti a lui si aspettava di sentire.

Wakatoshi lo attirò a sé e lo baciò. 

Ossa di vetro, da trattare con cura, pelle diafana e un profumo inebriante di cioccolato che non andava via. Le sue dita affusolate tra i capelli, gli occhi spiritati, stupiti, forse più dei suoi.

Wakatoshi-kun” Mormorò Satori.

“Sì?…”

“Sei bello anche prima di fare l’amore…”

 

****

 

Nella stanza da bohémien di Satori, Wakatoshi passò la notte a chiedersi di che cosa avesse ancora bisogno. Di un altro bacio, di un’altra carezza? Del suo nome pronunciato ancora, e ancora?

Forse aveva solo bisogno di chiudere gli occhi e dormire, e di svegliarsi accanto a qualcuno, senza dover fuggire, senza temere più nulla. 

Di essere finalmente normale.

 

****

Al No Name, Keishin Ukai, una sigaretta fra le labbra, cucinava udon e altre leccornie per i suoi ospiti speciali. 

Tetsurō teneva Kiyoko sulle ginocchia e le mordicchiava l’orecchio. 

Kōtaro avrebbe fatto volentieri la stessa cosa a Hitoka, si capiva lontano un miglio, ma Hitoka era il tipo che si imbarazzava molto in pubblico e allora si allontanava con un sorriso timido e il viso in fiamme tutte le volte che lui le si avvicinava troppo.

Tobio e Shoyo litigavano come al solito per le solite cazzate e sotto il tavolo si tenevano per mano.

Tooru e Hajime, al bancone, chiacchieravano fitto. E ridevano. E chiacchieravano. Scambiavano idee, pensieri, opinioni, felici di poter tornare a casa insieme. 

Un sabato normale a Shinjuku.


****

 

Qualche giorno dopo, Tooru osservava Hajime che con dita leggere e sicure ripuliva dal grasso alcuni pezzi della sua moto. Era un piacere osservarlo: la cura e l’attenzione, la concentrazione che gli faceva socchiudere gli occhi, le labbra contratte in un sorriso appena accennato.

Lo osservò a lungo, incerto su come dirgli ciò che doveva dirgli. E lui, che non aveva perso il suo sesto senso, si accorse di qualcosa.

“Tooru, parla…”

“Ma no, finisci con calma, io ti guardo. Lo sai quanto mi piace…”

Hajime posò per terra lo straccio unto e si alzò. Lo guardò con attenzione e piegò il collo di lato.

“Ho finito.” Tagliò corto. Sollevò due occhi inquieti e nervosi, e non glieli vedeva da tempo.

Non serviva a nulla procrastinare.

“Wakatoshi mi ha offerto un lavoro. Ha licenziato il suo Direttore Marketing e Comunicazione.”

Hajime riprese in mano lo straccio, tentando inutilmente di ripulirsi le dita.

Tooru continuò.

“È un’offerta vantaggiosa… il ruolo è di importanza strategica…”

Anche Hajime continuò, imperterrito, a strofinarsi le dita. Sembrava Lady Macbeth.

“… potrei anche terminare l’università - Wakatoshi mi permetterebbe…”

“Wakatoshi, certo…” Hajime lanciò lo straccio.

“Hajime… che ti sei messo in testa?”

Tooru si trovò a stringere le sue mani sporche.

“Ascoltami…Se è per quello che è successo… beh, è successo. Se è per quello che potrebbe succedere… allora sappi che non succederà.”

Hajime sbottò.

“E come fai a esserne certo? Come puoi pensare che quello non abbia secondi fini?”

“Perché lo so. Fidati di me… “ 

Ma lo sguardo di Hajime era ostinato. Tooru sospirò.

“Lo so perché ho conosciuto il tipo con cui si vede. In giro, intendo, e non in posti nascosti.”

Hajime non represse un moto di sorpresa.

“Wakatoshi che esce allo scoperto?”

“Sì. Lui si chiama Satori Tendō e di mestiere lavora il cioccolato. Ecco… non so esattamente i termini del loro rapporto, ma Wakatoshi è cambiato. La vive come una cosa naturale, o almeno mi ha dato questa impressione. Magari è la volta buona che si innamora. Ma parliamo di cose più importanti: questa domenica io e te ce ne andiamo a Saitama.”
“A fare cosa??”

“Mi sono permesso di fare una telefonata a tuo fratello Haruki.”
Hajime si incupì ancora di più di quanto già non fosse. Diede un calcio allo straccio e si piegò di nuovo sotto la moto, dandogli le spalle.

“Non vuoi proprio sapere che cosa ci siamo detti?”

“Perché, parlate forse la stessa lingua? Non gli hanno fatto il lavaggio del cervello?” Sibilò lui.

“No, nessun lavaggio del cervello. Incredibile, vero? Da quanto tempo non lo senti?”

“Abbastanza da farmene una ragione!”
“No, abbastanza da averne paura!” 

“Tooru, vacci piano perché non ne sai nulla!!”

 “No, ne so eccome! A volte sembri altrove, a volte ridi ma i tuoi occhi sono tristi e spenti. Quando andiamo dai miei genitori sei sempre teso, ti senti sempre fuori posto, è come se te ne volessi andare e schivi ogni domanda che abbia a che fare con chi sei e da dove vieni. Lo trovi giusto?”

Hajime si fermò. 

“C’è qualcosa di irrisolto con la tua famiglia e resterà così finché non busserai alla porta di casa tua e dirai a chi ti aprirà che sei felice e che vorresti che anche loro lo fossero per te. Felice, non vagamente contento. E con me si può essere solo felici.” 

Hajime continuava a dargli le spalle. Sembrava concentrato su qualcosa che aveva fra le mani ma un movimento leggero gli fece capire che stava sfogandosi in un pianto silenzioso.

Si avvicinò e lo abbracciò forte.

“Io sono fatto così…” gli sussurrò all’orecchio “Sono innamorato di te e voglio che tu stia bene. Ora capisci che Wakatoshi non può essere più un problema?”

Hajime annuì.

“Comunque, rispetto a quel lavoro non prenderei mai una decisione unilaterale. Per me è una buona occasione, ben pagata e avrei tempo a disposizione per studiare. In agenzia, Tobio prenderebbe il mio posto. Strano a dirsi, parla poco, rompe tanto ma è bravo. Shoyo e Hitoka faranno anche meglio di come già sono capaci. Devo però decidere in fretta perché stanno arrivando diverse commesse e se inizio a lavorare su qualcosa non posso poi lasciarla aperta.”

“Allora… vai. Accetta l’offerta…basta che non me lo porti a casa a cena.”

Istintivamente, si asciugò le guance con le dita sporche di olio motore.

“Ecco. Adesso sei ancora più affascinante. Andiamo a farci una doccia….?”

 

****

 

“Senti questa:  «La Jima Airways ha deciso di sperimentare le nuove frontiere del gusto… coccole raffinate con il cioccolato di Satori Tendō…» E quest’altra? «Business class al cioccolato: prelibatezze per addolcire il costo del biglietto?…»… Ma si può sapere quanto costano i tuoi i biglietti?”

Satori leggeva la rassegna stampa che Wakatoshi aveva fatto appositamente preparare per lui, dietro indicazioni di Tooru.

Il negozio del terminal era aperto per un evento privato, destinato alle mogli di manager e dirigenti, poche e importanti invitate. Altra chicca che si era inventata il suo nuovo Direttore Marketing e Comunicazione.  

Satori si godeva lo spettacolo offerto dalle raffinate signore di Tokyo che cercavano una impossibile sintesi fra cioccolato e aspartame - mentre le sue dames francesi andavano sempre dritte al punto, al cuore della questione: il cioccolato era godimento puro e semplice, e vederla diversamente era solo fraintenderne la natura.

“Mmm, ma se per volare mi rivolgessi alla concorrenza? Dopotutto vado a Parigi almeno una volta al mese…” rilanciò sorridendo.

“Viaggeresti comodo ma senza poter ammirare le espressioni estasiate dei passeggeri alle prese con il tuo cioccolato.” Rispose Wakatoshi divertito.

“Anche questo è vero, però come espressioni nessuna batte la tua, mi basta quella.”

Touché

Satori sorrise radioso.

“Come va con il francese?”
Pas trop mal

“Mi accontento. Sei molto sexy quando lo parli!...” 

La serata fu un grande successo e il negozio, alla fine, fu letteralmente svaligiato. 

Più tardi, in macchina verso Tokyo, Satori era particolarmente silenzioso. Wakatoshi lo guardava con la coda dell’occhio.

 “Stanco?”

“Senti… ho una domanda… che mi frulla da un po. Ma avevo paura a fartela.”

La voce di Sarori era ora leggermente tirata. Wakatoshi ormai riusciva a percepire certe minime frequenze che ne alteravano il suono. 

“Ti ascolto.”

“Perché è finita tra te e Tooru Oikawa?..”

La domanda era semplice e diretta e doveva esserlo anche la risposta.

“...È finita perché è nata da presupposti sbagliati. Ho fatto e detto cose di cui non vado fiero, e non solo con lui. Io… ero come mi hai visto quella mattina, in albergo. Un uomo… anzi, un animale con pochi scrupoli, e quei pochi che aveva… infantili.”

Satori annuì serio, sempre con quel velo mesto.

“A guardarvi… dovevate essere veramente una bella coppia… voglio dire… lui è davvero un bel ragazzo…”

“Sì… ma poi ho incontrato quello delle Varianti Goldenberg.”

Variazioni Goldberg!”

“Che disegna le persone con il cioccolato…”

“Ahahahah, davvero!”

“E di cui mi sono innamorato.”

Satori chiuse gli occhi e sorrise.

Non glielo aveva mai detto fino a quel momento, e non lo stava dicendo solo a lui ma al mondo intero, anche se erano chiusi nello spazio dell’abitacolo. 

Ed era facile come respirare, come guidare, come pensare a cosa avrebbero fatto l’indomani insieme.

Né più né meno che vivere.

 

(Fine)



Arrivata fin qui, ringrazio chi si è fermato a leggere e chi ha voluto commentare o commenterà :-)... 
Dei personaggi, ho amato in particolare Wakatoshi, che ha preso la sua strada ed ha cambiato prospettive.... ha fatto tutto da solo :-D
E
Tetsurō, of course, sogno erotico da qui all'eternità.
LL

 

Aggiornamento: e invece, non è finita...!
 

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Capitolo 16
*** Epilogo - Addio alle Armi ***


Ciao! Avevo terminato la storia ma alcuni lettori mi avevano chiesto di non "lasciare indietro" Hajime... e quindi è nato questo epilogo :-)



Addio alle armi

«Non riuscirai mai a capire una persona se non cerchi di vedere le cose anche dal suo punto di vista. Devi cercare di metterti nei suoi panni …»
(Harper Lee - Il buio oltre la siepe)
 
«Now I'm not looking for absolution
Forgiveness for the things I do
But before you come to any conclusions
Try walking in my shoes
Try walking in my shoes»
(Depeche Mode - Walking in my shoes)
 

Una mattinata rovente.

Fuori il sole squagliava l’asfalto e dentro, in officina, i condizionatori e gli aeratori andavano alla massima potenza. Hajime avrebbe di gran lunga preferito lavorare all’aperto ma le condizioni esterne erano davvero proibitive, e se fosse uscito sul piazzale la tuta e i guanti da lavoro si sarebbero trasformati velocemente in una tortura insopportabile.

Pensava e ripensava al mare ma per come si sentiva gli sarebbe andata bene anche la piscina. O una doccia fredda nel bagno di servizio… ma poi si sarebbe dovuto rivestire di nuovo.

Era da solo. ll suo socio, nonché ex capo, era impegnato in un giro di prova su una Jaguar che faceva i capricci Lui aveva poco da fare, a parte l’inventario dei pezzi di ricambio e gli ordini della settimana. 

Iniziò a pensare alle vacanze. Tooru voleva fare una specie di interrail in Australia, a lui invece non sarebbe dispiaciuto restarsene in Giappone e fare un giro in moto in Hokkaido. Il dibattito era ancora aperto, anche se la fazione australiana, con Tetsurō e Kōtaro a metterci il carico, sembrava al momento avere la meglio.

Si appoggiò alla parete di cemento. Era fresca, almeno quella. Poi un rumore che si avvicinava lentamente lo strappò alle sue elucubrazioni.

Un rumore basso. Un ringhio.

Qualcosa di freddo e, nonostante l’afa, spiacevole, gli scivolò lungo la spina dorsale. Quel ringhio gli era familiare.

Si staccò dalla parete e si avvicinò con circospezione alle saracinesche aperte sul piazzale, che sembrava ricoperto di neve per quanto brillava al sole. Il biancore era ancora più abbacinante per via del contrasto con la macchia di metallo nero che si era appena parcheggiata sul cemento.

Non si era sbagliato. Il tridente sul radiatore la identificava come una Maserati.

Il ringhio del motore, come la Maserati di Wakatoshi Ushjima.

La sua magnifica Ghibli, che scivolava sulla strada come sull’olio.

Il suo proprietario scese, vestito di tutto punto come al solito. Occhiali scuri.

Tooru, tu non c’entri, vero? Perché se c’entri qualcosa giuro che ti ammazzo.

Sentiva ancora freddo, nonostante il sudore che gli scivolava lungo la schiena. 

Wakatoshi intanto si era tolto gli occhiali e li aveva infilati nel taschino della giacca. Lo sguardo era il suo solito sguardo indagatore. Lo sguardo verde che non faceva sentire trasparenti.

“Buongiorno.”

Ma Hajime non ricambiò la cortesia. “Che cosa vuoi?”
“Ho bisogno di un meccanico.”
“A Tokyo hai l’imbarazzo della scelta. O forse devi fare la fila anche tu…? Come i comuni mortali.”
“Mi serve un meccanico… bravo.”

“Se vuoi ti do un paio di numeri di telefono ma non è detto che ti rispondano al volo… e comunque noi non lavoriamo su raccomandazione.”
“Non cerco raccomandazioni ma solo un meccanico che conosca bene la mia macchina.”

Un rilancio continuo, senza esitazioni. Neanche Hajime avrebbe esitato. Quella era casa sua, non era il garage di casa Ushijima. 

“Nella tua macchina io non ci salgo neanche se mi paghi il triplo. E poi ti do una notizia: questo posto è mio al 50%, per cui i miei clienti me li scelgo io. Il mio socio è fuori con una Jaguar. Puoi restare sul piazzale, se vuoi, e aspettare il suo ritorno… ma a motore spento. Riflettici bene perché fa caldo.”

Gli voltò le spalle, imbestialito con se stesso perché stava scappando. Non poteva fare altrimenti perché la vergogna e l’imbarazzo gli premevano addosso come l’afa di mezzogiorno.

Si sentiva di nuovo alla mercé di quell’individuo e del suo narcisismo patologico, di uno che collezionava trofei a buon mercato. Si sentiva di nuovo spogliato e usato come un uomo di strada. 

Era riuscito a evitarlo per mesi, come una brutta canzone alla radio, ed ecco che lo veniva a cercare. La rabbia sì, era sbollita, ma senza di quella non avrebbe avuto lo spirito per affrontare il resto. E il “resto” non sembrava avere alcuna intenzione di andarsene perché alle spalle ora sentiva i suoi passi che si avvicinavano.

Si rassegnò. Non poteva certo buttarlo fuori, era pur sempre un cliente. E che cliente…! Il suo socio se la sarebbe coccolata, quella Maserati, altroché.

E lui l’avrebbe gestita sul professionale, era l’unica soluzione.

“Vedo che sei irremovibile. Allora, intanto ti do qualche informazione …”

Ma Wakatoshi scuoteva la testa. “Ho riflettuto a lungo prima di venire qui. Per un po’ ho anche pensato che non avrei dovuto… perché avrei parlato per conto di una persona che in realtà non esiste più.”

Ah, no. Hajime alzò le mani. “Guarda, non me frega nulla. Facciamo anche che te ne torni nella tua macchina perché io ho da lavorare.”

Wakatoshi, allora, fece un gesto che probabilmente non aveva mai fatto in vita sua.

Abbassò lo sguardo.

“Hajime. Mi dispiace.”

Hajime si accorse di aver messo su un’espressione stupida, era troppa la sorpresa al suo nome pronunciato così, senza preavviso, con un tono di voce sconosciuto. Era uno sconosciuto, quello?

Ma fu solo un istante e rispose a tono. 

“Ascolta. Eravamo consenzienti, giusto? Tu sapevi che avresti ottenuto da me ciò che volevi, e io sapevo che avevo a che fare con un malato di mente, sadico e infantile, uno che poteva comandarsela come e quando voleva. Come vedi le scuse non sono necessarie. Basta che giri i tacchi e te ne vai da dove sei venuto.”

Ma l’altro non arretrava di un passo.
“Quella sera, sotto casa di Tooru… ti ho fatto credere che avevo avuto la meglio su di te. Che ti avevo battuto. Non era così, Tooru mi aveva appena dato il benservito.”

E in quel momento, Hajime capì che se gli avesse risposto lo avrebbe anche legittimato a continuare quella conversazione assurda. Ma non riusciva a tenersela dentro e per la prima volta nella sua vita capì anche lui aveva qualcosa di animale che si era solo assopito in un angolo del recinto, bastonato e incattivito.

“Però te lo sei portato comunque a letto, alla fine!... “ esclamò rabbioso. “Lui ci credeva ancora, nonostante tutto!... E io…”

E lui era stato settimane alla larga da Tooru quando avrebbe semplicemente voluto dirgli che lo amava. A farsi mille e un problema, tutto per causa sua. 

La rabbia non era sbollita, ritornava anzi. Lo avrebbe volentieri appiccicato al muro. E poi gli avrebbe anche rigato la macchina.

“Mi dispiace anche di questo.” Il serial killer sollevò lentamente lo sguardo.

Era tutto assurdo: Wakatoshi che veniva a chiedergli scusa e lui che si accorgeva che era ancora incazzato nero e che quelle scuse abbastanza goffe soffiavano sul fuoco.

Respirò a fondo, per riprendere il controllo.

“Wakatoshi” - Ma sì, poteva chiamarlo anche lui per nome, a quel punto - “Davvero… tutto questo non ha senso. È Tooru che lavora per te, è lui che ha a che fare con te. Io non c’entro. Non c’è bisogno di… discutere…”


Ma quelle scuse inaspettate in realtà lo avevano colpito. Una persona che non esiste più, così Wakatoshi aveva definito il suo alter ego animale e notturno: a proposito ma tutto quel sole non gli dava fastidio??

“Se non fosse stato per te, ora Tooru non lavorerebbe per me. Ci hai mai pensato?”
“Non capisco che cosa intendi. Tooru fa le sue scelte, io non le condiziono affatto.”
“Se gli avessi chiesto di non accettare, lui non avrebbe accettato.”

“Non glielo avrei mai impedito.”

“Non era scontato. Per cui, ti ringrazio.”

Wakatoshi Ushijima che si scusava e ringraziava. 

Una persona che non esiste più. Persone che non esistono più.

Suo malgrado, per una qualche insana e spontanea associazione mentale, Hajime ripensò allora alla sua famiglia. 

Ripensò a momenti confusi e intensi durante i quali aveva ritrovato suo padre, sua madre, i suoi fratelli, che conosceva da sempre, che sembravano uguali in tutto e per tutto a come li aveva lasciati ma che invece erano profondamente cambiati. 

Ripensò anche a se stesso, a come era profondamente cambiato anche lui. Si era finalmente liberato dai suoi assurdi sensi di colpa per aver scombinato i piani della sua famiglia e dato il cattivo esempio, ed era stato solamente perché grazie a Tooru il suo cuore si era alleggerito ed era riuscito ad ascoltare e perdonare. Soprattutto, aveva messo gli altri in condizioni di chiedere perdono.

Mentre rimuginava sulla sua vita realizzò che stava fissando il pavimento e stava completamente ignorando Wakatoshi, il quale ora era visibilmente a disagio… e Wakatoshi a disagio era un’esclusiva assoluta.

“Beh… se proprio ci tieni… accetto le tue scuse.” Disse poi gettando finalmente la spugna. Il pugile arrabbiato tornò al suo angolo, l’incontro era finito e forse avevano vinto entrambi. 

Wakatoshi si produsse in una specie di sorriso.

“Ti ringrazio. Ora ti saluto… e scusami per il disturbo.” fece per andarsene ma a quel punto Hajime aveva qualcosa di pratico da chiedergli.

“Il meccanico ti serviva veramente?” Glielo chiese con una specie di sorriso anche lui, germogliato spontaneamente dopo quell’ammissione di responsabilità.

“Sì.”

“Qual è il problema?”

Wakatoshi provò a spiegarglielo per grandi linee (non era un granché come meccanico, nonostante tutti i suoi aerei) e Hajime ipotizzò un problema al servomotore.

“Se la vuoi lasciare… ma non abbiamo auto di cortesia disponibili in questo momento.”

“Non è necessaria. Grazie.”

Gli lasciò le chiavi e gli voltò le spalle senza altri convenevoli, e se ne andò nella calura.

Hajime la portò dentro.

La Ghibli che aveva inseguito con la sua moto, geloso alla follia, come uno stalker.

Lo specchietto retrovisore rifletteva ora un angolo neutro, un sedile vuoto, palcoscenico di uno spettacolo ormai terminato e che non avrebbe avuto mai più repliche.

Una cosa lo colpì, prima di scendere: un minuscolo pezzo di vetro infilato nel vano laterale del lato guida. 

Lo tirò fuori e lo osservò: era un frammento di parabrezza. Forse un difetto di fabbricazione ne aveva provocato la rottura ed era stato quindi sostituito.

Del resto un attimo di cedimento poteva capitare anche alle auto migliori.

 

****

 

Per Wakatoshi, parlare con Hajime  non era stata una passeggiata. Forse era stato addirittura più complicato che imparare a mostrarsi pubblicamente con Satori accanto, in atteggiamenti sicuramente sobri ma inequivocabili. Prenderlo per mano, ad esempio, che era una cosa che amava fare e che lo riportava con la mente al loro primo giorno insieme a Parigi.

Complicato anche perché, a differenza di Tooru, Hajime per lui era stato solo un diversivo, il soddisfacimento di un mero istinto. La sua parte peggiore era emersa con la persona in assoluto meno adatta.

In azienda, non gli erano sfuggite certe telefonate di Tooru al suo compagno piene di sollecitudine, il suo tono tranquillo e allo stesso tempo attento. Aveva capito che per dargli il suo appoggio incondizionato, Hajime aveva dovuto ingoiare il rospo e forzarsi a sopportare l’idea di avere ancora a che fare con lui, anche se indirettamente. 

E a distanza di un anno, che nella sua mente pesava più di un secolo, Wakatoshi era ormai capace di valutare appieno le sue azioni e le relative conseguenze. 

Aveva capito che la remissività e la debolezza che Hajime aveva mostrato con lui non erano difetti congeniti da stigmatizzare e disprezzare ma sintomi di un malessere che anche lui aveva contribuito ad alimentare. 

Con il suo malessere. 

Aveva tentato di rimediare e forse c’era riuscito. 

Non c’era riuscito con Reiko, che pure aveva incontrato in un’occasione ufficiale e che si era rifiutata anche di parlargli. Era al braccio di un rampollo dell’industria informatica che conosceva bene, magari a modo suo era felice.

Non c’erano ricette o proverbi per diventare migliori ma solo capacità di mettersi in discussione. 

Con buona pace del nonno.

 

****

Tetsurō, allungato indolentemente sullo schienale della sedia, piegò la testa all’indietro e sfoggiò i suoi occhi taglienti.

“Mi stai dicendo che Wakatoshi ha fatto pace con Hajime? E tu c’entri ovviamente qualcosa?”

“No. Ha stupito anche me. E, soprattutto, Hajime sembra stare meglio. E non è una questione di orgoglio, è come se si fosse tolto l’ultimo cerotto. Sì sente di nuovo integro.”

“Beh, molto hai fatto anche tu. L’amore è anche questo, prendersi cura degli altri. Hajime non ha più quello sguardo diffidente e nervoso perché tu glielo hai proprio cancellato dalla faccia. È felice.”

Tooru sorrise.

“E per te, che cos’è l’amore?” Chiese all’amico con uno sguardo sornione.

Per tutta risposta, Tetsurō tirò fuori una fragola dal suo parfait, la guardò con attenzione e poi le diede un morso.

“Per me è mangiare proprio questa fragola e non volerne un’altra.”

La sua bocca completò l’assalto e il frutto scomparve fra le sue labbra. Socchiuse gli occhi, il gatto nero, producendo con la lingua un suono prolungato e oscenamente erotico. 

“Tu mi farai morire…” mormorò Tooru prima di allungargli anche la fragola sul suo dessert. 

“Questa però è un’altra fragola...”

“Ti prego…! Ah, ma perché sei così…”

“… Dannatamente etero? Sono anni che me lo chiedi!”

“Te lo chiederò per tutta la vita. Chissà…”

“Mai dire mai…”

(Fine)

 

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